The second hand unwinds

di Blueorchid31
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***



Capitolo 1
*** I ***



Nome autore (su forum e sito): Sasuk8, Blueorchid31
Titolo storia: 
The second hand unwinds

Fandom scelto: Naruto
Favola scelta: Alice nel Paese delle Meraviglie
Canzone scelta: Once Upon a Time - Lana del Rey



Gentilissimi Lettori,

Credo che sia il caso che io vi introduca questa minilong. Il Contest aveva come tema centrale il ''decostruire'' una fiaba, ovvero dimenticare come questa era fatta, scomporla, e riutilizzarla in un altro contesto. Io ho scelto ''Alice nel Paese delle Meraviglie'' e chi mi conosce da un po' sa che sono letteralmente ossessionata da quella favola, tanto da aver chiamato mia figlia, per l'appunto, Alice. Era da molto tempo che mi girava in testa di scrivere qualcosa che potesse essere in qualche modo attinente e l'occasione l'ho avuta con questo Contest. Ringrazio quindi il _Swarz per averlo indetto e di avermi dato una proroga ulteriore di due ore per consegnarla. Inizialmente avevo scelto una canzone diversa, avendo in mente tutt'altra storia, poi mi sono resa conto che quella di Lana del Rey fosse più azzeccata… e dopo capirete perché.

Alla fine di ogni capitoli troverete delle note esplicative perché durante la narrazione ho inserito alcune citazioni tratte dalla favola, mentre a inizio capitolo, all'interno del banner, troverete un'ulteriore citazione che racchiude un po' ciò che il capitolo contiene. La canzone non la troverete in lingua originale, bensì tradotta in italiano per esigenze narrative. Il titolo è un verso di ''Time after time'' di Cindy Lauper.

Spero che la storia vi piaccia.

P.s. Negli ultimi giorni mi sono concentrata solo sulla stesura di questa fan, ma a breve tornerò con le altre.





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The second hand unwinds













I





« Bonjour Monsieur, où aller? »

« À l'Hôpital Universitaire Pitié – Salpêtriere, s'il vous plâit. »(1) rispose al tassista, poggiando un gomito sullo sportello e portandosi una mano alla fronte come se quel semplice gesto avesse potuto fare qualcosa per la sua emicrania.

« Vite. » aggiunse, infastidito dallo sguardo dell'uomo, riflesso nello specchietto retrovisore, e dalla sua insostenibile inerzia.

« Bien sûr, Monsieur. » (2)

Le chauffeur de taxi si decise a mettere in moto il mezzo e si incanalò nel caotico traffico dell'autostrada A3 con profondo sollievo da parte del suo indisponente passeggero, il quale mise una mano nella tasca interna della giacca, tirando fuori un orologio a cipolla. Un'anticaglia risalente alla seconda guerra mondiale regalatagli da suo nonno. Un oggetto dal quale non si era mai separato. Era una sorta di amuleto oltre che un caro ricordo: impugnandolo aveva come l'impressione di poter controllare il tempo e così la sua vita. La spasmodica ricerca di un equilibrio, di un ordine imprescindibile nella sua esistenza, lo aveva portato ad avere con quell'orologio, e con il tempo, un rapporto ossessivo. Le sue giornate erano organizzate sin nei minimi particolari e non erano contemplati imprevisti o variazioni di sorta: tutto doveva filare liscio e, soprattutto, dovevano essere rispettati gli orari.

Inutile dire che fosse, quindi, molto contrariato dal ritardo dell'aereo e ancor più dalla lentezza del suo chauffeur de taxi che continuava con insistenza a guardarlo attraverso lo specchietto retrovisore al posto di dedicarsi alla guida: L'Hôpital Universitaire Pitié – Salpêtriere distava una quarantina di chilometri dall'aereoporto, circa un'ora di macchina, ma di quel passo ce ne avrebbero messe almeno due.

« Vite. » ripeté, abbassando gli occhiali da sole sulla punta del naso in modo tale che l'autista potesse incontrare il suo sguardo e leggervi quel messaggio che forse non aveva ben recepito in precedenza.

L'autista staccò immediatamente gli occhi dallo specchietto e li riportò sulla strada, accelerando un po'.

Era in ritardo. Impensabile.

Prese a fissare l'orologio, seguendo con gli occhi la lancetta dei secondi che, inesorabile, procedeva sul quadrante di madreperla.

Tic – Tac, Tic – Tac.

Trovava quel suono irritante. Ogni movimento di quella lancetta equivaleva a un'onta ai danni della sua persona.

Continuò a fissarla con astio, iniziando inconsciamente a muovere in modo ritmico la gamba destra.

« C'est une belle montre vraiment. »(3) osservò il tassista.

Lo ignorò: non lo pagava per ricevere complimenti sul suo orologio, ma per arrivare in fretta a destinazione. Inoltre, quell'improvvisa affermazione lo aveva distolto dall'osservare la lancetta dei secondi che, di conseguenza, aveva avuto modo di muoversi più velocemente.

« Donc… Qu'est-ce qui vous amène à Paris, Monsieur? » incalzò l'uomo, incurante del fatto che il suo passeggero non avesse alcuna intenzione di intrattenere alcun tipo di conversazione. « Travail, amour? » (4) aggiunse con un tono allegro, dimentico della destinazione che gli era stata richiesta.

« Mio padre è morto. » gli rispose, atono, senza staccare gli occhi dall'orologio.

Il tassista da quel momento in poi non proferì più parola. Che avesse capito o meno poco gli importava, dopotutto non erano affari che lo riguardavano, ciò che contava adesso era fermare quell'impietosa lancetta e fare in modo di arrivare il prima possibile per recuperare il tempo perso.

Sorrise amaramente per quell'ultimo pensiero perché, per quanto tentasse di negarlo, era cosciente del fatto che non fosse possibile. Non più.

Forse avrebbe potuto recuperare in parte il ritardo, ma non il tempo. Le lancette avevano compiuto troppe volte un giro completo su quel quadrante dall'ultima volta che aveva visto suo padre, i giorni erano diventati mesi e i mesi, anni.

Quando aveva saputo della sua malattia il suo subconscio aveva rifiutato categoricamente la possibilità che lui morisse: dopotutto è nella natura dei figli credere – sperare – che i genitori siano eterni.

Erano bastate poche settimane per constatare quanto il suo subconscio si sbagliasse e quanto il suo amato tempo fosse stato tiranno tanto da non dargli la possibilità neanche di dirgli addio. Si era sentito vittima di un duplice tradimento e aveva iniziato a provare una strana irrequietezza che era poi tramutata in smania e, infine, in nevrosi. Il rimpianto aveva minato il suo perfetto equilibrio, la sua perfetta esistenza, inculcando in lui un concetto che fino a quel momento aveva ignorato e che, adesso, sembrava aver iniziato a perseguitarlo: essere in ritardo.

E così aveva continuato a osservare ossessivamente la lancetta dei secondi come se il suo sguardo avesse potuto davvero rallentarne l'avanzata o convincerla a fermarsi o, addirittura, tornare indietro, perché era in ritardo, dannazione, e non di un paio d'ore, ma di otto anni.

Anni in cui sarebbe potuto andare a trovare i suoi genitori e suo fratello almeno durante le festività, in cui avrebbe potuto tendere una mano verso suo padre e riappacificarsi con lui.

Troppo tardi.


« Nous sommes arrivés, Monsieur. »(5)gli comunicò il tassista, due ore dopo – come previsto – indicandogli con un dito l'antica struttura ospedaliera.

Respirò profondamente per trovare la forza di scendere da quel taxi come se al di fuori di quella macchina vi fosse stato un baratro.

« Vous sentez vous bien? »(6) gli chiese l'uomo, mostrandosi nuovamente cortese nei suoi confronti.

Annuì debolmente, riponendo l'orologio nella tasca della giacca e tirando fuori il portafoglio.

L'ultima domanda posta dal tassista gli fece guadagnare una ragionevole mancia: in quelle ore era stato talmente impegnato a non arrivare in ritardo da non aver avuto modo di capire come si sentisse davvero.

Ovviamente, a quell'uomo, aveva mentito: non stava bene affatto, anzi provava l'irrefrenabile desiderio di ritornare sui suoi passi, prendere il primo aereo e tornare alla sua vita.

« Je suis vraiment désolé pou votre perte. »(7) gli disse l'uomo, mentre gli consegnava il bagaglio a mano, dandogli conferma del fatto che avesse compreso le sue parole.

Annuì ancora, come ringraziamento, e si diresse verso l'ingresso dell'Ospedale.

Attraversò i rigogliosi giardini antistanti la struttura che per la loro bellezza stonavano alquanto in quel contesto: sarebbero stati più consoni per un museo, per una villa, non per un luogo di sofferenza.

Suo padre si era aggiudicato una camera ardente in quel prestigioso Ospedale a causa della posizione che aveva ricoperto a Parigi in quegli anni. Aveva insegnato, per circa trent'anni, letteratura straniera alla Sorbonne, mentre negli ultimi cinque aveva ricoperto il ruolo di rettore alla Sorbonne Nouvelle III, svolgendo anche il ruolo di mecenate. Inutile dire che fosse un uomo molto amato e stimato da tutti… Già, da tutti … ma non da lui. Il loro rapporto era sempre stato conflittuale, non si era mai sentito davvero capito da suo padre, tanto che dopo la laurea aveva deciso di lasciare Parigi per non consentirgli più di intromettersi nella sua vita. Suo padre era rimasto molto deluso dal fatto che nessuno dei suoi figli avesse deciso di seguire le sue orme: suo fratello si era laureato in giurisprudenza e si era dedicato anima e corpo alla difesa dei diritti umani, mentre lui – e l'onta, se possibile, era stata anche superiore – aveva scelto un percorso scientifico, in netta contrapposizione al suo, prendendo una laurea in fisica. Gli anni dell'università erano stati per lui e suo fratello un vero incubo, date le continue pressioni e l'evidente insoddisfazione del loro padre.


Seguì l'indicazione per l'obitorio, ritrovandosi in un corridoio pervaso da un'innaturale silenzio. Una decina di porte, semi chiuse, si susseguivano sul lato sinistro, mentre sul destro enormi finestre si stagliavano verso il soffitto, decorato con affreschi che, come minimo, risalivano al 1700. La costruzione della struttura originale risaliva, infatti, all'epoca di Luigi XIV e, malgrado fosse stata ristrutturata più volte, aveva mantenuto le medesime caratteristiche architettoniche e soprattutto aveva conservato il suo patrimonio artistico. Affreschi raffiguranti le molteplici sofferenze che l'uomo era costretto a sopportare nel corso della sua vita si alternavano ad altri a sfondo religioso, mentre l'intensa luce del sole che filtrava attraverso le finestre, illuminava quel corridoio deserto in un modo quasi surreale.

