The evil shipper league

di casty
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Sei ore prima.
 
«Ba-cio! Ba-cio! Ba-cio!»
John ruotò lentamente la testa verso Sherlock, allibito. Incontrò il suo sguardo impassibile.
«Ba-cio! Ba-cio!»
John deglutì. Osservò ammutolito il pubblico che li circondava, composto da una ventina di ragazze in abiti medievali, tutte armate di macchina fotografica o cellulare, pronte a scattare una foto. Senza pensarci, avvicinò una mano al collo per allargarsi il colletto in un gesto di disagio, ma quando il guanto cozzò contro la piastra pettorale si ricordò di essere vestito da cavaliere medievale.
«Ba-cio! Ba-cio! Ba-cio!»
«Mi sapresti spiegare... cosa sta succedendo?» chiese infine John.
«Ba-cio! Ba-cio!» era come il ritmo di una marcia infernale.
«Solo un bacetto!» «Pochi secondi!» fecero da contrappunto alcune voci acute nella mischia.
«Ba-cio! Ba-cio! Ba-cio!»
«Stooop!» gridò John.
Un silenzio improvviso calò sulla piccola folla, rotto soltanto da qualche sottile risatina.
Le ragazze li stavano fissando con sguardi carichi di desiderio.
Sherlock sospirò. «Non hai googlato, vero?»
«Cosa avrei dovuto googlare?»
«Merlin BBC. Tumblr. Ao3.»
«Puoi tradurre in inglese?»
Sherlock sollevò gli occhi al cielo. «Non ti sei informato sui nostri personaggi?»
«Perché avrei dovuto? Le leggende arturiane le conoscevo anche prima di fare questo cosplay, non sono ignorante come te!»

Il maledetto cosplay.
L’idea era stata di Sherlock, ovviamente. Quando c’erano travestimenti di mezzo quella primadonna esibizionista di Sherlock non si tirava mai indietro. John si era inizialmente opposto, pensando che fosse un piano ridicolo, ma Sherlock aveva insistito: l’unico modo che avevano per infiltrarsi nel cosplay contest del Comicon di Londra era diventare cosplayer in prima persona. Alla fine John aveva dovuto a malincuore concordare che era la soluzione più semplice.
Da ignorante in materia, John aveva inizialmente temuto che gli unici travestimenti ammessi a una fiera del fumetto fossero personaggi dei fumetti. Gli unici fumetti che John (molto vagamente) conosceva erano quelli supereroistici. E per alcuni, terribili momenti si era immaginato il momento in cui avrebbe dovuto spiegare a parenti e conoscenti per quale motivo la sua foto in tutina attillata e mantello svolazzante campeggiava sui principali quotidiani londinesi.
Per fortuna non era andata così, scoprì che poteva impersonare qualsiasi personaggio di fantasia. Il Comicon sarebbe stato una sorta di Halloween fuori tempo, niente di particolarmente tragico o imbarazzante. E così, dopo lunghe discussioni e ricerche su Wikipedia e IMDB dopo aver scartato i Vendicatori (tutine attillate, no grazie), Doctor Who (nessuno dei due voleva fare la compagna del dottore), Pirati dei Caraibi (John non aveva apprezzato l’eccessivo entusiasmo di Sherlock in tema pirati) e un’altra decina di titoli, avevano scelto Merlin, una serie della BBC che John non aveva mai seguito ma che sembrava essere molto popolare.
E fu così che John si ritrovò costretto a trascinarsi in giro per i chilometri e chilometri di stand della fiera inscatolato in uno scomodissimo scafandro di plastica modellata, travestito nientemeno che da Re Artù. Mentre Sherlock passeggiava leggiadro nel suo comodo completino di tela, il costume di Merlino. Una versione di Merlino che John faticava un po’ a riconoscere come mago Merlino: abituato com’era all’iconografia classica (tunica, barba lunga) questa versione giovane in pantaloni, giacchetta e capelli scuri gli sembrava strana1. Ma le fan della serie erano state entusiaste.
Forse anche troppo.

Fu riportato alla realtà da una mano che gli batteva sulla spalla, facendo risuonare tutta l’armatura.
Era Sherlock.
«Facciamo questa foto e togliamocele di torno» gli disse sottovoce «Ti ricordo che non siamo qui per divertirci. C’è una squadra di killer in agguato che aspetta solo di colpire e sono sicuro che non si nasconda tra le iscritte al fan club di Merlin» Indicò con un gesto le ragazze che ancora aspettavano trepidanti.
«Ok» rispose John «Niente bacio, però. Merlino e Artù che si baciano, ridicolo!» John scosse la testa. Poi guardò Sherlock che lo stava guardando scuotendo la testa a sua volta.
«Ok. Che c’è? Che cosa non sto capendo? Vuoi scendere dal tuo monte Olimpo e spiegarlo a un povero comune mortale?»
«Merlin BBC fanfiction. Googlalo e capirai.» disse Sherlock laconico. Poi si rivolse alle fan con il suo miglior sorriso: «Ok, ragazze. Una foto abbracciati, va bene? Niente bacio, però. Siamo timidi!»
John si nascose la faccia tra le mani guantate.
 
***
 
Due ore prima.
 
Sherlock e John erano seduti al tavolino di uno dei tanti punti ristoro del Comicon, per mettere qualcosa sotto i denti. O meglio, John si era seduto per mettere qualcosa sotto i denti. Sherlock, come al solito, sembrava deciso a digiunare: la sua tazza di ramen istantaneo, specialità du jour in onore ai tanti appassionati di manga e Giappone, giaceva intatta di fronte a lui.
«Non è affatto male.» disse John subito dopo aver ingoiato l’ultimo sorso di brodo «Provalo, Sherlock, hai bisogno di mangiare qualcosa. Hai fatto colazione stamattina?»
«Non ho fame» rispose Sherlock, guardandosi intorno: continuava incessantemente a scannerizzare e studiare tutti i cosplayer che gli passavano davanti. Poi posò lo sguardo sulla tazza vuota di John. «Vedo che hai finito, possiamo alzarci?»
«Speravo di potermi riposare cinque minuti. Abbiamo fatto due volte il giro dei padiglioni e mi fanno male i piedi. Sai, non è facile camminare con questa roba addosso!»
«Mi sarebbe piaciuto travestirmi da Artù, ma tu mi hai detto che somiglio all’attore che interpreta Merlino. Cosa che, per inciso, reputo falsa: l’unica cosa che abbiamo in comune sono gli zigomi pronunciati. Ma la forma è diversa. E gli occhi chiari. Ma sia la forma che il colore sono diversi. E i capelli scuri. Ma...»
«Ok, ok, ho capito. Siete diversissimi. E lo pensi solo tu, metà dei fan che ci hanno fermato ti hanno detto che sei uguale a lui.»
«È il motivo per cui ho scelto il costume da Merlino, nonostante pensassi di non somigliare all’attore. So che la tua opinione è rappresentativa dell’opinione media, perciò...»
«Signore e signori, ecco a voi il grande investigatore Sherlock Holmes e l’uomo medio John Watson!»
«Mi sembra una presentazione calzante, sì.»
John scosse la testa.
Sherlock si alzò in piedi con un saltello energico. «Allora, andiamo! Ti ho lasciato un altro minuto per riposarti.»
«Troppo gentile, grazie.» rispose John alzandosi rassegnato. Tanto quell’armatura era talmente scomoda che stare seduti era faticoso quasi quanto camminare.
«Prego!» rispose Sherlock sorridendo.

Il Comicon di Londra era immenso. Chilometri di padiglioni, stand e teatri, dedicati a fumetti, videogiochi, film, serie televisive. Era la prima volta che John ci andava, e fu colpito dalla quantità di eventi e dall’entusiasmo dei partecipanti: uomini, donne, genitori con bambini, signori attempati coi capelli lunghi e magliette dei supereroi, ma soprattutto ragazzi e ragazze, molti dei quali indossavano con orgoglio vistosi costumi per interpretare il loro personaggio preferito: erano i cosplayer.
Ed era tra i cosplayer che, secondo Sherlock, si nascondeva il serial killer, o meglio, i serial killer che avevano colpito in ormai sette diversi Comicon sparsi in tutto il mondo. I killercon, com’erano stati fantasiosamente soprannominati dalla stampa.
Gli organizzatori del Comicon di Londra erano all’erta: il rischio che i killer colpissero anche lì era alto. Molti servizi giornalistici, nelle settimane precedenti, avevano seminato paura e si era addirittura parlato di sospensione dell’evento.
John era stupito dalla quantità di persone che vedeva girare all’interno dei padiglioni: la notizia del killercon non era servita a tenere lontano il pubblico?
O forse l’aveva attirato?

«Ore 15. Coppia di ragazze in minigonna, una in rosa una in nero.» disse Sherlock «Chi sono?»
«Non ne ho la minima idea. Mai viste prima. Qualche manga forse?» rispose John.
«Pensavo fossi un esperto di cultura popolare» disse Sherlock, sforzandosi di pronunciare le parole cultura popolare con il massimo disprezzo possibile.
«Non sono un esperto di cultura popolare» rispose John imitando l’enfasi di Sherlock «Certo, sono un luminare in confronto a te che non sai neanche chi sia Harry Potter».
Sherlock estrasse il cellulare da un borsello di cuoio che aveva legato in vita «Non spreco neuroni per queste sciocchezze. Tieni d’occhio le due cosplayer, per favore.» iniziò a scorrere lo schermo alla ricerca di qualcosa.
«Perché quelle ragazze ti insospettiscono?» chiese John, che non riusciva a capire con quale criterio Sherlock decideva che alcuni cosplayer fossero interessanti altri no. Sherlock, come al solito, pensava che tutto fosse ovvio e che John non avesse bisogno di troppe spiegazioni.
«Non è lampante?» disse Sherlock con aria di sufficienza, senza sollevare gli occhi dallo schermo del cellulare.
John si morse un labbro per non insultarlo. «No,» disse infine sforzandosi di non alzare la voce, «non per me, almeno.»
«Ma ti ho già spiegato tutto ieri!» protestò Sherlock continuando a muovere le dita sullo schermo.
«Ok. Mi hai spiegato che il killercon non è un’unica persona ma un’associazione a delinquere, e la storia torna: hanno colpito in diverse fiere del fumetto negli Stati Uniti e in Europa, non può essere una persona sola. E per inciso: non lo dici solo tu, è anche l’ipotesi dell’Interpol e della stampa.»
«Io l’ho capito al secondo omicidio, la polizia al quarto» puntualizzò Sherlock.
John ignorò l’osservazione e proseguì. «Poi mi hai spiegato perché secondo te sono un gruppo di cosplayer: tutte le vittime avevano qualche legame con il mondo del cosplay. Certo, qualche collegamento è un po’ forzato... avrei pensato che è una teoria un po’ azzardata, se non fossi stato tu a formularla.»
«Quale collegamento forzato?» disse Sherlock aggrottando le sopracciglia «A cosa ti riferisci?»
«Al blogger che sei mesi prima di essere ucciso aveva postato un articolo di presa in giro a una cosplayer. Su un blog in cui se la prendeva quotidianamente con ogni singolo abitante del pianeta terra.»
«Quell’articolo è un collegamento. Punto. Non vedo cosa c’entrino gli altri articoli che ha pubblicato.»
«Va bene, va bene. Non voglio discutere con te, ora. Il problema è questo: è da stamattina che stiamo pedinando cosplayer a caso, non mi dici come li scegli e non ci sto capendo niente.»
«Non stiamo pedinando cosplayer a caso!» ribatté Sherlock quasi offeso. Ancora non aveva sollevato gli occhi dal cellulare nemmeno una volta.
«Dal mio punto di vista sì.»
«Perché guardi ma non osservi.» disse Sherlock continuando a fissare lo schermo.
«Non è vero. Osservo. E ragiono. Ad esempio ho notato che tutte le persone che abbiamo pedinato sono donne.» disse John.
Sherlock finalmente sollevò il suo sguardo verso di lui, solo per lanciargli un’occhiata paternalistica. «E poi? Cos’altro hai notato?»
«Be’» disse John senza troppa convinzione «Ho notato che tutte avevano dei costumi realizzati molto bene, ma non so se...»
«Bravo John, sono due buone osservazioni. Sono tutte donne e tutte cosplayer professioniste: hanno tempo e soldi da dedicare alla loro passione. Ora guarda qui.» così dicendo ruotò il cellulare verso John: tutto lo schermo era occupato da un disegno, una ragazzina dall’aria leziosa, occhioni giganteschi rosa, codini rosa tenuti fermi da due grossi fiocchi rosa, gonnellina rosa a sbuffo, calzettoni alti, scarpette rosa. Identica a una delle due cosplayer che Sherlock aveva preso di mira. L’altra aveva un vestito simile, ma declinato in nero: probabilmente faceva parte dello stesso manga.
«Puella magi madoka magica2» disse Sherlock «È il titolo dell’opera.» spense lo schermo del cellulare, ma continuò a tenerlo in mano. «E poi? Non hai notato altro? Altre caratteristiche che accomunavano le cosplayer che abbiamo seguito?»
«Uhm... Alcune erano vestite da uomo. Ma non tutte... non so, abbiamo incontrato diverse Dottoresse Who ma non hai voluto seguirne nessuna.»
«Non rilevante.» Sherlock si avviò in direzione delle due ragazze, che si stavano spostando verso l’uscita del padiglione. John lo imitò. «Non hai notato che tutti i gruppi erano in numero pari? Due o quattro, un gruppo da sei, quello dei maghi in cravatta...»
«Mh.» disse John, che inizialmente non seppe cosa pensare. Poi azzardò: «Lavorano in coppia?»
«Più o meno» rispose Sherlock.
«La vuoi smettere di fare il misterioso?» sbottò John spazientito.
John e Sherlock raggiunsero l’uscita. John vide le due cosplayer dirigersi verso il prato antistante la fiera.
«Coppie. Cosa ti fa venire in mente la parola coppia?»
John rifletté qualche istante. «Irene Adler» disse infine.
Sherlock non rispose ma John notò l’ombra di un sorriso sulle sue labbra. Ricordava ancora l’incontro con la Donna alla Battersea Station, quando lei era ritornata dalla morte. Sherlock aveva assistito di nascosto al dialogo tra lei e John, e aveva sentito lei scherzare sul fatto che John e Sherlock erano una coppia. John aveva negato, quel giorno, ma c’era un fondo di verità. Anche se non era quello che lei sottintendeva.3
«Una coppia di investigatori» disse, seguendo il filo dei suoi pensieri.
Le due cosplayer si sedettero sul prato e si presero per mano.
«Andiamo, John, non è difficile. Coppia.» lo incalzò Sherlock.
«Coppia.» disse John, pensano ad alta voce «Duo. Il dinamico duo. Batman e Robin. In fondo siamo a una fiera del fumetto.»
«Stai andando fuori strada.»
Le due ragazze si guardavano negli occhi, a pochi centimetri di distanza l’una dall’altra.
«Una coppia di fidanzati!» disse John quasi per scherzo. Poi le due ragazze, come se avessero sentito il commento di John e avessero deciso di stare allo scherzo, si baciarono.
Un bacio piccolo e delicato. Si baciarono, si guardarono negli occhi e sorrisero una all’altra.
John spalancò gli occhi per la sorpresa. Si voltò verso Sherlock che guardava la scena con una specie di mezzo sorriso.
«Bravo John, hai visto? Non era difficile.»
«Pensi che siano tutte... fidanzate o qualcosa del genere?» chiese John non troppo convinto.
«Non essere ridicolo, non sono fidanzate!» rispose Sherlock che nel frattempo aveva acceso di nuovo lo schermo del cellulare e stava scorrendo degli appunti di testo sul suo telefono. «Ricordi il fan club di Merlin? Ba-cio! Ba-cio! Ba...»
«Sì, non serve che mi fai rivivere la scena, grazie.» lo bloccò John.
Sherlock lesse dal telefono: «Madoka Kaname e Homura Akemi. Harry Potter e Draco Malfoy. Sirius Black e Remus Lupin. Rachel Berry e Quinn Fabray. Gregory House e James Wilson. Dean Winchester e Castiel. Cos’hanno in comune queste coppie?»
«Di tutti i nomi che hai fatto conosco a malapena Harry Potter e il Dottor House»
«Sono innamorati, John!»
«Non sono un grande esperto di J.K. Rowling, ma sono piuttosto certo che Harry Potter e Draco Malfoy non vadano troppo pazzi l’uno per l’altro...»
«Ma no! Non nella storia come è uscita dalla testa dei veri autori» disse Sherlock con l’aria di chi sta spiegando delle ovvietà «Sono tutti OTP di qualche shipper e sono tutti pairing slash. Come Merlin e Arthur!»
John mise le mani avanti. «Ok. Stai parlando di nuovo una lingua che non conosco. Pairing Slash? O T cosa?»
«OTP, John, informati un po’, una volta ogni tanto! One true pairing
«E... cosa significa?»
«Oh. Mio. Dio.» una voce femminile alla loro destra.
John si voltò a guardare chi aveva parlato, lievemente infastidito dall’interruzione. Probabilmente si trattava dell’ennesima richiesta di foto.
Impiegò qualche secondo a rendersi conto di quello che aveva davanti. Due ragazze. Una era un po’ più bassa: capelli corti biondo cenere, taglio maschile, jeans, camicia a quadri, giacca nera. Forse John non avrebbe riconosciuto il travestimento se non fosse stata sottobraccio a una ragazza dai capelli mossi e corvini, avvolta in un cappotto Belstaff nero con l’asola rossa e, ben calcato in testa, l’inconfondibile deerstalker in panno grigio.
John si rese conto di avere la bocca spalancata e chiuse la mandibola con uno scatto rumoroso.
«Fa sempre piacere incontrare due fan» disse Sherlock porgendo una mano al suo doppione femminile.
John Watson e Sherlock Holmes travestiti da re Artù e mago Merlino si imbattono in due ragazze travestite da John Watson e Sherlock Holmes.
Improvvisamente John provò il desiderio di darsi un pizzicotto per essere certo di non trovarsi in un incubo. Purtroppo, inscatolato com’era in quello strumento di deprivazione sensoriale che era la sua armatura, non poteva farlo. Quindi la sensazione onirica continuò ad aleggiare sulla scena.
«Non siamo fan qualunque.» disse la ragazza bionda, risvegliando John dai suoi pensieri.
«Oh, lo so benissimo cosa siete» disse Sherlock con un lampo di sfida negli occhi «Siete due shipper!»

***

Note:
Salve a tutti/e! Questa è la mia prima fanfiction, o meglio, la prima che decido di pubblicare. Commenti, suggerimenti e consigli sono ben accetti. Siate pure spietati, non preoccupatevi, ho la pellaccia dura :)
Piccola nota sulla storia: sarà una long-fic non troppo long (ho pianificato una decina di capitoli), prevedo di pubblicarne uno ogni lunedì, per cominciare bene la settimana ^^. Arrivata al capitolo 3 ho già sgarrato di un giorno e pubblicato il capitolo il martedì. Allora diciamo: prevedo di pubblicarne uno a settimana, possibilimente a inizio settimana ^^
Niente anticipazioni sulla trama, spero che questo primo capitolo vi abbia incuriosito e fatto venire voglia di seguirla. Se siete arrivati fino a queste note significa che il capitolo l’avete letto tutto, quindi: grazie! Vi lascio alle note del capitolo ;)

1. La nota è quasi superflua, perché immagino che tutti quelli che leggeranno questa fanfiction conoscano Merlin della BBC. Comunque, nel caso remoto ci sia qualcuno che non abbia mai visto neanche mezza puntata della serie, questi due fanciulli sono Merlin e Arthur.
2. Puella magi madoka magica: anime in 12 puntate del 2011. Queste sono le protagoniste. Madoka e Akemi (le due cosplayer) sono le prime della fila (rosa e nera). Nel caso non conosciate l'opera: non fatevi ingannare dallo stile puccioso con cui sono disegnate le protagoniste, in realtà è una storia cupissima T_T (e molto bella, la consiglio a tutti).
3. Ovviamente mi riferisco al dialogo: «We're not a couple» «Yes, you are». Ma sì che ce lo ricordiamo tutti :)

Post Scriptum alle note (22/06): navigando su tumblr ho trovato, coincidenza delle coincidenze, una buffa fanart in cui Sherlock e John sono ritratti come Madoka e Akemi di Madoka Magica XD. L'autrice è Lakuno Star.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***




Disegnino illustrativo di un missing moment del capitolo.


Mezz’ora prima.
 
«Diamo il benvenuto al produttore esecutivo e sceneggiatore capo di Doctor Who, Steven Moffat!»
Le oltre mille persone che affollavano il teatro si alzarono in piedi simultaneamente e sommersero di urla e applausi l’ingresso di Steven Moffat sul palcoscenico. Soltanto Sherlock rimase immobile sulla sua poltrona, seduto con le braccia conserte. Sembrava quasi voler ignorare la confusione che era appena esplosa attorno a lui.
John, che si era educatamente alzato in piedi ad applaudire, sedette di nuovo sulla poltrona accanto a quella di Sherlock, sistemando la cotta di maglia del suo costume da Artù in modo che i mille anellini di plastica non si marchiassero indelebilmente sul suo didietro.
Gli applausi e le urla scemarono e si spensero le luci in sala.
«Potresti almeno fingere un po’ di entusiasmo, in fondo sei stato tu a voler venire» disse John avvicinandosi all’orecchio di Sherlock.
«Non sono certo venuto per prendere parte a una scena di isteria collettiva» ribatté Sherlock con aria disgustata. La ragazza che sedeva alla sua destra gli lanciò un’occhiata perplessa. John tossicchiò imbarazzato.
Sul palco, l’intervistatore iniziò a fare domande agli ospiti del panel dedicato al Doctor Who: oltre a Steven Moffat c’erano anche il produttore esecutivo Brian Minchin e il sedicesimo Dottore in persona, o meglio, la sedicesima dottoressa, l’attrice Maisie Williams: per la prima volta nella storia dello show, infatti, il dottore si era rigenerato in una donna, destando grande stupore e anche qualche lamentela tra i fan.
 
Era stato Sherlock a voler partecipare a quel panel. Non perché fosse un fan dello show, decisamente no: Sherlock sospettava che Steven Moffat fosse un obiettivo sensibile.
Era stato l’incontro con le loro fan a fargli venire in mente l’idea. Le due ragazze travestite da John e Sherlock (ogni volta che ci ripensava gli sembrava di aver vissuto un’allucinazione) avevano menzionato il panel e si erano stupite quando John e Sherlock avevano detto di non conoscere Steven Moffat.
«Ma come? Non siete fan di Herk?» aveva chiesto una delle due, stupita.
Herk! Al solo suono di quel nome il volto di Sherlock era stato attraversato da un lampo di illuminazione. Senza nemmeno salutare le due fan aveva trascinato John per un braccio e, senza spiegazioni, chiamato Lestrade per dirgli che: «L’obiettivo delle killercon è Steven Moffat.»
Herk era una pluripremiata serie poliziesca della BBC, la cui ultima attesissima stagione era andata in onda pochi mesi prima. John non si era mai preoccupato di scoprire chi fosse l’ideatore, nondimeno era stato un fan della serie e aveva seguito con trepidazione tutte le stagioni. Anche Sherlock l’aveva seguita silenziosamente insieme a lui (steso sul sofà mentre fingeva di pensare ad altro – ma John lo sorprendeva sempre a sbirciare lo schermo). Era un adattamento in chiave moderna delle avventure di Hercule Poirot, l’investigatore uscito dalla penna di Agatha Christie. Sempre conciato in modo bizzarro, con il suo marcato accento belga,  e sempre in compagnia del fido amico e collega, il capitano Arthur Hastings. Le puntate avevano letteralmente incollato John allo schermo. Un po’, doveva ammetterlo, rivedeva se stesso e Sherlock nei due personaggi (Sherlock ovviamente era il furbo e saccente Poirot) e si scopriva a paragonare le sue incredibili avventure con Sherlock a quelle altrettanto incredibili del duo televisivo.
 
«Sono presenti poliziotti in sala?» sussurrò John, mentre sul palco l’intervista andava avanti.
«Lo vedi quello Spongebob là nell’angolo?» disse Sherlock accennando con la testa verso un pupazzone giallo seduto in prima fila.
«Mi prendi in giro?»
«È Lestrade.»
«Mi prendi in giro.»
«È Lestrade, ti dico!» insistè Sherlock.
John sorrise divertito. «Quello che si dice: nascondersi in piena vista!»
«Non mi piace.»
«Come può non piacerti Spongebob?»
«Non sto parlando di Spongebob. Non ho idea di chi sia, per inciso. È che non mi piace questa situazione. Mille persone al buio, non riesco ad analizzare la scena.»
«Stai tranquillo. Spongebob ci protegge. Io mi sento tranquillo.»
Sherlock rispose con una smorfia.
 
Dieci minuti prima.
 
L’intervista era giunta al termine ed era arrivato il momento delle domande del pubblico. La prima fu per Maisie Williams e riguardava il suo ruolo in Game of Thrones. 
La risposta dell’attrice fu brevissima e si passò alla nuova domanda, una ragazza qualche fila più in basso di loro.
Sherlock si agitò impaziente sulla sedia, come se fosse in attesa di qualcosa che non stava succedendo.
«La mia domanda è per Steven Moffat. Buonasera, son una grande fan!»
Moffat fece un cenno di saluto e un sorriso alla ragazza. Sherlock la osservò socchiudendo gli occhi.
«So che questo panel è dedicato al Doctor Who, e sono una grande fan anche del Dottore, lo giuro...»
«Fammi indovinare» la interruppe Moffat «Una domanda su Herk
Ci fu qualche risatina tra il pubblico e la ragazza ondeggiò avanti e indietro imbarazzata.
«Non preoccuparti, me l’aspettavo. Chiedo scusa ai produttori, ma temo che le domande per me saranno tutte su Herk... ops, ma sono io il produttore!»
Altre risate tra il pubblico.
«Cosa pensa delle critiche che accusano lei e Gatiss di queer baiting?» la ragazza, che fino a pochi istanti prima era sembrata timida e insicura, aveva assunto un atteggiamento quasi spavaldo.
«Queer baiting?» disse John sottovoce.
«L’aggiunta deliberata di tensione omoerotica tra due personaggi maschili di una storia al solo scopo di attirare pubblico gay o appassionato di storie gay.» disse Sherlock tutto d’un fiato a velocità supersonica.
«Oh.» Tensione omoerotica? In Herk?
«Penso che siano delle sciochezze. Non era nostra intenzione compiacere un certo tipo di pubblico, volevamo solo raccontare una storia.»
«Ma allora perché avete disseminato la serie di sottotesto gay?» ribattè la ragazza.
«Sottotesto gay? Di cosa diavolo sta parlando?» chiese John sempre più perplesso.
John vide Sherlock scuotere la testa con aria sconsolata mentre Moffat ricominciava a parlare.
«Il sottotesto che vedete voi fan è una delle tante possibili interpretazioni della storia, e non è quella che avevamo pensato io e Mark.»
«Prossima domanda. Maglietta rossa in quarta fila.» disse il moderatore interrompendo qualsiasi possibile obiezione della ragazza.
Maglietta rossa fece una domanda a Maisie Williams che John non ascoltò. Stava pensando alla domanda della ragazza. E alle cosplayer che Sherlock aveva catalogato come “sospette”. Sono tutti pairing... non riusciva a ricordare il termine usato da Sherlock. Sembrava che tutti volessero vedere relazioni omosessuali dove non c’erano. Ma perché? Gli sembrava un’idea quantomeno bizzarra. Come gli sembravano bizzarre, anzi, assurde tutte le illazioni su lui e Sherlock. Vivevano insieme. Erano coinquilini. Ma lui era stato sposato, accidenti, e prima di sposarsi aveva avuto una lunga lunga lista di fidanzate. Non era gay! Non contava più le volte che aveva pronunciato quella frase: non sono gay! Non siamo una coppia! Questo non è un appuntamento, dannazione, siamo solo due amici che vanno a cena insieme: è un’idea davvero così sconvolgente, due amici che vanno a cena insieme? E anche da parte di Sherlock, John era sicuro non ci fosse il minimo interesse, niente che potesse dar adito a pettegolezzi. Sposato con il suo lavoro, aveva detto. Perfetto. E c’era stata Irene. John era certo che Sherlock si fosse infatuato di quella donna, anche se non voleva ammetterlo. E come biasimarlo? Bellissima, affascinante, intelligente quanto lui. Ci voleva qualcuno alla sua altezza, per conquistare il cuore di Sherlock Holmes. John si era sempre chiesto se c’era stato qualcosa, tra di loro: un bacio? Del sesso? Sherlock non aveva mai voluto rispondere alle sue domande. E Janine? Ok, Janine era per finta, era tutto uno stupido piano di Sherlock per avvicinarsi a Magnussen. Ma tutte le interviste che lei aveva rilasciato ai tabloid? Sesso selvaggio con Sherlock Holmes. Uh, si imbarazzava solo a ripensarci. John era certo che fossero in buona parte invenzioni, ma un fondo di verità forse c’era. Forse. Anche su Janine Sherlock non aveva mai voluto dire niente.
Eppure, nonostante tutti sapessero che John non era gay, e che Sherlock, be’, chissà, ma per quanto ne sapevano aveva avuto una storia con Janine, ecco, nonostante questo, tutti continuavano a pensare che fossero felicemente innamorati: battutine sulla stampa, battutine da parte degli amici, battutine di Mycroft, Lestrade ogni tanto faceva qualche domanda imbarazzata, Harry continuava a chiedergli quando avrebbe ricevuto le partecipazioni (frase a cui John continuava a rispondere con occhiate assassine), Mrs. Hudson continuava a parlare di «fare un salottino nella camera da letto al piano di sopra» («È la mia camera da letto, Mrs. Hudson!»«Oh, come volete, ragazzi!»).
E in modo simile, anche molti dei personaggi di Herk scambiavano Herk Poirot e Arthur Hastings per una coppia, nonostante i ripetuti dinieghi di Arthur. C’erano state un paio di scene che avevano particolarmente divertito John: ci si era immedesimato, doveva ammetterlo. Ma non avrebbe mai pensato che qualche spettatore potesse prendere sul serio le battute sull'omosessualità dei due personaggi. Un'idea semplicemente assurda. Erano due ottimi amici, un’amicizia speciale, un’amicizia fuori dal comune. Ma un’amicizia, punto. Possibile che la gente non riuscisse a capire il concetto di “amicizia tra uomini”?
 
«John, seriamente?»
John si riscosse dai suoi pensieri. «Come?»
«Seriamente trovi assurda l’idea che Herk e Arthur siano innamorati?»
John inclinò la testa da un lato e rifletté per qualche secondo. «Cosa ti dice che stavo pensando a Herk
«Tutto. Le sopracciglia aggrottate, gli sbuffi, i no-no-no con la testa. È ovvio che stavi pensando a Herk e ti stupivi del fatto che la gente pensi che lui e Arthur siano una coppia gay.»
«Ma sono solo amici! Arthur Hastings non è gay! Si è sposato con Dulcie Duveen! Herk, devo ammetterlo, ha dei comportamenti più ambigui. Ma non ha mai dimostrato interesse nei confronti di Arthur, quindi...»
Sherlock lo interruppe con una risata che fece voltare una decina di persone verso di loro.
«Chiedo scusa per il mio amico» disse John sottovoce.
«Come sempre, John, guardi e non osservi.» disse, anche lui sottovoce.
John si morse un labbro e non rispose, ma si rivolse a Sherlock con uno sguardo interrogativo.
«La storia è stata sviluppata esattamente come una storia d’amore. Si conoscono, si piacciono, si frequentano, non possono più fare a meno l’uno dell’altro.»
«Non possono fare a... credo che tu stia un po’ esagerando.»
«Si guardano spesso negli occhi» continuò Sherlock, con il suo solito eloquio rapidissimo «lunghe occhiate intense, che durano parecchi secondi. In un film in cui i protagonisti fossero un uomo e una donna ognuna di quelle singole occhiate sottintenderebbe un bacio. Invadono continuamente l’uno lo spazio interpersonale dell’altro, e non sembrano a disagio nel farlo. Arthur nega continuamente e con veemenza di essere gay o fidanzato con Herk.»
«Ecco questa secondo me è una prova di...»
«Le dinamiche narrative, John! Se un personaggio dice di non essere gay, tutti penseranno che è gay. Non pensare all’elefante? Il pubblico penserà all’elefante! Devo continuare? Continuo. Arthur è geloso di Herk, mostra segni di disagio quando Herk è in compagnia di donne, gli chiede conto delle assenze ingiustificate, controlla le sue telefonate. Herk è geloso di Arthur: manda costantemente all’aria i suoi appuntamenti per coinvolgerlo nelle indagini. Arthur, da parte sua, non sembra farsi troppi problemi ed è ben lieto di mandare all’aria i propri appuntamenti per stare con Herk. Herk cade in depressione quando Arthur si sposa con Dulcie. Il matrimonio di Arthur è la definizione dell’infelicità. Arthur esce nel cuore della notte lasciando la moglie da sola appena Herk gli telefona. Arthur sogna di fare indagini con Herk mentre è a letto con la moglie. Herk si rade persino i suoi amatissimi baffi per attirare l’attenzione di Arthur!»
«Sono perfettamente d’accordo con lei» disse la ragazza alla destra di Sherlock «Ma per favore potreste finire questa discussione fuori di qui?»
John si morse di nuovo il labbro. Poi si avvicinò all’orecchio di Sherlock e parlò a voce più bassa possibile: «Ti rendi conto che molte delle cose che hai detto potrebbero essere dette anche di noi due?»
Sherlock si limitò a sollevare un sopracciglio e non aggiunse altro.
«Comunque» proseguì John «mi fa piacere sapere che tutte quelle sere sul sofà, mentre facevi finta di pensare ai casi e io guardavo Herk, in realtà stavi guardando la televisione insieme a me.»
Sherlock fece una smorfia e incrociò le braccia.
Proprio in quel momento venne data la parola a una ragazza che aveva una domanda per Moffat.
«Anche la mia domanda è sul finale di Herk...»
Moffat rise e allargò le braccia guardando gli altri ospiti come a dire che ci posso fare?
«Vorrei proseguire le riflessioni dell’altra ragazza. Tutti si aspettavano che Herk e Arthur si mettessero insieme. Vorrei sapere per quale motivo avete inserito tanti indizi, perché avete voluto farci credere che fossero innamorati, se poi non avevate il coraggio di concludere la storia come avrebbe dovuto concludersi, ossia con Herk e Arthur innamorati.»
«Ma la storia tra Herk e Arthur è una storia d’amore.» disse Moffat.
Cosa sta dicendo? pensò John.
«Quello che avrei voluto vedere io, però, e non solo io, era una storia d’amore non platonica! Una storia d’amore vera e propria!» protestò la ragazza.
«Ma perché amore deve significare che c’è del sesso implicato? Viviamo proprio in un mondo assurdamente sessualizzato, se tutti insistono che Herk e Arthur devono fare sesso. Perché dovrebbero? Arthur non è gay, qualsiasi cosa Herk sia.»1
John annuì vigorosamente, comprendendo e condividendo il punto di Moffat.
«Il signor Moffat ha risposto, passiamo alla prossima.» si affrettò a dire il moderatore «La ragazza in nero, laggiù.»
«La mia domanda è per Steven Moffat, salve!»
«Ciao» rispose Moffat.
«C’è molto dibattito sul fatto che Hercule Poirot...» un brusio infastidito della folla interruppe la domanda «sul fatto che Hercule Poirot» continuò la ragazza alzando la voce «nel canone di Agatha Christie, fosse gay.» Tra la folla si levarono delle grida furibonde «Basta!»«È il panel del Doctor Who!»«Tornatevene a casa, slasher!»
«Shh! Per favore!» disse Moffat cercando di calmare l’agitazione «Ti fermo subito,» aggiunse rivolgendosi alla ragazza «non c’è nessuna indicazione nelle storie originale che Poirot fosse gay. Quello che dici semplicemente non è vero.»2
«Molti esegeti non sarebbero d’accordo con lei» ribattè la ragazza.
«Sono interpretazioni.»
La ragazza continuò: «Per una volta abbiamo avuto la speranza che...»
«Per favore, niente più domande su Herk.» la interruppe il moderatore. «Prego continuiamo con...»
«Avete deluso milioni di fan!»
«Spegnete quel microfono!»
«John...» disse Sherlock. Dal tono di voce John capì che Sherlock pensava stesse per succedere qualcosa. Si guardarono entrambi intorno, ma l’oscurità rendeva difficile vedere alcunché.
«Ci avete prese in giro!» disse una seconda voce dagli altoparlanti.
«Chi ha dato un microfono a quella ragazza?» chiese il moderatore, visibilmente arrabbiato.
«Sarebbe stata la storia d’amore più bella di tutti i tempi!» una terza voce.
Diverse persone tra il pubblico si alzarono, alcuni urlarono insulti. Il brusio si faceva sempre più forte.
John vide il moderatore parlare, ma il suo microfono era stato spento, perché non si sentì nulla dagli altoparlanti.
«Hanno preso controllo della regia!» esclamò Sherlock allarmato.
John lanciò istintivamente un’occhiata a Spongebob-Lestrade e notò che si era portato sotto il palcoscenico.
Il pubblico era ormai diventato incontrollabile, diverse persone stavano uscendo dalla sala, tutti parlavano ad alta voce creando un fragore indistinto di sottofondo.
«No, no, no, è quello che vogliono! Calma! State calmi, maledizione!» gridò Sherlock guardandosi angosciosamente intorno «Perché, perché la gente si comporta sempre in modo stupido!?» sputò fuori.
«Avete rovinato tutto!» «E qualcuno pagherà per questo!» dissero due diverse voci femminili dall’altoparlante.
«Non le vedo, Sherlock. Non vedo chi ha il microfono!» disse John continuando a scannerizzare la sala con lo sguardo.
«Sono in regia!» rispose lui: era salito sulla poltrona e si guardava intorno.
Steven Moffat si era alzato in piedi, due uomini, probabilmente due poliziotti in borghese, si erano arrampicati sul palco e si stavano dirigendo di corsa verso di lui.
Improvvisamente tutte le luci si spensero.
Grida di panico. Nel buio, John si sentì travolgere da diverse persone che cercavano di passare nello stretto corridoio tra i sedili. Sentì la plastica del costume deformarsi contro gli urti. «Spostati, cosplayer di merda!» disse qualcuno.
Uno sparo.
«Sherlock!» gridò John, e allungò le mani dove l’aveva visto l’ultima volta.
Un secondo sparo.
La mano guantata di John incontrò quella di Sherlock, che la strinse.
«In alto a sinistra, John!» gridò Sherlock che gli stava stringendo entrambe le mani con tanta forza da fargli male «Gli spari erano in alto a sinistra!»
John girò la testa in quella direzione, anche se l’oscurità totale lo rendeva cieco.
Le luce si accesero di nuovo, in tutta la sala. Nuove grida di orrore.
E in quel momento John la vide.
Ritta in piedi sulla poltrona, il braccio che stringeva la pistola abbandonato sul fianco, un visore a infrarossi davanti agli occhi. Indossava la tuta del capitano Kirk di Star Trek, ma era una ragazza.
«Là, Sherlock!» disse John liberandosi dalla stretta dell’amico e puntando il braccio verso di lei. Sherlock con un balzo scavalcò il sedile, superò John e iniziò a farsi strada.
La ragazza si strappò via il visore, si voltò verso di loro e per un lunghissimo istante lei e John si guardarono negli occhi: il suo sguardo folle lo paralizzò.
«Seguimi John!» gridò Sherlock.
John si riscosse. Nonostante l’armatura, riuscì a scavalcare i sedili e a raggiungere Sherlock, che era stato bloccato da un muro di folla in preda al panico. La ragazza era ancora visibile, distava da loro una decina di metri ed era anche lei bloccata. Vicina, eppure irraggiungibile.
«Sarà un lungo inseguimento» disse John tra sé.
Poi, lentamente, si girò verso il palco, ad occhi chiusi, temendo quello che avrebbe visto.
È solo morto, pensò, hai visto tanti morti, John. E spalancò gli occhi.
Il corpo senza vita di Steven Moffat giaceva sul palco in mezzo a una pozza di sangue.

