Grandine di Odiblue (/viewuser.php?uid=593391)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***
Capitolo 4: *** IV. ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 1 *** I. ***
Nome Account Forum / Efp:
Odiblue
Titolo storia: Grandine
Coppia principale:
Sasuke - Sakura
Rating: Giallo
Introduzione:
“Mentre guardava la grandine scendere nel cortile dei Nara,
non
poteva che paragonarla a Sasuke. Era bella – bellissima! - in
ogni acino di ghiaccio che martoriava il lastricato, bianca come la
pelle di lui, eppure, nonostante avesse il colore della purezza,
dannatamente pericolosa. Difficile da sciogliere, impossibile da
scaldare “. La storia partecipa al contest “NARUTO
the
movie: la vita e l'amore”, indetto da manga, sasuk8 e meryl
watase, sul forum di EFP.
Avvertimenti: La
seguente storia non prende in considerazione gli avvenimenti successivi
al capitolo 695.
Genere: Generale,
introspettivo, romantico.
Note: What
if?
Disclaimer:
questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di
Masashi Kishimoto. Questa storia è stata scritta senza scopo
di
lucro.
Dedico questa fanfiction,
in modo molto spontaneo,
al procione,
colui che con i suoi "mi faresti una sasusaku?",
nonostante i miei "ma ho già una long in corso",
alla fine mi ha convinta a scriverla. ♥
Grandine
I.
Era una fredda
giornata d'estate e a Konoha pioveva. Shikamaru aveva appoggiato la
scacchiera da shogi
sul pavimento dell'engawa.
Sottili fili d'acqua scendevano dal cielo e bagnavano il cortile.
Sakura, avvolta in un maglioncino rosso, due volte la sua taglia,
fissava la griglia a nove righe e nove colonne in cerca di una
trappola. Per qualche assurdo motivo, Shikamaru aveva mosso l'alfiere e
non la tessera del Generale Oro. Lei era ancora una novellina e spesso
si perdeva in quella confusione di ideogrammi giapponesi, frecce,
tattiche e tranelli mentali.
“Perché
cavolo ha
mosso l'alfiere?” si chiedeva. “Me l'ha insegnata
lui la
mossa del Generale Oro e allora perché non metterla in
pratica?”.
Ignorava la risposta
al dilemma,
ma aveva una certezza: non si trattava di un errore, bensì
di
una scelta calcolata. Probabilmente Shikamaru voleva farle credere
fosse uno sbaglio, per poi coglierla di sorpresa, quando meno se
l'aspettava.
Era da circa due mesi
che
giocavano assieme, da quando scariche di grandine improvvise avevano
costretto l'intera Konoha a rassegnarsi: la bella stagione non sarebbe
arrivata. E pensare che si trattava di un'estate attesissima, la prima
dopo anni di duro lavoro per rimettere in piedi il villaggio!
A guerra finita
c'erano stati gli accordi di pace, le assemblee tra Kage per giudicare
i nukenin,
liti e dissapori, con duelli e qualche pugno di troppo in conclusione.
Sakura si era immersa a pieno nel lavoro. Per un medico la vera guerra
non iniziava con l'invasione del nemico. Iniziava dopo, quando i
soldati potevano dire “È finita”, mentre
i dottori
sospiravano con un “Forza e coraggio! Si
continua!”.
Stanchi, ma determinati ad andare avanti.
Così
Sakura aveva lasciato
che la piega degli eventi seguisse un corso autonomo, senza
preoccuparsi di riallacciare vecchi rapporti perduti, chiarire tentati
omicidi, incazzarsi per illusioni che le avevano strappato il cuore dal
petto. Letteralmente. Avvolta da una bolla di responsabilità
e
senso del dovere, si era spaccata la schiena, correndo dai letti dei
feriti alla sala operatoria, fino a quando il lavoro non era diminuito
e Konoha aveva imparato a rimettersi in piedi.
Intanto Sakura aveva
visto due
anni di vita volare davanti alla punta del suo naso, senza riuscire ad
acciuffare un attimo degno di essere definito
“ricordo”.
Per ventiquattro mesi era rimasta inchiodata al punto di partenza e non
aveva mosso un unico passo verso la linea del futuro. Non con gli
allenamenti. Non con gli studi medici. Non con i suoi amici. Non con
Sasuke.
Con la
metà di maggio
Tsunade l'aveva informata che le loro giornate all'ospedale sarebbero
state più leggere e avrebbe potuto prendersi perfino qualche
giorno di vacanza.
“Eccome se
lo farò!” aveva pensato tra sé e
sé.
Non vedeva l'ora di
portare a compimento quelle piccole cose che aveva agognato, chiusa tra
le mura di un ospedale.
“Farò
lunghe
passeggiate al sole con Ino, fino al campo di fiori dove giocavamo da
bambine” aveva iniziato a sognare, per poi ricordarsi che la
guerra aveva bruciato ogni zolla d'erba e petali.
“Però
sono passati due anni e sono convinta che Ino e il suo pollice verde lo
abbiano fatto tornare come nuovo. E poi andrò a pranzare
all'aperto da Ichiraku,
assieme a Naruto. E devo ricordarmi di spettegolare con Hinata sulla
sua nuova relazione. Potrei organizzare un pic-nic sotto un albero di
ciliegio, portare una vaschetta di gelato alla fragola”.
Ma poi era arrivata
la grandine, per i suoi sogni un nemico più crudele di una
nuova guerra ninja.
Niente passeggiate al sole, niente pranzi all'aperto, niente
pettegolezzi davanti al gelato. La grandine aveva un unico dono:
metterla di cattivo umore. Con la scusa del brutto tempo, Hinata e
Naruto trascorrevano i giorni a scegliere l'arredamento per la futura
casa; Ino impartiva “ripetizioni d'anatomia” a Sai
che,
preso dall'entusiasmo, aveva accantonato perfino la passione per il
disegno.
Proprio quando Sakura
temeva di
morire di solitudine e inedia, Shikamaru aveva bussato alla sua porta,
l'aveva rapita con una scusa che nemmeno ricordava, e imprigionata
nella casa di famiglia.
“Tu non hai
niente da fare” le aveva detto. “E a me serve
qualcuno con cui giocare a shogi...”.
Si era trattenuto dal
concludere
la frase. Sakura aveva capito e accettato la richiesta. Era la nuova
sfidante e aveva perso talmente tante volte da potersi definire un
totale disastro. Fino a quel giorno...
«Non dirmi
che quest'oggi hai pietà di me, Shikamaru, e mi stai facendo
vincere di proposito» gli disse.
Lui studiava la
scacchiera con zero interesse e fin troppi sbuffi.
«È
la grandine»
rispose. Spostò una tessera. Quella sbagliata.
«Troppo
rumorosa. Non riesco a concentrarmi.»
Con sua sorpresa
Sakura si
trovò ad ascoltare il ticchettio dell'ennesimo scherzo
climatico. Il bambù batteva ritmicamente contro la pietra,
gettando secchiate di ghiaccio sulle lastre bianche del cortile e
scaricando l'acqua dal canale di gronda. Era una serie di rumori che
torturava i due giocatori da mesi, ma Sakura doveva ancora abituarsi
agli sfoghi di Madre Natura. Shikamaru però... le
sfuggì
una risata.
«Sei in
squadra con
Ino!» gli ricordò. «Se non ti
deconcentrano i suoi
starnazzi da oca, come può riuscirci qualche chicco di
grandine?»
In tutta risposta,
stizzito e
scocciato per un'affermazione non attesa, Shikamaru si decise a muovere
la tessera del Generale Oro.
«Oggi non
ci sei proprio con
la testa» sogghignò Sakura. «Quello
è il mio
Generale Oro! Non il tuo!»
Shikamaru
biascicò due improperi in un tono talmente basso da
risultare impercettibile. Sakura non capì quale Kami
lassù, in cielo, si fosse meritato la bestemmia.
Analizzò
invece i movimenti dell'amico, la rabbia con la quale staccò
pollice e indice per liberarsi di una tessera che pareva bruciargli i
polpastrelli.
«Che
scocciatura» le
disse. Arricciò il naso e si sistemò la coperta
sulle
spalle, non appena una lieve brezza li fece tremare dal freddo.
«Siamo a luglio e sono due mesi che grandina un giorno
sì
e un giorno no. Non ricordo nemmeno come è fatto il cielo
senza
pioggia.»
Sakura smise di
studiare la
scacchiera sull'impiantito e stirò le labbra nel classico
sorriso di “chi sa”. Aveva passato ore e ore seduta
su
quelle assi di legno e, oltre ai meccanismi del gioco, aveva imparato a
conoscere i pensieri che agitavano il cervello di Shikamaru.
«Immagino
sia questo a
scocciarti» ribatté con finta comprensione.
«Oltre
al fatto di perdere contro una principiante.»
Inaccettabile per il
prodigio dello shogi!
Ma Shikamaru pareva determinato a tenere addosso la maschera della
faccia tosta, a non abboccare all'amo della provocazione.
«Non posso
guardare le nuvole» disse. «E, come ben sai,
guardare le nuvole mi rilassa.»
Enfatizzò
quel “come ben sai” per sfatare le supposizioni di
Sakura.
«Sì,
sì. Proprio le nuvole non puoi guardare!» rise
lei.
Di buon gusto,
perché
Shikamaru era davvero tenero e sprovveduto. Non sapeva raccapezzarsi in
quell'oceano di bugie e scusanti che propinava alla gente pur di non
ammettere che sì, Temari gli mancava da impazzire e, se
odiava
il brutto tempo, lo odiava solamente perché gli impediva di
vederla. Quando si arrivava ai sentimenti, Shikamaru diventava un goffo
marionettista, incapace di muovere un filo senza ingarbugliare la
matassa e trasformare lo spettacolo in un flop totale.
Su un qualcosa
tuttavia aveva ragione.
«Questa
grandine» disse Sakura con un sospiro stanco.
«È una vera scocciatura.»
Nemmeno lei riusciva
a capire
quale fosse la ragione del suo odio. La guardava mentre si schiantava
sulle pietre del cortile e trovava quella visione ammaliante, uno
spettacolo di tinte bianche in mille sfumature. Coriandoli duri come
sassi danzavano decisi, precipitavano nel vuoto, determinati,
abbattevano qualunque ostacolo bloccasse il loro tragitto e alla fine,
incuranti di ciò che avevano distrutto, giungevano alla
meta:
terra. Forse era proprio questa consapevolezza ad annientare Sakura e a
far scalpitare nel suo petto una melanconia che la condannava a una
silenziosa tristezza. Quando la grandine scendeva dal cielo, arrivava
sempre a destinazione: non c'era ramo, foglia, o tetto a ostacolarla.
Lei, invece, sentiva in se stessa il rimpianto di tutto quello che non
aveva portato a termine. Perché sapeva benissimo che se
Sasuke
era tornato a Konoha il merito spettava a Naruto, non a lei.
Quando si parlava di
ingiustizie
della vita... confidava nella sua intelligenza, nella sua forza, nella
capacità di sgretolare una montagna con un pugno. Bastava
però che l'argomento in questione fosse Sasuke e lei
diventava
piccola, innocua, succube di un uomo che avrebbe voluto distruggere a
suon di destri e sinistri. Invece lo vedeva e ogni sua convinzione si
squagliava sotto l'intensità di un singolo sguardo.
Sakura ricordava
perfettamente
com'era finita la guerra. Il momento coincideva per lei con la
dispersione di un'illusione in cui si trovava rinchiusa. E ricordava
anche che era stato proprio Sasuke, dopo aver
“discusso”
con Naruto - Chidori
contro Rasengan
- a riportarla indietro. Era stata un'illusione crudele, la sua.
Dissacratoria. Aveva profanato quell'amore che Sakura custodiva tanto
fedelmente nel suo cuore, come una reliquia. Lo aveva calpestato,
spolpato della linfa che lo nutriva. Così, dopo l'ennesima
umiliazione da lei subita, dopo la fine di una guerra colpevole di aver
decimato la popolazione di Konoha, aveva creduto di essersi finalmente
liberata di un peso che gravava sulle sue spalle sin da quando era
bambina: l'amore per Sasuke.
Negli anni passati,
nonostante le
avversità, quel sentimento era rimasto un fiume in piena,
traboccante di vita. Mentre cercava di liberarsi dal genjutsu, il corso
d'acqua aveva finito però con lo svuotarsi e diventare arido
quanto la terra del deserto.
Appena uscirò da
qui, lo griderò al mondo intero. Sakura Haruno ha smesso di
amare Sasuke Uchiha.
Poi aveva sentito dei
passi in
lontananza e una voce che la chiamava. Era flebile, appena un sussurro.
Eppure, quando ancora non era una parola completa, aveva capito
all'istante di chi fosse. Sakura avrebbe riconosciuto quel tono
profondo e basso, anche se un ninja
nemico le avesse strappato i timpani dalle orecchie.
Non
ascoltarlo. Non andare da lui. Lui ti ha lasciata. Non spetta a te
seguirlo.
Ma quando si trattava
di Sasuke,
il corpo di Sakura non conosceva ragione. Si muoveva in automatico,
bramava la sua vicinanza, quasi fosse la sorgente dalla quale sgorgava
la vita. E anche quella volta non c'era stata eccezione. Aveva fiutato
la pista, seguito il richiamo, preso l'immaginaria mano che Sasuke le
porgeva. Si era lasciata guidare fino all'uscita dell'illusione. Il
viso di Sasuke – stanco, ricoperto di graffi, con occhi
talmente
lucidi da sembrare pietre d'onice immerse nell'olio – aveva
accompagnato il suo risveglio.
“Sakura.”
Solo una parola. Di
nuovo, sempre e solo il suo nome.
Era incredibile
quante cose
riuscisse a dire con un “Sakura”, a seconda delle
circostanze: sei irritante, Sakura; ci sei anche tu, Sakura; smettila,
Sakura; grazie, Sakura; mi dispiace, Sakura. In questo caso, la
traduzione migliore sarebbe stata “bentornata”.
Ironia
della sorte, visto che lui
era fuggito in capo al mondo, in cerca di vendetta.
Forse anche Sasuke
aveva percepito
il paradosso di quest'ultimo “Sakura”. Aveva
abbassato le
palpebre, incapace di sostenere il suo sguardo, verde come la
verità e tutte le emozioni che non riusciva a trattenere,
tutte
le domande che avrebbe voluto fargli, tutti gli insulti che sarebbe
stato giusto rivolgergli. E a tradimento quel fiume d'amore aveva
spaccato l'arida roccia del deserto. Un piccolo rivolo d'acqua fredda,
mosso da onde incerte che si facevano strada su un fondale di ciottoli
acuminati: il suo dolore, le sue lacrime. Quando Sasuke si era alzato e
aveva allungato la mano verso di lei per aiutarla a rimettersi in
piedi, di nuovo il corpo di Sakura aveva reagito da solo e aveva
accettato quel soccorso. Il rigagnolo aveva aumentato la portata
d'acqua ed era tornato a scorrere impetuoso in ogni organo che la
componeva, più forte che mai.
Sakura Haruno che non ama
Sasuke Uchiha? Chi voleva prendere in giro? Era la più
colossale di tutte le stronzate.
Così
Sakura, a distanza di
due anni da quel giorno, continuava a rimbeccarsi per essere cascata
una seconda volta nella trappola dal cognome Uchiha, e mentre guardava
la grandine scendere nel cortile dei Nara, non poteva che paragonarla a
Sasuke. Era bella – bellissima! - in ogni acino di ghiaccio
che
martoriava il lastricato, bianca come la pelle di lui, eppure,
nonostante avesse il colore della purezza, dannatamente pericolosa.
Difficile da sciogliere, impossibile da scaldare.
A distanza di due
anni, pensava
anche ai passi da formica che aveva fatto con Sasuke, ai piccoli
riconoscimenti che aveva ottenuto.
“Sei
cambiata.”
Con queste parole
l'aveva salutata dopo il risveglio a fine guerra.
“Da oggi
sei il mio
medico” aveva aggiunto qualche mese dopo, e se Sasuke aveva
scelto lei – non Tsunade, non Shizune, non Ino –
era
perché si fidava, perché la riteneva brava, la
migliore.
Quand'era allora che
oltre al ninja
e al medico si sarebbe deciso a vedere la donna che continuava ad
aspettarlo?
Sakura
sospirò e
tossì, appena un anello di fumo le entrò nelle
narici. Si
era persa a tal punto nei suoi pensieri da non accorgersi che Shikamaru
aveva messo via le tessere da shogi,
per accendere una sigaretta. Studiava ogni chicco di grandine con la
stessa attenzione che prestava pure lei a quell'enorme distesa d'acqua
solida.
«Scusa»
le disse. «Dimenticavo che il fumo ti dà
fastidio.»
«Lascia
stare. Casa tua, regole tue.»
Aveva replicato con
una battuta
che mascherasse il cattivo umore. Un sorriso finto. Una risata finta.
Una persona finta. E ora spettava a Shikamaru mettersi in faccia
l'espressione vincente di “chi sa”. Con la
sigaretta
spenta, abbandonata sulle assi in legno dell'engawa,
con una gentilezza che Sakura mai avrebbe sospettato,
allungò la
mano sinistra per prendere la sua, per cercare e dare un conforto che
entrambi necessitavano.