Non aveva idea di quale fosse la stanza in cui era stato deposto suo padre e continuò a camminare, udendo l'eco dei suoi passi riverberare su quei muri alti, fino a che non sentì pronunciare il suo nome. Si voltò all'indietro, realizzando di aver percorso quasi tutto il corridoio e che alla sua sinistra erano rimaste solo due porte: la penultima era più alta rispetto alle altre, mentre l'ultima era troppo piccola perché qualcuno potesse entrarci a meno che non fosse stato in grado di rimpicciolirsi. Ipotizzò che si trattasse di uno sgabuzzino e tentò di aprire l'altra che, tuttavia, risultò chiusa.

L'idea di entrare in ogni porta non era da prendere neanche in considerazione e decise, quindi, di mandare un messaggio a suo fratello che, certamente, doveva essere lì.

Qualche secondo dopo sentì scattare la serratura della grande porta e vide comparire suo fratello.

« Sasuke, finalmente! » esclamò, abbracciandolo con forza.

Pur non avendo apprezzato quel ' finalmente ' che di sicuro non era riferito al ritardo, ma al fatto che non si vedevano da parecchio tempo, Sasuke contraccambiò, impacciato, l'abbraccio.

« Itachi. » sussurrò, sorridendo appena.

« Vieni. » lo invitò a entrare il fratello « Mamma sarà sollevata di vederti. » aggiunse, sottovoce.

La stanza era illuminata solo da due candelabri di ottone posti ai lati della pregiata bara di mogano, rendendo l'immagine della salma di suo padre più macabra di quanto già non fosse.

Sua madre, fasciata da un tajlleur nero, era seduta immobile su una sedia di legno al fianco del marito.

« Perché avete chiuso la porta? » bisbigliò Sasuke al fratello.

« Mamma non vuole estranei. » gli rispose « Anche i funerali saranno a porte chiuse. » lo informò subito dopo, lasciandolo un po' perplesso: dopo una vita in cui i suoi genitori avevano vissuto a Parigi, intrattenendo rapporti di amicizia anche con personaggi appartenenti alla classe politica, al mondo dello spettacolo e dell'arte, trovava abbastanza insolita la scelta di sua madre. In vero si sarebbe aspettato un funerale in pompa magna, ma quella notizia in qualche modo gli fece provare una sorta di sollievo.

« Dopo ti spiego. » aggiunse Itachi, invitandolo poi, con un gesto della mano, ad avvicinarsi alla salma.

Sasuke indugiò appena: non era molto sicuro di essere pronto per vedere il corpo senza vita di suo padre. L'ultima volta che aveva visto una persona morta era stato al funerale di suo nonno: era molto piccolo allora e il trauma era stato così forte che, a tutt'oggi, continuava a rivedere quell'immagine nei suoi sogni.

« Sasuke » lo chiamò sua madre, alzandosi dalla sedia per abbracciarlo « Bambino mio, che bello rivederti! » esclamò mentre lo stringeva forte a sé, creando in lui un forte senso di disagio: punto primo, non era più un bambino; punto secondo, non amava essere toccato.

« Ciao mamma, anche io sono contento di rivederti. »

« Hai visto? » continuò la madre, dopo essersi staccata da lui « Alla fine ci ha lasciati. »

Sasuke non riuscì a percepire nel tono della madre quella nota di naturale dispiacere che ogni moglie avrebbe provato in una simile situazione, piuttosto la sua era sembrata una semplice constatazione. Se in quella stanza vi fossero state altre persone quel contegno sarebbe stato anche opportuno, da sua madre, ma essendoci solo loro non riusciva proprio a comprenderlo.

« Già. » annuì lui che, dopo aver sconfitto la paura, decise di sporgersi sulla bara.

Notò che, anche da morto, suo padre fosse straordinariamente perfetto: il rigor mortis non aveva intaccato per nulla l'espressione tipica del suo viso; un'espressione dura, altera… boriosa, aggiunse il suo subconscio.

« È morto serenamente? » sentì di chiedere alla madre.

« Tuo padre non conosceva il significato di serenità. » gli rispose lei con una punta di acredine nella voce.

Sasuke lasciò correre, preferì non approfondire, attribuendo il suo strano comportamento allo shock della perdita. Si concentrò piuttosto su suo padre che con le mani giunte sul petto, stava lì, immobile, ad ascoltarli e, per una volta, in silenzio.



Il funerale si svolse presso la chiesa di Saint-Pierre-de-Montmartre, rigorosamente chiusa al pubblico, come da richiesta di sua madre. Mikoto Uchiha aveva scelto quella chiesa per la vicinanza al loro appartamento in modo tale che se qualcuno avesse scoperto dove si teneva la funzione, avrebbe potuto facilmente defilarsi. Sasuke non riusciva a comprendere per quale motivo sua madre fosse così ossessionata dalla possibilità che qualcuno potesse prendere parte al funerale. Suo fratello la sera prima gli aveva spiegato che quella era stata una delle ultime volontà del padre, ma non se l'era bevuta.

Avevano aspettato in Chiesa l'arrivo del feretro e, appena gli addetti del servizio funebre l'avevano posizionato ai piedi dell'altare, due chierichetti avevano sigillato i tre portali di bronzo dall'interno.

Sasuke fu colto da una spiacevole sensazione di claustrofobia: era imprigionato in una fredda e silenziosa Chiesa in stile gotico, le cui navate alte e spoglie incutevano di per sé una certa soggezione; la bara di suo padre era aperta e un flebile raggio di luce, che penetrava dalle finestre ornate dalle vetrate policrome, puntava proprio sul suo viso. Quella situazione, quel luogo, tutto rimandava a qualcosa di onirico, irreale e Sasuke sperò quasi che si trattasse davvero di un sogno e che potesse risvegliarsi in fretta.

Lo stridio assordante dell'organo lo riportò bruscamente alla realtà.

Un vecchio sacerdote, con indosso il paramento viola, fece il suo ingresso pochi minuti dopo, posizionandosi dietro l'altare.

« In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. »

« Amen. » risposero all'unisono i tre congiunti, mentre dal lato destro dell'altare si propagava un rumore sordo, prodotto dalla porta di legno che collegava la Chiesa alla stanza privata del parroco. Tutti e tre lanciarono uno sguardo in quella direzione, vedendo comparire una ragazza, fasciata in un tubino nero, forse un po' troppo corto per l'occasione, con un cappello nero,a tesa larga, sulla testa e un paio di occhiali da sole, anch'essi neri, con le lenti talmente grandi da coprire buona parte del viso.

« Che cosa ci fa lei qui? Come ha fatto a sapere dove eravamo? » ringhiò Mikoto, a bassa voce, rivolgendosi al figlio maggiore che si era posizionato in mezzo a loro.

« Non ne ho idea. » le rispose Itachi, sempre a bassa voce, facendo spallucce.

Sasuke aggrottò la fronte, perplesso: chi era quella ragazza? Perché sua madre si era agitata così tanto nel vederla?

« Che succede? » sussurrò all'orecchio del fratello.

« Nulla… dopo ti spiego. » gli rispose, evasivo.

Sasuke lanciò un altro sguardo in direzione della ragazza che, procedendo alla svelta in punta di piedi, si era spostata dietro una delle maestose colonne in marmo. La vide abbassarsi, con imbarazzo, l'orlo del vestito che, a causa della breve corsa, si era ulteriormente accorciato e, forse a causa del suo sguardo, nascondersi meglio dietro la colonna.

Sasuke tornò a seguire controvoglia la funzione: quella intrusione imprevista lo aveva incuriosito parecchio e più volte si ritrovò a provare la tentazione di volgere ancora lo sguardo in direzione della ragazza.

Poco prima che il sacerdote pronunciasse l'ite missa est, si voltarono di nuovo tutti e tre in direzione della medesima porta, attraverso la quale, questa volta, la ragazza si era defilata.

Seguirono il feretro con la macchina di Itachi fino al Cimitero di Montmartre dove assistettero in silenzio alla tumulazione. Nessuno dei tre versò una lacrima: lui perché non ne era fisicamente in grado, Itachi per contegno – dopotutto era il fratello maggiore – e la madre…

Perché sua madre non aveva pianto?

Uscendo dal cimitero, vide di sfuggita una tesa nera sfrecciare tra le lapidi: di nuovo quella ragazza.

« Chi era quella donna? » chiese a suo fratello e a sua madre, una volta saliti in macchina.

« Quale donna? » replicò Itachi, fingendo di non capire, mentre sua madre volgeva lo sguardo fuori dal finestrino.

« Mi state nascondendo qualcosa? » insinuò Sasuke che ormai era quasi certo che fosse così, ottenendo come risposta un imbarazzante silenzio.

« Mamma, cosa sta succedendo? » incalzò, quindi, stufo della loro reticenza.

« Non sta succedendo niente, Sasuke. Quella ragazza… » tentò di spiegargli Itachi che si era preparato per quell'evenienza una bugia plausibile.

« Era l'amante di tuo padre. » lo interruppe la madre, con un tono piatto, quasi rassegnato.

« Non ne hai la certezza, mamma. » la rimproverò il figlio maggiore, che a quella storia non ci aveva mai creduto più di tanto.

Itachi, a quel punto, spiegò a Sasuke quanto era accaduto. Dopo che la malattia aveva costretto il padre a letto, lui e la madre avevano preso a occuparsi di tutte quelle mansioni che, di solito, erano imputate a lui, compresa la gestione dei conti correnti e dei risparmi. Avevano scoperto così che il padre era intestatario di ben tre conti correnti e che, uno di questi, intestato non personalmente a lui ma a una specie di associazione culturale, conteneva a una cospicua somma di denaro , di cui ovviamente ignoravano l'esistenza, e che lo stesso veniva costantemente depauperato a favore di un unico beneficiario: Sakura Haruno.

Sakura Haruno, ripeté Sasuke come un mantra nella sua testa, cercando di memorizzare quel nome.

La ragazza non solo riceveva una cospicua '' paghetta '' mensile, ma alloggiava in un appartamento pagato sempre dal medesimo conto corrente.