***

Note:
Buongiorno a tutti/e e grazie per aver letto fin qui ^^. In questo capitolo, come avrete notato, mi sono divertita a citare un po' di argomentazioni della cosiddetta "Johnlock conspiracy". Se non la conoscete googlate o fatevi un giro sul tag #tjlc su tumblr.

1. La risposta di Moffat l'ho presa e leggermente riarrangiata da questa intervista (in cui ovviamente parlava di Sherlock e non dell'inesistente show Herk)
2. Anche questa risposta è tratta da un'intervista reale, eccola.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


John cercò disperatamente di farsi largo tra la folla che spingeva verso le uscite. Avanzava in direzione opposta alla corrente e l’ingombrante armatura di plastica che indossava non rendeva il compito facile.
«Sbrigati John!» gridò Sherlock qualche metro più avanti a lui, agile e scattante nella sua comoda tunichetta scamosciata. «È andato di là!»
John riuscì a strapparsi via lo spallaccio, lo gettò a terra e lasciò che fosse calpestato nella frenesia generale. Senza ingombro sulle braccia riuscì a camminare un po’ più rapidamente. Si massaggiò le spalle con sollievo: perché diavolo il costume da re Artù doveva essere una stupida armatura? Perché non un abito borghese, come quello da Merlino che aveva indosso Sherlock? Accidenti a Sherlock e alle sue idee balzane.
Mentre procedeva John percepiva il panico montare nella mischia man mano che la notizia dell’omicidio si diffondeva.
C’erano alcune parole che ritornavano, nel chiasso assordante e indistinto che lo circondava:
«...omicidio...»
«...killercon...»
«...cadavere...»
«...serial killer...»
«...Steven Moffat...»
«Non dovevamo venire!» gridò una voce maschile da qualche parte alla sua sinistra.
«Non sarà mai più la stessa cosa!» pianse con angoscia una ragazza: John la intravide per qualche secondo, una maschera di trucco nero sulle guance, prima che un fiume di persone la trascinasse via dietro di lui.
«John, stammi dietro!»
Sgomitando John riuscì finalmente a raggiungere Sherlock e gli afferrò una manica per non rischiare di perderlo nel flusso impetuoso di persone. Il teatro, il luogo del delitto, si era ormai completamente svuotato, e la folla di un migliaio di fan si stava riversando sul piazzale antistante la fiera.
La notizia si stava pian piano diffondendo anche negli altri padiglioni: il trambusto era sempre più forte e i colpi e gli strattoni che John riceveva sempre più violenti, rendendo quasi impossibile l’inseguimento. L’assassina, invece, riusciva a sgusciare tra la folla con un’agilità che aveva qualcosa di prodigioso. John lo vide sparire dietro un’uscita di sicurezza. Si stava chiedendo come avrebbero fatto a penetrare quel muro di persone in preda al panico, quando Sherlock, come in risposta ai suoi dubbi, cambiò direzione, sfuggendo alla presa di John e imboccando un corridoio laterale: era un po’ meno affollato e Sherlock accelerò il passo, schivando con destrezza le persone che gli venivano incontro.
«Sherlock! Stai sbagliando direzione!»
«Fidati di me, John!» rispose Sherlock continuando a correre.
John gli tenne dietro a fatica.
«La prossima volta ci scambiamo i costumi», mugugnò tra i denti.
Oltrepassarono uno degli ingressi al padiglione adiacente al teatro.
Il locale era ormai quasi del tutto svuotato, solo un labirinto di stand semi-abbandonati a riempirlo. Mentre si addentravano, John ebbe modo di notare anche qui segni della tragedia che era appena successa: un uomo sbatteva ripetutamente il pugno contro il bancone di uno stand; due ragazze vestite da scolarette giapponesi si abbracciavano piangendo; alcuni agenti della sicurezza intimavano alla gente di procedere verso le uscite.
«Ladro!» gridò qualcuno in sala «Fermatelo!»
John vide un ragazzetto smilzo con un gigantesco scatolone sottobraccio zigzagare tra le poche persone rimaste: quasi certamente uno sciacallo che approfittava della confusione per portarsi via qualche oggetto di valore. «Qui, John!» gridò Sherlock, un attimo prima di scomparire dietro una porta.
John lo seguì e si ritrovò in una sorta di piccolo ripostiglio: c’erano una libreria d’acciaio vuota, alcune scatole impilate e una sedia con delle giacche abbandonate sopra. In un angolino Sherlock stava armeggiando con il lucchetto di una botola sul pavimento.
«Questa botola porta ai garage sotterranei, è una scorciatoia. L'assassina ha imboccato la scala antincendio che porta ai piani inferiori. Togliti quella roba di dosso, non ci serve più e ti intralcerà.»
«Come facevi a sapere di questo passaggio?» chiese John mentre si sfilava il busto dell’armatura dalla testa.
«A differenza tua, John, io non sto con le mani in mano e mi preparo prima di una missione. Ho trovato nei database di Mycroft i progetti edilizi, e li ho immagazzinati qui» disse battendo un dito sulla fronte.
John si slacciò il cinturone e si liberò della cotta di maglia, mentre Sherlock, con l'abilità di un ladro professionista, scassinava la serratura con due sottili fili di ferro recuperati chissà dove.
Si sentì un clack e il lucchetto scattò. Sherlock provò a tirare il coperchio verso l'alto ma quello rimase immobile.
«Vieni qui, aiutami. A giudicare dai depositi di calce e ruggine questa botola è stata chiusa prima della fine del cantiere e mai più aperta.»
John si guardò intorno, alla ricerca di qualcosa che potesse fungere da leva: rovistò tra le giacche sulla sedia senza trovare nulla, aprì gli scatoloni ma erano vuoti; infine lo sguardo si posò sulla libreria: era un componibile in acciaio. Staccò uno dei sostegni delle mensole e infilò l’asta nell’anello di apertura della botola. Spinse con forza, ma il coperchio non diede segni di cedimento.
«È incastrata» grugnì John mentre continuava a spingere.
«Fa’ attenzione» disse Sherlock, e assestò due violenti colpi all’asta con un piede. La botola si scrostò leggermente. Un ultimo colpo e il coperchio finalmente cedette con uno schianto. John perse l’equilibrio e si aggrappò al braccio di Sherlock per non cadere all’indietro.
Sherlock estrasse una piccola torcia dal borsello di cuoio che aveva legato in vita e illuminò il buco: una scaletta di ferro, annerita dalla ruggine, scendeva per circa due metri in quello che sembrava l’inizio di uno stretto corridoio.
«Sei sicuro che...» John si interruppe quando vide lo sguardo sprezzante che Sherlock gli stava lanciando «Ok. Sei sicuro. Andiamo.»
Scesa la scala, imboccarono a passo svelto una serie di cunicoli bui in cui Sherlock sembrava orientarsi alla perfezione finché, svoltato un angolo, si trovarono davanti un vicolo cieco.
Sherlock fece un passo indietro, come spaventato.
«Era previsto questo?» chiese John, leggermente ansante per la corsa.
Sherlock non rispose. Guardava fisso il muro con le sopracciglia aggrottate e gli occhi lievemente socchiusi. «Sherlock?»
«Non è possibile» disse lui in un soffio. Poi si portò a ridosso del muro e iniziò a studiarlo: era un muro di mattoni, non di cemento come le pareti dei cunicoli: sembrava che il corridoio fosse stato chiuso in un momento successivo alla costruzione. Sherlock ne illuminò gli angoli con la torcia, lo osservò da vicino, lo annusò, tastò le sbavature di malta. «Non è ancora del tutto asciutta,» disse infine «a giudicare dalla percentuale di umidità dell’aria, direi che l’hanno costruito non più di...»
Le parole gli morirono sulla bocca mentre puntava di nuovo la torcia su John.
«Non più di...?» chiese John strizzando gli occhi per la luce improvvisa.
«Due giorni fa.» disse una voce femminile alle spalle di John.
Un sussulto involontario gli risuonò in gola.
Si voltò lentamente ed ebbe un secondo sussulto quando vide chi aveva parlato non era da sola.
Erano in sei, tutte ragazze, tutte fasciate in tute attillate, nere come la notte.
Erano le killercon. Erano loro.
Come avevano fatto a seguirli senza farsi sentire?
«Tu... e tu...» disse John riconoscendo nel gruppo le due ragazze che avevano incontrato meno di un’ora prima, le due... come le aveva chiamate Sherlock?
«Chi non muore si rivede!» esclamò una delle due, quella bionda, quasi con allegria.
«Risparmiateci i convenevoli» disse Sherlock affiancandosi a John «cosa pensate di fare? La polizia sta arrivando, e noi siamo armati.»
«No, non lo siete. Re John ha lasciato la sua Excalibur al piano di sopra, e credo che il nostro mago Sherlock abbia finito tutti gli incantesimi.»
«Questo lo pensi tu» disse Sherlock con un mezzo sorriso.
«O forse sarebbe meglio dire» continuò lei, seria «che i miei incantesimi sono migliori dei tuoi, se sono riuscita a oscurare il tuo potere di precognizione e farti cadere in questa trappola.»
«Qualcuno può spiegarmi cosa sta succedendo?» sbottò infine John puntando i pugni contro i fianchi «Cosa volete da noi?»
«Sherlock lo capirà. E te lo spiegherà a tempo debito.» John si sentì confuso. Si volse verso l’amico, alla sua destra, in cerca di spiegazioni, ma Sherlock continuava a fissare con espressione di sfida le ragazze. «Sherlock, che cosa...?»
Un’improvvisa fitta di dolore alla spalla sinistra.
Si girò di scatto e vide con orrore che una delle ragazze gli stava svuotando il contenuto di una piccola siringa nel braccio.
Poi accadde tutto molto velocemente: John diede uno strattone, si strappò la siringa dal braccio e la scagliò sul pavimento.
I suoni iniziarono a farsi ovattati.
Vide due ragazze avventarsi su Sherlock, con coordinazione perfetta: una cercò di colpirlo con un gancio al volto, e Sherlock riuscì ad abbassarsi e schivarlo con agilità. Ma pochi istanti dopo l’altra vorticò un calcio rotante sulle sue gambe andando a segno e facendogli perdere l’equilibrio. John istintivamente si lanciò in avanti per soccorrere l’amico, ma vide le sue braccia brancolare nel nulla, come a rallentatore, e incontrare il pavimento con un tonfo che riecheggiò e si amplificò nella sua testa.
Si sentiva pesantissimo, non riusciva più a sollevarsi. Sto morendo? pensò.
Sherlock! cercò di dire. Non capì se dalla sua bocca era uscito qualche suono.
I rumori della lotta che stava avvenendo accanto a lui erano ormai solo un’eco lontana. Un velo nero era sceso davanti ai suoi occhi.
Sherlock, pensò.
E fu il suo ultimo pensiero compiuto prima del nulla.

***

Le utilissime note dell'autrice
Inizialmente questo era il primo capitolo della storia, l'avevo pensato come un piccolo prologo d'azione agli avvenimenti. Continuando a scrivere la fic mi sono resa conto che flashback e flash forward potevano confondere un po' le idee e ho deciso di spostare i capitoli mettendoli in ordine cronologico esatto. Spero di non aver creato scompiglio tra chi l'aveva già letta! :P

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Il mondo emerse lentamente dal buio. Il fuoco scoppiettava nel caminetto tingendo di una calda luce arancione la tappezzeria che gli era così familiare.
John era steso sul divano ed era a casa. Era a Baker Street.
Cosa era successo? Doveva aver bevuto molto, non ricordava nulla.
Dolore acuto alle tempie.
Sì, doveva aver bevuto. Deglutì a fatica, aveva la gola asciutta. Cercò di alzarsi, ma i muscoli non risposero ai suoi ordini.
Poi ricordò qualcosa, un ricordo senza contesto: il Comicon di Londra.
Sbattè le palpebre un paio di volte. Era notte, nessuna luce dalle finestre.
Quando sono tornato a casa?
John cercò di ricordare quando e quanto avesse bevuto, ma nella sua mente vagavano solo ricordi confusi, come di un sogno: visualizzò un’immagine di Sherlock vestito da giovane Merlino.
Ho sognato Sherlock vestito da Merlino, pensò John, e io ero vestito da re Artù.
Era steso su un fianco, si girò sulla schiena. Chiuse i pugni a intermittenza per riattivare la circolazione. Stiracchiò le gambe.
C’erano due ragazze travestite da me e Sherlock. Che strano sogno!
I particolari del sogno iniziarono a farsi più vividi: lui e Sherlock pedinavano cosplayer al Comicon di Londra. Una conferenza sul Doctor Who. Il sottotesto gay in Herk.
Il sottotesto gay in Herk? Perché ho sognato il sottotesto gay in Herk?
Poi il sogno si trasformava in incubo: un omicidio. Qualcuno sparava a Steven Moffat in un teatro gremito.
Chi diavolo è Steven Moffat?
Lo sceneggiatore di Herk. E del Doctor Who.
E come faccio a saperlo?
John si alzò lentamente a sedere. Gli girò la testa per qualche secondo.
Sempre più dettagli si aggiungevano al sogno. L’assassina di Steven Moffat: la ragazza con la pistola e il visore a infrarossi, la ragazza vestita da capitano Kirk.
Un’assassina vestita da Capitano Kirk. Che sogno assurdo.
La folla impazzita. L’inseguimento nei tunnel, il tunnel murato. Le ragazze in nero. La siringa.
E finalmente John capì.
Non è stato un sogno!
«Sherlock!» disse con voce debole e roca. Tossì.
Appoggiandosi al bracciolo del divano, si alzò. Barcollò e quasi cadde all’indietro, ma riuscì a tenersi in piedi. Chiuse gli occhi per focalizzare la situazione.
Dov’è Sherlock?
Si schiarì la voce e provò di nuovo a chiamare: «Sherlock!»
Nessuna risposta.
Ok. Era a casa. Qualcuno li aveva portati a casa, ma chi? Un’ambulanza? Lestrade?
«C’è nessuno?» disse «Mrs Hudson?»
Le serial killer lo avevano drogato e lui si sentiva ancora confuso, non riusciva a ragionare. C’era qualcosa che non quadrava. Era certo che non fosse stato un sogno. Ma allora come poteva essere sano e salvo a casa? Per quale motivo l’avevano drogato? Stava sognando adesso? Tentò di darsi un pizzicotto a un braccio ma la sua mano incontrò del velluto. Velluto?
Si osservò e notò com’era vestito: maniche nere, corpetto grigio, cintura, stivaletti e ugh! una ridicola calzamaglia attillata nera. La visione periferica notò qualcosa di rosso sulle sue spalle.  Rincagnò la testa e vide che il vestito, o meglio, il costume, aveva una cappa rossa e... accidenti, era un mantello quello che gli pendeva sulla schiena?
Rimase inebetito per qualche secondo.
Ero vestito così ieri?
Era vestito da Artù, di questo era sicuro. Ma ricordava un’armatura da soldato, non un completo da principino. La droga aveva confuso i suoi ricordi?
«Sherlock?» chiamò. Niente di nuovo.
Caffè.
Una tazza di caffè l’avrebbe svegliato, e sarebbe riuscito a ragionare. Forse.
Con passo malfermo si spostò dal salotto alla cucina. Aprì l’anta di un mobiletto e si stupì nel trovarla piena: tre diverse qualità di tè, caffè solubile, miele, zucchero. Una confezione di biscotti al burro! Doveva essere opera di Mrs. Hudson, impossibile che Sherlock avesse fatto la spesa.
Afferrò il barattolo del caffè: era nuovo. Strappò il sigillo e una gradevole fragranza tostata raggiunse le sue narici. Già gli sembrava di sentirsi meglio.
Mentre riempiva una tazza d’acqua e la infilava nel microonde (miracolosamente vuoto: niente bulbi oculari, dita umane o altre parti di cadavere in decomposizione) si guardò intorno. Aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di strano, ma non avrebbe saputo dire cosa. La sensazione sgradevole che si prova quando si osserva una cornice leggermente storta.
Un vago senso di inquietudine gli morse lo stomaco.
Il microonde emise un segnale acustico: l’acqua era calda.
Prese la tazza, versò qualche cucchiaino di caffè solubile e mescolò.
Come ho fatto a tornare a casa? pensò. E dov’è Sherlock?
Si sentiva ancora intontito. Doveva telefonare a Sherlock. E a Lestrade.
Sorseggiando il caffè si diresse al tavolo del salotto, dove appoggiava sempre il cellulare. Non lo trovò.
Sherlock aveva i nostri telefoni, pensò, nel borsello del suo costume.
Il costume. L’armatura.
No. Non ero vestito così, pensò. Senza dubbio.
Le killercon. Sono state le killercon.
La consapevolezza che potessero essere state le assassine a portarlo a casa e a rivestirlo in quel modo gli diede un brivido.
«Sherlock!» chiamò per l’ennesima volta.
Dov’era Sherlock?
John posò la tazza di caffè, ancora piena a metà, sul tavolo come sempre coperto di carte e cianfrusaglie, e si avviò verso la camera da letto di Sherlock.
Forse è lì, pensò, forse hanno drogato anche lui, forse è ancora incosciente.
«Sherlock?» disse titubante mentre apriva la porta della sua stanza.
John spalancò gli occhi stupefatto. Lo spettacolo che gli si parò davanti gli suggerì un pensiero: non era una droga qualsiasi, quella che gli avevano somministrato. Era un allucinogeno.
Sbattè la porta chiudendosi fuori dalla stanza.
Ok, sto sognando. Non c’è altra spiegazione. Sto sognando.
Entrò in bagno, la stanza accanto a quella di Sherlock. Aprì il rubinetto e si sciacquò energicamente la faccia. Poi la strofinò quasi con violenza con un asciugamano. Nonostante lo shock della visione assurda che aveva appena avuto, il suo cervello riuscì a processare l’informazione che Sherlock o Mrs. Hudson dovevano aver acquistato una nuova marca di detersivo per la lavatrice. L’asciugamano aveva un profumo diverso dal solito.
Alzò il viso e si guardò allo specchio. Vide se stesso vestito con un costume da damerino.
Dove ho già visto questo costume? pensò. Dove?
Chiuse gli occhi per qualche secondo. Li riaprì.
Sempre lo stesso maledetto costume.
Sono ancora sotto l’effetto delle droghe. Adesso andrò di là, aprirò la porta e troverò Sherlock steso a letto. Nel SUO letto. Addormentato. Nel SUO letto, nella SUA stanza.
Fece pochi passi decisi e fu di nuovo davanti all'ingresso della camera di Sherlock. Prese un respiro profondo, abbassò la maniglia e spinse la porta.
Le braccia gli caddero lungo i fianchi: la scena non era cambiata.
Nessuna droga dava delle allucinazioni così dettagliate, doveva essere opera delle psicopatiche.
La stanza di Sherlock era stata tutta rivestita in mattoni di pietra e il pavimento piastrellato a scacchi bianchi e neri. Sulla parete a sinistra c’erano due archi a sesto acuto, con colonne a spirale, che aprivano su un fondale dipinto: cielo blu e un balconcino. Sulla parete destra un tendaggio blu copriva la vera finestra della camera.
Il letto di Sherlock era sempre al solito posto, a sinistra della porta, ma non era il suo letto. Rialzato su due gradini in pietra e bordato di stoffa blu. Da un baldacchino fissato al soffitto pendevano dei tendaggi viola, decorati con complessi ricami dorati.
Steso al centro del letto, Sherlock, la testa rialzata da un grande cuscino di seta bordato in oro. Drappeggiata su di lui una coperta blu, anch’essa ricamata in oro. Aveva le braccia posate sul petto, e le mani erano intrecciate sullo stelo di una rosa rossa.
Poteva vedere la rosa alzarsi e abbassarsi ritmicamente. Lentamente.
Respirava. Era vivo.
Si avvicinò cautamente a lui. Non voleva muoverlo, temeva che le psicopatiche che avevano allestito quella scenetta avessero anche nascosto su di lui qualche dispositivo mortale: una mina a pressione, dell’esplosivo, o più semplicemente una fiala di veleno che si rompeva al minimo movimento.
«Sherlock?» chiamò sottovoce.
Nessun segno di coscienza.
Posò con estrema delicatezza due dita sulla carotide, per controllare il battito cardiaco. Era regolare. Osservandolo meglio notò un particolare che non aveva notato appena entrato. Quel poco di lui che spuntava dalla coperta sembrava avvolto in... un abito femminile? Era un costume scollato, azzurro. Era un abito da donna, sì, non c’era dubbio. Sembrava un costume da principessa, un costume da...
«Bella addormentata!» disse schioccando le dita, ricordandosi all’improvviso dove aveva già visto quella scena, quella stanza e quegli abiti: nel cartone animato della Disney.
«Bravo John!»
John fece un salto all’indietro.
«Chi ha parlato?!» quasi gridò.
«Non mi riconosci, John?»
Era una voce di donna. John si guardò intorno: la stanza era vuota. Veniva da altoparlanti nascosti.
«Siete le killercon? Dove siete? Cosa volete? Cos’è questa messinscena?»
«John Hamish Watson.» disse la voce in tono imperioso.
«È il mio nome, sì. E tu chi sei?» ribattè lui cercando di esibire più sicurezza di quanta ne avesse.
«Secondogenito, medico militare in congedo permanente,» proseguì lei ignorandolo «arruolato nel Quinto Battaglione Fucilieri del reggimento Northumberland, hai servito tre anni nella guerra di Afghanistan. Hai conosciuto William Sherlock Scott Holmes il 29 gennaio 2010 e sei andato a vivere con lui due giorni dopo. Insieme avete intrapreso una fortunata carriera di investigatori. Sposato con Mary Elizabeth Morstan, nome falso, reale identità sconosciuta, il 10 agosto 2013. Separati il 20 febbraio 2014 dopo che hai scoperto che Mary era parte della rete del defunto Jim Moriarty e che la figlia che Mary portava in grembo non era tua figlia. Vedovo dal 6 maggio dello stesso anno, decesso del coniuge avvenuto in uno scontro a fuoco.»
«Basta!» urlò John. Strinse i denti costretto a ripensare a quei momenti. Era passato del tempo, ma la ferita non era ancora completamente chiusa. Più ancora dell’inganno e della morte della moglie, il ricordo che gli faceva più male era la perdita di quella che, per sei lunghi mesi, aveva creduto essere sua figlia.
«Calma, John. Ho quasi finito.» disse la voce femminile «Dopo la morte di tua moglie sei tornato a vivere con Sherlock Holmes al 221B di Baker Street e avete ripreso a tempo pieno la vostra attività... di investigatori.»
«Bravissima!» disse John applaudendo con ampi gesti «Hai fatto i compiti, vedo. Ora pretendo delle spiegazioni.»
«Ma certo, John, molto volentieri. Chiedi e risponderò.»
«Chi sei?»
«Sono te, John.» rispose la voce in tono divertito.
«Sei la mia cosplayer, ho capito. Voglio sapere chi sei veramente.»
«Non ti serve sapere il mio nome, nessuno sa il mio nome. Puoi chiamarmi come mi chiamano tutti in rete: Midonz1
«Ok.» John serrò le mascelle. Aveva tante domande da fare ma non sapeva da dove cominciare. «Come avete fatto a intrufolarvi in casa nostra e fare... questo?»
«Intrufolarci in casa? Che intendi dire John?» chiese lei.
John allargò le braccia e ruotò su se stesso: «Questa messinscena! Quando? Come?»
La risposta fu una risata squillante. Una lunga risata squillante. «Oh, John. Capirai tutto da solo, vedrai.»
«Troveremo i microfoni e le telecamere... perché ci sono delle telecamere, vero? Le troveremo e le distruggeremo. Anzi, no, chiameremo i tecnici della polizia e rintracceremo il segnale di connessione e...»
«Troverete i microfoni e le telecamere, ma non farete un bel niente, credimi.»
«Questo lo vedremo!» disse John puntando un indice verso il nulla. «Cos’è successo dopo che mi avete drogato?»
«Addormentare Sherlock è stato un po’ più difficile. C’è stato un breve scontro, ma alla fine siamo riuscite a drogare anche lui. Abbiamo usato una dose di anestetico quasi doppia, ecco perché è ancora addormentato. Sono passate quattro ore da quando vi abbiamo sequestrati.»
«Che anestetico avete usato? Non sono farmaci che possono essere somministrati alla leggera.» disse John. Ma che senso aveva discutere della pericolosità di un anestetico con una serial killer?
«Lo sappiamo, John. Siamo state molto attente. Nel nostro gruppo ci sono un’infermiera, una chimica e due medici, una delle quali specializzata in anestesia e rianimazione. Sapremo prenderci cura di voi, non preoccuparti.»
«Voi non vi prenderete cura di un bel niente! Io mi prenderò cura di lui! Adesso vado di là a prendere la mia valigia, Sherlock ha bisogno di essere visitato.»
«Si prenderà cura di lui! Lo avete sentito? E poi ha il coraggio di dire che non è innamorato!»
«E prima di prendere la valigia chiamerò la polizia!» minacciò John fingendo di non aver sentito l’ultima battuta.
«Con quale telefono?»
John aprì la bocca per parlare e la richiuse.
Ci hanno rubato i telefoni e hanno tagliato le linee, pensò, e io non posso rischiare di uscire e lasciare Sherlock da solo. Probabilmente ci tengono sotto tiro.
Si voltò verso la finestra della stanza: da dietro le tende si intravedeva il bagliore dei lampioni notturni.
Un cecchino con sensori di calore? pensò Oppure dati incrociati delle telecamere...
«Mi sembra quasi di sentire le rotelline della tua testa girare.» disse Midonz ridacchiando.
John fece due passi e raggiunse la finestra. Con una mano tremante scostò la tenda e quando vide cosa c’era dietro ritrasse la mano di scatto, come se avesse toccato il fuoco.
«Questa... questa non è casa nostra!» disse in un soffio.
Scostò di nuovo la tenda e osservò meglio: a qualche metro di distanza dal vetro c’era un muro e sul muro erano installati fari, faretti e lampade che simulavano il tono della luce di una strada a notte fonda.
«Ora hai capito?» chiese Midonz.
John non rispose. Aveva capito, più o meno. Era una specie di perverso set cinematografico: la stanza da letto, Sherlock vestito da principessa, lui vestito da principe. E la casa? Avevano ricostruito meticolosamente tutte le stanze della loro casa. Una follia. John non aveva osservato tutto nel dettaglio, ma la precisione con cui avevano costruito il set doveva essere eccellente, se si era fatto ingannare così.
«Cosa volete? Cosa significa tutto questo?» chiese.
«La bella addormentata si risveglierà solo con un bacio di vero amore.» disse Midonz con un tono di voce sognante.
«Smettila, non sono in vena di scherzi: che cosa volete da me?»
«Credevo di essere stata chiara: un bacio di vero amore!» disse lei, stavolta in tono grave.
John strinse le labbra: la psicopatica aveva proprio voglia di prenderlo in giro.
E se invece stesse dicendo sul serio? Perché altrimenti allestire quella scena e vestirli da principe e principessa?
Sembrava una richiesta insensata, ma un ricordo lo colpì: le cosplayer che avevano pedinato al Comicon. Erano tutti cosplay di personaggi che le fan volevano vedere accoppiati, ed erano tutte coppie dello stesso sesso. Sherlock aveva usato dei termini specifici, ma non riusciva a ricordarli: O T qualcosa.
Un gruppo di serial killer ossessionate dall'accoppiamento gay dei loro idoli. Avevano rapito lui e Sherlock per... no, non era possibile. Non voleva nemmeno pensarci.
«John» disse Midonz «so che ti deve sembrare strano, sei abituato a criminali avidi che bramano esclusivamente denaro e potere, denaro e potere. Quello a cui noi miriamo, invece, è un obiettivo più alto e nobile: l’amore! E questo è l’inizio della vostra storia d’amore: devi baciare Sherlock sulle labbra. Come il principe Filippo con la Bella Addormentata. Non è uno scherzo, è quello che dovrai fare.»
La psicopatica sembrava dannatamente seria.
«E sentiamo: qual è la minaccia? Come mi costrigerete a farlo? Avete collegato dell’esplosivo a Sherlock? Del veleno?»
«Esplosivo? Veleno?» chiese lei. «Ma noi vi adoriamo, John! Non vogliamo uccidervi, non vogliamo farvi del male. Noi vogliamo solo aiutarvi!»
John chiuse gli occhi e inspirò. Poi battè con violenza un pugno contro il vetro della finta finestra. Vibrò ma non si ruppe.
«Non bacerò Sherlock. Non mi presterò a questi giochi idioti.» Così dicendo afferrò il mantello del suo costume e fece per sfilarlo dalla testa, ma si bloccò sentendo un rumore meccanico alla sua sinistra. Si voltò di scatto e sgranò gli occhi: un grande televisore piatto stava calando dal soffitto. Rumore bianco sullo schermo.
«Che diavolo...?» sussurrò.
Il rumore bianco si dissolse e apparve un’immagine. Un gruppo di persone legate e incappucciate, illuminate da fari a pioggia. John non fece in tempo a contarle, la telecamera strinse su una di loro.
«Chi sono quelle persone?» Il cuore gli martellava con violenza nel petto.
«Toglietegli il cappuccio.» disse Midonz.
John vide apparire nell’inquadratura delle mani che scioglievano un nodo. La persona nascosta sotto al cappuccio sobbalzava come scossa da singhiozzi. Dopo qualche secondo il nodo fu sciolto e le mani sollevarono il cappuccio.
«Mike?» disse John sbigottito.
Era Mike Stamford, il suo vecchio compagno di università. Il povero uomo parlava tra le lacrime, ma non si sentiva nulla.
«Microfono.» ordinò Midonz perentoria.
«John? Mi senti John?» pianse Mike al microfono che venne allungato verso di lui «Qualsiasi...» si fermò per tirare su col naso «Qualsiasi cosa ti chiederanno non farlo! Io sto bene!» singhiozzi «Giuro, sto... sto bene!»
«Basta così.» Il microfono venne allontanato. Mike continuò a parlare, come se non se ne fosse accorto.
«Chi sono gli altri ostaggi?» gridò John.
«Ogni ostaggio sarà una sorpresa. Ogni volta che eseguirete un nostro ordine ne libereremo uno. Se rifiuterete di obbedire gli faremo del male. E se continuerete a rifiutare lo uccideremo. Ma non preoccupatevi: nell’attesa saranno trattati benissimo.»
«Incappucciati e legati a una sedia è la vostra definizione di “benissimo”? Minacciati di tortura e morte?» urlò John.
«Gli ostaggi vivono in stanze confortevoli e ricevono tutta l’attenzione di cui hanno bisogno. Sarà come una specie di vacanza, per loro. Pensa all’avventura emozionante che potranno raccontare quando torneranno a casa! Mike Stamford sta bene, non hai sentito? Non lo vedi come continua a parlottare? Piange, poverino, perché è un po’ impaurito. Ma non sembra anche a te perfettamente in salute? E anche discretamente pasciuto? Ahah!»
«Se...» deglutì «Se farò... questa cosa, questa stupida...»
«Sì, John. Se bacerai Sherlock libereremo Mike. Lo lasceremo tornare a casa, da sua moglie e dai suoi figli. Ma deve essere un bacio di vero amore!»
«Ma io non sono innamorato di Sherlock!» sbraitò John. Aveva urlato talmente forte da farsi male alla gola. Il suo respiro era affannato. «Siamo amici, lo volete capire?! Amici. A-mi-ci-zia.» Aveva parlato d’impulso, per rabbia. E se avessero fatto del male a Mike per colpa di questa sfuriata? Guardò lo schermo. Mike era ancora lì, scosso dal pianto.
«Questo è quello che tu credi, John. Tu non ti rendi conto di essere innamorato di Sherlock.» ribattè Midonz.
John sospirò.
Lo schermo si spense e sparì da dove era venuto, un vano scorrevole nell’alto soffitto.
«Adesso calmati.» disse Midonz dolcemente «Siediti, se vuoi. Non devi avere paura, non vogliamo bruciare le tappe. Sarà tutto molto bello e graduale. Vivrete delle meravigliose scene d’amore e vivendole prenderete coscienza del sentimento che c’è tra di voi.»
John sentì le ginocchia cedere. Sedette a terra accanto al letto e prese la testa tra le mani.
Sono pazze. Pazze!
«È il vostro primo bacio?» chiese lei.
John sollevò la testa molto lentamente: «Quale parte della frase “siamo solo amici” non ti è chiara?»
Midonz ridacchiò. «Sei simpatico, John.»
«Come faccio a sapere che libererete davvero Mike?»
«Non puoi saperlo.»
John riflettè per qualche istante. «Non posso saperlo. Ma non posso neanche rischiare.»
«Esatto, vedo che capisci. Ma non preoccuparti, John: sono contraria alla crudeltà gratuita. Se sarete bravi verrete ricompensati.»
John si lasciò cadere contro il letto e posò la testa sul materasso. Si sentiva esausto.
«È una scena molto bella» disse lei «Tu che vegli su Sherlock seduto ai piedi del suo letto.»
John avrebbe voluto sollevarsi per rovinare l’idillio della psicopatica, ma non ne ebbe la forza. Chiuse gli occhi, invece. Si costrinse a respirare più lentamente per calmarsi.
«Quanto tempo ho?» chiese rassegnato.
«L’effetto dell’anestesia svanirà tra circa un’ora.»
«E cosa devo fare?» disse con voce apatica.
«Devi essere convincente. Hai mai visto la Bella Addormentata?»
«Da bambino.»
«Lasciati andare, trova i tuoi sentimenti: devi dargli un bacio di vero amore.»
John sospirò. «E Sherlock? Non saprà niente? Non voglio che sappia niente.»
Midonz rise. «Hai la mia parola che non gli dirò niente.»
«Ok.» disse «E un istante dopo che avrò... baciato Sherlock libererete Mike.»
«Promesso.»
«Vivo e intero.»
«Certamente.»
John chinò la testa sconsolato. L’avrebbero davvero fatto? Col rischio che Mike andasse alla polizia? Se non avesse baciato Sherlock avrebbero fatto del male a Mike e di questa minaccia poteva fidarsi: erano delle serial killer. No, non poteva disobbedire.
John si alzò in piedi e guardò Sherlock. Un bacio di vero amore. Come avrebbe dovuto recitare? Devi essere convincente, aveva detto Midonz. Chiuse gli occhi. In fondo era solo un bacio di pochi secondi, labbra contro labbra, occhi chiusi, niente scambi di saliva, non era una tragedia. Oh, diamine! Aveva ballato il valzer con Sherlock, ed erano stati entrambi coscienti mentre lo facevano: era certamente più imbarazzante ed equivoco di questo schiocco di labbra. Non fosse per il vestito da principessa Disney.
E poi? Cosa ci chiederanno di fare? La prossima volta Sherlock sarà cosciente?
Scosse la testa per scacciare quell’idea. Meglio non pensarci ora.
Devo entrare nel personaggio? Come fanno gli attori quando si baciano?
Aveva ancora gli occhi chiusi. Li riaprì e li puntò sul viso di Sherlock.
Le psicopatiche stanno guardando, pensò.
No, non doveva pensare alle psicopatiche. Doveva essere convincente, doveva ricordare com’era essere innamorati. Doveva pensare all’amore.
Mary.
Il viso di Mary fluttuò nella sua memoria. Non provò niente.
Non provava più niente per lei. Non riusciva nemmeno a ricordare com’era quando ancora provava qualcosa per lei. Non riusciva a ricordare di aver mai provato niente per lei.
Non doveva pensare a Mary. Erano ricordi amari. Doveva pensare all’amore.
Sherlock.
Perché non pensare semplicemente a lui? Gli voleva bene, in fondo. Anche l’amicizia è una forma d’amore. Steven Moffat aveva detto qualcosa di simile, poco prima di essere ucciso.
Se Sherlock fosse il bell’addormentato e io fossi il principe che può salvarlo con un bacio lo farei?
Certo che lo farei, senza pensarci due volte!
Si schiarì la gola.
Pensa ai momenti felici.
E John pensò alla prima volta in cui Sherlock gli aveva chiesto di assisterlo su una scena del crimine. Sorrise al ricordo.
Bell’idea di romanticismo. Una scena del crimine. Forse sono più psicopatico io delle serial killer che ci tengono chiusi in questo set.
Stava davvero cercando di trovare del romanticismo nelle sue avventure con Sherlock?
Noi due soli contro il resto del mondo.
All’improvviso, dal nulla, dagli abissi della sua memoria gli tornò in mente quella frase. L’aveva detta Sherlock. Dopo due anni, i due anni peggiori della sua vita, due anni in cui lo aveva creduto morto, Sherlock era tornato come niente fosse, un paio di baffi finti disegnati con la penna, una carta dei vini, un sorriso allegro. John aveva forse esagerato nella sua reazione. Prima aveva tentato di strozzarlo, poi gli aveva tirato una testata e quasi rotto il naso.
Noi due soli contro il resto del mondo.
Non ci aveva più pensato, in tutti quegli anni, e ora gli tornava in mente. Buffo. In quel momento, quando Sherlock l’aveva pronunciata, John non se n’era reso conto, ma era una frase terribilmente, uhm... romantica.
Romantica? Andiamo John! Era solo una delle solite frasi melodrammatiche di Sherlock.
Ridacchiò imbarazzato.
Poi si ricordò delle psicopatiche che lo stavano guardando e cercò di immaginare come doveva essere visto da fuori. Si accorse che si stava tormentando le mani, che erano tutte sudate. Tremavano leggermente.
Si passò una mano tra i capelli. Sistemò il mantello dietro le spalle. Strinse i pugni per bloccare il tremore.
Solo pochi secondi, non è niente.
Guardò Sherlock, che sembrava dormire beatamente.
Noi due soli contro il resto del mondo.
La frase continuava a ronzargli in testa.
Toccò la guancia di Sherlock con le dita. Era un gesto romantico, no? Saranno soddisfatte?
Com’è ossuta, pensò. Dopo tutti quegli anni insieme, era la prima volta che accarezzava il viso di Sherlock.
Certo che è la prima volta, cretino! Perché avrei mai dovuto accarezzargli il viso?
Doveva rimanere concentrato. Doveva sembrare innamorato. La punta della mano scivolò leggermente dietro il collo, il palmo ora era completamente appoggiato alla sua guancia. Si avvicinò a lui. Un centimetro o poco più li separava.
Non ho mai visto Sherlock da così vicino, pensò.
Poi chiuse gli occhi. E lo baciò.

