Le cose che non sai

di Abby_xx
(/viewuser.php?uid=706892)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO I ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO II ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO III ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO IV ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO V ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO VI ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO VII ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO VIII ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO IX ***
Capitolo 10: *** CAPITOLO X ***
Capitolo 11: *** CAPITOLO XI ***
Capitolo 12: *** CAPITOLO XII ***
Capitolo 13: *** CAPITOLO XIII ***
Capitolo 14: *** CAPITOLO XIV ***
Capitolo 15: *** CAPITOLO XV ***
Capitolo 16: *** CAPITOLO XVI ***
Capitolo 17: *** CAPITOLO XVII ***
Capitolo 18: *** CAPITOLO XVIII ***
Capitolo 19: *** CAPITOLO XIX ***
Capitolo 20: *** CAPITOLO XX ***
Capitolo 21: *** CAPITOLO XXI ***
Capitolo 22: *** CAPITOLO XXII ***
Capitolo 23: *** CAPITOLO XXIII ***
Capitolo 24: *** CAPITOLO XXIV ***
Capitolo 25: *** CAPITOLO XXV ***
Capitolo 26: *** CAPITOLO XXVI ***
Capitolo 27: *** CAPITOLO XXVII ***
Capitolo 28: *** CAPITOLO XXVIII ***
Capitolo 29: *** CAPITOLO XXIX ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO I ***


                                                                                        CAPITOLO I


-Oh, diamine!-
Mancavano solo dieci striminziti minuti all'inizio delle lezioni, e Hebe Watson doveva ancora prepararsi per l'ennesima mattinata scolastica.
Prese distrattamente i jeans dalla sedia, infilandoseli saltellando sulle punte dei piedi per tirarli sù, e il maglioncino di cotone bianco che aveva indossato il pomeriggio precedente per andare a comprare il latte, catapultandosi contemporaneamente nel bagno adiacente alla sua stanza per prendere le scarpe.
-Le scarpe, le scarpe..- sussurrò cercandole.
Le aveva lasciate lì, ne era sicura.
-Dio, ti prego, se mi stai ascoltando, dammi una mano.- esclamò esasperata, portando le braccia in aria con un gesto plateale.
Sospirò e si girò lentamente verso il lavabo, chinandosi con gli occhi semichiusi per guardare sotto il mobile. -Eccole!- urlò sorridendo. -Ti ringrazio.- biascicò uscendo dal bagno.
Corse per il corridoio con una mano occupata a cercare di infilare le Converse, l'altra in cui teneva il bigliettino dove sua madre l'avvertiva che era uscita presto, e tra i denti il telefonino.
Incespicò imprecando tra gli scalini, rischiando di far capovolgere il meraviglioso e preziosissimo ritratto di una vecchia indù con in testa un turbante verde acido comprato in Thailandia che sua madre tanto amava, ma che di meraviglioso e prezioso secondo lei non aveva niente. Più che altro la metteva in soggezione, e le dava l'idea di essere costantemente osservata.
Hebe era una di quelle ragazze che preferiva restare nell'ombra piuttosto che essere notata. Una povera diciassettenne, quasi diciottenne, che data la sua diversità e la sua persistente timidezza, era costretta a subire le continue prese in giro dagli esseri più stupidi che mai avesse conosciuto: in poche parole dalle ragazze e dai ragazzi della Devies McLore High School di Holmes Chaple.
Perché era diversa, sì. Diversa poiché, a differenza delle altre adolescenti della sua età, lei preferiva decisamente un buon libro e la compagnia del suo gatto Church, alle serate in discoteca tutte fronzoli e lustrini.
Non amava uscire il sabato sera, né tantomeno sbavare dietro alla squadra senior di pallanuoto maschile. Che, tra parentesi, aveva constatato fosse piena di idioti. Erano due anni che veniva presa di mira, forse proprio per questo.
Una sottospecie di cavia che le cheerleader usavano per testare quanto crudeli riuscissero ad essere se si impegnavano; spalleggiate costantemente da giocatori di football o studenti altrettanto importanti.
Altra possibilità era che, dopo che aveva rifiutato l'invito al Ballo di Primavera da Mark Parker, prototipo di ragazzo-principe desiderato da tutte, lui l'aveva etichettata come "una da cui stare alla larga".
Cos'era la sua vita? Un completo disastro. Un pò come lei, d'altronde. E la vita a casa non era certo meglio.
Un padre scomparso, una madre sempre assente e con una fissa ossessiva per il suo lavoro, e un patrigno odioso che aveva l'orribile abitudine di masticare le gomme con la bocca talmente spalancata da far intravedere le tonsille.
Ah, quanto le mancava la sua vecchia vita. Quattro anni prima era tutto più semplice. Suo padre non aveva ancora fatto quel fatale incidente in auto, aveva ancora la mamma migliore del mondo, e tanti amici.
Sempre se così si potevano definire, dato che appena seppero della tragica morte del suo amato papà non le rivolsero più la parola; ed Hebe non capì mai se perché non sapessero cosa dire tanto il dispiacere, o semplicemente perché essere amici della sfigata della scuola avrebbe riscosso loro poco successo e scarsa vita sociale: credere nella prima opzione la faceva sentire decisamente meno patetica.
Una delle poche cose positive di quell'anno era stato il suo cambiamento fisico, nonostante lei si vedesse sempre la solita Hebe minuta, gracile, con spalle spigolose e poco attraente come gli anni precedenti.
Tutti avevano notato che ora era ancora più magra, aveva fatto crescere i capelli più rossi che biondi fin sotto il senso, e i suoi grandi occhi grigi, che tendevano a cambiare tonalità talmente tante volte da perderne il conto, erano diventati ancora più magnetici, per quanto fosse possibile. Altra cosa positiva, era che mancavano esattamente dodici giorni e otto ore, e la scuola avrebbe chiuso per le ristrutturazioni; ed Hebe non poteva esserne più felice.
Non aveva tempo per fare colazione, quindi prese dal recipiente sul tavolo una mela e lanciò un bacio voltante a Church, dopo avergli versato nella ciotola del cibo per gatti.
-Fai il bravo, e non rompere niente.- esordì, guardandolo negli occhi e mandando giù un boccone.
Church inclinò la testa a sinistra e la guardò confuso, provocandole un sorrisetto.
Prese velocemente la tracolla, e uscì di casa, sperando che almeno oggi la giornata sarebbe trascorsa senza alcun dramma.