In pratica era quella che a Parigi si soleva chiamare una '' connasse ''.(8)










Note:




  1. « Bonjour Monsieur, où aller? » ( Buongiorno, signore, dove andiamo?)

    « À l'Hôpital Universitaire Pitié – Salpêtriere, s'il vous plâit. » (All'Ospedale Universitario Pitié – Salpêtriere, per favore)

  2. « Vite. » (In fretta)

    « Bien sûr, Monsieur. » (Certamente)

  3. « C'est une belle montre vraiment. » (È un davvero un bell'orologio)

  4. « Donc… Qu'est-ce qui vous amène à Paris, Monsieur? » (Allora, cosa la porta a Parigi, signore?)

    « Travail, amour? » (Lavoro, amore?)

  5. « Nous sommes arrivés, Monsieur. » (Siamo arrivati, signore.)

  6. « Vous sentez vous bien? » ( Vi sentite bene? )

  7. « Je suis vraiment désolé pou votre perte. » (Sono veramente desolato per la vostra perdita.)

  8. Connasse: letteralmente una '' poco di buono ''.




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Capitolo 2
*** II ***



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II




Sasuke quella notte non aveva dormito. Si era girato e rigirato in quel letto troppo piccolo e tremendamente scomodo in cui aveva dormito così poche volte da quando i suoi genitori si erano trasferiti nel quartiere di Montmartre. Non che di solito dormisse molto, ritenendo che cinque ore a notte potessero bastare per ottimizzare ulteriormente il suo tempo.

Una ricerca scientifica sosteneva, infatti, che il numero delle ore non contasse, bensì fosse importante andare a dormire prima delle due di notte, momento in cui il cervello era più predisposto per la fase REM e il sonno, quindi, più ristoratore. Lui l'aveva presa alla lettera. Prima di coricarsi metteva in pratica anche un rito '' propiziatore '' - per sicurezza – che consisteva nel bere una tisana rilassante con dieci gocce di Alprazolam. La sua mente, in quel modo, diventava un libro senza figure né dialoghi e il suo sonno, di conseguenza, non rischiava di essere disturbato da inutili sogni.

Il suo risveglio, di solito, era dolce, accompagnato dalle note della radiosveglia impostata su un canale di musica classica e regolata per suonare alle sei in punto.

Ah, quanto gli mancava il suo piccolo appartamento alla periferia di Sidney!

Si consolò al pensiero che mancasse poco e che presto sarebbe potuto tornare alla sua vita: dopo le ventiquattro ore canoniche in cui era obbligatorio lasciare il feretro presso l'obitorio del cimitero, quel pomeriggio avrebbero tumulato suo padre e poi lui sarebbe stato libero di tornare alla sua normale e perfetta routine.

Afferrò l'orologio a cipolla che, come d'abitudine, aveva poggiato sul comodino e rimase a fissarlo per qualche minuto, riflettendo sul fatto che erano passati diversi anni dacché aveva avuto occasione di rimanere in panciolle sul letto fino alle otto del mattino. Quel pensiero quasi lo infastidì, o forse era già infastidito dalla notte insonne e da ciò che sua madre e suo fratello gli avevano raccontato il giorno prima, fatto sta che si alzò e andò a fare una doccia.

Il bagno degli ospiti era quasi più striminzito della sua camera e, quell'assurda fissazione di sua madre per lo stile retrò, lo rendeva assolutamente poco pratico: la doccia non era altro che una piccola vasca riadattata con una tendina di plastica verde, risalente come minimo agli anni Settanta, appesa a un bastone di ferro. Sasuke si chiese in quale mercatino delle pulci l'avesse trovata e, soprattutto, perché non avessero deciso di sostituire quel reperto archeologico con un normale, e senz'altro più comodo, piatto doccia.

Anche la rubinetteria risaliva con ogni probabilità ai tempi in cui la casa era stata costruita tanto che il soffione della doccia, incrostato in più punti, e non per l'imperizia della donna di servizio, aveva tutta l'aria di essere ben poco efficiente.

Lo stile Bohèmien di sua madre, prevalente in quell'appartamento, lasciava a intendere che suo padre, più borghese e conformista, le avesse lasciato carta bianca al momento del trasferimento. La loro precedente residenza, situata nel quartiere di Montparnasse, non era mai piaciuta a sua madre perché troppo moderna e funzionale. Sembrava provare un fastidio a livello epidermico ad avere l'ascensore al posto di due rampe di scale ripide quanto quelle de Le Sacre Coeur, ad avere una caldaia al posto di un camino fuligginoso, ad avere, insomma, tutte quelle comodità che una casa moderna poteva darle.

Quando, dopo interminabili ricerche, sua madre aveva scovato quell'appartamentino a Montmartre, il quartiere Bohemien per eccellenza, lui era già partito per l'Australia e aveva appreso la notizia da suo fratello che, riportando le testuali parole di sua madre, lo aveva definito una '' bonbonnière ''.

A suo dire quella bomboniera era sul punto di esplodere a causa della sindrome da accumulatrice seriale che sua madre aveva sempre avuto che aveva ridotto, con l'andar degli anni, la superficie calpestabile di quell'appartamento a un terzo.

Per sua fortuna quei geni poco sani erano stati ereditati da Itachi, che se ne andava in giro per Parigi con un vecchio Maggiolone cabriolet, e non da lui che, tolto il suo inseparabile orologio, difficilmente riusciva ad affezionarsi a degli oggetti – o ad affezionarsi in generale.

Con qualche difficoltà di movimento riuscì a farsi la doccia, maledicendo più volte la tenda, la vasca scivolosa e il soffione che, come pensava, a causa del calcare accumulato intorno alle bocchette, era stato efficace come la fontanella di un giardino pubblico.

Si legò un asciugamano all'altezza della vita e si guardò nel grande specchio ovale posto sopra il lavandino, qua e là striato di ruggine – un altro reperto archeologico.

Il suo viso era più pallido del solito, quasi smunto, e i suoi occhi erano adornati da due belle occhiaie, sintomatiche della notte passata in bianco in cui spesso si era ritrovato a pensare a quella ragazza, mettendo in moto la sua mente analitica per capire se ci potesse essere davvero un fondo di verità nelle illazioni di sua madre.

Era impensabile che suo padre avesse potuto avere una relazione extraconiugale, lui così retto, così intransigente e bigotto.

Certo, le prove che avevano trovato Itachi e sua madre lasciavano ben poco al caso, ma qualcosa continuava a non convincerlo. Forse le cose non stavano così come loro le avevano immaginate, forse si erano fermati alle apparenze e non avevano scavato abbastanza in fondo per scoprire la verità. Avevano deciso, più sua madre che Itachi, che quella fosse l'unica versione possibile dei fatti, per quanto, ne era certo, apparisse anche a loro assurda.

Per lui era diverso, lo era sempre stato. Era stato proprio il desiderio di riuscire a spiegare l'assurdo che lo aveva convinto a scegliere un percorso di studi scientifico e a dedicare tutte le sue energie alla ricerca.

Il medesimo desiderio che adesso stava attentando ala sua volontà di rimanere al di fuori di quella faccenda, complice il pessimo presentimento che languiva nella sua testa da quando aveva visto quella ragazza.

Decise di uscire, sperando che una passeggiata potesse aiutarlo a distrarsi da quei pensieri pericolosi.

Sua madre, dalla sera prima, non era più uscita dalla sua stanza e pensò bene di non disturbarla ritenendo che, probabilmente, desiderasse riposare un po'.

Scese le due ripide rampe di scale e uscì in strada.

Si affrettò a indossare i suoi occhiali da sole perché dopo una notte insonne tendeva a essere fotofobico e, quella mattina, il sole splendeva alto sul Quartiere di Montmartre e sembrava aver reso tutti più gioiosi e rumorosi – tranne lui, ovviamente.

Si allontanò in fretta dal caos di quella strada, affollata di turisti, e si diresse verso il Quartiere di Pigalle dove avrebbe potuto prendere la Metropolitana e muoversi verso il centro.

Prese l'orologio dalla tasca e controllò l'ora: le nove e mezza. Era di nuovo in ritardo, una costante da quando aveva messo piede a Parigi, e questa volta per la colazione.

Si fermò in un Bistrot e ordinò un tè e un croissant. Non era mai stato un patito di dolci, ma dovette ammetterlo: i croissant parigini gli erano mancati parecchio.

Senza una meta ben precisa, prese la linea dodici della Metropolitana che dopo dieci fermate avrebbe cambiato con la dieci, arrivando così nei pressi della Tour Eiffel. Da lì si sarebbe poi mosso a piedi.

Giunto alla stazione di cambio, alzò lo sguardo per rintracciare le indicazioni per il treno successivo, ma tutto ciò che i suoi occhi riuscirono a registrare, come se qualcuno si fosse divertito a cancellare il resto dei cartelli e a fargli perdere la strada, fu la dicitura '' Cluny – La Sorbonne ''.

Seguì la freccia che, nonostante tutto, portava comunque al treno che aveva deciso di prendere, e una volta a bordo si lasciò cadere su uno dei sedili di plastica.

Le fermate si susseguirono una dopo l'altra e le porte del treno si riaprirono alla stazione '' Cluny – La Sorbonne ''. Le persone accalcate all'uscita scesero dal treno e lui rimase lì seduto, a guardarle, come incapace di muoversi o non desideroso di farlo, mentre i passeggeri che attendevano sul marciapiede della stazione presero a salire sul treno.

Il suo subconscio aveva sperato che sul suo vagone salissero talmente tante persone da creare come un muro tra lui e l'uscita, impedendogli di mettere in atto quella malsana idea che aveva iniziato a farsi strada nella sua testa dacché aveva visto il cartello. Contro ogni previsione e contro ogni speranza, i passeggeri appena saliti sul treno si dispersero in fretta, lasciandogli quindi la libertà di scendere qualora questa fosse stata la sua volontà.

Quando udì lo sbuffare del marchingegno di chiusura delle porte, qualcosa in lui finalmente scattò e, incurante della possibilità di venire redarguito per quel gesto pericoloso e per aver ritardato la partenza del treno, scese in fretta. S'immobilizzò di nuovo al di là della linea gialla, incredulo e quasi divertito, ricordando un aneddoto della sua adolescenza, quando saltare giù dalla metropolitana di Parigi all'ultimo minuto era una consuetudine, un gioco, un modo per contravvenire alle regole, e poco dopo sentì di nuovo il marchingegno sbuffare, le porte chiudersi e il treno partire.