***

Note:
1. Midonz è il nickname di una persona reale, una scrittrice di meta su Sherlock ben conosciuta a chi bazzica su Tumblr. Le ho chiesto tempo fa se potevo inserirla nella mia storia come supervillain e lei, gentilissima, ha acconsentito. La Midonz della fanfiction, ovviamente, è un personaggio fittizio e l'unica cosa che ha in comune con la vera Midonz è il nickname (e la passione per le avventure dei due detective)(e il fatto di essere una shipper). L'inserimento nella storia vuole essere un omaggio a lei e a tutte le bravissime autrici di meta, che sono state l'ispirazione per questa storia. Nel caso non conosciate l'autrice, followate il suo tumblr oppure fatevi un giro sul suo account Ao3 :)

Nota per chi già seguiva questa fanfic: chiedo scusa per la confusione, ma ho deciso di cambiare l'ordine dei primi capitoli. Quello che all'inizio era il prologo è diventato il capitolo 3: mi sono resa conto che la storia funzionava meglio se letta in ordine cronologico, senza strani flashback. Un errore dovuto all'inesperienza, non si ripeterà nel proseguimento della storia, promesso!

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Sulle tazze da tè era stampata una foto di John e Sherlock inscritta all’interno di un cuore circondato da tanti cuoricini rossi più piccoli.
John chiuse gli occhi e strinse i pugni esasperato. Sentì improvvisamente la mancanza di quelle orrende tazze coi gattini che ogni tanto tirava fuori Mrs. Hudson.
Sospirando, prese il vassoio con tazze e teiera (anch’essa decorata con la stessa fantasia) e lo posò sul tavolo della cucina.
«Ci sono due cose che sfuggono alla mia comprensione» disse Sherlock dal salotto.
«E sarebbero?» rispose John mentre accendeva il bollitore.
«Punto primo: il motivo di questa carnevalata.» disse Sherlock accennando con un movimento della testa ai costumi da principe e principessa abbandonati sul divano. «Sei davvero sicuro di avermi raccontato tutto quello che è successo? Ci deve essere qualche particolare che non hai notato.»
Sherlock accavallò le gambe con un movimento fluido. Era seduto sulla sua poltrona. O meglio: sulla replica della sua poltrona. Dalle finestre, da dietro le tende, entrava una luce calda che sembrava in tutto e per tutto quella del sole. Ma John sapeva che era solo un’illusione, che si trovavano all’interno di un set che riproduceva con precisione il loro appartamento di Baker Street e che quella luce proveniva da fari cinematografici.
«Come ti ho già detto» disse John in tono forzatamente indifferente «mi sono svegliato in costume, poi sono venuto a cercarti e ho trovato la tua stanza trasformata e te con quella roba indosso. Poi quella tizia, Midonz, mi ha parlato e mi ha detto che siamo prigionieri. Mi ha mostrato gli ostaggi e ha detto che presto ci faranno delle richieste, non ha specificato di che tipo.»
John aprì il frigo e cercò il latte: non aveva mai visto ripiani tanto carichi di cibo.
«E poi dopo un po’ mi sono svegliato anch’io.» concluse Sherlock. Sbuffò. «E la shipper non ti ha fatto nessuna richiesta.»
John sollevò le sopracciglia e allargò le mani sorridendo debolmente: «Te l’ho detto, no.»
Sherlock non sembrava essersi accorto che stava mentendo. John era stato indeciso fino all’ultimo se dirgli o meno del bacio ma alla fine non ne aveva avuto il coraggio.
Sherlock, ovviamente, lo aveva sommerso di domande. E aveva scandagliato e analizzato ogni parete, angolo, suppellettile della casa. Per fortuna John si era risparmiato qualche ora di interrogatorio addormentandosi provvidenzialmente sul divano (lo stress aveva avuto la meglio sulla preoccupazione ed era crollato senza accorgersene).
 
Subito dopo il bacio John non ce l’aveva fatta a rimanere nella stanza insieme al bell’addormentato ed era tornato in salotto. Sul divano aveva trovato, accuratamente lavati e stirati, dei vestiti “normali” per lui e per Sherlock. Quando li avevano portati? Erano vestiti che provenivano dal loro guardaroba, non erano semplicemente modelli simili, John li aveva riconosciuti da alcuni piccoli particolari: l’etichetta strappata dalla maglietta, le maniche del maglione infeltrite, uno strappetto verticale sull’orlo dei jeans.
John si era cambiato. Per qualche momento aveva ponderato l’idea di tornare da Sherlock, togliergli l’abito da principessa, rivestirlo coi suoi indumenti, e trascinarlo a peso morto in salotto, per evitare al risveglio domande imbarazzanti sul significato di quei costumi. Poi aveva deciso che non era il caso: non avrebbe saputo dove nascondere i costumi e non poteva smantellare la scenografia nella stanza da letto, le domande ci sarebbero state ugualmente. Ma soprattutto voleva evitare di dare alle psicopatiche materiale equivoco su cui fantasticare. Lui che spogliava Sherlock: come aveva potuto passargli per la mente un’idea simile?
Dopo circa un’ora, durante la quale John si era sforzato in tutti i modi, senza riuscirci, di non pensare al bacio, aveva sentito dei deboli rumori provenire dalla stanza di Sherlock. Gli orologi segnavano l'una del mattino, ma era impossibile sapere se fosse l'ora reale. John aveva represso un lieve, inspiegabile senso di nausea, si era diretto verso la stanza, e quando era arrivato al corridoio la porta della camera si era spalancata sulla figura di Sherlock avvolta in quel ridicolo abito azzurro scollato. Sherlock teneva in mano la rosa rossa; aveva fatto un passo incerto e si era appoggiato allo stipite della porta. Poi aveva guardato la rosa, quasi come se volesse porle una domanda. L’aveva buttata a terra. Aveva sollevato un lembo dell’abito con aria disgustata. «Stai bene?» aveva chiesto John. Sherlock l’aveva guardato stringendo gli occhi per metterlo a fuoco. Poi aveva percorso il corridoio e scostato John per andare in cucina. Arrivato lì si era guardato intorno per qualche secondo e aveva concluso: «Questa non è casa nostra.»
 
«Quindi ci hanno vestiti da principe e principessa solo per ridicolizzarci. Se è così sono profondamente deluso.»
Il tè era pronto, John sapeva che a Sherlock piaceva ben zuccherato: portò il vassoio in salotto e porse la tazza a Sherlock.
«Erano, ehm... le uniche tazze disponibili.» si giustificò John, vergognandosi quando i suoi occhi caddero su quella stupida foto coi cuoricini.
Sherlock prese la tazza senza nemmeno guardarla.
Bevve qualche sorso di tè ed emise un mormorio di approvazione; poi posò la tazza sul tavolino accanto a sé, premette le mani una contro l’altra come se stesse pregando e le portò davanti alla bocca. Era il suo tipico gesto di concentrazione.
Sprofondò nello schienale della poltrona.
«Io conosco la mente delle shipper » disse «conosco gli insondabili abissi di morbosità delle loro macchinazioni mentali. Ah, John, se solo avessi analizzato qualcuna delle loro fanfiction li conosceresti anche tu. Non è possibile che fosse solo un tentativo di prenderci in giro, dovevano avere qualche altro scopo.»
John aggrottò le sopracciglia e annuì, fingendo perplessità. Sedette anche lui sulla sua poltrona e prese un sorso di tè. Uhm, era davvero ottimo!
Pensò alle parole di Sherlock: gli insondabili abissi di morbosità. Gli sembrava una descrizione calzante della psicologia delle loro sequestratrici. Un bacio. E poi? Cosa avrebbero chiesto?
Forse avrebbe dovuto dire a Sherlock quello che aveva fatto. Quello che lo avevano costretto a fare. Prima o poi sarebbero tornate all’attacco con una nuova pretesa, e forse avrebbero raccontato tutto loro stesse: del bacio, di quanto era stato romantico e stupidaggini simili. Certo, quella donna, Midonz, gli aveva promesso che non avrebbe detto nulla: ma come poteva fidarsi di una malvagia shipper – come la chiamava Sherlock – serial killer psicopatica?

«La seconda cosa che non riesco a capire» disse Sherlock «è perché non ci hanno più contattato. Sono passate quasi dieci ore da quando mi sono svegliato e la presenza degli ostaggi significa che vogliono farci delle richieste. Ma ancora niente. Sembra quasi che stiano aspettando qualcosa.»
John scosse la testa e strinse le labbra. «Non lo so, Sherlock.» disse.
Stava di nuovo mentendo. Non poteva esserne certo, ma sospettava che il motivo di quell’attesa fosse il gusto di vedere John sulla graticola. Chissà quanto si stavano divertendo a osservare il suo imbarazzo, a guardare come reagiva alle domande e ipotesi di Sherlock. Loro sapevano che lui l’aveva baciato. John sapeva che loro sapevano. Loro sapevano che John sapeva che loro sapevano. Eccetera. E ogni volta che Sherlock parlava della sera precedente, e di quello che era e non era successo, la scena del bacio si proiettava nuovamente nel cervello di John e lui non riusciva – semplicemente non ci riusciva! – a guardare Sherlock negli occhi. Sherlock, per fortuna, sembrava non farci caso (o fingeva di non farci caso, ipotesi forse più probabile). Ovviamente non era solo il ricordo del bacio a metterlo a disagio, anzi, forse il bacio era stato l’episodio meno sconvolgente della serata (nonostante fosse quasi l’unica cosa a cui la sua mente continuava a tornare). Erano stati drogati, rapiti, e insieme a loro erano state rapite anche altre persone, degli ostaggi. I loro più cari amici, probabilmente: Mrs. Hudson? Molly? Harry? John non poteva saperlo. Aveva visto un gruppo di persone, in quel video, ma non avrebbe saputo dire quante fossero: dieci? quindici?
Non era detto che fossero tutti ostaggi: in fondo il killercon era un’organizzazione formata da un gran numero donne. Forse avevano inserito nell’inquadratura qualcuna di loro, per far numero, per far sembrare che gli ostaggi fossero tanti. Per avere più potere contrattuale con John e Sherlock. Ma se fosse stato un bluff l’avrebbero scoperto presto.
 
«C’è qualcosa che mi sfugge, qualcosa che non sappiamo...» disse Sherlock con stizza.
Diglielo, John.
E come avrebbe potuto dirglielo?
Ah, senti, Sherlock, quasi dimenticavo: ti ho baciato.
Troppo casuale.
Sherlock, perdonami!
Troppo patetico.
Sono stato costretto! Volevano uccidere Mike Stamford!
Troppo melodrammatico.
«Oh, questa è una novità interessante!» disse Sherlock battendo le mani.
John udì un familiare ronzio elettronico e capì cosa stava succedendo ancora prima di voltarsi a guardare: uno schermo piatto stava calando dall’alto, lungo la parete del caminetto. Era molto più grande di quello che era apparso la sera prima in camera di Sherlock.
Ci siamo, pensò John, nuovo ostaggio, nuova richiesta.
Lo schermo si fermò davanti allo specchio sopra al caminetto. John si schiarì la voce, nervoso. Sherlock si alzò in piedi e si allontanò di qualche passo, come per osservare meglio.
Lo schermo si accese.
Sfondo rosso, una scritta gialla a caratteri gotici: Evil Shipper League™ productions is proud to present... In sottofondo partì una musica dal carattere trionfale: archi, ottoni, ritmo sostenuto. A John sembrava vagamente familiare, ma non riusciva a identificarla.
Cambio di titoli: ...based on a true story...
John lanciò un’occhiata a Sherlock che osservava lo schermo quasi affascinato.
Nuovo cambio: ...the greatest love story ever told... La musica trionfale cresceva, sembrava portare verso una conclusione.
Sfondo blu, due nomi affiancati: Sherlock Holmes - John Watson
«Dio, no.» sussurrò John che temeva di aver capito. Si morse un labbro.
Cambio di inquadratura. Un libro intarsiato su un tavolo verde: arazzi sullo sfondo, una candela in primo piano. La telecamera strinse sul libro, sulla copertina era inciso un titolo:
 
Sleeping Consulting Detective.
 
No, no, no!
John si passò una mano sul viso.
«Sherlock...» disse debolmente.
«Zitto!» sussurrò Sherlock concentratissimo. Con un gesto della mano impose a John di tacere.
La sontuosa introduzione musicale terminò in una dolce melodia, una melodia che John riconobbe all’istante: era il valzer della Bella Addormentata di Tchaikovsky.1
Il libro si aprì. All’interno c’era un disegno a colori pastello, un principe biondo seduto ai piedi di un letto, sul quale dormiva una figura dai capelli scuri. I disegni sfumarono e si trasformano in un’inquadratura reale, identica al disegno: i protagonisti erano il principe John e il bell’addormentato Sherlock. Il principe John aveva un’aria sconsolata, quasi disperata. Stacco. Primo piano di John, un’espressione triste sul suo volto. Altro stacco, primo piano di Sherlock addormentato.
«John, cos’è questo?» chiese Sherlock con sguardo accigliato.
John sprofondò nella poltrona. Non avrebbe saputo dire se era più imbarazzato o arrabbiato: manipolando le inquadrature sembrava che il principe John si stesse struggendo per il bell’addormentato Sherlock, quando invece in quel momento, quando era crollato a sedere accanto al letto, era semplicemente scoraggiato e sopraffatto dalla situazione: il rapimento, gli ostaggi, le richieste delle shipper.
Sullo schermo, il principe si alzò in piedi, con il costante accompagnamento della colonna sonora di Tchaikovsky. John abbassò gli occhi: non aveva il coraggio di guardare. Sprofondò ancora qualche centimetro nella poltrona, desiderando ardentemente di potersi trasformare in un pezzo d’arredamento. Incrociò le braccia davanti al petto. Lanciò un’occhiata furtiva a Sherlock che fissava lo schermo immobile, sopracciglia aggrottate, bocca lievemente socchiusa.
John si fece forza e guardò di nuovo lo schermo: doveva guardare, doveva vedere quanto la sua performance era stata convincente, e quindi quanto avrebbe dovuto vergognarsi alla fine.
Il principe si avvicinò al bell’addormentato e lo osservò, figura intera. Riguardandosi John notò una serie di tic nervosi di cui non si era reso conto: si mordicchiava l’interno del labbro, sollevava a intermittenza il tallone destro e passava il pollice su e giù lungo il pugno chiuso. Aveva uno sguardo amaro, triste. A cosa stava pensando in quel momento? Cercò di ricordare: a Mary? Poi lo sguardo del principe si addolcì e un sorriso quasi sognante gli illuminò il viso. John si sentì avvampare. Sono un bravo attore, pensò.
Il principe si chinò sul bell’addormentato. John mise una mano davanti agli occhi ma sbirciò la scena dalle dita aperte. La presenza silenziosa di Sherlock incombeva alle sue spalle. Chissà cosa sta pensando. No, non voleva saperlo.
Il principe posò una mano sul volto del bell’addormentato, e maledizione! cos’era quello sguardo estasiato? John non avrebbe mai pensato di essere un attore così convincente. Si agitò a disagio sulla poltrona mentre il viso del principe si avvicinava a quello del bell’addormentato e... alla fine John serrò gli occhi: non riuscì a guardare il culmine della scena.
Tenne gli occhi chiusi per un tempo indefinito. La musica sfumò in sottofondo.
Silenzio.
Silenzio totale.
Non si sentiva nemmeno un respiro.
Ok. L’ho ucciso, pensò, Sherlock è morto per lo shock.
Alla fine John si fece forza e guardò Sherlock con la coda dell’occhio.
Sherlock stava ancora fissando lo schermo ormai spento con le palpebre spalancate e John si stupì nel notare un lieve rossore sulle sue guance. Girò gli occhi di scatto e si guardò i piedi che erano rannicchiati sul bordo della poltrona.
Sono riuscito nell’impresa impossibile di imbarazzare l’impermeabile Sherlock Holmes?
Doveva dire qualcosa. Diede un colpo di tosse che riecheggiò minaccioso nella stanza.
Posò i piedi a terra e si stiracchiò. Gli sembrava di avere tutti i muscoli intorpiditi. Abbozzò un sorriso. Voltò la testa verso Sherlock ma non riuscì a fermare lo sguardo su di lui, e si mise, invece, ad ammirare ogni piega del divano sullo sfondo.
«E quindi...» abbozzò John.
«Mh.»
Colpo di tosse: «Non...»
«Sì?»
Si guardarono negli occhi per qualche secondo, poi John si voltò verso lo schermo.
«Ok, credo...» cosa avrebbe dovuto dire? Doveva spiegare le circostanze. Doveva dirgli di Mike Stamford. Perdonami Sherlock, cerca di capire.
John aprì la bocca per parlare, ancora indeciso su ciò che avrebbe detto.
«Permettetemi di interrompere questo momento di gelo» disse una voce dal nulla, quasi ridacchiando. Era Midonz. John non avrebbe mai creduto di essere felice di sentire di nuovo quella voce, ma in quel momento salutò l’interruzione con gratitudine.
«Finalmente ci sentiamo.» disse Sherlock in tono pacato. Improvvisamente sembrava tornato di nuovo padrone della situazione.
«Allora? Vi è piaciuto il film?» chiese lei.
«Maledetta, mi avevi promesso che non gli avresti detto niente!» sbottò John ritrovando il coraggio di parlare.
«Certo, e ho mantenuto la promessa. Non ho detto nulla. Ho mostrato.»
«Come sei ingenuo, John.» commentò sottovoce Sherlock.
John strinse i pugni e abbassò la testa. Ingenuo era un aggettivo clemente.
«Sei Midonz?» chiese Sherlock.
«Sì, sono io. Ci siamo già incontrati al Comicon, ma permettimi di dirti ancora una volta che è davvero un grande onore conoscerti, Sherlock Holmes.» proseguì lei «Sono... anzi, dovrei dire, siamo tutte vostre grandi ammiratrici.»
«Mie grandi ammiratrici.» la corresse lui, presuntuoso come sempre.
«Oh, no no. Vostre ammiratrici. Noi pensiamo che il vostro amore sia il più bello, puro, perfetto...»
«Di nuovo questa storia?» la interruppe John.
«Come l’avete costretto a baciarmi?» chiese Sherlock inaspettatamente. Ostentava sicurezza e indifferenza, ma a John era sembrato di sentire un lieve, quasi impercettibile inciampo della voce sulla parola “baciarmi”.
«Guardando il film non mi è sembrato proprio di vedere una persona costretta.» disse lei.
«Gli ostaggi.» disse John cupo «Mike Stamford.»
«Gli ostaggi sono solo un incentivo per farvi fare quello che non volete ammettere di voler fare.»
«Travestirmi da principessa Disney?» disse Sherlock sarcastico «È vero, era il mio desiderio segreto. Grazie di avermi dato questa opportunità.»
Midonz rise. «Sai benissimo di cosa sto parlando.»
«La vita non è una fanfiction» disse Sherlock.
«Ma se lo fosse sarebbe tutto più semplice. Pensa! Gli innamorati restii a dichiararsi troverebbero sempre una stanza da letto in cui sono costretti a dormire insieme, una scommessa che li obbliga a baciarsi, un armadio stretto e buio dove devono nascondersi. Esisterebbero il TARDIS, Hogwarts, i vampiri, gli elfi, e tutti potremmo finire in un universo alternativo in cui la magia esiste o in cui le persone si legano per la vita dopo il primo rapporto sessuale. Nella realtà invece le persone non riescono a comunicare. Due persone innamorate potrebbero non riuscire mai ad amarsi per paura o incomprensione. Noi vi stiamo dando l’opportunità di vivere una fanfiction. Vi costringeremo ad amarvi, per darvi la possibilità di amarvi liberamente.»
Ci fu qualche secondo di silenzio.
«Tu. Sei. Completamente. Pazza.» disse infine John. Poi guardò Sherlock. Aveva un’espressione che sembrava quasi... ammirata?
«Ora sì che vi riconosco.» disse Sherlock «Finalmente riconosco la vostra ossessiva, compiaciuta, ingegnosa perversità.»
«E ti piace?» chiese Midonz.
«Apprezzo il modo intelligente in cui avete messo in atto il vostro perverso piano.»
John guardò Sherlock perplesso. Sherlock si fece improvvisamente serio.
«Ciò che non apprezzo» continuò con voce dura «e che, anzi, mi rende furioso, è il modo in cui avete umiliato John. E risparmiati i commenti sdolcinati su quello che ho appena detto. Voi non sapete con chi state giocando. Siete riuscite a incastrarmi, ve lo concedo, avete vinto questa partita. Ma il gioco non è ancora finito.»
Il nodo che fino a quel momento aveva stretto lo stomaco di John si allentò. Tutto il disagio, la rabbia e la tensione che aveva accumulato fino a quel momento iniziarono a dissolversi. Sherlock aveva capito. Non avrebbe dovuto spiegare nulla, aveva capito tutto. Erano in quella situazione insieme e ne sarebbero usciti. John aveva fiducia in Sherlock.
«Il gioco in realtà è appena iniziato» disse Midonz «Ed è arrivato il momento della prossima partita. Per ora temo che dovrete continuare a giocare con le nostre regole.»
Lo schermo, che era ancora sopra al caminetto, si accese di nuovo e apparve il mezzobusto di Philip Anderson. Non sembrava legato, non era incappucciato. La sua fronte luccicava di sudore, ma a parte questo particolare sembrava tranquillo.
«Posso parlare?» disse Anderson guardando alla sua destra. Attese qualche secondo poi si rivolse di nuovo alla telecamera. «Ciao Sherlock, ciao John. Mi hanno detto di dirvi come sto. Sto bene.» Fece una risatina isterica. «Be’, ho paura, non lo nego. Ma mi hanno trattato bene. Mi hanno dato da mangiare, mi...» all’improvviso il suo volto si deformò, come se non riuscisse più a sopportare la tensione e si ruppe in pianto «Ommioddio, ho paura, Sherlock! Ho paura! Aiutami ti prego! Aiutami!»
Sherlock sollevò gli occhi al cielo. «Potrebbe anche darsi un po’ di contegno...»
«Ti devo ricordare che è prigioniero di un gruppo di serial killer?» lo rimproverò John.
«Lo siamo anche noi, ma non facciamo tutte quelle scene.» disse Sherlock arricciando il naso.
«Come potete vedere il vostro amico Philip sta bene, isteria a parte.» disse Midonz.
«Anderson non è mio amico.» puntualizzò Sherlock quasi offeso.
John lanciò a Sherlock un’occhiataccia.
«Ho già spiegato tutto a John, ma siccome non ti ha detto granché lo ripeterò: gli ostaggi saranno trattati bene fino al momento in cui verranno scelti. Poi la loro vita sarà in mano vostra: se vi comporterete bene e farete quello che vi chiederemo verranno, uno a uno, rimandati a casa vivi. Se vi comporterete male faranno una brutta fine. Tutto chiaro?»
«Chiarissimo.» rispose Sherlock. Congiunse le mani dietro la schiena e fece qualche passo per la stanza. «E quindi cosa dobbiamo fare per liberarvi dai noiosi piagnucolii di Anderson?»
«Non preoccuparti, i piagnucolii di Anderson li trovo divertenti. Ma me ne priverò volentieri se porterete a termine la prima prova d’amore.»
«E all’improvviso il sequestro si trasformò in un brutto incrocio tra il Gioco delle Coppie e The Hunger Games» commentò John.
«E quale sarebbe questa prova?» chiese Sherlock.
«Il bacio di John era solo un’introduzione, volevamo mostrarvi quanto siete belli insieme. Adesso è arrivato il momento che prendiate coscienza dei vostri sentimenti.» disse Midonz. Fece una breve pausa. Sherlock inclinò la testa e socchiuse gli occhi.
«Non sarà difficile, dovrete solo aprire il vostro cuore.» disse infine «Dovrete scrivervi una lettera d’amore.»

***

Note:
1. Penso che lo conosciate tutti, ma in caso non lo conosciate, questo è il brano in questione. Il balletto La Bella Addormentata di Tchaikovsky è la suite su cui è basata (con rielaborazioni) la colonna sonora del film Disney, e sulla melodia del valzer è stata costruita la famosa canzone di Aurora "Sooo chiii sei, vicino al mio cuor, ogni or sei tuuu" (ahah, le traduzioni italiane vintage delle canzoni Disney mi fanno sempre ridere ^^).
Piccola nota extra: l'inquadratura del libro con la candela, nel film Sleeping consulting detective (un film che vorreste vedere tutti, ci scommetto!) è identica alla prima inquadratura del lungometraggio Disney. Le shipper fanno le cose per bene ;)

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Le dieci ragioni per cui ti amo
da John H. Watson per W. Sherlock S. Holmes

1- ti amo perché sei intelligente
sei un bel
sei simpatico?
sei il più gigantesco stronzo che abbia mai conosciuto in vita mia!
2- ti amo perché suoni il violino alle tre di notte e io sono tanto felice di svegliarmi per ascoltare le tue composizioni bartokiane!
3- ti amo perché ti preocc
ti dimentichi sempre di comprare il latte!!
l’unica volta che hai fatto una lavatrice hai lavato il mio maglione preferito di lana a novanta gradi trattamento intensivo!!!
senza di me non sopravvivresti dieci minuti. come hai fatto a sopravvivere prima del mio arrivo? chi faceva la lavatrice? quanto spendevi in lavanderia?
non sono la tua casalinga
menomale che c’è Mrs. Hudson
4- ti amo perché qualcosa nel modo in cui ti muovi mi attrae come nessun altro1
qualche altra canzone dei Beatles
He loves you, yeee yeee yeeeah
 

«Jooohn...» la voce  cantilenante di Midonz risuonò nella stanza. John sollevò le mani dalla tastiera del laptop. «Che cosa stai facendo John?»
John sbuffò. «Sto scrivendo la mia letterina a Sherlock come mi hai ordinato.»
«Non va bene, John.»
John incrociò le braccia e si strinse nelle spalle. «Cosa c’è che non va? È passata solo mezz’ora e ho già scritto tre ragioni. Mi avevi detto che non c’erano limiti di tempo.»
«Non è il tempo, il problema. È che quello che hai scritto non va bene. Cancellalo. Non cercare di fare il furbo.»
«Be’, mi spiace ma non saprei cos’altro scrivere. Sai com’è, le lettere d’amore di solito si scrivono alle persone di cui si è innamorati, non ai propri amici.»
«Non avevo detto che sarebbe stato facile. Sappiamo che è difficile, per te, parlare di sentimenti. Ti conosciamo bene, John.»
John batté un pugno sul tavolo.
«Volete conoscere i miei veri sentimenti per Sherlock? Va bene! Eccovi servite!»
John selezionò il testo che aveva scritto lo cancellò con un click e scrisse:

1- La ragione per cui ti amo è solo una: sei il mio migliore AMICO.

 
«Ecco qua!» disse sollevando il mento con aria di sfida. «Sono stato sincero. Soddisfatte?»
John incrociò di nuovo le braccia davanti a sé e rimase in attesa di una risposta.
Silenzio.
John si accorse di essere affannato per la rabbia e si impose di respirare più lentamente.
Calmati, John. È il loro gioco, farti innervosire.
Pensò al povero Anderson, la cui sorte dipendeva da quanta passione e sentimento avrebbe messo in quella stupida lettera. Non poteva comportarsi in quel modo.
«Ok.» disse rassegnato «Lo so, non serve che me lo diciate: non va bene.»
Batté il dito sul tasto backspace finché la frase che aveva appena scritto non sparì.
«In realtà, John, eri sulla strada giusta.» disse Midonz «L’hai chiamata amicizia. Sei sicuro che sia semplice amicizia? Riflettici e capirai.»
John sospirò. Sistemò la sedia, raddrizzò la schiena e mise le mani in posizione sulla tastiera.
Fissò lo schermo. Era rimasto solo il titolo, in cima alla pagina: Le dieci ragioni per cui ti amo. Sembrava il titolo di una brutta commedia d'amore americana.
Era stata Midonz a imporlo. «Gli elenchi sono più semplici da scrivere», aveva detto, «sappiamo che non siete scrittori professionisti». «Be’, io sono un blogger famoso» aveva protestato John. A questo punto Sherlock l’aveva guardato sollevando un sopracciglio e Midonz si era messa a ridere.
 
Le shipper li avevano divisi: avevano fatto andare John nella camera di Sherlock («Troverai l’ispirazione accanto agli oggetti personali del tuo amato»), e avevano lasciato Sherlock in salotto. La camera di Sherlock non era più allestita con la scenografia della Bella Addormentata, adesso era identica alla vera camera di Sherlock.  Appena John era entrato nella stanza, Midonz gli aveva detto di guardare nel cassetto della scrivania. Si era aspettato di trovarci della carta da lettere, magari bordata di stupidi cuoricini e fotomontaggi di John e Sherlock abbracciati, invece nel cassetto c’era un laptop. Il suo laptop. John aveva passato mentalmente in rassegna possibili contenuti imbarazzanti dell’hard disk, prima di sedersi a scrivere. Non gli era venuto in mente nulla. Qualche sito equivoco nella cronologia dei browser? Ne dubitava. Erano secoli che John non visitava siti pornografici, quindi se le shipper avevano esaminato il computer alla ricerca di contenuti di quel genere dovevano essere rimaste deluse.
Forse nell’archivio mail era rimasta traccia di qualche schermaglia con le sue vecchie fidanzate. Nulla di cui John si vergognasse.
John si era infine seduto, aveva sistemato il PC sul ripiano e alzato lo schermo, che si era illuminato all’istante. Davanti a lui il foglio bianco di un programma di scrittura.
Per prima cosa aveva provato a cliccare il menù di avvio, ma non era accaduto niente. Poi aveva tentato di ridurre la pagina a icona, per visualizzare il desktop. Niente di nuovo. Niente clessidre o altri segni di attesa sul cursore, non sembrava inceppato, ma allora perché non rispondeva ai comandi? Aveva digitato qualche carattere a caso sulla tastiera e istantaneamente erano apparse delle lettere sulla pagina. Allora aveva fatto un ultimo tentativo con qualche comando rapido della tastiera, per provare a cambiare schermata o richiamare il menù di avvio. Niente. A quanto pareva tutto ciò che poteva fare era usare il dannato programma di scrittura. Non aveva idea di come avessero fatto, evidentemente qualche esperta informatica tra le shipper aveva bloccato tutte le funzionalità del laptop.
Ok, niente distrazioni, messaggio ricevuto.
John si era messo a scrivere.
 
Erano due ore che John tentava di stilare quel maledetto elenco e non era ancora riuscito a buttare giù una singola frase decente.
Si massaggiò le tempie. Fece scrocchiare le nocche.
Non riusciva a pensare a niente.
Perché ti amo, Sherlock?
John chiuse gli occhi.
Sherlock mi piace perché è una persona interessante.

1- Ti amo perché sei una persona interessante.

John rilesse la frase e fece una linguaccia allo schermo. Che motivazione sfigata. Cancellò la riga.
Appoggiò i gomiti sul tavolo e si mise le mani tra i capelli.
Ti amo perché sei la persona più importante della mia vita, pensò.
Questo era vero. Le shipper sarebbero state contente.
Dannazione, era vero! Non poteva scriverlo. Non voleva condividere i suoi sentimenti con quelle psicopatiche assetate di smancerie. Non l’avrebbe fatto.
E comunque sei la persona più importante della mia vita non era neanche una motivazione. Casomai era un rafforzativo della dichiarazione. Sei la persona più importante della mia vita, ti amo. Ti amo, Sherlock.
Stava divagando.
E all’improvviso, l’illuminazione.
Perché avrebbe dovuto sforzarsi di essere sincero? Perché non scrivere delle motivazioni banali, generiche, che andassero bene per qualsiasi storia d’amore? Aveva scritto delle lettere d’amore, in passato. Era capace di essere romantico. Aveva conquistato una ragazza, alle superiori, con una lettera d’amore. Come si chiamava? Jennifer? Jenna?
«Ok» disse ad alta voce.
Si stiracchiò e fece mulinare le dita nell’aria per sciogliere le falangi. Si sentiva pieno di idee!

1- Ti amo perché sei speciale  

Buona per ogni occasione!

2- Ti amo perché mi fai ridere.

Un grande classico!

3- Ti amo perché i piccoli momenti della giornata sono più belli, da quando ci sei tu.

Uh, questa è ottima!
Ci stava prendendo gusto.

3- Ti amo perch+ì’dkssss7dhk

«John!» un grido infuriato dagli altoparlanti.
Le mani gli scivolarono sulla tastiera e John sollevò gli occhi dallo schermo, spaventato.
«John, cos’è quella spazzatura immonda?»
«Ehm...» cincischiò John.
«Cancella immediatamente quelle ignobili porcherie! Come ti sono venute in mente? Leggi la posta del cuore dei magazine per tredicenni?»
John cancellò il testo in un lampo. Sentì le guance imporporarsi.
In effetti, a pensarci bene, dopo quella singola conquista alle scuole superiori, le sue lettere d’amore non avevano più avuto grande successo tra le ragazze.
«John, vuoi farci arrabbiare? Sai chi ne farà le spese se ci arrabbiamo?»
«No! Non fate niente ad Anderson!» si affrettò a dire John «Cerca di capire, è...» pensò a qualcosa che potesse calmarla e ricordò le parole che gli aveva detto poco prima «è difficile per me parlare di sentimenti.»
«Mi prendi in giro, John? Ricicli le mie battute?»
«No! Io... è la verità. Senti...» chiuse gli occhi e strinse le mascelle «Hai ragione. Hai pienamente ragione, su come vivo i miei sentimenti. Non sto dicendo che mi sono improvvisamente reso conto di essere follemente innamorato di lui. Non sei stupida, non mi sembri stupida, sai bene che non cambierei idea così in fretta. Ma hai ragione: io... so parlare solo per frasi fatte, non sono una persona spontanea. Non con le parole, almeno.»
John si abbandonò contro lo schienale della sedia e gettò la testa all’indietro.
Vi fu un lungo silenzio, John temette di udire da un momento all’altro le urla del povero Anderson torturato dalle psicopatiche, ma alla fine Midonz si rivolse a lui con voce tranquilla, quasi dolce, dicendo semplicemente: «Capisco.»
John avrebbe voluto chiedere di Anderson ma temeva di innervosirla di nuovo. Dopo qualche secondo la voce di Midonz risuonò ancora dagli altoparlanti.
«Torna al lavoro, John. E considera questo l’ultimo avvertimento. Ricorda: devi guardare nel tuo cuore. Tu lo ami! Non lo sai, ma lo ami!»
Un pensiero fugace passò per la mente di John.
E se avessero ragione? Se lo amassi senza saperlo?
John scosse la testa con violenza. L’idea era semplicemente insensata e quelle bastarde gli stavano facendo il lavaggio del cervello.
E se alla fine ci fossero riuscite? Se tenendoli rinchiusi lì dentro per mesi e mesi John avesse finito per autoconvincersi che amava Sherlock? I battiti del suo cuore accelerarono a quell’idea e John scosse di nuovo la testa. Sciocchezze! Non lo avevano piegato due anni di guerriglia in Afghanistan, non si sarebbe fatto piegare da quel branco di psicopatiche in fregola.
 
Ricapitolando:
- John non poteva scrivere una lettera scanzonata, le psicopatiche volevano amore, pathos, sentimenti.
- John non era capace di fingere una lettera d’amore perché gli venivano in mente solo frasi banali che potevano piacere forse a un’adolescente stupida (c’era un’ottima ragione per cui non ricordava più il nome di quella ragazza conquistata con la lettera d’amore: la storia era durata poco; ed era durata poco perché quella ragazza non era una cima)
- John avrebbe potuto scrivere i suoi veri sentimenti d’amicizia per Sherlock, e sì, in questo modo sarebbe venuto fuori qualcosa di molto simile a una lettera d’amore.
 
Gli restava qualche altra opzione? No. Doveva rompere gli indugi e scrivere della sua amicizia fingendo che fosse amore.
Ma non voleva. Lo irritava l’idea di dare soddisfazione a quelle pazze. Odiava l’idea di dover prendere sul serio quel compito, odiava l’idea di dover essere esplicito e sincero. I suoi sentimenti, che fossero amore o amicizia, erano una questione personale, e adesso avrebbe dovuto metterli in chiaro, nero su bianco.
John cercò di farsi forza. In fondo non si vergognava della sua amicizia con Sherlock. Non se ne era mai vergognato.
È solo una dichiarazione di amicizia.
Niente di tragico.
Conosceva i suoi sentimenti. Conosceva le “ragioni del suo amore”.
John cominciò a scrivere.
Avrebbe terminato in pochi minuti.
 
Tre ore dopo.
 
John si sentiva stremato. Non aveva mai faticato tanto a scrivere qualcosa. In confronto alla lettera qualsiasi cosa minimamente complessa avesse scritto in precedenza gli sembrava una lista della spesa. Persino quell’esegesi di dieci pagine del Riccardo III che era stato costretto a scrivere per l’insegnante di letteratura in quarta superiore.
«Hai finito, John?» chiese Midonz «Sherlock ha finito ore fa.»
«Sherlock è più intelligente di me» disse John massaggiandosi le spalle.
«O forse è solo più consapevole dei propri sentimenti.»
John evitò di commentare.
«Allora? Possiamo recapitare la tua lettera a Sherlock?»
«Un attimo» disse John «Posso rileggerla?»
«Certamente.»
John guardò lo schermo. Aveva pensato a quello che gli piaceva di Sherlock, ai motivi per cui lo considerava il suo migliore amico, ai motivi per cui aveva finito per diventare la persona più importante della sua vita. E ne era venuta fuori una cosa che sembrava una lettera d’amore.
Sì, sembrava proprio una lettera d’amore.
Sembrava anche troppo una lettera d’amore.
E Sherlock avrebbe dovuto leggerla.
«Non posso.» si lasciò sfuggire.
«Non riesci a rileggerla? Ci hai messo troppo sentimento, John?»
«No, io... non importa. Niente. Va bene.» Si alzò in piedi e quasi fece cadere la sedia per l’impeto. «Non voglio rileggerla, mandategliela così com’è.»
«Sei sicuro John?»
«Sì.» Sentì lo stomaco accartocciarsi.
Lui sa che è per finta, pensò.
Ma il problema era che no! non era per finta. Era stato sincero.
Si sentiva confuso. Gli bruciavano gli occhi per le ore passate a fissare lo schermo e sentiva la testa pesante. Gli sembrava quasi di avere la febbre.
Fece due passi verso il letto e si lasciò cadere sul materasso a pancia in giù. Il viso sprofondò nel cuscino.
Quello doveva essere il vero cuscino di Sherlock, poteva sentire il suo odore.
L’odore di Sherlock.
Non c’era assolutamente nulla di male nel riconoscere l’odore di Sherlock sul cuscino. Non c’era assolutamente nulla di equivoco nel riconoscere l’odore del proprio migliore amico (amicizia... amore...), della persona con cui aveva convissuto (fraterno... platonico... non sesso implicato... no... sesso... no...) per quasi sette anni.
Niente di male.
Amore...
Amicizia...
Ah, Sherlock.
 
Bip! Bip!
John si svegliò di soprassalto. Si era addormentato? Quanto tempo era passato?
Si alzò in piedi e stropicciò gli occhi. In due passi fu davanti al laptop. Lo schermo era ancora acceso, l’orologio diceva che non aveva dormito per più di un quarto d’ora.
Solo dopo aver visto l’ora notò che il programma aperto non era più l’editor di scrittura, ma un client di posta elettronica e l’avviso sonoro che l’aveva svegliato doveva essere quello che segnalava la posta in arrivo.
 

Posta elettronica di John H. Watson
Posta in arrivo (1)
Posta inviata (1)
Bozze
Spam
Cestino

John deglutì. Quella mail in arrivo era la lettera di Sherlock?
Scostò la sedia e si rese conto di aver perso la forza nelle mani.
E se avessi davvero la febbre? pensò. Non si sentiva molto bene: stomaco sottosopra, sudori freddi, debolezza. Chissà se c’era dell’aspirina, nel mobile del bagno.
Sedette e si trascinò vicino alla scrivania.
La scritta sullo schermo lo guardava minacciosa.

