Grandine

di Odiblue
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***
Capitolo 4: *** IV. ***
Capitolo 5: *** V ***



Capitolo 1
*** I. ***


Nome Account Forum / Efp: Odiblue

Titolo storia: Grandine

Coppia principale: Sasuke - Sakura

Rating: Giallo

Introduzione: “Mentre guardava la grandine scendere nel cortile dei Nara, non poteva che paragonarla a Sasuke. Era bella – bellissima! - in ogni acino di ghiaccio che martoriava il lastricato, bianca come la pelle di lui, eppure, nonostante avesse il colore della purezza, dannatamente pericolosa. Difficile da sciogliere, impossibile da scaldare “. La storia partecipa al contest “NARUTO the movie: la vita e l'amore”, indetto da manga, sasuk8 e meryl watase, sul forum di EFP.

Avvertimenti: La seguente storia non prende in considerazione gli avvenimenti successivi al capitolo 695.

Genere: Generale, introspettivo, romantico.

Note: What if?

Disclaimer: questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Masashi Kishimoto. Questa storia è stata scritta senza scopo di lucro.


                                    



Dedico questa fanfiction, in modo molto spontaneo, al procione,
colui che con i suoi "mi faresti una sasusaku?",
nonostante i miei "ma ho già una long in corso",
alla fine mi ha convinta a scriverla. ♥





Grandine






I.


Era una fredda giornata d'estate e a Konoha pioveva. Shikamaru aveva appoggiato la scacchiera da shogi sul pavimento dell'engawa. Sottili fili d'acqua scendevano dal cielo e bagnavano il cortile. Sakura, avvolta in un maglioncino rosso, due volte la sua taglia, fissava la griglia a nove righe e nove colonne in cerca di una trappola. Per qualche assurdo motivo, Shikamaru aveva mosso l'alfiere e non la tessera del Generale Oro. Lei era ancora una novellina e spesso si perdeva in quella confusione di ideogrammi giapponesi, frecce, tattiche e tranelli mentali.

“Perché cavolo ha mosso l'alfiere?” si chiedeva. “Me l'ha insegnata lui la mossa del Generale Oro e allora perché non metterla in pratica?”.

Ignorava la risposta al dilemma, ma aveva una certezza: non si trattava di un errore, bensì di una scelta calcolata. Probabilmente Shikamaru voleva farle credere fosse uno sbaglio, per poi coglierla di sorpresa, quando meno se l'aspettava.

Era da circa due mesi che giocavano assieme, da quando scariche di grandine improvvise avevano costretto l'intera Konoha a rassegnarsi: la bella stagione non sarebbe arrivata. E pensare che si trattava di un'estate attesissima, la prima dopo anni di duro lavoro per rimettere in piedi il villaggio!

A guerra finita c'erano stati gli accordi di pace, le assemblee tra Kage per giudicare i nukenin, liti e dissapori, con duelli e qualche pugno di troppo in conclusione. Sakura si era immersa a pieno nel lavoro. Per un medico la vera guerra non iniziava con l'invasione del nemico. Iniziava dopo, quando i soldati potevano dire “È finita”, mentre i dottori sospiravano con un “Forza e coraggio! Si continua!”. Stanchi, ma determinati ad andare avanti.

Così Sakura aveva lasciato che la piega degli eventi seguisse un corso autonomo, senza preoccuparsi di riallacciare vecchi rapporti perduti, chiarire tentati omicidi, incazzarsi per illusioni che le avevano strappato il cuore dal petto. Letteralmente. Avvolta da una bolla di responsabilità e senso del dovere, si era spaccata la schiena, correndo dai letti dei feriti alla sala operatoria, fino a quando il lavoro non era diminuito e Konoha aveva imparato a rimettersi in piedi.

Intanto Sakura aveva visto due anni di vita volare davanti alla punta del suo naso, senza riuscire ad acciuffare un attimo degno di essere definito “ricordo”. Per ventiquattro mesi era rimasta inchiodata al punto di partenza e non aveva mosso un unico passo verso la linea del futuro. Non con gli allenamenti. Non con gli studi medici. Non con i suoi amici. Non con Sasuke.

Con la metà di maggio Tsunade l'aveva informata che le loro giornate all'ospedale sarebbero state più leggere e avrebbe potuto prendersi perfino qualche giorno di vacanza.

“Eccome se lo farò!” aveva pensato tra sé e sé.

Non vedeva l'ora di portare a compimento quelle piccole cose che aveva agognato, chiusa tra le mura di un ospedale.

“Farò lunghe passeggiate al sole con Ino, fino al campo di fiori dove giocavamo da bambine” aveva iniziato a sognare, per poi ricordarsi che la guerra aveva bruciato ogni zolla d'erba e petali. “Però sono passati due anni e sono convinta che Ino e il suo pollice verde lo abbiano fatto tornare come nuovo. E poi andrò a pranzare all'aperto da Ichiraku, assieme a Naruto. E devo ricordarmi di spettegolare con Hinata sulla sua nuova relazione. Potrei organizzare un pic-nic sotto un albero di ciliegio, portare una vaschetta di gelato alla fragola”.

Ma poi era arrivata la grandine, per i suoi sogni un nemico più crudele di una nuova guerra ninja. Niente passeggiate al sole, niente pranzi all'aperto, niente pettegolezzi davanti al gelato. La grandine aveva un unico dono: metterla di cattivo umore. Con la scusa del brutto tempo, Hinata e Naruto trascorrevano i giorni a scegliere l'arredamento per la futura casa; Ino impartiva “ripetizioni d'anatomia” a Sai che, preso dall'entusiasmo, aveva accantonato perfino la passione per il disegno.

Proprio quando Sakura temeva di morire di solitudine e inedia, Shikamaru aveva bussato alla sua porta, l'aveva rapita con una scusa che nemmeno ricordava, e imprigionata nella casa di famiglia.

“Tu non hai niente da fare” le aveva detto. “E a me serve qualcuno con cui giocare a shogi...”.

Si era trattenuto dal concludere la frase. Sakura aveva capito e accettato la richiesta. Era la nuova sfidante e aveva perso talmente tante volte da potersi definire un totale disastro. Fino a quel giorno...

«Non dirmi che quest'oggi hai pietà di me, Shikamaru, e mi stai facendo vincere di proposito» gli disse.

Lui studiava la scacchiera con zero interesse e fin troppi sbuffi.   

«È la grandine» rispose. Spostò una tessera. Quella sbagliata. «Troppo rumorosa. Non riesco a concentrarmi.»

Con sua sorpresa Sakura si trovò ad ascoltare il ticchettio dell'ennesimo scherzo climatico. Il bambù batteva ritmicamente contro la pietra, gettando secchiate di ghiaccio sulle lastre bianche del cortile e scaricando l'acqua dal canale di gronda. Era una serie di rumori che torturava i due giocatori da mesi, ma Sakura doveva ancora abituarsi agli sfoghi di Madre Natura. Shikamaru però... le sfuggì una risata.  

«Sei in squadra con Ino!» gli ricordò. «Se non ti deconcentrano i suoi starnazzi da oca, come può riuscirci qualche chicco di grandine?»    

In tutta risposta, stizzito e scocciato per un'affermazione non attesa, Shikamaru si decise a muovere la tessera del Generale Oro.

«Oggi non ci sei proprio con la testa» sogghignò Sakura. «Quello è il mio Generale Oro! Non il tuo!»

Shikamaru biascicò due improperi in un tono talmente basso da risultare impercettibile. Sakura non capì quale Kami lassù, in cielo, si fosse meritato la bestemmia. Analizzò invece i movimenti dell'amico, la rabbia con la quale staccò pollice e indice per liberarsi di una tessera che pareva bruciargli i polpastrelli.    

«Che scocciatura» le disse. Arricciò il naso e si sistemò la coperta sulle spalle, non appena una lieve brezza li fece tremare dal freddo. «Siamo a luglio e sono due mesi che grandina un giorno sì e un giorno no. Non ricordo nemmeno come è fatto il cielo senza pioggia.»

Sakura smise di studiare la scacchiera sull'impiantito e stirò le labbra nel classico sorriso di “chi sa”. Aveva passato ore e ore seduta su quelle assi di legno e, oltre ai meccanismi del gioco, aveva imparato a conoscere i pensieri che agitavano il cervello di Shikamaru.

«Immagino sia questo a scocciarti» ribatté con finta comprensione. «Oltre al fatto di perdere contro una principiante.»

Inaccettabile per il prodigio dello shogi! Ma Shikamaru pareva determinato a tenere addosso la maschera della faccia tosta, a non abboccare all'amo della provocazione.

«Non posso guardare le nuvole» disse. «E, come ben sai, guardare le nuvole mi rilassa.»

Enfatizzò quel “come ben sai” per sfatare le supposizioni di Sakura.

«Sì, sì. Proprio le nuvole non puoi guardare!» rise lei.

Di buon gusto, perché Shikamaru era davvero tenero e sprovveduto. Non sapeva raccapezzarsi in quell'oceano di bugie e scusanti che propinava alla gente pur di non ammettere che sì, Temari gli mancava da impazzire e, se odiava il brutto tempo, lo odiava solamente perché gli impediva di vederla. Quando si arrivava ai sentimenti, Shikamaru diventava un goffo marionettista, incapace di muovere un filo senza ingarbugliare la matassa e trasformare lo spettacolo in un flop totale.

Su un qualcosa tuttavia aveva ragione.

«Questa grandine» disse Sakura con un sospiro stanco. «È una vera scocciatura.»

Nemmeno lei riusciva a capire quale fosse la ragione del suo odio. La guardava mentre si schiantava sulle pietre del cortile e trovava quella visione ammaliante, uno spettacolo di tinte bianche in mille sfumature. Coriandoli duri come sassi danzavano decisi, precipitavano nel vuoto, determinati, abbattevano qualunque ostacolo bloccasse il loro tragitto e alla fine, incuranti di ciò che avevano distrutto, giungevano alla meta: terra. Forse era proprio questa consapevolezza ad annientare Sakura e a far scalpitare nel suo petto una melanconia che la condannava a una silenziosa tristezza. Quando la grandine scendeva dal cielo, arrivava sempre a destinazione: non c'era ramo, foglia, o tetto a ostacolarla. Lei, invece, sentiva in se stessa il rimpianto di tutto quello che non aveva portato a termine. Perché sapeva benissimo che se Sasuke era tornato a Konoha il merito spettava a Naruto, non a lei.

Quando si parlava di ingiustizie della vita... confidava nella sua intelligenza, nella sua forza, nella capacità di sgretolare una montagna con un pugno. Bastava però che l'argomento in questione fosse Sasuke e lei diventava piccola, innocua, succube di un uomo che avrebbe voluto distruggere a suon di destri e sinistri. Invece lo vedeva e ogni sua convinzione si squagliava sotto l'intensità di un singolo sguardo.

Sakura ricordava perfettamente com'era finita la guerra. Il momento coincideva per lei con la dispersione di un'illusione in cui si trovava rinchiusa. E ricordava anche che era stato proprio Sasuke, dopo aver “discusso” con Naruto - Chidori contro Rasengan - a riportarla indietro. Era stata un'illusione crudele, la sua. Dissacratoria. Aveva profanato quell'amore che Sakura custodiva tanto fedelmente nel suo cuore, come una reliquia. Lo aveva calpestato, spolpato della linfa che lo nutriva. Così, dopo l'ennesima umiliazione da lei subita, dopo la fine di una guerra colpevole di aver decimato la popolazione di Konoha, aveva creduto di essersi finalmente liberata di un peso che gravava sulle sue spalle sin da quando era bambina: l'amore per Sasuke.

Negli anni passati, nonostante le avversità, quel sentimento era rimasto un fiume in piena, traboccante di vita. Mentre cercava di liberarsi dal genjutsu, il corso d'acqua aveva finito però con lo svuotarsi e diventare arido quanto la terra del deserto.

Appena uscirò da qui, lo griderò al mondo intero. Sakura Haruno ha smesso di amare Sasuke Uchiha.

Poi aveva sentito dei passi in lontananza e una voce che la chiamava. Era flebile, appena un sussurro. Eppure, quando ancora non era una parola completa, aveva capito all'istante di chi fosse. Sakura avrebbe riconosciuto quel tono profondo e basso, anche se un ninja nemico le avesse strappato i timpani dalle orecchie.

Non ascoltarlo. Non andare da lui. Lui ti ha lasciata. Non spetta a te seguirlo.

Ma quando si trattava di Sasuke, il corpo di Sakura non conosceva ragione. Si muoveva in automatico, bramava la sua vicinanza, quasi fosse la sorgente dalla quale sgorgava la vita. E anche quella volta non c'era stata eccezione. Aveva fiutato la pista, seguito il richiamo, preso l'immaginaria mano che Sasuke le porgeva. Si era lasciata guidare fino all'uscita dell'illusione. Il viso di Sasuke – stanco, ricoperto di graffi, con occhi talmente lucidi da sembrare pietre d'onice immerse nell'olio – aveva accompagnato il suo risveglio.

“Sakura.”

Solo una parola. Di nuovo, sempre e solo il suo nome.

Era incredibile quante cose riuscisse a dire con un “Sakura”, a seconda delle circostanze: sei irritante, Sakura; ci sei anche tu, Sakura; smettila, Sakura; grazie, Sakura; mi dispiace, Sakura. In questo caso, la traduzione migliore sarebbe stata “bentornata”. Ironia della sorte, visto che lui era fuggito in capo al mondo, in cerca di vendetta.

Forse anche Sasuke aveva percepito il paradosso di quest'ultimo “Sakura”. Aveva abbassato le palpebre, incapace di sostenere il suo sguardo, verde come la verità e tutte le emozioni che non riusciva a trattenere, tutte le domande che avrebbe voluto fargli, tutti gli insulti che sarebbe stato giusto rivolgergli. E a tradimento quel fiume d'amore aveva spaccato l'arida roccia del deserto. Un piccolo rivolo d'acqua fredda, mosso da onde incerte che si facevano strada su un fondale di ciottoli acuminati: il suo dolore, le sue lacrime. Quando Sasuke si era alzato e aveva allungato la mano verso di lei per aiutarla a rimettersi in piedi, di nuovo il corpo di Sakura aveva reagito da solo e aveva accettato quel soccorso. Il rigagnolo aveva aumentato la portata d'acqua ed era tornato a scorrere impetuoso in ogni organo che la componeva, più forte che mai.  

Sakura Haruno che non ama Sasuke Uchiha? Chi voleva prendere in giro? Era la più colossale di tutte le stronzate.

Così Sakura, a distanza di due anni da quel giorno, continuava a rimbeccarsi per essere cascata una seconda volta nella trappola dal cognome Uchiha, e mentre guardava la grandine scendere nel cortile dei Nara, non poteva che paragonarla a Sasuke. Era bella – bellissima! - in ogni acino di ghiaccio che martoriava il lastricato, bianca come la pelle di lui, eppure, nonostante avesse il colore della purezza, dannatamente pericolosa. Difficile da sciogliere, impossibile da scaldare.

A distanza di due anni, pensava anche ai passi da formica che aveva fatto con Sasuke, ai piccoli riconoscimenti che aveva ottenuto.

“Sei cambiata.”

Con queste parole l'aveva salutata dopo il risveglio a fine guerra.

“Da oggi sei il mio medico” aveva aggiunto qualche mese dopo, e se Sasuke aveva scelto lei – non Tsunade, non Shizune, non Ino – era perché si fidava, perché la riteneva brava, la migliore.

Quand'era allora che oltre al ninja e al medico si sarebbe deciso a vedere la donna che continuava ad aspettarlo?

Sakura sospirò e tossì, appena un anello di fumo le entrò nelle narici. Si era persa a tal punto nei suoi pensieri da non accorgersi che Shikamaru aveva messo via le tessere da shogi, per accendere una sigaretta. Studiava ogni chicco di grandine con la stessa attenzione che prestava pure lei a quell'enorme distesa d'acqua solida.

«Scusa» le disse. «Dimenticavo che il fumo ti dà fastidio.»

«Lascia stare. Casa tua, regole tue.»

Aveva replicato con una battuta che mascherasse il cattivo umore. Un sorriso finto. Una risata finta. Una persona finta. E ora spettava a Shikamaru mettersi in faccia l'espressione vincente di “chi sa”. Con la sigaretta spenta, abbandonata sulle assi in legno dell'engawa, con una gentilezza che Sakura mai avrebbe sospettato, allungò la mano sinistra per prendere la sua, per cercare e dare un conforto che entrambi necessitavano.