Carico di una buona dose di adrenalina seguì le indicazioni che riportavano in superficie, percorrendo i sottopassaggi illuminati dal neon della metropolitana, affollati di viaggiatori e artisti di strada. Una volta all'esterno, si ritrovò su le Boulevard Saint-Germain e da lì in poi non ebbe più alcun bisogno delle indicazioni: la strada la conosceva a memoria.

Imboccò Rue de Cluny , poi girò a destra per Rue Saint-Jacques e infine a sinistra in Rue Cujas, ritrovandosi davanti all'ingresso principale della Sorbonne.

Il tempio della dea Ragione, come era stato ribattezzato durante la Rivoluzione Francese, continuava a esercitare un certo fascino su Sasuke nonostante fossero passati svariati anni. In vero, nella sede centrale, ci aveva messo piede poche volte in quanto la facoltà di fisica era distaccata presso l'Université Pierre et Marie Curie Paris 6 in rue dell'Ecole de Médecine, ma era comunque emozionante pensare che per secoli all'interno di quelle mura fossero state tramandate imponenti moli di cultura, che personaggi come gli stessi coniugi Curie, Giordano Bruno, Jean-Paul Sartre, e molti altri, avessero calpestato quei pavimenti.

Aveva come l'impressione di poterli vedere con vecchi libri consunti tra le mani e le dita sporche di inchiostro a discutere di arte, letteratura, filosofia, matematica. Avrebbe pagato qualsiasi cifra per poter assistere dal vivo alla creazione dell'Elettrometro Piezoelettrico al Quarzo, o alla divisione del radio dal bario con il metodo della cristallizzazione frazionata.

Entrò all'interno della struttura e si diresse al punto informazioni, chiedendo indicazioni per raggiungere l'ufficio di suo padre. La donna dall'altra parte della scrivania gli aveva fatto immediatamente le condoglianze e si era offerta di accompagnarlo e lui aveva accettato di buon grado, temendo di perdersi.

Avevano salito le scale, ornate da passamano di ottone e bronzo che riportavano ancora le effigi dei reali di Francia, e attraversato una serie di corridoi fino a che la donna non si era fermata davanti a una porta in legno a doppio battente e aveva bussato.

« Mademoiselle, est-ce que je peux entrer? » (1)chiese, confermando la sua ipotesi che quella donna si trovasse lì.

« Un istant je vous prie. » (2)rispose una voce sottile dall'altra parte.

Udirono una serie di rumori che non riuscirono a identificare e, dopo qualche minuto, la porta si aprì.

La ragazza spalancò i suoi occhi verdi e socchiuse le labbra.

« Le monsieur est le fils… »(3) si affrettò a spiegarle la donna.

« Ti conosco. » la interruppe lei « Quel bagliore nei tuoi occhi è così famigliare. »(4) affermò d'istinto, prendendo completamente alla sprovvista Sasuke che fu costretto a deglutire e poi a serrare la mascella per controllare lo stupore e l'imbarazzo.

« Je m'en occupe maintenant, merci beaucoup. »(5) si rivolse poi alla donna, liquidandola con gentilezza.

Appena questa fu abbastanza lontana, fece cenno a Sasuke di seguirla all'interno dello studio di suo padre e richiuse la porta.

Sasuke si guardò intorno per qualche istante, mostrandosi più interessato a ciò che lo circondava che a lei che era rimasta alle sue spalle. Era rimasto molto colpito dalla sua spontanea affermazione, forse un po' troppo articolata, poetica, ma sicuramente d'effetto. Altresì non si aspettava che quella ragazza fosse così giovane e che avesse i capelli di quello strano colore: rosa. Un altro punto a favore della tesi che non fosse l'amante di suo padre – aveva già dell'incredibile che l'avesse accettata come sua assistente.

Lo studio era molto grande, ordinato, nonostante la quantità di libri che vi erano conservati al suo interno, che impilati gli uni sugli altri, in alcuni punti della stanza sembravano essere diventati come un secondo muro.

Percepiva lo sguardo della ragazza alle sue spalle: lo stava studiando e aspettava forse che lui dicesse qualcosa. Lei, in quella semplice affermazione fatta poco prima aveva implicitamente ammesso di averlo riconosciuto, forse per quel fugace incontro in Chiesa, mentre lui non era stato ancora in grado di dirle alcun che.

« Hai il suo stesso sguardo » esordì la ragazza, mentre lo superava e si posizionava di fronte a lui, appoggiandosi di schiena alla scrivania « Severo e inquietante. » aggiunse, abbozzando un sorriso.

La sincera tristezza che Sasuke poté leggere nei suoi occhi lo costrinse a cambiare i suoi piani. Lungo il percorso dalla fermata della Metropolitana alla sede della Sorbonne, aveva fantasticato a lungo su quel momento. Aveva deciso di farla parlare, di aggredirla se necessario, ma guardandola adesso, così triste, aveva provato più il desiderio di consolarla che altro.

« Tu sei Sasuke, vero? » gli domandò la ragazza.

« Sì. » le rispose « E lei è Sakura Haruno. » aggiunse, scegliendo di proposito di darle del lei per mantenere le distanze.

« Tuo padre mi ha parlato tanto di te. » lo informò, ignorando l'evidente chiusura che il ragazzo aveva mostrato nei suoi confronti.

« Strano. » replicò Sasuke, stando ben attento a non far trasparire l'amarezza nel suo tono di voce: dopo quanto accaduto in passato era impensabile che suo padre parlasse a un estraneo di lui.

« Al contrario io ho appreso di lei solo ultimamente. » aggiunse, guardandola dritta negli occhi per cogliere un eventuale reazione.

« Sarebbe stato strano il contrario. » affermò Sakura, sorridendo divertita e aspettandosi che anche lui facesse lo stesso: i giochi di parole erano sempre stati il suo forte. Ricordò quanto Fugaku li odiasse e si adombrò per un attimo per poi concentrarsi di nuovo sul ragazzo che aveva di fronte che si era limitato ad alzare un sopracciglio, perplesso.

Si schiarì la voce con un colpo di tosse e riprese: « Perché mai tuo padre avrebbe dovuto parlarti di me? Dopotutto ero solo la sua assistente. »

In effetti, constatò Sasuke, sorvolando su quello stupido gioco di parole, il ragionamento della ragazza non faceva una piega.

« Ma dimmi. » continuò lei, incrociando le braccia « Cosa ti ha portato qui, oggi? » gli domandò, socchiudendo gli occhi.

Sasuke si prese qualche minuto per valutare bene cosa risponderle: se si fosse esposto troppo probabilmente lei si sarebbe chiusa a riccio e lui non avrebbe ottenuto alcuna informazione.

« Dovrei recuperare gli effetti personali di mio padre. »

Una scusa plausibile, dopotutto prima o poi l'Università avrebbe chiesto a sua madre di farlo.

« Di già! » esclamò la ragazza, questa volta spalancando gli occhi dallo stupore « Bande d'ingrats! » (6)imprecò, sottovoce.

« Beh, allora preparati! » gli annunciò « In questo studio, tutto è un effetto personale di tuo padre. » gli disse poi, enfatizzando il concetto spalancando le braccia.

Sua madre sarebbe stata contenta, osservò Sasuke: tanti altri oggetti da collezionare.

« Ci metterai come minimo tre settimane. » pronosticò la ragazza « A meno che tu non voglia pagare una ditta di traslochi. »

« Valuterò il da farsi. » replicò Sasuke, caustico.

« Vuoi iniziare subito? » gli domandò Sakura.

« No, penso che ne parlerò prima con mia madre. »

« Bene. » ribatté lei, piegando le labbra in una smorfia strana, sicuramente d'imbarazzo.

« Bene. » ripeté lui, deciso a non muoversi da lì fino a che non avesse ottenuto anche solo una minima informazione.

Sullo studio si abbatté un febbrile silenzio. Sasuke tirò fuori dalla tasca il suo orologio per controllare l'ora e lei, di sottecchi, lo osservò, trovando abbastanza inusuale che un uomo della sua età andasse in giro con un pezzo di anticaglia del genere.

Tuttavia, quel gesto, le fece venire in mente un modo per togliersi dall'impaccio.

« È quasi ora del brunch. » esordì, dunque, attendendo una sua reazione prima di continuare.

Sasuke alzò lo sguardo dall'orologio e la guardò con aria interrogativa: lo stava gentilmente mandando via o lo stava invitando a pranzo?

« Mi fai compagnia? » decise di dirgli scegliendo tra le varie opzioni quella più gentile.

Sasuke annuì: poteva essere un'ottima occasione per conoscerla meglio e, chissà, capire quale rapporto ci fosse stato tra lei e suo padre. Certo, quella ragazza era scaltra e sicuramente con la sua dialettica avrebbe potuto intortarlo a suo piacimento, ma era sempre stato bravo a leggere tra le righe e con un po' di pazienza, ne era sicuro, avrebbe ottenuto quello che voleva.

« Allons! »


Appena fuori dall'edificio, Sakura gli fece un cenno, invitandolo a fermarsi un attimo. Si appoggiò a una delle colonne del porticato e tirò su una gamba, rimanendo in equilibrio, per sostenere il peso della sua borsa a tracolla. Frugò insistentemente all'interno della stessa, portando la lingua sul labbro superiore, in un'espressione che Sasuke definì alquanto buffa. Dopo alcuni secondi, sorrise trionfante, avendo trovato il pacchetto di sigarette e l'accendino in un solo colpo – evento raro.

Prese una sigaretta e la portò alla bocca, porgendo poi il pacchetto a Sasuke.

« Ho smesso, grazie. » la informò, rifiutando con gentilezza.

Sakura accese la sigaretta e inspirò a fondo il primo tiro, sentendosi immediatamente meglio: da quando Sasuke aveva fatto la sua comparsa aveva sentito il bisogno impellente di fumare.

« Che bravo! » esclamò, davvero colpita « E come hai fatto? Agopuntura? Sigaretta elettronica? » gli domandò curiosa: lei ci aveva provato molte volte a smettere, ma puntualmente era ricaduta in tentazione.

« Qualcosa di molto più semplice. » le rispose, quasi divertito.

« Cioè? »

« Forza di volontà. » dichiarò Sasuke, con una nota di sufficienza nella voce che riuscì a zittire la ragazza.