«Ancora
Sasuke» constatò.
Sakura si
sentì trapassare.
Punta nel vivo. Dannatamente trasparente. E si diede della stupida,
perché bastava un nome – Sasuke – a
renderla
vulnerabile e fragile, come si era ripromessa di non essere. Ma due
concorrenti potevano giocare la stessa carta.
«Ancora
Temari» gli disse. «Non riesce a venire nemmeno
questa settimana, vero? Per il brutto tempo.»
Shikamaru
aprì bocca per
ribattere che si sbagliava, ma la lingua non arrivò ad
articolare una parola che Sakura alzò la mano per
interromperlo.
Era arrivato il momento di finirla con quella farsa.
«Siamo
troppo intelligenti per prenderci in giro» gli disse.
Shikamaru
sospirò e cacciò dal naso un nugolo di nicotina
che era rimasto incastrato nei polmoni.
«Già»
ammise. «Stupida grandine.»
Rimasero in silenzio,
avvolti in
un maglioncino troppo grande e in una coperta sfibrata, a studiare la
cascata di ghiaccio che gli dèi versavano sul mondo mortale.
E
c'era solo quella mano – quella che Sakura e Shikamaru
continuavano a stringersi – a stornare dai loro capi la
solitudine. La consapevolezza di condividere un dolore non identico, ma
quantomeno simile.
“In due si
soffre meglio che da soli” si ripeteva Sakura.
Da brava egoista qual
era sempre
stata, pensava però di avere più diritti di
Shikamaru a
starci male. Il genio dello shogi si svegliava ogni mattina scaldato da
un amore lontano, ma comunque esistente. Viveva i drammi di una storia
a distanza con nientemeno che la sorella del Kazekage,
una donna dai mille impegni e doveri. Aveva come nemici spazio, tempo e
clima, ma per quanto la sua guerra fosse difficile da vincere, gli
restava una splendida ragione per battersi con tutte le forze. E gli
restava il sollievo di avere una metà della sua anima, sotto
un
identico cielo che non conosceva gli ostacoli di foreste e deserti.
“Chi
l'avrebbe mai
detto” sorrise Sakura tra sé e sé.
“Un
pigrone e un'irascibile. Potrebbero vincere il titolo di coppia
più strana dell'anno”.
La loro storia era
nata a fine
guerra, da uno scambio di battute snervate e pugni stizziti che a
Sakura ricordavano la collisione di due chicchi di grandine a
metà cielo. Temari rappresentava di natura la durezza e, se
gli
dèi le avessero accostato un elemento, sarebbe stato
l'acciaio.
Shikamaru era intelligente e deciso. Quando sapeva quel che voleva, lo
prendeva. Non riteneva stancante ottenere ciò che gli
avrebbe
portato la gioia dell'animo. Desiderava una donna né troppo
bella, né troppo brutta; né troppo rumorosa,
né
troppo taciturna.
E invece gli era
capitata sul
groppone Temari no Sabaku, una kunoichi che rientrava a pieno nelle
prime due categorie: bella, rumorosa. Era merito di Madara, se il ninja
della Foglia aveva capito. Paradossalmente l'illusione equivaleva al
desiderio e così, quando Naruto e Sasuke avevano disattivato
lo Tsukuyomi,
Shikamaru aveva riflettuto a lungo, con una mano sotto il mento e uno
sbadiglio che premeva per uscire dalle labbra.
“Ti sembra
il momento di dormire, razza di scansafatiche?”
Temari aveva
minacciato di tirargli una ventagliata in testa, ma la voce di
Shikamaru era arrivata in tempo per fermarla:
“Curioso.
Nella mia visione c'eri anche tu”.
Temari era diventata
più
rossa dei capelli di Gaara. Con occhiate sospettose aveva controllato
che nessun membro dell'alleanza assistesse al loro battibecco. Quindi,
dopo un calcio a un sassolino e un mormorio incomprensibile, lo aveva
confessato ad alta voce:
“Anche
tu”.
Quando Shikamaru
aveva lasciato
cadere la conversazione nel silenzio, si era premurata di tirargli un
piccolo colpo con il suo immenso ventaglio.
“Non mi
farò battere
da una finta Temari. Se ero con te in quella visione, rassegnati. Ci
sarò anche nella realtà. E comunque è
ingiusto!
Tocca sempre fare tutto a me, razza di pigrone!”
“Intendi
picchiarmi per il resto della nostra vita?”
E allora a Temari era
caduto il
ventaglio di mano. E Sakura li aveva guardati, discreta, con la coda
dell'occhio. Guardava sempre tutto, pur di non dover pensare a Sasuke.
E aveva letto nelle parole di Shikamaru il sottotitolo che anche Temari
era riuscita a cogliere. La nostra vita. Non la mia. Non la tua.
Nostra.
Quella
dichiarazione, quel “nostra” era stato il continuo
di un
processo nato all'improvviso, per uno scherzo del destino. Se il caso
non avesse fatto sì che Temari e Shikamaru si confrontassero
all'esame Chunin, forse non avrebbero dovuto confrontarsi per il resto
dei loro giorni. Invece i Kami, dèi di larghe vedute,
avevano
messo al confronto due caratteri diversi e opposti. Subito, di primo
acchito, Temari e Shikamaru erano rimasti stupiti e ammaliati da quella
loro diversità. L'avevano studiata da lontano, desiderata
nei
periodi di distanza, idealizzata nelle ore di solitudine, negli attimi
di pace, trascorsi sdraiati sul letto di due stanze ai confini del
mondo, o sotto vecchie querce, persi a contemplare il cielo. E avevano
cercato i rispettivi volti in nuvole bianche, più dolci di
zucchero filato, ma meno passionali di quel misterioso sentimento che
pensiero su pensiero iniziava ad ardere nei loro cuori.
Così,
avevano sconfitto ogni rifiuto e domato ogni loro negazione,
trasformando quella piccola goccia di curiosità in ricerca e
in
affetto, in rispetto e in venerazione, in un bisogno di completarsi
chiamato amore.
La porta di lino si
aprì
con uno scatto. Sakura per la sorpresa rimase con un boccone di saliva
incastrato in gola. Gli occhi si fecero sgranati, grandissimi, ma mai
quanto quelli di Shikamaru, aperti al massimo, pur di non perdersi
l'insolita visione.
Temari no Sabaku, in
tutto il suo
splendore, aveva appena spalancato la porta a suon di ventaglio.
Lì, davanti a loro, con qualche chicco di grandine ancora
prigioniero di ciocche di capelli ribelli. E poi c'era una sottile
smorfia di scocciatura e di fastidio sul viso imbronciato. In effetti,
metteva un po' di paura e sembrava pronta a rifilare al suo amato
scariche di pugni talmente potenti che anche il cielo era corso ai
ripari: aveva smesso di grandinare.
«Portami
subito un asciugamano, Nara!»
Sakura fu abbastanza
intelligente
da sciogliere le sue dita da quelle di Shikamaru. Mentre si sistemava
il maglioncino rosso, con l'intenzione di prendere la via della fuga,
vedeva il viso dell'amico combattere, nel tentativo di nascondere un
sorriso di gioia. Un sorriso non da lui.
«Sai
benissimo dove li tengo. Perché non ti arrangi, razza di
seccatura?» le disse.
Finse un sospiro di
stanchezza. E
invece Sakura, prima di lasciarla, aveva sentito la mano di Shikamaru
irrigidirsi e rilassarsi; e le pareva addirittura di aver percepito il
tonfo assordante del suo cuore battere all'impazzata.
Si sistemò
i sandali e
scivolò sul lastricato del cortile: sarebbe uscita dal
retro,
senza disturbare quell'unione tanto attesa. Come ultima immagine, vide
il volto di Temari farsi rosso pomodoro e il fiato salire su, per la
gola. Le parole non tardarono ad arrivare:
«Arrangiarmi?
Io
dovrei arrangiarmi? Ho fatto tutta questa strada, sotto questo stupido
cielo solo per degnarti della mia presenza, e ora devo pure
arrangiarmi? Shikamaru Nara, spero per te che-»
Quel che venne dopo
Sakura non lo
vide: girato l'angolo, si immerse nella via principale che portava alla
periferia di Konoha. Sentì però la voce di Temari
spezzarsi a metà, rompendo la frase. E c'era un unico modo
con
il quale Shikamaru si sarebbe potuto liberare di lei.
“Certo,
oggi era davvero incapace a shogi,
ma a quanto pare la sua intelligenza funziona alla grande per altri
generi di trucchetti” si disse.
Con un pizzico di
invidia
immaginò di essere al posto di Temari e
fantasticò di
trovarsi con Sasuke, invece che con Shikamaru. Come ci si sentiva a
venire
zittiti da un bacio? Gli dèi furono veloci a punire quel
pensiero peccaminoso. Usarono la loro arma preferita. La più
odiata: grandine.
Salve a tutti! Oggi sono - stranamente - di pochissime parole, vista la
fretta. Ci tenevo però a postare stasera il primo capitolo
di questa storiella breve breve (sono cinque capitoletti), che come
dicevo nell'introduzione partecipa al contest "Naruto the movie: la
vita e l'amore", di manga, sasuk8 e meryl watase. Ringrazio le giudicIE
per avermi dato lo spunto per scrivere questa storia e tutti i lettori.
E' davvero una cosetta senza pretese! Grazie a tutti,
un bacione
Odiblue
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Capitolo 2 *** II. ***
II.
Solo due cubetti.
Giusto due
chicchi per farle capire che era sbagliato pensare a Sasuke in
“quel modo”. Poi uno scorcio di sereno. Forse gli
dèi lo facevano per il suo bene: che si mettesse l'anima in
pace, per una buona volta! Non le era bastato che Sasuke, pur essendo
al villaggio da un anno intero, avesse fatto poco e nulla per
avvicinarla?
“È
mancata l'occasione” continuava a dirsi da brava scema.
“Qualche
piccolo miglioramento c'è stato” protestava tra
sé e sé.
“Tra
noi
non va poi così male”. Si salutavano, con cenni
del capo e scarsi monosillabi.
“Ora
che ci
penso bene, credo che a modo suo abbia perfino cercato di chiedermi
scusa”.
Le
sembrava di aver
sentito quella
parola uscire dalle labbra di Sasuke, pochi giorni dopo il suo ritorno
a Konoha, quello definitivo; ma poi Naruto si era messo a strillare che
era così
felice, e voleva così
bene al suo migliore amico, ed era così
contento che fosse tornato da lui... e lei non aveva trovato il
coraggio di dire:
“Sasuke-kun,
non credo di aver capito. Potresti ripetere?”
Se non lo
aveva
fatto, era per il
terrore di sbagliarsi. A pensarci bene, forse non aveva detto:
“Sakura, scusa”. E l'illusione poi – quel
terribile
modo di metterla da parte – rendeva chiara l'antipatia che
provava per lei. Spesso la mattina, prima che la sveglia suonasse,
Sakura si alzava di soprassalto e d'istinto portava la mano al cuore,
come se il pugno di Sasuke lo tenesse ancora imprigionato. E le
sembrava di sentire male, una fitta tremenda capace di cavarle il
respiro. Allora si doveva mettere comoda sul materasso, immobile, e si
impegnava – si impegnava davvero! - per togliersi il pensiero
di
quel momento dalla testa. Si ripeteva che tutto andava bene: Sasuke era
a casa; era vivo; Naruto era vivo; i suoi amici erano vivi; persino lei
era viva.
Andava
tutto
semplicemente e splendidamente bene.
E il
dolore
diminuiva. Però
restava. Anche se piccolo e minuscolo, restava sempre. Dalla sua vita,
Sakura aveva appreso che c'erano due tipi di dolore: fisico e mentale.
Per diventare ninja
bisognava imparare a mettere da parte il dolore fisico, a non prestare
attenzione alla fatica, a un kunai
che lacerava la pelle, a un pugno troppo forte. Così
l'esperienza lo riduceva, ma lo stesso non si poteva dire del dolore
mentale. Sakura ricordava tutta la disperazione che aveva provato a
dodici anni nel credere Sasuke morto. Non era mai stata brava a fare da
scudo ai propri sentimenti, a corazzarsi in se stessa e, anzi, quando
si trattava di Sasuke, il suo stupido cuore emetteva talmente tante
scintille di emozioni diverse che nemmeno lei sapeva barcamenarsi al
loro interno.
E Sasuke
poi sembrava
divertirsi a
tormentarle l'esistenza. Prima se ne andava da Konoha, quindi tornava,
se ne andava di nuovo e ritornava. Era un Ulisse che non conosceva
pace. Appena i suoi piedi minacciavano di gettare le radici e fondersi
assieme al suolo di Konoha, qualcosa scattava in lui. Poteva essere
vendetta, sete di sapere, smania di novità, brama di potere.
Con
la sua katana
recideva quei legami che lo avevano ancorato al terreno e fuggiva,
adducendo poche parole come scusanti.
Sakura
faceva quel
che sin da
piccola aveva imparato a fare: aspettava. Fino al giorno in cui era
tornato, avvolto in un mantello logoro; stanco e affamato. Lo aveva
incrociato davanti ai cancelli del villaggio.
“Devo
parlare con l'Hokage.”
“Quello
vecchio o quello nuovo?” aveva chiesto lei, giusto per
sdrammatizzare.
Sasuke
aveva cercato
il suo
sguardo e poi lo aveva scostato, quasi per il timore di diventare
comprensibile. La frangia troppo lunga copriva per metà
l'occhio
del Rinnegan,
ma nell'altro Sakura era riuscita a leggere un briciolo di
soddisfazione.
“Così
il Dobe ce
l'ha fatta?” le aveva domandato.
“Certo
che
no! Figurarsi! Non ancora! Non oso pensare quanti danni farà
quando entrerà in carica!”
Non lo
credeva
davvero. Credeva invece che Naruto sarebbe stato un ottimo Hokage, forse il
migliore di sempre. Ma prenderlo in giro e deriderlo davanti a Sasuke
le ricordava i vecchi tempi.
“Accosterà
Tsunade
per i prossimi due anni e poi prenderà il suo titolo. Da
parte
mia sto ancora aspettando che Kakashi-sensei si faccia avanti e
rivendichi il posto. Sarebbe sicuramente un candidato
migliore”.
“Non
lo
farà”.
“No,
certo.
Preferisce continuare a leggere quegli orrendi libretti
arancioni!”.
Parlando,
avevano
continuato a camminare, raggiungendo il palazzo dell'Hokage.
Sakura aveva sorriso per tutto il tempo, felice di non essere stata
mandata via; inquieta: era la volta buona? Sasuke avrebbe smesso di
essere Ulisse? Avrebbe lasciato che i suoi piedi si fondessero con
quella terra che tanto lo amava?
“Come
è andato il tuo viaggio?” gli aveva chiesto, una
volta entrati nell'edificio.
Si erano
seduti uno
di fianco
all'altra, sulla panchina d'attesa, fuori dallo studio di Tsunade. A
dire la verità, Sakura aveva lasciato un posto vuoto tra i
loro
corpi, quasi la troppa vicinanza potesse spaventare Sasuke e
convincerlo a scappare via.
“Lungo.”
Nel
rispondere aveva
fissato la sedia che li divideva.
“Potevi
tornare prima. Ti stavamo aspettando.” Io ti aspettavo.
“Ti aspettiamo sempre”. Io ti aspetto sempre.
Si era
sentita
morire, quando
Sasuke non aveva risposto. Maledetta. Stupida. Non stavano andando bene
con quegli scambi di battute classici, senza il bisogno di addentrarsi
tra i rovi di una situazione pungente e distruttiva? Aveva trattenuto
il respiro, sentito i polmoni esplodere per la mancanza d'aria. Si era
ripetuta che non meritava di prendere una nuova boccata,
perché
aveva rovinato tutto e alla fine aveva ragione Ino: era un totale
disastro.
“Lo
so.” Solo con la
risposta di Sasuke aveva ripreso a respirare. “Ma c'erano
delle
cose che dovevo fare”.
Ci
sono sempre
delle cose che devi fare. Sempre ce ne saranno. Perché non
lo
vedi che anche qui c'è bisogno di te? Che anche qui puoi
crescere?
Anche qui espiare le tue colpe? Soprattutto qui! Perché se
non espii le tue colpe ottenendo il perdono di chi hai ferito...
il mio
perdono!
…
allora che espiazione è?
Invece
aveva
sigillato le labbra,
perché non lasciassero uscire quelle parole troppo scomode.
Le
aveva tenute incarcerate nel petto, sentendole graffiare sulle pareti
del cuore e della gola: volevano essere libere; ma a volte la
libertà poteva trasformarsi in danno più che in
sollievo.
“E
adesso
che farai?”
Solo
questo aveva
trovato il
coraggio di chiedere. E il coraggio era già tanto, visto che
la
risposta di Sasuke avrebbe potuto ammazzarla sul posto. Lui aveva
gettato lo sguardo sulla sedia vuota. Di nuovo.
“Ci
sono
altre cose che devo fare.”
Una
pugnalata al
cuore. E non in un'illusione.
“Capisco.”