«Ancora Sasuke» constatò.

Sakura si sentì trapassare. Punta nel vivo. Dannatamente trasparente. E si diede della stupida, perché bastava un nome – Sasuke – a renderla vulnerabile e fragile, come si era ripromessa di non essere. Ma due concorrenti potevano giocare la stessa carta.

«Ancora Temari» gli disse. «Non riesce a venire nemmeno questa settimana, vero? Per il brutto tempo.»

Shikamaru aprì bocca per ribattere che si sbagliava, ma la lingua non arrivò ad articolare una parola che Sakura alzò la mano per interromperlo. Era arrivato il momento di finirla con quella farsa.

«Siamo troppo intelligenti per prenderci in giro» gli disse.

Shikamaru sospirò e cacciò dal naso un nugolo di nicotina che era rimasto incastrato nei polmoni.

«Già» ammise. «Stupida grandine.»

Rimasero in silenzio, avvolti in un maglioncino troppo grande e in una coperta sfibrata, a studiare la cascata di ghiaccio che gli dèi versavano sul mondo mortale. E c'era solo quella mano – quella che Sakura e Shikamaru continuavano a stringersi – a stornare dai loro capi la solitudine. La consapevolezza di condividere un dolore non identico, ma quantomeno simile.

“In due si soffre meglio che da soli” si ripeteva Sakura.

Da brava egoista qual era sempre stata, pensava però di avere più diritti di Shikamaru a starci male. Il genio dello shogi si svegliava ogni mattina scaldato da un amore lontano, ma comunque esistente. Viveva i drammi di una storia a distanza con nientemeno che la sorella del Kazekage, una donna dai mille impegni e doveri. Aveva come nemici spazio, tempo e clima, ma per quanto la sua guerra fosse difficile da vincere, gli restava una splendida ragione per battersi con tutte le forze. E gli restava il sollievo di avere una metà della sua anima, sotto un identico cielo che non conosceva gli ostacoli di foreste e deserti.

“Chi l'avrebbe mai detto” sorrise Sakura tra sé e sé. “Un pigrone e un'irascibile. Potrebbero vincere il titolo di coppia più strana dell'anno”.

La loro storia era nata a fine guerra, da uno scambio di battute snervate e pugni stizziti che a Sakura ricordavano la collisione di due chicchi di grandine a metà cielo. Temari rappresentava di natura la durezza e, se gli dèi le avessero accostato un elemento, sarebbe stato l'acciaio. Shikamaru era intelligente e deciso. Quando sapeva quel che voleva, lo prendeva. Non riteneva stancante ottenere ciò che gli avrebbe portato la gioia dell'animo. Desiderava una donna né troppo bella, né troppo brutta; né troppo rumorosa, né troppo taciturna.

E invece gli era capitata sul groppone Temari no Sabaku, una kunoichi che rientrava a pieno nelle prime due categorie: bella, rumorosa. Era merito di Madara, se il ninja della Foglia aveva capito. Paradossalmente l'illusione equivaleva al desiderio e così, quando Naruto e Sasuke avevano disattivato lo Tsukuyomi, Shikamaru aveva riflettuto a lungo, con una mano sotto il mento e uno sbadiglio che premeva per uscire dalle labbra.

“Ti sembra il momento di dormire, razza di scansafatiche?”

Temari aveva minacciato di tirargli una ventagliata in testa, ma la voce di Shikamaru era arrivata in tempo per fermarla:

“Curioso. Nella mia visione c'eri anche tu”.

Temari era diventata più rossa dei capelli di Gaara. Con occhiate sospettose aveva controllato che nessun membro dell'alleanza assistesse al loro battibecco. Quindi, dopo un calcio a un sassolino e un mormorio incomprensibile, lo aveva confessato ad alta voce:

“Anche tu”.

Quando Shikamaru aveva lasciato cadere la conversazione nel silenzio, si era premurata di tirargli un piccolo colpo con il suo immenso ventaglio.

“Non mi farò battere da una finta Temari. Se ero con te in quella visione, rassegnati. Ci sarò anche nella realtà. E comunque è ingiusto! Tocca sempre fare tutto a me, razza di pigrone!”

“Intendi picchiarmi per il resto della nostra vita?”

E allora a Temari era caduto il ventaglio di mano. E Sakura li aveva guardati, discreta, con la coda dell'occhio. Guardava sempre tutto, pur di non dover pensare a Sasuke. E aveva letto nelle parole di Shikamaru il sottotitolo che anche Temari era riuscita a cogliere. La nostra vita. Non la mia. Non la tua. Nostra.




Quella dichiarazione, quel “nostra” era stato il continuo di un processo nato all'improvviso, per uno scherzo del destino. Se il caso non avesse fatto sì che Temari e Shikamaru si confrontassero all'esame Chunin, forse non avrebbero dovuto confrontarsi per il resto dei loro giorni. Invece i Kami, dèi di larghe vedute, avevano messo al confronto due caratteri diversi e opposti. Subito, di primo acchito, Temari e Shikamaru erano rimasti stupiti e ammaliati da quella loro diversità. L'avevano studiata da lontano, desiderata nei periodi di distanza, idealizzata nelle ore di solitudine, negli attimi di pace, trascorsi sdraiati sul letto di due stanze ai confini del mondo, o sotto vecchie querce, persi a contemplare il cielo. E avevano cercato i rispettivi volti in nuvole bianche, più dolci di zucchero filato, ma meno passionali di quel misterioso sentimento che pensiero su pensiero iniziava ad ardere nei loro cuori. Così, avevano sconfitto ogni rifiuto e domato ogni loro negazione, trasformando quella piccola goccia di curiosità in ricerca e in affetto, in rispetto e in venerazione, in un bisogno di completarsi chiamato amore.




La porta di lino si aprì con uno scatto. Sakura per la sorpresa rimase con un boccone di saliva incastrato in gola. Gli occhi si fecero sgranati, grandissimi, ma mai quanto quelli di Shikamaru, aperti al massimo, pur di non perdersi l'insolita visione.  

Temari no Sabaku, in tutto il suo splendore, aveva appena spalancato la porta a suon di ventaglio. Lì, davanti a loro, con qualche chicco di grandine ancora prigioniero di ciocche di capelli ribelli. E poi c'era una sottile smorfia di scocciatura e di fastidio sul viso imbronciato. In effetti, metteva un po' di paura e sembrava pronta a rifilare al suo amato scariche di pugni talmente potenti che anche il cielo era corso ai ripari: aveva smesso di grandinare.

«Portami subito un asciugamano, Nara!»

Sakura fu abbastanza intelligente da sciogliere le sue dita da quelle di Shikamaru. Mentre si sistemava il maglioncino rosso, con l'intenzione di prendere la via della fuga, vedeva il viso dell'amico combattere, nel tentativo di nascondere un sorriso di gioia. Un sorriso non da lui.    

«Sai benissimo dove li tengo. Perché non ti arrangi, razza di seccatura?» le disse.

Finse un sospiro di stanchezza. E invece Sakura, prima di lasciarla, aveva sentito la mano di Shikamaru irrigidirsi e rilassarsi; e le pareva addirittura di aver percepito il tonfo assordante del suo cuore battere all'impazzata.

Si sistemò i sandali e scivolò sul lastricato del cortile: sarebbe uscita dal retro, senza disturbare quell'unione tanto attesa. Come ultima immagine, vide il volto di Temari farsi rosso pomodoro e il fiato salire su, per la gola. Le parole non tardarono ad arrivare:  

«Arrangiarmi? Io dovrei arrangiarmi? Ho fatto tutta questa strada, sotto questo stupido cielo solo per degnarti della mia presenza, e ora devo pure arrangiarmi? Shikamaru Nara, spero per te che-»

Quel che venne dopo Sakura non lo vide: girato l'angolo, si immerse nella via principale che portava alla periferia di Konoha. Sentì però la voce di Temari spezzarsi a metà, rompendo la frase. E c'era un unico modo con il quale Shikamaru si sarebbe potuto liberare di lei.

“Certo, oggi era davvero incapace a shogi, ma a quanto pare la sua intelligenza funziona alla grande per altri generi di trucchetti” si disse.

Con un pizzico di invidia immaginò di essere al posto di Temari e fantasticò di trovarsi con Sasuke, invece che con Shikamaru. Come ci si sentiva a venire zittiti da un bacio? Gli dèi furono veloci a punire quel pensiero peccaminoso. Usarono la loro arma preferita. La più odiata: grandine.


Salve a tutti! Oggi sono - stranamente - di pochissime parole, vista la fretta. Ci tenevo però a postare stasera il primo capitolo di questa storiella breve breve (sono cinque capitoletti), che come dicevo nell'introduzione partecipa al contest "Naruto the movie: la vita e l'amore", di manga, sasuk8 e meryl watase. Ringrazio le giudicIE per avermi dato lo spunto per scrivere questa storia e tutti i lettori. E' davvero una cosetta senza pretese! Grazie a tutti,

un bacione

Odiblue




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Capitolo 2
*** II. ***




II.



Solo due cubetti. Giusto due chicchi per farle capire che era sbagliato pensare a Sasuke in “quel modo”. Poi uno scorcio di sereno. Forse gli dèi lo facevano per il suo bene: che si mettesse l'anima in pace, per una buona volta! Non le era bastato che Sasuke, pur essendo al villaggio da un anno intero, avesse fatto poco e nulla per avvicinarla?

“È mancata l'occasione” continuava a dirsi da brava scema.

“Qualche piccolo miglioramento c'è stato” protestava tra sé e sé.

“Tra noi non va poi così male”. Si salutavano, con cenni del capo e scarsi monosillabi.

“Ora che ci penso bene, credo che a modo suo abbia perfino cercato di chiedermi scusa”.

Le sembrava di aver sentito quella parola uscire dalle labbra di Sasuke, pochi giorni dopo il suo ritorno a Konoha, quello definitivo; ma poi Naruto si era messo a strillare che era così felice, e voleva così bene al suo migliore amico, ed era così contento che fosse tornato da lui... e lei non aveva trovato il coraggio di dire:

“Sasuke-kun, non credo di aver capito. Potresti ripetere?”

Se non lo aveva fatto, era per il terrore di sbagliarsi. A pensarci bene, forse non aveva detto: “Sakura, scusa”. E l'illusione poi – quel terribile modo di metterla da parte – rendeva chiara l'antipatia che provava per lei. Spesso la mattina, prima che la sveglia suonasse, Sakura si alzava di soprassalto e d'istinto portava la mano al cuore, come se il pugno di Sasuke lo tenesse ancora imprigionato. E le sembrava di sentire male, una fitta tremenda capace di cavarle il respiro. Allora si doveva mettere comoda sul materasso, immobile, e si impegnava – si impegnava davvero! - per togliersi il pensiero di quel momento dalla testa. Si ripeteva che tutto andava bene: Sasuke era a casa; era vivo; Naruto era vivo; i suoi amici erano vivi; persino lei era viva.

Andava tutto semplicemente e splendidamente bene.

E il dolore diminuiva. Però restava. Anche se piccolo e minuscolo, restava sempre. Dalla sua vita, Sakura aveva appreso che c'erano due tipi di dolore: fisico e mentale. Per diventare ninja bisognava imparare a mettere da parte il dolore fisico, a non prestare attenzione alla fatica, a un kunai che lacerava la pelle, a un pugno troppo forte. Così l'esperienza lo riduceva, ma lo stesso non si poteva dire del dolore mentale. Sakura ricordava tutta la disperazione che aveva provato a dodici anni nel credere Sasuke morto. Non era mai stata brava a fare da scudo ai propri sentimenti, a corazzarsi in se stessa e, anzi, quando si trattava di Sasuke, il suo stupido cuore emetteva talmente tante scintille di emozioni diverse che nemmeno lei sapeva barcamenarsi al loro interno.

E Sasuke poi sembrava divertirsi a tormentarle l'esistenza. Prima se ne andava da Konoha, quindi tornava, se ne andava di nuovo e ritornava. Era un Ulisse che non conosceva pace. Appena i suoi piedi minacciavano di gettare le radici e fondersi assieme al suolo di Konoha, qualcosa scattava in lui. Poteva essere vendetta, sete di sapere, smania di novità, brama di potere. Con la sua katana recideva quei legami che lo avevano ancorato al terreno e fuggiva, adducendo poche parole come scusanti.

Sakura faceva quel che sin da piccola aveva imparato a fare: aspettava. Fino al giorno in cui era tornato, avvolto in un mantello logoro; stanco e affamato. Lo aveva incrociato davanti ai cancelli del villaggio.

“Devo parlare con l'Hokage.”

“Quello vecchio o quello nuovo?” aveva chiesto lei, giusto per sdrammatizzare.

Sasuke aveva cercato il suo sguardo e poi lo aveva scostato, quasi per il timore di diventare comprensibile. La frangia troppo lunga copriva per metà l'occhio del Rinnegan, ma nell'altro Sakura era riuscita a leggere un briciolo di soddisfazione.

“Così il Dobe ce l'ha fatta?” le aveva domandato.

“Certo che no! Figurarsi! Non ancora! Non oso pensare quanti danni farà quando entrerà in carica!”

Non lo credeva davvero. Credeva invece che Naruto sarebbe stato un ottimo Hokage, forse il migliore di sempre. Ma prenderlo in giro e deriderlo davanti a Sasuke le ricordava i vecchi tempi.   

“Accosterà Tsunade per i prossimi due anni e poi prenderà il suo titolo. Da parte mia sto ancora aspettando che Kakashi-sensei si faccia avanti e rivendichi il posto. Sarebbe sicuramente un candidato migliore”.

“Non lo farà”.

“No, certo. Preferisce continuare a leggere quegli orrendi libretti arancioni!”.

Parlando, avevano continuato a camminare, raggiungendo il palazzo dell'Hokage. Sakura aveva sorriso per tutto il tempo, felice di non essere stata mandata via; inquieta: era la volta buona? Sasuke avrebbe smesso di essere Ulisse? Avrebbe lasciato che i suoi piedi si fondessero con quella terra che tanto lo amava?

“Come è andato il tuo viaggio?” gli aveva chiesto, una volta entrati nell'edificio.

Si erano seduti uno di fianco all'altra, sulla panchina d'attesa, fuori dallo studio di Tsunade. A dire la verità, Sakura aveva lasciato un posto vuoto tra i loro corpi, quasi la troppa vicinanza potesse spaventare Sasuke e convincerlo a scappare via.

“Lungo.”

Nel rispondere aveva fissato la sedia che li divideva.

“Potevi tornare prima. Ti stavamo aspettando.” Io ti aspettavo. “Ti aspettiamo sempre”. Io ti aspetto sempre.  

Si era sentita morire, quando Sasuke non aveva risposto. Maledetta. Stupida. Non stavano andando bene con quegli scambi di battute classici, senza il bisogno di addentrarsi tra i rovi di una situazione pungente e distruttiva? Aveva trattenuto il respiro, sentito i polmoni esplodere per la mancanza d'aria. Si era ripetuta che non meritava di prendere una nuova boccata, perché aveva rovinato tutto e alla fine aveva ragione Ino: era un totale disastro.

“Lo so.” Solo con la risposta di Sasuke aveva ripreso a respirare. “Ma c'erano delle cose che dovevo fare”.

Ci sono sempre delle cose che devi fare. Sempre ce ne saranno. Perché non lo vedi che anche qui c'è bisogno di te? Che anche qui puoi crescere? Anche qui espiare le tue colpe? Soprattutto qui! Perché se non espii le tue colpe ottenendo il perdono di chi hai ferito...

il mio perdono!

… allora che espiazione è?

Invece aveva sigillato le labbra, perché non lasciassero uscire quelle parole troppo scomode. Le aveva tenute incarcerate nel petto, sentendole graffiare sulle pareti del cuore e della gola: volevano essere libere; ma a volte la libertà poteva trasformarsi in danno più che in sollievo.

“E adesso che farai?”

Solo questo aveva trovato il coraggio di chiedere. E il coraggio era già tanto, visto che la risposta di Sasuke avrebbe potuto ammazzarla sul posto. Lui aveva gettato lo sguardo sulla sedia vuota. Di nuovo.

“Ci sono altre cose che devo fare.”

Una pugnalata al cuore. E non in un'illusione.

“Capisco.”