Da quel momento in poi camminarono in silenzio, ripercorrendo al contrario la strada dalla Sorbonne al Boulevard Saint-Germain dove era situata la brasserie in cui Sakura aveva intenzione di portarlo.

Era un locale in pieno stile parigino, anche se proponeva piatti internazionali come il sushi o la pasta.

Si misero a sedere a un tavolo, già apparecchiato con tovagliette di carta a quadretti bianchi e rossi, un bicchiere di vetro da acqua e le posate avvolte in un tovagliolo, anch'esso di carta.

In quanto a eleganza non era il massimo, ma a giudicare dalla folla il cibo doveva essere buono.

« Qui preparano un sushi eccellente. » lo informò la ragazza « Anche se io non l'ho mai mangiato. Non mi piace. » aggiunse, porgendogli il menù che la cameriera aveva lasciato al tavolo.

« Come fa a dire che è eccellente se non l'ha mai mangiato? » la provocò Sasuke, che dopo essere riuscito a zittirla si era sentito intellettualmente superiore e, quindi, aveva acquisito sicurezza.

« Potresti. » Sakura indugiò appena « Sì, insomma, potresti non darmi del lei? » gli chiese, tutto d'un fiato, aggiungendo poi: «Mi mette a disagio. Siamo quasi coetanei dopotutto. »

Sasuke incurvò le labbra in un ghigno: l'aveva capito subito che il fatto che lui le avesse dato del lei l'avesse messa in imbarazzo, ma aveva continuato, deciso a mantenere le distanze, a non darle confidenza. Non aveva intenzione di diventare suo amico, in verità non vedeva l'ora di dimenticare tutta quella storia, ma non prima di aver scoperto la verità.

« Se non sbaglio sei nato a Luglio. » riprese Sakura « Io sono nata a Marzo. Sono più grande di te di qualche mese, ma non per questo mi devi dare del lei. Mi fai sentire vecchia. » sproloquiò nervosa, spiegazzando l'angolo della tovaglietta.

Sasuke rimase stupito nell'apprendere che lei fosse così informata: forse non mentiva sul fatto che suo padre le avesse parlato di lui.

« Non sei originaria di Parigi, vero? » le chiese Sasuke, accontentandola sul '' tu '' e partendo definitivamente all'attacco.

Lei gli sorrise, sollevata, e smise di maltrattare la tovaglietta.

« Non mangio il sushi, ma sono Giapponese. » gli confermò, anche se era certa che quella precisazione fosse stata assolutamente inutile.

« Da quanto tempo vivi a Parigi? » incalzò lui, deciso a battere il ferro finché era caldo.

« Da sempre. O almeno da che ho memoria. »

Quella risposta criptica non soddisfò affatto il ragazzo che mentalmente aveva già fatto i suoi conti: il cognome Haruno lo aveva subito portato a pensare che lei non fosse di Parigi, i lineamenti, il taglio degli occhi e quella frase a bruciapelo che aveva proferito sulla porta dello studio di suo padre gli avevano confermato il suo sospetto, tuttavia in quel quadro quasi perfetto c'era qualcosa che stonava ed era il suo francese, impeccabile e senza accenti particolari.

Vivendo all'estero Sasuke aveva imparato che, per quanto si potesse conoscere bene una lingua e parlarla correntemente, l'accento della propria lingua madre fosse impossibile da eliminare del tutto: che fosse nata in Francia, quindi?

La cameriera si accostò al tavolo e chiese loro cosa volessero ordinare.

Sasuke optò per una semplice insalata e dell'acqua naturale, mentre Sakura ordinò una omelette, un tagliere di formaggi e un bicchiere di vino rosso.

« E così sei un fisico. »

Sakura cambiò discorso, incentrando di nuovo la conversazione su di lui.

« Sì. » affermò lui, senza aggiungere altro: non amava parlare di sé.

« Ambizione, distrazione, mostrificazione e derisione. » recitò lei, facendo ondeggiare una mano come un direttore d'orchestra.

Sasuke la guardò perplesso e alzò un sopracciglio: ciò che aveva appena detto non aveva il ben che minimo senso logico.

La ragazza scoppiò a ridere, conscia che non avesse capito e lui corrugò la fronte, contrariato, sentendosi preso in giro.

« Sono le varie branche dell'aritmetica, ma penso che possano essere valide anche per la fisica. » tentò di spiegargli, anche se era quasi certa che non avrebbe capito ugualmente « Voi scienziati siete come dei libri senza figure, né dialoghi. » continuò, cercando di rendere il concetto più chiaro « Inseguite in modo spasmodico la conoscenza, schiavi di formule e numeri, dimentichi di avere un'anima che necessita di essere nutrita quanto la mente. »

Per quanto Sasuke si sforzasse non riusciva a seguirla e quel senso fastidioso di inadeguatezza lo portò a lanciarle uno sguardo severo, ammonitore, volto a dissuaderla dal continuare.

La cameriera, in modo provvidenziale, tornò al tavolo con il loro pranzo, allentando così la tensione.

Sakura iniziò a mangiare come se nulla fosse accaduto, mentre lui ancora troppo arrabbiato rimase a fissare la sua insalata, cercando di allontanare da sé il desiderio di risponderle con il rischio di poter essere offensivo. Aveva voglia di insultarla, di umiliarla, per quella bestemmia che aveva appena proferito. Implicitamente lo aveva offeso, deliberatamente attaccato, e il suo orgoglio non riusciva a sopportare un simile affronto.

Un libro senza figure, né dialoghi. Ambizione, distrazione, mostrificazione e derisione.

Quella ragazza non sapeva di cosa stava parlando e, soprattutto, aveva quello strano modo di interloquire che la rendeva non solo incomprensibile, ma anche insopportabile.

« Come hai conosciuto mio padre? »

Sasuke si decise a rompere il silenzio, tornando all'argomento principale, quello per cui aveva accettato di pranzare con quella donna blasfema e inopportuna.

« All'università. » gli rispose lei, mandandolo su tutte le furie per quell'ennesima risposta vaga e superficiale.

Sasuke iniziò a sospettare che lei avesse subdorato qualcosa, che avesse scoperto il suo gioco e che, quindi, si comportasse in quel modo di proposito.

« Tuo padre era un uomo molto buono. »

Inaspettatamente Sakura ricominciò a parlare, con un tono molto diverso da quello che aveva utilizzato in precedenza.

« Per me non è stato solo un mentore, ma anche un amico, un padre. » continuò, con voce strozzata, mostrando quanto in fondo fosse fragile dietro quella maschera di donna emancipata che si era costruita « L'ho amato molto. » chiosò, lasciando Sasuke esterrefatto: forse le teorie di sua madre non erano poi così tanto infondate.

Dopo aver pronunciato quelle parole Sakura posò la forchetta, sentendo venir meno la fame, e con un gesto veloce della mano si asciugò una lacrima arroccata nell'angolo dell'occhio destro.

Sasuke, dentro di sé, cercò di convincersi che quella fosse una sceneggiata per non cadere nella tentazione di provare pena o comprensione per lei. Aveva appena ammesso di aver amato molto suo padre, era quello che lui voleva sentirsi dire, ma non quello che si sarebbe aspettato che lei dicesse; non così spontaneamente, almeno, come fosse stata una cosa normale: quale amante avrebbe confessato il suo peccato con tale facilità?

Qualcosa continuava a non tornargli e non era solo il fatto che qualcun altro, a parte sua madre, avesse potuto provare un simile attaccamento verso una persona tendenzialmente anaffettiva come suo padre.

« Cosa intendi? » le domandò Sasuke, con la speranza che lei rispondesse con sincerità.

« Ho perso i miei genitori quando ero molto piccola » gli rispose, riprendendo a maltrattare la tovaglietta con le dita della mano « E Fugaku è stato quanto di più simile a una famiglia che io abbia mai avuto. Si prendeva cura di me come avrebbe fatto un padre, o almeno credo. » gli spiegò, poi, sentendo di nuovo le lacrime affiorarle sui bordi delle palpebre.

« Mi dispiace per i tuoi genitori. » si sentì di dirle il ragazzo, versando un po' d'acqua nel bicchiere per ovviare alla sgradevole sensazione di secchezza che aveva iniziato a provare in direzione della gola.

« Non puoi dispiacerti per qualcosa che non conosci, come non si può soffrire per qualcosa che non ricordi di avere avuto. » affermò lei, dandogli di nuovo prova di essere molto brava con le parole e, all'occorrenza sintetica, ma efficace.

« Non hai ricordi di loro, quindi. »

« No. Avevo solo quattro anni. »

Sakura inforcò lo stelo del calice e portò il bicchiere alle labbra, bevendo un lungo sorso di vino: l'ultima volta che aveva parlato del suo passato così apertamente era stato proprio con il padre di Sasuke, un dejavù che aveva dell'incredibile. Probabilmente, come suo padre, Sasuke tentava di difendere il suo animo gentile e altruista, indossando la maschera dell'uomo duro e intransigente.

« Dopo cos'è accaduto? » incalzò Sasuke, sentendo di essere sulla strada giusta, infischiandosene di poter essere inopportuno o sgarbato nel porle domande così personali.

« Quello che accade a tutti gli orfani. Sono stata in un istituto, in Giappone, per circa un anno, o almeno credo. Il primo vero ricordo, un po' confuso, della mia infanzia è il viaggio in aereo che mi ha condotta a Parigi. »

Più Sakura andava avanti nel racconto, più dentro Sasuke nasceva un nuovo dubbio, se possibile più inquietante di quello con il quale era partito quella stessa mattina.

« Perché Parigi? Non avevi parenti in Giappone? » indagò, quindi, perché quel dubbio si era ormai insinuato nelle sue sinapsi e la sua mente era già arrivata a una conclusione, ma aveva bisogno di ulteriori informazioni per averne la certezza.

« Mi stai facendo il terzo grado per caso? » obiettò lei, riducendo i suoi occhi a due fessure.

« No. » rispose, sicuro « È solo che la tua storia mi ha incuriosito, ma se non hai voglia di parlarne possiamo anche cambiare argomento. » si sforzò di sembrare convinto di quello che diceva, benché in cuor suo desiderasse il contrario.

« Comunque no, nessun parente. Né qui, né in Giappone. »

Sasuke tirò un sospiro di sollievo, udendo la sua risposta ancora attinente all'argomento.