Lo aveva
detto
subito, in fretta e
furia, perché se avesse guadagnato del tempo, in cerca di
una
risposta più soddisfacente, le lacrime si sarebbero
impossessate
dei suoi occhi e avrebbero iniziato a scorrere fino al colletto della
divisa da Jonin.
Ritta sulla
sedia, aveva puntato lo sguardo sulla porta dello studio, supplicando
Tsunade di sbrigarsi a ricevere Sasuke; di privarla della sua presenza,
scomoda come non mai.
E Tsunade
aveva
esaudito la richiesta e spalancato la porta:
“Guarda
chi
si vede? Il fuggitivo! Accomodati o preferisci forse
scappare?”
L'aveva
trattato
male, solo
perché lui trattava male la sua allieva. Poi era scomparsa
nello
studio, probabilmente davanti a una bottiglia di saké,
mezza vuota. Sasuke, con un sospiro, si era messo in piedi, traballante
per l'ennesimo viaggio che aveva voluto affrontare, ma prima di
raggiungere la soglia aveva interrotto i suoi passi:
“Cose
che
farò qui”.
Si era
tirato la
porta dietro la
schiena e aveva chiuso la conversazione con quel gesto. Da quel giorno
era rimasto a Konoha, senza fuggire; ma a distanza di un anno, Sakura
doveva ancora capire quali “cose” lo avessero
trattenuto da
una nuova partenza. Non lo sapeva lei, non lo sapeva Naruto, non lo
sapeva nemmeno Kakashi che passava il tempo a scommettere con Gai su
come si sarebbero evolute le vite dei loro allievi.
Forse
però
qualcuno lo
sapeva. Quel solito qualcuno che li accompagnava dall'inizio
dell'estate, spiando le loro mosse dalle volte più elevate
del
cielo, attaccandoli per punizione o per puro divertimento: grandine. Il
primo acino colpì Sakura in mezzo alla testa, un chicco
solitario che preannunciava l'arrivo della tempesta.
«Si
può sapere che ti
ho fatto? Che ho fatto a tutti voi? Sono stufa! Mi sono appena
asciugata e sono di pessimo umore, quindi ti conviene startene tra le
nuvole, a meno che tu non voglia che venga là su a prenderti
a
cazzotti-»
Altri due
chicchi di
grandine. Tre. Quattro. Cinque. Manciate di decine.
«Scherzavo!
Mi dispiace, non volevo insultarti, ma ti prego! Basta con la
grandine!»
I piedi
l'avevano
portata lontana
dal centro, lontana da casa sua, lontana dalle case dei suoi amici.
Iniziò a correre senza una meta, mentre il cielo continuava
ad
odiarla per dei peccati che non ricordava di aver commesso. Ricordava
invece che nello svicolo a destra avevano da poco aperto alcuni
negozietti di arredamento.
«Entrerò
nel primo e aspetterò lì che smetta di
grandinare.»
Quando si
imbatté nel primo
edificio, scoppiò a ridere per la casualità della
situazione, oppure, per dirla meglio, per la sfiga che si intestardiva
a perseguitarla. Appesa alla parete, un'insegna rosa pastello recitava:
“Qui vendesi stoviglie, tazze, bicchieri e piatti da
cucina”.
Sakura
mosse un passo
e si
riparò sotto la tenda a veranda che proteggeva l'ingresso
del
negozio dalle intemperie. Giusto due giorni prima aveva rotto la sua
tazza preferita, facendo una pessima figuraccia e tagliandosi la mano.
Testimone del fattaccio?
Niente
meno che
Sasuke Uchiha!
Sakura
rabbrividì nel
maglioncino rosso e si fece piccola piccola nelle spalle. L'origine di
quel tremito proveniva in parte dal freddo e da qualche cubetto di
grandine che si era infilato dentro il colletto, riuscendo a scorrere
lungo la spina dorsale. Ma un altro fattore fomentava i brividi, ed era
un sentimento che rispondeva a un unico nome: vergogna.
Ricordava
dettaglio
per dettaglio
la successione di eventi che aveva portato alla rottura della tazza. Se
solo avesse potuto dimenticare!
C'erano
alcuni giorni che nascevano come “giorni no” ed
erano
destinati a morire marchiati della medesima etichetta. Quel
mercoledì, per Sakura, nacque come “super giorno
no”: pioggia sin dal primo mattino, caffè
rovesciato sulla
divisa, battibecchi con Shizune su chi dovesse entrare in sala
operatoria, fallimenti sul lavoro. E questa era la nota dolente.
Perché per un medico “fallimento sul
lavoro”
equivaleva a un unico concetto: morte. Sakura non sapeva come tutto
fosse iniziato, o meglio lo sapeva. La troppa pioggia aveva spezzato i
sostegni di un'intera palazzina e dieci famiglie erano rimaste
intrappolate sotto travi e mattoni. Lo sapeva, ma non se ne capacitava.
Non riusciva a comprendere come lei, l'allieva di Tsunade, potesse
guarire ninja ridotti in fin di vita e non salvare due bambini,
stritolati dalla morsa del cemento.
Eppure
aveva
fallito. Aveva fallito a tal punto che le era venuta voglia di
scoppiare a piangere, strappandosi i capelli e prendendo a calci
Shizune. Perché cavolo non era entrata in sala operatoria?
Perché l'aveva lasciata sola, a mettere le mani in quel mare
di
sangue? Ad ascoltare il rumore assordante dell'elettrocardiogramma
farsi piatto? E poi dare la notizia alla famiglia. Lo aveva fatto
seguendo le istruzioni di Tsunade, rimanendo zitta mentre il padre di
famiglia l'accusava di essere una stupida ragazzina, un'esaltata,
un'assassina.
Ed
era tornata a casa, senza dirlo a nessuno.
Sul
divano del
salotto sentiva ancora il sibilo della morte. Aveva provato a tapparsi
le orecchie con i cuscini e con la cera, ma quel suono si era infilato
nella sua testa e non voleva andarsene via. Allora era rimasta
immobile, con il braccio sopra gli occhi, perché tutto
quello
che vedeva le sembrava rosso e bianco, come il sangue e la pelle di un
cadavere. Come quei bambini che più bambini non erano.
Rimase
sul
divano per un numero non definito di ore, fino a quando qualcuno
bussò alla porta. Il toc toc delle nocche sul legno si
trasformò ancora una volta in quel sibilo. Non rispose,
preferendo stringere i denti per cancellare ogni suono, perfino il suo
respiro.
«So
che non stai dormendo.»
Riconobbe
la
sua voce senza bisogno di aprire gli occhi. Ecco l'ultimo tassello che
avrebbe condannato la giornata ad essere “no”.
Sasuke. Ci
mancava solo questo: venire schernita per la sua debolezza, vista come
una depressa, incapace di reagire.
«Riposavo.»
Soprattutto
perché Sasuke non sapeva e Sakura dubitava gli importasse.
Non
la avvicinò, non le chiese nulla. Rimase sulla soglia e lei
sentì di detestarlo, per il suo costante menefreghismo, per
la
sua sfacciataggine, per la sua freddezza.
«Non
hai dimenticato nulla?» le chiese.
Solo
che si
era ripromessa di non essere debole. Non davanti a lui. Solo che aveva
giurato agli dèi che avrebbe raccolto tutte le sue energie e
il
suo coraggio, pur di diventare degna di stargli accanto. E stava
fallendo. Del resto Sasuke era sempre stato il più grande
dei
suoi fallimenti.
Però
voleva provare. Voleva tentare di essere la donna giusta per lui.
Stoica, impassibile, capace di solidificare il dolore negli argini del
corpo, capace di soffrire dentro e non fuori. Così si
tirò seduta, dopo aver strofinato gli occhi sulla manica
della
maglia, giusto per asciugare quelle due lacrime che si era concessa.
«Dovevamo
vederci con Kakashi e Naruto» ricordò. Forte come
lui
l'avrebbe voluta. Con voce stabile. «L'ho
scordato.»
Non
lo
guardò per non rompere l'inganno, per mantenere intatto il
muro
che imprigionava le sue emozioni. Non poteva permettersi che le travi e
il cemento cedessero sotto lo sguardo di Sasuke. Perché
sentiva
i suoi occhi su di lei, iridi di diversi colori che la trapassavano
come chicchi di grandine, sfere di ghiaccio che minacciavano di
abbattere i suoi sostegni e di ridurla a un cumulo di macerie, una
rovina identica alla palazzina di periferia.
«E
tu ti saresti dimenticata dell'incontro per dormire?» le
domandò lui.
Ancora
una
volta guardandola dall'alto al basso. Sakura strinse i pugni. Era
troppo forte; possedeva attacchi troppo aggressivi perché
lei
potesse resistere. Con le unghie conficcate nei palmi, trattenne un
singhiozzo e il nodo alla gola si fece stretto. E desiderò
piangere. Pregò il cielo che Sasuke provasse a consolarla.
In
fondo era andato da lei e lei voleva solo parlargli e sentirsi dire che
non era inutile, un fallimento...
«Oggi
all'ospedale è successo un macello!»
iniziò a dire.
Sentì le parole premere sulla lingua. Volevano correre fuori
dalla bocca, all'alta velocità di un treno. «Non
puoi
nemmeno immaginare. Ero in sala operatoria e c'erano questi due
bambini. All'inizio voleva entrare Shizune, ma io le ho detto che
potevo farcela e poi-» .
«Kakashi
mi ha chiesto di venirti a cercare.»
Distrusse
quel labirinto di pensieri piacevoli, prima che le strade che lo
componevano trovassero il tempo di ingarbugliarsi.
Sono
importante per Sasuke, si preoccupa per me, è qui per
ascoltarmi, vuole sapere perché non sono andata
all'appuntamento.
Tutte
fantasie tessute dalla sua mente bacata.
«Oh,
sì, certo» sussurrò.
Almeno
non gli
avrebbe dato il sollievo di farsi vedere colpita e affondata. Era stata
una scema a illudersi che Sasuke fosse andato a cercarla di sua
spontanea volontà. Si mise in piedi, spiaccicandosi in
faccia la
maschera più finta che conoscesse.
«Scusa,
non ti ho nemmeno invitato dentro. Sei rimasto lì sulla
porta,
scusa» ripeté il suo dispiacere e gli fece
segno di entrare.
Ma
Sasuke non
si mosse e allora gli andò incontro. Avrebbe voluto
prenderlo
per mano, intrecciare le dita con le sue, ma sapeva che non gli piaceva
venire toccato, non senza il suo permesso; e lei non voleva risultare
inopportuna, indiscreta. Gli stava lasciando i suoi spazi.
Impugnò
il pomolo della porta, attenta a non sfiorare nemmeno un lembo della
maglietta grigia che Sasuke indossava. E lui la fissava e lei si
sentiva svenire. Ma la colpa era del chakra. L'aveva usato tutto per
l'intervento ed ora si trovava a secco e poi...
«Sei
passato dall'ospedale.»
Aveva
in mano
la sua valigetta da lavoro, quella in pelle marrone che le aveva
regalato Ino per farla sembrare una brava professionista. Se l'era
scordata nello stanzino di guardia, perché nella fuga non
aveva
trovato il coraggio di tornare al piano di sopra. Incrociare gli
infermieri. Incrociare i medici. Incrociare i pazienti. Altri
potenziali fallimenti.
«Già»
rispose lui. «Sono passato dall'ospedale. Nella fretta l'hai
scordata.»
Sapeva.
Sapeva
tutto e per quello la guardava così, come se fosse stata
un'incapace. Ed era vero che la frangia si ostinava a nascondere
l'occhio del Rinnegan, ma l'altro emanava frecce così
pungenti
che si sentiva stupida per il dolore che stava provando.
Soprattutto
perché lo provava davanti a Sasuke, al quale la vita aveva
tolto
tutto; mentre a lei – lei che piagnucolava – non
aveva mai
tolto niente. Così ricambiava il suo sguardo, in un silenzio
che
di rado le era parso tanto pesante.
«Grazie
per la borsa.»
Afferrò
la cinghia della tracolla e la recuperò. Rapida diede le
spalle
alla fonte del suo disagio e a piccoli passi raggiunse il cucinino.
«Che
ne dici di un tè?» gli chiese.
Doveva
fare
qualcosa; dire qualcosa. Perché Sasuke era lì ed
era al
settimo cielo per la sua presenza. Però non sapeva che fare,
come comportarsi. E lui non collaborava. La guardava e basta.
«Già
che sei qui!» continuò a dire.
«Scommetto che non
hai fatto colazione, Sasuke-kun. Forse manco pranzo. È
davvero
maleducato da parte mia non offrirti niente, visto che hai fatto tutta
questa strada per me.»
Che
scema! Il punto d'incontro si trovava a meno di cinquecento metri da
casa sua.
«Così
ci vendicheremo anche di Kakashi che è sempre in
ritardo.»
Scema
il
doppio. Non lo sapeva che era meglio astenersi dal pronunciare la
parola vendetta in presenza dell'ultimo Uchiha? Ma, grazie agli
dèi, lui non colse il termine tabù, né
prese
seriamente i suoi deliri. Possibile che a diciotto anni suonati Sasuke
le facesse ancora quell'effetto? Continuò a parlare a
vanvera,
senza accertarsi di pronunciare un discorso dotato di capo e coda; ma
una vocina in lei le suggerì che Sasuke le stesse prestando
attenzione, perché si sedette sul divano del monolocale, con
le
braccia incrociate al petto.
D'accordo...
provò a dire – ma solo un accenno! - che non
voleva un tè:
«Sakura,
lascia stare. Non serve.»
E
che avrebbero dovuto sbrigarsi:
«Dobbiamo
assicurarci che la grandine non abbia rovinato le impalcature del
settore ovest.»
Ma
lei andò per la sua strada e cercò il pentolino
dell'acqua.
«Per
una volta che in ritardo sono io» si giustificò.
Continuò
a trafficare con cucchiaini e zollette di zucchero. Scema la terza
volta: a Sasuke il tè piaceva amaro! Presa com'era dal
mostrarsi
una perfetta padrona di casa e un'eccellente domestica, non
prestò ascolto ai richiami del suo corpo. Sì, era
vero.
Si trovava senza chakra, ma questo non significava non sapesse fare un
tè. Se poi la testa girava un poco, che problemi c'erano? E
se
le gambe erano molli e lì lì per cedere, non
voleva dire
che stesse per...
«Ahi!»
La
tazza si
ruppe in due e il coccio appuntito, a forma di triangolo,
penetrò la carne, in mezzo al palmo. Un fiume rosso
colò
nel lavandino e si mischiò all'acqua che usciva dal
rubinetto.
Si aggrappò al bordo del lavabo e serrò le
palpebre.
Qualcosa si spezzò in lei. Nel buio degli occhi presero
forma
immagini confuse, echi di voci che la chiamavano. Voci di bambini, un
maschietto e una femminuccia. La pregavano di salvarli. Sakura, per
piacere; Sakura, siamo piccoli; abbiamo ancora tanti giochi da provare;
Sakura, dai, sistema i nostri corpi, così poi facciamo
guardia e
ladri; Sakura, perché non ce l'hai fatta? È
perché
ti stavamo antipatici? O siamo stati cattivi?
E
voci di
genitori che pronunciavano quella parola. Assassina. E dipinti nelle
sue iridi c'erano i cadaveri; nelle sue orecchie ancora il sibilo
dell'elettrocardiogramma. Il sibilo piatto, il sibilo della morte.
«Sakura!»
E
questo era
Sasuke che la chiamava, in quella che doveva essere un'illusione,
perché lui non pronunciava mai il suo nome con tanto affanno
e
tanta preoccupazione e tanto... affetto? Era pazza, totalmente
impazzita.
«Sakura!»
Anche
perché si sentiva sorreggere da lui, quando sapeva benissimo
che
stava seduto sul divano, a guardarla con disprezzo. E perché
le
pareva che la stesse sollevando da terra; e le piaceva il contatto con
il suo corpo. Sembrava in grado di racchiuderla nelle sue braccia e di
difenderla da tutto. Anche dal dolore; anche dalla morte.
Finché
il contatto venne meno e si trovò circondata dai cuscini del
sofà. E Sasuke si fece lontano, accompagnato dal rumore di
cassetti che sbattevano e antine che venivano aperte e poi chiuse.
«La
mano» le disse in un ordine.
Si
sedette
accanto a lei, lei che finalmente si decise a schiudere gli occhi. Ed
era vuota e stanca e miserabile. Debole e rassegnata e inutile. Lo vide
aprire la cassetta del primo soccorso, quella che teneva nel mobiletto
sotto il televisore, e recuperare una garza sterile.
«Sakura,
vuoi darmi quella mano?» ribadì con impazienza.
Ma
lei non
eseguì l'ordine. Si sentiva avvolta da una strana coltre di
sonnolenza, un dormiveglia ad occhi aperti, in pieno giorno. E allora
Sasuke prese l'iniziativa e afferrò la sua mano, senza
delicatezza, premendo troppo. Il flusso di sangue aumentò,
il
taglio si allargò un poco. Le labbra di Sasuke si staccarono
e
liberarono una sillaba, uno “scu-” che Sakura
scambiò per l'inizio di quella parola che lui non le avrebbe
mai
detto.