Lo aveva detto subito, in fretta e furia, perché se avesse guadagnato del tempo, in cerca di una risposta più soddisfacente, le lacrime si sarebbero impossessate dei suoi occhi e avrebbero iniziato a scorrere fino al colletto della divisa da Jonin. Ritta sulla sedia, aveva puntato lo sguardo sulla porta dello studio, supplicando Tsunade di sbrigarsi a ricevere Sasuke; di privarla della sua presenza, scomoda come non mai.

E Tsunade aveva esaudito la richiesta e spalancato la porta:

“Guarda chi si vede? Il fuggitivo! Accomodati o preferisci forse scappare?”

L'aveva trattato male, solo perché lui trattava male la sua allieva. Poi era scomparsa nello studio, probabilmente davanti a una bottiglia di saké, mezza vuota. Sasuke, con un sospiro, si era messo in piedi, traballante per l'ennesimo viaggio che aveva voluto affrontare, ma prima di raggiungere la soglia aveva interrotto i suoi passi:

“Cose che farò qui”.

Si era tirato la porta dietro la schiena e aveva chiuso la conversazione con quel gesto. Da quel giorno era rimasto a Konoha, senza fuggire; ma a distanza di un anno, Sakura doveva ancora capire quali “cose” lo avessero trattenuto da una nuova partenza. Non lo sapeva lei, non lo sapeva Naruto, non lo sapeva nemmeno Kakashi che passava il tempo a scommettere con Gai su come si sarebbero evolute le vite dei loro allievi.

Forse però qualcuno lo sapeva. Quel solito qualcuno che li accompagnava dall'inizio dell'estate, spiando le loro mosse dalle volte più elevate del cielo, attaccandoli per punizione o per puro divertimento: grandine. Il primo acino colpì Sakura in mezzo alla testa, un chicco solitario che preannunciava l'arrivo della tempesta.

«Si può sapere che ti ho fatto? Che ho fatto a tutti voi? Sono stufa! Mi sono appena asciugata e sono di pessimo umore, quindi ti conviene startene tra le nuvole, a meno che tu non voglia che venga là su a prenderti a cazzotti-»

Altri due chicchi di grandine. Tre. Quattro. Cinque. Manciate di decine.  

«Scherzavo! Mi dispiace, non volevo insultarti, ma ti prego! Basta con la grandine!»

I piedi l'avevano portata lontana dal centro, lontana da casa sua, lontana dalle case dei suoi amici. Iniziò a correre senza una meta, mentre il cielo continuava ad odiarla per dei peccati che non ricordava di aver commesso. Ricordava invece che nello svicolo a destra avevano da poco aperto alcuni negozietti di arredamento.

«Entrerò nel primo e aspetterò lì che smetta di grandinare.»

Quando si imbatté nel primo edificio, scoppiò a ridere per la casualità della situazione, oppure, per dirla meglio, per la sfiga che si intestardiva a perseguitarla. Appesa alla parete, un'insegna rosa pastello recitava: “Qui vendesi stoviglie, tazze, bicchieri e piatti da cucina”.  

Sakura mosse un passo e si riparò sotto la tenda a veranda che proteggeva l'ingresso del negozio dalle intemperie. Giusto due giorni prima aveva rotto la sua tazza preferita, facendo una pessima figuraccia e tagliandosi la mano. Testimone del fattaccio?

Niente meno che Sasuke Uchiha!

Sakura rabbrividì nel maglioncino rosso e si fece piccola piccola nelle spalle. L'origine di quel tremito proveniva in parte dal freddo e da qualche cubetto di grandine che si era infilato dentro il colletto, riuscendo a scorrere lungo la spina dorsale. Ma un altro fattore fomentava i brividi, ed era un sentimento che rispondeva a un unico nome: vergogna.

Ricordava dettaglio per dettaglio la successione di eventi che aveva portato alla rottura della tazza. Se solo avesse potuto dimenticare!
 

    C'erano alcuni giorni che nascevano come “giorni no” ed erano destinati a morire marchiati della medesima etichetta. Quel mercoledì, per Sakura, nacque come “super giorno no”: pioggia sin dal primo mattino, caffè rovesciato sulla divisa, battibecchi con Shizune su chi dovesse entrare in sala operatoria, fallimenti sul lavoro. E questa era la nota dolente. Perché per un medico “fallimento sul lavoro” equivaleva a un unico concetto: morte. Sakura non sapeva come tutto fosse iniziato, o meglio lo sapeva. La troppa pioggia aveva spezzato i sostegni di un'intera palazzina e dieci famiglie erano rimaste intrappolate sotto travi e mattoni. Lo sapeva, ma non se ne capacitava. Non riusciva a comprendere come lei, l'allieva di Tsunade, potesse guarire ninja ridotti in fin di vita e non salvare due bambini, stritolati dalla morsa del cemento.

Eppure aveva fallito. Aveva fallito a tal punto che le era venuta voglia di scoppiare a piangere, strappandosi i capelli e prendendo a calci Shizune. Perché cavolo non era entrata in sala operatoria? Perché l'aveva lasciata sola, a mettere le mani in quel mare di sangue? Ad ascoltare il rumore assordante dell'elettrocardiogramma farsi piatto? E poi dare la notizia alla famiglia. Lo aveva fatto seguendo le istruzioni di Tsunade, rimanendo zitta mentre il padre di famiglia l'accusava di essere una stupida ragazzina, un'esaltata, un'assassina.

Ed era tornata a casa, senza dirlo a nessuno.

Sul divano del salotto sentiva ancora il sibilo della morte. Aveva provato a tapparsi le orecchie con i cuscini e con la cera, ma quel suono si era infilato nella sua testa e non voleva andarsene via. Allora era rimasta immobile, con il braccio sopra gli occhi, perché tutto quello che vedeva le sembrava rosso e bianco, come il sangue e la pelle di un cadavere. Come quei bambini che più bambini non erano.

Rimase sul divano per un numero non definito di ore, fino a quando qualcuno bussò alla porta. Il toc toc delle nocche sul legno si trasformò ancora una volta in quel sibilo. Non rispose, preferendo stringere i denti per cancellare ogni suono, perfino il suo respiro.

«So che non stai dormendo.»

Riconobbe la sua voce senza bisogno di aprire gli occhi. Ecco l'ultimo tassello che avrebbe condannato la giornata ad essere “no”. Sasuke. Ci mancava solo questo: venire schernita per la sua debolezza, vista come una depressa, incapace di reagire.

«Riposavo.»

Soprattutto perché Sasuke non sapeva e Sakura dubitava gli importasse. Non la avvicinò, non le chiese nulla. Rimase sulla soglia e lei sentì di detestarlo, per il suo costante menefreghismo, per la sua sfacciataggine, per la sua freddezza.  

«Non hai dimenticato nulla?» le chiese.

Solo che si era ripromessa di non essere debole. Non davanti a lui. Solo che aveva giurato agli dèi che avrebbe raccolto tutte le sue energie e il suo coraggio, pur di diventare degna di stargli accanto. E stava fallendo. Del resto Sasuke era sempre stato il più grande dei suoi fallimenti.  

Però voleva provare. Voleva tentare di essere la donna giusta per lui. Stoica, impassibile, capace di solidificare il dolore negli argini del corpo, capace di soffrire dentro e non fuori. Così si tirò seduta, dopo aver strofinato gli occhi sulla manica della maglia, giusto per asciugare quelle due lacrime che si era concessa.  

«Dovevamo vederci con Kakashi e Naruto» ricordò. Forte come lui l'avrebbe voluta. Con voce stabile. «L'ho scordato.»  

Non lo guardò per non rompere l'inganno, per mantenere intatto il muro che imprigionava le sue emozioni. Non poteva permettersi che le travi e il cemento cedessero sotto lo sguardo di Sasuke. Perché sentiva i suoi occhi su di lei, iridi di diversi colori che la trapassavano come chicchi di grandine, sfere di ghiaccio che minacciavano di abbattere i suoi sostegni e di ridurla a un cumulo di macerie, una rovina identica alla palazzina di periferia.

«E tu ti saresti dimenticata dell'incontro per dormire?» le domandò lui.

Ancora una volta guardandola dall'alto al basso. Sakura strinse i pugni. Era troppo forte; possedeva attacchi troppo aggressivi perché lei potesse resistere. Con le unghie conficcate nei palmi, trattenne un singhiozzo e il nodo alla gola si fece stretto. E desiderò piangere. Pregò il cielo che Sasuke provasse a consolarla. In fondo era andato da lei e lei voleva solo parlargli e sentirsi dire che non era inutile, un fallimento...

«Oggi all'ospedale è successo un macello!» iniziò a dire. Sentì le parole premere sulla lingua. Volevano correre fuori dalla bocca, all'alta velocità di un treno. «Non puoi nemmeno immaginare. Ero in sala operatoria e c'erano questi due bambini. All'inizio voleva entrare Shizune, ma io le ho detto che potevo farcela e poi-» .

«Kakashi mi ha chiesto di venirti a cercare.»

Distrusse quel labirinto di pensieri piacevoli, prima che le strade che lo componevano trovassero il tempo di ingarbugliarsi.

Sono importante per Sasuke, si preoccupa per me, è qui per ascoltarmi, vuole sapere perché non sono andata all'appuntamento.

Tutte fantasie tessute dalla sua mente bacata.

«Oh, sì, certo» sussurrò.

Almeno non gli avrebbe dato il sollievo di farsi vedere colpita e affondata. Era stata una scema a illudersi che Sasuke fosse andato a cercarla di sua spontanea volontà. Si mise in piedi, spiaccicandosi in faccia la maschera più finta che conoscesse.

«Scusa, non ti ho nemmeno invitato dentro. Sei rimasto lì sulla porta, scusa» ripeté il suo dispiacere e gli fece segno di entrare.

Ma Sasuke non si mosse e allora gli andò incontro. Avrebbe voluto prenderlo per mano, intrecciare le dita con le sue, ma sapeva che non gli piaceva venire toccato, non senza il suo permesso; e lei non voleva risultare inopportuna, indiscreta. Gli stava lasciando i suoi spazi.

Impugnò il pomolo della porta, attenta a non sfiorare nemmeno un lembo della maglietta grigia che Sasuke indossava. E lui la fissava e lei si sentiva svenire. Ma la colpa era del chakra. L'aveva usato tutto per l'intervento ed ora si trovava a secco e poi...

«Sei passato dall'ospedale.»

Aveva in mano la sua valigetta da lavoro, quella in pelle marrone che le aveva regalato Ino per farla sembrare una brava professionista. Se l'era scordata nello stanzino di guardia, perché nella fuga non aveva trovato il coraggio di tornare al piano di sopra. Incrociare gli infermieri. Incrociare i medici. Incrociare i pazienti. Altri potenziali fallimenti.

«Già» rispose lui. «Sono passato dall'ospedale. Nella fretta l'hai scordata.»

Sapeva. Sapeva tutto e per quello la guardava così, come se fosse stata un'incapace. Ed era vero che la frangia si ostinava a nascondere l'occhio del Rinnegan, ma l'altro emanava frecce così pungenti che si sentiva stupida per il dolore che stava provando.

Soprattutto perché lo provava davanti a Sasuke, al quale la vita aveva tolto tutto; mentre a lei – lei che piagnucolava – non aveva mai tolto niente. Così ricambiava il suo sguardo, in un silenzio che di rado le era parso tanto pesante.

«Grazie per la borsa.»

Afferrò la cinghia della tracolla e la recuperò. Rapida diede le spalle alla fonte del suo disagio e a piccoli passi raggiunse il cucinino.  

«Che ne dici di un tè?» gli chiese.

Doveva fare qualcosa; dire qualcosa. Perché Sasuke era lì ed era al settimo cielo per la sua presenza. Però non sapeva che fare, come comportarsi. E lui non collaborava. La guardava e basta.

«Già che sei qui!» continuò a dire. «Scommetto che non hai fatto colazione, Sasuke-kun. Forse manco pranzo. È davvero maleducato da parte mia non offrirti niente, visto che hai fatto tutta questa strada per me.»

Che scema! Il punto d'incontro si trovava a meno di cinquecento metri da casa sua.   

«Così ci vendicheremo anche di Kakashi che è sempre in ritardo.»

Scema il doppio. Non lo sapeva che era meglio astenersi dal pronunciare la parola vendetta in presenza dell'ultimo Uchiha? Ma, grazie agli dèi, lui non colse il termine tabù, né prese seriamente i suoi deliri. Possibile che a diciotto anni suonati Sasuke le facesse ancora quell'effetto? Continuò a parlare a vanvera, senza accertarsi di pronunciare un discorso dotato di capo e coda; ma una vocina in lei le suggerì che Sasuke le stesse prestando attenzione, perché si sedette sul divano del monolocale, con le braccia incrociate al petto.  

D'accordo... provò a dire – ma solo un accenno! - che non voleva un tè:

«Sakura, lascia stare. Non serve.»

E che avrebbero dovuto sbrigarsi:

«Dobbiamo assicurarci che la grandine non abbia rovinato le impalcature del settore ovest.»

Ma lei andò per la sua strada e cercò il pentolino dell'acqua.

«Per una volta che in ritardo sono io» si giustificò.

Continuò a trafficare con cucchiaini e zollette di zucchero. Scema la terza volta: a Sasuke il tè piaceva amaro! Presa com'era dal mostrarsi una perfetta padrona di casa e un'eccellente domestica, non prestò ascolto ai richiami del suo corpo. Sì, era vero. Si trovava senza chakra, ma questo non significava non sapesse fare un tè. Se poi la testa girava un poco, che problemi c'erano? E se le gambe erano molli e lì lì per cedere, non voleva dire che stesse per...

«Ahi!»

La tazza si ruppe in due e il coccio appuntito, a forma di triangolo, penetrò la carne, in mezzo al palmo. Un fiume rosso colò nel lavandino e si mischiò all'acqua che usciva dal rubinetto. Si aggrappò al bordo del lavabo e serrò le palpebre. Qualcosa si spezzò in lei. Nel buio degli occhi presero forma immagini confuse, echi di voci che la chiamavano. Voci di bambini, un maschietto e una femminuccia. La pregavano di salvarli. Sakura, per piacere; Sakura, siamo piccoli; abbiamo ancora tanti giochi da provare; Sakura, dai, sistema i nostri corpi, così poi facciamo guardia e ladri; Sakura, perché non ce l'hai fatta? È perché ti stavamo antipatici? O siamo stati cattivi?

E voci di genitori che pronunciavano quella parola. Assassina. E dipinti nelle sue iridi c'erano i cadaveri; nelle sue orecchie ancora il sibilo dell'elettrocardiogramma. Il sibilo piatto, il sibilo della morte.

«Sakura!»

E questo era Sasuke che la chiamava, in quella che doveva essere un'illusione, perché lui non pronunciava mai il suo nome con tanto affanno e tanta preoccupazione e tanto... affetto? Era pazza, totalmente impazzita.

«Sakura!»

Anche perché si sentiva sorreggere da lui, quando sapeva benissimo che stava seduto sul divano, a guardarla con disprezzo. E perché le pareva che la stesse sollevando da terra; e le piaceva il contatto con il suo corpo. Sembrava in grado di racchiuderla nelle sue braccia e di difenderla da tutto. Anche dal dolore; anche dalla morte.

Finché il contatto venne meno e si trovò circondata dai cuscini del sofà. E Sasuke si fece lontano, accompagnato dal rumore di cassetti che sbattevano e antine che venivano aperte e poi chiuse.

«La mano» le disse in un ordine.

Si sedette accanto a lei, lei che finalmente si decise a schiudere gli occhi. Ed era vuota e stanca e miserabile. Debole e rassegnata e inutile. Lo vide aprire la cassetta del primo soccorso, quella che teneva nel mobiletto sotto il televisore, e recuperare una garza sterile.

«Sakura, vuoi darmi quella mano?» ribadì con impazienza.

Ma lei non eseguì l'ordine. Si sentiva avvolta da una strana coltre di sonnolenza, un dormiveglia ad occhi aperti, in pieno giorno. E allora Sasuke prese l'iniziativa e afferrò la sua mano, senza delicatezza, premendo troppo. Il flusso di sangue aumentò, il taglio si allargò un poco. Le labbra di Sasuke si staccarono e liberarono una sillaba, uno “scu-” che Sakura scambiò per l'inizio di quella parola che lui non le avrebbe mai detto.

Infatti tacque. Fasciò la mano in silenzio, la fasciò male, in modo maldestro, ma ci mise tutto il suo impegno. Gli si leggeva in viso. E non disinfettò nemmeno il taglio, prima di applicare la garza, né aggiunse una pomata cicatrizzante. Però fu più delicato e anche quando terminò di girare la fascia attorno al palmo, tenne la mano tra le sue.