« Non so neanche come ci sia finita qui a Parigi. Un bel giorno mi hanno caricato su un aereo e spedita in un collegio dove sono rimasta fino ai diciotto anni. » continuò lei, gesticolando animatamente.

La domanda nacque spontanea nell'eccelsa mente dell'Uchiha: come aveva fatto una povera orfanella a diventare assistente del Rettore dell'Università di Letteratura Straniera della Sorbona?

« Ti starai chiedendo chi ha pagato i miei studi, immagino. »

Leggeva anche nel pensiero?

« Una delle suore del collegio fece richiesta per una borsa di studio e, non so come, la vinsi. Evidentemente Suor Marie aveva dei buoni agganci in Paradiso. » gli confessò, sorridendo al ricordo di quel giorno in cui la sua vita era cambiata in modo radicale.

Quell'ultima rivelazione insospettì ulteriormente Sasuke: che la suora avesse potuto avere qualche aggancio all'interno della Sorbona poteva essere anche plausibile, ma quella storia continuava ad avere delle enormi incongruenze, delle falle che la rendevano assai poco credibile.

« Non hai mai cercato di scoprire come sei arrivata a Parigi? » le domandò, quindi: al suo posto non si sarebbe dato pace, proprio come stava facendo in quel momento, fino a che non avesse trovato una spiegazione.

« Oh, sì! » esclamò lei « Ci ho provato svariate volte. Ho persino pensato di andare in Giappone, a Kamakura, la mia città natale per scoprire le mie origini. »

« Kamakura hai detto? » la interruppe Sasuke, che sentendo quel nome aveva sbarrato gli occhi.

« Sì, la conosci? »

« Ne ho sentito parlare. » mentì: era la città natale di suo padre. Coincidenza?

La coincidenza, in senso lato, è la probabilità, accidentale e inaspettata, che due o più eventi siano tra loro collegati, ma in fisica, come nel caso di due raggi di sole che colpiscono lo stesso punto, l'allineamento dei due eventi non è affatto casuale o sorprendente.

Sasuke, pertanto, non aveva mai creduto alle coincidenze.

« Mi piacerebbe molto andarci, ma il viaggio costa un'assurdità. » piagnucolò la ragazza, abbassando le spalle, sconfortata.

« Adesso. » sbottò improvvisamente Sasuke, tirando fuori il portafogli dalla tasca e posando i soldi per il conto sul tavolo « Adesso devo proprio andare. Mia madre e mio fratello mi stanno aspettando. » le spiegò in fretta, con un'espressione sul viso molto simile a quella di chi ha appena ricevuto una pessima notizia o ha visto un fantasma. L'ultima informazione che Sakura gli aveva dato era stata cruciale. Non aveva ancora le idee molto chiare, ma quantomeno aveva assodato che tra lei e suo padre non ci fosse stato quel sordido rapporto ipotizzato da sua madre. Adesso quantomeno sapeva come comportarsi, cosa fare, e con un po' di fortuna sarebbe riuscito a mettere in atto i suoi propositi prima che suo padre venisse tumulato.

« Aspetta! » lo fermò lei, cercando di nuovo qualcosa nella borsa: questa volta una semplice penna.

Allungò una mano verso di lui, invitandolo a fare lo stesso. Lui la guardò corrucciato non riuscendo a capire il senso di quel gesto, ma la assecondò.

« Hai delle belle mani. » osservò lei, accarezzando la mano del ragazzo che, rigido, continuava a chiedersi che intenzioni avesse.

Con gentilezza lo costrinse a voltare il palmo della mano all'insù e prese a scrivervi sopra dei numeri.

« Questa sera sono stata invitata a una festa. » gli disse « Forse non hai voglia di stare in mezzo alla gente, ma mi farebbe piacere se tu venissi. » aggiunse poi, restituendogli la mano.

Sasuke annuì, incapace di fare altro e uscì in fretta dalla brasserie diretto nuovamente all'Università: doveva immediatamente togliersi quel dubbio angosciante dalla testa.

Suo padre era nato a Kamakura, poi durante il servizio militare si era trasferito a Tokyo dove aveva iniziato gli studi e conosciuto sua madre. Dopo la morte dei suoi nonni non aveva più fatto ritorno alla sua città natia, tuttavia poteva essere plausibile che avesse avuto ancora delle amicizie lì. Sakura era nata a marzo, lui a luglio, e nel periodo che era intercorso tra la sua nascita e quella di Itachi i suoi genitori avevano avuto una crisi matrimoniale che li aveva portati quasi al divorzio. Quelli erano fatti, non coincidenze, ed era sicuro che, indagando su quella borsa di studio, avrebbe scoperto che non era mai esistita.








Note Autrice


Salve carissimi lettori,

questa mattina sarò abbastanza sintetica perché sono in ritardo e tra un quarto d'ora devo stare in ufficio. :-(

Ringrazio chi ha recensito il precedente capitolo, chi ha inserito la storia tra le preferite, le seguite e le ricordate, e chi l'ha solamente letta. Grazie infinite!

Vi annuncio anche che il capitolo di Mr è quasi terminato ma siccome in questi giorni sono oberata di lavoro non penso che riuscirò a postarlo prima di giovedì o venerdì.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e gradirei sapere che cosa ne pensate.

Colgo l'occasione per fare gli auguri a una mia carissima amica che oggi compie gli anni. Bonne Anniversaire Giropizza!

Un bacione a tutti e a presto.




Note:




(1) « Mademoiselle, est-ce que je peux entrer? » (Signorina, posso entrare?)

(2) « Un istant je vous prie. » (Un istante prego)

(3) « Le monsieur est le fils… » (Il signore è il figlio…)

(4) Traduzione di un verso della canzone '' Once upon a dream'' di Lana del Rey

(5) « Je m'en occupe maintenant, merci beaucoup. » (Me ne occupo io adesso, grazie mille.)

(6) « Bande d'ingrats! » (Banda di ingrati)

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Capitolo 3
*** III ***



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III




Quando Sasuke tornò all'appartamento dei suoi genitori, trovò sua madre e Itachi nel salotto, stranamente silenziosi.

Percepì subito che fosse accaduto qualcos'altro e si preparò mentalmente a ricevere l'ennesima brutta notizia.

« Dove sei stato? » gli chiese la madre.

« All'università. » rispose con sincerità: dopo ciò che aveva scoperto avrebbe dovuto dirglielo comunque.

« Sei stato da quella donna. » affermò Itachi, che non sembrava sorpreso affatto.

Sasuke annuì e respirò a fondo, preparandosi a spiegare loro come stessero davvero le cose, o meglio esporgli la sua visione.

« Lei non era l'amante di papà. » dichiarò, convinto, attirando l'attenzione di sua madre che fino a quel momento non lo aveva degnato di uno sguardo.

Gli raccontò della conversazione avuta con lei a pranzo, fin nei minimi dettagli, e della borsa di studio, che come lui aveva ipotizzato, non era mai esistita, e che era stato, quindi, suo padre a mantenere Sakura agli studi, a pagarle l'appartamento e a donarle dei soldi mensili per farle vivere una vita decorosa, spiegando così dove fossero finiti quei soldi che periodicamente venivano versati sul conto corrente della ragazza.

« Perché avrebbe dovuto fare tutto questo per una sconosciuta? » chiese Itachi, sorpreso. « E per quale motivo non ci ha mai detto niente? Ma soprattutto lei lo sa? » aggiunse, concitatamente.

« Lei non può saperlo. » lo interruppe la madre « Il conto corrente da cui partivano i bonifici non è intestato a lui, ma a un'associazione di cui lui è presidente. » gli comunicò prima di scuotere la testa, affranta.

« Sakura deve aver pensato che la sua borsa di studio venisse da quell'associazione. » ipotizzò Sasuke.

« Sì, ma perché? » insistette Itachi.

« Credo che Sakura sia nostra sorella. » dichiarò, tutto d'un fiato, lasciando i presenti a bocca aperta.

Sul salotto calò un opprimente silenzio. Sasuke fece saettare lo sguardo da suo fratello a sua madre svariate volte, in attesa che uno di loro dicesse qualcosa.

« Chi era mio marito? » esclamò sua madre, infine, portando entrambe le mani al volto.

« Come fai ad affermare una cosa così grave? » chiese Itachi « Ammetto che da quello che ci ha raccontato le coincidenze non manchino, ma insomma, è impossibile che nostro padre abbia nascosto per ventinove anni di avere una figlia illegittima! » aggiunse per poi avvicinarsi a sua madre e posarle una mano sulla schiena per confortarla.

« Le coincidenze non esistono. » replicò Sasuke, sentendosi quasi in colpa per aver inferto quel duro colpo a sua madre « Questi sono fatti, Itachi! » ringhiò, subito dopo, stringendo i pugni: non faceva piacere neanche a lui, ma non poteva farci niente se le cose stavano così.

« Anche i fatti possono essere confutati, lo so per certo, lo faccio di mestiere. » ribatté prontamente il fratello « In ogni caso, questa mattina ha chiamato Shikaku Nara, il notaio di nostro padre, dicendo di avere bisogno di parlarci con urgenza. Forse lui ne sa più di noi. »

gli comunicò subito dopo, invitando sua madre ad alzarsi.

« E mi parli di coincidenze? » lo canzonò Sasuke, ricevendo come risposta uno sguardo glaciale che lo persuase a desistere.



Dopo la tumulazione, avvenuta con uno spirito ben poco contrito da parte dei congiunti del defunto, incapaci di provare nient'altro che biasimo per quell'uomo che veniva sigillato all'interno di un'anonima nicchia di una cappella privata con una pila di mattoni e calcestruzzo.

Non un fiore, non una candela, i suoi congiunti non avevano portato nulla per lui se non domande a cui non avrebbe mai potuto rispondere.

Si recarono in assoluto silenzio presso lo studio del notaio, evitando di toccare ancora quell'argomento scottante.

Shikaku Nara li aveva accolti con affetto, non essendo solo il loro notaio di fiducia, ma anche un amico di vecchia data.

Li fece accomodare nel suo studio, arredato con raffinatezza, e cominciò subito a spiegargli il motivo per il quale era stato costretto a convocarli: Fugaku aveva fatto testamento pochi giorni prima di morire.

Sasuke, Itachi e sua madre rimasero molto sorpresi nell'apprendere la notizia, quasi terrorizzati all'idea di cosa avesse potuto spingere l'uomo a fare testamento date le ultime novità.