Infatti
tacque. Fasciò la mano in silenzio, la fasciò
male, in
modo maldestro, ma ci mise tutto il suo impegno. Gli si leggeva in
viso. E non disinfettò nemmeno il taglio, prima di applicare
la
garza, né aggiunse una pomata cicatrizzante. Però
fu
più delicato e anche quando terminò di girare la
fascia
attorno al palmo, tenne la mano tra le sue.
E
la guardava,
mentre Sakura guardava lui e le sembrava improvvisamente triste,
piccolo e solo. Triste, piccolo e solo, proprio come triste, piccola e
sola si sentiva lei. Finché il rintocco delle quattro di
pomeriggio non lo fece trasalire; e allora lasciò cadere la
mano
bendata sui cuscini del divano e scattò in piedi, dandole la
schiena.
«Dirò
a Kakashi che oggi non verrai.»
A
testa bassa, senza un vero saluto, sparì nella pioggia di
quel mercoledì pomeriggio.
A due
giorni di
distanza dal
fattaccio, continuava a sentirsi una povera stupida. E non solo
perché stava fissando la vetrina di un negozio, senza
decidersi
a entrare! Si sentiva stupida, perché teneva ancora la benda
attorno alla mano. Una volta tornato il chakra
avrebbe potuto curarsi e invece aveva scelto di non farlo. Non era
messa meglio di quelle ragazzine dalla Suna che volevano l'autografo di
Gaara sul palmo e non si lavavano per una settimana, per paura di
cancellarlo.
Del resto,
quella
fascia malmessa
era uno dei pochi gesti d'interesse che aveva ricevuto negli ultimi
anni, e per un istante si era illusa che ci sarebbe stato un seguito.
Non pretendeva un happy
ending con dichiarazione d'amore in grande
stile, matrimonio in pompa
magna e una sfornata di bambini tale da
ripopolare Konoha. Si sarebbe accontentata di una parolina in
più rispetto al classico cenno del capo che Sasuke le
rivolgeva
ogni mattina, per salutarla.
E invece
niente. Non
un “mi
dispiace per quei bambini”, non un “come sta la
mano?”. E ora il caso – aiutato da quello stupido
attacco
di grandine! – la portava in un negozio di tazze. Sakura era
convinta che le divinità, lassù, nascoste da
nuvole
grige, si stessero divertendo a renderle la vita impossibile.
Ma almeno,
visto che
era
lì, avrebbe potuto approfittarne per comprare un nuovo
servizio
di tazze: quello che si ritrovava in credenza apparteneva all'uomo di
Neanderthal. Con questo unico sollievo a riscaldarle il petto, si
scrollò dalle spalle qualche chicco di grandine ed
entrò
nel negozio.
--
Ecco
il capitoletto due. Le persone che ho avuto modo di
conoscere su efp sanno che non sono mai contenta di quel che scrivo. Di
questa storia (mancano ancora tre capitoletti) sono soddisfatta solo e
unicamente perché l'ho conclusa. In questo periodo nella mia
vita ci sono stati tanti cambiamenti e ho dovuto ridurre il tempo per
la scrittura ai dieci minuti prima di spegnere la luce e andare a
dormire. Come storia, non mi soddisferà mai completamente, ma
spero comunque che a qualcuno possa piacere. Grazie a tutti i lettori,
un
bacione
Odiblue
|
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Capitolo 3 *** III. ***
III.
Fu come entrare nella
stanza da
ballo di un palazzo. Tavoli di cristallo, tondi, riempivano il negozio
senza seguire uno schema preciso. Erano pulitissimi e la superficie non
aveva intrappolato le impronte dei clienti che li accarezzavano con le
dita. Sopra di loro c'erano servizi di porcellane di ogni tipo,
semplici e arzigogolati, disposti a seconda delle varie sfumature di
colore; piramidi di piatti che imitavano la torta a balze di una sposa;
bicchieri di vetro soffiato che ricordavano l'arcobaleno; e non
mancavano le tazze, tantissime tazze. Talmente belle che Sakura sarebbe
andata sul lastrico pur di comprarle tutte: rosa confetto, trasparenti
come gocce di rugiada, brillanti più del più
prezioso
diamante.
Un solo
dettaglio
stonava in quel
paradiso di raffinatezza e sciccherie. Un giovane uomo, agghindato in
un orrendo completo arancione, sgraziato nel girare attorno a un
tavolino, nel centro del negozio. Potenzialmente pericoloso. Stava
lì da solo, il che era una novità, visto che
mancavano i
due grandi amori della sua vita: Hinata Hyuuga e Sasuke Uchiha.
«Non
credevo che a voi elefanti fosse consentito mettere piede nelle
cristallerie» gli disse.
La sua
voce lo
sorprese,
cogliendolo da dietro. Si stupì lei stessa di aver parlato.
Era in
condizioni inaccettabili e si sentiva orrenda, con i capelli
spettinati, bagnata fino al midollo, e l'inguardabile maglioncino
rosso, ridotto a un colabrodo dai cubetti di grandine.
Ma del
resto, il
ragazzo che si
trovava davanti era Naruto Uzumaki e Naruto Uzumaki era abituato ad
avere a che fare con il lato peggiore di lei.
«Sakura-chan!»
gridò in un saluto.
Attirò
su
di sé
l'attenzione di tutte le clienti che, vista la premura e l'ansia con la
quale saltellavano attorno al tavolino delle bomboniere, dovevano
essere future spose.
«Ma
questo
è un negozio di tazze!» continuò a
gridare. «Non una cristalleria!»
Lo disse
indicando
con il dito un
set di
porcellane. Il lembo della felpa arancione sfiorò il
manico di una tazzina. Sakura si buttò in avanti, le suole
delle
scarpe bagnate. Scivolò, ma riuscì a frenare
concentrando
il chakra
nelle piante dei piedi. Afferrò la tazzina al volo e la
riadagiò sul piattino del servizio.
«Resta
il
fatto che tu sia un elefante» lo rimproverò.
«Guarda che disastro stavi per combinare!»
Naruto
ridacchiò e si
grattò la testa, all'altezza della nuca. Borbottò
delle
scuse imbarazzate e rassicurò le commesse del negozio,
povere
donne terrorizzate dalla sua goffaggine, dicendo che non era successo
nulla, niente di cui preoccuparsi.
«Ma
che
elefante e elefante, Sakura-chan!» aggiunse poi.
Sventolò
le mani davanti al
petto. Lo faceva sempre quando voleva difendersi e negare di aver dato
vita a un danno. Anche se quella volta il danno in questione era stato
evitato grazie a una grandiosa prova di riflessi.
«A
forza di
rincorrere il Teme
sono venuti problemi di vista anche a te?»
Voleva
essere una
battuta, ma a
Sakura sembrò di venire fulminata viva. E non da una persona
a
caso. Dal suo migliore amico. Dall'uomo che da ragazzino aveva giurato
di proteggerla e prendersi cura di lei, mai di ferirla. Invece l'aveva
fatto. A forza di
rincorrere il Teme.
Era davvero così patetica? Al punto da essere quasi
paragonata a
una cagna in calore che si attaccava alla gamba del padrone, per non
lasciarlo andare via? Morbosa, ossessionata? Naruto le aveva sempre
detto che ammirava il suo amore smisurato per Sasuke, un sentimento che
non conosceva limiti e compromessi. Un giorno, mentre parlavano del
più e del meno, l'aveva paragonata a una bellissima
farfalla,
pronta a gettarsi nelle correnti di vento, in vortici e tornado, pur di
raggiungere il suo obiettivo. Quand'era che le aveva tagliato quelle
splendide ali rosa e l'aveva condannata a strisciare al suolo, sporca e
viscida come una larva?
Ingrandì
gli occhi e
schiuse le labbra, finché Naruto comprese la
gravità
delle sue parole: le iridi azzurre si dilatarono e lui
realizzò
il peso di una domanda posta con troppa leggerezza.
«Cioè
io, io non
intendevo dire quello!» si scusò. Riprese a
sventolare le
mani davanti al petto. Poteva essere cresciuto, Naruto. Poteva essere
diventato l'eroe di Konoha, ma restava comunque un grandissimo baka.
«Non la prima parte, capisci? Cancellala, Sakura-chan! Fingi
che
io non abbia mai... cioè volevo solo dire che io ho i baffi
e
non la proboscide!»
Frase dopo
frase,
alzò il
tono di voce. Sempre e sempre più, al punto che le future
spose
rimasero ad ascoltare la loro conversazione. Curiose. E Sakura non era
arrabbiata con Naruto. Capiva che non aveva parlato con cattiveria. Del
resto, era lei
la patetica, lei
la perdutamente innamorata, lei
la permalosa. Però si vergognava oltre ogni misura
immaginabile.
«Perché
devi sempre urlare?» gli chiese.
Per la
disperazione
si
passò una mano sulla fronte, ma poi pensò che
avrebbe
potuto tirarsi su il morale, schernendo il suo migliore amico, quasi un
fratello, come era solita fare.
«E
comunque
devo
correggerti» gli disse. «A forza di stare in
squadra con
Sai e Kakashi mi sono venuti problemi di altro tipo. Di perversione,
direi. Quindi, per favore, evita di gridare frasi circa il non avere
una proboscide.»
Naruto
divenne rosso
peperone,
talmente colorato in viso da sembrare una bomba sul punto di esplodere.
Iniziò perfino a sudare, quando le spettatrici del loro
dibattito risero dolcemente. Fosse stato il ragazzino di dodici anni
che amava porsi al centro dell'attenzione, si sarebbe tirato
giù
i pantaloni e avrebbe mostrato che lui, Naruto Uzumaki, futuro Hokage
di Konoha, aveva benissimo la “proboscide”.
Ma per
l'appunto un
eroe non poteva permettersi certi atteggiamenti.
«Sakura-chan?
Ma cosa? Ma
come?» balbettò. «Cioè tu...
non avrai mica
pensato che io intendessi... sul naso dicevo... mica... non
credetele... io non dicevo quella proboscide... è lei
che...»
Ancora le
ragazze del
negozio
ridevano; ed erano fortunati che la cassa si trovasse nello stanzino
adiacente, altrimenti la commessa, assistendo alla scena, avrebbe preso
il telefono e chiamato la sicurezza.
«Taci
che
abbiamo capito tutti cosa volevi dire» lo sgridò
Sakura.
Fece
cadere
così
l'argomento, dicendo in silenzio alle donne nel reparto di tornare alle
loro faccende. Quanto a lei... credeva che prendersi gioco di Naruto,
come i vecchi tempi, potesse aiutarla a farle tornare il buon umore.
Invece niente. Non aveva nemmeno voglia di spremergli un cazzotto sopra
quella testa bacata che si ritrovava. Il che non era assolutamente nel
personaggio. Ecco come la stava riducendo la grandine!
«Piuttosto
che ci fai qui?» gli domandò. «Ti
ricordo che non me l'hai ancora detto.»
Un diverso
tipo di
rossore
ricoprì le guance di Naruto, un tenue rosa che
imporporò
il naso e la pelle sotto gli occhi. Prese in mano una tazza, vicino
alla tazzina da caffè che aveva rischiato di rompere e la
allungò, perché Sakura la vedesse meglio.
«Cavolo!
È davvero bella!» gli disse lei.
Era una
tazza
allungata, dal collo
stretto, di un piacevolissimo argento chiaro che sfumava nel bianco;
impreziosita, sul lato opposto al manico, dal disegno di un fiore di
loto; i petali calcati ai margini da una polvere di brillantini che
ricopriva il manufatto di un'aura luccicante.
«Io-»
Sakura scosse il
capo, allibita non tanto dalla bellezza dell'oggetto, quanto
più
dal fatto che fosse stato Naruto a sceglierlo. «Io non
credevo
avessi tanto gusto estetico.»
Ma poi
l'occhio le
cadde sulla
divisa arancione, l'obbrobrio per eccellenza. Un brivido di disgusto le
salì su per la schiena.
«Anzi,
no» aggiunse.
«Mi correggo. Tu e Hinata dovete assolutamente venire a cena
da
me, una di queste sere. Devo farle davvero tanti complimenti, se
è riuscita ad addomesticarti e a farti comprare qualcosa che
non
sia di quel colore osceno!»
Naruto
inorridì e
adagiò rapido la tazza dal fiore di loto sul tavolino, prima
che
uno dei suoi gesti scomposti finisse con il mandarla in mille pezzi.
Non appena se ne liberò, si mosse tutto, per evidenziare la
sua
contrarietà con una gamma vastissima di movimenti: un pugno
menato in aria, una pedata al pavimento, veloci scossoni della testa.
«Ma
Sakura-chan!»
disse. «Sei proprio cattiva oggi! L'arancione è un
bellissimo colore. E poi la tazza è per Hinata,
perché
io, cioè, vedi-»
E il tono
si
abbassò,
gradualmente, l'esatto opposto di come si era alzato. Di nuovo il
rossore tornò a coprire le gote di Naruto. Sembrava che si
fosse
trasformato in Hinata; sembrava che, a forza di passare le sue giornate
con lei, avesse assorbito tratti del suo carattere: il farsi
improvvisamente silenzioso, lo spostare gli occhi a terra, il rigirarsi
i pollici, l'uno con l'altro. Perché era evidente che lo
mettesse in imbarazzo esternare il suo lato romantico, la parte
innamorata.
Che poi
–
Sakura poteva
dirlo, visto che in pochissimi lo conoscevano meglio di lei –
la
parte innamorata era ovviamente tutta: non c'era un solo atomo che
componeva il corpo di Naruto Uzumaki incapace di amare Hinata Hyuuga
alla follia. Anche perché il suo compleanno non era nelle
vicinanze e la tazza doveva essere uno di quei regali nati
così,
giusto per il gusto di donare, senza attendere una ricorrenza precisa.
A Sakura
fece una
grandissima
tenerezza, tanto che le venne voglia di abbracciarlo e di stringerlo
forte forte, come fa una sorella con il fratellino minore; con le
lacrime agli occhi, orgogliosa e un po' rattristata dalla sua crescita.
Però non era nel personaggio abbandonarsi a smancerie con
Naruto
e quindi si limitò a portare le mani ai fianchi. Con un
piccolo
colpo di tosse lo costrinse a sputare il rospo.
«Vedi»
le disse lui.
«Ieri sono venuto qui, con lei. Cercavamo un servizio da
tè per la casa. Fa freddo e Hinata ha sempre le mani gelide
e io
non voglio che pensi che non sappia prendermi cura di lei, insomma
capisci, che ci ripensi e torni a vivere dagli Hyuuga-»
Di nuovo
si
rigirò i
pollici. E di nuovo Sakura sentì nascere in lei la voglia di
spupazzarlo tutto, questa volta come un cucciolo di cane, di mettergli
in disordine i capelli, ma – di nuovo – questo
eccesso di
coccole e attenzioni sarebbe stato totalmente non da lei; e tra l'altro
non era il momento di rifilargli nemmeno un pugno, quindi rimase buona
e zitta, in attesa che Naruto riprendesse la narrazione.
«Però
quando ho visto
il servizio arancione, mi è sfuggito che mi
piaceva» disse
lui con tono colpevole. «E invece lei voleva prendere questo,
e
alla fine è successo così, che Hinata voleva
comprare
quello arancione per non fare un torto a me; io volevo prendere quello
argento per non fare un torto a lei.»
«E
alla
fine non ne avete preso nemmeno uno!» concluse Sakura,
tirando le somme.
Naruto
serrò le labbra e
chiuse i pugni, tirando le braccia lungo i fianchi. Dei membri del team
7, era quello ad essere cresciuto di più; era diventato
responsabile e serio, non un guastafeste tutto scherzi e strilli come
all'età di dodici anni. Eppure certi gesti – la
mimica del
viso, il modo di manifestare gioia e dolori – erano rimasti
immutati. E quella posa Naruto l'assumeva quando una certa persona gli
metteva il bastone tra le ruote.
«Alla
fine
è arrivato
Sasuke, quel segugio!» Sasuke. Prevedibile e scontato.
«Mi
ha detto che ero una femminuccia e che l'Hokage ci stava
aspettando e
che, se non mi fossi dato una mossa, avrebbe convinto la vecchiaccia a
dare il titolo a lui e non più a me e quindi io-»
«Te
ne sei
andato con Sasuke dimenticandoti di Hinata!»
Naruto
rizzò la schiena,
una volpe sconvolta dal botto emesso dal fucile di un cacciatore. E
Sakura, il cacciatore in questione, capì dal volto del suo
amico
di aver sparato non un proiettile, ma un'immensa cavolata.
«Ma
che
dici?»
sbottò Naruto. «Non mi dimenticherei mai di
Hina-chan!
È delle tazze che mi sono scordato. Hina-chan invece l'ho
portata via con me!»
Sakura
sorrise. Avrebbe dovuto saperlo, lei che si vantava di conoscerlo
così bene, perché c'era un numero limitato di
persone
– forse un numero pari a zero – capace di amare
come amava
lui; perché quando Naruto amava, amava con cuore, fegato,
polmoni e quel briciolo di cervello che si ritrovava. Amava al punto da
aver giurato all'intero clan Hyuuga di non separarsi mai da quella
ragazza dagli occhi lavanda, fino alla fine dei suoi giorni. L'avrebbe
onorata e venerata, come se nelle braccia gli dèi stessi gli
avessero posato una dea, la dea della luna e della felicità.