Posta in arrivo (1)

Posò l’indice sul trackpad e lentamente portò il cursore sulla scritta.

Posta in arrivo (1)

Andiamo, John! Hai paura?
John sorrise tra sé.
Cosa avrà scritto Sherlock?
Di nuovo quel nodo allo stomaco.
È finzione, John.
Prese un respiro. Il pollice cliccò il tasto sinistro del trackpad. La mail si aprì in pop-up.

Le dieci ragioni per cui ti amo
da W. Sherlock S. Holmes per John H. Watson

John distolse lo sguardo dallo schermo e guardò la porta, dissimulando il disagio con un atteggiamento annoiato. Finse uno sbadiglio.
Leggila, dài. Avrà scritto una marea di stronzate.

Le dieci ragioni per cui ti amo
da W. Sherlock S. Holmes per John H. Watson

John,
ho passato gli ultimi dieci minuti a litigare con Midonz

John rise. Anche Sherlock era stato rimproverato. Probabilmente per eccesso di freddezza e razionalità.

ho passato gli ultimi dieci minuti a litigare con Midonz perché mi rifiuto di ridurre a uno stupido elenco di dieci punti le mille ragioni per cui ti amo.

A John si bloccò il respiro in gola e levò gli occhi dallo schermo.
Uh.
Dopo qualche secondo di apnea espirò. Ridacchiò.
È finzione, John. Sherlock è così bravo a mentire.
Poi pensò alla sua lettera e il riso gli si bloccò in gola.
Merda, chissà cosa penserà del mio stupido elenco in dieci punti!
Si sentì morire.
John! Sveglia John! È finzione!
Era tutto finto, perché si lasciava colpire così da quelle parole?
Riprese a leggere, imponendosi di stare calmo.

John,
ho passato gli ultimi dieci minuti a litigare con Midonz perché mi rifiuto di ridurre a uno stupido elenco di dieci punti le mille ragioni per cui ti amo.

Sei furbo, Sherlock. Le shipper ti adoreranno.

Alla fine, come vedi, ho vinto io (non avevo dubbi). Non sentirti in colpa, John, per il tuo noioso elenco pieno di punti esclamativi. Sì, lo so che hai scritto un elenco. No, non mi hanno consentito di spiarti e non mi hanno fatto leggere la tua lettera, lo so e basta. Non sei intelligente e intraprendente quanto me, ma non importa. Mi è mai importato in tutti questi anni? Inoltre conosco bene la tua prosa, quindi non sentirti inferiore confrontando mentalmente i tuoi stentati pensierini con le mie frasi perfettamente cesellate.

Una persona qualunque si sarebbe offesa, ma John non poté fare a meno di sorridere. Sempre il solito stronzo.

Tu sai come la penso: l’amore è un sentimento distruttivo. Induce gli uomini a comportarsi in modo irrazionale, è causa di mali e sofferenze, e per questi ottimi motivi ho passato una vita intera a evitarlo e disprezzarlo.
Puoi immaginare quanto sia difficile per me ammetterlo, ma forse ho fatto un errore.
Se avessi messo meno impegno nel chiudere a chiave ogni piccolo spazio dedicato ai sentimenti, se non avessi messo tanta dedizione nello schiacciarli e comprimerli negli angoli più nascosti e dimenticati della mia mente, forse sarei stato più preparato, il giorno in cui ti ho incontrato. Ti avrei aperto una stanza, tu avresti trovato uno spazio adatto a te, e ti saresti sistemato lì, con calma. Io avrei avuto il tempo e il modo per delimitare quello spazio, controllarlo, e controllare quindi l’influenza che avresti avuto sugli altri spazi.
Invece quando sei arrivato le grandi stanze splendenti che avrebbero dovuto ospitarti erano ormai diventate delle piccole cantine ammuffite con le porte incatenate. Non hai trovato posto, ma DOVEVI avere un posto, perciò hai fatto esplodere i muri, rotto le catene e ti sei preso tutto lo spazio che c’era nella mia preziosa mente. Non c’è un angolo dei miei pensieri che non sia legato a te, John. Le mie sinapsi sono tutte connesse inestricabilmente all’idea di te. Il prezzo che dovrei pagare per farti uscire dal mio cervello è troppo alto: dovrei distruggere tutto, rimarrei per sempre incapace di portare a termine qualsivoglia ragionamento, impazzirei nei vicoli ciechi.
Ed è per questo che l’ho accettato: sono rassegnato all’idea che non potrò mai fare a meno di amarti. È per la salvezza del mio intelletto, che è la cosa che conta di più nella mia vita. Dopo te.

Il cuore di John batteva talmente forte che sembrava volergli uscire dal petto.
Si sforzò di mantenere un’espressione impassibile, non voleva che le shipper pensassero chissacché, ma ci sarebbe riuscito? Si accorse che stava stringendo i pugni e li rilassò.
L’ultima volta che John si era sentito così era stato al suo matrimonio.
Non la cerimonia, non il bacio alla sposa, non il valzer. Nemmeno il momento in cui Sherlock aveva annunciato a John che sarebbe diventato padre (notizia poi rivelatasi tragicamente errata). Il momento che l’aveva emozionato e commosso di più di tutta la giornata era stato il discorso di Sherlock.
Oggi tu siedi tra la donna che hai reso tua moglie e l’uomo che hai salvato. In breve, le due persone che ti amano di più in questo mondo.
Aveva provato l’irresistibile impulso di abbracciarlo, e l’aveva fatto.
E adesso provava di nuovo quel desiderio. Avrebbe voluto spalancare la porta, correre in salotto, lanciargli le braccia al collo e stringerlo forte.
Quanto sei stupido, John.
Quella lettera era una finzione. Sherlock l’aveva scritta per compiacere le shipper. Come lui aveva scritto la sua.
Ma io sono stato sincero. Forse lo è stato anche lui.
No, quell’idea non aveva senso.
E se fosse vero?
Provò una sgradevole sensazione di peso allo stomaco.
No, niente di tutto quello era vero, doveva ficcarselo in testa. La casa era un set, la lettera era una finzione. Tutto era finto.
Tranne noi. Io e Sherlock siamo veri.
Falso. Erano finti anche loro, recitavano.
Ecco cosa avrebbe fatto adesso: sarebbe andato in salotto e ci avrebbe scherzato su con Sherlock. La Prova d’Amore Numero Uno era conclusa e non aveva lasciato segni.
Non vi darò soddisfazioni, shipper.
John chiuse il laptop, si alzò con decisione e spalancò la porta.
Percorse il corridoio, ma ogni passo che faceva si sentiva meno sicuro. Arrivato in cucina lo vide e si bloccò.
Era seduto al tavolo del salotto, di spalle, di fronte a un laptop acceso. Guardava lo schermo. Stava rileggendo il suo piccolo, stupido elenco? Da quella distanza non distingueva nulla.
«Non stare lì impalato ad ammirarmi, John. Vieni.» Sherlock ruotò sulla sedia e fece un  ampio sorriso a John.
John si avvicinò.
Era in piedi a pochi passi da lui, ora, e riusciva a vedere lo schermo: sì, era la sua lettera. Cacciò le mani in tasca e alzò le spalle.
«Stavi passando al setaccio gli errori? Avrei dovuto fare un controllo ortografico?» disse abbozzando un sorriso.
«Stranamente non ce n’era nemmeno uno, di errore.» ribatté Sherlock «Oh, certo, lo stile non era dei migliori. Ma hai usato un solo punto esclamativo, bravo!» Sherlock tossicchiò e guardò John con un sorriso ironico: «Ecco, sto schiarendo la mia splendida voce che ti rassicura nei momenti bui.»
John rilassò le spalle e non riuscì a trattenere una breve ma sincera risata: Sherlock aveva appena citato una frase della lettera di John. E ci stava scherzando su.
Si sentiva finalmente tranquillo. Era una finzione. La lettera di Sherlock era una finzione. Altrimenti non avrebbe scherzato con tanta disinvoltura su quella faccenda.
«Ti ringrazio per quello che hai scritto, John.» disse Sherlock, serio.
John abbassò lo sguardo.
«No, grazie a te, Sherlock. La tua lettera era... era molto bella.»
Le shipper saranno soddisfatte del tuo lavoro, avrebbe voluto aggiungere. Non lo disse.
Sedette sulla sua poltrona e osservò tristemente il riflesso della luce simulata del tramonto sul pavimento.

***

Le utilissime note dell'autrice:
Buongiorno! Chiedo scusa a tutti quelli che seguono questa storia per il ritardo con cui ho pubblicato questo nuovo capitolo. La vita vera si è messa in mezzo e non ho avuto modo di mettere a posto un capitolo che era già scritto da un po' in forma di bozza, ma necessitava di revisione. Se non succede qualche catastrofe, il ritmo di pubblicazione dovrebbe tornare costante: un capitolo a settimana :)
Un grazie gigantesco a tutti i follower e ai commentatori: i vostri feedback mi spronano a continuare!

Note al testo:
1. No, John non ha improvvisamente deciso di dichiarare la propria irresistibile attrazione fisica per Sherlock, è il testo di una canzone dei Beatles. Per chi non l'avesse riconosciuta, si tratta di Something («Something in the way she moves / attracts me like no other lover»)

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


«Spogliatevi!» ordinò Midonz.
John rimase immobile per qualche istante, frastornato. Non era sicuro di aver capito bene.
Poi con la coda dell’occhio vide Sherlock che si toglieva la giacca. Si voltò di scatto verso di lui.
«Sherlock, non lo fare!» disse John «Come sarebbe a dire “spogliatevi”?»
«Spogliatevi,» disse Sherlock con voce piatta «toglietevi gli abiti, svestitevi, denudatevi»
«Sì, lo so cosa significa» rispose John tra i denti.
Sherlock sfilò la giacca con un gesto fluido e la lasciò cadere sulla poltrona: «Non abbiamo scelta, John»
Il pensiero di John corse a Harry.
«Questa volta è il turno di tua sorella, John» gli aveva detto Midonz. Sullo schermo a circuito chiuso John aveva visto una delle shipper togliere il cappuccio nero alla sorella legata a una sedia.
«Tua sorella morirà a meno che non superiate la prossima prova: dovrete dormire insieme, nello stesso letto»
John si era stupito della semplicità della richiesta, ed era quasi sbottato: «Solo delle menti perverse come le vostre vedrebbero qualcosa di pruriginoso in due amici che dormono nello stesso letto»
Oh, beata ingenuità. Pochi minuti dopo avevano aggiunto un particolare: avrebbero dovuto dormire nudi.
Harry. Povera Harry.
John aveva temuto che sua sorella potesse far parte del gruppo degli ostaggi e aveva cercato di prepararsi psicologicamente all’idea, ma vederla era stato comunque uno shock.
Lei era stata brava. Calma, controllatissima: voce distesa, niente lacrime. Aveva addirittura scherzato. «Se non ricomincerò a bere dopo questo, John, posso essere certa che continuerò a essere sobria fino alla morte» aveva detto ridendo. John avrebbe voluto ridere con lei, ma non ci era riuscito. Non era mai andato d’accordo con lei, entrambi erano teste calde. Lei non era andata nemmeno al suo matrimonio. Ma era sua sorella, e le voleva bene.

John si riscosse dai suoi pensieri. Doveva spogliarsi, quindi. Era vero, non avevano scelta. Sherlock si stava già sbottonando la camicia.
«Le shipper hanno poca fantasia: io avrei messo una colonna sonora sexy e ci avrei fatti esibire in uno strip tease» disse John cercando di sdrammatizzare, mentre si sfilava con riluttanza il maglione.
«Non parleresti così se avessi letto qualche fanfiction,» disse Sherlock sbottonandosi i polsini. «di fantasia ne hanno da vendere»
John guardò Sherlock con curiosità: «Non te l’ho ancora chiesto: perché ti sei messo a leggere fanfiction su di noi?»
«Tu non ne hai mai letta una?» chiese Sherlock levandosi i pantaloni.
«Non sapevo nemmeno che esistessero» John abbassò gli occhi leggermente imbarazzato, non solo dall’idea di una fanfiction che raccontava le loro immaginarie avventure sessuali, ma anche dalla visione di Sherlock in mutande.
L’avrai visto in mutande un migliaio di volte, pensò.
Ma mai davanti a un pubblico di depravate che esaminavano ogni loro minima reazione col microscopio. Gli sembrava quasi di sentire i loro urletti deliziati: uuuh, ha abbassato gli occhi! Uuuh, gli ha guardato le mutande!
«Lo sapevi che siamo la coppia slash con il maggior numero di fanfiction nella categoria Celebrities & Real People su Ao3?» proseguì Sherlock sedendosi sulla poltrona.
John rimase qualche istante frastornato dalle troppe informazioni incomprensibili. «Ok, ricomincia dall’inizio: slash? Ao3? Ma soprattutto... celebrities? Io e te?» ridacchiò divertito.
Sherlock fece uno sbuffo annoiato e si sfilò i calzini «Ao3 è il più grande portale di fanfiction del mondo. Slash... ma non te l’avevo già spiegato? Coppia dello stesso sesso»
John levò la camicia e rimase in maglietta. Ebbe un piccolo brivido di freddo. «E quante ne hai lette?»
«Oh, non saprei dirti il numero preciso...» disse Sherlock con aria di sufficienza «Un migliaio, credo»
John si bloccò a metà strada mentre si abbassava i pantaloni e rimase fermo accucciato per qualche secondo. Poi si rese conto della comicità della posizione e si raddrizzò.
«Un migl... che...?! Quante?!» disse con voce stridula.
«Sì, un migliaio. Forse qualcosa di più, non lo so. Ho perso il conto» Sherlock si sfilò la maglietta.
John mollò la presa sui pantaloni, che gli caddero ai piedi.
«Ho cercato di avere un’infarinatura su tutti i generi,» disse Sherlock «conoscere tutti i kink, spaziare tra i rating. Per mappare il fandom»
John provò per un attimo il desiderio di fare altre domande ma si trattenne. Decise che no, non voleva sapere come era mappato il fandom. Non voleva sapere quali fossero i generi. Tantomeno non voleva sapere cosa fossero i kink. I kink, diosanto!
Sherlock era rimasto in mutande. Se ne stava in piedi, a torso nudo in mezzo alla stanza in una posa plastica che ricordava quella del David di Michelangelo.
Ti prego fa che non ci costringano a togliere le mutande.
John non aveva mai visto Sherlock completamente nudo. Tutti quegli anni di convivenza e non l’aveva mai visto senza mutande. Tranne quella volta a Buckingham Palace. Ma era coperto da un lenzuolo, quindi non contava. Oh, aveva visto di sfuggita il suo sedere, quando Mycroft aveva appoggiato il piede su un lembo del lenzuolo. Il lenzuolo era calato e con quello il suo sguardo. Una visione fugace, pochi istanti, Sherlock si era ricomposto subito.
John sfilò la maglietta e rimase in mutante anche lui.
«Bene!» disse con un sorriso forzato. Strinse le spalle e si strofinò le braccia «Fa un po’ freddo»
«Oh, quello fa parte del piano, ovviamente» commentò Sherlock con la massima tranquillità.
John inclinò la testa: «Cos’è che fa parte del piano?»
«La temperatura» disse Sherlock guardando John con un’espressione che diceva non è la cosa più ovvia del mondo?
John si grattò una tempia: «Forse per te è la cosa più ovvia del mondo, ma non lo è per me»
Sherlock sollevò gli occhi al cielo e sospirò.
«Non hai notato gli impianti di refrigerazione nascosti dietro le pareti della mia stanza? Si intravedevano chiaramente da una fessura tra le pietre finte del set Bella Addormentata» spiegò Sherlock.
«Non li ho notati. E quindi?» lo incalzò John.
«Sono refrigeratori industriali che possono raggiungere temperature fino a 40 gradi centigradi sotto lo zero. A giudicare dalla temperatura che c’è qui in salotto scommetterei che nella mia stanza a questo punto ci sia già un bel clima frizzante»
«Ok» disse John «Ma perché vogliono farci morire di freddo? È una specie di tortura?»
Sherlock sorrise. «Le tazze da tè» disse.
«Cosa c’entra... quali tazze da te?» Chiese John mettendo le mani sui fianchi.
«Le tazze da te che ci sono in cucina. La fattura grezza dell’invetriatura indica che è una ceramica prodotta in una regione nordica. Una delle più famose autrici di fanfiction Johnlock vive a Nuuk, in Groenlandia. La sua opera più acclamata è una saga composta da quattro fanfiction e due spin-off che si intitola 750.000 fa, l’amore, in cui io e te siamo due uomini delle caverne che si innamorano l’uno dell’altro»
John spalancò la bocca per dire qualcosa ma era troppo incredulo per riuscire a parlare. Uomini delle caverne?!
«Non fare quella faccia, John. La fanfiction è ambientata in una sorta di era glaciale. Una delle scene più famose è la scena in cui io e te scopriamo di essere irresistibilmente e animalescamente attratti uno dall’altro... anzi è più corretto dire che tu scopri di essere irresistibilmente e animalescamente attratto da me. Il mio personaggio, dotato di un’intelligenza superiore, ha sempre saputo di essere irresistibilmente e animalescamente attratto da te»
«Animalescamente...» ripeté John come in trance, fissando il pavimento.
«Immagina la scena: durante le nostre indagini preistoriche su un assassino preistorico che semina il panico nella nostra tribù veniamo sorpresi da una tormenta di neve, ma fortunatamente troviamo riparo in una grotta» Lo sguardo di Sherlock si perse nella distanza. Riprese a parlare con un’enfasi apocalittica: «Il giovane Sher-duh-gah, i muscoli tesi per lo sforzo, le membra livide per il freddo, si dirige verso l’oscuro pertugio nella roccia, trascinando il quasi esanime Joh-nu-bor. Salverà l’amore della sua vita. A qualsiasi costo. Trovano riparo nell’oscurità, Sher-duh-gah avvince a sé il corpo del suo biondo fratello di caccia e lo cinge con le sue braccia possenti. Joh-nu-bor, la mente forse annebbiata dall’assideramento, si abbandona a quell’abbraccio»
John ridacchiò per l’esibizione drammatica di Sherlock: «Mmm, sì, credo di aver capito dove vogliono andare a parare.»
Sherlock proseguì la recita: «“Joh-nu-bor della nobile stirpe di Wat-zu”, dice Sher-duh-gah con le lacrime agli occhi, “so che ti fa orrore il contatto tra due corpi maschili, ma non ho altra scelta... tu stai morendo, fiero combattente dagli occhi di giada, e io non posso permetterlo. Il Dio Ghiaccio non strapperà via con i suoi artigli l’ultimo alito dalla tua bocca, io conosco un modo per sconfiggerlo, io... io...» Sherlock chiuse gli occhi, inarcò le sopracciglia e affondò i denti nel suo labbro inferiore, nella parodia di un’espressione addolorata «io ti scalderò con il mio corpo, Joh-nu-bor!»
John rise di cuore e applaudì. Poi realizzò che le shipper stavano per farli diventare i protagonisti di quella fanfiction e il sorriso gli morì sulle labbra.
«Spero solo che non ci faranno ripetere anche la scena successiva, in cui io uccido a mani nude una tigre dai denti a sciabola e infilo il tuo corpo quasi assiderato nel suo cadavere ancora caldo»
John decise di ignorare l’ultimo dettaglio orrorifico (una citazione di Star Wars?) e riepilogò la situazione, come l’aveva capita: «Quindi passeremo una notte nudi in una stanza spoglia arredata come una grotta preistorica? Senza neanche una coperta?»
«Se la scena è la stessa dovremmo avere delle pelli animali come giaciglio»
«Ovvio. Uomini preistorici, pelli animali» John si stupì della serenità con cui stava affrontando la situazione. «Bene!» si strofinò le mani «Andiamo a dormire allora?»
«Non state dimenticando qualcosa?» disse la voce petulante di Midonz.
John abbassò lentamente lo sguardo sulle sue mutande.
«No» disse «non potete costringerci a farlo»
«Certo che possiamo» «Certo che possono» dissero Midonz e Sherlock contemporaneamente.
«Gli slip sono stati inventati all’inizio del Novecento, non lo sapevi John?» continuò Midonz «Un po’ incoerente con l’ambientazione preistorica»
«Che ne dite di un costume da Fred Flinstone?» azzardò John.
Midonz rise «La risposta ovviamente è no. Ma non preoccuparti, nella grotta ci sono delle pelli, come ha correttamente intuito Sherlock»
Sherlock fece un sorrisetto compiaciuto.
John sospirò. «Ok» disse. Sospirò di nuovo.
Diede le spalle a Sherlock. Non sapeva dire se si vergognava più di mostrarsi nudo davanti alle shipper o davanti a lui. Il che era assurdo, a pensarci. Era il suo migliore amico, perché avrebbe dovuto vergognarsi di lui?
John abbassò le mutande con una mano e si coprì con l’altra. Scrollò la gamba per liberarsi dell’indumento, che gli era rimasto impigliato a un piede. Poi si voltò verso Sherlock, con le mani congiunte davanti all’inguine, aspettandosi di trovarlo nella stessa posizione.
I suoi occhi furono irresistibilmente attratti verso il basso e senza rendersene conto rimase per almeno dieci secondi con lo sguardo fisso sul pene di Sherlock. Che nonostante il freddo aveva delle dimensioni ragguardevoli, il che portò John a chiedersi come doveva essere in condizioni normali.
John fece una risatina nervosa, le mani sempre immobili a coprire il suo, di pene. Che per il freddo e l’imbarazzo si era ristretto alla dimensione di un fagiolino. John non ebbe il coraggio di togliere le mani e guardarsi, ma era certo che la densità del suo pelo pubico facesse sembrare il poveretto una piccola talpa cieca affacciata su un prato rigoglioso.
Sherlock era molto più glabro di lui, in quella zona: solo un timido ciuffetto di peli in zona pubica.
John! Sveglia John! Stai di nuovo guardando lì?
Sollevò lo sguardo con fare casuale e non riuscì a trattenere una seconda risatina.
«Direi che possiamo andare, adesso» disse Sherlock serio e apparentemente a suo agio.
Avrà notato i miei sguardi? pensò John.
Se non li ha notati lui, li avranno certamente notati le shipper.
«Ok» rispose infine John cercando di ricomporsi.
Sherlock gli diede le spalle e si avviò verso la camera. John gli guardò il fondoschiena. Era liscio, sodo e muscoloso.
Smettila di guardargli il culo!, si disse.
John seguì Sherlock, sforzandosi di tenere gli occhi alti.
Arrivati alla fine del corridoio Sherlock posò una mano sulla maniglia e si fermò. «Due o tre sotto lo zero, come prevedevo. Il metallo è ghiacciato ma le dita non rimangono attaccate, ciò significa che non è tanto freddo da riuscire a congelare la traspirazione della pelle» Abbassò la maniglia ed entrò, seguito da John.
Rimasero qualche istante fermi all’ingresso e si guardarono intorno. L’allestimento della stanza era esattamente come previsto da Sherlock: la simulazione di una grotta preistorica, con tanto di pitture rupestri, stalattiti di ghiaccio e neve ammonticchiata agli angoli. Al centro della stanza delle grezze pellicce marroni erano stese disordinatamente a terra. La scena era illuminata da una finta fiaccola incastonata nella parete.
Sherlock si massaggiò rapidamente le braccia per scaldarsi e John, che non voleva scoprirsi l’inguine, si strinse nelle spalle. Fu scosso da un violento tremito: il freddo pungeva dolorosamente sulla pelle.
«Be’, io non aspetterò oltre» disse John. Con passetti rapidi raggiunse le coperte, le sollevò e ci si tuffò in mezzo. Sherlock lo imitò e si stese alla sua destra. Il letto era gelido come il resto della stanza e John iniziò immediatamente a battere i denti.
Passarono qualche secondo a rigirarsi sullo scomodo giaciglio, cercando di coprirsi meglio possibile con le pelli. John fece attenzione a non toccare Sherlock. Cercò di stringere la coperta intorno al collo ma era troppo rigida e non si adattava bene alle forme del corpo.
«Non scoprirmi!» protestò Sherlock.
«Q-questa c-c-coperta n-non è m-molto utile» disse John tra un battito di denti e l’altro.
Sherlock era steso supino, e fissava il soffitto strofinando con forza le mani davanti alla bocca per scaldarle.
John si girò su un fianco e gli diede le spalle. Tirò le gambe verso il petto per cercare di sentire un po’ meno freddo, senza successo. John capì in quel momento che le coperte da sole non sarebbero state sufficienti a sconfiggere il gelo, ma fu Sherlock a esplicitare il pensiero: «John, è una questione di semplice logica di sopravvivenza. Per quanto detesti l’idea di darla vinta alle shipper, se non usiamo il calore dei nostri corpi per scaldarci a vicenda è molto probabile che il freddo abbia la meglio su di noi»
John non seppe cosa replicare: il suo cervello sembrava congelato tanto quanto il suo corpo. Fu ancora Sherlock, letteralmente, a rompere il ghiaccio: «Ci abbracciamo, John?»
John poté solo annuire.
Si girò verso di lui, ma Sherlock ebbe contemporaneamente la stessa idea e così, come due persone che si scontrano per caso passeggiando per strada, urtarono goffamente uno contro l’altro e si ritrovarono a guardarsi negli occhi a pochi centimetri di distanza.
John esitò qualche istante, come ipnotizzato dallo scintillio degli occhi di vetro che lo stavano fissando.
«Ehm...» disse infine John girando la testa di scatto.
«Forse...» disse Sherlock tornando in posizione supina «Forse è meglio... uhm...»
Per qualche istante aleggiò, pesante e silenzioso, il dilemma: sarebbe stato più imbarazzante abbracciarsi frontalmente o a cucchiaio? E in questo secondo caso, chi dei due avrebbe avuto l’onore di accucchiaiare l’altro? Sherlock risolse il problema, imponendosi: «Voltati, John»
John cercò di deglutire ma aveva improvvisamente la gola secca.
Si mise nuovamente sul fianco sinistro, con estrema lentezza. Sistemò le coperte, rannicchiò le gambe, incrociò le braccia davanti al petto. E attese.
Secondi che sembrarono lunghi minuti.
Fruscii alle sue spalle, le pellicce ondeggiarono e all’improvviso calò il buio: Sherlock aveva spento la lampada a forma di fiaccola. Poi, dopo pochi istanti, sentì il braccio freddo di Sherlock infilarsi sotto il suo. Rabbrividì al contatto.
«Le nostre temperature si normalizzeranno in fretta» disse lui come per tranquillizzarlo.
«O-ok» disse John. Il balbettio non era dovuto al freddo.
Sherlock incastrò le gambe dietro le sue e i loro corpi aderirono perfettamente.
«Bene» disse John.
Bene.
Cercò di non pensare al rigonfiamento che gli premeva sul fondoschiena.
Non ci doveva pensare.
Non doveva concentrare tutti i suoi pensieri su quel punto di contatto, quando c’erano infiniti altri punti di contatto a cui pensare. Il petto sulla schiena. Le ginocchia premute nell’incavo delle sue gambe.
Il mio fondoschiena appiccicato al...
LE GINOCCHIA NELL’INCAVO DELLE GAMBE! Le ginocchia John! Pensa alle ginocchia. Al suo piede tra i miei. La sua guancia... sul fondoschiena, dannazione, proprio lì?
LA GUANCIA! Pensa alla guancia sulla spalla! La guancia sulla spalla, il braccio sul petto... il braccio... sul fondoschiena.
NO! Non devo pensare al cazzo di Sherlock sul mio culo!
«Cerca di stare sveglio John, almeno finché non ci saremo scaldati abbastanza. Non lasciarti intorpidire dal freddo» disse Sherlock arginando il fiume di pensieri.
«Ok» disse John, che era sveglio come non mai. Si rese conto di avere il battito accelerato.
«Potresti raccontarmi qualcosa per tenerci svegli» aggiunse dopo qualche secondo.
«Mm» mugugnò Sherlock «Ad esempio?»
John rifletté per qualche momento ma i suoi pensieri continuavano a essere calamitati dal pene di Sherlock sul suo fondoschiena. Lo sentì sistemarsi dietro di sé e ci fu una breve frizione.
Uh!
John si sentì invadere da un’improvvisa ondata di calore. Buttò lì frettolosamente il primo argomento che gli venne in mente. «Parlami delle fanfiction!» disse con impeto forse un po’ eccessivo.
«Oh, le fanfiction. Sì. Credo di essere diventato abbastanza esperto in materia» disse Sherlock, con l’aria di chi stava parlando di qualche astruso argomento di interesse accademico. «Esperto sulle fanfiction che parlano di noi, ovviamente, le cosiddette Johnlock»
La voce profonda di Sherlock faceva vibrare la cassa toracica di John. Era in qualche modo piacevole e rilassante. John percepì che il battito del suo cuore si stava di nuovo calmando.
«Johnlock» commentò John «È un nome composto... come Brangelina?»
«Non so di cosa tu stia parlando»
«Brad Pitt e Angelina Jolie... i due attori... lascia perdere. Dicevi? Come gli è venuto in mente di farci diventare uomini delle caverne?»
«Non lo so. È una pratica piuttosto comune, quella di inserirci in contesti storici diversi. Siamo stati due patrizi dell’antica Roma, cavaliere e scudiero in una corte medievale... nobile e rivoluzionario durante la rivoluzione francese... in un’altra fanfiction ambientata in quel periodo io ero un ricco e sadico duca appassionato di bondage e tu un povero fornaio che aveva la sventura di essere investito dalla mia carrozza. Io mi innamoravo di te a prima vista, ti portavo al mio castello, ti chiudevo in una segreta e ti facevo scoprire quanto ti eccitava essere incatenato e frustato»
«Menomale che non siamo nati nel 1700» commentò John.
«Poi ci sono diverse storie ambientate nell’Ottocento. In una ero un poeta sturm und drang con problemi di dipendenza da oppio e tu un pianista malato di tisi, poi...» Sherlock continuò a descrivere altre fanfiction ma l’attenzione di John fu catturata da un piccolo, quasi insignificante movimento sotto le lenzuola: Sherlock stava spostando il dito indice avanti e indietro sul petto di John.
Cosa diavolo...?
«...due astronauti in missione verso Marte, ah, e poi ci sono i crossover in cui veniamo catapultati all’interno di storie di fantasia esistenti. Alcuni crossover sono talmente comuni che hanno un nome per definirli, ad esempio Wholock...»
Che cosa stava facendo? Sherlock continuava ad accarezzargli il petto con l’indice. Era un gesto che sembrava così intimo, John fu nuovamente pervaso da una sensazione di calore e sentì lo stomaco contrarsi. Represse un sospiro.
Il dito di Sherlock si fermò.
«...e quel ridicolo mago con gli occhiali...»
L’indice riprese a muoversi. Tracciava delle linee sulla sua pelle. Quel contatto lo stava facendo impazzire, ma si sentiva come paralizzato, non riusciva a trovare la forza di bloccarlo. Il rumore del suo stesso sangue che pompava gli riempiva la testa.
Di nuovo, dopo qualche secondo, Sherlock si fermò, l’indice premuto contro il suo sterno. Fece anche una pausa nel discorso, come per sottolineare l’immobilità. Dopo un po’ ricominciò a parlare e il suo dito si mosse per la terza volta.
John ebbe l’impulso di afferrare la sua mano per fermarlo, ma proprio mentre stava per muoversi si rese conto di una cosa: il dito seguiva sempre gli stessi percorsi. Sembravano quasi dei disegni, sembravano...
Lettere dell’alfabeto!
John si sentì improvvisamente uno stupido. Sherlock stava cercando di comunicare con lui all’insaputa delle shipper. Cosa gli era saltato in mente? Come aveva potuto pensare che potesse esserci un motivo diverso?
Stupido, stupido, stupido!
Il dito di Sherlock riprese a muoversi per la quarta volta e John fece attenzione.
J-O-H-N  R-I-C-E-V-I  ?
John non riuscì a trattenere un debole sorriso. Raggiunse con la sua mano la mano di Sherlock e gli scrisse sul dorso: S-Ì.
«Ma le più bizzarre sono le omegaverse» disse Sherlock.
«Omegaverse?» chiese John fingendo interesse, in attesa che Sherlock ricominciasse a scrivere.
«È un universo alternativo in cui in parole povere facciamo sesso come i cani...»
John ebbe appena il tempo di inorridire mentalmente alle parole “sesso come i cani” quando Sherlock, continuando nel frattempo a parlare ad alta voce, gli scrisse sul petto. A-T-T-E-N-T-O  T-E-L-E-C-A-M-E-R-E  I-N-F-R-A-R-O-S-S-I.
O-K, scrisse John. Sherlock gli stava dicendo di stare attento a come reagiva con la mimica facciale, per non far capire alle shipper che stavano comunicando in segreto.
H-O  U-N  P-I-A-N-O, scrisse Sherlock.
John rispose: S-P-I-E-G-A.
Passò qualche secondo, durante il quale John percepì distintamente nel confuso blaterare la parola “autolubrificante” poi Sherlock riprese a scrivere.
D-E-V-I  I-N-N-A-M-O-R-A-R-T-I  D-I  M-E.
John si rese conto di avere occhi e bocca spalancati per la sorpresa.
Merda! Le telecamere a infrarossi!
Doveva motivare in qualche modo la sua faccia sorpresa. Aveva colto le ultime parole pronunciate a voce da Sherlock, “nodo al pene”, e finse che lo stupore improvviso fosse dovuto a quello. «Come sarebbe a dire nodo al pene?» chiese.
«Non lo sai che i cani si annodano quando si accoppiano? Nelle fanfiction succede...»
D-E-V-I  I-N-N-A-M-O, stava ricominciando a scrivere Sherlock, ma John lo interruppe: C-O-S-A  S-I-G-N-I-F-I-C-A  ?
S-P-I-E-G-A-Z-I-O-N-E  T-R-O-P-P-O  L-U-N-G-A scrisse Sherlock. Poi, dopo una breve pausa: D-E-V-I  F-I-N-G-E-R-E  D-I  I-N-N-A-M-O-R-A-R-T-I. Fece un’altra pausa, John non seppe cosa rispondere. La voce di Sherlock gli rimbombava nelle orecchie, ma John non sentiva le parole che stava pronunciando ad alta voce. Gli sembrava quasi che stesse dicendo quello che aveva solo scritto sul suo petto: Devi innamorarti di me. Devi innamorarti di me.
Sherlock ricominciò: F-I-D-A-T-I  D-I  M-E.
John non esitò a rispondere: M-I  F-I-D-O  D-I  T-E.
D-O-M-A-N-I  C-H-I-E-D-E-R-Ò  D-I  P-A-R-L-A-R-E  D-A  S-O-L-O  C-O-N  M-I-D-O-N-Z scrisse Sherlock, P-R-O-T-E-S-T-A  U-N  P-O’  M-A  A-L-L-A  F-I-N-E  L-A-S-C-I-A-M-I  S-O-L-O.
C-O-S-A  L-E  D-I-R-A-I ? scrisse John.
S-P-I-E-G-A-Z-I-O-N-E  T-R-O-P-P-O  L-U-N-G-A.
John sospirò. Doveva fidarsi e basta. O-K.
Sherlock strinse per qualche istante le dita di John, come per rassicurarlo, e posò il palmo della mano sul suo petto.
«Per non parlare del tentaclelock» disse Sherlock, che evidentemente aveva finito di disquisire di accoppiamenti canini.
La mano di Sherlock rimase appoggiata lì, sul petto di John, all’altezza del cuore.
Lo strano dialogo sotto le coperte era finito e Sherlock non gli aveva dato alcuna spiegazione.
Del resto era un modo di comunicare molto lento, e le shipper avrebbero potuto accorgersi che il vero argomento della loro conversazione non erano le fanfiction pornografiche e c’era un’altra discussione che stava avvenendo su un altro canale.
Sherlock continuava a parlare, ma John sentiva solo un rumore indistinto, come il rimbombo di un tuono lontano. Era troppo concentrato su quello che gli aveva scritto: devi innamorarti di me.
Mille domande gli ronzavano in testa: quale poteva essere il piano di Sherlock? Battere le shipper anticipando le loro mosse? Ma che senso aveva? Forse Sherlock sperava che nel momento in cui si fossero finti innamorati li avrebbero lasciati andare. Ma perché voleva comunicare con Midonz in privato? Certamente voleva chiederle qualcosa. Ricattarla in qualche modo. Chissà cosa aveva dedotto sulle shipper dalle conversazioni, dall’incontro al Comicon, dal modo in cui avevano allestito i set in cui erano costretti a vivere. John non aveva dedotto nulla, se non che fossero delle pazze pervertite con grandi mezzi a disposizione.
John si sentiva la testa pesante. La temperatura sotto le coperte era diventata accettabile e lui si sorprese a pensare che stava bene. Che il contatto tra i loro corpi non gli dava fastidio.
È bello essere abbracciati da qualcuno, pensò.
Sherlock continuava a parlare, con la sua voce profonda.
«...determinate nel volerci vedere insieme...» percepì John.
«Insieme...» riecheggiò.
«Sì, insieme» disse Sherlock.
«Mm. Continua a parlare, Sherlock» quasi non gli sembrò di essere stato lui, a pronunciare quelle parole. Il suo corpo era lì, ma la sua mente era già per metà nel mondo dei sogni.
Sherlock ricominciò a parlare. La sua voce era così...

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Le utilissime note dell'autrice
Mantenere il ritmo di un capitolo a settimana è più arduo di quel che pensassi, sforo sistematicamente la scadenza ^^'
Va be', questa volta comunque l'ho sforata solo di pochi giorni. Chi già seguiva la storia forse ha notato che ho alzato il rating da giallo ad arancione, per via della scenetta di nudità e i timidi contatti fisici descritti nel capitolo. Rosso mi sembrava eccessivo, visto che non ci sono descrizioni sessuali esplicite, ma è la prima storia che pubblico su EFP e quindi potrei aver sbagliato con questa decisione, se volete segnalarmelo nei commenti/recensioni o in messaggio ogni buon consiglio è ovviamente il benvenuto.
Ultima nota sulla finta fanfiction che racconta le avventure di Sher-du-gah e Joh-nu-bor (bei nomi, eh? sembrano usciti dal manuale di nomi fantasy di Ronald Chevalier... e se sapete chi è Ronald Chevalier sappiate che vi voglio molto bene). Il titolo della fanfiction, forse lo sapete, è il titolo di una canzone del Banco del Mutuo Soccorso... sì, lo so che in Groenlandia nessuno conosce il Banco del Mutuo Soccorso, ma mi sembrava un titolo perfetto e non ho resistito alla tentazione di usarlo. Chiedo scusa a tutti i fan del Banco per l'uso improprio di una loro bellissima canzone :P

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Il velociraptor era a pochi metri da John, ancora qualche secondo e gli sarebbe stato addosso.
All’improvviso Sherlock spuntò da dietro una roccia con un pugnale di selce nella mano. Il tempo rallentò e John potè ammirare per qualche istante il suo fisico scolpito. Il suo corpo nudo era coperto solo di un minuscolo perizoma leopardato.
Sherlock balzò sul velociraptor e gli squarciò la gola con la selce affilata, salvando John da una morte certa.
«Sherlock!» esclamò John correndogli incontro. Sherlock, lucido di sudore e sangue spalancò le braccia e i due si strinsero in un abbraccio. Poi si baciarono con passione.
«Oh, John! Questa volta ho davvero temuto di perderti» disse Sherlock con la voce quasi rotta dal pianto.
I due si guardarono intensamente negli occhi.
«Se tu fossi morto non me lo sarei mai perdonato. Perché io ti...»
L’ultima parola di Sherlock fu coperta da un forte squillo.
«Tu mi...?» lo incalzò John col cuore in gola.
«Io...»

