Seven months.

di past_zonk
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Seven months. ***
Capitolo 2: *** Llamame. ***



Capitolo 1
*** Seven months. ***




mi scuso per tutte le vocali non accentate, in uk le tastiere scagano.


 

Seven months, Portishead.

 

“You are a 90s girl. And it’s great, cause I  am a 90s boy.”

 

Aveva 40 anni o cosi’ diceva alla gente; parlava a voce bassa,occhi bassi; anche l’anima seguiva quel flusso migratorio, e scendeva sempre piu’ giu’, in un assolo di toni bassi, cosi’ bassi da toccare la moquette;  solo l’angolo della bocca si curvava all’insu’, in un sorrisetto che parlava di molto altro. Ero solo una ragazza, e sapevo che non c’era molto altro di lui dal quale essere attratta. Nessun mistero. Non era nulla, quell’uomo. Ti serviva tutto cio’ che era su un piatto ben visibile, non si nascondeva, fluiva insieme alle sue parole davanti ai tuoi occhi. E sorrideva poco.
Forse fu quello ad attrarmi. Mi sono sempre piaciuti gli uomini che parlano troppo o troppo poco. C’era qualcosa, qualcosa che ancora oggi non so descrivere con sicurezza. Qualcosa nel suo sarcasmo sottotono che cantava perfettamente con le note nel mio cervello. Le sue parole  - che non sempre capivo, dato il suo accento greco - tremavano sulla stessa corda della mia mente che ogni giorno adoravo stuzzicare. M’aveva sentito cantare, dalla stanza affianco, e aveva chiesto, semplicemente, “canti?”. Nonostante fossi una cantante in incognito, nonostante non l’avessi mai fatto davanti a nessuno, il mio ego ne fu piacevolmente soddisfatto. Avrei amato essere davvero intonata. La mia era piu’ che altro una componente forte di gusto e buon orecchio che mi portava a scegliere pezzi consoni alla mia voce. Non cantavo. Ma dissi di si’, perche’ avrei adorato essere una cantante ai suoi occhi. Perche’ parlava di cosi’ tanto in cosi’ poche righe, e le visualizzavo, le sue parole, dritte sulle mie pupille. Tremolavano di doppi sensi che facevo miei. Forse fu la musica che ci avvicino’. Forse, dal buio della mia minuscola stanza, sentire gli Smashing Pumpkins risuonare cosi’ meravigliosamente, mi aveva fatto sentire un perverso senso d’appartenenza. Ogni notte, quando lui era a casa e lasciava scorrere le canzoni liberamente, io dormivo nel suo letto - nonostante fossi nella mia stanza, era come se lo facessi - e gli respiravo vicino, e in silenzio gli dicevo sommessi grazie.  E toccavo il muro con le nocche anemiche, e battevo le ciglia sul suo volto depressamente smunto.
Facemmo l’amore una sola volta, prima che io andassi via.
Una sera, una birra, delle sigarette,  e lui m’aveva fatto scoprire i Portishead, nel rosso delle tende della sua stanza. Diceva di svegliarsi la notte quando la bambina al piano sotto piangeva. Diceva di non poter aspettare per piu’ di venti minuti che un piatto cuocesse - se io ero li’ a parlargli di tutto cio’ che volevo, aspettava con piacere, pero’. E poi io cantavo, la sera, e gli piaceva. Gli piaceva che avessi ancora qualcosa di cui cantare. La sua anima era ammuffita, diceva, ed era eccitante la mia luce un po’ oscura.