La
sua felicità. L'avrebbe rispettata e, quando sarebbe
diventato
Hokage, avrebbe fatto scolpire nella montagna il viso di entrambi.
Perché quando si era accorto di amarla, aveva capito che non
sarebbe più potuto esistere senza di lei. E da bravo scemo
gli
erano serviti anni per comprendere che quel bruciore al petto, al
cuore, non era gastrite o un piatto di Ramen di troppo. Erano dovuti
passare sotto i ponti fiumi di acqua con una portata tale da riempire
l'oceano: svenimenti, invasioni nemiche, guerre, confronti faccia a
faccia con la morte. Ma quando lo Tsukuyomi era stato
annientato,
Naruto aveva iniziato a vedere la vita. Era corso da Hinata, pregandola
di aspettarlo: doveva parlare con i Kage, assicurarsi che scagionassero
Sasuke, ma c'erano miliardi di cose che doveva dirle, se solo avesse
potuto aspettarlo, ancora un altro po'. E Hinata, con le lacrime per la
gioia, fiduciosa in quel sorriso luminoso, aveva giurato.
Finché
era tornato da lei, donandole il suo cuore. Lei, solo lei, aveva saputo
vedere in lui la luce, mentre tutti lo credevano il buio. Ma si sapeva
che Naruto Uzumaki era una testa quadra, no? Non aveva capito niente.
Però poi l'aveva vista anche lui, la luce che c'era in lei,
ed
era così abbagliante che aveva dovuto distogliere lo sguardo
per
non rimetterci gli occhi.
“Hinata, ricordi
quando ti ho detto che mi piacciono le persone come te?”
Ovviamente.
“Mentivo! Era tutto
un grande sbaglio!”
Era impallidita. Ecco la
carta del due di picche.
“Hinata, non mi
piacciono le persone come te”.
Il rifiuto.
“Mi piaci
tu.”
E il due di picche divenne un
asso di cuori.
“Mi piaci tu e
basta”.
«Svegliati,
testa quadra! Non è il caso di pensare a Hinata ad occhi
aperti!»
Alla fine
glielo
tirò quel famoso pugno in testa e dovette ammettere che un
pochino si sentì meglio.
«Ma
Sakura-chan, come hai fatto a capire che io stavo-»
«Perché
quando pensi a Hinata sbracci e ti muovi tutto. E sbavi
pure!»
Inutile
dire che
Naruto negò. Nel giro di qualche mese sarebbe diventato Hokage e gli Hokage
non sbavavano. Tsunade gli aveva dato perfino qualche lezione di
portamento! Sakura non ci credeva minimamente, visto che anche il
portamento della maestra lasciava parecchio a desiderare. Inscenarono
così un altro dei loro siparietti, fino a quando entrambi
non si
stancarono di rimbeccarsi: “tu pensi a Sasuke”;
“tu
pensi a Hinata”; “Sasuke”;
“Hinata”;
“Sasuke”; “Hinata”.
«Andiamo»
disse
Sakura, chiudendo per prima il loro gioco da dodicenni. «Ti
accompagno a pagare, così eviti di fare qualche
disastro.»
Lo
trascinò per la manica
della felpa tra i tavoli rotondi e arrivò all'arco che dava
accesso allo stanzino con la cassa. Una grande tenda rosa antico
separava le due stanze. Sakura la scostò, accarezzando quel
manto di seta pregiata, ma appena varcò la soglia
mollò
la presa e il tessuto le cadde sulla punta del naso. Con un gesto
rapido si liberò la visuale e puntò il dito in
avanti.
«Ma
quella
non è Hinata?» chiese.
«Hinata?»
Naruto si
mise
dritto, composto e con la tazza in bella vista;
sennonché si ricordò che era un regalo e
cercò un
posto dove nasconderla, per non essere colto sul fatto. Fece troppo
rumore, sbattendo la schiena sullo stipite della porta. Fu il suo
“ahi” a tradirlo. Hinata riconobbe la voce e si
girò
di scatto.
«Naruto-kun?»
Tra
le sue
mani una tazza
arancione per nulla raffinata, ma che metteva una certa simpatia. Quei
due passavano davvero troppo tempo insieme. Sakura ne era convinta:
avevano le stesse idee. Così Hinata fissava la tazza
argentata
tra le mani di Naruto e Naruto fissava la tazza arancione tra le mani
di Hinata. Nello stesso istante i loro occhi si alzarono dai due
oggetti e si incrociarono, mentre una risata divertita usciva dalle
bocche; Naruto si grattava la testa, come faceva sempre da imbarazzato;
Hinata invece era arrossita.
«Io
pensavo
che visto che fa sempre freddo-» disse lui.
«No,
ero io
che pensavo che-» disse lei.
E intanto
si fecero
più
vicini. E Sakura, nel ruolo del candelabro, nonché del terzo
in
comodo, si faceva sempre più lontana.
«È
colpa della grandine e poi ti piaceva-» riprese a dire lui.
«Ho
pensato
la stessa cosa;
e poi gli operai devono ancora mettere il riscaldamento per
quest'inverno, quindi-» riprese a dire lei.
Non era
educato,
anzi, era da vera
impicciona, ma Sakura non poté fare a meno di guardarli.
Guardava Hinata soprattutto e si meravigliava della luce che sapeva
emanare. Aveva sempre paragonato i suoi occhi alla lavanda che vedeva
nel negozio degli Yamanaka. Alla presenza di Naruto, tuttavia, le iridi
si ricoprivano di riflessi argentei, simili alla luna che ricavava la
luce dal sole. E non c'era bisogno di dire chi fosse il sole di Hinata.
«Sai
cosa
facciamo, Hina-chan? Compriamo non solo tutte e due le tazze, ma anche
tutti e due i servizi!»
E mentre
Hinata
ribatteva che entrambi i servizi costavano troppo e Naruto le
assicurava che non era un problema – diventerò
Hokage, Hina-chan; ti ricoprirò d'oro e di
felicità;
ogni tuo desiderio sarà un mio desiderio; ogni tuo sogno un
mio
sogno – Sakura sentì un moto di
stizza farle
prudere la pelle delle mani. Gelosia, ma non gelosia di Naruto in
quanto uomo; gelosia della loro relazione, del loro condividere, di
tutto quello che lei non avrebbe mai avuto.
Da bambina
aveva
sempre saputo che
il suo uomo sarebbe stato Sasuke. Da adulta aveva imparato a
rassegnarsi: non sarebbe mai stato lui. Così, ora che aveva
accartocciato il sogno d'infanzia, si rassegnava a una vita senza
Sasuke, ma si rassegnava anche a una vita senza un uomo al suo fianco:
se quell'unico non poteva essere Sasuke, allora non sarebbe stato
nessuno.
Quando
stava in
solitudine, chiusa
nel monolocale o al lavoro, si trattava di una rassegnazione stanca, ma
tutto sommato accettabile. Quando si confrontava con la
felicità
dei suoi amici, invece, era un sentimento amarissimo, più
dello
sciroppo per la tosse. Vedere Naruto abbracciare Hinata e strofinare il
naso contro il suo, troppo pudico per un grande atto in luogo pubblico,
trasformava il sangue delle vene in veleno; le faceva venire voglia di
correre a casa, schiacciare la testa sotto il cuscino e scoppiare a
piangere.
Alla fine
Naruto se
ne
fregò della pudicizia e stampò un piccolo bacio
sulle
labbra di Hinata. Sakura stralunò gli occhi al cielo: ma
quanto
erano smielati quelli che si innamoravano? A grandi falcate
marciò verso la cassa e sbatté entrambi i palmi
sul
tavolo smaltato di bianco.
«Mi
dia una
tazza adatta a
una vecchia zitella!» ordinò alla commessa, con un
tono
che non ammetteva replica. «La più brutta che
trova e
quella che costa meno.»
La donna
alla cassa
fece una faccia allucinata.
«Signorina,
ma-»
«Niente
ma,
se, però!
Non mi interessa!» le disse. Indicò poi una
tazza appoggiata sulla mensola, dietro la testa castana della commessa.
Economica, in semplice porcellana bianca. «Sakura Haruno non
ripete!»
O
meglio... ripete
solo
sensazionali confessioni d'amore a stupidi uomini complessati, con le
capacità verbali e relazioni di un orango-tango. Ma questa
era
tutta un'altra questione e al momento non aveva importanza. Doveva
fuggire da quel nido di piccioncini, presi a scambiarsi carezze sul
viso e battute dolci e svenevoli; doveva uscire, all'aperto, dove
almeno la grandine, fredda di natura, si poteva adattare al gelo del
suo cuore.
«Ci
si
vede, ragazzi» disse.
Probabilmente
non
venne sentita
perché non ottenne risposta. Solo quando scostò
il drappo
rosa antico, con le intenzioni di sparire dalla loro vista, la voce di
Naruto la raggiunse da dietro.
«Sakura-chan!»
La
guardava con il
sorriso da
idiota, quello che sembrava dire: “Suvvia, non essere triste!
Il
mondo è bello e colorato e ci sono gli unicorni arancioni
che
fanno consegne di ramen
a domicilio!”. Stava attaccato a
Hinata e
le avvolgeva i fianchi con un braccio; un'espressione bizzarra stampata
in faccia. A Sakura parve volesse trasmetterle un briciolo di
autostima, rassicurarla: anche lei un
giorno sarebbe stata felice. Le sembrava stesse facendo il tifo da
lontano, credendo al massimo nelle sue capacità.
«È
dietro
l'angolo» le disse, per rincuorarla. «Devi solo
aspettare.
Aspetta ancora un po'!»
Prese le
sue parole
alla lettera.
Uscì dal negozio e prima di girare l'angolo, trattenne il
respiro, spaventata dalla novità che la stava attendendo al
varco, con il cuore e l'eccitazione sparati a mille, una bambinetta che
scartava un pacco regalo, convinta di trovare all'interno della
confezione la bambola dei suoi sogni. Invece il negoziante aveva
riempito quella scatola di pezzi di polistirolo, un brutto scherzo. E
dietro quell'angolo, proprio come nel pacco regalo, non c'era un bel
cavolo di niente.
La
delusione premette
in lei al
punto che si sentì di nuovo stupida. Come avrebbe potuto
dirsi
intelligente una giovane donna capace d'illudersi? Si sapeva che Naruto
era un sognatore; si sapeva che i suoi desideri nascevano con la
potenzialità di diventare veri; ma solo perché il
futuro
Hokage
otteneva quel che voleva, non significava che la medesima catena
desiderio-realtà potesse adattarsi anche a lei.
A Sakura
non serviva
un sognatore
che fomentasse fantasie irrealizzabili. A Sakura serviva una persona
pratica, una che non si facesse problemi a sbatterle in faccia la
verità dei fatti, una che riuscisse a dirle, senza troppi
peli
sulla lingua: “Mia cara fronte spaziosa, apri i tuoi grandi
occhioni smeraldo e fattene una ragione. Lui non ti vuole e mai ti
vorrà”. E c'era solo una persona che l'amava al
punto da
essere disposta a ferirla, pur di salvarla: Ino Yamanaka.
--
Ed ecco il terzo capitoletto (e Sasuke non si decide ad
apparire! Beh con lui... con lui ci vuole moooolta pazienza). Ne
restano solo due adesso. Ovviamente - partecipando la fic a un contest
- i capitoli sono già stati scritti. Devo solo essere un po'
meno pigra del solito e decidermi a fare gli html... e anche un po' di
sveglia e brillante (così non mi dimentico di aggiornare).
Un grande grazie a tutti quelli che seguono, leggono, recensiscono la
storia e, se non ci sentiremo prima (tradotto: se non
aggiornerò prima) un buon natale a tutti voi!
Un bacione
Odiblue
|
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Capitolo 4 *** IV. ***
IV.
Due chicchi di
grandine scesero
dal cielo per dirle di velocizzare il passo: il negozio di Ino era
lontano e, se ci fosse stato il sole, l'ora sarebbe stata quella del
tramonto. Sakura però non aveva voglia di ingranare le marce
più alte e sfrecciare lungo i viottoli di Konoha come una
furia.
I chicchi di grandine erano stati, per l'appunto, solo due; si sarebbe
goduta quella passeggiata, cercando di sputare fuori, assieme alla
nuvoletta di freddo che le usciva dalle labbra, il cattivo umore e lo
stupido amore che la legava a Sasuke. Si preparò mentalmente
per
il confronto con Ino. Conoscendola, le avrebbe detto di prendere quel
sentimento che le martoriava il cuore, legarci una bella pietra e
gettarlo in fondo all'oceano.
A meno che
non si
fosse raddolcita
nell'ultimo periodo. Un po' doveva essere così. Da quando
stava
con Sai, imprecava meno, sbraitava meno, prendeva a pugni il povero
Shikamaru. Meno. Aveva dell'incredibile come quei due fossero finiti
insieme. Aveva dell'incredibile che fosse stato proprio
“colui
che non capiva le emozioni” a fare il primo passo. Aveva
dell'incredibile che quel fatidico primo passo si fosse rivelato
giusto. E aveva dell'incredibile che Ino Yamanaka, storicamente cotta
di Sasuke e, a giudizio di Sakura, con una certa simpatia per Shikamaru
sin dall'infanzia, fosse capitombolata ai suoi piedi senza il bisogno
di un lungo corteggiamento di fiori, poesie, cioccolatini e gioielli.
Solo un
invito a
cena, a tre mesi
dalla fine della guerra. Sai era andato al negozio, a mani vuote, e il
caso aveva voluto che Sakura si trovasse lì, in cerca di
qualche
fiore per una vecchia signora ricoverata all'ospedale. Una vecchia
signora triste, bisognosa di profumi buoni e bei colori. Appena aveva
visto il suo compagno di team varcare la soglia della serra e zigzagare
tra i banconi colmi di gerani e non-ti-scordar-di-me, le erano parse
chiare le sue intenzioni.
“No”
aveva sussurrato a Ino.
Non un
“no” che voleva
dire “cavolo, perché a lei e non a me?”.
Un
“no” pieno di stupore; un “no”
che poteva
essere tradotto con un “Non ci posso credere! Sta succedendo
sul
serio?”.
“Sakura,
ti
senti bene?” le aveva chiesto la sua migliore amica.
In tutta
risposta, si
era trovata
a farle l'occhiolino. Poi l'aveva strizzato anche a Sai, per augurargli
buona fortuna, ma lui, in tutta la sua gentilezza e in tutto il suo
acume mentale aveva creduto che un moscerino le si fosse incastrato tra
le ciglia.
“Ino,
Sai,
vado nella serra
là dietro, a vedere se c'è qualcosa che mi
interessa.
Questi fiori non mi piacciono proprio per niente”.
Ino non
l'aveva
seguita ed era
rimasta alla cassa. Le aveva gridato dietro, però, che i
suoi
fiori erano pregiatissimi e raffinatissimi e che doveva essere miope
per non riconoscere il loro valore. Quella stupida gallina bionda non
aveva capito le intenzioni di Sai. Sakura, se costretta, avrebbe
ammesso che tra lei e il suo compagno di team c'era sempre stata una
certa empatia. Si capivano con un solo sguardo, forse per una qualche
affinità di carattere.
“Perché
siete entrambi un disastro con le emozioni” le aveva detto un
giorno Ino.
Ma almeno
non le
erano serviti
venti minuti per accorgersi che Sai era cambiato, a differenza di
qualcun altro. Una strana molla era
scattata in lui. Un piccolo cilindro piegato su se stesso aveva messo
in moto la grande macchina dei sentimenti; e Sakura aveva capito che
era stata proprio Ino, pur senza accorgersene, a toccare con un'unghia
smaltata quel minuscolo ingranaggio e a dare inizio al tutto.
Lei,
invece, -
stupida oca! -
aveva continuato a insultare Sakura, dicendo che, nonostante anni di
studio, non sapeva nemmeno riconoscere una bella pianta di fiori.
Finché Sai, con un sorriso stampato in faccia, un sorriso
non
tanto sicuro e un po' spaventato, era saltato dietro la cassa,
mettendosi di fronte a lei.
“Usciamo
a
cena stasera”.
Dalla sua
posizione,
nascosta
dietro un pino e con un cactus alle spalle, Sakura non si era trovata
in un buon punto per spiare. Pertanto non aveva visto quale assurda
espressione si fosse dipinta sul volto di Ino. Aveva però
scorto
le spalle abbassarsi, sopraffatte da un'ondata immaginaria di sconforto
e delusione; e aveva sentito la sua voce spegnersi e il silenzio
regnare vincitore nella stanza.
Sakura,
spettatrice
esterna di
quella dichiarazione non compresa, aveva sentito nascere in lei il
desiderio di prendere il cactus e tirarlo in testa alla sua cara
migliore amica. Altro che maialino! Ino era una stupida gallina senza
cervello! Ma perché non ci arrivava?
“Sai,
ascolta.”