Il secondo squillo svegliò bruscamente John. Portò una mano davanti agli occhi, infastidito dalla luce vivida.
Che razza di sogno...
John era steso su una superficie dura. Dura e fredda. Una lieve brezza fresca gli scompigliava i capelli.
Un telefono squillava da qualche parte, ma John era troppo sbalordito per badarci.
«Dove mi trovo?» si chiese ad alta voce.
Strizzò gli occhi e scrollò la testa. Sbatté le palpebre un paio di volte. La luce della scena si fece meno intensa man mano che i suoi occhi si abituavano. Il telefono smise di squillare.
Inclinò la testa all’indietro e vide un cielo grigio uniforme sopra di sè. Si alzò in piedi e si guardò intorno: si trovava in alto, sul tetto di un edificio.
Strinse la radice del naso tra pollice e indice e cercò di concentrarsi. Le ultime cosa che ricordava erano il gelo pungente, la stanza allestita come una grotta preistorica e il corpo nudo di Sherlock avvolto attorno al suo. A quel pensiero il suo cuore ebbe un sobbalzo. Si era addormentato tra le braccia di Sherlock, completamente nudo, entrambi prigionieri di un gruppo di serial killer e si era svegliato da solo, rivestito di tutto punto, apparentemente libero, sul tetto di un edificio.
Il suo pensiero corse a Sherlock. Non era sul tetto con lui. Dove si trovava? E perché li avevano separati? Cosa avrebbe dovuto aspettarsi stavolta da quelle maledette shipper?
Proprio in quel momento il telefono ricominciò a squillare. Si voltò in direzione del suono e lo vide, posato a terra a pochi metri da lui.
Lo afferrò e rispose.
«Ciao John» disse Midonz.
«Dove mi avete portato?» chiese subito lui «Dov’è Sherlock?»
«Guarda in strada, John.»
John si avvicinò al parapetto con le gambe che gli tremavano leggermente e gli ci vollero solo pochi istanti per riconoscere quel luogo familiare.
«Il Saint Barts...» sussurrò sentendosi mancare il fiato. Si trovava sul tetto dell’ospedale. L’ospedale dove aveva fatto praticantato da ragazzo, l’ospedale dove lavorava Molly Hooper.
L’ospedale dove Sherlock aveva inscenato il suo suicidio.
Guardò in basso e riconobbe il parcheggio delle ambulanze da dove aveva assistito alla caduta di Sherlock.
Nonostante ora sapesse che era stata una finzione, ripensarci gli causava ancora sofferenza. Lo shock che aveva provato era stato troppo intenso e profondo per poterlo dimenticare.
«Guarda bene, John, riesci a distinguere quella piccola figura accanto al palo della luce dall’altra parte della strada?»
John socchiuse gli occhi: non riusciva a vedere i connotati del viso, ma il cappotto nero lungo e l’inconfondibile taglio di capelli erano quelli di Sherlock.
«Lo riconosci?» incalzò Midonz.
«È Sherlock? È davvero lui? Cosa ci fa lì?»
Un brivido freddo lungo la schiena.
«John, questa prova sarà diversa dalle altre. Questa sarà la prova finale.»
John deglutì. «Che intendi dire?» John ripensò alla sera prima, alla conversazione nascosta tra lui e Sherlock sotto le lenzuola: Sherlock gli aveva scritto dei messaggi sulla pelle. Le shipper li controllavano ventiquattr’ore su ventiquattro con delle telecamere nascoste e Sherlock aveva ideato quel metodo per comunicare segretamente con lui. Forse le shipper se ne erano accorte e li stavano punendo.
«Non sei stupido, John.» disse Midonz al telefono «Credo non ti sfugga il fatto che le parti sono invertite rispetto al giorno in cui Sherlock si è buttato dal tetto dell’ospedale davanti ai tuoi occhi.»
Volevano farlo buttare di sotto? John scartò quell’ipotesi. La prova doveva essere un’altra. Le shipper non volevano fare del male a lui e Sherlock. O almeno così avevano detto.
John vide Sherlock agitarsi. Ma i suoi movimenti erano frenati, sembrava legato al palo dietro di lui.
«Si sa poco di cosa è successo precisamente in quella giornata, sulla stampa sono uscite tante ipotesi, e c’è ovviamente il racconto di Sherlock pubblicato online da Philip Anderson. Che, tra parentesi, sta benissimo ed è tornato a casa come vi avevamo promesso.»
«Va’ avanti» la esortò John. Nel frattempo non staccava un attimo gli occhi da Sherlock, che sembrava essersi calmato.
«La ricostruzione pubblicata da Anderson è verosimile ma ha dei punti deboli. Sospettiamo che Sherlock abbia glissato su alcuni aspetti della storia, forse per timore delle conseguenze legali che avrebbero potuto esserci per i suoi complici, per chi l’ha aiutato. Ciò che sappiamo di certo è che tu non eri un complice, tu non ne sapevi niente, l’hai creduto morto per due anni. Sappiamo anche che c’è stata una telefonata, tra voi due, poco prima che si buttasse. L’ultima telefonata. Ne hai parlato con la dottoressa Thompson, ma non le hai mai raccontato cosa vi siete detti»
«Avete rubato le cartelle della mia psicoterapeuta?» sbottò John.
«Cosa ti ha detto Sherlock?» continuò Midonz, ignorandolo. «È stata una dichiarazione d’amore, vero?»
«Voi... tu... non...» John era talmente furioso che non riusciva ad articolare il discorso «Le sedute psicoterapeutiche dovrebbero rimanere segrete!»
Midonz sbuffò. «Puoi stare tranquillo, John, siamo delle persone riservate. Non andremo a spiattellare in giro quello che abbiamo scoperto su di te. Nessuno saprà della tua fissazione erotica per le mutande rosse.»
John si passò una mano sulla fronte esasperato: non ricordava di aver mai parlato con Ella Thompson della sua passione per le mutande rosse.
«Torniamo alle cose serie, John. Cosa vi siete detti in quella telefonata?»
«Non sono affari vostri» rispose secco John.
Ci fu qualche istante di silenzio.
«Va bene. Capisco. Non vogliamo portarti via quel ricordo con la forza: se non vuoi raccontarlo non importa. Possiamo immaginare e l’immaginazione a volte è meglio della fantasia.»
Midonz fece un’altra pausa, come per lasciare a John il tempo di sbollire la rabbia. Poi riprese a parlare. «Ieri sera, costringendovi al contatto fisico diretto, eravamo certe che vi sareste lasciati andare alla passione più sfrenata»
John roteò gli occhi.
«Non è andata così. È stato un momento molto tenero, certo, ma abbiamo capito una cosa: il blocco psicologico che vi impedisce di amarvi è troppo grande, e non riuscirete mai ad abbatterlo. Perciò abbiamo preso una sofferta decisione: questa storia sta per diventare una deathfic»
John cercò di dare un significato a quella parola. «Deathfic? Morte? Cosa volete dire?» chiese con il respiro che si faceva più affannato. Il suo sguardo corse di nuovo a Sherlock giù in strada.
«Una deathfic è una fanfiction in cui muore uno dei protagonisti»
John si sentì quasi venire meno.
«No» disse. Scosse la testa con vigore. «Non ci casco. Mi avete detto che ci adorate. Che non volete farci del male. Dov’è il trucco? Devo fingere di suicidarmi? Devo buttarmi su un materasso come ha fatto lui?» John guardò giù dal parapetto. Decine di metri più in basso c’era solo il marciapiede. Nemmeno l’ombra di un materasso per attutire l’eventuale caduta.
«Non è uno scherzo, John» la voce di Midonz era gelida e impassibile «Il finale che noi shipper vogliamo non ci sarà mai. Ci abbiamo messo un po’ a capirlo, ma alla fine l’abbiamo accettato. Quindi abbiamo deciso di farvi un regalo: un finale epico, drammatico, degno di Romeo e Giulietta. Dimostrerai il tuo amore a Sherlock sacrificandoti per lui»
Le mani di John erano talmente deboli e sudate che il cellulare gli scivolò. Riuscì ad afferrarlo prima che cadesse a terra e lo portò nuovamente vicino all’orecchio.
«No...» disse debolmente «Ci deve essere un trucco, io...»
«Non ci saranno reti di salvataggio, John. Nessun trucco. Ora guarda Sherlock» John spostò gli occhi su di lui. Aveva due persone accanto, forse si erano accorte che era legato al palo, l’avevano visto agitarsi.
Due colpi secchi risuonarono nell’aria e quelle persone caddero a terra, una dopo l’altra.
Sherlock ebbe un violento sussulto. John portò una mano alla bocca.
I pochi passanti che stavano nei paraggi fuggirono seguendo percorsi confusi. Da quella distanza sembravano topolini impazziti.
«Un cecchino...» mormorò John.
«Un cecchino dalla mira infallibile, John. Un cecchino che hai già visto all’opera al Comicon.»
L’omicidio di Moffat, pensò John, la ragazza col visore a infrarossi.
«Quel cecchino tiene di mira Shrlock e lo farà secco se non eseguirai i nostri ordini. Devi sacrificarti per lui, devi buttarti di sotto. Lo farai?»
John raddrizzò le spalle e unì i tacchi delle scarpe, come se volesse mettersi sull’attenti «Sì» disse infine. «Sì. Certo che lo farò»
«Puoi parlare con lui, adesso. Puoi dirgli addio»
«John!» la voce di Sherlock uscì distorta dal cellulare «Non lo fare! Non azzardarti a farlo!» John lo vedeva agitarsi giù in basso.
«Sherlock...»
«No! Stammi a sentire! Ascoltami!» c’era del panico nella sua voce «Ci deve essere un’altra soluzione. E se non c’è voglio morire io, lascia che mi sparino»
John si sentì invadere da una rabbia cieca «Non dire stronzate, Sherlock!» gridò «Non. Dire. Stronzate. Non ti lascerò morire di nuovo. Non sono disposto a soffrire un’altra volta come ho sofferto. Non essere egoista! Tu non hai idea... tu...»
«La soluzione è far soffrire me?» sbraitò Sherlock. John non l’aveva mai sentito tanto furioso.
«Pensa a qualcosa, Sherlock. Tu trovi sempre una soluzione» disse John quasi in lacrime.
«John...» disse Sherlock stancamente.
John si sentì mancare le forze. Si appoggiò al parapetto.
«Sherlock... dimmi che è uno scherzo. Dimmi che hai organizzato tutto tu per... per...»
«Per fare cosa? Per costringerti a dirmi che mi ami? Hai così poca considerazione di me?»
«Una volta mi hai fatto credere che stavamo per morire, solo per farmi dire che ti perdonavo. Te lo ricordi?» John fece una risatina isterica. Sherlock, dall’altra parte della linea, rispose alla risata con uno sbuffo che sembrava quasi divertito.
«Sì. È vero. Oh, sono una persona orribile» Sherlock rise. Una risata folle, disperata. «Ma stavolta no, John, te lo giuro. Non c’entro niente. E non vedo vie d’uscita. Sono ammanettato a questo palo sotto tiro di un cecchino. Anche se riuscissi a liberarmi mi sparerebbero dopo due passi, John. E forse... forse sarebbe la cosa migliore»
«Non lo dire!» gridò John.
Rimasero per qualche istante in silenzio. Poi John salì sul parapetto.
«No! John, ti prego no!» gridò Sherlock.
«Sherlock...» disse John. Si sentiva stranamente calmo. Stava per morire e si sentiva calmo.
«Lo sai cosa succederà se ti butterai, vero?» disse Sherlock.
«Mi sfracellerò al suolo» rispose John osservando il marciapiede. Fu colto da un lieve senso di vertigine.
«E anche il mio cuore si sfracellerà»
«Il tuo cuore?» disse John accennando un sorriso. «Quale cuore? Dici sempre di non averne uno»
«Non mentivo, John. La lettera. Era tutto vero. Io...»
John lo interruppe. «So che ci tieni a me, Sherlock. Me l’hai dimostrato tante volte. Troppe volte» Si morse un labbro pensando a quando Sherlock aveva ucciso Magnussen, rinunciando a tutto, a tutto! solo per mettere al sicuro lui e Mary «Adesso è il mio momento di dimostrare che ci tengo a te»
«No! Ascoltami, John! Dire che ci tengo a te è un eufemismo. Io...»
«Zitto Sherlock!» John lo interruppe di nuovo «Non dire altro. Non voglio sentire altro»
«Non posso lasciarti morire, John» disse Sherlock con voce tremante.
«Zitto ho detto!» sbraitò John «Smettila di trattarmi come una damigella in pericolo. Non sono la tua damigella in pericolo, sono stufo di essere salvato da te. La devi smettere di sacrificarti per me» John ansimava per la rabbia.
Poi guardò il marciapiede sotto di sé.
Doveva farlo. L’avrebbe fatto. Sherlock avrebbe sofferto, sì. Ma si sarebbe ripreso, aveva Mycroft e due genitori che lo adoravano. Aveva Molly e Mrs. Hudson e Lestrade. Sherlock doveva vivere.
E pensare che solo poche ore prima Sherlock gli aveva detto di avere un piano per fuggire. John sorrise per la crudele ironia. Sentì le lacrime salirgli agli occhi.
«Non guardare, Sherlock» disse John.
«Non farlo...» disse Sherlock senza convinzione.
«Ho deciso, ormai»
«No!» gridò Sherlock.
«Addio, Sherlock»
Il marciapiede dove si sarebbe sfracellato era deserto. John lasciò cadere il cellulare oltre il parapetto: dopo qualche secondo toccò il suolo e si ruppe in mille pezzi. John rabbrividì pensando che sarebbe successa la stessa cosa a lui.
Guardò Sherlock un’ultima volta. Ora che aveva gettato il cellulare probabilmente le shipper non lo stavano più ascoltando.
«Mi dispiace, Sherlock. Io...» avrebbe voluto dire ancora qualcosa. Qualcosa che non aveva mai avuto il coraggio di dire. Qualcosa che non avuto il coraggio nemmeno di pensare.
Non lo disse. Chiuse gli occhi. Trattenne il fiato. E saltò.
 
John spalancò gli occhi urlando.
Si afferrò il petto, una fitta di dolore gli attraversò ogni cellula del corpo.
Adrenalina. Sangue e adrenalina.
Terrore. Freddo. Gelo. Un brivido.
Un lettino chirurgico.
Elettrodi. Fili e tubi che penetravano nel suo corpo.
John ne strappò una manciata.
I suoi sensi erano iperattivi. La luce era bianca, violenta, gli riempiva gli occhi, i suoni cristallini. Riusciva a percepire ogni piccolo rumore: il suo respiro forsennato, il cuore che sembrava volergli rompere il costato, un ronzio elettrico, la frizione tra la sua pelle e la pelle del lettino su cui era steso. Ora seduto.
Strappò altri fili. Solletico sotto i polpastrelli, la pelle sudata che si appiccicava. E freddo, tanto freddo. Sudore freddo.
«Cosa è successo?» la voce eruppe dalla sua gola come un singhiozzo. «Sono morto? No, non sono morto!» John ansimava pesantemente. «Dove mi trovo?» John faticava a parlare tra un respiro e l’altro. Era senza fiato. «Sherlock dov’è?»
I suoi muscoli erano tesi allo spasimo.
Scese dal lettino e strappò con rabbia i fili che erano rimasti attaccati al suo corpo. Vide qualche rivolo di sangue scorrergli dai punti in cui lo strappo era stato più violento. La sua sensibilità tattile era acuita, ma nonostante ciò non provava il minimo dolore per le ferite. Si guardò e si tastò: aveva indosso un camice da paziente, uno di quelli con l’allacciatura sulla schiena. Sotto il camice era completamente nudo.
Gridò. Un grido inarticolato. Sentiva il bisogno di sfogare in qualche modo tutta l’energia che gli bruciava nelle vene.
Si trovava in una minuscola stanza buia e spoglia, ad eccezione del lettino chirurgico e di un gigantesco macchinario da cui fuoriuscivano i fili che erano stati attaccati al suo corpo. La scena era illuminata solo da una lampada chirurgica puntata sul lettino.
Raggiunse barcollando la porta della piccola stanza e l’aprì con un gesto nervoso.
Sul salotto di Baker Street. La replica del salotto.
Ancora in prigione...
Quasi cadde a terra investito da un corpo che lo strinse con tanta forza da soffocarlo.
«John! John!»
Era Sherlock.
John era troppo sconvolto. Non rispose all’abbraccio e si lasciò stritolare per qualche secondo, smarrito. Sherlock si allontanò come per esaminare John, tenendolo per le spalle. I suoi occhi si muovevano spasmodicamente senza fermarsi per più di mezzo secondo sullo stesso punto. Le sue pupille erano talmente dilatate da far sembrare neri i suoi occhi azzurri. La sua fronte era imperlata di sudore.
«Ci hanno drogati, John» disse. Deglutì. «Riconosco i sintomi. Ci sono passato tante volte»
«È stata... solo un’allucinazione?» chiese John incredulo.
«No!» disse Sherlock. Lasciò le spalle di John e si mise a camminare avanti e indietro con furia. «No, no, no! Hai visto gli elettrodi e gli aghi sottocutanei?» smise di camminare «Allucinazioni indotte. Mycroft me ne aveva parlato. Una nuova tecnologia sperimentale. Una specie di realtà virtuale a immersione totale.»
John prese la testa tra le mani. Si accasciò a terra. Si sentiva allo stesso tempo pieno di energie e mortalmente spossato. Avrebbe voluto strapparsi la pelle di dosso.
«Non è possibile...»
«Ci hanno iniettato un cocktail di sonniferi e alcaloidi. E ci hanno svegliati con un’iniezione di adrenalina.»
John scosse lentamente la testa.
«L’ipersensibilità!» proseguì Sherlock «Tutto è più brillante, più vivido, i suoni più distinti... lo noti anche tu?»
«Sono gli alcaloidi?» chiese John che iniziava a credere a quella storia dai contorni fantascientifici.
«Sì, gli ultimi effetti. Entro qualche minuto dovrebbero svanire. Gli effetti dell’adrenalina, invece, dovrebbero già essere in remissione.»
Come a confermare quanto detto da Sherlock John si stese sul pavimento, in preda a un’improvviso attacco di debolezza. Le forze lo stavano rapidamente abbandonando.
«Quindi è stato... una specie di sogno?»
«Con scenario indotto. Eravamo entrambi nello stesso luogo, John. Tu vedevi me sulla strada, io vedevo te sul tetto...» Sherlock chiuse gli occhi e prese un respiro «...sul tetto dell’ospedale. Credevo fosse vero.»
«Come è possibile? È assurdo, non esiste una tecnologia simile.»
«Nessuno sa che esiste. È una tecnica di stimolazione cerebrale tramite elettrodi programmati da un software.»
«Ma è... Matrix? Inception?» disse John incredulo.
«È una tecnologia ancora imperfetta. Per questo solitamente vengono somministrati degli allucinogeni, per far sembrare tutto più vivido, per confondere il soggetto e non fargli capire che si tratta di una simulazione indotta. Pensaci. Ricordi particolari specifici? Ricordi come era fatto il cellulare con cui mi parlavi?»
«Era il mio cellulare, me lo ricordo bene.»
«Potrebbe essere un falso ricordo. Oppure la tua mente nell’allucinazione ha ricostruito la forma che le era più familiare. Ricordi me?»
«Eri distante, non ti vedevo bene.»
«Esattamente. È difficile visualizzare mentalmente un volto umano in modo preciso, e le sensazioni che i computer sono in grado di trasmettere ai nervi ottici sono ancora grossolane, sono lontane dal livello di dettaglio necessario alla ricostruzione tridimensionale perfetta di un volto. Anche per questo hanno scelto di metterci distanti. Dannazione!» Sherlock sedette a terra accanto a John e battè un pugno sul pavimento, con rabbia. «Dannazione, avrei dovuto capirlo! Tutto era vago, la strada, le due persone che mi sono venute vicino... ma io ero troppo concentrato su di te per notarlo. Io riconosco sempre un sogno, quando mi ci trovo dentro. Sono capace di pilotare i miei sogni. Ma questo no! Mi sono fatto ingannare come un pivello qualunque.»
«Mi sono fatto ingannare anch’io Sherlock. Eravamo drogati.»
«Ma tu non sapevi dell’esistenza di questa tecnologia. Io sì. E non ci ho pensato, non mi è passato nemmeno per la mente, me ne stavo lì come uno stupido a guardarti e credere che stessi per morire.» la voce di Sherlock era piena di amarezza.
«Ma come è possibile che quelle psicopatiche siano entrate in possesso di questa tecnologia sperimentale?»
«Le nostre shipper hanno dei contatti governativi. E non sono contatti qualunque.»
«Pensi che una di loro possa essere un membro del parlamento o qualcosa del genere?»
«No, no» Sherlock scacciò quell’ipotesi con un gesto della mano «Più verosimilmente nei servizi segreti, inglesi o americani. Hai sentito l’accento di Midonz, lei è americana. Sono un gruppo internazionale.»
John provò a mettersi a sedere e la testa ricominciò a girare.
In quel momento John ricordò il sogno che stava facendo prima di svegliarsi nell’allucinazione.
«Ora capisco.» disse John sorridendo «Mi sembrava strano, in effetti. Io non faccio mai sogni del genere.»
Sherlock guardò John con un’espressione perplessa.
«Il sogno preistorico!» disse John «Anche quello era un’allucinazione indotta, no? Figuriamoci se potrei mai sognare te in perizoma leopardato! Era chiaramente una fantasia malata di qualche shipper.»
«Uhm» disse Sherlock abbassando lo sguardo. Sembrava leggermente imbarazzato. «Be’, uhm. Forse...» si grattò la testa «Non so, io non c’ero, in quel sogno.»
«Oh» disse John «Strano. Davvero non ricordi nulla? Tu che mi salvi dal dinosauro. E poi ci siamo persino baciati, ahah! Sopra al cadavere di un dinosauro! Certo, le shipper dovrebbero cercare di mantenere almeno un po’ di coerenza storica nelle loro fanfiction, umani e dinosauri non sono mai coesistiti.»
Sherlock aprì la bocca per parlare. Poi la richiuse. Poi si grattò la testa. Poi mugugnò. Alla fine si decise a parlare. «Sai John... a quanto ne so con questa tecnologia non è ancora possibile sottoporre il cervello a più scenari indotti consecutivi.»
John impiegò qualche secondo a capire le implicazioni di quella affermazione.
«Oh» disse infine «Quindi...»
Non ebbe il coraggio di terminare la frase: quindi aveva davvero sognato Sherlock che lo baciava. Tutto nudo in perizoma leopardato.
E lo aveva appena candidamente confessato a Sherlock.
E alle shipper.
Voleva sprofondare nel pavimento e non riemergere mai più.
«Ma è molto probabile che ci siano stati degli avanzamenti tecnologici» proseguì Sherlock con fare quasi indifferente. Quasi indifferente. «Sì, probabilmente adesso possono farlo. Probabilmente era uno scenario indotto.»
«Sì» disse John. Il suo tono di voce era più acuto del normale. Si schiarì la gola. «Sì» ripetè con un tono di voce normale «Deve essere così.» ridacchiò, come per minimizzare la cosa.
Sprofondare nel pavimento.
«È possibile avere degli strumenti diagnostici?» chiese John cambiando argomento. Guardò il soffitto. «Io e Sherlock abbiamo bisogno di un check-up dopo quello che ci avete servito per colazione.»
La risposta di Midonz impiegò qualche secondo ad arrivare ed era decisamente allegra.
«John, non preoccuparti di nulla, tu e Sherlock state benissimo. Mentre eravate immersi nella realtà virtuale abbiamo monitorato le vostre attività cardiache e cerebrali e i principali valori sanguigni. Tutto era perfettamente compatibile con uno stato di alterazione controllata. Non avete difetti congeniti che possano portare complicazioni. Tutto ciò che dovete fare e mantenervi idratati e assumere quanto prima il cocktail di vitamine e sali minerali che potete trovare sul tavolo della cucina.»
John scosse la testa incredulo. Si preoccupavano per loro, che tenere! Notò che non aveva commentato la faccenda del sogno preistorico e non sapeva se essere sollevato o inquietato dalla cosa.
«È stato bellissimo John.» aggiunse Midonz con voce quasi commossa «Spero che questa esperienza traumatica vi abbia aiutato a capire i vostri sentimenti.»
John ripensò ai momenti vissuti in quell’allucinazione indotta. Era stato sconvolgente. Non era la prima volta che pensava di essere sul punto di morire: gli era successo in Afghanistan, gli era successo quella notte di due anni prima nel tunnel della metropolitana, quando quel manipolatore di Sherlock aveva finto di non riuscire a disattivare la bomba. Solo per strappargli un perdono.
Ma la consapevolezza del sacrificio, la circostanza che replicava il finto suicidio di Sherlock, il senso di sconfitta nei confronti delle shipper. E l’idea, quella maledetta idea che erano riuscite a insinuargli nel cervello. Che lui amava davvero Sherlock, non come un amico. Non riusciva a evitare di pensarci. Ripensava al passato, ad alcuni sogni confusi che aveva avuto con Sherlock protagonista. Ripensò al sogno in perizoma. A quel ridicolo sogno in perizoma. I sogni rappresentano i desideri repressi, diceva Freud.
Quel buffone di Freud.
No, non doveva lasciarsi suggestionare.
E l’emozione che provava ogni volta che Sherlock diceva “Il gioco è cominciato”. Al desiderio di stargli sempre vicino, di toccarlo, di...
No, non ho mai desiderato toccarlo.
Stava reinterpretando i suoi ricordi.
Ho represso il mio amore per lui. Per tutti questi anni.
John mise una mano sulla fronte.
No. No. No! Non cadere nel tranello John.
Era un lavaggio del cervello. Non ci sarebbe cascato.
Ieri notte.
Il turbamento che aveva provato al contatto con Sherlock.
È normale, John.
Chiunque sarebbe stato turbato: non era eccitazione, era disagio.
Come si può confondere l’eccitazione con il disagio?
«Devo parlare con Midonz.» disse improvvisamente Sherlock.
John si riscosse dai suoi pensieri ossessivi e ricordò il dialogo segreto della notte prima. Sherlock gli aveva detto che avrebbe chiesto di parlare da solo con Midonz. John avrebbe dovuto protestare un po’, ma alla fine lasciarli soli.
John doveva stare al gioco.
«Dimmi tutto, caro» disse lei.
«John, vai in camera» comandò piattamente Sherlock.
John si finse seccato dalla richiesta, guardò Sherlock con un’espressione che sperava sembrasse incredula, vista dall’esterno. «Cosa diavolo...? No, Sherlock. Non andrò in camera»
Sherlock lo guardò con aria di rimprovero. «John...»
«Devi svelarmi un segreto, Sherlock?» chiese Midonz ridacchiando.
«John, fidati di me» disse Sherlock guardandolo negli occhi «Vai in camera. Lasciaci soli»
«Ma...» John sostenne lo sguardo per qualche istante, corrucciando la fronte. Poi lasciò cadere le spalle e scosse la testa. Alzò le mani, in segno di resa. «Ok. Va bene» finse di essere irritato «Agli ordini, generale!» disse in tono ironico. Sherlock fece un cenno di assenso.
John si alzò in piedi. Le ginocchia gli tremavano per la debolezza. Fece un passo e fu come non avere più le gambe, i muscoli cedettero sotto il suo peso. Sarebbe caduto a terra se Sherlock non fosse intervenuto prontamente a sorreggerlo; lo aiutò a tirarsi su e passò delicatamente il braccio di John sulla sua spalla. «Ci sei?» disse.
John annuì. Un altro contatto fisico, pensò.
Chiuse gli occhi: non poteva continuare a inquietarsi per ogni tocco. Non l’aveva fatto per tanti anni, non avrebbe cominciato a farlo adesso.
Non ti ha mai turbato il contatto con Sherlock? Sei sicuro John?
John sbuffò, esasperato dai suoi stessi pensieri.
Raggiunsero lentamente la camera di Sherlock. L’allestimento preistorico era sparito, ed era di nuovo identica alla camera di Baker Street.
«Oh, vedo che non ci sono più lettino ed elaboratore virtuale.» commentò Sherlock. Da quell’affermazione John capì che Sherlock era stato drogato e allucinato in quella stanza.
John si lasciò cadere sul letto. Sherlock uscì dalla camera. John stava per chiedergli di chiudere la porta, ma Sherlock rispuntò dopo pochi secondi, con un bicchiere pieno d’acqua e una capsula.
«Su una cosa le shipper hanno ragione: idratazione. Bevi. E prendi le vitamine»
«Va bene, dottore» disse John. Afferrò il bicchiere e guardò la capsula «Devo prendere questa? Ti fidi delle shipper?»
«No. D’altra parte se vogliono drogarci o avvelenarci sarebbe molto più conveniente somministrarci la droga con il cibo, o con l’acqua, o nebulizzarla nell’ambiente. Sono ragionevolmente certo che questa sia davvero una capsula di vitamine e sali minerali. Non dimenticare: loro non vogliono ucciderci, John.»
John annuì. «Vogliono solo drogarci e farci il lavaggio del cervello» disse sarcastico.
Ingoiò la capsula e scolò tutto il bicchiere. Non si era reso conto di essere tanto assetato.
Sherlock uscì dalla stanza e chiuse la porta.
John si stese e fissò il soffitto.
Sherlock avrebbe parlato con Midonz. Cosa gli avrebbe detto? John non lo sapeva.
E poi? John doveva fingere di innamorarsi di lui. Così aveva ordinato Sherlock, senza dare spiegazioni.
John chiuse gli occhi.
Fingere di innamorarmi.
Il confine tra finzione e realtà non gli era mai sembrato tanto labile.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


«Adesso!»
Sherlock e John balzarono fuori dalla grotta e corsero a zig-zag attraverso la fitta boscaglia. Sapevano che le soldatesse nemiche erano in agguato, ma prima di uscire allo scoperto avevano osservato l'ambiente con attenzione e non c’era nessuno in vista. Non aveva senso aspettare. Lo “zuccherificio” era visibile circa cento metri più avanti. John sentì l’elmetto scivolargli sulla nuca e lo calcò contro la testa con una mano, per non perderlo.
Un sibilo nell’aria, e John vide con la coda dell’occhio una macchia rosso sangue esplodere contro un albero pochi centimetri alla sua destra. «Merda!» esclamò.
Abbassò la schiena per offrire una superficie minore ai colpi dei nemici.
«Aumenta la caoticità della corsa!» gridò Sherlock, da qualche parte dietro di lui.
John si tuffò a lato e rotolò dietro un tronco appena qualche istante prima che un secondo proiettile di vernice lo colpisse: John lo vide rompersi sul terreno, dei piccoli schizzi di rosso gli sporcarono lo stivale. Calcolò rapidamente la traiettoria a ritroso.
Il cecchino è su un albero basso, venti gradi alla mia destra.
John si voltò di scatto e sparò un proiettile alla cieca, nella direzione immaginata.
Si sentì un urlo e una ragazza saltò giù da un albero imprecando, tutta macchiata di giallo.
«Ha!» gridò John trionfante. Non aveva perso il suo istinto da soldato.
«John, giù!» gridò Sherlock. Il corpo di John obbedì all’ordine prima che il cervello lo capisse razionalmente e un proiettile gli sfilò sopra la testa. Si voltò pronto a sparare di nuovo ma ci aveva già pensato Sherlock: seminascosta dalla vegetazione, John intravide una figura sporca di giallo sbattere con rabbia il suo fucile a terra.
Non doveva perdere tempo: scattò di nuovo in direzione della casupola. Una ventina di metri lo separavano dall’obiettivo e John li percorse saltando confusamente a destra e sinistra nella speranza di confondere eventuali altre cecchine nascoste. Ma le cecchine non c’erano (o non spararono) e John entrò nell’edificio salvo e pulito. Sherlock arrivò qualche secondo dopo di lui, sbatté la porta dietro di sé e la serrò col chiavistello.
Si guardarono intorno con circospezione: si trovavano in una grande stanza, quattro pareti di cemento completamente disadorne e parzialmente divorate dalla vegetazione. I muri grezzi erano bizzarramente decorati da lunghe scie di ruggine rossa, formate dal colare dell’umidità sulle armature scoperte del cemento. John si stupì di quanto l’edificio somigliasse a quello dei suoi ricordi di guerra: il nome in codice durante la missione in Afghanistan era stato “lo zuccherificio” (e con questo nome era indicato sulla mappa che le shipper avevano lasciato a lui e Sherlock), ma si trattava in realtà di un covo di terroristi. John, insieme ad alcuni uomini del suo battaglione e al diretto comandante, il maggiore Sholto, aveva partecipato a una missione di recupero ostaggi in Afghanistan, tanti anni prima. Quelle pazze delle shipper avevano deciso, per questa prova, di replicare alcune missioni di guerra di John in versione paintball, con le stesse shipper nella parte dei soldati nemici. Il percorso si sarebbe snodato attraverso tre tappe e alla fine le shipper avevano promesso che avrebbero liberato un nuovo ostaggio: dopo Mike Stamford, Anderson e sua sorella Harry questa volta era il turno di Molly Hooper.
John e Sherlock erano stati riforniti di uniformi identiche in ogni dettaglio a quelle che avevano indossato lui e il maggiore Sholto in Afghanistan. L’uniforme di Sherlock aveva persino una targhetta con ricamato il nome “James Sholto”, un particolare che, secondo le parole di Midonz «Causerà un transfert di sentimenti e ti aiuterà a prendere coscienza del tuo amore.»
Sì, perché secondo quelle psicopatiche Sherlock non era stato il suo primo amore omosessuale. Secondo loro, anni prima. John era stato innamorato del maggiore Sholto.
Ovviamente non era vero niente, e non c’era stato niente, assolutamente niente tra lui e Sholto.
Se escludiamo…
Se escludiamo niente di niente. Non era il caso di rivangare, ora, momenti di debolezza vissuti in uno dei periodi più tragici e sconvolgenti della sua vita.
«Ho bisogno di istruzioni, John.» disse Sherlock guardandosi intorno con preoccupazione. «Pensa e concentrati: c’erano soldati nemici in questo covo? Terroristi? Dobbiamo aspettarci un attacco a sorpresa?»
John scosse la testa. «Come ti ho già spiegato era un covo di terroristi, ma lo trovammo vuoto: avevano già abbandonato il sito quando arrivammo. Ma non fecero in tempo a raderlo al suolo e trovammo documenti e mappe trafugate al piano superiore.»
«Andiamo subito, allora.» disse Sherlock, e si diresse verso il vano scale che si notava sulla parete più lontana dall’ingresso.
Ma John lo prese per una manica e lo fermò: «Aspetta James.» disse sottovoce «Non diamo nulla per scontato. Tieni il fucile pronto e la testa bassa: potrebbero aver deciso di modificare alcuni aspetti della missione e averci teso un agguato.»
Sherlock sembrò riflettere per qualche istante e infine annuì. John non poté trattenere un sorriso di soddisfazione: Sherlock aveva accettato il suo consiglio. La sua esperienza in campo militare faceva di lui, per una volta, la persona più adatta a dirigere il gioco.
Fortunatamente l’edificio era davvero vuoto e questo dava loro modo di prendersi una piccola pausa. Il piano superiore era un’unica ampia stanza, debolmente illuminata dalla luce che filtrava dal fitto bosco attraverso le due piccole finestre e alcuni buchi nel tetto. John si sentiva lo stomaco sottosopra: tutto in quella stanza era come ricordava e riportava alla mente angosciose sensazioni provate tanti anni prima. In un angolo, buttati sul pavimento, cinque materassi polverosi su cui erano ammucchiati disordinatamente dei sacchi a pelo lerci; al centro un vecchio tavolo di legno divorato dalle tarme che sembrava reggersi in piedi per puro miracolo, con un fornello da campeggio appoggiato al centro e quattro sedie sbilenche ai quattro lati; lungo la parete di destra una sorta di libreria d’acciaio con giornali, libri e scatolette di alimenti sugli scaffali; una credenza da cucina con le ante a vetro rotte; una cassettiera di legno massiccio; tre delle quattro pareti erano coperte di mappe e manifesti di propaganda appesi con puntine.
«I documenti interessanti si trovavano…»
«…nelle anta destra bassa della credenza.» finì la frase Sherlock.
John lo guardò incuriosito. Nemmeno lui ricordava, dopo tanti anni, in quale scomparto esatto della credenza si trovassero. «Come…?» iniziò, ma Sherlock lo interruppe anche questa volta.
«Le shipper a volte mostrano segni di sciatteria inaspettati. Le scenografe dopo aver arredato la stanza hanno ricoperto tutto di uno strato piuttosto uniforme di polvere e sporcizia. Ma hanno fatto l’errore di riporre i documenti nella credenza dopo la sporcatura. Guarda.» Sherlock si avvicinò alla credenza, si accucciò e indicò un pomello «Il pomello di destra è più pulito di quello di sinistra, significa che l’hanno maneggiato.»
Così dicendo afferrò il pomello e tirò l’anta, che si stacco dai cardini e gli cadde di mano con un tonfo sonoro.
E a quel suono John ebbe un tuffo al cuore.
Un ricordo che era rimasto sepolto in un angolo nascosto della sua memoria riaffiorò alla sua mente. Era stato James Sholto ad aprire quell’anta, durante la missione, e quando l’aveva staccata dal mobile gli era successa esattamente la stessa cosa: l’anta si era staccata ed era caduta a terra.
Solo che, in una situazione di vera tensione, nel mezzo di una guerra, e nel silenzio totale e inquietante di quel luogo da poco abbandonato, per qualche istante John aveva scambiato quel tonfo secco per il suono di uno sparo e temuto per la vita del suo superiore. Ricordava ancora la disperazione assoluta che aveva provato, anche se solo per pochi istanti, prima di vedere Sholto con il pomello in mano (si era staccato dall’anta) e un’espressione di stupore sul volto. Anche se non era accaduto nulla di grave, John era comunque corso alla finestra per controllare che la situazione fuori fosse sotto controllo: i compagni di battaglione erano ancora appostati lungo il perimetro della casa e controllavano la boscaglia. Uno di loro aveva fatto a John un segnale di rassicurazione e John lo aveva imitato. Poi John e Sholto si erano guardati negli occhi per qualche lunghissimo istante e John era scoppiato a ridere, una risata liberatoria. Anche Sholto aveva riso e John ricordava ancora gli istanti di pura gioia che aveva provato nel vedere gli occhi di ghiaccio del suo compagno luccicare di sollievo.
John chiuse gli occhi e sospirò, senza dire nulla a Sherlock dei suoi turbamenti.
Poi si chinò e osservò l’interno dell’armadio, dove c’erano un proiettore e una VHS con la scritta “classified information” sull’etichetta.
«Ok, questo è interessante, mi aspettavo di trovare documenti cartacei» commentò John.
Sherlock fece un cenno verso il tavolo «Prova a sederti lì sopra, se reggerà il tuo peso dovrebbe reggere anche quello del proiettore.»
John obbedì all’istante e sedette sul tavolo con un saltello, aspettandosi di sfondarlo. Non accadde. Nonostante l’aspetto malandato era piuttosto solido, non scricchiolò né traballò nemmeno un po’. Era possibile che i buchi di tarma fossero solo scenografici.
Sherlock, evidentemente soddisfatto, trasportò il proiettore sul tavolo, puntandolo in direzione dell’unica parete spoglia e priva di finestre. Poi inserì la VHS nell’apposito vano.
«Ok, adesso dobbiamo capire come accenderlo: non credo che questa casa in mezzo al bosco abbia un allacciamento elettrico.» disse John.
«Certo che ce l’ha, devono pur alimentare in qualche modo le microtelecamere che stanno usando per spiare le nostre reazioni.»
John fu colto per un attimo dallo sconforto: da almeno mezz’ora, da quando quel gioco era cominciato, era riuscito a dimenticare le stupide manie di controllo delle shipper. Ma era ovvio che li stessero spiando in qualche modo e si sentì sciocco ad aver dato per scontato che così non fosse. Sherlock srotolò il cavo del proiettore e lo attacco a una presa della luce che si trovava proprio accanto alla credenza.
«Bene. Vediamo di che si tratta.» disse Sherlock, quasi a se stesso.
Presero una sedia e John premette il pulsante di accensione. La luce del proiettore si accese e si sentì il ronzio delle ventole di raffreddamento. Poi John cliccò sul pulsante Play.
Qualche fotogramma nero e le immagini iniziarono a scorrere.
Dal piccolo altoparlante integrato nel proiettore provenivano suoni di schiamazzi, risate e uno scroscio d’acqua costante. Sulla parete immagini di uomini a torso nudo, no, di militari sulla riva di un laghetto in mezzo alle rocce, con una cascata e…
Oh no.
La mano di John corse al pulsante di stop e le immagini lasciarono il posto a un quadrato di luce bianca.
Sherlock si voltò di scatto verso John e sollevò un sopracciglio.
«Ok.» disse John. E prese un respiro. «Ok, no. Usciamo di qui e proseguiamo con la gara di paintball.»
«Suvvia, John, la prima parte della missione è quasi terminata!» disse una voce che proveniva dal soffitto. John riconobbe l’ormai familiare timbro di Midonz.
«Che scherzo è questo?» gridò John infuriato.
«Nessuno scherzo, John, fa parte della missione. Che è una missione alla ricerca del tuo vero io.»
«John…» disse stancamente Sherlock. Ma John sollevò un indice verso di lui per zittirlo.
«Questo video è una sciocchezza e voi lo sapete.» disse John.
«Se è una sciocchezza perché non lo vediamo tutti insieme?» ridacchiò Midonz.
John sapeva di non poter discutere con quella pazza. E sapeva di non potersi rifiutare, doveva pensare alla povera Molly, la cui vita dipendeva dal superamento di quella assurda prova.
John viveva in un incubo di frustrazione. Provò il desiderio di sbattere la testa contro il tavolo.
«Va bene» disse sconsolato «Facciamo ripartire il video. Tanto non è nulla di sconvolgente. Non c’è assolutamente nulla di male in quel video.»
«Nessuno ha mai detto che ci fosse qualcosa di male» precisò Midonz.
John sospirò, lanciò un’occhiata a Sherlock.
«Non preoccuparti John, il contenuto di quel video mi interessa molto meno di quel che pensi»
«Non sono preoccupato» mentì John. Premette il pulsante di accensione e incrociò le braccia davanti al petto.
Le immagini ripartirono da dove si erano fermate. John si cercò con lo sguardo tra i compagni.
Oh, eccomi. Come ero giovane.
Gli uomini ritratti nel video erano lui, alcuni dei suoi compagni di battaglione e il loro comandante James Sholto. Avevano trovato quel luogo paradisiaco in mezzo alle montagne e, visto il caldo asfissiante, deciso di farsi un bagno nudi tutti insieme. Uno dei ragazzi aveva ripreso la scena cameratesca con la sua videocamera e le shipper erano riuscite, per chissà quale misteriosa via, a mettere le mani su quel video.
C’è qualcosa di male in un gruppo di uomini dal fisico prestante che fanno il bagno nudi in un laghetto in mezzo ai monti? Certo che no!
Sullo sfondo alcuni soldati si erano già tuffati in acqua: i loro muscoli bagnati luccicavano al sole; due dei ragazzi stavano litigando allegramente e spingendosi l’un l’altro sott’acqua. Si udivano risate e battute scherzose.
John si passò una mano sul volto.
Cristo, sembra l’incipit di un porno gay.
John e Sholto non erano ancora completamente nudi. In primo piano il maggiore Sholto si stava togliendo le mutande e dava le spalle alla telecamera. I suoi glutei scolpiti si contraevano mentre sollevava una gamba per sfilare il boxer… e proprio in quel momento ci fu un’elaborazione digitale sul video originale: uno zoom su un fermo immagine della scena, a inquadrare solo Sholto con il sedere di fuori e John alla sua destra. Poi si abbassò la luminosità di tutto lo sfondo e John e Sholto ora si stagliavano su uno sfondo quasi completamente nero e si poteva notare che John stava guardando in direzione di Sholto.
«Be’?» sbottò John infastidito. Cosa volevano dimostrare?
Sul fermo immagine apparve una linea rossa tratteggiata con una freccia che collegò gli occhi di John al sedere di Sholto.
«Ma… non…» John guardò Sherlock, poi l’immagine, poi Sherlock «Non è…»
Il video ripartì. «Non gli stavo guardando il sedere, giuro!» protestò John. «Hanno scelto l’unico fermo immagine in cui sembra che… che…»
«John, davvero, non mi interessa. Ora capisco come vi sentite voi persone normali quando siete costrette a vedere i filmini delle vacanze dei vostri amici.» e detto questo ostentò uno sbadiglio.
John guardò di nuovo la proiezione. C’era stato uno stacco nel video e ora sia John che Sholto erano in acqua con gli altri. Il cameraman si trovava sul bordo del lago e uno dei ragazzi si avvicinò a lui.
«Ehi Mark, che hai intenzione di farci con questo video quando torni a casa?» disse il ragazzo in acqua sollevando ripetutamente le sopracciglia con fare ammiccante.
Si sentì Mark, il cameraman, ridere. «A dire il vero pensavo di passare il video a John» disse.
Eh? Cosa?
Mentre tutti i compagni ridevano, l’inquadratura si spostò su John che stava parlando con Sholto sorridendogli in modo amichevole e chiaramente non aveva sentito la battuta pronunciata dal cameraman.
Poi John si accorse di essere inquadrato e rivolse uno sguardo interrogativo alla telecamera. Uno dei compagni si spostò dietro lui e Sholto, alzò le braccia e compose un cuoricino con le dita dietro i due uomini.
Che cooooosa?
Tutti nel video scoppiarono a ridere, John e Sholto si voltarono contemporaneamente verso il compagno burlone, ma quello aveva già abbassato le braccia.
«Cosa stavi facendo Barker?» chiese Sholto.
«Niente, signore!» rispose quello con la faccia più innocente del mondo.
«Nel dubbio, venti flessioni appena torniamo in caserma» disse Sholto con aria bonaria.
Tutti risero.
E mentre Sholto e John si voltavano e davano di nuovo le spalle a Barker, quello mise di nuovo le mani a cuoricino e mimò tanti bacetti nell’aria.
Il video terminò.
Sherlock spense il proiettore.
«Che cavolata!» sbottò John dopo qualche secondo di silenzio. Non aveva mai visto quel video quindi non aveva idea che contenesse delle idiote prese in giro a sfondo gay.
«Non preoccuparti John, non mi sono mai interessati e non inizieranno a interessarmi adesso i tuoi trascorsi sentimentali.»
«Cosa c’entrano i miei trascorsi sentimentali con questo video?» chiese John oltraggiato. «Io… io… io non so cosa si erano messi in testa i miei commilitoni!»
John sbuffò infastidito. A essere sincero con se stesso non era rimasto troppo stupito dal contenuto di quel video: gli era capitato diverse volte di essere preso in giro dai compagni per la sua eccessiva simpatia nei confronti di Sholto.
Sì, è vero, Sholto gli piaceva, come persona. Lo ammirava per la sua intelligenza, per il suo senso di giustizia, per la sua fermezza. Gli voleva bene, non aveva problemi ad ammetterlo. Lo considerava un amico, per quanto un superiore possa essere considerato amico. I suoi commilitoni, però, si erano messi in testa che John fosse perdutamente innamorato di lui, allo stesso modo in cui le shipper si erano messe in testa che fosse, ora, perdutamente innamorato di Sherlock. Ma perché tutti continuavano a pensare che fosse gay? Non che ci fosse nulla di male, a essere gay, ma lui semplicemente non lo era.
No.
Mentre John era rimasto seduto a rimuginare sul suo passato, Sherlock si era messo a curiosare tra gli oggetti esposti sulla libreria. Aveva preso in mano un libro e lo stava sfogliando, sembrava proprio che lo stesse leggendo. Era scritto in persiano. John non aveva idea che Sherlock leggesse l’alfabeto arabo.
«Le scenografe che hanno allestito questa scena sono state davvero accurate. I libri sono tutte edizioni originali locali dei primi anni 2000 o precedenti.»
Adesso doveva anche stare a sentire complimenti alle psicopatiche?
John sbuffò. «Andiamocene, James, non voglio restare in questo posto un secondo di più.»
Sherlock tossicchiò, John lo guardò corrucciando le sopracciglia.
«Be’, che c’è?» chiese John.
Sherlock lo scrutò in silenzio per qualche secondo, poi chiuse il libro di scatto. «Niente. Andiamo.»