E la guardava, mentre Sakura guardava lui e le sembrava improvvisamente triste, piccolo e solo. Triste, piccolo e solo, proprio come triste, piccola e sola si sentiva lei. Finché il rintocco delle quattro di pomeriggio non lo fece trasalire; e allora lasciò cadere la mano bendata sui cuscini del divano e scattò in piedi, dandole la schiena.   

 «Dirò a Kakashi che oggi non verrai.»

A testa bassa, senza un vero saluto, sparì nella pioggia di quel mercoledì pomeriggio.


A due giorni di distanza dal fattaccio, continuava a sentirsi una povera stupida. E non solo perché stava fissando la vetrina di un negozio, senza decidersi a entrare! Si sentiva stupida, perché teneva ancora la benda attorno alla mano. Una volta tornato il chakra avrebbe potuto curarsi e invece aveva scelto di non farlo. Non era messa meglio di quelle ragazzine dalla Suna che volevano l'autografo di Gaara sul palmo e non si lavavano per una settimana, per paura di cancellarlo.

Del resto, quella fascia malmessa era uno dei pochi gesti d'interesse che aveva ricevuto negli ultimi anni, e per un istante si era illusa che ci sarebbe stato un seguito. Non pretendeva un happy ending con dichiarazione d'amore in grande stile, matrimonio in pompa magna e una sfornata di bambini tale da ripopolare Konoha. Si sarebbe accontentata di una parolina in più rispetto al classico cenno del capo che Sasuke le rivolgeva ogni mattina, per salutarla.

E invece niente. Non un “mi dispiace per quei bambini”, non un “come sta la mano?”. E ora il caso – aiutato da quello stupido attacco di grandine! – la portava in un negozio di tazze. Sakura era convinta che le divinità, lassù, nascoste da nuvole grige, si stessero divertendo a renderle la vita impossibile.

Ma almeno, visto che era lì, avrebbe potuto approfittarne per comprare un nuovo servizio di tazze: quello che si ritrovava in credenza apparteneva all'uomo di Neanderthal. Con questo unico sollievo a riscaldarle il petto, si scrollò dalle spalle qualche chicco di grandine ed entrò nel negozio.

--

Ecco il capitoletto due. Le persone che ho avuto modo di conoscere su efp sanno che non sono mai contenta di quel che scrivo. Di questa storia (mancano ancora tre capitoletti) sono soddisfatta solo e unicamente perché l'ho conclusa. In questo periodo nella mia vita ci sono stati tanti cambiamenti e ho dovuto ridurre il tempo per la scrittura ai dieci minuti prima di spegnere la luce e andare a dormire. Come storia, non mi soddisferà mai completamente, ma spero comunque che a qualcuno possa piacere. Grazie a tutti i lettori,

un bacione

Odiblue

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Capitolo 3
*** III. ***





III.


Fu come entrare nella stanza da ballo di un palazzo. Tavoli di cristallo, tondi, riempivano il negozio senza seguire uno schema preciso. Erano pulitissimi e la superficie non aveva intrappolato le impronte dei clienti che li accarezzavano con le dita. Sopra di loro c'erano servizi di porcellane di ogni tipo, semplici e arzigogolati, disposti a seconda delle varie sfumature di colore; piramidi di piatti che imitavano la torta a balze di una sposa; bicchieri di vetro soffiato che ricordavano l'arcobaleno; e non mancavano le tazze, tantissime tazze. Talmente belle che Sakura sarebbe andata sul lastrico pur di comprarle tutte: rosa confetto, trasparenti come gocce di rugiada, brillanti più del più prezioso diamante.

Un solo dettaglio stonava in quel paradiso di raffinatezza e sciccherie. Un giovane uomo, agghindato in un orrendo completo arancione, sgraziato nel girare attorno a un tavolino, nel centro del negozio. Potenzialmente pericoloso. Stava lì da solo, il che era una novità, visto che mancavano i due grandi amori della sua vita: Hinata Hyuuga e Sasuke Uchiha.

«Non credevo che a voi elefanti fosse consentito mettere piede nelle cristallerie» gli disse.

La sua voce lo sorprese, cogliendolo da dietro. Si stupì lei stessa di aver parlato. Era in condizioni inaccettabili e si sentiva orrenda, con i capelli spettinati, bagnata fino al midollo, e l'inguardabile maglioncino rosso, ridotto a un colabrodo dai cubetti di grandine.

Ma del resto, il ragazzo che si trovava davanti era Naruto Uzumaki e Naruto Uzumaki era abituato ad avere a che fare con il lato peggiore di lei.

«Sakura-chan!» gridò in un saluto.

Attirò su di sé l'attenzione di tutte le clienti che, vista la premura e l'ansia con la quale saltellavano attorno al tavolino delle bomboniere, dovevano essere future spose.  

«Ma questo è un negozio di tazze!» continuò a gridare. «Non una cristalleria!»

Lo disse indicando con il dito un set di porcellane. Il lembo della felpa arancione sfiorò il manico di una tazzina. Sakura si buttò in avanti, le suole delle scarpe bagnate. Scivolò, ma riuscì a frenare concentrando il chakra nelle piante dei piedi. Afferrò la tazzina al volo e la riadagiò sul piattino del servizio.

«Resta il fatto che tu sia un elefante» lo rimproverò. «Guarda che disastro stavi per combinare!»

Naruto ridacchiò e si grattò la testa, all'altezza della nuca. Borbottò delle scuse imbarazzate e rassicurò le commesse del negozio, povere donne terrorizzate dalla sua goffaggine, dicendo che non era successo nulla, niente di cui preoccuparsi.

«Ma che elefante e elefante, Sakura-chan!» aggiunse poi.

Sventolò le mani davanti al petto. Lo faceva sempre quando voleva difendersi e negare di aver dato vita a un danno. Anche se quella volta il danno in questione era stato evitato grazie a una grandiosa prova di riflessi.

«A forza di rincorrere il Teme sono venuti problemi di vista anche a te?»

Voleva essere una battuta, ma a Sakura sembrò di venire fulminata viva. E non da una persona a caso. Dal suo migliore amico. Dall'uomo che da ragazzino aveva giurato di proteggerla e prendersi cura di lei, mai di ferirla. Invece l'aveva fatto. A forza di rincorrere il Teme. Era davvero così patetica? Al punto da essere quasi paragonata a una cagna in calore che si attaccava alla gamba del padrone, per non lasciarlo andare via? Morbosa, ossessionata? Naruto le aveva sempre detto che ammirava il suo amore smisurato per Sasuke, un sentimento che non conosceva limiti e compromessi. Un giorno, mentre parlavano del più e del meno, l'aveva paragonata a una bellissima farfalla, pronta a gettarsi nelle correnti di vento, in vortici e tornado, pur di raggiungere il suo obiettivo. Quand'era che le aveva tagliato quelle splendide ali rosa e l'aveva condannata a strisciare al suolo, sporca e viscida come una larva?

Ingrandì gli occhi e schiuse le labbra, finché Naruto comprese la gravità delle sue parole: le iridi azzurre si dilatarono e lui realizzò il peso di una domanda posta con troppa leggerezza.  

«Cioè io, io non intendevo dire quello!» si scusò. Riprese a sventolare le mani davanti al petto. Poteva essere cresciuto, Naruto. Poteva essere diventato l'eroe di Konoha, ma restava comunque un grandissimo baka. «Non la prima parte, capisci? Cancellala, Sakura-chan! Fingi che io non abbia mai... cioè volevo solo dire che io ho i baffi e non la proboscide!»

Frase dopo frase, alzò il tono di voce. Sempre e sempre più, al punto che le future spose rimasero ad ascoltare la loro conversazione. Curiose. E Sakura non era arrabbiata con Naruto. Capiva che non aveva parlato con cattiveria. Del resto, era lei la patetica, lei la perdutamente innamorata, lei la permalosa. Però si vergognava oltre ogni misura immaginabile.

«Perché devi sempre urlare?» gli chiese.

Per la disperazione si passò una mano sulla fronte, ma poi pensò che avrebbe potuto tirarsi su il morale, schernendo il suo migliore amico, quasi un fratello, come era solita fare.

«E comunque devo correggerti» gli disse. «A forza di stare in squadra con Sai e Kakashi mi sono venuti problemi di altro tipo. Di perversione, direi. Quindi, per favore, evita di gridare frasi circa il non avere una proboscide.»

Naruto divenne rosso peperone, talmente colorato in viso da sembrare una bomba sul punto di esplodere. Iniziò perfino a sudare, quando le spettatrici del loro dibattito risero dolcemente. Fosse stato il ragazzino di dodici anni che amava porsi al centro dell'attenzione, si sarebbe tirato giù i pantaloni e avrebbe mostrato che lui, Naruto Uzumaki, futuro Hokage di Konoha, aveva benissimo la “proboscide”.

Ma per l'appunto un eroe non poteva permettersi certi atteggiamenti.

«Sakura-chan? Ma cosa? Ma come?» balbettò. «Cioè tu... non avrai mica pensato che io intendessi... sul naso dicevo... mica... non credetele... io non dicevo quella proboscide... è lei che...»

Ancora le ragazze del negozio ridevano; ed erano fortunati che la cassa si trovasse nello stanzino adiacente, altrimenti la commessa, assistendo alla scena, avrebbe preso il telefono e chiamato la sicurezza.

«Taci che abbiamo capito tutti cosa volevi dire» lo sgridò Sakura.

Fece cadere così l'argomento, dicendo in silenzio alle donne nel reparto di tornare alle loro faccende. Quanto a lei... credeva che prendersi gioco di Naruto, come i vecchi tempi, potesse aiutarla a farle tornare il buon umore. Invece niente. Non aveva nemmeno voglia di spremergli un cazzotto sopra quella testa bacata che si ritrovava. Il che non era assolutamente nel personaggio. Ecco come la stava riducendo la grandine!

«Piuttosto che ci fai qui?» gli domandò. «Ti ricordo che non me l'hai ancora detto.»

Un diverso tipo di rossore ricoprì le guance di Naruto, un tenue rosa che imporporò il naso e la pelle sotto gli occhi. Prese in mano una tazza, vicino alla tazzina da caffè che aveva rischiato di rompere e la allungò, perché Sakura la vedesse meglio.

«Cavolo! È davvero bella!» gli disse lei.

Era una tazza allungata, dal collo stretto, di un piacevolissimo argento chiaro che sfumava nel bianco; impreziosita, sul lato opposto al manico, dal disegno di un fiore di loto; i petali calcati ai margini da una polvere di brillantini che ricopriva il manufatto di un'aura luccicante.

«Io-» Sakura scosse il capo, allibita non tanto dalla bellezza dell'oggetto, quanto più dal fatto che fosse stato Naruto a sceglierlo. «Io non credevo avessi tanto gusto estetico.»

Ma poi l'occhio le cadde sulla divisa arancione, l'obbrobrio per eccellenza. Un brivido di disgusto le salì su per la schiena.

«Anzi, no» aggiunse. «Mi correggo. Tu e Hinata dovete assolutamente venire a cena da me, una di queste sere. Devo farle davvero tanti complimenti, se è riuscita ad addomesticarti e a farti comprare qualcosa che non sia di quel colore osceno!»

Naruto inorridì e adagiò rapido la tazza dal fiore di loto sul tavolino, prima che uno dei suoi gesti scomposti finisse con il mandarla in mille pezzi. Non appena se ne liberò, si mosse tutto, per evidenziare la sua contrarietà con una gamma vastissima di movimenti: un pugno menato in aria, una pedata al pavimento, veloci scossoni della testa.

«Ma Sakura-chan!» disse. «Sei proprio cattiva oggi! L'arancione è un bellissimo colore. E poi la tazza è per Hinata, perché io, cioè, vedi-»

E il tono si abbassò, gradualmente, l'esatto opposto di come si era alzato. Di nuovo il rossore tornò a coprire le gote di Naruto. Sembrava che si fosse trasformato in Hinata; sembrava che, a forza di passare le sue giornate con lei, avesse assorbito tratti del suo carattere: il farsi improvvisamente silenzioso, lo spostare gli occhi a terra, il rigirarsi i pollici, l'uno con l'altro. Perché era evidente che lo mettesse in imbarazzo esternare il suo lato romantico, la parte innamorata.

Che poi – Sakura poteva dirlo, visto che in pochissimi lo conoscevano meglio di lei – la parte innamorata era ovviamente tutta: non c'era un solo atomo che componeva il corpo di Naruto Uzumaki incapace di amare Hinata Hyuuga alla follia. Anche perché il suo compleanno non era nelle vicinanze e la tazza doveva essere uno di quei regali nati così, giusto per il gusto di donare, senza attendere una ricorrenza precisa.

A Sakura fece una grandissima tenerezza, tanto che le venne voglia di abbracciarlo e di stringerlo forte forte, come fa una sorella con il fratellino minore; con le lacrime agli occhi, orgogliosa e un po' rattristata dalla sua crescita. Però non era nel personaggio abbandonarsi a smancerie con Naruto e quindi si limitò a portare le mani ai fianchi. Con un piccolo colpo di tosse lo costrinse a sputare il rospo.

«Vedi» le disse lui. «Ieri sono venuto qui, con lei. Cercavamo un servizio da tè per la casa. Fa freddo e Hinata ha sempre le mani gelide e io non voglio che pensi che non sappia prendermi cura di lei, insomma capisci, che ci ripensi e torni a vivere dagli Hyuuga-»

Di nuovo si rigirò i pollici. E di nuovo Sakura sentì nascere in lei la voglia di spupazzarlo tutto, questa volta come un cucciolo di cane, di mettergli in disordine i capelli, ma – di nuovo – questo eccesso di coccole e attenzioni sarebbe stato totalmente non da lei; e tra l'altro non era il momento di rifilargli nemmeno un pugno, quindi rimase buona e zitta, in attesa che Naruto riprendesse la narrazione.

«Però quando ho visto il servizio arancione, mi è sfuggito che mi piaceva» disse lui con tono colpevole. «E invece lei voleva prendere questo, e alla fine è successo così, che Hinata voleva comprare quello arancione per non fare un torto a me; io volevo prendere quello argento per non fare un torto a lei.»

«E alla fine non ne avete preso nemmeno uno!» concluse Sakura, tirando le somme.

Naruto serrò le labbra e chiuse i pugni, tirando le braccia lungo i fianchi. Dei membri del team 7, era quello ad essere cresciuto di più; era diventato responsabile e serio, non un guastafeste tutto scherzi e strilli come all'età di dodici anni. Eppure certi gesti – la mimica del viso, il modo di manifestare gioia e dolori – erano rimasti immutati. E quella posa Naruto l'assumeva quando una certa persona gli metteva il bastone tra le ruote.

«Alla fine è arrivato Sasuke, quel segugio!» Sasuke. Prevedibile e scontato. «Mi ha detto che ero una femminuccia e che l'Hokage ci stava aspettando e che, se non mi fossi dato una mossa, avrebbe convinto la vecchiaccia a dare il titolo a lui e non più a me e quindi io-»

«Te ne sei andato con Sasuke dimenticandoti di Hinata!»

Naruto rizzò la schiena, una volpe sconvolta dal botto emesso dal fucile di un cacciatore. E Sakura, il cacciatore in questione, capì dal volto del suo amico di aver sparato non un proiettile, ma un'immensa cavolata.

«Ma che dici?» sbottò Naruto. «Non mi dimenticherei mai di Hina-chan! È delle tazze che mi sono scordato. Hina-chan invece l'ho portata via con me!»