L'aveva sentita pronunciare il nome del ninja con un'infinita pazienza
che di norma non scorreva nel sangue Yamanaka. “Ti ringrazio
tantissimo per l'offerta, ma vedi, quando inviti una donna a cena, lei
si fa delle idee come dire... sentimentali. Quindi se le tue intenzioni
non sono serie, non dovresti-”
“Ma
io so
benissimo quali sono le mie intenzioni, Ino-san” l'aveva
interrotta lui.
Aveva
usato un tono
di voce
talmente vitale e sicuro che, se Sakura non lo avesse sentito con le
sue stesse orecchie, avrebbe creduto ci fosse stato uno scambio di
persona. Era scivolata fuori dal suo nascondiglio, per riparare
nell'altro lato della serra, dietro al vaso delle ortensie; aveva visto
la sua migliore amica sgranare gli occhi e arrossire, aprire e chiudere
le labbra, velocissima, incapace di trovare una parola con la quale
replicare.
Quella
gallina ha
preso un granchio! Si era detta Sakura facendo a pezzettini una corolla
di petali azzurri.
Ma Sai era
stato
bravo a
seppellire ogni malinteso sotto quintali di terra, gettandovi sopra
manciate di sale, per impedire che un nuovo dubbio attanagliasse la
mente della sua futura ragazza. Le prese la mano e mosse un passo in
avanti, schiacciando il petto contro il seno di lei, non staccando gli
occhi, nemmeno per un secondo, da quelle iridi identiche ai petali
d'ortensia che le mani di Sakura continuavano a polverizzare.
“Le
mie intenzioni con
te sono le stesse di Naruto con la Hyuuga” le aveva detto.
“Le stesse di Shikamaru con la tizia dalla Sabbia.”
E Ino
Yamanaka non si
era lasciata
scappare l'occasione d'oro, quella dei suoi sogni. Gli aveva gettato le
braccia al collo, tappando la bocca di lui con la propria, e aveva
fatto avvenire quello che tutti i cittadini di Konoha finirono con il
chiamare “miracolo”.
A
molti pareva impossibile che una come Ino Yamanaka, nata per amare,
avesse dedicato anima e corpo a un involucro privo di emozioni.
Perché Ino aveva sempre avuto troppo amore da dare. Al suo
team,
a Asuma, a un padre che non avrebbe visto mai più. Sakura lo
sapeva bene: non si trattava di una stupida oca tutta vestiti alla moda
e pettegolezzi. Se qualcuno poteva sostenerlo con fermezza, quel
qualcuno era proprio lei. Ino le aveva donato il suo affetto, l'aveva
riempita di convinzione e stima per se stessa, era andata contro ogni
principio pur di vederla felice. A modo suo, con scherzi e prese in
giro, l'aveva amata.
Ma
a differenza di quei molti, Sakura sapeva anche che Sai non era un
involucro vuoto. Era un bellissimo vaso con pelle di marmo e occhi di
carboncino. E dentro quel vaso, un contenitore dotato di tappo
ermetico, si agitava uno sfarfallio di sentimenti confusi, talmente
disorientati da restare in silenzio, muti, per la paura di trovarsi nel
posto sbagliato. Aspettavano semplicemente che qualcuno aprisse il vaso
e li accarezzasse, donando loro una nuova voce. Chi allora meglio di
Ino Yamanaka, che di amore traboccava, avrebbe potuto dare ordine a
quel puzzle scomposto di emozioni e insegnargli il vero valore della
vita?
Ancora prima di
entrare nel
negozio, Sakura sentì nell'aria un dolcissimo profumo di
fiori e
pollini. Una miscela che odorava di calicanto, gigli e gelsomino le
solleticò la punta del naso e rilassò i muscoli
del
corpo. Tesi, dopo l'incontro con Naruto e Hinata. Tesi, dopo l'incontro
con un destino di solitudine. Era stata una buona idea andare da Ino;
le pareva infatti che quella fragranza naturale avesse il dono di
allontanare il mal di testa che le premeva sulle tempie, oltre a un
brutto raffreddore che tutta quella grandine le avrebbe sicuramente
causato.
Alleggerita
e
desiderosa di fare
quattro chiacchiere con la sua migliore amica, aprì la porta
del
negozio. Non lo avesse mai fatto! Maledetta le decisione di andare a
trovarla! Con uno scatto e un grido, sfuggito alle labbra, si
voltò di spalle, per non vedere un secondo in più
quel
che mai avrebbe voluto vedere.
«Fronte
spaziosa, non sai
leggere?» strillò Ino. La voce acutissima, vinta
da una
punta di isteria, oltre che dalla vergogna per essere stata colta sul
fatto. «Il cartello! C'era scritto chiuso!»
Sakura
sentì il rumore
della zip venire tirata su, il botto delle scarpe che, per un movimento
maldestro, finirono a terra, prima che quella gallina della sua
migliore amica riuscisse a rimettersele.
«Ma
come
facevo io a sapere che-» provò a dire.
Non
riuscì
a concludere la
frase. Avrebbe avuto gli incubi. Avrebbe avuto gli incubi a vita.
D'accordo che le amiche si confessavano le loro storielle bollenti e le
esperienze piccanti, ma vedere Ino e Sai, nel preciso mentre, nudi se
non per le magliette, sdraiati sopra il bancone con la cassa...
«Che
vergogna!» gridò lei.
«Vergogna
tu?» gridò Ino.
Era una
dura
competizione a chi
delle due fosse più imbarazzata. Sakura poi non avrebbe mai
e
poi mai voluto voltarsi di nuovo. E forse non sarebbe riuscita a
guardare in faccia Ino e Sai per il resto dei suoi giorni. Si
girò solo perché vide il suo compagno di team
comparirle
affianco, completamente vestito e impassibile, se non per il solito
sorrisetto che da quando stava con Ino non riusciva a levarsi di dosso.
«Non
sgridarla, tesoro»
disse alla sua ragazza.
Enfatizzò
quel
“tesoro” in una maniera non normale, quasi fossero
due
bambini che parlavano in codice. Se Sakura non avesse avuto la bocca
piena di imbarazzo, avrebbe ribattuto ad alta voce che lei e Ino si
confidavano come all'età di quattro anni e non c'era bisogno
di
nasconderle dei segreti. Sapevano tutto l'una dell'altra... a parte il
fatto che Ino indossasse slip con le fragole, quando le aveva sempre
detto che la biancheria doveva essere rigorosamente di pizzo nero.
Sakura
adocchiò le mutandine rosa che la sua migliore amica si era
scordata di rimettersi. Colpa della fretta.
«Vedi,
tesoro»
stava intanto continuando a dire Sai. Ancora con quel tesoro?
«Chi non ha una vita sessuale non può immaginare
che gli altri ne abbiano una.»
Le
tirò
una pacca sulla
spalla, in segno di consolazione. Mai e poi mai farsi difendere da Sai.
Sperò solo che Ino si munisse di quella delicatezza che in
genere non conosceva per spedire il suo fidanzatino fuori dalla serra.
«Hai
ragione, tesoro»
disse invece. «Beh, Fronte Spaziosa, dovresti farti prestare
un
certo libro dal tuo caro maestro, giusto per evitare di trovarti in
situazioni imbarazzanti.»
Parlò
come
se quello
scambio di battute fosse un gioco, una barzelletta, e non
immaginò, nemmeno da lontano, che potesse fare male vedersi
sbattuta in faccia la verità: era una perdente. Non aveva
mai
avuto un ragazzo, mai fatto sesso e l'unico bacio che aveva dato se
l'era giocato in una missione, per portare a casa la pelle.
Eppure
Ino, pur
sapendo, faceva la
voce da civetta e ci ridacchiava su. Anche Sai si concesse una
risatina. E pensare che lei aveva sempre creduto che le loro menti,
emotivamente difettate, corressero sulla stessa onda.
«Non
è colpa sua,» lo sentì dire,
«se l'Uchiha non vede alcuna ragione per amarla.»
Le
sembrò
di essere un
vetro, sottilissimo e già crepato, rattoppato con strati di
mastice e colla; le parole di Sai un sasso grosso, pesante, un masso
che non poteva essere evitato. Andò a sbattere su di lei, su
quel vetro sottilissimo che anno dopo anno era stato mandato in
frantumi da
troppi colpi.
Smise di
respirare,
con gli occhi
asciutti per lo smarrimento, perché la battuta di Sai aveva
colto di sorpresa anche le lacrime, gocce d'acqua salata che non
avevano capito: era il momento di intervenire. Nemmeno guardare Ino le
fu d'aiuto. La trovò smarrita quanto lei, con una risata
bloccata in gola e le mani che le tremavano un poco. Anche Sakura, in
passato, era stata vinta da quel tremito e sapeva che per calmarsi
doveva tirare un pugno o lanciare kunai. Ino sembrava pronta a farlo.
Fissava Sai con lo sguardo di fuoco e unghie che non vedevano l'ora di
graffiarlo e scorticarlo vivo.
Ma Sakura
non voleva
che Sai morisse. Doveva parlare.
Non vede alcuna ragione per
amarmi.
«Chi te
l'ha detto?» gli chiese.
La coda
dell'occhio
intravide la
testa di Ino muoversi in piccoli no, no. Il gesto che si faceva per
dire di tacere, non rivelare la verità. Brutto mostro la
verità! Una volpe a nove code capace di distruggerli tutti.
Sakura guardò Sai, ancora il sorriso in viso, incurante
delle
preghiere di Ino.
«Naruto»
le disse.
Il cuore
fece un
salto in gola. Tra tutti, proprio lui.
Naruto.
Aveva visto giusto
qualche ora prima, al negozio. A
forza di rincorrere il Teme
non era una battuta mal riuscita, ma l'esplicitazione di un pensiero
che girava e girava in quella testa bionda da chissà quanti
anni. Non poteva crederci. Non poteva credere che Naruto la vedesse
davvero come quella larva che strisciava nel fango, una farfalla senza
ali.
Aprì
le
labbra per
supplicare Sai, per chiedergli di dirle che era uno scherzo. Il sorriso
sulle labbra di lui era rotto e pareva domandarle scusa e infatti
cercò di riparare al malanno. Corresse il tiro:
«Ma
a
Naruto l'ha detto Sasuke. Due anni fa.»
Lo
corresse in
peggio. Sasuke.
Sempre lui, lui che non si accontentava di vederla ridotta in tante
schegge di vetro, depositate sul pavimento di un negozio di fiori.
Doveva ridurla in polvere, sabbia destinata a volare via, nel vento.
«Faresti
meglio a chiedere a
Sasuke, così magari ti schiarisce le idee e forse le
schiarisce
anche a se stesso-»
«Basta!»
Sakura
trasalì nel sentire
l'ordine di Ino. Aveva gli occhi lucidi e i nervi delle braccia tesi,
lungo i fianchi. Con una piccola scossa, mosse la chioma bionda,
arruffata dopo il sesso con Sai.
«Basta»
lo supplicò. «Non è questo il modo
giusto per incitarli, tesoro!
È meglio se vai!»
Sai
abbassò lo sguardo e
Sakura capì che non avevano litigato. Avevano solo idee
diverse
su un argomento, una faccenda importante, e da quanto aveva intuito
quell'argomento importante era proprio lei. Su una cosa almeno non si
era sbagliata: l'unica persona disposta a ferirla, pur di salvarla, era
proprio Ino. La vide salutare Sai con un bacio sulla guancia e
sussurrargli di andare. Si sarebbero incontrati dopo cena.
Ora me ne vado anch'io.
Si sentiva il respiro
pesante, un
mattone piazzato alla base del collo che le impediva di alzare il petto
e di abbassarlo. L'odore dei fiori poi – il calicanto, i
gigli,
il gelsomino – era nauseante, incastrato nelle narici. La
stava
soffocando.
«Non
darci
peso, fronte
spaziosa» le sorrise Ino. La sua voce le ricordò
improvvisamente sua madre. «Conosci Sai. Chissà
che ha
capito?»
Si
trasformò nella Ino che
l'aveva consolata da bambina, quella che le raccontava le favole e le
diceva che era un bocciolo. Doveva solo aspettare la giusta stagione e
si sarebbe schiusa nel più bello dei fiori. Solo che Sakura
aveva smesso di credere alle favole quando Sasuke era fuggito da
Konoha. La prima volta.
«Dai,
non
fare quella
faccia!» la pregò Ino. Le diede un buffetto sul
braccio.
«Se stessimo ad ascoltare tutte le stronzate che dicono gli
uomini, torneremo all'età della pietra.»
Rise da
sola alla sua
battuta,
orrenda, e si stampò in faccia un sorriso troppo largo, al
punto
che sembrò avere una paralisi alla mascella.
Iniziò ad
aggirarsi per il negozio, passando da un'ortensia a un giglio, con
frenesia. Mostrava una naturalezza che non aveva, quasi parlare in
fretta e muoversi stile tornado potessero cancellare dalla mente di
Sakura parole incise in lei con il fuoco. Indelebili.
«Allora,
fronte spaziosa, ti
serve qualcosa?» le chiese. «Non che ci restino
molti fiori
in serra. La grandine ha bucato i teli di protezione e rovinato i
petali, quindi-»
Era
troppo. Aveva
sempre saputo di
non possedere l'ombra di una chance con Sasuke, capito che
quell'angolino di posto che reclamava nel suo cuore non era mai
esistito; ma sentirselo dire così, in faccia; e sapere che
Sasuke lo pensava da due anni e non si era mai degnato di dare una
risposta alle sue due confessioni, un rifiuto ufficiale... Sakura
sentì le gambe cedere, ogni forza prendere il volo dal corpo
e
abbandonarla. Dopo tutto quello che aveva fatto per lui!
«Detesto
la
grandine!»
gridò con tutta l'energia che le restava.
«È
fastidiosa e testarda. Per quanto corri, cercando di sfuggire ai suoi
colpi, lei ti trova e non ti lascia scampo.»
Ricordava
lo sguardo di Sasuke cambiare. Avevano dodici anni e lei ignorava molte
verità. “La solitudine è un dolore che
non ha nulla
a che vedere con l'essere sgridati dai genitori” le aveva
detto.
Poi la scoccata finale, la prima di una lunga serie: “Sei
irritante”.
«È
una persecuzione» si trovò a dire.
«Quando ti picchietta in testa.»
“Tu
sei come Naruto. Se hai tempo per scocciarmi, lavora su uno o due
Jutsu. Francamente le tue abilità sono al di sotto di quelle
di
Naruto”.
«Quando
rimbalza sull'asfalto.»
“Non
permetterò a nessuno di fermarmi, nemmeno a te”.
«E finisce
sotto le scarpe.»
“Non ho bisogno del
tuo aiuto. Non provare a seguirmi.”
«Quando
ammacca un ombrello nuovo di zecca.»
“Sei davvero
irritante”.
«L'ho
sentita battere in me.»
“Sakura”.
Solo
il suo nome e uno sguardo vuoto. Poi, nel corso della battaglia, la
lama della katana puntata contro di lei, Yamato pronto a deviare
l'attacco.
«Nelle mie
vene.»
Continuare
a cercarlo, anni e anni, senza sapere dove fosse, se avesse qualcuno di
cui fidarsi, qualcuno che gli guardasse le spalle, qualcuno che lo
amasse almeno un'infinitesima parte di quanto lo amava lei.
«L'ho
sentita pulsare sotto la pelle.»
Perché non era mai
abbastanza?
«Mischiarsi
al mio sangue.»
Perché a Sasuke
non importava?
«E poi
arrivare al cuore.»
Il Chidori. Sakura non lo
vedeva, ma sentiva il crepitare delle scariche elettriche dietro la
nuca, a un millimetro dalla testa.
«E una
volta arrivata è stato un pugno che ha strappato atri e
ventricoli dalla loro sede.»
“Sei dannatamente
irritante, Sakura”.
«E mi sono
sentita morire.»
Proprio
al cuore doveva mirare? Quant'era assurdo che in un'illusione volesse
prendersi quella parte di lei che gli era sempre appartenuta?
«Perché
non può accontentarsi della pioggia e di qualche
fulmine?»
Ignorandola, chiamandola
debole, facendola sentire quella stupida nullità che lei non
era. Sapeva di non esserlo!
E intanto
Ino la guardava,
con le braccia colme di fiori recisi. Narcisi e gigli, gli stessi che
Sakura portava a Sasuke in ospedale nei periodi di ricovero, un simbolo
di speranza. La guardava con gli occhi lucidi, ma senza togliersi quel
sorriso sciocco che voleva protrarre l'illusione.
Andava
tutto
semplicemente e splendidamente bene.
«Fronte
spaziosa, ma che stai dicendo?» le chiese.
La sua
domanda le
parve una
supplica, la richiesta di lasciar perdere e accontentarsi al triste
fluire di ogni giorno, senza scavare più a fondo, senza
togliere
dalle sabbie che la proteggevano la mummia della verità,
perché a volte si stava meglio a non sapere. Viveva meglio
chi
ignorava.
«È
solo ghiaccio che scende dal cielo.»
Ma Sakura
era stufa
di nascondere
la testa sotto il lenzuolo. Era stanca di fingere ogni giorno di essere
felice, quando non lo era. Davanti ai suoi amici, per non farli
preoccupare; davanti a Sasuke, per non essere disprezzata; davanti a se
stessa per non credersi patetica. Era arrivato il momento di dire
chiaro e tondo quale fosse la realtà delle cose.