La seconda tappa non era molto distante, si trattava della replica di un piccolo magazzino che in Afghanistan era stato usato dai terroristi come deposito armi: John si chiedeva quale “bomba” dal suo passato sarebbe saltata fuori questa volta.
John e Sherlock raggiunsero il magazzino senza grandi difficoltà: poche cecchine sul percorso.
Questa volta le scenografe si erano impegnate decisamente meno: avevano ricreato l’aspetto esterno dell’edificio ma lasciato l’interno vuoto. Sulla parete di fondo avevano appeso un grosso schermo piatto.
Un altro video, che meraviglia!
John cercò di immaginare il contenuto, ma non gli vennero in mente altri video sconvenienti girati dai commilitoni. Cosa poteva essere?
Lo schermo era già acceso e mostrava del rumore bianco. John sentì Sherlock sbuffare mentre si avvicinavano e avvertì una sgradevole sensazione di nausea allo stomaco.
Si fermarono a qualche passo di distanza. John incrociò le braccia.
«Muoviamoci, per favore.» disse John impaziente.
Le shipper obbedirono all’esortazione, il video partì. Era una ripresa da una telecamera di sicurezza, due persone in un locale molto piccolo.
John si passò una mano sulla fronte. Aveva riconosciuto immediatamente l’ambiente ripreso. Era l’interno di un carro armato e quelle due persone erano lui e Sholto.
Ricordava ancora con orrore i tre giorni che aveva trascorso intrappolato in quel maledetto carro armato insieme a Sholto. Il portello era rimasto bloccato e loro erano stati costretti a rimanere lì dentro. La cosa peggiore di quell’incidente era che in realtà non si era trattato di un incidente. Era stato un “geniale” scherzo dei compagni che erano stupidamente determinati a far sbocciare l’amore tra John e il suo superiore e avevano ben pensato di agire da cupidi mettendoli in una situazione di convivenza forzata. John aveva scoperto solo diverso tempo dopo, su confessione di un ex commilitone, la vera natura di quell’incidente e sospettava che Sholto non l’avesse mai scoperta (c’era il serio rischio di finire in prigione, per una bravata simile).
Che ironia. La situazione che stava vivendo con Sherlock era del tutto analoga. E ora scopriva che esistevano anche dei video di sorveglianza di quei momenti nel carro armato, esattamente come i video che le shipper stavano girando di lui e Sherlock durante quella prigionia.
Il video era muto, ma le shipper avevano fatto un delizioso montaggio con una ballata mielosa come colonna sonora… com’è che si intitolava? The smile on your face let me know that you need me…
La compilation mostrava per lo più immagini manipolate: sguardi tra i due uomini che nella realtà  erano durati pochi istanti venivano prolungati artificialmente con l’uso del ralenty o attimi di contatto casuale (era impossibile non toccarsi in un ambiente così stretto!); ma all’interno del montaggio erano stati inseriti alcuni momenti francamente imbarazzanti. Come quando John aveva rimboccato la coperta a Sholto addormentato sul sedile del passeggero. O quando, per una pura e semplice questione di praticità, si erano rassegnati a dormire appoggiati uno sull’altro: a un certo punto la testa di John appoggiata sulla spalla di Sholto, nell’incoscienza del sonno era scivolata giù sul petto del maggiore. A peggiorare la situazione dopo qualche secondo nella nuova posizione John, chiaramente annebbiato dal sonno (non è possibile che l’abbia fatto consapevolmente!) aveva posato una mano sull’inguine di Sholto.
Erano stati tre giorni di inferno, ma al terzo giorno John aveva avuto modo di vedere il volto umano del freddo Sholto, quando il maggiore aveva iniziato a parlargli con gli occhi lucidi di suo fratello e di quanto ogni tanto, nella solitudine del suo ruolo di comando, sentisse il bisogno di un abbraccio fraterno da qualcuno. La compilation ovviamente mostrava anche quel momento: i due uomini che si parlavano coi visi ravvicinati, l’aria afflitta di Sholto, il sorriso di John e l’abbraccio tra i due uomini.
Fine del video. John e Sherlock si guardarono, l’espressione sul viso di Sherlock non mostrava segni di sorpresa per quello che aveva appena visto.
«Vogliamo andare?» commentò «Spariamo alle shipper e vendichiamoci un po’ di questa tortura.»
John sorrise all’amico.

Circa venti minuti dopo, giunti nella baita in legno destinazione della terza e ultima missione di quell’estenuante percorso di guerra, John non sapeva se sentirsi più stanco, arrabbiato o umiliato.
La battaglia a paintball si era trasformata in una farsa. Le shipper erano chiaramente determinate a farli finire, per dar modo a Sherlock di scoprire ogni singolo particolare dell’immaginaria relazione amorosa tra John e Sholto. John si era reso conto che le cecchine armate di fucile a vernice sbagliavano appositamente mira, e questo aveva tolto anche quel minimo divertimento alla prova.
John si chiese cosa avessero riservato le shipper per il gran finale. Certamente il pezzo migliore, ma non riusciva a indovinare di cosa si potesse trattare.
Non possono aver scoperto…
John scosse la testa.
Non ci pensare, John. È successo tanto tempo fa e nessuno lo sa.
Nessuno.
Nessuno all’infuori di James e me.
«John?»
John si riscosse dai suoi pensieri e si avvicinò a Sherlock, che aveva aperto la scatola che troneggiava sull’unico tavolo all’interno della baita.
Sherlock stava tenendo in mano una fotografia e la stava osservando con le sopracciglia aggrottate.
«Fammi indovinare: è un fotomontaggio.» disse Sherlock.
John sbiancò. I pensieri su quel giorno di tanti anni prima ritornarono prepotentemente a galla, come un pallone che era stato spinto con forza sott'acqua.
Ma non poteva essere. Non poteva trattarsi di quell'episodio. Non era semplicemente possibile. Cosa diamine stava guardando Sherlock? In due passi fu davanti a lui e gli strappò la foto dalla mano.
John guardò la foto e si congelò.
Sentì le ginocchia cedere.
Il più grande segreto della sua vita. Il più grande errore della sua vita. Un atto di cui si era pentito due minuti dopo, no, due secondi dopo, anzi no, nell’istante esatto in cui l’aveva compiuto, nell’istante in cui aveva posato le sue labbra su quelle di Sholto.
Non avrebbe mai creduto possibile che esistesse una foto di quel momento della sua vita.
Sì, John aveva baciato quell’uomo. Una volta. Una singola volta in tutta la sua vita. Era durato pochi secondi, si erano allontanati imbarazzati e deciso che era stato un errore dettato dallo stress, dalla sofferenza, dalla solitudine. E avevano deciso di non provarci più e non parlarne più. E così era stato.
Erano soli, di notte, in missione in una zona desertica.
Evidentemente l’esercito li stava controllando da un satellite e le shipper in qualche modo erano venute in possesso delle immagini. Il contesto delle foto non era chiaro, i due uomini riempivano quasi interamente la fotografia. Ma sembrava proprio una foto satellitare.
«Sì, è un fotomontaggio.» disse infine a Sherlock sforzandosi di sembrare tranquillo. Sentiva la gola secca.
«Non è un fotomontaggio» si intromise Midonz dall’altoparlante.
«Deve esserlo, perché questo fatto non è mai accaduto.» disse John stirando le labbra in un sorriso.
«Non sarà accaduto ma ne esistono parecchie testimonianze» commentò Sherlock osservando altre foto.
John ne afferrò un’altra.
«Ok, da questa angolazione» John si schiarì la gola. Dannata gola secca «Da questa angolazione sembra che lo stia baciando, in realtà stiamo solo parlando. Vedi? È solo un effetto di sovrapposizione ottica. E la stessa cosa si può dire di questa, lo sanno tutti che il teleobiettivo schiaccia le prospettive» aggiunse prendendo in mano la prima foto in cui si vedevano John e Sholto con le bocche socchiuse premute una sull’altra e la mano di Sholto a coppa sulla nuca di John. «E questa poi» fece una risatina di scherno prendendo in mano un’altra foto «Io sono di spalle e lo copro completamente, non si vede niente!»
John sentì il bisogno di sedersi, ma si impose di rimanere in piedi. Non voleva mostrare segni di debolezza.
Oh, Cristo.
Gli tremavano le mani.
Sherlock sbuffò. «John, credimi: non mi interessa.»
«Oh, stai un po’ zitto James!» sbottò John tirando un calcio alla gamba del tavolo.
«Aaah, James…» sospirò Midonz dall’altoparlante.
«Prego?» disse John sollevando lo sguardo al soffitto.
Sherlock tossicchio. «Ehm, John, non volevo fartelo notare ma è la quinta volta che mi chiami James.»
«La quint… cosa?» John ripensò a cosa aveva detto pochi secondi prima e si rese conto con orrore di aver appena chiamato Sherlock James. E non era la prima volta che accadeva?
«Questa stupida targhetta!» sbottò strappando dal petto di Sherlock la toppa attaccata col velcro con su scritto “James Sholto”.
Stritolò la toppa in mano con rabbia e puntò i pugni sul tavolo. Le foto erano posate sul ripiano, faccia in su, e John guardò la prima, quella più inequivocabile. Iniziò a vergognarsi di aver negato, che senso aveva negare? Non c’era il minimo dubbio che i due uomini nella foto si stessero baciando.
«Forse sono due sosia» disse infine. La voce gli uscì in una specie di rantolo stentato.
«Forse è il tuo gemello segreto» disse sarcastico Sherlock.
John sbuffò. «Ma chi voglio prendere in giro?» disse. Teneva ancora gli occhi puntati sul tavolo, ma con la visione fuori fuoco, vedeva solo delle macchie indistinte davanti a sé.
Sherlock rimase in silenzio per qualche lungo istante, e così John.
«La verità è che non mi interessa, John. Per me puoi anche essere stato fidanzato dieci anni con il maggiore Sholto. Non mi interessa.»
«Non sono mai stato fidanzato con il maggiore Sholto!» gridò John. Sentì il cuore precipitargli nelle viscere.
«Va bene. Non mi interessa, davvero.»
«Ma certo che non ti interessa!» disse John con stizza. «Te n'è mai fregato qualcosa di me?»
Si morse il labbro. Perché adesso stava facendo l'acido con Sherlock? Stava sfogando su di lui la sua frustrazione.
«John, lo sai che non è vero.» disse lui con semplicità.
John spazzò il tavolo con una mano e buttò quelle stupide foto a terra.
Sherlock riprese a parlare con un tono di voce molto dolce. «Quello che voglio dire, John, è che non mi interessa il tuo passato, mi interessa solo il tuo presente».
John ebbe un tuffo al cuore.
Sta recitando? Sherlock non è il tipo da frasi melense.
Sì, stava recitando, sicuramente.
Devi fingere di innamorarti di me.
John ricordò la frase che Sherlock gli aveva scritto sulla pelle solo due notti prima. Il messaggio segreto. La frase melensa era un appiglio che Sherlock stava offrendo a John per iniziare la messinscena e John l'avrebbe afferrato.
Sipario: la recita poteva avere inizio.
Si voltò lentamente verso di lui e si sforzò di sorridergli in modo tenero.
Si sentì incredibilmente stupido.
Ma ebbe la conferma del fatto che Sherlock stava recitando quando sorprendentemente gli porse la mano.
«Andiamo John» disse.
John ricordava ancora perfettamente le tre volte in cui aveva stretto la mano a Sherlock.
Quando si erano presentati.
Quando si erano detti addio prima della partenza di Sherlock per l’est europa (partenza da cui poi era tornato indietro dopo dieci minuti di volo).
Quando erano scappati dalla polizia ammanettati e si erano presi per mano per evitare di segarsi i polsi con le manette durante la corsa.
Sherlock non gli avrebbe mai concesso la sua mano in quel modo, era evidente che si trattava di una recita.
John la afferrò e si rese conto di aver perso forza nelle dita perché faticò a stringerla.
E quando le loro mani si toccarono ebbe una seconda conferma del fatto che Sherlock stava recitando: anziché prendergli la mano normalmente intrecciò le sue dita a quelle di John in una stretta molto intima.
«Andiamo» disse John.
E mentre si incamminavano mano nella mano, forse di proposito, forse per caso, Midonz si lasciò sfuggire un sospiro che risuonò dagli altoparlanti.

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Nota sul capitolo: è stato modificato rispetto alla prima pubblicazione. In particolare ho eliminato una piccola sezione dedicata al famigerato Victor Trevor, perché mi sono resa conto che non aggiungeva nulla alla storia e anzi distoglieva l'attenzione da quello che doveva essere il vero protagonista della confessione: il nostro caro John.
Aggiungo questa specificazione per spiegare il motivo dei commenti al capitolo che citano proprio la scena di Trevor. La scenetta comunque non voglio perderla: ho deciso di rielaborarla per scrivere una piccola one-shot che pubblicherò separatamente ;-)

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


«Tentacle porn?»
«Io direi nudi sotto la doccia! Sherlock che insapona la schiena di John, poi la mano scende e le dita di Sherlock si intrufolano tra le natiche sode del bel soldato.»
«E poi lui con un rantolo animalesco…»
«No, no, che ne dite di una vampire AU?»
«Che palle, basta coi vampiri...»
«Vampiri che si nutrono di sperma anziché di sangue!»
«Questo è più interessante.»
«Insisto sul tentacle porn.»
«Io vorrei vedere una cenetta romantica a lume di candela…»
«Fluff! Bleah!»
«Ma quale fluff, lo sanno tutti che il cibo è una metafora sessuale.»
«Se John fosse una creatura aliena con i tentacoli e…»
«Pensa ad esempio alle possibilità suggestive che può avere succhiare un ghiacciolo»
«Solo se poi gli strappa la camicia e gli passa il ghiaccio sui capezzoli»
«E infine glielo lecca via.»
«Con un tentacolo gli slaccia la patta, con l’altro gli tira giù le mutande, col terzo già sta accarezzando il perineo, e il quarto…»
«Idea: John è uno schiavo incatenato nelle segrete del castello del malvagio principe Sherlock, appassionato fetish. Nella prima scena ha una ball gag in bocca e un divaricatore in…»
«Con i tentacoli si possono stimolare contemporaneamente il pene, l’ano, i capezzoli, la bocca…»
«Io insisto sulla cenetta»
«Oppure John potrebbe essere il tavolo su cui vengono servite le portate che Sherlock dovrà mangiare»
«Posso costruire dei tentacoli animatronici!»
«Oppure…»
«Oppure basta, ve l’ho detto, la prossima prova per ora è in sospeso» disse Midonz infastidita.
Normalmente avrebbe condiviso l’entusiasmo delle sue compagne di avventura e progettato la prova insieme a loro, ma qualcosa era cambiato.
Sherlock aveva deciso di collaborare con loro.
L’occasione di assistere a una conquista non pilotata era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.
«Questo gioco è durato fin troppo, mi dichiaro sconfitto. Collaborerò con voi.» aveva detto Sherlock lasciando Midonz a bocca aperta.
Qualche giorno prima, subito dopo l’allucinazione indotta, Sherlock aveva chiesto a Midonz un colloquio privato. John ovviamente aveva protestato, ma doveva aver pensato che Sherlock avesse qualche piano in serbo per farli uscire di lì, perché aveva ceduto abbastanza rapidamente alle insistenze del suo amato.
E invece nessun piano, Sherlock aveva stupito Midonz con quella affermazione.
«Cosa ti ha fatto cambiare idea?» aveva chiesto Midonz.
«State tormentando inutilmente delle persone innocenti, tenendole prigioniere. Liberate tutti gli ostaggi rimasti, tutti contemporaneamente, e in cambio conquisterò John davanti ai vostri occhi.»
«E lo fai solo per liberare gli ostaggi?»
«Ovviamente.»
Midonz sospirò al ricordo di quel dialogo. Era ovvio che Sherlock stesse mentendo. Diceva di voler collaborare per il bene degli ostaggi, ma in realtà stava sfruttando quell’occasione come autogiustificazione per amoreggiare con John. Sherlock amava John, non c’era dubbio. E John amava Sherlock. Solo che erano troppo oppressi dalla società eteronormativa per ammetterlo a se stessi.
Midonz non aveva ovviamente accettato subito la proposta di Sherlock, ma gli aveva detto che ci avrebbe pensato se Sherlock fosse riuscito a dimostrarle qualcosa. Se le avesse dato un segno tangibile delle sue capacità di conquista.
«D’accordo.» aveva ribattutto lui «A patto che la prossima sia una prova d’azione. Una ricerca sul campo, magari, o un caso, o…»
Midonz era scoppiata a ridere. «Un caso? Sei impazzito Sherlock? Secondo te vi lasceremmo scorrazzare in giro per Londra?»
«Chi ha parlato di Londra? Con i vostri mezzi siete perfettamente in grado di organizzare una prova su un set controllato. Anzi, non mi stupirebbe che vi siate già preparate per l’evenienza. Il numero di situazioni ricreabili indoor è limitato, e ci sono talmente tante splendide fanfiction di ambientazione militare…»
E Sherlock aveva ragione, si erano preparate all’evenienza e la prova paintball era stata organizzata da un po’, il motivo per cui non l’avevano ancora inscenata era che diverse shipper pensavano fosse rischioso portare John e Sherlock all’aperto, dove avrebbero potuto scappare con più facilità. Ma Midonz non aveva mai avuto timori: si trattava del bosco adiacente al capannone col set della casa, una ex zona di addestramento militare ora chiusa al pubblico e completamente recintata. Sherlock e John avrebbero potuto muoversi solo in una zona ben delimitata del bosco, c’erano pronte fior di cecchine con dardi tranquillanti e non bisognava dimenticare la minaccia degli ostaggi: non sarebbero mai fuggiti rischiando di mettere in pericolo gli ostaggi.
E quindi la battaglia a paintball era stata organizzata ed era stata un successo. Alla fine delle prove, psicologicamente provato, John si era lasciato andare a un gesto di tenerezza con Sherlock: gli aveva preso la mano.
Era stato Sherlock a provocarlo, dimostrando a Midonz che era vero: era in grado di stimolare la presa di coscienza sentimentale del suo amico. Gli aveva detto che era la cosa più importante e aveva teso la mano verso di lui.
Ed era impossibile descrivere la profondità emotiva, l’intimità, la dolcezza espresse dallo sguardo di John quando le dita dei due uomini si erano intrecciate tra loro.
Midonz riguardava la scena a ripetizione, da tutte le angolazioni possibili, e ogni volta sentiva un tuffo al cuore.
E ora era arrivato il momento di parlare di nuovo con Sherlock, sapere come pensava di agire per far capitolare definitivamente John.
Dopo il colloquio, avrebbe contattato M., la suprema comandante shipper, per avere dei consigli su come agire, perché la faccenda si stava facendo complicata. M. era la principale finanziatrice del progetto, ma comunicava con loro solo lo stretto necessario: ogni sera le mandavano dei video con gli highlight della giornata, ma gli ordini erano stati di contattarla solo in caso di estrema necessità. Il comando operativo della missione era in mano a Midonz, che aveva deciso praticamente tutto, dalla trappola al Comicon alle prove d’amore. M. aveva totale fiducia in lei, e la cosa la lusingava perché dalle poche interazioni Midonz aveva percepito di avere a che fare con una donna dall’intelligenza sopraffina, forse superiore persino alla sua.

Midonz entrò in sala monitor, dove due ragazze stavano controllando la situazione.
Sherlock e John stavano pranzando in silenzio. Sherlock stava osservando John con uno sguardo tenerissimo.
«Ogni tanto John solleva gli occhi, i loro sguardi si incontrano e John abbassa lo sguardo sorridendo imbarazzato. Abbiamo già fatto una compilation degli screencap con gli sguardi migliori.» disse Janet, irlandese, esperta di robotica.
«È cotto. Ancora non lo sa, ma è cotto.» disse Mary, inglese, cintura nera secondo dan di taekwondo.
Midonz non badò alle svenevolezze delle due ragazze e ordinò seccamente di lasciarla sola. Le due uscirono in tutta fretta dalla stanza.
Midonz osservò i due uomini sullo schermo e sorrise notando lo sguardo tenero di Sherlock e l’atteggiamento imbarazzato di John. Appena finito il colloquio si sarebbe certamente guardata la compilation preparata da Janet.
Si sistemò sulla sedia, accese il microfono e parlò.
«Buongiorno piccioncini! Come state?»
Sherlock e John sollevarono lo sguardo, entrambi con fare annoiato.
«È già il momento della nuova prova d’amore?» chiese John in tono sarcastico.
«Non ancora» disse Midonz «Voglio parlare da sola con Sherlock, vai in camera, John.»
«Perché non posso restare?» protestò lui. «Cosa state complottando?» Poi lanciò uno sguardo corrucciato a Sherlock.
«Non protestare John, sai che non servirebbe. Lasciaci soli.» disse Sherlock.
E John obbedì, alzando le mani con aria sconsolata. «Va bene, va vene…» disse. Si avviò alla camera da letto, dove già risuonava una sinfonia di Mozart che avrebbe coperto ogni suono proveniente dal salotto.
Ah, come obbediva all’istante agli ordini del suo Master! Midonz era convinta che i due fossero una perfetta coppia BDSM, con John nel ruolo dello slave, ovviamente.
«Sono molto soddisfatta di come procede la conquista. John mi sembra sempre più cotto, anche se avrei preferito vi foste anche baciati, ieri, oltre che prendevi per mano.»
«Se avessi bruciato le tappe l’unica risposta che avrei ottenuto da lui sarebbe stato un violento rifiuto. Pensavo ci fossero anche delle esperte di psicologia, nel vostro gruppo, è un principio basilare.» commentò Sherlock con un’aria di sufficienza.
«Sei rimasto stupito dalle rivelazioni sul maggiore Sholto? Scommetto che non ne sapevi nulla.»
Sherlock sollevò un sopracciglio. «Non sapevo nulla del bacio, ma che John fosse stato innamorato di quell’uomo era evidentissimo, solo uno sciocco non se ne sarebbe accorto e io non sono uno sciocco. Se il vostro intento era quello di stupire me, oltre che turbare John, be’, non ci siete riuscite.»
Midonz rise. Sherlock cercava di fare l’indifferente con lei, ma era così chiaro che fosse perdutamente innamorato di John.
«E se posso avanzare una seconda critica, la battaglia a paintball è stata una farsa. Cecchine addestrate che sbagliano mira apposta per non colpirci? Campionesse di arti marziali che si nascondono tra i cespugli lasciando spuntare un piede o un braccio per farsi notare? A proposito, correggimi se sbaglio: una cintura nera secondo dan di taekwondo, un’istruttrice di kick-boxing, almeno tre o forse quattro con addestramento militare.»
«Errore: tre con addestramento militare e un’ex poliziotta.»
Sherlock sbuffò. «È quasi la stessa cosa ed è il motivo per cui ero indeciso sulla quarta. Sulle tecniche di combattimento ci ho preso?»
«Sì, ma ne hai mancata una: abbiamo anche una cintura nera di judo.»
«Che non ho avuto modo di osservare abbastanza a lungo, altrimenti avrei scoperto anche lei.»
«E quindi non sei soddisfatto della prova?»
«Per nulla. Mi aspettavo una gara divertente che avrebbe stimolato John mentalmente e avrebbe creato un sostrato fertile per il germogliare dei sentimenti, se mi passate la similitudine botanica. Ci avete dato una prova di estrema facilità e dubbia utilità per la conquista.»
Midonz sospirò. Se John aveva iniziato a cedere la strada era quella giusta, era evidente.
«Ma fortunatamente sono riuscito a recuperare in extremis.» continuò Sherlock. «John sta iniziando a cedere e so come fare per farlo… uhm… che parole avevate usato…? ah sì: per “fargli prendere coscienza dei suoi sentimenti”.»
«Dimmi cosa hai in mente.» lo incalzò Midonz.
«Semplicissimo: voglio riprodurre la scena della nostra prima cena insieme. Il nostro primo appuntamento, l’avete definito voi: la cena da Angelo dove John ha superato il blocco mentale che gli faceva rifiutare l’idea di essere fisicamente sano: quella sera John ha smesso di zoppicare. Ricreando quella scena sono certo di riuscire a fargli superare il blocco mentale che gli fa rifiutare l’idea di essere sentimentalmente sano: John smetterà di rifiutare i suoi sentimenti di attrazione per me.»
I suoi sentimenti di attrazione per me.
Quindi Sherlock capiva l’amore di John! Midonz era quasi commossa.
Ed era certa che risvegliando i sentimenti dell’amico, Sherlock avrebbe risvegliato anche i suoi, di sentimenti. Sherlock già sapeva di amarlo, ma non voleva ammetterlo a se stesso. Esattamente come John.
Era tutto perfetto.
«Niente di più facile» disse infine Midonz «Abbiamo già pronto il set che riproduce il ristorante Angelo’s, dobbiamo solo allestirlo.»
«Deve essere tutto perfettamente identico.»
«Ti dirò di più, abbiamo anche Angelo! È uno dei nostri ostaggi.»
«Però non sapete come eravamo vestiti.»
«Abbiamo ricostruito quasi tutto dagli appunti della dottoressa Thompson. Sappiamo che tu avevi il tuo solito cappotto Belstaff, dei pantaloni neri e…»
«No, dovete essere precise. So che avete tutti i nostri abiti in guardaroba, portatemeli e vi dirò quali sono i capi che indossavamo.»
Midonz riflettè qualche istante.
«Va bene, direi che si può fare.»
«E poi c’è una cosa che sicuramente non avete.»
Midonz aggrottò le sopracciglia incuriosita.
«E cioè?»
«Il pomeriggio di quello stesso giorno mio fratello Mycroft era venuto a trovarmi. Andandosene aveva dimenticato uno dei suoi ombrelli a casa mia. Quando la sera siamo usciti, mi sono portato dietro l’ombrello di Mycroft, visto che pioveva. In seguito gliel’ho restituito.»
«D’accordo, descrivici l’ombrello e ne costruiremo uno identico.»
«Purtroppo non è possibile.»
Midonz osservò l’immagine di Sherlock per qualche secondo: non era certa di aver capito bene.
«In che senso non è possibile?»
«Dovete sapere che Mycroft possiede una vasta e preziosa collezione di ombrelli. L’ombrello che aveva dimenticato a casa mia era un pezzo unico di quella collezione. Si trattava di un ombrello Fox realizzato a mano per il cinquantesimo compleanno di Re Giorgio Sesto, con manico in legno intarsiato, rifiniture in oro e copertura in seta nera con un motivo decorativo tono su tono. Posto che riusciate a trovare uno scampolo di seta identico a quello, impresa impossibile visto che si tratta di un manufatto di settant’anni fa, anche solo per riprodurre l’intarsio sul manico ci impieghereste qualche mese, e dovreste avere l’originale accanto. Dovete recuperare l’originale.»
«E Mycroft aveva dimenticato un ombrello tanto prezioso a casa tua?» aveva chiesto Midonz incredula.
«Mycroft perde e dimentica in continuazione i suoi preziosi ombrelli in giro. E poi spende molti soldi per ritrovarli, riuscendoci sempre.» Sherlock sbuffò, scuotendo la testa.
«E noi dovremmo rischiare tanto, compiere un’infrazione e un furto in una delle case meglio sorvegliate di tutta l’Inghilterra, solo per recuperare uno stupido ombrello?»
«L’ombrello è fondamentale, come ogni altro particolare.» disse Sherlock con solennità. «Ogni piccolo elemento della scena può funzionare da gancio emotivo per suscitare la reazione di John.  E poi sono certo che grazie al vostro contatto governativo abbiate una mappa dettagliata della casa di Mycroft. Con le vostre esperte informatiche riuscirete a disattivare i sistemi di sicurezza, e per intrufolarvi in casa avete ben tre ex soldatesse, di cui una… ah già prima avevo dimenticato di precisarlo: una appartenente al corpo di elite dei Navy Seals.»
Midonz era dubbiosa, ma effettivamente non sembrava un’impresa impossibile.
Temeva che l’ombrello fosse un trucco di Sherlock per mettersi in contatto col fratello: poteva trattarsi di un’ombrello tecnologico, alla James Bond, che conteneva un dispositivo di comunicazione radio o wi-fi. Ma con dei semplici rilevatori si poteva scoprire se l’ombrello lanciava o riceveva segnali. Una volta rubato (se avessero deciso di rubarlo), avrebbero passato l’ombrello ai raggi-x e se avesse avuto dispositivi nascosti al suo interno l’avrebbero saputo in un istante.
Ma più ci pensava, più Midonz si convinceva che si trattasse davvero solo di uno stupido ombrello. Infatti, se le shipper avessero scoperto che si trattava dell’ombrello di James Bond si sarebbero vendicate sugli ostaggi, per punire il tentativo di insubordinazione di Sherlock. Sherlock questo lo sapeva e non avrebbe mai corso un rischio così grande.
«Dove si trovano questi ombrelli? Li tiene sotto chiave? In cassaforte?» chiese infine Midonz.
«No, si trovano in un’ala della sua stanza guardaroba.»
«Ci penserò. Ne riparliamo domani.» disse lei, per chiudere il discorso.
«Va bene.» disse Sherlock annuendo con la testa.
«Puoi andare dal tuo amato, ora.»
E così dicendo Midonz chiuse la comunicazione, pensando a cosa avrebbe chiesto a M. Voleva sapere cosa ne pensava di quella faccenda dell’ombrello.