Shikaku iniziò a leggere il testo riportato sull'atto, sorvolando sui punti meno salienti e arrivando dritto al punto.

Sasuke chiuse gli occhi udendo proferire dalle sue labbra le parole '' fondo fiduciario '' e '' associazione '' , realizzando che suo padre negli ultimi ventinove anni avesse pensato più al bene di Sakura che al suo nel medesimo arco temporale.

Provò una sorta di invidia, di gelosia, nei confronti della ragazza che aveva avuto, in fondo, ciò che lui aveva anelato per tutta la vita: l'attenzione di suo padre.

« Pertanto la mia volontà è che mio figlio, Sasuke Uchiha, amministri il fondo fiduciario in oggetto, continuando così la mia opera di mecenate. » lesse Shikaku, solennemente.

'' Prima l'esecuzione e poi il verdetto, a quanto pare. '' osservò Sasuke, sinceramente contrariato dal fatto che suo padre avesse scelto proprio lui per quell'ingrato compito, quando Itachi sarebbe stato più appropriato e competente per assolverlo.

« Domani, Sasuke, ti aspettano in banca per cambiare le firme e consegnarti i documenti. » aggiunse il notaio, richiudendo la pratica.

« Sa qualcosa in più rispetto a noi su questa faccenda? » domandò Itachi a quel punto.

« C'è il segreto professionale come ben sai, Itachi. » gli ricordò Shikaku « Ciò nonostante, da amico, posso dirvi che Fugaku ha agito in questo modo per una più che nobile causa. » dichiarò subito dopo, riuscendo in qualche modo a farli sentire sollevati, pur non dissipando i loro dubbi.




Un volta tornati a casa, Mikoto si richiuse nella sua stanza e i due fratelli rimasero soli nel salotto. Ancora frastornati e con la testa piena di pensieri rimasero seduti, in silenzio, sulle poltrone di velluto bordeaux per alcuni minuti, fissando con insistenza il vuoto.

« Che hai intenzione di fare adesso? Hai deciso di ripartire, di restare? »

Itachi ruppe il silenzio per sincerarsi delle intenzioni del fratello, certo che non vedesse l'ora di ritornare a Sidney.

Sasuke respirò a fondo prima di rispondergli, incrociò le mai davanti al viso, poggiando i gomiti sui braccioli della poltrona e chiuse gli occhi: la tentazione di andare via era forte, ma ancor di più il desiderio di vedere dove l'avrebbe portato quella storia.

« Credo che mi fermerò qualche giorno per valutare il mio investimento. » gli rispose, poggiando la testa contro lo schienale della poltrona, avendo come la sensazione che quest'ultima potesse inghiottirlo da un momento all'altro: era stanco, confuso e stranamente agitato. Il confine, di per sé già sottile, tra menzogna e verità, era diventato invisibile, tutte le sue certezze nel giro di quarantotto ore si erano sgretolate una ad una e, come se non bastasse, adesso era anche responsabile del benessere di un'altra persona. L'eredità che suo padre gli aveva lasciato era un peso che non era certo di poter sopportare. In pratica lo aveva messo di fronte a un fatto compiuto, senza dargli la possibilità di scegliere – un atteggiamento tipico di suo padre.

« Hai intenzione di continuare a fare beneficenza a quella ragazza o ti prenderai cura di lei come ha fatto nostro padre? » incalzò Itachi, che nel momento in cui Shikaku aveva fatto il nome di Sasuke aveva provato dapprima un egoistico sollievo e in seguito apprensione nei confronti di suo fratello, sicuramente meno adatto di lui a ricoprire il ruolo di '' tutore ''.

« Non sappiamo neanche se sia davvero nostra sorella. » gli ricordò Sasuke « E comunque non ho intenzione di fare altro che rimanere nell'ombra, come ha fatto nostro padre, e continuare a erogarle la paghetta. »

Detto questo, tirò fuori dalla tasca l'orologio di suo nonno e iniziò a fissare la lancetta dei secondi che procedeva sul quadrante di madreperla. Sorrise constatando che, come sempre, il tempo fosse l'unica vera e incontrovertibile certezza che un uomo potesse avere. Seguì la lancetta dei secondi fino a che quella dei minuti non scattò e notò qualcosa sul palmo della sua mano, in corrispondenza delle ore dodici, qualcosa che aveva dimenticato di avere e che non era più molto chiaro a causa del nervosismo provato nello studio del notaio che gli aveva fatto sudare le mani.

Passò l'orologio da una mano all'altra e avvicinò il palmo stinto al viso, tentando di interpretare quei segni confusi.

« Prendiamo una pizza? » gli propose Itachi.

« No. » mormorò Sasuke, distrattamente « Devo andare a una festa. » aggiunse, dopo aver decriptato il codice.

« Non dirmi che l'aria di Parigi ti ha fatto tornare la voglia di trasgredire alle regole? Pensavo che avessi superato questa fase. » commentò, sarcastico, il fratello con un sorrisetto fin troppo divertito per i suoi gusti.

« Controllo solo il mio investimento. » replicò Sasuke, caustico.

« Esci con lei? » esclamò Itachi, non celando la sua sorpresa.

« Controllo solo il mio investimento. » cantilenò l'altro, lasciandolo il salotto.

Si chiuse la porta della sua camera alle spalle e aprì il cassetto del comodino dove aveva riposto il cellulare. Nessuno lo aveva cercato, ma c'era da aspettarselo: a Sidney non era riuscito a legarsi a nessuno in particolare, rifuggiva la compagnia dei suoi colleghi e le poche storie sentimentali che aveva avuto erano durate il tempo di una notte o poco più.

Si mise a sedere sul letto, poggiando l'orologio sul cuscino, e digitò un breve messaggio: '' A che ora e dove. Sasuke. ''

Riguardò per un attimo il palmo della mano, componendo sulla tastiera il numero e lo inviò, sentendo una scarica di adrenalina attraversargli il corpo dalla testa ai piedi.

Attese qualche secondo, facendo saettare lo sguardo dal cellulare all'orologio. Dopo alcuni minuti, non ottenendo risposta, iniziò a sentirsi un povero idiota. Dopo un quarto d'ora, in cui aveva preferito non muoversi da quella posizione, decretò che potesse bastare e che se ne sarebbe fatto una ragione: dopotutto non aveva neanche voglia di andare a quella stupida festa con quella noiosa ragazza che non faceva altro che dire cose senza senso.

Posò il cellulare sul comodino e si apprestò a tornare in salotto per chiedere a suo fratello se l'offerta della pizza fosse ancora valida. Impugnò la maniglia della porta e, in quel preciso istante, il cellulare vibrò.

Pervaso da una strana euforia, impugnò il cellulare e lesse il messaggio, ritrovandosi inconsapevolmente a sorridere.

'' Ci vediamo alla brasserie dove abbiamo pranzato oggi alle nove in punto. '' recitava il messaggio e Sasuke trovò abbastanza divertente che lei si fosse raccomandata circa la puntualità: come minimo lui sarebbe arrivato con un quarto d'ora di anticipo e sarebbe stato costretto ad aspettarla per una buona mezz'ora.

'' Ok. '' le rispose.



Alle sette e mezza Sasuke si presentò al cospetto di suo fratello, che alla fine aveva comunque deciso di ordinare una pizza, con indosso un paio di pantaloni di lino bianchi, una camicia azzurra e una giacca della medesima stoffa e colore dei pantaloni.

Itachi lo squadrò da capo a piedi, accantonando per un momento la pizza.

« Tu sembles un poissard. » decretò, arricciando il naso.

« E perché sembrerei uno sfigato? » chiese, guardando verso il basso, non riuscendo a trovare nulla nel suo abbigliamento che non andasse.

« Vai a prendere un tè con i biscottini a Versailles? » commentò Itachi, ironico.

Sasuke alzò un sopracciglio, contrariato: a Sidney nessuno si era mai lamentato del suo abbigliamento.

Il fratello prese un tovagliolo di carta e si pulì bene le mani e le labbra.

« Seguimi. » gli ordinò subito dopo, entrando nella sua stanza.

« Mamma deve aver conservato alcuni dei tuoi vestiti, di solito non butta mai niente. » disse, aprendo l'armadio.

« Me ne sono accorto. » replicò Sasuke con tagliente sarcasmo.

« Toh! Eccoli qui! » esclamò Itachi, tirando fuori da un cassetto una maglia consunta dei Rolling Stones.

« Non pensarci neanche. » lo minacciò l'altro, indietreggiando di qualche passo.

« Ok, i Rolling Stones forse sono un po' esagerati, ma sicuramente troveremo qualcosa di decente. »

« Itachi, quella roba la indossavo quando avevo diciotto anni! » ringhiò Sasuke che proprio non vedeva la necessità di doversi cambiare.

« Sì, ed eri anche più simpatico all'epoca. »





Nove e tre quarti.

Come volevasi dimostrare Sakura era in ritardo.

Sasuke era rimasto fermo davanti alla brasserie come uno stupido, vestito da stupido. Nel cassetto, infatti, Itachi aveva scovato un paio di jeans strappati e un'anonima camicia bianca e dopo aver constatato che dopo tutti quegli anni gli calzassero ancora a pennello, lo aveva costretto a indossarli, aggiungendo un '' Trés chic. '' che gli aveva fatto accapponare la pelle.

Era riuscito finanche a scovare in soffitta un paio di vecchie sneakers, ritenendo che i suoi mocassini si sposassero poco con quell'abbigliamento.

Il suo nuovo, vecchio, stile, aveva riscosso un grande successo, tant'è che sulla metropolitana era stato abbordato un paio di volte – proprio come i vecchi tempi – e si era ritrovato a maledire suo fratello per quella malsana idea: odiava sentirsi osservato e, ancor di più, essere abbordato.

« Scusa, scusa, scusa! » sentì urlare dall'angolo della strada.

La vide correre verso di lui e qualcosa nel petto prese a battergli forte.

« Perdonami! » ripeté la ragazza, fermandosi a pochi centimetri da lui « Quella stupida macchina non ne voleva sapere di mettersi in moto. »

Stava chiaramente mentendo, ma Sasuke decise di passarci sopra.

« Non importa. »

« Caspita, stai benissimo! » esclamò Sakura, con una spontaneità disarmante, notando il drastico cambiamento.

« Grazie. Anche tu. » replicò Sasuke che al contrario pronunciò quelle parole in modo forzato, disabituato a elargire complimenti, ma soprattutto a riceverne di così spudorati.