«No,
Ino.
Non è quello. Non è solo ghiaccio. È
qui, lo vuoi capire?»
Prese la
maglietta
all'altezza del
seno e la tirò, come se assieme al brandello di stoffa rossa
avesse voluto strapparsi via lo stesso cuore. Ecco la fonte di ogni suo
problema: quello stupido organo mal funzionante, la sede di sentimenti
sbagliati, il bersaglio preferito di ogni chicco di grandine, di ogni
sasso. E lei tirava ancora il maglioncino, affondando le unghie nelle
maglie troppe larghe che lo componevano e arrivando a graffiare la
pelle del petto.
«È
qui»
ripeté. «È qui ogni volta che lo vedo,
perché lui è come la grandine in questa stupida
stagione
d'estate. Non fa che tornare ad annientarmi, persino quando
è
lontano. E mi uccide con i suoi sguardi, con le parole che vorrei
sentirmi dire e non mi dirà mai, mi buca l'anima come tanti
e
interminabili proiettili di ghiaccio. E sai cos'è
peggio?»
Ino lo
sapeva
benissimo cos'era
peggio, ma continuava a ignorarla. Si girò verso un tavolo
colmo
di fiori e lasciò cadere i narcisi e i gigli che stava
cullando nelle sue braccia, solo una scusa per non guardare quella
povera malata d'amore che piangeva e si disperava e cercava di cavarsi
via il cuore. E forse le faceva pena, oppure le spiaceva,
perché
Sakura sapeva che Ino ci teneva a lei. Ci teneva sul serio. E infatti
le spalle tremavano in maniera quasi impercettibile, segno che stava
per cedere, stava iniziando a vedere il problema, a capire che quando
Sakura le diceva “sto benone, la cotta per Sasuke mi
è
passata, siamo solo amici, meglio così, no?” non
faceva
altro che mentire; costretta ad accettare quel che aveva sempre saputo,
ma preferito ignorare: c'erano amori così forti da poter
spazzare via con l'intensità di un battito l'anima di una
persona, da poter rompere con la loro tenacia e insistenza anche il
cuore più sano.
«Non
staremo parlando di Sasuke, spero» disse.
Sakura non
l'ascoltò e continuò per la sua strada:
«Il
peggio
è che ogni
volta io glielo lascio fare. Mi illudo che cambierà
e nel
suo cuore troverà un piccolo posticino per questa stupida
ragazzina innamorata.»
Era
evidente invece
che non
sarebbe mai successo. Il confronto con Ino e Sai aveva avuto il merito
di illuminare i sentimenti che Sasuke nutriva nei suoi confronti. Certo
che ammetterlo ad alta voce non aiutava, anzi quello sfogo, corredato
di un pianto con abbondanti lacrime, l'aveva svuotata. Alla fine le
gambe cedettero e lei si ritrovò seduta sul vaso di una
grande
mangiafumo. La terra, bagnata, le inumidì i pantaloni grigi
che
indossava e la fece tremare per il freddo, senza che lei trovasse la
forza di alzarsi. Studiò invece la punta dei piedi, non
sapendo
più che dire, non sapendo più che fare,
vergognandosi
della scenata che si era appena svolta davanti a Ino.
Quando
alzò lo sguardo,
trovò la sua migliore amica davanti a lei, accucciata a
terra
perché le loro teste fossero sulla stessa linea d'aria.
«Sakura,
lo
sai qual è il bello della grandine?» le chiese.
Non aveva
più gli occhi
umidi e la voce non era canzonatoria, da civetta. Le prese invece
entrambe le mani e le racchiuse nelle sue.
«Il
bello
della grandine,
Sakura, è che dura un secondo e subito dopo viene il sereno.
Lo
hai aspettato per anni. Ti sei presa sulla testa secoli di secchiate
gelide, e ora che il sereno sta comparendo all'orizzonte, dichiari
sconfitta?»
Ma che
stava dicendo?
Sakura
corrugò la fronte, smarrita. Ino avrebbe dovuto darle man
forte,
insultare Sasuke, consolarla con i classici “quello
lì
è una causa persa, lascialo stare, meriti di
meglio”; non
consigliarle di sistemare le ferite con una confezione di cerotti e
ributtarsi nella mischia.
«Hai
pianto
per lui ogni
notte della tua adolescenza» continuò a dirle.
«Hai
saputo amarlo anche quando sarebbe stato giusto odiarlo. E se credi che
siano vere tutte quelle stronzate che si leggono nei libri, che amare
significa non dire mai mi dispiace, allora sei più idiota di
Naruto.»
Aprì
bocca
per ribattere
che non era così, non era vero. Se si amava una persona,
bisognava impegnarsi per non ferirla e Sasuke invece le faceva male, di
proposito.
«Tutti
sbagliamo, Sakura, e
amare vuol dire avere la forza di ammetterlo, rimettersi in gioco,
calare ogni carta pur di riottenere la fiducia dell'altro-»
«Ma
a
Sasuke non importa nulla della mia fiducia, Ino!»
Perché
non
lo capiva?
«Lo
hai
detto tu,
ricordi?» Strinse ancor di più le sue mani, quasi
avesse
voluto passarle tutta la sua convinzione, tutta la sua forza.
«È come la grandine. È testardo e duro.
Ed è
una persecuzione. Perché potrebbe anche essere morto,
seppellito
sotto quintali di terra, ma non sapresti comunque lasciarlo andare. La
sua presenza ti tormenterebbe ogni giorno. Quindi sì,
è
corretto dire che ti è entrato sotto la pelle, si
è
mischiato al tuo sangue ed è arrivato al tuo cuore. Non
importa
in che modo. Sasuke è lì e non se
andrà.»
Sakura
sentì le lacrime
riprendere a scorrere sulle guance, silenziose. Le labbra tremarono nel
tentativo di formulare una risposta, ma mai Ino le aveva fatto un
discorso tanto vero. Che altro doveva combinare Sasuke
perché
lei imparasse a odiarlo e riuscisse a levarselo dalla testa?
«Vedi,
Sakura, se vuoi che
ti dica quel che penso,» lo avrebbe fatto comunque, vero?
«Ora come ora, per come ti guarda, non credo nemmeno voglia
andare via.»
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Capitolo 5 *** V ***
V.
“Pensi mai al futuro, Sasuke-kun?
“Stronzate“.
“Io ci penso sempre. Penso alle cose e alle persone che vorrei”.
“Il futuro non è importante, Sakura”.
“Se non lo è il futuro, che altro?”
“Il presente”.
“Ma il presente è adesso, Sasuke-kun!”. E adesso sei qui, con me. Lo ritieni importante?
“Adesso. L'importante è adesso”.
Le aveva detto quelle parole il dicembre passato, mentre cercava di convincerlo ad andare a una cena organizzata da Naruto e Hinata. Avevano camminato per strada, a mezzo metro di distanza, e poi Sasuke si era seduto. Su quella panchina. La fatidica panchina. Se lei si era lasciata cadere al suo fianco, la colpa doveva venir data alle gambe, incapaci di sostenerla. Aveva scelto una panchina a caso, Sasuke, senza ricordare che assieme a quegli strati di cemento erano fusi momenti del loro passato.
E lì Sakura aveva iniziato a riflettere sulla piega degli eventi, sullo scorrere del tempo, su quello che erano stati e quello che sarebbero diventati. E aveva chiesto a Sasuke se si preoccupasse mai del futuro; per ascoltare una risposta spiazzante: se non pensava al futuro, non pensava nemmeno a lei, a renderla parte della sua vita.
L'importante è adesso, poi, detto da lui, non voleva dire nulla.
Dopo aver salutato Ino ed essere uscita dal negozio di fiori, il cervello di Sakura era passato all'azione e le era parso che il vero senso di quel discorso le sfiorasse la mente, senza che lei riuscisse a coglierlo a pieno. Allora corse fino alla panchina, e si mise al posto di Sasuke, sperando di riuscire a calarsi nei suoi panni, a captare i suoi ragionamenti. Infreddolita per colpa di quel luglio traditore, ripercorse ogni tappa della loro “storia”.
Ancora Sasuke, le aveva detto Shikamaru, ricordandole che quando si veniva ai sentimenti era sempre e solo lui.
È dietro l'angolo. Devi solo aspettare. Aspetta ancora un po', aveva suggerito Naruto.
Ora come ora, per come ti guarda, non credo nemmeno voglia andare via. E da Ino era arrivata la scoccata finale.
La spingevano tutti a crederci, a illudersi che potesse essere suo. Quant'era bello crederci? Quant'era bello illudersi? Vedersi fianco a fianco della persona che aveva sempre amato?
Poi però c'era Sai:
Non è colpa sua, se l'Uchiha non vede alcuna ragione per amarla.
Al diavolo Sai, che di sentimenti aveva sempre capito poco e niente!
C'erano miliardi di ragioni per amarla! Ma che diceva? Miliardi di infinità di infinità di miliardi per volerla al suo fianco! Perché per lui c'era sempre stata, perché per lui si era annullata, perché lo aveva sempre aspettato, perché lo avrebbe perdonato, anche se l'avesse uccisa. E se Sasuke non li vedeva questi miliardi di infinità di infinità di miliardi, allora era uno stupido cieco e il suo Rinnegan non serviva proprio a niente.
«Glielo dico io» si alzò di scatto dalla panchina, illuminata da una rivelazione che era sempre stata con lei. «Corro a dirglielo io. Gliele dico tutte, le ragioni per cui dovrebbe amarmi. Io-»
E ancora prima di finire la frase iniziò a correre. Doveva vederlo. Doveva vederlo subito. Avevano perso un sacco di tempo, da bravi scemi, e non potevano più perderne. Perché stavano per compiere vent'anni ed era arrivato il momento di smetterla di sopravvivere e di imparare a vivere davvero. Perché aveva ragione Sasuke: l'importante è il presente e il presente è adesso.
E lei voleva esserci nel suo presente; e voleva essere anche nel suo futuro e nella sua eternità. Doveva dirglielo che era la donna giusta per lui, doveva prendere l'iniziativa, fare un ultimo tentativo. Non le sapeva tenere zitte quelle stupide emozioni, non aveva mai saputo farlo ed era arrivato il momento di smetterla di fingere di essere un'altra. Lei era Sakura Haruno e Sakura Haruno amava Sasuke Uchiha. Lo sapevano tutti, anche la grandine, quella stupida grandine che aveva ripreso a scendere dal cielo.
Il rumore dei chicchi sull'asfalto era uguale al pum pum del suo cuore, quando lo vedeva sedersi al banco in classe o durante gli allenamenti con il team 7. Era un battito senza interruzione che le ricordava tempi del loro passato: i mezzogiorni di primavera in cui bussava alla sua porta per chiedergli di uscire a pranzo, i secchi “no” che riceveva in risposta, talmente determinati da suonare alle sue orecchie come una melodia. No. No. No. No.
E infine, la fitta che scricchiolava nel suo petto, nel sentire mille e mille rifiuti, ma anche la speranza che si ostinava a non abbandonarla e le premeva sulla gola, fino a farla morire dalla voglia di gridare che sì, lei amava Sasuke Uchiha e per sempre lo avrebbe amato. E un giorno – ne era certa – anche il suo cuore d'acciaio avrebbe emesso piccoli battiti e si sarebbe sciolto, scaldato dal tepore di sentimenti che non poteva più negare.
Così Sakura ascoltava il rumore dei sandali che battevano sull'asfalto e si sincronizzavano ai chicchi di grandine, e d'improvviso quelle sfere di ghiaccio che tanto aveva odiato non le sembrarono più ostili, ma sue complici.
Qualsiasi cosa accada, io ti amerò per sempre.
Non erano state sue queste parole? E non se le sarebbe rimangiate, mai e poi mai, per nulla al mondo. Perché Sasuke era la sua debolezza, ma anche il maggior punto di forza.
L'aveva incoraggiata, insegnandole a mettersi in piedi da sola, dicendole che doveva diventare forte; l'aveva protetta, mille e mille volte; aveva detto a Naruto che era importante; l'aveva ringraziata; l'aveva cercata; aveva accettato la sua presenza.
E io da stupida ho preferito rassegnarmi, per paura di soffrire.
Glielo dico io, continuava a ripetersi; glielo dico io che sono la scelta giusta, che anche lui può imparare ad amarmi! E correva a perdifiato per le vie di Konoha, come una matta, ridendo e piangendo e gridando ogni venti passi che lo amava; felice come non lo era da secoli; viva come non lo era da secoli; perché aveva riscoperto in lei quel sentimento, dato per spacciato, che finalmente stava ritrovando la speranza.
Arrivò alla casa di Sasuke, un traguardo che sembrava lontanissimo, per quanto vicino, non vedendo l'ora di fare la figura della pazza, di tentare il tutto per tutto, di bussare e fiondarsi nelle sue braccia e dirglielo, confessargli ogni cosa.
Ma poi l'incanto svanì. All'improvviso terminò la fantasia che per Sakura altro non era stata se non un sogno ad occhi aperti. Smise di volare quando un “ancora” ruppe il silenzio, seguito da un gemito di piacere.
Non può essere vero.
Lo era. Un altro gemito e un altro “ancora” le diedero la conferma. Rimase imbambolata in mezzo alla strada, un'ombra di se stessa. Se non se ne andava, non era perché volesse ascoltare. Le stracciava il cuore sentire quelle grida di piacere. Solo non aveva più il controllo. Si era ridotta a fasci di nervi, muscoli, brandelli di pelle, pezzi di corpo scoordinati. Andavano ognuno per la propria strada, senza più formare quell'unità che fino a pochi secondi prima rispondeva al nome di Sakura Haruno.
Perché lo ha fatto?
E poi c'era la grandine, qualche acino solitario che si ostinava a rimbalzare sul cuoio capelluto. La stessa grandine che aveva creduto sua complice, alleata, e invece l'aveva tradita.
Sporca traditrice. Dannata. Sei davvero come lui. Voi due siete, siete-
Crollò in ginocchio e rimase a fissare la finestra del salotto con occhi sbarrati. Sulla tenda bianca si proiettava la luce gialla dell'abat-jour, rotta da un'ombra nera, una testa di donna che si muoveva e gridava nel raggiungere l'orgasmo. Sakura la guardava e riconosceva i capelli di Karin, il taglio all'ultima moda, con la scalatura alta; la punta del naso dritta e il profilo delle labbra, dischiuse per il piacere.
Che scema! Che scema! Che scema!
Quante volte se l'era ripetuto in quei giorni? Quante volte per colpa di Sasuke?
Io ero venuta qui per dirti che ti amo, sempre e nonostante tutto, e tu invece... perché non hai scelto me?
Si raggomitolò a chiocciola, con la fronte schiacciata sull'asfalto del cortiletto, finché i gemiti non finirono e gli “ancora” di Karin smisero di risuonare per la strada. E Sakura intanto cercava di mettere fila ai suoi pensieri, di decidere che fare. Perché doveva pur esserci qualcosa in grado di rimetterla in piedi, vero? Qualcosa che riuscisse a cancellare il dolore di quel corpo scoordinato che non funzionava più? Qualcosa che zittisse quei gemiti e quegli “ancora” che le inchiodavano la testa?
Sakè.
Era il bar preferito di Tsunade, quello che teneva aperto tutta la notte; quello dove si giocava d'azzardo; quello dove si perdeva e si vinceva, facendosi fregare e barando. A Sakura non importava. Voleva solo distruggere il suo cervello e i suoi ricordi. Sì, soprattutto i ricordi. Voleva annegarli. Sasuke chi? Sasuke non era nessuno. Non aveva mai conosciuto anima viva che portasse il nome di quel bastardo.
Che stupido! Che stronzo!
Ma la vera stupida era lei. Dopotutto, chi si era lasciata fregare dai discorsi di Ino e Naruto? E così bevve, come nemmeno Tsunade sapeva fare. Aveva scelto il posto giusto, tra l'altro, perché quando cadde dallo sgabello al bancone nessuno scoppiò a ridere, nessuno la guardò con pietà. Il barista le porse un'altra bottiglia.
«Bevi, piccola. Così ti raddrizzi.»
Eseguì alla lettera, pagò e se ne andò.
Oh, chi diceva che l'alcol aiutava a risolvere i problemi non doveva mai avere avuto niente a che fare con il re dei problemi per eccellenza: Sasuke Uchiha! Sakura, alla quarta bottiglia di sakè, vedeva il mondo girare come tanti pulviscoli di neve in una sfera natalizia. A tratti il pavimento era in cielo, a tratti in terra. Ma nonostante alberi e muri si ostinassero a muoversi, c'era sempre Sasuke davanti ai suoi occhi. Stupido, stupido, Sasuke. E stupida lei che aveva dimenticato al bar la quinta bottiglia di sakè. Quattro non erano abbastanza per toglierselo dalla testa. Quattro non erano abbastanza per scordare quel che le aveva fatto.