 


Sakura sorrise. Avrebbe dovuto saperlo, lei che si vantava di conoscerlo così bene, perché c'era un numero limitato di persone – forse un numero pari a zero – capace di amare come amava lui; perché quando Naruto amava, amava con cuore, fegato, polmoni e quel briciolo di cervello che si ritrovava. Amava al punto da aver giurato all'intero clan Hyuuga di non separarsi mai da quella ragazza dagli occhi lavanda, fino alla fine dei suoi giorni. L'avrebbe onorata e venerata, come se nelle braccia gli dèi stessi gli avessero posato una dea, la dea della luna e della felicità. La sua felicità. L'avrebbe rispettata e, quando sarebbe diventato Hokage, avrebbe fatto scolpire nella montagna il viso di entrambi. Perché quando si era accorto di amarla, aveva capito che non sarebbe più potuto esistere senza di lei. E da bravo scemo gli erano serviti anni per comprendere che quel bruciore al petto, al cuore, non era gastrite o un piatto di Ramen di troppo. Erano dovuti passare sotto i ponti fiumi di acqua con una portata tale da riempire l'oceano: svenimenti, invasioni nemiche, guerre, confronti faccia a faccia con la morte. Ma quando lo Tsukuyomi  era stato annientato, Naruto aveva iniziato a vedere la vita. Era corso da Hinata, pregandola di aspettarlo: doveva parlare con i Kage, assicurarsi che scagionassero Sasuke, ma c'erano miliardi di cose che doveva dirle, se solo avesse potuto aspettarlo, ancora un altro po'. E Hinata, con le lacrime per la gioia, fiduciosa in quel sorriso luminoso, aveva giurato. Finché era tornato da lei, donandole il suo cuore. Lei, solo lei, aveva saputo vedere in lui la luce, mentre tutti lo credevano il buio. Ma si sapeva che Naruto Uzumaki era una testa quadra, no? Non aveva capito niente. Però poi l'aveva vista anche lui, la luce che c'era in lei, ed era così abbagliante che aveva dovuto distogliere lo sguardo per non rimetterci gli occhi.

“Hinata, ricordi quando ti ho detto che mi piacciono le persone come te?”
Ovviamente.
“Mentivo! Era tutto un grande sbaglio!”
Era impallidita. Ecco la carta del due di picche.
“Hinata, non mi piacciono le persone come te”.
Il rifiuto.
“Mi piaci tu.”
E il due di picche divenne un asso di cuori.
“Mi piaci tu e basta”.




«Svegliati, testa quadra! Non è il caso di pensare a Hinata ad occhi aperti!»

Alla fine glielo tirò quel famoso pugno in testa e dovette ammettere che un pochino si sentì meglio.

«Ma Sakura-chan, come hai fatto a capire che io stavo-»

«Perché quando pensi a Hinata sbracci e ti muovi tutto. E sbavi pure!»

Inutile dire che Naruto negò. Nel giro di qualche mese sarebbe diventato Hokage e gli Hokage non sbavavano. Tsunade gli aveva dato perfino qualche lezione di portamento! Sakura non ci credeva minimamente, visto che anche il portamento della maestra lasciava parecchio a desiderare. Inscenarono così un altro dei loro siparietti, fino a quando entrambi non si stancarono di rimbeccarsi: “tu pensi a Sasuke”; “tu pensi a Hinata”; “Sasuke”; “Hinata”; “Sasuke”; “Hinata”.

«Andiamo» disse Sakura, chiudendo per prima il loro gioco da dodicenni. «Ti accompagno a pagare, così eviti di fare qualche disastro.»

Lo trascinò per la manica della felpa tra i tavoli rotondi e arrivò all'arco che dava accesso allo stanzino con la cassa. Una grande tenda rosa antico separava le due stanze. Sakura la scostò, accarezzando quel manto di seta pregiata, ma appena varcò la soglia mollò la presa e il tessuto le cadde sulla punta del naso. Con un gesto rapido si liberò la visuale e puntò il dito in avanti.

«Ma quella non è Hinata?» chiese.

«Hinata?»

Naruto si mise dritto, composto e con la tazza in bella vista; sennonché si ricordò che era un regalo e cercò un posto dove nasconderla, per non essere colto sul fatto. Fece troppo rumore, sbattendo la schiena sullo stipite della porta. Fu il suo “ahi” a tradirlo. Hinata riconobbe la voce e si girò di scatto.

«Naruto-kun?»

 Tra le sue mani una tazza arancione per nulla raffinata, ma che metteva una certa simpatia. Quei due passavano davvero troppo tempo insieme. Sakura ne era convinta: avevano le stesse idee. Così Hinata fissava la tazza argentata tra le mani di Naruto e Naruto fissava la tazza arancione tra le mani di Hinata. Nello stesso istante i loro occhi si alzarono dai due oggetti e si incrociarono, mentre una risata divertita usciva dalle bocche; Naruto si grattava la testa, come faceva sempre da imbarazzato; Hinata invece era arrossita.

«Io pensavo che visto che fa sempre freddo-» disse lui.

«No, ero io che pensavo che-» disse lei.

E intanto si fecero più vicini. E Sakura, nel ruolo del candelabro, nonché del terzo in comodo, si faceva sempre più lontana.

«È colpa della grandine e poi ti piaceva-» riprese a dire lui.

«Ho pensato la stessa cosa; e poi gli operai devono ancora mettere il riscaldamento per quest'inverno, quindi-» riprese a dire lei.

Non era educato, anzi, era da vera impicciona, ma Sakura non poté fare a meno di guardarli. Guardava Hinata soprattutto e si meravigliava della luce che sapeva emanare. Aveva sempre paragonato i suoi occhi alla lavanda che vedeva nel negozio degli Yamanaka. Alla presenza di Naruto, tuttavia, le iridi si ricoprivano di riflessi argentei, simili alla luna che ricavava la luce dal sole. E non c'era bisogno di dire chi fosse il sole di Hinata.

«Sai cosa facciamo, Hina-chan? Compriamo non solo tutte e due le tazze, ma anche tutti e due i servizi!»

E mentre Hinata ribatteva che entrambi i servizi costavano troppo e Naruto le assicurava che non era un problema – diventerò Hokage, Hina-chan; ti ricoprirò d'oro e di felicità; ogni tuo desiderio sarà un mio desiderio; ogni tuo sogno un mio sogno – Sakura sentì un moto di stizza farle prudere la pelle delle mani. Gelosia, ma non gelosia di Naruto in quanto uomo; gelosia della loro relazione, del loro condividere, di tutto quello che lei non avrebbe mai avuto.

Da bambina aveva sempre saputo che il suo uomo sarebbe stato Sasuke. Da adulta aveva imparato a rassegnarsi: non sarebbe mai stato lui. Così, ora che aveva accartocciato il sogno d'infanzia, si rassegnava a una vita senza Sasuke, ma si rassegnava anche a una vita senza un uomo al suo fianco: se quell'unico non poteva essere Sasuke, allora non sarebbe stato nessuno.  

Quando stava in solitudine, chiusa nel monolocale o al lavoro, si trattava di una rassegnazione stanca, ma tutto sommato accettabile. Quando si confrontava con la felicità dei suoi amici, invece, era un sentimento amarissimo, più dello sciroppo per la tosse. Vedere Naruto abbracciare Hinata e strofinare il naso contro il suo, troppo pudico per un grande atto in luogo pubblico, trasformava il sangue delle vene in veleno; le faceva venire voglia di correre a casa, schiacciare la testa sotto il cuscino e scoppiare a piangere.

Alla fine Naruto se ne fregò della pudicizia e stampò un piccolo bacio sulle labbra di Hinata. Sakura stralunò gli occhi al cielo: ma quanto erano smielati quelli che si innamoravano? A grandi falcate marciò verso la cassa e sbatté entrambi i palmi sul tavolo smaltato di bianco.

«Mi dia una tazza adatta a una vecchia zitella!» ordinò alla commessa, con un tono che non ammetteva replica. «La più brutta che trova e quella che costa meno.»

La donna alla cassa fece una faccia allucinata.

«Signorina, ma-»

«Niente ma, se, però! Non mi interessa!» le disse. Indicò poi una tazza appoggiata sulla mensola, dietro la testa castana della commessa. Economica, in semplice porcellana bianca. «Sakura Haruno non ripete!»

O meglio... ripete solo sensazionali confessioni d'amore a stupidi uomini complessati, con le capacità verbali e relazioni di un orango-tango. Ma questa era tutta un'altra questione e al momento non aveva importanza. Doveva fuggire da quel nido di piccioncini, presi a scambiarsi carezze sul viso e battute dolci e svenevoli; doveva uscire, all'aperto, dove almeno la grandine, fredda di natura, si poteva adattare al gelo del suo cuore.

«Ci si vede, ragazzi» disse.

Probabilmente non venne sentita perché non ottenne risposta. Solo quando scostò il drappo rosa antico, con le intenzioni di sparire dalla loro vista, la voce di Naruto la raggiunse da dietro.

«Sakura-chan!»

La guardava con il sorriso da idiota, quello che sembrava dire: “Suvvia, non essere triste! Il mondo è bello e colorato e ci sono gli unicorni arancioni che fanno consegne di ramen a domicilio!”. Stava attaccato a Hinata e le avvolgeva i fianchi con un braccio; un'espressione bizzarra stampata in faccia. A Sakura parve volesse trasmetterle un briciolo di autostima, rassicurarla: anche lei un giorno sarebbe stata felice. Le sembrava stesse facendo il tifo da lontano, credendo al massimo nelle sue capacità.

«È dietro l'angolo» le disse, per rincuorarla. «Devi solo aspettare. Aspetta ancora un  po'!»

Prese le sue parole alla lettera. Uscì dal negozio e prima di girare l'angolo, trattenne il respiro, spaventata dalla novità che la stava attendendo al varco, con il cuore e l'eccitazione sparati a mille, una bambinetta che scartava un pacco regalo, convinta di trovare all'interno della confezione la bambola dei suoi sogni. Invece il negoziante aveva riempito quella scatola di pezzi di polistirolo, un brutto scherzo. E dietro quell'angolo, proprio come nel pacco regalo, non c'era un bel cavolo di niente.

La delusione premette in lei al punto che si sentì di nuovo stupida. Come avrebbe potuto dirsi intelligente una giovane donna capace d'illudersi? Si sapeva che Naruto era un sognatore; si sapeva che i suoi desideri nascevano con la potenzialità di diventare veri; ma solo perché il futuro Hokage otteneva quel che voleva, non significava che la medesima catena desiderio-realtà potesse adattarsi anche a lei.

A Sakura non serviva un sognatore che fomentasse fantasie irrealizzabili. A Sakura serviva una persona pratica, una che non si facesse problemi a sbatterle in faccia la verità dei fatti, una che riuscisse a dirle, senza troppi peli sulla lingua: “Mia cara fronte spaziosa, apri i tuoi grandi occhioni smeraldo e fattene una ragione. Lui non ti vuole e mai ti vorrà”. E c'era solo una persona che l'amava al punto da essere disposta a ferirla, pur di salvarla: Ino Yamanaka.


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Ed ecco il terzo capitoletto (e Sasuke non si decide ad apparire! Beh con lui... con lui ci vuole moooolta pazienza). Ne restano solo due adesso. Ovviamente - partecipando la fic a un contest - i capitoli sono già stati scritti. Devo solo essere un po' meno pigra del solito e decidermi a fare gli html... e anche un po' di sveglia e brillante (così non mi dimentico di aggiornare). Un grande grazie a tutti quelli che seguono, leggono, recensiscono la storia e, se non ci sentiremo prima (tradotto: se non aggiornerò prima) un buon natale a tutti voi!

Un bacione

Odiblue

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Capitolo 4
*** IV. ***


IV.


Due chicchi di grandine scesero dal cielo per dirle di velocizzare il passo: il negozio di Ino era lontano e, se ci fosse stato il sole, l'ora sarebbe stata quella del tramonto. Sakura però non aveva voglia di ingranare le marce più alte e sfrecciare lungo i viottoli di Konoha come una furia. I chicchi di grandine erano stati, per l'appunto, solo due; si sarebbe goduta quella passeggiata, cercando di sputare fuori, assieme alla nuvoletta di freddo che le usciva dalle labbra, il cattivo umore e lo stupido amore che la legava a Sasuke. Si preparò mentalmente per il confronto con Ino. Conoscendola, le avrebbe detto di prendere quel sentimento che le martoriava il cuore, legarci una bella pietra e gettarlo in fondo all'oceano.

A meno che non si fosse raddolcita nell'ultimo periodo. Un po' doveva essere così. Da quando stava con Sai, imprecava meno, sbraitava meno, prendeva a pugni il povero Shikamaru. Meno. Aveva dell'incredibile come quei due fossero finiti insieme. Aveva dell'incredibile che fosse stato proprio “colui che non capiva le emozioni” a fare il primo passo. Aveva dell'incredibile che quel fatidico primo passo si fosse rivelato giusto. E aveva dell'incredibile che Ino Yamanaka, storicamente cotta di Sasuke e, a giudizio di Sakura, con una certa simpatia per Shikamaru sin dall'infanzia, fosse capitombolata ai suoi piedi senza il bisogno di un lungo corteggiamento di fiori, poesie, cioccolatini e gioielli.

Solo un invito a cena, a tre mesi dalla fine della guerra. Sai era andato al negozio, a mani vuote, e il caso aveva voluto che Sakura si trovasse lì, in cerca di qualche fiore per una vecchia signora ricoverata all'ospedale. Una vecchia signora triste, bisognosa di profumi buoni e bei colori. Appena aveva visto il suo compagno di team varcare la soglia della serra e zigzagare tra i banconi colmi di gerani e non-ti-scordar-di-me, le erano parse chiare le sue intenzioni.

“No” aveva sussurrato a Ino.

Non un “no” che voleva dire “cavolo, perché a lei e non a me?”. Un “no” pieno di stupore; un “no” che poteva essere tradotto con un “Non ci posso credere! Sta succedendo sul serio?”.

“Sakura, ti senti bene?” le aveva chiesto la sua migliore amica.

In tutta risposta, si era trovata a farle l'occhiolino. Poi l'aveva strizzato anche a Sai, per augurargli buona fortuna, ma lui, in tutta la sua gentilezza e in tutto il suo acume mentale aveva creduto che un moscerino le si fosse incastrato tra le ciglia.

“Ino, Sai, vado nella serra là dietro, a vedere se c'è qualcosa che mi interessa. Questi fiori non mi piacciono proprio per niente”.

Ino non l'aveva seguita ed era rimasta alla cassa. Le aveva gridato dietro, però, che i suoi fiori erano pregiatissimi e raffinatissimi e che doveva essere miope per non riconoscere il loro valore. Quella stupida gallina bionda non aveva capito le intenzioni di Sai. Sakura, se costretta, avrebbe ammesso che tra lei e il suo compagno di team c'era sempre stata una certa empatia. Si capivano con un solo sguardo, forse per una qualche affinità di carattere.

“Perché siete entrambi un disastro con le emozioni” le aveva detto un giorno Ino.

Ma almeno non le erano serviti venti minuti per accorgersi che Sai era cambiato, a differenza di qualcun altro. Una strana molla era scattata in lui. Un piccolo cilindro piegato su se stesso aveva messo in moto la grande macchina dei sentimenti; e Sakura aveva capito che era stata proprio Ino, pur senza accorgersene, a toccare con un'unghia smaltata quel minuscolo ingranaggio e a dare inizio al tutto.  

Lei, invece, - stupida oca! - aveva continuato a insultare Sakura, dicendo che, nonostante anni di studio, non sapeva nemmeno riconoscere una bella pianta di fiori. Finché Sai, con un sorriso stampato in faccia, un sorriso non tanto sicuro e un po' spaventato, era saltato dietro la cassa, mettendosi di fronte a lei.

“Usciamo a cena stasera”.

Dalla sua posizione, nascosta dietro un pino e con un cactus alle spalle, Sakura non si era trovata in un buon punto per spiare. Pertanto non aveva visto quale assurda espressione si fosse dipinta sul volto di Ino. Aveva però scorto le spalle abbassarsi, sopraffatte da un'ondata immaginaria di sconforto e delusione; e aveva sentito la sua voce spegnersi e il silenzio regnare vincitore nella stanza.

Sakura, spettatrice esterna di quella dichiarazione non compresa, aveva sentito nascere in lei il desiderio di prendere il cactus e tirarlo in testa alla sua cara migliore amica. Altro che maialino! Ino era una stupida gallina senza cervello! Ma perché non ci arrivava?

“Sai, ascolta.” L'aveva sentita pronunciare il nome del ninja con un'infinita pazienza che di norma non scorreva nel sangue Yamanaka. “Ti ringrazio tantissimo per l'offerta, ma vedi, quando inviti una donna a cena, lei si fa delle idee come dire... sentimentali. Quindi se le tue intenzioni non sono serie, non dovresti-”

“Ma io so benissimo quali sono le mie intenzioni, Ino-san” l'aveva interrotta lui.

Aveva usato un tono di voce talmente vitale e sicuro che, se Sakura non lo avesse sentito con le sue stesse orecchie, avrebbe creduto ci fosse stato uno scambio di persona. Era scivolata fuori dal suo nascondiglio, per riparare nell'altro lato della serra, dietro al vaso delle ortensie; aveva visto la sua migliore amica sgranare gli occhi e arrossire, aprire e chiudere le labbra, velocissima, incapace di trovare una parola con la quale replicare.