“La tua anima, cosi’ com’e’, non ha epoca. Ma sei una ragazza dei novanta, nel cuore. Anche io.”
Aveva quarant’anni quasi, non m’aveva mai detto quanti – non gliene avrei dati piu’ di trentasei -, ma la mia anima non aveva eta’ e cosi’ lui non sentiva fosse un errore passare una mano sul mio interno coscia freddo.
Non parlammo molto. Gli permisi di guardarmi nuda.  M’ero sempre nascosta, con gli amanti passati. Sempre stretta forte ai loro corpi per paura che mi guardassero. Ma lui mi spoglio’ molto lentamente, ad occhi bassi, e disse che ero lattea. Era greco; il suo volto era cosi’ anonimo, i suoi occhi molto opachi. Quando rideva lo trovavo molto bello, forse perche’ non rideva mai abbastanza.
Facemmo l’amore, ed adorai stare in silenzio. Respirava molto forte sulla conchiglia che era il mio orecchio, e mi teneva forte i fianchi con le mani grandi. Nella sua stanza risuonava un pezzo di Mogwai intitolato Stanley Kubrick.
“Non ami il tuo ragazzo?” mi chiese dopo, mentre fumavamo una sigaretta a piedi del letto.
“Si’, lo amo molto.”
Sorrise, un  po’ malinconico. Anche se avessi risposto di no, lui non ci sarebbe mai stato con me. Aveva quarant’anni e gli era piaciuto bere dalla mia luce. “Dovrei sentirmi in colpa, ma a tratti ho la sensazione che tu sia piu’ vecchia di me. Nonostante cio’, e’ stato molto bello. Nel senso ideale del termine.”
Risi un po’, feci una battuta su Platone e su quanto il suo spirito rincorresse ogni greco dalla nascita.
Mi chiese se volessi dormire con lui in quel letto molto ordinato; avrebbe acceso una bacchetta d’incenso, e la mattina dopo sarebbe uscito alle quattro. Gli dissi di si’.
Prima di addormentarci, mi bacio’ le labbra per la prima volta, e non fu un bacio quanto uno sfiorare molto gentile.
“Amo molto il mio ragazzo,” gli dissi, e lui annui’.
Non pensai neanche per un istante che fare l’amore con quell’uomo fosse un tradimento. Non provavo alcun sentimento per lui, ed era stato come fare l’amore con se stessi; un mero approccio per comprendersi. Non mi aveva sedotto. Non l’avevo sedotto.
Eravamo soli, una notte, ci piaceva la stessa musica, e volevamo condividere i nostri corpi per un po’. 
Pensare al fare l’amore in tal modo, come un balsamo per l’anima e il corpo, come un campo comune non da invadere ma da condividere, m’ha cambiata molto. Un atto che ti rende molto libero, come essere umano; scuotersi via dal dovere della riproduzione e fare l’amore pigramente, per voglia e per inclinazione; e’ deliziosamente contro natura. Gli dissi cio’, e lui ridacchio’. Mi disse, grazie,  adoro essere contronatura, mi rende cosi’ vivo, e piano pesco’ un cioccolattino dalla tasca del cappotto che aveva appeso alla porta. Ecco a te, per la tua anemia.
Mi bacio’.
“Buonanotte, George.” Dissi io.
“Buonanotte, Silvia” disse lui.
Dormimmo senza toccarci, come era giusto che fosse; il mattino dopo lui s’alzo’ alle quattro per andare a lavoro.
Lascia le chiavi dietro la porta, mormoro’, e non mangiare le mie mele.
Una settimana dopo partii per l’italia. Non lo vidi mai piu’.