Represse un singhiozzo e chiuse gli occhi per impedire alle lacrime di tornare a fluire sotto le palpebre. Camminò verso casa, ora sorreggendosi al muro, ora procedendo a passi da formica. E quando vi arrivò dovette premersi una mano sulla bocca per non scoppiare a ridere e svegliare il vicinato: c'era un grande, enorme, gigantesco gatto nero e bianco, acciambellato sullo zerbino all'ingresso.
«Micio, micio, micio» sussurrò.
Ma poi il “gatto” la sentì e si mise ritto. Sakura si avvicinò e vide meglio. Si liberò delle lenti dell'alcol. Era davvero troppo grande per essere un gatto. E troppo bello. Troppo fottutamente bello per incazzarsi con lui.
«Grandinava» le disse per giustificare la presenza davanti alla sua porta.
E non miagolava neppure. In automatico, Sakura si passò una mano tra i capelli. I riflessi non risposero al suo volere: scappare, darsi alla macchia. Perché se quel grandissimo stronzo si fosse avvicinato, avrebbe potuto ridurlo in poltiglia a suon di pugni. Con Karin. Che schifo! Un conato di vomito arrivò al palato, ma Sakura si fece forza e deglutì, ricacciandolo nello stomaco.
«Stupido» disse in un sussurro.
Non seppe se l'insulto arrivò alle sue orecchie. Il volto di Sasuke rimase imperturbabile.
«Sei un brutto stupido» continuò a bisbigliare.
Con che coraggio si presentava da lei, dopo quello che aveva fatto? Perché ripararsi dalla grandine sotto la tettoia di casa sua? Che tornasse da quella puttana di Karin! Che andasse dal suo grande amicone Naruto, lui che lo difendeva sempre! E invece no. Si divertiva troppo a spezzare il cuore a quella stupida deficiente che si trovava davanti!
«Sono passata da te, per parlarti» gli gridò contro. Con rabbia. «Perché volevo dirti tante cose e tu-»
«Karin e Suigetsu hanno occupato il salotto» la interruppe.
Le cadde il mento e un nugolo d'aria fresca scese in gola, svegliando il cervello. Le parole di Sasuke le riecheggiarono in testa, un disco destinato a ripetere il ritornello di una canzone. Un ritornello bellissimo. Karin e Suigetsu. Occupato il salotto. Ma allora...
«Karin e Suigetsu? Sul divano di casa tua erano Karin e-»
Si trovò con gli occhi pieni di lacrime e di pioggia, e sperò che l'acqua del cielo riuscisse a coprire e nascondere l'acqua che proveniva dal suo cuore. Perché doveva essere sempre così debole e sciocca davanti a lui? Karin e Suigetsu!
«Chi altri?» lo sentì chiedere.
Sakura avrebbe voluto liberarsi di ogni inibizione e correre da lui, prenderlo a pugni, forte, sul petto, perché forse così quel cuore insipido sarebbe uscito dal suo letargo e avrebbe imparato ad amarla. Un pugno dopo un altro, sempre, sempre più violentemente. E poi avrebbe voluto baciarlo, sulle guance, sulla punta del naso, sul collo, sulle labbra. Baciarlo ovunque, e dirgli che lo odiava e lo amava. Lo amava così tanto che lo odiava e viceversa, lo odiava così tanto che lo amava. E ad onor del vero non aveva importanza se lo amasse o odiasse. Quel che importava era che lo voleva, sulla sua pelle, nelle sue braccia, dentro di lei. Voleva essere piena di lui, dei suoi pregi e dei suoi difetti, dei tratti che conosceva e di quelli che ignorava. E non voleva lasciarlo andare, non reggeva il pensiero di una nuova separazione. Se Sasuke poi avesse deciso di sua spontanea volontà di allontanarla, gli avrebbe ricordato che lo amava e nessuno avrebbe potuto amarlo quanto lei. Allora perché non permetterle di entrare nel suo mondo e mostrarle un briciolo di gratitudine -
«Hai bevuto.»
- invece che disprezzo?
Sasuke la fissava con una smorfia severa e di rimprovero, quasi di disgusto, visto che aveva appena affogato il dolore in una sbronza da adolescente, lei che era diventata adulta all'età di tredici anni.
«Indovina di chi è la colpa?» si trovò a dirgli.
Aveva ancora il sapore del sakè incollato alla gola. Che maledizione l'alcol! Quasi peggio di Sasuke.
Che poi a pensarci sakè e Sas'ke erano molto simili come suoni, e quindi sì, era sempre lui, sempre sua la colpa. E non aveva il diritto di guardarla storto, quasi fosse una poveretta, una disgraziata tutta matta da compatire. Non doveva permettersi di giudicarla brutta o pietosa solo perché la testa le girava e voleva vomitare, o perché gocce d'acqua la ricoprivano da testa a piedi, colavano in piccole pozzanghere dai suoi capelli, attaccati alla fronte. Non doveva permettersi nemmeno di superarla e di voltarle le spalle...
«Sasuke-kun, che fai?»
... né di lasciarla. Cazzo, quello era proprio un vizio!
«Dove stai andando?» gli urlò dietro, fregandosene del tono troppo alto.
Altro che vizio, era una ripetizione continua di quella sottospecie di rapporto che lei, nella sua mente deviata, si ostinava a definire “storia”.
«Già» continuò a dire. Un sorriso amaro le gelò il viso. «Scappi. Per forza. È l'unica cosa che sai fare!»
Gli elementi c'erano quasi tutti. Per l'occasione aveva perfino smesso di grandinare e la luna era comparsa tra i rami di due vecchi aceri. Mancava la panchina, ma i gradini davanti al portoncino di legno si sarebbero sicuramente offerti di sostituirla. E poi c'era anche Sasuke – soprattutto Sasuke! - Sasuke che si era fermato nel sentire la sua voce. Come da copione.
«Come finirà questa volta?» si domandò in un sussurro.
Un colpo alla nuca, un'illusione o un omicidio?
«Vai a dormire, Sakura. Domani-»
«Domani un bel corno, Sasuke-kun! Fa in fretta Ino a dirmi che anche per noi ci sarà il sereno, ma chi voglio prendere in giro? Non esiste nessun noi. E pensare che ho fatto di tutto per vederti felice, persino quando sapevo di non potere fare niente.»
«Domani, Sakura.» Ne parliamo domani.
«Domani cosa? Lo vedi? Tu non mi dici mai niente, perché non puoi provare anche solo ad accettarmi? Scusa, dimenticavo. Per quale ragione dovresti innamorarti di me?»
Lui si bloccò. Paralizzato, spiazzato, identico a una statua di neve. Un paragone divertente: a forza di colpirla con scariche di grandine era diventato di ghiaccio come la grandine stessa. Solo un leggero tremore alla gamba sinistra dimostrava che dietro quello strato di cemento si nascondeva un essere vivente; una creatura persa nei suoi pensieri. Sakura ignorava quali cazzate di stampo Uchiha stesse macinando in testa. Però si sentiva bene. Si sentiva benissimo, ora che gli aveva sputato il rospo in faccia.
No, non era vero. Stava a pezzi, come se un branco di rinoceronti l'avesse calpestata e martoriata, privandola delle braccia e delle gambe, di ogni organo all'infuori del cuore. Quello stupido cuore che, nonostante l'anestesia dell'alcol, continuava a soffrire.
Finché le spalle di Sasuke si sciolsero, prive di quei pesi che l'avevano bloccato.
«Non serve una ragione» le disse.
O forse lo stava dicendo a se stesso. Sembrava ripetere nella sua testa parole che qualcuno, in un passato lontano, doveva avergli rivolto. E sembrava finalmente capirle.
«Solo per odiare serve una ragione» aggiunse. «Non per amare.»
Sakura invece non capiva. La testa le faceva male. Martellava. Emetteva scariche di elettricità che le trapassavano le tempie. L'unione di alcol e Sasuke era un'arma letale e non riusciva a pensare, né tanto meno a ricordare con precisione le parole che aveva pronunciato.
Una ragione, per non odiare, o forse era per non amare. Che cavolo!
«Insomma che significa?» lo gridò. Alla notte. A se stessa. A Sasuke.
E Sasuke non prese bene quel moto d'ira. Si girò verso di lei, stizzito. Con lo stesso broncio incazzato che gli corrugava la fronte quando da dodicenne litigava con Naruto. Ma ora non aveva più dodici anni e la sua incazzatura era diversa. E c'era il Rinnegan lì, che la fissava; e Sakura sapeva che avrebbe dovuto avere paura.
«Credi sul serio sia stato Kakashi a dirmi di cercarti, l'altro giorno?» le gridò contro.
Denti digrignati e pugni serrati rivelavano il suo fastidio. Quanto a lei, lei non voleva illudersi, leggere in quelle parole più di quanto vi fosse.
«Ma allora perché-»
Fu interrotta da un suo sbuffo. Un sorriso arrogante gli comparve in viso, il classico ghigno da prendere a schiaffi. E invece Sakura ebbe paura. La ebbe sul serio. Perché aveva già visto quel sorriso sul volto di Sasuke e sapeva benissimo cosa stava per dire:
«Sei davvero e dannatamente irritante.»
Mosse un passo indietro, con il respiro bloccato in gola e la mano portata al cuore, per salvarlo nel caso ci fosse andato di mezzo; e arretrò ancora. Avrebbe voluto avere la schiena contro il muro, così Sasuke non le si sarebbe materializzato dietro e non l'avrebbe colpita. Come quella volta.
Lui però era ancora lì, davanti a lei che era scoppiata in un fiume di lacrime. Ancora lì, con lo sguardo forte e severo e il sorriso un po' diverso da come lo ricordava, più inarcato verso l'alto, meno malinconico. Un sorriso che le labbra di Sasuke scomposero per pronunciare parole che Sakura non si sarebbe mai aspettata:
«Ma voglio sopportarti.»
Fu un tuffo al cuore. Voglio. Già, perché gli Uchiha erano dei grandi egoisti, Sakura lo sapeva. Perché prendevano sempre quello che volevano, arrivando direttamente al punto, senza degnare gli altri di una spiegazione o chiedere il permesso. Perché l'importante era il presente e il presente era adesso, quello stesso adesso che loro due stavano condividendo.
Ma Sasuke non aggiunse altro. Si girò, di nuovo, e mosse due passi, imboccando la via che l'avrebbe riportato a casa, da Karin e Suigetsu. Sakura sentì la bile montarle alla testa, rabbia fusa, sciolta e mischiata al sangue e ai quinto-litri di sakè che aveva bevuto.
«Tu! Tu! Tu sei irritante!» gridò tra i singhiozzi. E agì. Gli tirò il sandalo, dopo esserselo tolto dal piede, barcollando. Lo colpì. Secco, sulla scapola sinistra. «Sei la persona più insopportabile di cui mi potessi innamorare. Sasuke Uchiha, ti avverto! Non osare muovere un altro passo, oppure io-»
La schiena sbatté contro il muro, accanto alla porta d'ingresso del monolocale. L'avambraccio di Sasuke premeva sulla sua gola ed entrambi gli occhi erano in bella vista, Rinnegan e Sharingan. Pronti a uccidere. Sakura deglutì e sentì la saliva scendere a fatica in gola. Ecco, era fatta. Era spacciata. E pensare che lo amava. Gran cosa morire così.
Ma che gran cosa! È un vero schifo!
Ma se proprio doveva morire, allora avrebbe scelto la morte più dolce di tutte, la più meritevole.
E se è vero che la fortuna aiuta gli audaci...
Premette le labbra contro le sue, trattenendo il respiro, chiudendo gli occhi. E si rilassò, pronta ad accettare il destino che gli dèi avevano per lei in sorte, qualunque esso fosse. Sapeva di buono, Sasuke, di cose amare: menta e caffè. Non avrebbe voluto staccarsi, ma lui era immobile, non rispondeva e lei non poté far altro che arretrare, lasciare mezzo centimetro tra le loro labbra. Intimorita e spaventata, ma felice. Quando riaprì gli occhi, l'iride dello Sharingan era di nuovo nera:
«Stupida.»
Ma cosa?
La tirò verso di sé, con forza, e la schiacciò al suo petto, costringendola ad alzare il mento perché le loro bocche fossero di nuovo un tutt'uno, una cosa sola, una fragranza divina di sakè, caffè e menta.
E improvvisamente Sakura capì perché Temari si fosse fatta miliardi di chilometri sotto la tempesta. Per quel brivido che anche lei stava provando, per quel brivido che le labbra di Sasuke liberavano e dalla lingua scendeva nella gola e minacciava di farle esplodere il cuore. E poi andava sempre più in giù, per bloccare i polmoni e toglierle il respiro e scendeva di quota, fino alle gambe. Sakura le sentiva cedere, ma sapeva benissimo che non sarebbe caduta in una pozzanghera di fango e ghiaccio, perché le braccia di Sasuke la stringevano forte, ai fianchi.
E fu tutto limpido.
Capì che da lui non avrebbe mai avuto un chiaro “mi dispiace”, né un “perdonami, sono stato un coglione”, figurarsi un “ti amo”. C'erano però quelle due parole che continuavano a riecheggiarle in testa: voglio sopportarti. Ed era questo che le bastava: il volere. Perché per la prima volta in tutta la sua vita Sasuke Uchiha era lì, con lei, e non per un'imposizione di Kakashi o perché combattevano la stessa guerra. Sasuke Uchiha era lì, con lei, per un suo stesso desiderio, espresso con parole inequivocabili. Voglio sopportarti. Accettarti, vederti come la donna che sei, starti accanto, colmare ogni giorno della tua presenza. O forse erano i fiumi dell'alcol a farla fantasticare? Forse era lei che riempiva di significato due parole dette con lo scopo di metterla a tacere?
«Non te ne andrai, vero? Non andartene!» lo scongiurò.
Attese una risposta, un filo di speranza al quale stringersi con tutte le forze. Si augurava solo che Sasuke non avesse un paio di forbici per reciderlo, perché se fosse caduta, non avrebbe saputo rialzarsi.
Ma adesso una parte della sua mente lo capiva: era Sasuke che si stava aggrappando a lei, affondando le dita in quell'orrendo maglioncino rosso, sformato e troppo largo, cercando sotto le trame di lana intrecciata le scapole e la schiena, scoprendo che i loro corpi si incastravano alla perfezione, come se quelle stesse divinità, dopo mille tormenti e derisioni, li avessero plasmati per essere una cosa sola. Lo pensava Sakura e se ne convinceva sempre più, anche quando le labbra di Sasuke interruppero quel bacio scomposto e poco casto e si staccarono dalle sue:
«Mai» lo sentì dire.
Mai. Non esisteva parola più bella e dal suono più armonioso per le orecchie di Sakura. Di nuovo gli occhi le si riempirono d'acqua, ma questa volta era acqua di gioia, non di dolore, un liquido così ricco di sentimenti positivi e di felicità e di euforia che poteva lavare via anche la sofferenza più immensa.
«Per sempre?» gli chiese.
Sasuke la strinse ancora. Accarezzò con la punta delle dita i capelli rosa, più lunghi di come li portava due anni prima, e spinse la testa nell'incavo del collo. Sakura non poteva vedere il suo viso, ma voleva immaginare un sorriso di soddisfazione e sollievo su quelle labbra sottilissime.
«Sempre» le giurò.
Allora anche Sakura sorrise, senza aprire gli occhi per la paura di vedere la federa azzurra del suo cuscino e scoprire di avere soltanto sognato. Chiuso nelle palpebre, voleva custodire quell'amore a intermittenza, impacciato e inesperto che il cuore di Sasuke le stava donando. Voleva proteggerlo, come una madre il figlio, nutrirlo e annaffiarlo, giorno dopo giorno, recidendo i rami secchi, togliendo i parassiti, accarezzando ogni bocciolo, un futuro splendido fiore.
Sapeva che ci sarebbero state altre scariche di grandine, fastidiosi chicchi di ghiaccio che l'avrebbero colpita, e sapeva benissimo che Sasuke non avrebbe mai smesso di ferirla. Con la sua rudezza. Con la sua caparbietà. Con i suoi silenzi.
Ma in quell'istante sapeva anche che Ino aveva ragione. In natura dopo la grandine veniva il sereno e lei, quel sereno, era pronta a viverlo. Per sempre.
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Buonasera a tutti, so che in molti avranno rinunciato a questa storia e, molto probabilmente all'altra (Binomio). La mia è una piccola comparsa su EFP, poi scomparirò per un altro po'. Lavoro (la mia prima maturità dall'altra parte), studio, ancora studio, di nuovo studio e un briciolo di vita privata. Così EFP è passato in ultima posizione e avevo deciso addirittura di eclissarmi nel nulla, finché durante ricreazione ho sentito due miei allievi parlare proprio di Naruto e ho pensato che pubblicare l'ultimo capitolo di Grandine (considerato che la storia è finita da più di un anno) non avrebbe guastato.
Ringrazio tutte le persone che mi hanno sostenuta fino a questo momento, spero che l'editing funzioni (ho cambiato programma). Ringrazio anche le persone che recensiscono e hanno sempre recensito (e a molte devo ancora rispondere). Spero un giorno di tornare a completare l'altra storia iniziata, quando la vita mi darà un attimo di tregua (forse mi toccherà aspettare la pensione).
Grazie ancora a tutti
Odiblue |
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