Quella gallina ha preso un granchio! Si era detta Sakura facendo a pezzettini una corolla di petali azzurri.

Ma Sai era stato bravo a seppellire ogni malinteso sotto quintali di terra, gettandovi sopra manciate di sale, per impedire che un nuovo dubbio attanagliasse la mente della sua futura ragazza. Le prese la mano e mosse un passo in avanti, schiacciando il petto contro il seno di lei, non staccando gli occhi, nemmeno per un secondo, da quelle iridi identiche ai petali d'ortensia che le mani di Sakura continuavano a polverizzare.

 “Le mie intenzioni con te sono le stesse di Naruto con la Hyuuga” le aveva detto. “Le stesse di Shikamaru con la tizia dalla Sabbia.”

E Ino Yamanaka non si era lasciata scappare l'occasione d'oro, quella dei suoi sogni. Gli aveva gettato le braccia al collo, tappando la bocca di lui con la propria, e aveva fatto avvenire quello che tutti i cittadini di Konoha finirono con il chiamare “miracolo”.




A molti pareva impossibile che una come Ino Yamanaka, nata per amare, avesse dedicato anima e corpo a un involucro privo di emozioni. Perché Ino aveva sempre avuto troppo amore da dare. Al suo team, a Asuma, a un padre che non avrebbe visto mai più. Sakura lo sapeva bene: non si trattava di una stupida oca tutta vestiti alla moda e pettegolezzi. Se qualcuno poteva sostenerlo con fermezza, quel qualcuno era proprio lei. Ino le aveva donato il suo affetto, l'aveva riempita di convinzione e stima per se stessa, era andata contro ogni principio pur di vederla felice. A modo suo, con scherzi e prese in giro, l'aveva amata.


Ma a differenza di quei molti, Sakura sapeva anche che Sai non era un involucro vuoto. Era un bellissimo vaso con pelle di marmo e occhi di carboncino. E dentro quel vaso, un contenitore dotato di tappo ermetico, si agitava uno sfarfallio di sentimenti confusi, talmente disorientati da restare in silenzio, muti, per la paura di trovarsi nel posto sbagliato. Aspettavano semplicemente che qualcuno aprisse il vaso e li accarezzasse, donando loro una nuova voce. Chi allora meglio di Ino Yamanaka, che di amore traboccava, avrebbe potuto dare ordine a quel puzzle scomposto di emozioni e insegnargli il vero valore della vita?




Ancora prima di entrare nel negozio, Sakura sentì nell'aria un dolcissimo profumo di fiori e pollini. Una miscela che odorava di calicanto, gigli e gelsomino le solleticò la punta del naso e rilassò i muscoli del corpo. Tesi, dopo l'incontro con Naruto e Hinata. Tesi, dopo l'incontro con un destino di solitudine. Era stata una buona idea andare da Ino; le pareva infatti che quella fragranza naturale avesse il dono di allontanare il mal di testa che le premeva sulle tempie, oltre a un brutto raffreddore che tutta quella grandine le avrebbe sicuramente causato.

Alleggerita e desiderosa di fare quattro chiacchiere con la sua migliore amica, aprì la porta del negozio. Non lo avesse mai fatto! Maledetta le decisione di andare a trovarla! Con uno scatto e un grido, sfuggito alle labbra, si voltò di spalle, per non vedere un secondo in più quel che mai avrebbe voluto vedere.

«Fronte spaziosa, non sai leggere?» strillò Ino. La voce acutissima, vinta da una punta di isteria, oltre che dalla vergogna per essere stata colta sul fatto. «Il cartello! C'era scritto chiuso!»

Sakura sentì il rumore della zip venire tirata su, il botto delle scarpe che, per un movimento maldestro, finirono a terra, prima che quella gallina della sua migliore amica riuscisse a rimettersele.

«Ma come facevo io a sapere che-» provò a dire.

Non riuscì a concludere la frase. Avrebbe avuto gli incubi. Avrebbe avuto gli incubi a vita. D'accordo che le amiche si confessavano le loro storielle bollenti e le esperienze piccanti, ma vedere Ino e Sai, nel preciso mentre, nudi se non per le magliette, sdraiati sopra il bancone con la cassa...

«Che vergogna!» gridò lei.

«Vergogna tu?» gridò Ino.

Era una dura competizione a chi delle due fosse più imbarazzata. Sakura poi non avrebbe mai e poi mai voluto voltarsi di nuovo. E forse non sarebbe riuscita a guardare in faccia Ino e Sai per il resto dei suoi giorni. Si girò solo perché vide il suo compagno di team comparirle affianco, completamente vestito e impassibile, se non per il solito sorrisetto che da quando stava con Ino non riusciva a levarsi di dosso.

«Non sgridarla, tesoro» disse alla sua ragazza.

Enfatizzò quel “tesoro” in una maniera non normale, quasi fossero due bambini che parlavano in codice. Se Sakura non avesse avuto la bocca piena di imbarazzo, avrebbe ribattuto ad alta voce che lei e Ino si confidavano come all'età di quattro anni e non c'era bisogno di nasconderle dei segreti. Sapevano tutto l'una dell'altra... a parte il fatto che Ino indossasse slip con le fragole, quando le aveva sempre detto che la biancheria doveva essere rigorosamente di pizzo nero.

Sakura adocchiò le mutandine rosa che la sua migliore amica si era scordata di rimettersi. Colpa della fretta.

«Vedi, tesoro» stava intanto continuando a dire Sai. Ancora con quel tesoro? «Chi non ha una vita sessuale non può immaginare che gli altri ne abbiano una.»

Le tirò una pacca sulla spalla, in segno di consolazione. Mai e poi mai farsi difendere da Sai. Sperò solo che Ino si munisse di quella delicatezza che in genere non conosceva per spedire il suo fidanzatino fuori dalla serra.

«Hai ragione, tesoro» disse invece. «Beh, Fronte Spaziosa, dovresti farti prestare un certo libro dal tuo caro maestro, giusto per evitare di trovarti in situazioni imbarazzanti.»

Parlò come se quello scambio di battute fosse un gioco, una barzelletta, e non immaginò, nemmeno da lontano, che potesse fare male vedersi sbattuta in faccia la verità: era una perdente. Non aveva mai avuto un ragazzo, mai fatto sesso e l'unico bacio che aveva dato se l'era giocato in una missione, per portare a casa la pelle.

Eppure Ino, pur sapendo, faceva la voce da civetta e ci ridacchiava su. Anche Sai si concesse una risatina. E pensare che lei aveva sempre creduto che le loro menti, emotivamente difettate, corressero sulla stessa onda.

«Non è colpa sua,» lo sentì dire, «se l'Uchiha non vede alcuna ragione per amarla.»

Le sembrò di essere un vetro, sottilissimo e già crepato, rattoppato con strati di mastice e colla; le parole di Sai un sasso grosso, pesante, un masso che non poteva essere evitato. Andò a sbattere su di lei, su quel vetro sottilissimo che anno dopo anno era stato mandato in frantumi da troppi colpi.

Smise di respirare, con gli occhi asciutti per lo smarrimento, perché la battuta di Sai aveva colto di sorpresa anche le lacrime, gocce d'acqua salata che non avevano capito: era il momento di intervenire. Nemmeno guardare Ino le fu d'aiuto. La trovò smarrita quanto lei, con una risata bloccata in gola e le mani che le tremavano un poco. Anche Sakura, in passato, era stata vinta da quel tremito e sapeva che per calmarsi doveva tirare un pugno o lanciare kunai. Ino sembrava pronta a farlo. Fissava Sai con lo sguardo di fuoco e unghie che non vedevano l'ora di graffiarlo e scorticarlo vivo.

Ma Sakura non voleva che Sai morisse. Doveva parlare.

Non vede alcuna ragione per amarmi.

«Chi te l'ha detto?» gli chiese.

La coda dell'occhio intravide la testa di Ino muoversi in piccoli no, no. Il gesto che si faceva per dire di tacere, non rivelare la verità. Brutto mostro la verità! Una volpe a nove code capace di distruggerli tutti. Sakura guardò Sai, ancora il sorriso in viso, incurante delle preghiere di Ino.

«Naruto» le disse.

Il cuore fece un salto in gola. Tra tutti, proprio lui.

Naruto.

Aveva visto giusto qualche ora prima, al negozio. A forza di rincorrere il Teme non era una battuta mal riuscita, ma l'esplicitazione di un pensiero che girava e girava in quella testa bionda da chissà quanti anni. Non poteva crederci. Non poteva credere che Naruto la vedesse davvero come quella larva che strisciava nel fango, una farfalla senza ali.

Aprì le labbra per supplicare Sai, per chiedergli di dirle che era uno scherzo. Il sorriso sulle labbra di lui era rotto e pareva domandarle scusa e infatti cercò di riparare al malanno. Corresse il tiro:

«Ma a Naruto l'ha detto Sasuke. Due anni fa.»

Lo corresse in peggio. Sasuke. Sempre lui, lui che non si accontentava di vederla ridotta in tante schegge di vetro, depositate sul pavimento di un negozio di fiori. Doveva ridurla in polvere, sabbia destinata a volare via, nel vento.

«Faresti meglio a chiedere a Sasuke, così magari ti schiarisce le idee e forse le schiarisce anche a se stesso-»

«Basta!»

Sakura trasalì nel sentire l'ordine di Ino. Aveva gli occhi lucidi e i nervi delle braccia tesi, lungo i fianchi. Con una piccola scossa, mosse la chioma bionda, arruffata dopo il sesso con Sai.

«Basta» lo supplicò. «Non è questo il modo giusto per incitarli, tesoro! È meglio se vai!»

Sai abbassò lo sguardo e Sakura capì che non avevano litigato. Avevano solo idee diverse su un argomento, una faccenda importante, e da quanto aveva intuito quell'argomento importante era proprio lei. Su una cosa almeno non si era sbagliata: l'unica persona disposta a ferirla, pur di salvarla, era proprio Ino. La vide salutare Sai con un bacio sulla guancia e sussurrargli di andare. Si sarebbero incontrati dopo cena.

Ora me ne vado anch'io.

Si sentiva il respiro pesante, un mattone piazzato alla base del collo che le impediva di alzare il petto e di abbassarlo. L'odore dei fiori poi – il calicanto, i gigli, il gelsomino – era nauseante, incastrato nelle narici. La stava soffocando.

«Non darci peso, fronte spaziosa» le sorrise Ino. La sua voce le ricordò improvvisamente sua madre. «Conosci Sai. Chissà che ha capito?»

Si trasformò nella Ino che l'aveva consolata da bambina, quella che le raccontava le favole e le diceva che era un bocciolo. Doveva solo aspettare la giusta stagione e si sarebbe schiusa nel più bello dei fiori. Solo che Sakura aveva smesso di credere alle favole quando Sasuke era fuggito da Konoha. La prima volta.

«Dai, non fare quella faccia!» la pregò Ino. Le diede un buffetto sul braccio. «Se stessimo ad ascoltare tutte le stronzate che dicono gli uomini, torneremo all'età della pietra.»

Rise da sola alla sua battuta, orrenda, e si stampò in faccia un sorriso troppo largo, al punto che sembrò avere una paralisi alla mascella. Iniziò ad aggirarsi per il negozio, passando da un'ortensia a un giglio, con frenesia. Mostrava una naturalezza che non aveva, quasi parlare in fretta e muoversi stile tornado potessero cancellare dalla mente di Sakura parole incise in lei con il fuoco. Indelebili.

«Allora, fronte spaziosa, ti serve qualcosa?» le chiese. «Non che ci restino molti fiori in serra. La grandine ha bucato i teli di protezione e rovinato i petali, quindi-»

Era troppo. Aveva sempre saputo di non possedere l'ombra di una chance con Sasuke, capito che quell'angolino di posto che reclamava nel suo cuore non era mai esistito; ma sentirselo dire così, in faccia; e sapere che Sasuke lo pensava da due anni e non si era mai degnato di dare una risposta alle sue due confessioni, un rifiuto ufficiale... Sakura sentì le gambe cedere, ogni forza prendere il volo dal corpo e abbandonarla. Dopo tutto quello che aveva fatto per lui!

«Detesto la grandine!» gridò con tutta l'energia che le restava. «È fastidiosa e testarda. Per quanto corri, cercando di sfuggire ai suoi colpi, lei ti trova e non ti lascia scampo.»

Ricordava lo sguardo di Sasuke cambiare. Avevano dodici anni e lei ignorava molte verità. “La solitudine è un dolore che non ha nulla a che vedere con l'essere sgridati dai genitori” le aveva detto. Poi la scoccata finale, la prima di una lunga serie: “Sei irritante”.

«È una persecuzione» si trovò a dire. «Quando ti picchietta in testa.»

“Tu sei come Naruto. Se hai tempo per scocciarmi, lavora su uno o due Jutsu. Francamente le tue abilità sono al di sotto di quelle di Naruto”.

«Quando rimbalza sull'asfalto.»

“Non permetterò a nessuno di fermarmi, nemmeno a te”.

«E finisce sotto le scarpe.»

“Non ho bisogno del tuo aiuto. Non provare a seguirmi.”

«Quando ammacca un ombrello nuovo di zecca.»

“Sei davvero irritante”.

«L'ho sentita battere in me.»

“Sakura”.

Solo il suo nome e uno sguardo vuoto. Poi, nel corso della battaglia, la lama della katana puntata contro di lei, Yamato pronto a deviare l'attacco.

«Nelle mie vene.»

Continuare a cercarlo, anni e anni, senza sapere dove fosse, se avesse qualcuno di cui fidarsi, qualcuno che gli guardasse le spalle, qualcuno che lo amasse almeno un'infinitesima parte di quanto lo amava lei.

«L'ho sentita pulsare sotto la pelle.»

Perché non era mai abbastanza?

«Mischiarsi al mio sangue.»

Perché a Sasuke non importava?

«E poi arrivare al cuore.»

Il Chidori. Sakura non lo vedeva, ma sentiva il crepitare delle scariche elettriche dietro la nuca, a un millimetro dalla testa.

«E una volta arrivata è stato un pugno che ha strappato atri e ventricoli dalla loro sede.»

“Sei dannatamente irritante, Sakura”.

«E mi sono sentita morire.»

Proprio al cuore doveva mirare? Quant'era assurdo che in un'illusione volesse prendersi quella parte di lei che gli era sempre appartenuta?

«Perché non può accontentarsi della pioggia e di qualche fulmine?»

Ignorandola, chiamandola debole, facendola sentire quella stupida nullità che lei non era. Sapeva di non esserlo!

E intanto Ino la guardava, con le braccia colme di fiori recisi. Narcisi e gigli, gli stessi che Sakura portava a Sasuke in ospedale nei periodi di ricovero, un simbolo di speranza. La guardava con gli occhi lucidi, ma senza togliersi quel sorriso sciocco che voleva protrarre l'illusione.

Andava tutto semplicemente e splendidamente bene.

«Fronte spaziosa, ma che stai dicendo?» le chiese.

La sua domanda le parve una supplica, la richiesta di lasciar perdere e accontentarsi al triste fluire di ogni giorno, senza scavare più a fondo, senza togliere dalle sabbie che la proteggevano la mummia della verità, perché a volte si stava meglio a non sapere. Viveva meglio chi ignorava.

«È solo ghiaccio che scende dal cielo.»

Ma Sakura era stufa di nascondere la testa sotto il lenzuolo. Era stanca di fingere ogni giorno di essere felice, quando non lo era. Davanti ai suoi amici, per non farli preoccupare; davanti a Sasuke, per non essere disprezzata; davanti a se stessa per non credersi patetica. Era arrivato il momento di dire chiaro e tondo quale fosse la realtà delle cose.

«No, Ino. Non è quello. Non è solo ghiaccio. È qui, lo vuoi capire?»

Prese la maglietta all'altezza del seno e la tirò, come se assieme al brandello di stoffa rossa avesse voluto strapparsi via lo stesso cuore. Ecco la fonte di ogni suo problema: quello stupido organo mal funzionante, la sede di sentimenti sbagliati, il bersaglio preferito di ogni chicco di grandine, di ogni sasso. E lei tirava ancora il maglioncino, affondando le unghie nelle maglie troppe larghe che lo componevano e arrivando a graffiare la pelle del petto.

«È qui» ripeté. «È qui ogni volta che lo vedo, perché lui è come la grandine in questa stupida stagione d'estate. Non fa che tornare ad annientarmi, persino quando è lontano. E mi uccide con i suoi sguardi, con le parole che vorrei sentirmi dire e non mi dirà mai, mi buca l'anima come tanti e interminabili proiettili di ghiaccio. E sai cos'è peggio?»