Le utilissime note dell'autrice

Siamo in dirittura d’arrivo, ho in programma altri tre massimo quattro capitoli e finalmente la fanfic dalla gestazione più lunga del mondo sarà finita! Spero apprezzerete il campio di POV di questo capitolo: oltre a servirmi a scopi narrativi, ho pensato che mostrare per una volta il punto di vista della cattiva potesse essere interessante.
Il prossimo capitolo col POV di John è già scritto e pronto e lo pubblicherò a fine settimana, per farmi perdonare delle lunghe attese ^^'
Grazie a tutti per la pazienza :)

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


«Buonanotte» disse John spegnendo la luce.
Ormai si era rassegnato a condividere il letto con Sherlock.
A dire il vero le shipper non avevano più imposto loro di dormire insieme, quindi John e Sherlock avrebbero potuto dividersi il divano a turno (la camera di John non esisteva, il set della casa riproduceva solo il piano inferiore). Ma Sherlock lo aveva convinto che non era una scelta intelligente: il letto era matrimoniale, e comodo. Una notte sul divano avrebbe solo rovinato la schiena al malcapitato di turno. Quindi John, ignorando i commentini salaci di Midonz («E così sei riuscito a trovare una scusa per infilarti nel letto di Sherlock, oh oh oh!») aveva accettato la proposta dell’amico.
Il letto era matrimoniale e comodo.
Sì.
Certo, sarebbe stato ancora più comodo se Sherlock non avesse avuto la sciagurata tendenza ad agitarsi, scalciare e allargarsi a stella marina nel sonno costringendo John a:
  1. tirare dei calcioni a Sherlock per farlo rimettere al suo posto;
  2. rannicchiarsi in posizione fetale in prossimità del proprio cuscino;
  3. dormire in posizione distesa, ma con una gamba o altre parti del corpo di Sherlock sopra di lui.
Aveva tentato le prime due strategie: la prima era stata fallimentare (Sherlock si rimetteva composto, ma dopo pochi minuti le sue lunghe leve sconfinavano nuovamente nella zona letto di John); la seconda lo aveva fatto svegliare con le gambe intorpidite e il mal di schiena (e allora tanto sarebbe valso dormire sul divano); perciò aveva deciso di optare per la terza strategia: lasciare che Sherlock si allargasse in libertà. Dopo due notti un po’ tormentate ci aveva fatto l’abitudine e ora riusciva a dormire piuttosto bene anche con le gambe di Sherlock stravaccate sulle sue. O con una sua mano spiaccicata in faccia.
Doveva stare attento al momento del risveglio, però.
Proprio quella mattina era successo un episodio talmente spiacevole che John non aveva avuto il coraggio di guardare Sherlock in faccia per tutta la giornata.
La sera prima, dopo la faticosa e umiliante avventura nel bosco, era crollato nel sonno e aveva dormito come un sasso senza svegliarsi nemmeno una volta. La mattina, ancora intontito dal sonno e non perfettamente cosciente, aveva sentito la voce di Sherlock pronunciare delle strane parole: «Dannato Moriarty, ti ho detto che non sono armato, metti giù quella pistola!»
Le parole “pistola” e “Moriarty” nella stessa frase svegliarono John di botto, che si sorprese con un braccio buttato sul fianco di Sherlock e l’erezione mattutina ben premuta contro la sua schiena.
John era rimasto paralizzato per qualche secondo, in uno stato di imbarazzo annichilente, mentre Sherlock aveva continuato a biascicare parole incomprensibili nel sonno. Quando Sherlock, con un inconsapevole movimento ondeggiante del bacino, aveva strofinato il suo sedere contro la stoffa tesa dei suo boxer causando a John uno sgradevole brividino di piacere (poteva essere sgradevole un brividino di piacere?), John aveva capito che era arrivato il momento di spostarsi. Si era dapprima allontanato con un movimento delicato per non svegliare Sherlock, aveva ostentato uno sbadiglio a favore di telecamera shipper, sperando che nessuna di loro avesse capito perché Sherlock stesse sognando una pistola e si era rapidamente girato dall’altra parte, aspettando a occhi chiusi qualche minuto (parecchi minuti, a dire il vero) che la situazione in mezzo alle sue gambe tornasse alla normalità.

A distanza di mezza giornata John si rendeva conto di non aver smesso un istante di pensarci. Non aveva aiutato il fatto che non fosse successo nulla per tutto il giorno, a parte una decina di minuti dopo pranzo in cui Sherlock aveva avuto un secondo misterioso colloquio privato con Midonz, dieci minuti che John aveva trascorso da solo in camera con della musica classica sparata a tutto volume, ovviamente a ossessionarsi sull’episodio imbarazzante.
In seguito Sherlock non gli aveva detto nulla del colloquio (ovviamente), e John era ancora in attesa di capire quale fosse il suo piano.
E proprio mentre John si chiedeva questa cosa sentì la mano di Sherlock appoggiarsi sulla sua schiena.
Riuscì a trattenere un sussulto di sorpresa.
Erano entrambi stesi sul fianco, e John dava le spalle a Sherlock. John chiuse gli occhi fingendo di essere sul punto di addormentarsi, e rimase in attesa. Sapeva cosa stava per succedere. Sherlock avrebbe scritto un messaggio sulla sua schiena, come aveva fatto quella prima notte, per fargli sapere quali erano i suoi piani.
Ma questa volta la comunicazione sarebbe stata unidirezionale. La prima volta, infatti, si erano abbracciati per scaldarsi (colpa del freddo atroce che le shipper avevano fatto calare nella stanza), quindi John aveva potuto rispondere a Sherlock scrivendogli sul dorso del braccio mentre Sherlock scriveva sul ventre di John. Adesso invece il contatto avveniva a totale insaputa delle shipper, con Sherlock e John separati nel letto, e John non aveva modo di raggiungere con la sua mano quella di Sherlock: se si fossero abbracciati sotto le coperte sarebbe stato evidente dall’esterno.
Trascorse un tempo imprecisato, un minuto o forse due, e infine Sherlock, molto lentamente, sollevò la maglia del pigiama di John. Quando avvertì le sue dita calde sulla pelle, John non riuscì a sopprimere un brivido, che gli percorse ogni muscolo del corpo come una scossa elettrica.
Calmati John, si disse.
Era davvero troppo stressato, non ne poteva più. Anche un piccolo contatto come quello aveva il potere di metterlo in agitazione.
Sherlock iniziò a muovere il dito sulla schiena di John, disegnando le forme delle lettere dell’alfabeto.
T-O-S-S-I-S-C-I  S-E  S-E-I  S-V-E-G-L-I-O.
John diede un leggero colpo di tosse.
T-O-C-C-A-M-I  G-A-M-B-A  C-O-N  P-I-E-D-E  S-E  N-O-N  C-A-P-I-S-C-I.
E dopo aver scritto queste parole, che John aveva capito perfettamente, sentì la gamba di Sherlock spostarsi sotto le lenzuola e avvicinarsi alla sua.
Dopo qualche istante e Sherlock ricominciò.
H-O  F-R-E-G-A-T-O  M-I-D-O-N-Z.
John non aveva idea di cosa Sherlock avesse detto a quella donna, ma aveva fiducia in lui e si rallegrò intimamente dell’informazione. Naturalmente non fece trapelare la minima emozione sul suo volto, che spuntava dalle coperte ed era visibile alle telecamere a infrarossi delle shipper.
N-E-L-L-A  P-R-O-S-S-I-M-A  P-R-O-V-A  A-S-S-E-C-O-N-D-A-M-I  I-N  T-U-T-T-O.
La prossima prova. Sherlock sapeva già di cosa si trattava? John moriva dalla curiosità.
C-I  S-A-R-À  U-N  O-M-B-R-E-L-L-O  N-O-N  F-A-R-E  C-O-M-M-E-N-T-I.
Un ombrello? John non riusciva a immaginare una prova shipper che richiedesse l’uso dell’ombrello.
A meno che non si trattasse di qualche truculenta pratica sessuale.
O cielo.
Ma no, non era possibile. Sherlock avrebbe accennato a qualcosa, se così fosse stato.
Vero che avrebbe accennato qualcosa?
P-E-R  O-R-A  S-E-I  S-T-A-T-O  B-R-A-V-O.
Sì, ok, ma cosa diamine c’entrava l’ombrello?
D-O-M-A-N-I  T-I  B-A-C-E-R-Ò.
Mentre la parola “bacerò” si formava sulla sua schiena il cuore di John accelerò i battiti e l’ombrello passò immediatamente in secondo piano.
Cosa stava dicendo Sherlock? Perché? In che senso lo avrebbe baciato? Un bacio a stampo? Un bacio cinematografico? Un bacio alla francese con lingua, palpeggiamenti e tutto il resto?
Merda.
Il dito di Sherlock iniziò a sembrargli un marchio a fuoco sulla sua schiena.
F-O-R-S-E, aggiunse Sherlock.
Ah.
Forse mi bacerà.
Ok
.
Quindi John sarebbe rimasto in tensione per tutta la durata della prova, in attesa del bacio che forse ci sarebbe stato, o forse no.
Bene.
S-O-L-O  S-E  S-A-R-Ò  C-O-S-T-R-E-T-T-O  A  F-A-R-L-O.
Ottimo. Quindi Sherlock era riluttante a baciarlo.
Giustamente riluttante.
Anche John era riluttante. No?
T-U  R-I-S-P-O-N-D-I  A-L  B-A-C-I-O.
Sì, certo. L’aveva dato per scontato dal principio, che avrebbe dovuto rispondere al bacio. Altrimenti perché gliel’avrebbe detto?
S-E-I  P-I-Ù  E-S-P-E-R-T-O  D-I  M-E  I-N  M-A-T-E-R-I-A .
Poi attese qualche secondo e aggiunse:
Q-U-I-N-D-I  G-U-I-D-A-M-I  T-U.
Poi attese qualche altro secondo e aggiunse:
S-O-N-O  S-I-C-U-R-O  C-H-E  S-E-I  B-R-A-V-I-S-S-I-M-O.
John stava iniziando a imbarazzarsi e sperò che le telecamere notturne delle shipper non avessero anche dei rilevatori di temperatura, perché sentiva il viso in fiamme. Sherlock stava forse cercando di lusingarlo?
L-E  S-H-I-P-P-E-R  D-E-V-O-N-O  C-R-E-D-E-R-C-I.
Ok, il concetto era chiaro, perché continuava a perdere tempo per ribadirlo? Non era certo il metodo di comunicazione più pratico e veloce del mondo e stava sprecando tempo per aggiungere precisazioni inutili.
Passò qualche lungo secondo in cui Sherlock continuò a tenere il dito premuto contro la schiena di John. Doveva ancora dirgli qualcosa? A cosa stava pensando? Al bacio forse? John si morse il labbro.
Ed ecco che il dito di Sherlock si mosse di nuovo:
T-I  S-E-I  A-D-D-O-R-M-E-N-T-A-T-O?  S-E  S-E-I  S-V-E-G-L-I-O  T-O-C-C-A  G-A-M-B-A.
John toccò per qualche istante la gamba di Sherlock con la punta del suo piede.
Avvertì un’altra ondata di calore al volto.
Era un contatto stupido. Piede contro gamba. Erano stati molto più in contatto di così, qualche sera prima, e quella stessa mattina si era svegliato con un’erezione (involontaria) premuta sulla sua schiena, accidenti! Ma l’intimità e il segreto di quel piccolo gesto diedero uno strano e incomprensibile turbamento a John.
Sono stressato, pensò, continuo ad agitarmi senza motivo.
H-A-I  C-A-P-I-T-O  C-H-E  F-O-R-S-E  T-I  B-A-C-E-R-Ò?  T-O-C-C-A  G-A-M-B-A  S-E  S-Ì.
Sì, cazzo, sì che l’aveva capito! John mosse per la seconda volta il piede e toccò di nuovo la gamba di Sherlock.
B-E-N-E  B-U-O-N-A-N-O-T-T-E, scrisse Sherlock.
E quindi si congedò. Staccò il dito dalla sua schiena e tirò giù delicatamente il lembo sollevato del pigiama di John, infilandolo dentro il pantalone.
John si stupì a pensare che era un gesto tenero. Avrebbe potuto lasciargli la schiena scoperta, John di lì a breve si sarebbe girato e sistemato il pigiama da solo. Ma Sherlock aveva avuto quella piccola premura, una piccola premura segreta di cui le shipper non sapevano nulla, e l’idea di Sherlock che si preoccupava se John sentiva freddo sul fianco lo intenerì.
Sto vaneggiando. Mi sto intenerendo per una stupidaggine che quasi certamente avrà fatto senza pensarci.
John prese un ampio respiro per calmarsi. Si stese a pancia in giù, sperando di rimanere in quella posizione per tutta la notte e non ripetere una situazione imbarazzante come quella della mattina precedente.
E si addormentò pensando alla mano sul fianco, al pigiama rimboccato, alle labbra di Sherlock.



Le utilissime note dell'autrice
Capitolo un po' più breve del solito. Inizialmente faceva parte del capitolo precedente, ma poi ho pensato che il POV doppio avrebbe creato confusione e ho preferito separarlo. Appuntamento tra una settimana o poco più per il proseguimento.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


«Sherlock, Benvenuto! Stasera offre la casa, per te e per questo bel bocconcino!»
«Noo! Stooop!» gridò Midonz dall’altoparlante.
Angelo, che ancora stava stringendo vigorosamente la mano di Sherlock, sbuffò e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi con un gesto teatrale. John si passò una mano sul viso. Bel bocconcino?
«Quante volte devo dirti che non devi fare variazioni creative al copione?» disse Midonz. Per una volta John era d’accordo con lei.
«Volevo aggiungere un tocco personale, un guizzo di passione!» protestò Angelo col suo marcato accento italiano. «Ho fatto parte di un gruppo teatrale dilettantesco, so improvvisare molto bene.»
«Torna indietro, rientra e questa volta dì la battuta giusta. E ti avviso: è la prima e ultima volta che interrompiamo la scena, se ti inventi qualche altra stupidaggine te la dovrai vedere con noi. E tu lo sai quanto sappiamo essere spiacevoli, se lo vogliamo…»
«…talento sprecato…» borbottò Angelo mentre si allontanava «…perle ai porci…»
Sherlock tossì. John si passò una mano tra i capelli.
«Scusate per l’interruzione, ragazzi, non succederà più. Ah… e buon divertimento.»
A quelle parole, che erano state dette con un’intonazione decisamente maliziosa, John non poté evitare di pensare al bacio. Forse ti bacerò, era stato il messaggio che Sherlock aveva scritto sulla schiena di John circa una settimana prima. Se sarò costretto a farlo, aveva aggiunto.
E John, per una settimana, nell’attesa noiosa ed estenuante della nuova prova, non aveva fatto altro che pensarci.
In una situazione di vita normale non ci avrebbe dato peso. Sarebbe andato al lavoro, avrebbe avuto indagini da studiare insieme a Sherlock, sarebbe uscito con qualche ragazza, magari. Ma lì in quella dannata prigione non c’era nulla da fare, e ossessionarsi sul bacio era diventato il suo passatempo principale.
Dopo una trentina di secondi Angelo spuntò di nuovo dal retro con aria gioviale. La recita stava per ricominciare.
«Oooh, caro Sherlock!» lo abbracciò calorosamente «Benvenuto!» posò due menù sul tavolo «Stasera offre la casa, per te e per il tuo ragazzo.»
Be’, sempre meglio di bel bocconcino, pensò John. «Non sono il suo ragazzo» sentì il bisogno di precisare.
«Vado a prendere una candela da mettere sul tavolo. È più… romantico» proseguì Angelo, pronunciando la parola “romantico” con un sospiro degno dell’eroina di una soap opera. Poi si voltò con una giravolta svolazzante e si allontanò verso il fondo del locale.
«Non sono il suo ragazzo!» ripeté John all’uomo corpulento mentre se ne andava.
John non fece nemmeno in tempo a scuotere la testa e fare un sorrisetto tirato a un impassibile Sherlock che vide Angelo tornare verso il loro tavolo tenendo davanti a sé sulla punta delle dita una candelina accesa. Camminava con un’aria pomposa e, arrivato al loro cospetto, posò la candela in centro al tavolo con la solennità di Amleto col teschio di Yorick.
John sollevò gli occhi al cielo. La prova era già abbastanza imbarazzante anche senza le velleità attoriali di Angelo.
«Grazie» mormorò John. Angelo rispose con un inchino subito prima di andarsene e lasciarli soli.
Per tenersi occupato con qualcosa, John prese in mano il menù e scorse la lista di piatti: cucina italiana, proprio come ricordava.
Ma non aveva fame, era troppo nervoso, quindi posò il cartoncino e si guardò intorno. Si trovavano in un set che riproduceva alla perfezione gli interni del ristorante Angelo’s, con tanto di finti clienti. Era il luogo dove John e Sherlock avevano avuto il loro primo appuntamento, almeno secondo l’interpretazione delle shipper. Si trattava, sì, della prima volta che erano usciti a cena insieme, ma John non l’avrebbe definito un appuntamento. Era, piuttosto, un appostamento. Un appostamento organizzato da Sherlock per tendere un agguato al misterioso assassino del primo caso a cui avevano lavorato insieme: lo studio in rosa, come l’aveva chiamato John sul blog.  
John e Sherlock erano persino vestiti identici a quella sera, Sherlock come sempre elegante e impeccabile in un completo nero, John con quello stupido maglione ecrù che non indossava da secoli e pensava fosse stato divorato dalle tarme nelle profondità di qualche cassetto, invece eccolo lì, perfettamente integro e profumato di lavanda.
L’unico particolare differente era l’ombrello.
Un oggetto che John non credeva di aver mai visto a casa loro; sembrava uno di quegli ombrelli raffinatissimi e costosissimi di Mycroft. Forse lo era, ma cosa ci faceva lì? Da dove saltava fuori? E soprattutto, quale era la ragione della sua presenza in scena? Erano tutte domande che non poteva porre ad alta voce: Sherlock, durante la comunicazione segreta sotto le coperte, quella in cui gli aveva annunciato la possibilità del bacio - Oddio, il bacio! - aveva avvisato John della presenza dell’ombrello e gli aveva detto di non fare commenti in merito, così John si era trattenuto dal chiedere alcunché o anche solo dal fissarlo troppo a lungo. Sherlock aveva architettato qualche tipo di piano che richiedeva l’uso dell’ombrello, questo era ovvio, e le shipper non dovevano insospettirsi.
E adesso? Le shipper cosa si aspettavano da loro? Non c’era alcun serial killer da tenere sott’occhio, quindi John aveva preso a vorticare i pollici e Sherlock si stava grattando l’orecchio con aria imbarazzata.
Forse ti bacerò.
John deglutì e chiuse gli occhi per qualche secondo, non ne poteva più di quel pensiero ossessivo. Doveva trovare qualcosa da dire. Quando riaprì gli occhi vide trotterellare verso di loro il suo salvatore: Angelo con un vassoio e una bottiglia di vino bianco.
«Quand’è che abbiamo ordinato?» disse John aggrottando le sopracciglia.
«Hors d’oeuvre!» annunciò giulivo Angelo «Tartine di aragosta con frutto della passione»
«Ehm… dov’è finita la cucina italiana?» chiese John sottovoce.
«Piatto a-fro-di-si-a-co!» bisbigliò Angelo a Sherlock mentre stappava il vino. Poi guardò John e gli fece l’occhiolino.
John aveva la netta sensazione che anche queste fossero aggiunte fantasiose al copione, ma stavolta Midonz non interruppe la scena.
John abbassò gli occhi sul vassoio e notò che ogni tartina era condita con decorazioni a forma di cazzetto. Sollevò uno sguardo disperato verso Sherlock che, apparentemente ignaro, stava addentando una tartina fissando John negli occhi con uno sguardo intenso. Stava forse cercando di lanciargli un messaggio? Qualcosa del tipo: John, provaci con me?
E allora a John venne un’idea.
«Ti ricordi di cosa abbiamo parlato quella sera?»
«Mh?» fece Sherlock masticando.
«Mi avevi detto di essere sposato con il tuo lavoro...» disse John, e addentò anche lui una tartina cazzetto.
«Oh, già! Quando ci hai provato con me.»
John quasi si strozzò con la tartina.
«Prego?» disse tossendo. Non era a questo che aveva pensato, proponendo quell’argomento di discussione. Il suo intento era parlare della passata vita sentimentale di Sherlock, prendendola un po’ alla larga, ma Sherlock con una battuta aveva invertito il fuoco della discussione.
«Ricordo benissimo il dialogo,» proseguì Sherlock con semplicità «ti sei informato sulle mie frequentazioni e poi hai espresso soddisfazione quando ti ho detto di essere gay e non fidanzato.»
John spalancò gli occhi e la frase appena pronunciata da Sherlock risuonò nella sua mente come l’eco di una campana trionfale.
Essere gay e non fidanzato.
Essere gay e non fidanzato.
Essere gay.
GAY.
Gay e non fidanzato.
John scosse la testa.
«A dire il vero» disse John «non sono mai stato troppo sicuro, uhm, del significato di quel discorso. Cioè non… quindi… sei… davvero… Cioè... l’ho pensato quella sera, ma poi hai sviato l’argomento dicendomi di essere sposato al tuo lavoro e…»
«Ti ho detto che le donne non sono il mio campo. Mi sembra un’affermazione piuttosto inequivocabile.»
«Sì, ma… e Irene Adler?»
«Che c’entra Irene Adler?» chiese Sherlock con un’espressione incuriosita.
«Non hai… mai...?» tentennò John.
«Non ho avuto alcun rapporto sessuale o sentimentale con Irene Adler, se è quello che stai cercando di chiedermi.» disse risoluto Sherlock.
John era confuso. Sherlock stava dicendo la verità o erano menzogne per le orecchie delle shipper? Non aveva mai parlato di argomenti simili con Sherlock, e adesso non avrebbe saputo dire dove finiva la verità e iniziava la messinscena.
Oh, quanto avrebbe voluto sapere la verità!
«A cosa stai pensando, John?» chiese dolcemente Sherlock appoggiando i gomiti sul tavolo e sporgendosi verso di lui. Mancava solo che si mettesse a fare flap flap con le ciglia.
«A cosa sto pensando?» gli fece eco John. «A niente!» disse sforzandosi di mantenere un tono noncurante. Sapeva che Sherlock lo stava provocando solo per far credere alle shipper che stesse nascendo un’intesa sentimentale tra di loro, ma la cosa lo metteva a disagio come se fosse tutto vero e non riusciva a stare al gioco.
«Sai,» disse Sherlock abbassando lo sguardo «tu poi quella sera hai negato tutto. Ma…» si morse il labbro «…ho sempre voluto chiedertelo e…»
Dio come faceva bene la parte dello spasimante imbarazzato! Oddio, forse lo caricava un po’ troppo. Del resto non era esperto in rapporti sentimentali, e stava imitando modelli di comportamento stereotipati.
«Vuoi sapere se ci stavo provando davvero con te?» sputò fuori John. Non ebbe il coraggio di guardare Sherlock negli occhi mentre lo diceva.
E subito sentì lo stomaco contorcersi e la stramaledetta aragosta che aveva appena ingoiato sembrò riprendere vita e volerlo strozzare risalendo nell’esofago. Afferrò la bottiglia di vino e versò un bicchiere per lui e uno per Sherlock.
Ripensò a quella sera. No, non ci aveva provato con lui, Sherlock aveva frainteso tutto.
Eppure…
Eppure cosa, John?
John tracannò il bicchiere in pochi sorsi.
«John?» lo incalzò Sherlock.
John sollevò lo sguardo e gli occhi di Sherlock sembravano quasi lucidi per l’emozione.
Dio Sherlock, smettila di recitare così bene.
«Non lo so,» disse «non lo so cosa stavo facendo.» E si rese conto con orrore che aveva detto la verità.
Io non so se ci stavo provando con Sherlock, quella sera.
E ripensò al bacio. John guardò le labbra leggermente socchiuse di Sherlock. Avevano un aspetto così morbido e invitante.
Forse mi bacerai? E quando lo farai? Adesso?
«Le pièce de résistance!» Angelo irruppe in scena con la grazia di un trattore agricolo, interrompendo le elucubrazioni di John. Sherlock fece una smorfia che a John sembrò quasi infastidita.
L’uomo posò due piatti di pesce sul tavolo e portò via il vassoio con le tartine. Mentre se ne andava fece l’occhiolino a John.
«A proposito, credo che Angelo ci stia provando con me. È la seconda volta che mi fa l’occhiolino.» John ridacchiò istericamente.
Sherlock sorrise alla battuta e spinse il piatto lontano da sé.
John lo imitò. «Nemmeno io ho fame.»
Sherlock per qualche secondo strizzò gli occhi e fissò un punto lontano davanti a sé, come se stesse pensando a qualcosa. Poi prese il suo bicchiere, ancora colmo di vino, e lo bevve tutto d’un fiato. Fece un sospiro teatrale e improvvisamente, inaspettatamente, si alzò in piedi. John si scostò leggermente dal tavolo, allarmato. Istintivamente lanciò un’occhiata rapidissima al locale, e notò che i clienti, impersonati dalle shipper, si erano voltati tutti a guardare Sherlock. Stava cercando di attirare la loro attenzione?
«Guardami negli occhi John!» disse Sherlock, sedendosi sul divanetto accanto a lui.
Ok, messaggio ricevuto, devo guardare lui. Non devo guardare le shipper. Sta per succedere qualcosa? Sta per succedere QUELLA cosa?
Improvvisamente sentiva la gola secca.
«So che non è il luogo e il momento, ma devo chiedertelo. Guardati nel cuore, John: sei sicuro di non saperlo?» il suo viso si avvicinò di qualche centimetro a quello di John.
«Eh?» disse John confuso «Sicuro di non sapere… cosa?»
«Sicuro di non sapere cosa stavi facendo quella sera.» Poi si avvicinò un altro po’, allungò le mani e prese quelle di John. «Sicuro di non sapere quello che provi.»
Ok. Respira John. Respira. È tutta una farsa.
Sentì il cuore pulsargli nelle tempie.
«Cristo Sherlock,» disse John quasi tra sé e sé «non fare così.»
Abbassò gli occhi e guardò le mani di Sherlock posate sulle sue.
«È difficile per me, lo sai.»
John vide le mani di Sherlock avvicinarsi. Lo prese per il viso e lo sollevò costringendo John a guardarlo di nuovo negli occhi. Era incredibilmente vicino, ora, solo pochi centimetri li separavano. Allora John posò una mano sul petto di Sherlock: il suo cuore batteva così veloce.
È solo la tensione, non è emozionato.
John strinse la mano a pugno, accartocciando la camicia. Sherlock lo fissava, lo sguardo carico di esortazione e le guance imporporate.
È il vino che ha appena bevuto, non è emozionato.
«Anche per me è difficile John» la sua voce era rotta dall’emozione.
No, non è emozione, John. È tutta una farsa, non prenderla sul serio.
Sherlock si morse il labbro inferiore.
E quella visione ruppe qualcosa dentro la sua testa. John spinse via le braccia di Sherlock, che ancora gli stavano tenendo il viso. Affondò le mani tra i suoi capelli e lo tirò a sé. Appoggiò la fronte contro la sua e rimase qualche secondo fermo a sentirlo respirare. Strinse i capelli tra le mani e Sherlock rispose con un piccolo gemito stizzito. Gli stava facendo male? Ma non si sentì in colpa, anzi, quel gemito disintegrò anche quel po’ di esitazione che gli rimaneva. John allungò il collo e nell’istante in cui le sue labbra toccarono, anzi, sfiorarono quelle di Sherlock si udì un fracasso di vetri rotti, e una specie di esplosione e Sherlock si buttò addosso a John e lo spinse sotto al tavolo.
John si guardò intorno confuso, frastornato, cosa stava succedendo?
Da sotto il tavolo vide una piccola folla di uomini in divisa antisommossa, con mitra e pistole puntati sulle avventrici del locale, sulle shipper, e John si rese conto di essersi dimenticato per un paio di minuti delle shipper, del fatto che fossero lì su quel set con loro.
«Che cosa…?»
Era talmente intontito che gli sembrava di essersi appena risvegliato da un’anestesia totale.
«Appena in tempo, bravissimo!» disse Sherlock guardando nel vuoto davanti a sé. Con chi stava parlando?
La confusione si risolse molto rapidamente: qualche urlo, qualche calcio rotante fermato a mezz’aria e le shipper presenti nella stanza furono tutte ammanettate nel giro di un minuto o poco più. John guardò Sherlock che annuiva fissando il vuoto e tenendo una mano premuta all’orecchio: indossava un auricolare? Chi gliel’aveva consegnato? E quando?
John scosse la testa ripensando a quello che era appena successo. Troppe cose.
Aveva quasi baciato Sherlock. Avvertiva ancora la sensazione fugace del contatto sulle labbra.
E poi erano stati liberati, a quanto pareva. Gli uscì una risatina isterica.
«Siamo liberi?» chiese incredulo a Sherlock.
Sherlock non rispose, lo vide alzarsi in piedi e sorridere a qualcuno davanti a sé. «Sapevo che avresti capito!» esclamò in tono entusiasta.
«Certo che ho capito, era elementare!» Era la voce di Mycroft.
John si tirò fuori da sotto il tavolo: il fratello di Sherlock avanzava a passi lenti e sicuri verso di loro.
«Complimenti per la recita,» disse guardando John e battendo una mano sulla spalla di Sherlock «siete stati molto convincenti, sembravate proprio due piccioncini.»
«Siamo entrambi due bravi attori.» disse Sherlock abbassando lo sguardo.
«Ma come…? Cioè, cosa…?» John non ci stava capendo nulla.
«Gli ostaggi?» chiese Sherlock a Mycroft.
«Tutti in salvo. È stata un’operazione pulitissima.» rispose Mycroft.
«Qualcuno vuole spiegarmi cos’è appena successo?» chiese John spazientito.
Ma né Sherlock né Mycroft risposero, perché proprio in quel momento, quasi dal nulla, apparve Angelo, sorridente e baldanzoso come sempre.
«Vecchio marpione,» disse a Sherlock agitando un dito verso di lui, «lo sapevo che c’era qualcosa fra voi due…»
«Stavamo recitando!» sbottò John infastidito. Si morse un labbro pensando al bacio che c’era quasi stato e senza quasi rendersene conto guardò quelle di Sherlock.
«Posso riavere il mio ombrello?» disse Mycroft allungando una mano verso Sherlock.
L’ombrello scacciò momentaneamente il pensiero del bacio dalla mente di John. «L’ombrello c’entra qualcosa, vero?» chiese «C’era una ricetrasmittente all’interno, oppure…»
Sherlock e Mycroft risero all’unisono, facendo sentire John, per l'ennesima volta, uno stupido.
«L’ombrello è la chiave di tutto,» disse Sherlock «ma la soluzione è molto più semplice di quel che pensi.»

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Il corpo nudo di Sherlock emerse dalle onde bello e imponente come quello di Poseidone, l’acqua salmastra scintillava magicamente sui suoi muscoli scolp…

«La doccia è libera» disse Sherlock uscendo dal bagno, capelli gocciolanti e un asciugamano avvolto in vita.
John prese a cliccare furiosamente sul tasto backspace del suo laptop, ma per qualche assurda ragione il programma si inceppò dopo aver cancellato appena due lettere. La frase che aveva scritto campeggiava nera su bianco nell’editor del suo blog, sul browser.
John iniziò a sbattere il dito con violenza sul dannato tasto, mentre Sherlock si avvicinava sempre più.
Merda, ma cosa stavo pensando?
Sherlock stava per passare dietro le spalle di John, se poi si fosse voltato avrebbe letto facilmente la frase. John tentò allora di chiudere la finestra del browser, ma anche il puntatore del mouse era bloccato: il suo pc aveva deciso di incepparsi proprio nel momento migliore. Capì che non ce l’avrebbe fatta, quindi tirò giù di scatto lo schermo del laptop proprio mentre Sherlock gli passava a fianco. Si stiracchiò simulando noncuranza, mentre Sherlock gli lanciava un’occhiata sospettosa. «Non preoccuparti John, non ho nessuna intenzione di sbirciare il noiosissimo resoconto della nostra ultima disavventura» disse.
John era troppo imbarazzato per rispondere qualcosa e si limitò a biascicare un goffo «bah» come per fingere che non gli interessava se Sherlock sbirciava o meno il resoconto. 
Sherlock uscì in veranda e ammirò il panorama con i pugni puntati sui fianchi: mare verdeazzurro a perdita d’occhio. Si trovavano in un bungalow palafitta con vista mare in un esclusivo resort alle Bahamas, gentile omaggio di Mycroft che aveva insistito per pagare loro una vacanza di due settimane «per rilassarvi in un ambiente diverso dal vostro appartamento, dopo lo stress che avete dovuto subire su quel set infernale». Sherlock ovviamente si era opposto («Non esiste nulla di più noioso di una vacanza») ma Mycroft l’aveva convinto con un caso.
Ebbene sì, un caso. 
Erano in vacanza, ma stavano anche lavorando: dovevano scoprire l’identità di un criminale informatico a capo di una vasta organizzazione mondiale specializzata in ransomware. Tutti gli indizi portavano a credere che avesse residenza alle Bahamas. Proprio quella sera stessa John e Sherlock si sarebbero intrufolati in incognito a un party dove Sherlock era certo di smascherare il misterioso individuo.
John era moderatamente soddisfatto: Sherlock si rilassava lavorando al caso, mentre lui si rilassava godendosi il mare, la cucina locale, le bellezze che passeggiavano sulle spiagge e Sherlock che si tuffava nel mare azzurro ed emergeva dalle onde bello e imponente come Poseidone.
Dannato Sherlock!
John battè un pugno sul tavolo.
Sherlock si era seduto su una sedia sdraio in veranda, all’ombra della tettoia di paglia, e si era messo a esaminare da un tablet chissà quali informazioni sul caso.
«Potresti anche approfittarne per prendere un po’ di sole, non pensi sia il caso di ripristinare le tue scorte di vitamina D?» disse John.
«Con tutte le passeggiate in costume che siamo stati costretti a fare per pedinare i sospetti direi che le mie scorte di vitamina D sono ripristinate per i prossimi dieci anni.»
L’immagine mentale di Sherlock finto turista, in bermuda a fiori, cappello di paglia e succo di frutta con cannuccia sbirula, fece sorridere John.
«Mentre io memorizzo le identità degli invitati alla festa puoi riprendere a scrivere il tuo post, se vuoi, da qui non riesco a leggere alcunché sul tuo schermo. Anche se non mi è difficile immaginare cosa scriverai: Sherlock è stato intelligentissimo, Sherlock ha salvato tutti come sempre, Sherlock grazie alla sua mente geniale ha battuto la lega delle shipper malvagie, Sherlock, Sherlock, Sherlock, bla bla bla, cuoricini e punti esclamativi.»
«Smettila di… come hai detto scusa?»
«Sherlock Sherlock Sherlock, bla bla bla, cuoricini e punti esclamativi. Lo vuoi scrivere? È una frase interessante, credo che potrebbe piacere ai tuoi lettori dal quoziente intellettivo al cinquantesimo percentile.»
«Ma no… la frase precedente, la lega… la lega delle shipper malvagie? The evil shipper league… È un ottimo titolo per il post!» disse John sollevando nuovamente il coperchio del suo laptop.
«Grazie Sherlock.» disse Sherlock.
«Grazie Sherlock.» gli fece eco John.
La finestra del browser era ancora aperta sull’editor, nel punto dove aveva smesso di scrivere poco prima. John provò di nuovo a cancellare quella frase idiota su Sherlock che usciva dall’acqua bello come Poseidone (ma perché l’aveva scritta?) e il pc questa volta rispose al comando. Ovviamente. Il computer decideva di bloccarsi sempre nei momenti meno opportuni, quando invece non era importante funzionava a meraviglia.
John riprese a scrivere il resoconto dal punto in cui l’aveva interrotto.

Mi sono chiesto come avesse fatto Sherlock a salvare se stesso, me e tutti gli ostaggi grazie a un semplice, stupido ombrello e ho inizialmente ipotizzato che al suo interno fosse stato installato un dispositivo di trasmissione radio o un GPS con cui Mycroft poi è riuscito a tracciare la nostra posizione. Ma nulla di tutto questo! È stata una combinazione dell’intelligenza straordinaria dei due fratelli Holmes.
Tutto è iniziato durante la prova della battaglia a paintball. Ho scoperto in seguito che Sherlock aveva esplicitamente richiesto alle shipper una prova all’aperto nella speranza di riuscire a capire la posizione geografica della nostra prigione dall’ambiente circostante. E ovviamente c’è riuscito! A me sembrava un comunissimo bosco come tanti altri, invece Sherlock dall’esame della flora ha capito che si trattava di un bosco situato in una regione che non posso citarvi per questioni di segreto di stato (si tratta di un’ex area di uso militare, e non posso aggiungere altro)!
Dopo aver scoperto la nostra posizione, Sherlock ha ideato un metodo geniale per comunicarla a Mycroft: l’ombrello! Con uno stratagemma è riuscito a convincere le shipper a rubare a Mycroft un ombrello particolare della sua collezione, un ombrello artigianale il cui manico era stato intagliato nel legno di un arbusto che in Inghilterra cresce solo in quel bosco! Ora, se l’ombrello fosse stato mio e l’avessi visto sparire da casa mia non avrei mai intuito che si trattava di Sherlock che cercava di mandarmi un messaggio… e anche se l’avessi intuito chi avrebbe mai pensato che il messaggio andava cercato nei materiali di costruzione? Ma, come si suol dire, buon sangue non mente! E il cervello di Mycroft Holmes non ha nulla da invidiare a quello di Sherlock Holmes!
E così Mycroft ha intuito il luogo del sequestro e organizzato la spedizione di salvataggio.

John rilesse quello che aveva scritto e si stropicciò gli occhi. L’indomani avrebbe scritto una breve conclusione e pubblicato il post sul blog. Aveva raccontato i piani delle shipper, il folle scopo del sequestro, le prove. Aveva ovviamente omesso alcuni particolari: come le foto del bacio a Sholto durante la prova paintball. O il quasi bacio durante l’ultima prova.
Il quasi bacio.
Se chiudeva gli occhi poteva rivivere la scena come se fosse appena successa: il viso di Sherlock a pochi centimetri dal suo, il rumore del suo respiro, la sensazione ruvida dei suoi capelli tra le dita.
John, sovrappensiero, si toccò le labbra. Quando si rese conto di quello che stava facendo si voltò verso la veranda: se Sherlock l’avesse visto così, con lo sguardo perso nel vuoto e le dita sulle labbra, avrebbe capito in un lampo a cosa stava pensando.
Ma per fortuna Sherlock stava ancora scorrendo le schede sul tablet.
Il sole era ormai calato e il cielo era illuminato dalle ultime luci del tramonto. John guardò l’ora sul laptop: erano le nove. Meglio iniziare a prepararsi. Aprì la bocca per richiamare l’attenzione di Sherlock ma venne preceduto: «Sì, prepariamoci.» disse lui alzandosi.
John aggrottò le sopracciglia. «Leggi anche il pensiero adesso?»
«Ci sto lavorando.» disse Sherlock. Poi si alzò e con fare energico si diresse all’armadio. Aprì l’anta e ne estrasse due smoking nuovi di zecca.
«Il tuo è quello più corto» disse.
«Non ci sarei mai arrivato da solo, grazie.» commentò John sarcastico.
Sherlock rispose con un sorrisetto.