Realizzò che quando si trovava in compagnia di quella ragazza era come se il mondo prendesse a girare al contrario. Riusciva a disarmarlo in mille e più modi, non era in grado di prevedere le sue mosse e questo, se da un lato lo eccitava, dall'altro lo terrorizzava.

« Andiamo? »





Come previsto da Itachi, la serata non fu affatto a base di tè e biscottini. In quell'occasione scoprì che Sakura, oltre al vizio del fumo, avesse una predisposizione innata per i superalcolici: cocktails, shottini, e via dicendo. Da quando avevano fatto il loro ingresso in quel locale non c'era stato un momento in cui non avesse stretto tra le mani un bicchiere contenente qualcosa di colorato e fortemente alcolico. Sasuke aveva cercato di starle dietro, ma dopo il decimo shottino, la testa aveva cominciato a girargli vorticosamente. Un tempo dieci shottini gli avrebbero fatto solo il solletico, ma da quando aveva lasciato Parigi la sua vita era cambiata parecchio.

Con la musica a tutto volume e il locale gremito di gente, non avevano avuto modo di parlare tanto e Sasuke aveva colto l'occasione per osservarla. Al di là del colore dei suoi capelli anche il suo modo di vestire era abbastanza particolare, anche se manteneva una certa sobrietà che non poté non apprezzare. Aveva indosso un paio di pantaloni bianchi, stivaletti di camoscio beige e una canotta che arrivava a metà coscia di colore rosso che faceva risaltare i suoi occhi. Sul viso non vi era ombra di trucco, forse solo un po' di mascara e le guance erano tinte di un rosa naturale, dovuto sicuramente all'alcool.

Era socievole, solare, forse un po' troppo estroversa, ma sembrava risultare simpatica a tutti.

« Si è fatto tardi. » gli disse a un certo punto, buttando giù l'ennesimo shottino dal colore poco rassicurante « Allons. » biascicò, invitandolo a seguirla.

Aveva parcheggiato la macchina in divieto di sosta, a qualche isolato dalla brasserie dove si erano dati appuntamento.

Sasuke non era molto certo che fosse in grado di guidare, ma la lasciò fare.

« Dove vuoi andare? » gli chiese, accendendo il quadro della macchina.

Sasuke prese il suo orologio dalla tasca e guardò l'ora, rimanendo attonito nel constatare che l'orologio si fosse fermato circa tre ore prima: come era possibile? Di solito cambiava le batterie a intervalli regolari proprio per evitare simile evenienze.

« Non so. » mormorò, più a se stesso che a lei.

« Allora non ha importanza. » decretò Sakura, mettendo in moto la macchina che partì al primo colpo, confermando a Sasuke che la sua fosse stata una banale scusa per giustificare il suo ritardo.

Per tutto il tragitto continuò a guardare l'orologio, a scuoterlo, a muovere la rotella dell'ingranaggio, ma senza ottenere alcun risultato. Si era fermato.

Quando Sakura gli comunicò di essere giunti a destinazione, ancora troppo scosso, non ricordava neanche di averle dato il suo consenso per portarlo chissà dove.

Scese dalla macchina, riponendo l'orologio nella tasca e alzò lo sguardo, trovandosi di fronte a un edificio di tre piani, di nuova costruzione.

Sakura era andata avanti e aveva aperto il portone. Dopo qualche minuto, vedendolo ancora impalato dall'altra parte della strada, gli aveva fatto cenno di raggiungerlo e lui aveva obbedito, pur essendo consapevole che fosse una pessima idea.

Sakura gli fece strada fino al suo appartamento, al secondo piano, aprì la porta e accese le luci prima di invitarlo a entrare.

L'appartamento a prima vista non sembrava molto grande. Era arredato in modo semplice, senza eccessi di sorta, ed era pieno zeppo di libri; spuntavano da ogni dove, persino da sotto il divano a due posti in tessuto nero.

« Porti a casa tutti quelli che inviti alle feste? » insinuò Sasuke, caustico.

« Solo quelli tremendamente belli. » replicò lei, quasi divertita da quella domanda, e dopo aver posato le chiavi di casa sul piccolo tavolo del cucinino, accorciò le distanze tra loro.

Sasuke d'istinto rimase immobile, sicuro di poter affrontare la situazione: l'alcool che aveva in corpo era sicuramente inferiore a quello che aveva tracannato lei.

Sakura avvolse le braccia intorno al suo collo e cercò i suoi occhi.

« Tuo padre mi diceva sempre che se mai ti avessi incontrato mi sarei perdutamente innamorata di te. » affermò, sorridente, mentre la sua mano destra scendeva lungo il collo e andava a giocherellare con l'asola di un bottone della camicia.

« Sei ubriaca. » constatò Sasuke, cercando di sembrare freddo, distaccato, malgrado tutto.

« Aveva ragione. » aggiunse lei, come se lui non avesse detto nulla.

« Io ti conosco. » continuò, seria « Ho camminato con te in un sogno. E lo so, è vero che le visioni raramente sono ciò che sembrano, ma so cosa farai: mi amerai immediatamente, come hai fatto quella volta in sogno. » concluse, mettendosi sulle punte e cercando di raggiungere le sue labbra.

Sasuke sentì il suo fiato sul collo, poi sul mento e infine sulle labbra. Aveva voglia di baciarla, benché avesse trovato assolutamente assurdo quanto lei aveva appena affermato con tanta enfasi, ma sapeva di non poterlo fare, che sarebbe stato sbagliato, incestuoso, qualora lei fosse stata davvero sua sorella.

La scostò delicatamente da lui, osservando il suo viso tirarsi in una smorfia di delusione. Non era sua intenzione farle del male, ma non aveva altra scelta.

« Ti ringrazio, ma non posso. » le disse solo, prima di lasciare in fretta il suo appartamento.






Quella notte Sasuke rincasò tardi e prese sonno quasi subito nonostante le svariate emozioni provate durante quell'assurda serata. Il viso di Sakura e la sua delusione movimentarono i suoi sogni e la mattina dopo si svegliò con una strana sensazione, ricordando qualcosa che aveva rimosso e che faceva parte della sua infanzia.

Aveva sognato di un viaggio in macchina con suo padre, di una struttura dell'ottocento immersa nella campagna parigina e di una bambina con grandi occhi verdi e tristi.

Forse il suo subconscio aveva elaborato quelle immagini sulla scorta di ciò che era accaduto, o forse era accaduto davvero?

Con quel pensiero per la testa si presentò in banca e subito lo zelante direttore lo aveva ricevuto, invitandolo a seguirlo nel caveau dove era conservata la cassetta di sicurezza di suo padre.

Dopo avergli consegnato la chiave, lo lasciò da solo.

Sasuke indugiò un po' prima di aprire la cassetta di sicurezza, preoccupato da ciò che vi avrebbe potuto trovare all'interno.

Girò la chiave e aprì il coperchio, sentendo la tensione crescere ogni secondo di più.

Ciò che vi trovò all'interno lo lasciò perplesso: una copia originale di '' Grandi Speranze'' di Charles Dickens.

Aprì il libro e vi trovò all'interno una lettera che aveva tutta l'aria di essere stata scritta da suo padre in persona – la grafia era inconfondibile.

Si appoggiò al grande tavolo in acciaio del caveau e prese a leggerla.

Tutto iniziò a essere più chiaro.

Sakura era la figlia di un suo commilitone. Dopo l'incidente, un avvocato aveva inviato a suo padre quella lettera in cui gli veniva chiesto di amministrare i beni della famiglia Haruno fino a che la bambina non fosse stata in grado di provvedere da sola. Essendo il commilitone anche un amico d'infanzia di suo padre, lui non se l'era sentita di rifiutare e così aveva simbolicamente adottato Sakura. Suo padre, nella lettera, non aveva avuto la premura di scusarsi per non aver messo al corrente la sua famiglia di tutto questo e Sasuke non se ne stupì più di tanto.

Ripose la lettera nella cassetta e lasciò la banca.

Si diresse in fretta alla Sorbona, certo che vi avrebbe trovato Sakura. Voleva raccontarle la verità, spiegarle per quale motivo l'avesse rifiutata e soprattutto desiderava porle una domanda a cui, era certo, lei sarebbe riuscita a rispondere.

Ignorando completamente la signorina alla reception che gli aveva fatto cenno di attendere, Sasuke salì le scale e si precipitò all'interno dello studio di suo padre, con un gran fiatone.

Sakura era intenta a sistemare dei libri e si voltò di scatto, udendo il rumore della porta.

La vide sbattere ripetutamente le palpebre, stupita, trovando l'espressione del suo viso così buffa da non riuscire a trattenere un sorriso.

Si avvicinò a lei, le prese il viso tra le mani e la baciò, rendendosi conto del fatto che aveva desiderato di farlo sin dalla prima volta che l'aveva vista.

« Io ti conosco. » le sussurrò sulle labbra, subito dopo « Ho camminato con te in un sogno » e non aveva solo ripetuto le sue parole, ma aveva descritto ciò che aveva sognato davvero quella notte.

« Sei in ritardo. » gli fece notare lei « Avresti dovuto capirlo prima. » aggiunse, sorridendogli dolcemente.

« Sakura, sai dirmi per quanto tempo è per sempre? » le domandò, aspettandosi una delle sue risposte incomprensibili e ripensando al suo orologio che ancora non aveva ripreso a funzionare.

« A volte solo un secondo. »





Angolo Autrice


Ed eccoci giunti alla fine.

Mi sono fatta un milione di seghe mentali sul finale di questa fan perché l'idea iniziale era un un bel po' diversa, più complessa, ma il tempo a mia disposizione era ormai giunto al termine e ho dovuto optare per una versione più sintetica. Dato che il regolamento dei contest vieta di modificare la storia prima di due settimane dalla consegna dei risultati e obbliga a pubblicarla, non è detto, quindi, che io non la riveda.

Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno recensito i precedenti capitoli e mi auguro di non avervi delusi.

Ringrazio anche _Schwarz per il bellissimo giudizio che è riuscito a rincuorarmi e a farmi tollerare un po' di più questo finale e per lo splendido banner.:-)

In questi giorni dovrei riuscire a pubblicare il nuovo capitolo di Mr Brightside, ma non so darvi una data precisa visto che mi sono '' leggermente '' bloccata e ho un sacco di dubbi.

Un bacione e a presto.


Blueorchid31










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