Ino lo sapeva benissimo cos'era peggio, ma continuava a ignorarla. Si girò verso un tavolo colmo di fiori e lasciò cadere i narcisi e i gigli che stava cullando nelle sue braccia, solo una scusa per non guardare quella povera malata d'amore che piangeva e si disperava e cercava di cavarsi via il cuore. E forse le faceva pena, oppure le spiaceva, perché Sakura sapeva che Ino ci teneva a lei. Ci teneva sul serio. E infatti le spalle tremavano in maniera quasi impercettibile, segno che stava per cedere, stava iniziando a vedere il problema, a capire che quando Sakura le diceva “sto benone, la cotta per Sasuke mi è passata, siamo solo amici, meglio così, no?” non faceva altro che mentire; costretta ad accettare quel che aveva sempre saputo, ma preferito ignorare: c'erano amori così forti da poter spazzare via con l'intensità di un battito l'anima di una persona, da poter rompere con la loro tenacia e insistenza anche il cuore più sano.

«Non staremo parlando di Sasuke, spero» disse.

Sakura non l'ascoltò e continuò per la sua strada:

«Il peggio è che ogni volta io glielo lascio fare. Mi illudo che cambierà e  nel suo cuore troverà un piccolo posticino per questa stupida ragazzina innamorata.»

Era evidente invece che non sarebbe mai successo. Il confronto con Ino e Sai aveva avuto il merito di illuminare i sentimenti che Sasuke nutriva nei suoi confronti. Certo che ammetterlo ad alta voce non aiutava, anzi quello sfogo, corredato di un pianto con abbondanti lacrime, l'aveva svuotata. Alla fine le gambe cedettero e lei si ritrovò seduta sul vaso di una grande mangiafumo. La terra, bagnata, le inumidì i pantaloni grigi che indossava e la fece tremare per il freddo, senza che lei trovasse la forza di alzarsi. Studiò invece la punta dei piedi, non sapendo più che dire, non sapendo più che fare, vergognandosi della scenata che si era appena svolta davanti a Ino.

Quando alzò lo sguardo, trovò la sua migliore amica davanti a lei, accucciata a terra perché le loro teste fossero sulla stessa linea d'aria.

«Sakura, lo sai qual è il bello della grandine?» le chiese.

Non aveva più gli occhi umidi e la voce non era canzonatoria, da civetta. Le prese invece entrambe le mani e le racchiuse nelle sue.

«Il bello della grandine, Sakura, è che dura un secondo e subito dopo viene il sereno. Lo hai aspettato per anni. Ti sei presa sulla testa secoli di secchiate gelide, e ora che il sereno sta comparendo all'orizzonte, dichiari sconfitta?»

Ma che stava dicendo? Sakura corrugò la fronte, smarrita. Ino avrebbe dovuto darle man forte, insultare Sasuke, consolarla con i classici “quello lì è una causa persa, lascialo stare, meriti di meglio”; non consigliarle di sistemare le ferite con una confezione di cerotti e ributtarsi nella mischia.

«Hai pianto per lui ogni notte della tua adolescenza» continuò a dirle. «Hai saputo amarlo anche quando sarebbe stato giusto odiarlo. E se credi che siano vere tutte quelle stronzate che si leggono nei libri, che amare significa non dire mai mi dispiace, allora sei più idiota di Naruto.»

Aprì bocca per ribattere che non era così, non era vero. Se si amava una persona, bisognava impegnarsi per non ferirla e Sasuke invece le faceva male, di proposito.

«Tutti sbagliamo, Sakura, e amare vuol dire avere la forza di ammetterlo, rimettersi in gioco, calare ogni carta pur di riottenere la fiducia dell'altro-»

«Ma a Sasuke non importa nulla della mia fiducia, Ino!»

Perché non lo capiva?

«Lo hai detto tu, ricordi?» Strinse ancor di più le sue mani, quasi avesse voluto passarle tutta la sua convinzione, tutta la sua forza. «È come la grandine. È testardo e duro. Ed è una persecuzione. Perché potrebbe anche essere morto, seppellito sotto quintali di terra, ma non sapresti comunque lasciarlo andare. La sua presenza ti tormenterebbe ogni giorno. Quindi sì, è corretto dire che ti è entrato sotto la pelle, si è mischiato al tuo sangue ed è arrivato al tuo cuore. Non importa in che modo. Sasuke è lì e non se andrà.»

Sakura sentì le lacrime riprendere a scorrere sulle guance, silenziose. Le labbra tremarono nel tentativo di formulare una risposta, ma mai Ino le aveva fatto un discorso tanto vero. Che altro doveva combinare Sasuke perché lei imparasse a odiarlo e riuscisse a levarselo dalla testa?

«Vedi, Sakura, se vuoi che ti dica quel che penso,» lo avrebbe fatto comunque, vero? «Ora come ora, per come ti guarda, non credo nemmeno voglia andare via.»



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Capitolo 5
*** V ***


V.



Pensi mai al futuro, Sasuke-kun?

Stronzate“.


Io ci penso sempre. Penso alle cose e alle persone che vorrei”.

Il futuro non è importante, Sakura”.

 

Se non lo è il futuro, che altro?”

Il presente”.

 

Ma il presente è adesso, Sasuke-kun!”. E adesso sei qui, con me. Lo ritieni importante?

 Adesso. L'importante è adesso”.



Le aveva detto quelle parole il dicembre passato, mentre cercava di convincerlo ad andare a una cena organizzata da Naruto e Hinata. Avevano camminato per strada, a mezzo metro di distanza, e poi Sasuke si era seduto. Su quella panchina. La fatidica panchina. Se lei si era lasciata cadere al suo fianco, la colpa doveva venir data alle gambe, incapaci di sostenerla. Aveva scelto una panchina a caso, Sasuke, senza ricordare che assieme a quegli strati di cemento erano fusi momenti del loro passato.


E lì Sakura aveva iniziato a riflettere sulla piega degli eventi, sullo scorrere del tempo, su quello che erano stati e quello che sarebbero diventati. E aveva chiesto a Sasuke se si preoccupasse mai del futuro; per ascoltare una risposta spiazzante: se non pensava al futuro, non pensava nemmeno a lei, a renderla parte della sua vita.


L'importante è adesso, poi, detto da lui, non voleva dire nulla.


Dopo aver salutato Ino ed essere uscita dal negozio di fiori, il cervello di Sakura era passato all'azione e le era parso che il vero senso di quel discorso le sfiorasse la mente, senza che lei riuscisse a coglierlo a pieno. Allora corse fino alla panchina, e si mise al posto di Sasuke, sperando di riuscire a calarsi nei suoi panni, a captare i suoi ragionamenti. Infreddolita per colpa di quel luglio traditore, ripercorse ogni tappa della loro “storia”.


Ancora Sasuke, le aveva detto Shikamaru, ricordandole che quando si veniva ai sentimenti era sempre e solo lui.


È dietro l'angolo. Devi solo aspettare. Aspetta ancora un po', aveva suggerito Naruto.


Ora come ora, per come ti guarda, non credo nemmeno voglia andare via. E da Ino era arrivata la scoccata finale.


La spingevano tutti a crederci, a illudersi che potesse essere suo. Quant'era bello crederci? Quant'era bello illudersi? Vedersi fianco a fianco della persona che aveva sempre amato?


Poi però c'era Sai:


Non è colpa sua, se l'Uchiha non vede alcuna ragione per amarla.


Al diavolo Sai, che di sentimenti aveva sempre capito poco e niente!


C'erano miliardi di ragioni per amarla! Ma che diceva? Miliardi di infinità di infinità di miliardi per volerla al suo fianco! Perché per lui c'era sempre stata, perché per lui si era annullata, perché lo aveva sempre aspettato, perché lo avrebbe perdonato, anche se l'avesse uccisa. E se Sasuke non li vedeva questi miliardi di infinità di infinità di miliardi, allora era uno stupido cieco e il suo Rinnegan non serviva proprio a niente.


«Glielo dico io» si alzò di scatto dalla panchina, illuminata da una rivelazione che era sempre stata con lei. «Corro a dirglielo io. Gliele dico tutte, le ragioni per cui dovrebbe amarmi. Io-»


E ancora prima di finire la frase iniziò a correre. Doveva vederlo. Doveva vederlo subito. Avevano perso un sacco di tempo, da bravi scemi, e non potevano più perderne. Perché stavano per compiere vent'anni ed era arrivato il momento di smetterla di sopravvivere e di imparare a vivere davvero. Perché aveva ragione Sasuke: l'importante è il presente e il presente è adesso.


E lei voleva esserci nel suo presente; e voleva essere anche nel suo futuro e nella sua eternità. Doveva dirglielo che era la donna giusta per lui, doveva prendere l'iniziativa, fare un ultimo tentativo. Non le sapeva tenere zitte quelle stupide emozioni, non aveva mai saputo farlo ed era arrivato il momento di smetterla di fingere di essere un'altra. Lei era Sakura Haruno e Sakura Haruno amava Sasuke Uchiha. Lo sapevano tutti, anche la grandine, quella stupida grandine che aveva ripreso a scendere dal cielo.


Il rumore dei chicchi sull'asfalto era uguale al pum pum del suo cuore, quando lo vedeva sedersi al banco in classe o durante gli allenamenti con il team 7. Era un battito senza interruzione che le ricordava tempi del loro passato: i mezzogiorni di primavera in cui bussava alla sua porta per chiedergli di uscire a pranzo, i secchi “no” che riceveva in risposta, talmente determinati da suonare alle sue orecchie come una melodia. No. No. No. No.


E infine, la fitta che scricchiolava nel suo petto, nel sentire mille e mille rifiuti, ma anche la speranza che si ostinava a non abbandonarla e le premeva sulla gola, fino a farla morire dalla voglia di gridare che sì, lei amava Sasuke Uchiha e per sempre lo avrebbe amato. E un giorno – ne era certa – anche il suo cuore d'acciaio avrebbe emesso piccoli battiti e si sarebbe sciolto, scaldato dal tepore di sentimenti che non poteva più negare.


Così Sakura ascoltava il rumore dei sandali che battevano sull'asfalto e si sincronizzavano ai chicchi di grandine, e d'improvviso quelle sfere di ghiaccio che tanto aveva odiato non le sembrarono più ostili, ma sue complici.


Qualsiasi cosa accada, io ti amerò per sempre.


Non erano state sue queste parole? E non se le sarebbe rimangiate, mai e poi mai, per nulla al mondo. Perché Sasuke era la sua debolezza, ma anche il maggior punto di forza.


L'aveva incoraggiata, insegnandole a mettersi in piedi da sola, dicendole che doveva diventare forte; l'aveva protetta, mille e mille volte; aveva detto a Naruto che era importante; l'aveva ringraziata; l'aveva cercata; aveva accettato la sua presenza.


E io da stupida ho preferito rassegnarmi, per paura di soffrire.


Glielo dico io, continuava a ripetersi; glielo dico io che sono la scelta giusta, che anche lui può imparare ad amarmi! E correva a perdifiato per le vie di Konoha, come una matta, ridendo e piangendo e gridando ogni venti passi che lo amava; felice come non lo era da secoli; viva come non lo era da secoli; perché aveva riscoperto in lei quel sentimento, dato per spacciato, che finalmente stava ritrovando la speranza.


Arrivò alla casa di Sasuke, un traguardo che sembrava lontanissimo, per quanto vicino, non vedendo l'ora di fare la figura della pazza, di tentare il tutto per tutto, di bussare e fiondarsi nelle sue braccia e dirglielo, confessargli ogni cosa.


Ma poi l'incanto svanì. All'improvviso terminò la fantasia che per Sakura altro non era stata se non un sogno ad occhi aperti. Smise di volare quando un “ancora” ruppe il silenzio, seguito da un gemito di piacere.


Non può essere vero.


Lo era. Un altro gemito e un altro “ancora” le diedero la conferma. Rimase imbambolata in mezzo alla strada, un'ombra di se stessa. Se non se ne andava, non era perché volesse ascoltare. Le stracciava il cuore sentire quelle grida di piacere. Solo non aveva più il controllo. Si era ridotta a fasci di nervi, muscoli, brandelli di pelle, pezzi di corpo scoordinati. Andavano ognuno per la propria strada, senza più formare quell'unità che fino a pochi secondi prima rispondeva al nome di Sakura Haruno.


Perché lo ha fatto?


E poi c'era la grandine, qualche acino solitario che si ostinava a rimbalzare sul cuoio capelluto. La stessa grandine che aveva creduto sua complice, alleata, e invece l'aveva tradita.


Sporca traditrice. Dannata. Sei davvero come lui. Voi due siete, siete-


Crollò in ginocchio e rimase a fissare la finestra del salotto con occhi sbarrati. Sulla tenda bianca si proiettava la luce gialla dell'abat-jour, rotta da un'ombra nera, una testa di donna che si muoveva e gridava nel raggiungere l'orgasmo. Sakura la guardava e riconosceva i capelli di Karin, il taglio all'ultima moda, con la scalatura alta; la punta del naso dritta e il profilo delle labbra, dischiuse per il piacere.


Che scema! Che scema! Che scema!


Quante volte se l'era ripetuto in quei giorni? Quante volte per colpa di Sasuke?


Io ero venuta qui per dirti che ti amo, sempre e nonostante tutto, e tu invece... perché non hai scelto me?


Si raggomitolò a chiocciola, con la fronte schiacciata sull'asfalto del cortiletto, finché i gemiti non finirono e gli “ancora” di Karin smisero di risuonare per la strada. E Sakura intanto cercava di mettere fila ai suoi pensieri, di decidere che fare. Perché doveva pur esserci qualcosa in grado di rimetterla in piedi, vero? Qualcosa che riuscisse a cancellare il dolore di quel corpo scoordinato che non funzionava più? Qualcosa che zittisse quei gemiti e quegli “ancora” che le inchiodavano la testa?


Sakè.


Era il bar preferito di Tsunade, quello che teneva aperto tutta la notte; quello dove si giocava d'azzardo; quello dove si perdeva e si vinceva, facendosi fregare e barando. A Sakura non importava. Voleva solo distruggere il suo cervello e i suoi ricordi. Sì, soprattutto i ricordi. Voleva annegarli. Sasuke chi? Sasuke non era nessuno. Non aveva mai conosciuto anima viva che portasse il nome di quel bastardo.


Che stupido! Che stronzo!


Ma la vera stupida era lei. Dopotutto, chi si era lasciata fregare dai discorsi di Ino e Naruto? E così bevve, come nemmeno Tsunade sapeva fare. Aveva scelto il posto giusto, tra l'altro, perché quando cadde dallo sgabello al bancone nessuno scoppiò a ridere, nessuno la guardò con pietà. Il barista le porse un'altra bottiglia.


«Bevi, piccola. Così ti raddrizzi.»


Eseguì alla lettera, pagò e se ne andò.


Oh, chi diceva che l'alcol aiutava a risolvere i problemi non doveva mai avere avuto niente a che fare con il re dei problemi per eccellenza: Sasuke Uchiha! Sakura, alla quarta bottiglia di sakè, vedeva il mondo girare come tanti pulviscoli di neve in una sfera natalizia. A tratti il pavimento era in cielo, a tratti in terra. Ma nonostante alberi e muri si ostinassero a muoversi, c'era sempre Sasuke davanti ai suoi occhi. Stupido, stupido, Sasuke. E stupida lei che aveva dimenticato al bar la quinta bottiglia di sakè. Quattro non erano abbastanza per toglierselo dalla testa. Quattro non erano abbastanza per scordare quel che le aveva fatto.


Represse un singhiozzo e chiuse gli occhi per impedire alle lacrime di tornare a fluire sotto le palpebre. Camminò verso casa, ora sorreggendosi al muro, ora procedendo a passi da formica. E quando vi arrivò dovette premersi una mano sulla bocca per non scoppiare a ridere e svegliare il vicinato: c'era un grande, enorme, gigantesco gatto nero e bianco, acciambellato sullo zerbino all'ingresso.


«Micio, micio, micio» sussurrò.


Ma poi il “gatto” la sentì e si mise ritto. Sakura si avvicinò e vide meglio. Si liberò delle lenti dell'alcol. Era davvero troppo grande per essere un gatto. E troppo bello. Troppo fottutamente bello per incazzarsi con lui.


«Grandinava» le disse per giustificare la presenza davanti alla sua porta.