Il party, a cui partecipavano con le identità fittizie di due dignitari del governo britannico, si teneva in una immensa sala ricevimenti dell’Atlantis, l’hotel più lussuoso dei Caraibi, su Paradise Island. Col suo smoking nero e una microscopica ricetrasmittente nell’orecchio John si sentiva un po’ James Bond.
«House e Wilson» disse Sherlock allo steward addetto agli inviti. Erano i nomi delle due identità fittizie inventate da Mycroft: Gregory House e James Wilson. John avrebbe preferito se il suo nome falso fosse stato meno simile a quello reale: stesse iniziali. Per lo meno il nome fittizio di Sherlock non iniziava per S. Curiosamente, per Sherlock Mycroft aveva scelto il nome del loro caro amico Lestrade. Era solo una coincidenza? Gli venne in mente di aver notato una strana confidenza tra Mycroft e Greg, l’ultima volta che li aveva visti interagire.
Lo steward scorse la lista degli invitati poi fece loro un gesto di benvenuto accompagnato da un largo sorriso. John e Sherlock si fecero strada.
La sala ricevimenti era immensa e già gremita di persone.
«Stasera devi sfoderare tutto il tuo fascino da seduttore» disse Sherlock con nonchalance mentre si addentravano nella sala.
John lanciò un’occhiataccia a Sherlock. «Il mio cosa?»
Sherlock fece un gesto sprezzante con la mano. «Quella cosa che ti rende irresistibile a tutti gli individui eterosessuali di sesso femminile» si fermò, rifletté qualche secondo e aggiunse: «e a quelle omosessuali di sesso maschile.»
«Non credo di essere…»
«Il tuo soprannome nell’esercito era John “tre continenti” Watson.»
«Be’» John ridacchiò imbarazzato «effettivamente…»
«E di recente hai aggiunto anche l’Australia, a Europa, Nord America e Asia. Non era di Perth la cantante lirica con cui sei uscito per qualche mese due anni fa?»
«Non mi sembrava di averti mai detto da che città…»
«L’accento era inconfondibile.»
«Riconosci persino gli accenti delle diverse città australiane?»
«Quindi John “quattro continenti” Watson. Considerando il modello di suddivisione globale a sette continenti stasera potresti aggiungere il tuo quinto alla lista.»
«Fammi indovinare: Sud America?»
«Esatto. La criminale che dobbiamo stanare è Maria Luiza Abreu, brasiliana. Dall’esame dei suoi comportamenti e spostamenti online sono ragionevolmente certo che sia eterosessuale e sessualmente molto attiva.»
«La criminale è una donna?»
«Ti stupisci?»
«No. Mi preoccupo. L’ultima volta che abbiamo avuto a che fare con criminali donne non è finita molto bene. Te lo devo ricordare? È passata poco più di una settimana.»
«Non dovrebbe essere difficile per te. E neanche spiacevole.» continuò Sherlock ignorando i commenti di John «È una donna molto bella, per quanto possa capirne io di bellezza femminile.»
Cosa intendeva dire Sherlock con quell’ultima precisazione? John non ebbe tempo di rifletterci su perché Sherlock attirò la sua attenzione.
«Eccola» disse «è lei. Vestito rosso.»
«Ne sei sicuro?» disse John. Era effettivamente una bellissima donna: alta, snella, occhi vivaci, uno splendido sorriso, pelle ambrata e una cascata di ricci naturali mozzafiato.

«Quella sarebbe un criminale informatico? Una specie di… hacker?»
«Non è una hacker, è un’imprenditrice. Ha investito risorse per costruire una rete criminale.»
«E dovrebbe cadere ai miei piedi perché…?»
Sherlock sbuffò. «Basta che la convinci a uscire insieme a te sul terrazzo e la fai avvicinare alla statuetta del putto alato che sorregge la colonna destra della tettoia. Lì Mycroft ha installato un dispositivo di decrittazione di traffico dei dispositivi mobili. Mentre starà lì a tubare con te le invieremo un’email trappola, lei la leggerà e nel momento in cui effettuerà l’accesso alla sua casella avremo anche noi accesso alla suo database email. Una volta ottenuto l’accesso avremo conferma dei suoi traffici illeciti.»
«Non ci ho capito molto, ma ok. Cercherò di portarla fuori.» commentò John.
«Bene.»
«Hai notato che sta venendo verso di noi?»
«Il tuo fascino sta già sortendo il suo effetto.»
«Sta sorridendo a te.»
«A me?»
«Mi pare proprio di sì. E ora ti saluta con la mano. Sorridi, Sherlock.»
Sherlock sorrise nervosamente mentre Maria Luiza Abreu si faceva sempre più vicina. Era affiancata da due minacciosi energumeni, probabilmente le sue guardie del corpo.
«Chi ho il piacere di ammirare?» disse la Abreu facendo un inchino a Sherlock. La sua voce era bella quanto il suo aspetto: un seducente contralto.
Sherlock si voltò perplesso verso John.
«Il signor Gregory House» disse John sfoderando un sorriso smagliante, per venire in aiuto all’amico.
«Il signor Sherlock Holmes, come immaginavo» disse la donna «e il suo fido compare John Watson»
Il sorriso morì sul volto di John.
«Pensavate di passare inosservati? A una come me?» rise. «Prima che vi preoccupiate di portarmi sul terrazzo: i miei uomini hanno già trovato e distrutto il dispositivo di decrittazione nascosto nella statuetta.»
John guardò Sherlock, che era rimasto impassibile a questo annuncio.
«Non se la prenda, signor Holmes. Mi piacerebbe comunque parlare un po’ con lei. Posso offrirle qualcosa da bere?»
«A che scopo?»
«Non le interessa fare una chiacchierata con una delle più grandi menti criminali del secolo?»
«Si sta sopravvalutando. Ho conosciuto menti criminali molto più brillanti della sua.»
«Non mi pare mi abbia ancora conosciuta. Potrei farle cambiare idea.» disse lei accennando un sorriso.
Sherlock strinse gli occhi e John capì che stava riflettendo sui ciò che avrebbe potuto ottenere dall’eventuale chiacchierata con la donna. Infine annuì. «Parliamo pure qui.»
«In mezzo a tutta questa gente?» tese una mano verso destra e una delle bodyguard le posò sul palmo una chiave tessera, che lei porse a Sherlock.
«Stanza 1895. Tra mezz’ora. E senza il reggimoccolo.» disse indicando John. 
Poi si voltò e si allontanò ancheggiando.

John guardò l’orologio. 
Venti minuti.
Venti minuti da quando Sherlock era entrato nella stanza 1895.
Alla fine Sherlock aveva deciso di andare all’appuntamento. John aveva tentato di convincerlo che non era una buona idea, ma aveva saputo da subito che sarebbe stato un tentativo vano.
Avrebbe voluto accompagnarlo alla stanza, ma appena Sherlock aveva strisciato la chiave tessera nel lucchetto, due uomini della scorta della Abreu erano usciti dalla stanza e avevano costretto John a tornare all'ascensore. 
Aveva quindi acceso l’auricolare per seguire l’incontro, ma solo per sentire la voce di lei che lo salutava e lo informava che avrebbe gettato via la cimice di Sherlock.
John ovviamente non si era arreso e aveva tentato di avvicinarsi a Sherlock per vie secondarie. Dopo aver studiato la posizione della stanza su una planimetria di evacuazione aveva individuato una scala incendio secondaria che portava sul piano della stanza, su un corridoio diverso. Aveva appena finito di salire dieci rampe di scale e stava ansimando all’ingresso del corridoio. Una rapida occhiata rivelò che non c’erano guardie del corpo in vista. Strano.
John si addentrò nel lunghissimo corridoio deserto, porte alla sua destra e alla sua sinistra. Il silenzio era totale, ma il tappeto al centro del pavimento fortunatamente attutiva il rumore dei suoi passi. Arrivato in prossimità dell’angolo si schiacciò contro il muro. 
Adesso doveva fare attenzione, dopo la curva c’era il corridoio su cui dava la camera 1895. Non poteva uscire allo scoperto, ma sarebbe rimasto lì in attesa, nel caso si fosse udito qualche rumore strano, qualche segno di colluttazione o (sperava di no) uno sparo, sarebbe balzato fuori dal suo nascondiglio in aiuto di Sherlock.
Attese.
Secondi, minuti. Dal corridoio nessun rumore, non un passo, non un respiro.
Anche le camere erano silenziose. Certo, quella era l’ora del divertimento, alle Bahamas, e le stanze erano quasi certamente tutte vuote, la gente in discoteca e nei locali. E la stanza 1895 era troppo distante dal punto in cui si trovava, quindi qualsiasi discussione stesse avvenendo al suo interno era impossibile udirla da dove si trovava John, anche nel silenzio totale.
Che strana sensazione, sembrava quasi di trovarsi in un hotel deserto.
«Signor Watson?»
La voce femminile esplose dal nulla, improvvisa. John fece un balzo all’indietro dallo spavento.
Qualche secondo dopo Maria Luiza Abreu spuntò da dietro l’angolo. Da quanto tempo era lì? John notò che era scalza. Aveva camminato in punta di piedi, trattenendo il respiro, come la migliore soldatessa stealth. Ma John non aveva udito nemmeno la porta della stanza aprirsi, e in quel silenzio avrebbe dovuto udirla, anche se era distante.
«A cosa sta pensando signor Watson?»
«Io…»
Maria Luiza rise. «Pensava di essersi nascosto bene? Pensava che i miei uomini non avessero seguito ogni sua mossa dal momento in cui è entrato in ascensore?»
John si sentì improvvisamente molto stupido.
«Dov’è Sherlock?» chiese.
La donna non rispose.
Gli fece cenno col dito di seguirlo, si voltò e sparì dietro l’angolo da cui era spuntata.
John voltò l’angolo e la seguì.
Deglutì a bocca asciutta. Avvertiva una brutta sensazione.
A passi lenti la Abreu lo condusse alla sua stanza. La porta era spalancata. La donna varcò l’uscio.
Era una suite. In un’anticamera spaziosa illuminata da un lampadario chandelier due guardie del corpo stavano ritte in piedi ai lati di una porta a due ante, petto in fuori, mascelle serrate, sguardi impenetrabili.
«Dov’è Sherlock?» chiese John, rompendo il silenzio.
La sua voce rimbombò minacciosa nell’ampia stanza.
«Entri pure in camera, signor Watson.» disse freddamente la donna.
Le gambe di John si mossero senza che lui se ne rendesse conto, partirono, lanciate in direzione della porta, e quasi perse l’equilibrio quando allungò la mano verso la maniglia per girarla. Avvertiva una strana sensazione di pesantezza alla testa.
Sherlock sedeva a terra, la schiena appoggiata a un lato del grande letto, camicia aperta sul petto, testa abbandonata su un lato.
«Sherlock!» gridò John correndo verso di lui. In due passi gli fu accanto e notò che le sue labbra erano livide.
«E questa è la fine indecorosa del grande Sherlock Holmes» disse la donna alle spalle di John.
Fu il suo istinto da dottore a prendere il sopravvento: la mano corse alla fronte per saggiare la temperatura. Era caldo. Afferrò la lampada accesa sul comodino lì accanto e la puntò sul viso dell’amico. Con pollice e indice dilatò le palpebre per controllare se la pupilla reagiva.
La pupilla era dilatata e immobile. Nessuna reazione.
Le dita di John tremarono e la lampada gli scivolò di mano, illuminando la scena con una spettrale luce dal basso.
Con la mano incerta avvicinò pollice e indice al polso di Sherlock.
Nessun battito.
Premette le dita sulla giugulare.
Nessun battito.
Appoggiò l’orecchio al petto.
Nessun battito.
In un ultimo gesto sciocco e disperato sollevò il viso dell’amico.
«Sherlock?»
Il viso gli scivolò di mano e il mento crollò sul petto.
John portò le mani alla bocca.
Stese Sherlock a terra e cominciò a praticare massaggio cardiaco e respirazione bocca a bocca.
Dopo un paio di ripetizioni John udì una voce alle sue spalle, la voce della Abreu.
«È inutile, signor Watson. È morto da dieci minuti.»
John si voltò di scatto verso la donna, che lo guardava freddamente, dall’alto in basso.
«No…» disse John.
«Non si preoccupi» aggiunse lei, con tranquillità «ho usato un veleno ad azione immediata che non gli ha causato sofferenza. Se vuole tenergli compagnia ne è rimasto un po’ in quella fiala. Sarà più che sufficiente anche per lei.» Indicò una boccetta posata sul tavolino in centro alla camera. «Vi lascio soli» aggiunse. Dopodiché sbatté la porta e serrò il chiavistello.
John era come in trance.
Passarono diversi minuti in cui rimase in ginocchio accanto a Sherlock, il cervello completamente svuotato. Poi, dopo un periodo di tempo imprecisato, voltò lentamente la testa verso il tavolo, verso la boccetta col veleno. Si sentiva come ubriaco.
No, non ce la poteva fare.
Non per la seconda volta.
Non dopo quello che avevano passato durante il sequestro.
Non dopo aver capito che lo amava.
«Sì» disse ad alta voce. Riusciva ad ammetterlo, ora. Quando era troppo tardi.
Si accorse di avere il volto bagnato di lacrime.
Si alzò in piedi lentamente, a fatica. Le gambe erano un groviglio di tendini. La forza di tenersi in piedi era al limite, ma riuscì a raggiungere il tavolo. Vi si appoggiò. Sentiva la lucidità venire meno.
Il veleno era scuro, un blu intenso quasi nero. Se non avesse saputo cos’era avrebbe detto che si trattava di succo di mirtillo.
Aprì la boccetta e osservò il liquido attraverso la luce, si lasciò ipnotizzare per qualche secondo dai riflessi violacei. Poi guardò il corpo senza vita di Sherlock appoggiato al letto. Per qualche strano motivo gli venne in mente la storia di Romeo e Giulietta. Lui si uccide dopo aver trovato il corpo senza vita di lei, morta avvelenata.
Ma non c’entrava nulla. Quello di Giulietta era un finto suicidio, mentre qui si trattava di omicidio. Reale. Ma il fatto che gli fosse venuto in mente gli fece pensare alle shipper e alle loro malate idee di romanticismo.
No. Non avrebbe pensato a quelle bastarde. Avrebbe dedicato gli ultimi pensieri a Sherlock, solo a lui. Si trascinò a fatica vicino al suo corpo, ancora steso a terra dopo il vano tentativo di rianimazione. Lo tirò su e lo rimise a sedere, la schiena appoggiata al letto. Poi gli sedette a fianco e gli prese la mano, che era ancora calda. Sembrava ancora vivo.
Sollevò la boccetta, come per brindare al destino beffardo, e bevve il liquido scuro tutto d’un fiato.

Che strano. Sa proprio di mirtillo, pensò John mentre perdeva conoscenza.

 

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Ok, mi rendo conto che postare un nuovo capitolo nel cuore della notte di sabato quando tutti sono in giro a folleggiare e io sono costretta a letto da un raffreddore di proporzioni epiche potrebbe non essere un'ottima idea. Questo capitolo l'avrò scritto e riletto e riscritto una ventina di volte, la fanfic era ferma quasi da un mese e se avessi rimandato ancora sarebbe passato un altro mese di indecisione.
Ho pensato a più possibili conclusioni della storia (tutte avevano un punto fermo, che continua a esserci, ciò che cambia è il contorno) e sono ancora indecisa su quale sia la migliore.
L'ultimo ultimissimo (!!!) capitolo della fanfic è già abbozzato, non voglio promettere che lo pubblicherò la prossima settimana, conoscendomi non ci riuscirò, ma almeno in un paio di settimane dovrei farcela.

Questo comunque mi servirà di lezione per il futuro: prepararsi sempre un po' di capitoli in anticipo prima di iniziare la pubblicazione, per garantire un ritmo regolare.

Grazie a tutti i lettori per la pazienza :P

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Luce.
Luce azzurra.
Un’incantevole melodia di arpa.
«John?»
«Sherlock?»
John si tirò su a sedere con fatica.
«Cristo, Sherlock, ho fatto l’incubo più terribile… tu eri morto e io…» John batté le palpebre un paio di volte. «Ma… ? dove…?»
Sherlock emise un mugolio, e John si voltò in direzione della voce. 
E vide non uno, ma due Sherlock, uno sdraiato sull’altro, vestiti in smoking bianco e immersi in un azzurro sconfinato.
«Ok.» John annuì. «Ok. Ho capito. L’incubo non è ancora finito.»
Si stropicciò gli occhi. Poi guardò di nuovo i due Sherlock: uno dei due si alzò in piedi, l’altro fece lo stesso sotto di lui a testa in giù. E allora capì: si trattava di un riflesso. John si grattò la testa, un po’ confuso. Si alzò in piedi a sua volta guardando in basso e vide il suo stesso riflesso sotto di sé.  Era vestito esattamente come Sherlock, con un elegante smoking bianco.
Girò su sé stesso un paio di volte. Si spostò di alcuni metri, guardò a destra, a sinistra, in alto, in basso, ma il panorama non cambiava: un azzurro ovattato che si estendeva all’infinito.
«Non stai sognando» disse infine Sherlock.
John si diede un pizzicotto alla mano. Scosse la testa.
«Hai ragione. Non è un sogno. Le mie sensazioni sono troppo nitide, chiare. Ma… ma quindi… cos’è questo posto?»
«Secondo te?» disse Sherlock.
«L’ultima cosa che ricordo è… il veleno!»
Sherlock lo guardò senza dire nulla, con l'aria un po' incerta.
«Non saremo mica…?»
Sherlock annuì.
«Questo è…?»
Sherlock sollevò le sopracciglia, come ad attendere che John terminasse la frase.
John deglutì prima di pronunciare le parole: «L’aldilà?»
Sherlock chiuse gli occhi e annuì gravemente.
«E questo,» John si chinò a toccare quello strano pavimento riflettente «è il confine infinito che divide il mondo dei vivi da quello dei morti.»
«Mh.» fece Sherlock, annuendo di nuovo.
John sedette a terra, esterrefatto.
Sherlock lo imitò. 
Stettero per qualche tempo zitti, con il delicato suono delle arpe angeliche che riempiva il silenzio, mentre pensieri confusi frullavano nella mente di John.
«Chi l’avrebbe mai detto che Moriarty aveva ragione?» disse infine Sherlock.
John lo guardò corrucciando le sopracciglia.
«Moriarty una volta mi disse che avevo scelto di stare dalla parte degli angeli. Io non mi sono mai sentito un angelo, ma ora che siamo qui è evidente che aveva ragione.»
John sorrise. «E come fai a sapere che questo è il paradiso e non l’inferno?»
«Perché non c’è alcun dubbio che tu sia un angelo,» disse Sherlock con fare quasi annoiato «perciò, se mi trovo qui insieme a te…»
John fece una risatina imbarazzata. «Non ne sarei tanto sicuro.»
«Lo sei, John. E poi…» Sherlock esitò. Si morse un labbro.
«E poi?» lo incalzò John.
«E poi non può essere l’inferno un posto in cui ci sei tu.» Detto questo si voltò a guardare il nulla alla sua destra con aria vagamente imbarazzata.
John deglutì e sentì il battito cardiaco accelerare. 
O meglio: ebbe l’illusione di sentire il battito cardiaco accelerare.
Perché quel corpo era un’illusione, non poteva essere altrimenti. 
«Secondo te siamo delle proiezioni mentali? Questo corpo, questa… sensazione di realtà. È una proiezione della nostra mente?» chiese John.
«Sì, è evidente. La nostra, uhm, coscienza, anima, come vuoi chiamarla, ricrea delle sensazioni che imitano la realtà.»
«E dove sono tutti gli altri?»
«Gli altri chi?»
«Le altre… coscienze, anime, come vuoi chiamarle. Secondo te perché siamo qui da soli?»
Sherlock rifletté per qualche istante. «Per quanto riguarda me, tu sei l’unica persona, cioè, coscienza con cui voglio stare.»
John abbassò lo sguardo. Era la seconda cosa che Sherlock diceva nell’arco di pochi minuti che gli aggrovigliava lo stomaco. O meglio: che gli dava l’illusione di… eccetera eccetera.
«Non preferiresti stare da solo?»
«Non dire sciocchezze, John.»
«Be’» proseguì John «anch’io, cioè, anche per me è lo stesso: tu sei l’unica coscienza con cui voglio passare l’eternità.» Lo stomaco gli si aggrovigliò ancora di più e gli occhi rimasero fissi sul riflesso dei suoi candidi mocassini.
L’eternità? Non stai un po’ esagerando, John?
«Siamo due bei misantropi, eh?» sdrammatizzò. Fece una risatina che gli suonò un po’ falsa. E finalmente sollevò  gli occhi. Per incontrare quelli di Sherlock che lo guardava con un’espressione disarmante. Sembrava un bambino che ha appena scartato il regalo che desiderava di più al mondo.
«Sai…» disse John addolcito da quello sguardo «ho sempre pensato che se il paradiso esiste deve essere la realizzazione dei sogni più grandi di un uomo.»
Sherlock accennò un sorriso. «Be’ questo luogo ci si avvicina. Se non fosse per un piccolo particolare.»
«E cioè?» chiese John incuriosito.
Sherlock si afferrò il bavero della giacca, si inclinò su un lato e si guardò riflesso a terra: «Questi ridicoli smoking bianchi.»
John gettò indietro la testa e scoppiò a ridere. «Ma no, secondo me il bianco ti dona!»
«Stai scherzando, spero. Il mio incarnato pallido risalta molto meglio sui colori scuri.» poi guardò John con aria critica: «A te invece sta bene.»
John rise di nuovo. Si sentiva euforico. «Ma ti rendi conto, Sherlock?» disse «Finalmente soli! Niente più rompiscatole, società, giudizi, paure, restrizioni. Per l’eternità. Dio che senso di liberazione! Non lo senti anche tu?» e così dicendo si stese su quello strano pavimento e iniziò ad agitare mani e braccia come se stesse facendo una stella nella neve. Poi si alzò in piedi con un balzo, afferrò le mani di Sherlock, lo tirò su e vorticarono insieme un paio di volte: Sherlock lo lasciò fare guardandolo con un sorriso perplesso.
«John, mi stai preoccupando…» disse Sherlock quando John gli lasciò finalmente le mani.
«Ma lasciati andare Sherlock! Balliamo! A te piace ballare, no?»
«Be’, sì, ma…»
«E allora… se è vero che il paradiso è la realizzazione dei desideri… un valzer! Ti va un valzer? Si può cambiare musica?»
E come per magia la melodia d’arpa, che era stata la colonna sonora fino a quel momento, lasciò spazio a un valzer di Strauss.
«Aha! È davvero il paradiso, questo. Ogni nostro desiderio esaudito. E hanno persino il Dolby Surround!» John batté le mani eccitato. «Permette questo ballo messere?» disse facendo un inchino. Sherlock sorrise divertito e annuì porgendogli la mano.
John imbracciò Sherlock e iniziarono a muoversi in quello strano ambiente a passo di valzer.
«Visto? Ricordo ancora come si fa.»
«Mi hai appena pestato un piede.»
«Scusa.»
«Non sono stato un bravo maestro.»
«Ma no, sei stato bravissimo, sono io che sono un pessimo allievo.»
«Ouch… puoi stare attento?»
«Speravo non te ne fossi accorto, stavolta.»
«Be’, un po’ difficile se…»
«Ops, l’ho fatto di nuovo» John rise.
Fecero altri due passi a tempo, ma al terzo passo John sbagliò direzione, e fu Sherlock stavolta a tirargli un pestone.
Si fermarono ridendo, le braccia ancora unite nella posizione di danza.
«Sono un disastro, vero?» disse John. Sherlock non rispose, ma lo guardò con occhi sorridenti. Poi si fece improvvisamente serio. John e Sherlock si guardarono per qualche istante così, senza dire niente, e senza fare niente. Ma c’era una strana tensione nell’aria, come se entrambi desiderassero fare qualcosa e non sapessero decidersi ad agire. John sentiva il cuore pompare nel petto, sembrava volergli uscire dal costato. Sherlock socchiuse le labbra e prese un respiro, come per dire qualcosa, ma l’intenzione rimase sospesa nel nulla. Il valzer risuonava ancora nell’etere, ma la musica si fece confusa nelle orecchie di John, ovattata dal battito del suo stesso cuore. Vide gli occhi di Sherlock abbassarsi leggermente, all’altezza della sua bocca; poi lo guardò negli occhi, e poi di nuovo si spostò sulla bocca, con indecisione. Scorse un luccichio fugace quando la lingua di Sherlock si leccò rapidamente le labbra, vide i suoi denti affondare e tirare la pelle del labbro inferiore, tutto accadde in un secondo o poco più, ma il tempo sembrava dilatato. John vide la propria mano muoversi prima ancora di aver elaborato coscientemente la decisione di muoverla. Vide le proprie dita accarezzare la guancia di Sherlock. Vide i lineamenti di Sherlock farsi confusi mentre si avvicinava a lui e finalmente le loro labbra si incontrarono.
Il contatto a labbra chiuse gli fece pensare al bacio che gli aveva dato la prima notte del sequestro, costretto dalle shipper, mentre Sherlock era ancora narcotizzato.
Ma questo bacio era diverso. Sherlock era sveglio, ora, e John lo sentiva premere e respirare contro di lui e la consapevolezza che Sherlock fosse sveglio e cosciente lo spaventò. 
John si allontanò di scatto e i due si guardarono.
«Cosa stiamo facendo?» disse John. Era leggermente affannato.
«Io…» disse Sherlock, per un attimo esitante. John voltò il viso. 
Merda, cosa mi è saltato in mente? Adesso rimarremo imbarazzati per l’eternità!
Ma Sherlock gli prese la testa tra le mani, la girò verso di sé e fissò il suo sguardo in quello di John. I suoi occhi erano grandi e umidi, la sua voce profonda ridotta quasi a un sussurro. «Fallo di nuovo!» ordinò.
E John non esitò un istante. Affondò la bocca in quella di Sherlock e sentì le sue labbra dischiudersi per rispondere al bacio. Quando le loro lingue si toccarono John avvertì un calore impetuoso esplodere dallo stomaco e diffondersi istantaneamente in tutto il corpo, il suo cuore che già correva rapido accelerò ancora il battito. Non riusciva a pensare più a niente, solo alla bocca di Sherlock che si muoveva insieme alla sua. John gli morse il labbro e Sherlock rispose attirandolo a sé. Lo sentì inarcare la schiena e il petto di John aderì perfettamente al suo, improvvisamente i vestiti gli sembrarono di troppo, le sue mani che ancora tenevano la testa di Sherlock scivolarono verso il basso, ci furono alcuni momenti concitati in cui labbra, denti, mani, si scontrarono e incrociarono e infine raggiunse i fianchi ossuti di Sherlock, infilò le mani sotto la giacca e risalì lungo la schiena, tirandolo ancora di più a sé, mentre continuavano a baciarsi. John desiderò che i vestiti svanissero all’istante, ma il desiderio non si realizzò, stavolta. Forse era Sherlock che opponeva resistenza mentale? Forse era un desiderio troppo complesso? Allora decise di procedere alla vecchia maniera: sfilò un lembo della camicia dai pantaloni e la sua mano si insinuò sotto, il contatto con la pelle gli diede un brivido, e lo diede anche a Sherlock perché lo sentì accennare un gemito. John si staccò e presero finalmente fiato, si guardarono negli occhi per qualche secondo, ansimando, la fronte di Sherlock era imperlata di sudore, la mano destra di John era ancora premuta sulla schiena dell’altro, con l’altra mano raggiunse il viso e posò il palmo sulla sua guancia. Poi, come ipnotizzato dalla sua bellezza, passò lentamente il pollice sulle labbra umide di Sherlock che in risposta chiuse gli occhi e reclinò la testa all’indietro. John non poté resistere a un invito simile, e strusciò il viso contro il collo dell’amico. Inspirò l’odore, quell’odore così familiare ma che non aveva mai sentito il maniera tanto intensa. Gli baciò il collo e un applauso scrosciante risuonò nell’etere.
John si staccò da Sherlock, quasi scioccato: «Non sono stato io, giuro!» si affrettò a dire.
Sherlock aveva l’aria confusa, e l’applauso proseguiva. Si sentivano anche degli urletti.
«A fare cosa?» disse. Era ancora un po’ ansante e John pensò che era bellissimo.
«A far partire l’applauso! Giuro, non sono un esibizionista.»
Sherlock fece un sorrisetto dall’aria quasi paternalistica. «John, non hai capito?»
«Cosa dovrei capire?»
«Bravi ragazzi! Finalmente il tanto agognato lieto fine!»
John lanciò un grido a pieni polmoni. Spinse via Sherlock e si girò di scatto per diverse volte a destra e sinistra.
Da dove veniva quella dannata voce?
«Ma questa… questa voce è…» guardò Sherlock con il cuore che batteva a mille.
«Sì, sono proprio io!»
«Midonz!» urlò John.
Poi capì. Improvvisamente, come un lampo nel suo cervello.
«Oh no,» disse «MIDONZ È DIO!»
Vide Sherlock spalancare gli occhi in un’espressione di sincera sorpresa e sentì una risata cristallina risuonare nell’aria.
Poi il nulla azzurro infinito si dissolse e intorno a loro iniziò a prendere forma un ambiente molto diverso: un immenso capannone con dei pannelli luminosi alle pareti e al soffitto. John sbatté le palpebre. Non capiva cosa stesse succedendo.
«Un mosaico di schermi retina per riprodurre l’illusione dell’ambiente infinito.» spiegò Sherlock.
«Ma…»
«Ragazzi, sono tanto felice per voi.» cinguettò Midonz.
«Sherlock, ma noi siamo morti.»
«John, pensi davvero che l’aldilà somigli a una cosa del genere? Sempre che esista un aldilà, cosa di cui dubito.»
«Ma tu…»
«Morte apparente, John.»
«Ci siamo ispirate a Romeo e Giulietta,» disse Midonz, la cui voce evidentemente proveniva da un altoparlante nascosto «e prima che entrassi nella stanza in cui si trovava Sherlock ti abbiamo drogato, John, con una sostanza nebulizzata nell’aria. Ti ricordi di Baskerville, vero? Volevamo renderti più suggestionabile. Se fossi stato perfettamente lucido probabilmente ti saresti accorto che Sherlock non era morto, aveva semplicemente un battito debolissimo e lentissimo.»
«E... e il veleno?»
«Succo di mirtillo miscelato con un potente anestetico.» spiegò Midonz.
«Ok, devo sedermi.» disse John crollando a terra sul pavimento che, ora lo vedeva bene, era un banalissimo specchio.
Sherlock si chinò subito accanto a lui. «Tutto bene?» chiese con aria preoccupata.
John guardò Sherlock con odio. «Era una messinscena quindi? Tutto quanto? E tu… tu… non ci posso credere Sherlock…»
«No, John, non sono mai stato d’accordo con le shipper, non sono caduto volontariamente nella trappola della criminale brasiliana, che era ovviamente una delle shipper sotto mentite spoglie, non mi sono fatto avvelenare apposta, hanno ingannato anche me. L’unica cosa di cui puoi accusarmi è di non averti detto subito che ci trovavamo in un teatro di posa e non in paradiso. Ammetto, sono colpevole di questo. Ma non ho resistito.»
«Era troppo grande la tentazione di farmi sentire uno stupido, vero?» disse John spingendo via con stizza la mano di Sherlock posata sul suo braccio. «Tu e le tue amiche shipper non vedevate l’ora di prendermi in giro.» Dio, quanto si sentiva idiota.
«Le shipper non sono mie amiche.» disse Sherlock in tono disgustato «Io non sono Mycroft.»
«Che cosa c’entra adesso…»
«Buongiorno, John.» la voce di Mycroft non proveniva dagli altoparlanti. John si voltò e vide Mycroft in piedi appoggiato a uno dei suoi ombrelli. In fondo all’edificio, in lontananza, notò che un piccolo rettangolino luminoso - evidentemente una porta - si era aperto su una delle pareti ricoperte di schermi che ormai erano tutti spenti. L’ambiente era ora illuminato da alcuni fari teatrali che erano calati dal soffitto.
«Mycroft?»
«Quando l’ho scoperto sono caduta dalla sedia.» disse Midonz. «La leggendaria M!»
«La leggendaria M?» chiese John.
«La nostra… o meglio… il nostro boss, colei… pardon, continuo a sbagliarmi… colui che ha ispirato e in parte finanziato questo grandioso progetto.» spiegò Midonz.
«Non ne potevo più di vedervi in quello stato, ed era ovvio che foste finiti in uno stallo da cui era impossibile uscire.» disse Mycroft «Follemente innamorati l’uno dell’altro e incapaci di dichiararvi il vostro amore.»
John era frastornato dalle troppe notizie.
«Ok, ok, fermi tutti e silenzio! Mycroft era il capo delle malvagie shipper serial killer?» Guardò Sherlock. «Tu quando l’hai capito?»
«Alle Bahamas.»
«E avevi intenzione di dirmelo prima o poi?»
«Non ne ero certo al 100%. Speravo di averne conferma e contemporaneamente sgominare la banda al party alle Bahamas, ma sono stato ingannato di nuovo. Del resto, lo ammetto, Mycroft è l’unica persona più intelligente di me sulla faccia della terra. L’unica in grado di ingannarmi per ben due volte di fila.»
«E quindi tu sei sempre stato una specie di genio del crimine?» disse John rivolgendosi a Mycroft. «Credevo fossi un genio della politica.»
«Non c’è differenza tra geni del crimine e geni della politica. Non l’hai mai visto House of Cards? O Game of Thrones?» ribatté Mycroft sollevando un sopracciglio.
«Sherlock, ti prego, dì qualcosa.» disse John sconfortato.
«Scusa.»
John non si era aspettato di sentire quella parola. Sollevo la testa e fissò Sherlock negli occhi sforzandosi di produrre uno sguardo accusatorio. Ma le sue intenzioni si sciolsero quando videro l’espressione dell’amico: sembrava sinceramente, profondamente dispiaciuto.
«Scusami John. Io… inizialmente pensavo che l’avresti capito anche tu, che ci trovavamo sull’ennesimo set delle shipper. Ma quando ho capito che ci eri cascato non ho resistito, era forse l’ultima occasione che avevo per farti ammettere che… Non è colpa mia se tu riesci ad ammettere i tuoi sentimenti solo in situazioni fuori dal normale.»
John chinò la testa sorridendo. «Del resto non sei nuovo a queste manipolazioni. Ho in mente una certa confessione che mi hai tirato fuori in una carrozza imbottita di esplosivo…»
Sherlock sorrise a sua volta. Si alzò in piedi e tese una mano a John, che la afferrò per tirarsi su.
«Andiamocene, John. Siamo finalmente liberi. Le shipper hanno il loro filmato su cui sognare e noi possiamo tornare alla nostra vita di sempre.»
Mycroft fece un elegante cenno di saluto portandosi la mano alla testa. John sentì il sangue bollire dalla rabbia. Fece un passo verso di lui, pronto a sferrargli un pugno, ma Sherlock lo trattenne. «Non ne vale la pena, John.»
Aveva ragione. Cosa avrebbe ottenuto? Solo di sfogare momentaneamente la sua rabbia. E l’indomani sarebbe tornato nel suo ufficio a Londra a complottare nell’ombra contro il Regno Unito.
«C’è un taxi già pagato che vi aspetta fuori.» disse Mycroft alle loro spalle.
«Un taxi?» disse John mentre si dirigevano alla porta.
«Sì, un taxi per tornare a casa. Siamo a Londra.» rispose Sherlock.
«Mi stai dicendo che ci hanno caricato su un aereo mentre eravamo incoscienti?»
«Evidentemente.»



«Mycroft! Chi l’avrebbe mai detto?» disse John affondando nella poltrona. La sua poltrona di Baker street. Si rese conto di quanto fosse più sfondata della copia identica che si trovava sul set delle shipper. Più sfondata e più confortevole. Casa. Finalmente. «Non avrei mai creduto che fosse capace di organizzare un piano simile. E per ragioni così frivole.»
«Non è una ragione frivola.» rispose Sherlock. Era seduto sulla poltrona di fronte a quella di John, davanti al caminetto. Era sera, e la stanza era illuminata solo dalla luce di una lampada a stelo. «L’ha fatto per me. È il suo modo folle per dirmi che mi vuole bene.»
«Sono morte delle persone, Sherlock.»
«Lo so. Non so ancora cosa pensare di questo.» Sherlock tamburellò le dita sul bracciolo.
«Ma non possiamo starcene qui con le mani in mano!» esclamò John, battendosi un pugno sulla gamba «Dobbiamo fare qualcosa, Sherlock, come fai a rimanere così calmo?»
«Non faremo niente, per due buone ragioni.»
«E sarebbero?»
«Punto primo: c’è di mezzo Mycroft. E mettersi contro Mycroft significa mettersi contro l’Inghilterra.»
John sbuffò. «Non credevo ti facessi fermare da così poco.»
«Punto secondo:» Sherlock estrasse un foglio dalla tasca dei pantaloni e lo porse a John «ecco il mandato internazionale di cattura per la banda delle shipper. Sono finite tutte in carcere in attesa di processo, dalla prima all’ultima, Midonz compresa. Non c’è più niente su cui indagare.»
John diede una rapida occhiata al mandato di cattura. «Mycroft… doppiogiochista fino in fondo» commentò. Poi guardò Sherlock. «E quindi?»
«E quindi aspettiamo che arrivi qualche nuovo cliente e cerchiamo di dimenticare quello che è successo.»
Di tutto quello che era successo, delle morti, dei rapimenti, delle folli prove, John in quel momento riusciva a ricordare una sola cosa: il bacio che aveva dato a Sherlock poche ore prima.
«E mentre aspettiamo?» disse John.
Sherlock guardò John stringendo gli occhi.
«Sai, c’è qualcosa che potremmo fare. Qualcosa che abbiamo iniziato dentro quel capannone e che è stata interrotta da un applauso.»
Sherlock capì all’istante, John glielo lesse nello sguardo. Ma inizialmente non disse nulla, socchiuse le labbra in un’espressione che sembrava stupita. John attese qualche secondo, una reazione, un cenno. Infine Sherlock parlò.
«Non… non credevo che tu…» Sherlock voltò lo sguardo imbarazzato. Tossicchiò. «Voglio dire, pensavo fossi arrabbiato, pensavo…»
«Oh, Sherlock…» disse John alzandosi in piedi e facendo un passo verso di lui. Sherlock si schiacciò all’indietro contro lo schienale, quasi spaventato, ma John non esitò, puntò un ginocchio sul sedile, gli prese il viso tra le mani, si chinò su di lui e lo baciò. Sherlock rispose socchiudendo le labbra e prendendo John per il maglione per tirarlo a sé. Si baciarono per qualche secondo poi John si staccò un istante per guardare Sherlock. «Ci mettiamo più comodi?» disse John con il cuore in gola. Sherlock annuì, alzandosi in piedi. John lo prese per mano, e lo attirò a sé. Spingendosi e strappandosi i vestiti si affrettarono verso la camera da letto di Sherlock.
E il rumore dei loro passi concitati coprì quello di una telecamera che si metteva a fuoco.

——

Le utlissime (e ultimissime) note dell'autrice:
Ed ecco qui il finale di questa storia omaggio al pazzo universo delle shipper johnlock. Spero di non aver deluso nessuno col colpo di scena su Mycroft (ok, un po' telefonato, probabilmente l'avevate già capito tutti). Grazie a tutti quelli che hanno aggiunto la storia tra i preferiti, seguiti e ricordati, a quelli che l'hanno letta, a chi si è preso la briga di commentare, a tutti i santi pazienti che hanno ripreso a leggerla dopo la pausa di un anno che sono stata costretta a prendere causa problemi nella vitavera™ (scusate ancora).
Come piccolo omaggio finale, allego la copertina che ho realizzato per pubblicare la storia su wattpad, una cosetta scemissima che ho fatto ispirandomi alla copertina della prima edizione di The return of Sherlock Holmes, eccola qua.



Il prossimo progetto che pubblicherò, qui e su wattpad (in parallelo), sarà una storia originale, sempre slash, a tema sportivo. Mi prendo una pausa prima di iniziare la pubblicazione perché stavolta voglio preparare un po' di capitoli in anticipo, in modo da non lasciarla ferma in caso la vitavera™ dovesse rimettersi in mezzo coi suoi casini.
Grazie ancora a tutti/e e alla prossima :)

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