 

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Capitolo 2
*** Llamame. ***


chiunque vi dica che l'erasmus e' qualcosa di sballato - credeteci. stesso problema con gli accenti sulla tastiera britannica. piccola nota: chiunque mi conosca e legga questa storia, vi vorrei ricordare che non deve essere necessariamente vera, e i fatti narrati accaduti. Insomma. potrebbe come no. non stressatevi.


listen to: Llamame from Amparo.



Mesi prima.

Una sera che avevo la mano ferita – perche’ l’avevo raschiata forte contro i muri di mattoni di Sirdar Road – ero in cucina e non riuscivo a salire le scale. Tutto di me urlava il suo nome; pregai ogni dio, e mia nonna, e piangevo nella mia mente, chiedendo che lui scendesse. Volevo che notasse le egocentriche ferite sulle mie nocche e mi consolasse. Pensai, vi prego, qualsiasi cosa esista, vi prego, fatelo venire qui. Lui scese. Era un tantino ubriaco. Mi lancio’ un peluche dalle scale e gia’ mi sentii da ridere. Non lo feci. Volevo sapesse quanto fossi disperata.
“Come stai?”
“Mhm...non bene.” Mi guardai la mano velocemente.
“Cos’hai fatto?” mormorai qualcosa di incomprensibile in risposta, un niente cosi’ basso che neanche io potei percepirlo lasciare le mie labbra.
“Hai dato un pugno al muro?” annuii. Lui annui’.
Ando’ in cucina a farsi una camomilla, poi rollo’ una sigaretta. Camminai verso le sue spalle e gli chiesi se potessi fumare con lui. “Non e’ tabacco, disse, ma se vuoi puoi fumare questa con me.”
“No, la ho anche io, sopra, ma al momento non mi sembra una buona idea.”
“Fatti una sigaretta.”
Rollai velocemente ed uscimmo fuori a fumare. Lui era seduto sulla sedia bianca di plastica, proprio di fronte alla porta che dava sul giardino posteriore; io, poco aggraziatamente, con i miei pantaloni del pigiama con le fragole, sul gradino della porta. Lui aveva i piedi nudi. Gli chiesi se non avesse freddo. Era cresciuto, indossando infradito. Mi toccavo di continuo la gamba, mi grattavo, nervosa.
“Stop that.”
Gli dissi che ero triste, senza alcun motivo, a volte. Il mio umore volava da un estremo all’altro senza che io lo potessi controllare; mi sentivo debole, instabile. Lui parlava con un tono calmo, comprensivo. Non provava pieta’ per me – nulla. Solo un senso di calma. Mi fece ridere.
“It is good, that you’re laughing, now.” Tremavo ancora. Era bello che fossi pazza. La soluzione non era farmi del male, lo sapevo, vero?
Rientrammo in cucina. Parlammo cosi’ tanto, e ridemmo. Poi lui si guardo’ un po’ attorno. “Non sto a mio agio qui, chiunque potrebbe sentirci. Ti va di salire sopra?”
Il cuore mi salto’ in petto. Mi stava invitando in camera sua. Ero cosi’ enormemente attratta da lui, che vedevo tutto il pericolo della situazione. Perche’ lui aveva un’aura cosi’ fottutamente invitante, uno splendore che andava al di la’ di ogni paura. Si’, gli dissi, si’ mi farebbe piacere. Entrammo in camera. Rilassati, borbotto’. Mi sedetti sul suo letto. Tremila volte piu’ comodo del mio, cazzo. I’ll put some music on. Do you want to drink something? Una parte di me sperava facessimo l’amore. Volevo bere della sua luce. Ero cosi’ assetata di avere un qualche contatto – spirituale, non necessariamente fisico – con quell’uomo.
Presi la mia erba, iniziammo a fumare, bere, parlare. Musica. E lui ballava, si muoveva con piccoli movimenti, avanti e indietro, ondeggiava a gambe unite, il cervello in alto, su, in un altro mondo. Mi apriva la porta a quel cielo, un po’ alla volta. Spense la luce e sentimmo la musica.
“I never had a girlfriend like this, I mean, not a girlfriend. A girl…friend. I feel very comfortable with you.”
“Me too…”
Mi fece ascoltare un pezzo – Casting lazy shadows, dei Puressence – che mi apri’ il cuore. Quando rideva mi sentivo cosi’ impotente. La notte passo’ cosi’, fino a quando – alle quattro, dopo avergli scattato tre fotografie ed avere ottenuto la sua email e numero di cellulare – non andai in camera mia. Cercai di ringraziarlo, ma lui disse di non farlo, cosi’ non lo feci. Gli diedi la buonanotte, e con il cuore che tremava mi misi a letto. Pensai un po’ al mio ragazzo, sensi di colpa imminenti, ma mi addormentai col sorriso sulle labbra. Cosi’ caldo. Cosi’ immensamente...caldo.












 

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