E non miagolava neppure. In automatico, Sakura si passò una mano tra i capelli. I riflessi non risposero al suo volere: scappare, darsi alla macchia. Perché se quel grandissimo stronzo si fosse avvicinato, avrebbe potuto ridurlo in poltiglia a suon di pugni. Con Karin. Che schifo! Un conato di vomito arrivò al palato, ma Sakura si fece forza e deglutì, ricacciandolo nello stomaco.


«Stupido» disse in un sussurro.


Non seppe se l'insulto arrivò alle sue orecchie. Il volto di Sasuke rimase imperturbabile.


«Sei un brutto stupido» continuò a bisbigliare.


Con che coraggio si presentava da lei, dopo quello che aveva fatto? Perché ripararsi dalla grandine sotto la tettoia di casa sua? Che tornasse da quella puttana di Karin! Che andasse dal suo grande amicone Naruto, lui che lo difendeva sempre! E invece no. Si divertiva troppo a spezzare il cuore a quella stupida deficiente che si trovava davanti!


«Sono passata da te, per parlarti» gli gridò contro. Con rabbia. «Perché volevo dirti tante cose e tu-»


«Karin e Suigetsu hanno occupato il salotto» la interruppe.


Le cadde il mento e un nugolo d'aria fresca scese in gola, svegliando il cervello. Le parole di Sasuke le riecheggiarono in testa, un disco destinato a ripetere il ritornello di una canzone. Un ritornello bellissimo. Karin e Suigetsu. Occupato il salotto. Ma allora...


«Karin e Suigetsu? Sul divano di casa tua erano Karin e-»


Si trovò con gli occhi pieni di lacrime e di pioggia, e sperò che l'acqua del cielo riuscisse a coprire e nascondere l'acqua che proveniva dal suo cuore. Perché doveva essere sempre così debole e sciocca davanti a lui? Karin e Suigetsu!


«Chi altri?» lo sentì chiedere.


Sakura avrebbe voluto liberarsi di ogni inibizione e correre da lui, prenderlo a pugni, forte, sul petto, perché forse così quel cuore insipido sarebbe uscito dal suo letargo e avrebbe imparato ad amarla. Un pugno dopo un altro, sempre, sempre più violentemente. E poi avrebbe voluto baciarlo, sulle guance, sulla punta del naso, sul collo, sulle labbra. Baciarlo ovunque, e dirgli che lo odiava e lo amava. Lo amava così tanto che lo odiava e viceversa, lo odiava così tanto che lo amava. E ad onor del vero non aveva importanza se lo amasse o odiasse. Quel che importava era che lo voleva, sulla sua pelle, nelle sue braccia, dentro di lei. Voleva essere piena di lui, dei suoi pregi e dei suoi difetti, dei tratti che conosceva e di quelli che ignorava. E non voleva lasciarlo andare, non reggeva il pensiero di una nuova separazione. Se Sasuke poi avesse deciso di sua spontanea volontà di allontanarla, gli avrebbe ricordato che lo amava e nessuno avrebbe potuto amarlo quanto lei. Allora perché non permetterle di entrare nel suo mondo e mostrarle un briciolo di gratitudine -


«Hai bevuto.»


- invece che disprezzo?


Sasuke la fissava con una smorfia severa e di rimprovero, quasi di disgusto, visto che aveva appena affogato il dolore in una sbronza da adolescente, lei che era diventata adulta all'età di tredici anni.


«Indovina di chi è la colpa?» si trovò a dirgli.


Aveva ancora il sapore del sakè incollato alla gola. Che maledizione l'alcol! Quasi peggio di Sasuke.


Che poi a pensarci sakè e Sas'ke erano molto simili come suoni, e quindi sì, era sempre lui, sempre sua la colpa. E non aveva il diritto di guardarla storto, quasi fosse una poveretta, una disgraziata tutta matta da compatire. Non doveva permettersi di giudicarla brutta o pietosa solo perché la testa le girava e voleva vomitare, o perché gocce d'acqua la ricoprivano da testa a piedi, colavano in piccole pozzanghere dai suoi capelli, attaccati alla fronte. Non doveva permettersi nemmeno di superarla e di voltarle le spalle...


«Sasuke-kun, che fai?»


... né di lasciarla. Cazzo, quello era proprio un vizio!


«Dove stai andando?» gli urlò dietro, fregandosene del tono troppo alto.


Altro che vizio, era una ripetizione continua di quella sottospecie di rapporto che lei, nella sua mente deviata, si ostinava a definire “storia”.


«Già» continuò a dire. Un sorriso amaro le gelò il viso. «Scappi. Per forza. È l'unica cosa che sai fare!»


Gli elementi c'erano quasi tutti. Per l'occasione aveva perfino smesso di grandinare e la luna era comparsa tra i rami di due vecchi aceri. Mancava la panchina, ma i gradini davanti al portoncino di legno si sarebbero sicuramente offerti di sostituirla. E poi c'era anche Sasuke – soprattutto Sasuke! - Sasuke che si era fermato nel sentire la sua voce. Come da copione.


«Come finirà questa volta?» si domandò in un sussurro.


Un colpo alla nuca, un'illusione o un omicidio?


«Vai a dormire, Sakura. Domani-»


«Domani un bel corno, Sasuke-kun! Fa in fretta Ino a dirmi che anche per noi ci sarà il sereno, ma chi voglio prendere in giro? Non esiste nessun noi. E pensare che ho fatto di tutto per vederti felice, persino quando sapevo di non potere fare niente.»


«Domani, Sakura.» Ne parliamo domani.


«Domani cosa? Lo vedi? Tu non mi dici mai niente, perché non puoi provare anche solo ad accettarmi? Scusa, dimenticavo. Per quale ragione dovresti innamorarti di me?»


Lui si bloccò. Paralizzato, spiazzato, identico a una statua di neve. Un paragone divertente: a forza di colpirla con scariche di grandine era diventato di ghiaccio come la grandine stessa. Solo un leggero tremore alla gamba sinistra dimostrava che dietro quello strato di cemento si nascondeva un essere vivente; una creatura persa nei suoi pensieri. Sakura ignorava quali cazzate di stampo Uchiha stesse macinando in testa. Però si sentiva bene. Si sentiva benissimo, ora che gli aveva sputato il rospo in faccia.


No, non era vero. Stava a pezzi, come se un branco di rinoceronti l'avesse calpestata e martoriata, privandola delle braccia e delle gambe, di ogni organo all'infuori del cuore. Quello stupido cuore che, nonostante l'anestesia dell'alcol, continuava a soffrire.


Finché le spalle di Sasuke si sciolsero, prive di quei pesi che l'avevano bloccato.


«Non serve una ragione» le disse.


O forse lo stava dicendo a se stesso. Sembrava ripetere nella sua testa parole che qualcuno, in un passato lontano, doveva avergli rivolto. E sembrava finalmente capirle.


«Solo per odiare serve una ragione» aggiunse. «Non per amare.»


Sakura invece non capiva. La testa le faceva male. Martellava. Emetteva scariche di elettricità che le trapassavano le tempie. L'unione di alcol e Sasuke era un'arma letale e non riusciva a pensare, né tanto meno a ricordare con precisione le parole che aveva pronunciato.


Una ragione, per non odiare, o forse era per non amare. Che cavolo!


«Insomma che significa?» lo gridò. Alla notte. A se stessa. A Sasuke.


E Sasuke non prese bene quel moto d'ira. Si girò verso di lei, stizzito. Con lo stesso broncio incazzato che gli corrugava la fronte quando da dodicenne litigava con Naruto. Ma ora non aveva più dodici anni e la sua incazzatura era diversa. E c'era il Rinnegan lì, che la fissava; e Sakura sapeva che avrebbe dovuto avere paura.


«Credi sul serio sia stato Kakashi a dirmi di cercarti, l'altro giorno?» le gridò contro.


Denti digrignati e pugni serrati rivelavano il suo fastidio. Quanto a lei, lei non voleva illudersi, leggere in quelle parole più di quanto vi fosse.


«Ma allora perché-»


Fu interrotta da un suo sbuffo. Un sorriso arrogante gli comparve in viso, il classico ghigno da prendere a schiaffi. E invece Sakura ebbe paura. La ebbe sul serio. Perché aveva già visto quel sorriso sul volto di Sasuke e sapeva benissimo cosa stava per dire:


«Sei davvero e dannatamente irritante.»


Mosse un passo indietro, con il respiro bloccato in gola e la mano portata al cuore, per salvarlo nel caso ci fosse andato di mezzo; e arretrò ancora. Avrebbe voluto avere la schiena contro il muro, così Sasuke non le si sarebbe materializzato dietro e non l'avrebbe colpita. Come quella volta.


Lui però era ancora lì, davanti a lei che era scoppiata in un fiume di lacrime. Ancora lì, con lo sguardo forte e severo e il sorriso un po' diverso da come lo ricordava, più inarcato verso l'alto, meno malinconico. Un sorriso che le labbra di Sasuke scomposero per pronunciare parole che Sakura non si sarebbe mai aspettata:


«Ma voglio sopportarti.»


Fu un tuffo al cuore. Voglio. Già, perché gli Uchiha erano dei grandi egoisti, Sakura lo sapeva. Perché prendevano sempre quello che volevano, arrivando direttamente al punto, senza degnare gli altri di una spiegazione o chiedere il permesso. Perché l'importante era il presente e il presente era adesso, quello stesso adesso che loro due stavano condividendo.


Ma Sasuke non aggiunse altro. Si girò, di nuovo, e mosse due passi, imboccando la via che l'avrebbe riportato a casa, da Karin e Suigetsu. Sakura sentì la bile montarle alla testa, rabbia fusa, sciolta e mischiata al sangue e ai quinto-litri di sakè che aveva bevuto.


«Tu! Tu! Tu sei irritante!» gridò tra i singhiozzi. E agì. Gli tirò il sandalo, dopo esserselo tolto dal piede, barcollando. Lo colpì. Secco, sulla scapola sinistra. «Sei la persona più insopportabile di cui mi potessi innamorare. Sasuke Uchiha, ti avverto! Non osare muovere un altro passo, oppure io-»


La schiena sbatté contro il muro, accanto alla porta d'ingresso del monolocale. L'avambraccio di Sasuke premeva sulla sua gola ed entrambi gli occhi erano in bella vista, Rinnegan e Sharingan. Pronti a uccidere. Sakura deglutì e sentì la saliva scendere a fatica in gola. Ecco, era fatta. Era spacciata. E pensare che lo amava. Gran cosa morire così.


Ma che gran cosa! È un vero schifo!


Ma se proprio doveva morire, allora avrebbe scelto la morte più dolce di tutte, la più meritevole.


E se è vero che la fortuna aiuta gli audaci...


Premette le labbra contro le sue, trattenendo il respiro, chiudendo gli occhi. E si rilassò, pronta ad accettare il destino che gli dèi avevano per lei in sorte, qualunque esso fosse. Sapeva di buono, Sasuke, di cose amare: menta e caffè. Non avrebbe voluto staccarsi, ma lui era immobile, non rispondeva e lei non poté far altro che arretrare, lasciare mezzo centimetro tra le loro labbra. Intimorita e spaventata, ma felice. Quando riaprì gli occhi, l'iride dello Sharingan era di nuovo nera:


«Stupida.»


Ma cosa?


La tirò verso di sé, con forza, e la schiacciò al suo petto, costringendola ad alzare il mento perché le loro bocche fossero di nuovo un tutt'uno, una cosa sola, una fragranza divina di sakè, caffè e menta.


E improvvisamente Sakura capì perché Temari si fosse fatta miliardi di chilometri sotto la tempesta. Per quel brivido che anche lei stava provando, per quel brivido che le labbra di Sasuke liberavano e dalla lingua scendeva nella gola e minacciava di farle esplodere il cuore. E poi andava sempre più in giù, per bloccare i polmoni e toglierle il respiro e scendeva di quota, fino alle gambe. Sakura le sentiva cedere, ma sapeva benissimo che non sarebbe caduta in una pozzanghera di fango e ghiaccio, perché le braccia di Sasuke la stringevano forte, ai fianchi.


E fu tutto limpido.


Capì che da lui non avrebbe mai avuto un chiaro “mi dispiace”, né un “perdonami, sono stato un coglione”, figurarsi un “ti amo”. C'erano però quelle due parole che continuavano a riecheggiarle in testa: voglio sopportarti. Ed era questo che le bastava: il volere. Perché per la prima volta in tutta la sua vita Sasuke Uchiha era lì, con lei, e non per un'imposizione di Kakashi o perché combattevano la stessa guerra. Sasuke Uchiha era lì, con lei, per un suo stesso desiderio, espresso con parole inequivocabili. Voglio sopportarti. Accettarti, vederti come la donna che sei, starti accanto, colmare ogni giorno della tua presenza. O forse erano i fiumi dell'alcol a farla fantasticare? Forse era lei che riempiva di significato due parole dette con lo scopo di metterla a tacere?


«Non te ne andrai, vero? Non andartene!» lo scongiurò.


Attese una risposta, un filo di speranza al quale stringersi con tutte le forze. Si augurava solo che Sasuke non avesse un paio di forbici per reciderlo, perché se fosse caduta, non avrebbe saputo rialzarsi.


Ma adesso una parte della sua mente lo capiva: era Sasuke che si stava aggrappando a lei, affondando le dita in quell'orrendo maglioncino rosso, sformato e troppo largo, cercando sotto le trame di lana intrecciata le scapole e la schiena, scoprendo che i loro corpi si incastravano alla perfezione, come se quelle stesse divinità, dopo mille tormenti e derisioni, li avessero plasmati per essere una cosa sola. Lo pensava Sakura e se ne convinceva sempre più, anche quando le labbra di Sasuke interruppero quel bacio scomposto e poco casto e si staccarono dalle sue:


«Mai» lo sentì dire.


Mai. Non esisteva parola più bella e dal suono più armonioso per le orecchie di Sakura. Di nuovo gli occhi le si riempirono d'acqua, ma questa volta era acqua di gioia, non di dolore, un liquido così ricco di sentimenti positivi e di felicità e di euforia che poteva lavare via anche la sofferenza più immensa.


«Per sempre?» gli chiese.


Sasuke la strinse ancora. Accarezzò con la punta delle dita i capelli rosa, più lunghi di come li portava due anni prima, e spinse la testa nell'incavo del collo. Sakura non poteva vedere il suo viso, ma voleva immaginare un sorriso di soddisfazione e sollievo su quelle labbra sottilissime.


«Sempre» le giurò.


Allora anche Sakura sorrise, senza aprire gli occhi per la paura di vedere la federa azzurra del suo cuscino e scoprire di avere soltanto sognato. Chiuso nelle palpebre, voleva custodire quell'amore a intermittenza, impacciato e inesperto che il cuore di Sasuke le stava donando. Voleva proteggerlo, come una madre il figlio, nutrirlo e annaffiarlo, giorno dopo giorno, recidendo i rami secchi, togliendo i parassiti, accarezzando ogni bocciolo, un futuro splendido fiore.


Sapeva che ci sarebbero state altre scariche di grandine, fastidiosi chicchi di ghiaccio che l'avrebbero colpita, e sapeva benissimo che Sasuke non avrebbe mai smesso di ferirla. Con la sua rudezza. Con la sua caparbietà. Con i suoi silenzi.


Ma in quell'istante sapeva anche che Ino aveva ragione. In natura dopo la grandine veniva il sereno e lei, quel sereno, era pronta a viverlo. Per sempre.


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Buonasera a tutti, so che in molti avranno rinunciato a questa storia e, molto probabilmente all'altra (Binomio). La mia è una piccola comparsa su EFP, poi scomparirò per un altro po'. Lavoro (la mia prima maturità dall'altra parte), studio, ancora studio, di nuovo studio e un briciolo di vita privata. Così EFP è passato in ultima posizione e avevo deciso addirittura di eclissarmi nel nulla, finché durante ricreazione ho sentito due miei allievi parlare proprio di Naruto e ho pensato che pubblicare l'ultimo capitolo di Grandine (considerato che la storia è finita da più di un anno) non avrebbe guastato. 


Ringrazio tutte le persone che mi hanno sostenuta fino a questo momento, spero che l'editing funzioni (ho cambiato programma). Ringrazio anche le persone che recensiscono e hanno sempre recensito (e a molte devo ancora rispondere). Spero un giorno di tornare a completare l'altra storia iniziata, quando la vita mi darà un attimo di tregua (forse mi toccherà aspettare la pensione). 


Grazie ancora a tutti


Odiblue

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