Corse a perdifiato e arrivò a scuola dopo dieci minuti, appena in tempo per l'ultimo suono della campanella.
L'ingresso della scuola era completamente deserto, tranne che per qualche ritardatario che rischiava seriamente di inciampare sui suoi stessi piedi talmente la fretta che aveva di entrare. A differenza loro, Hebe rallentò il passo. Ormai aveva ritardato già da cinque minuti, un altro paio non le avrebbero evitato la ramanzina del professore di Chimica che l'attendeva una volta entrata in classe. Tanto era sempre in ritardo, la cosa sconvolgente sarebbe stata vederla entrare in orario.
Si appoggiò con la schiena al muro, che affiancava la porta dell'entrata di quello che poteva essere definito l'Inferno -e no, non esagerava- e si accasciò sulle ginocchia per riprendere fiato.
Alzò lo sguardo ispirando ed espirando profondamente fino a quando non fu sicura di aver riacquistato abbastanza aria nei polmoni.
Sbatté le palpebre un paio di volte, e notò un ragazzo guardarla accigliato con una sigaretta tra le labbra, seduto sulla scalinata che conduceva all'ingresso. Non riuscì a distogliere lo sguardo dal suo corpo, e per un momento il respiro le si bloccò nel fondo della gola costringendola a tossire.
Lo riconobbe immediatamente. Era lo stesso ragazzo che incontrava tutti i giorni da una settimana, ma fino a quel momento non lo aveva mai guardato bene in viso per paura di essere scoperta. Lo aveva già visto tempo prima, ne era convinta, ma non ricordava né dove né quando.
Era un angelo. Non uno di quelli biondi, completamente muscolosi, abbronzati e con gli occhi azzurri.
Ma un angelo dagli occhi verdi, la pelle diafana e i folti capelli scuri. La stava squadrando soprappensiero passandosi, dopo aver espirato boccate di fumo, la lingua sulle rosee labbra carnose.
L'aveva sognato, la notte precedente; varcava la soglia di un imponente arco greco e spalancava le grandi ali squarciando l'aria. Ali nere, come la pece.
Hebe rimase immobile, incapace di muoversi sotto il suo sguardo maliziosamente divertito. Lui alzò un angolo della bocca quando si accorse che era arrossita davanti la sua sfrontatezza. Il ragazzo si alzò, stringendosi nel cappotto scuro, e le si avvicinò lentamente serrando la sigaretta quasi finita tra le lunghe dita. Hebe sentì la terra mancarle sotto i piedi, quando la distanza che li separava iniziò a diminuire lentamente via via che il misterioso ragazzo si avvicinava, riducendosi poi a un paio di metri.
Sentì le mani tremarle e il cuore prenderle a battere ad un ritmo sovrumano, e si diede mentalmente della stupida quando si rese conto di avere gli stessi sintomi di una dodicenne in piena crisi ormonale; ma non poteva farci niente. Quel ragazzo faceva sì che il suo corpo fosse scosso da brividi e da un immenso calore contemporaneamente.
La stava guardando spudoratamente facendo salire e scendere lo sguardo lungo tutto il suo esile corpo, schiacciato ora lungo la parete.
Le passò accanto sfiorandole una spalla e lentamente aprì la porta scostandosi quanto bastasse per farla entrare.
-Grazie.- sussurrò Hebe strascicando le parole tra i denti, improvvisamente con la gola secca. Passandogli accanto alzò lo sguardo verso il suo viso, e incontrò i suoi occhi. Affogò, rabbrividendo, in quelle iridi cristalline che nella penombra avevano assunto il colore dei boschi notturni. Sentì il sangue gelarsi nelle vene e un brivido percorrerle la nuca.
Erano vuoti. Privi di ogni lucentezza. Verdi e scuri occhi grandi che la guardavano seri e strafottenti.
Assottigliò lo sguardo e cercò di intravedere una qualsiasi cosa che dimostrasse che era vivo, che una luce, anche se fioca, c'era.
Ma lui abbassò lo sguardo serrando la mascella, prima che lei potesse scorgere ciò che andava trovando.
-Entri o no?- le chiese sbuffando.
Hebe scosse la testa impercettibilmente, per liberarsi dai troppi pensieri che le stavano affollando la mente sul ragazzo che le si trovava dinanzi.
Pensieri che riaffiorarono nuovamente, duplicandosi, quando sentì la sua voce.
Roca e graffiata, come quella di un giovane motociclista nei film degli anni ottanta, con tanto di giubbotto di pelle e occhiali scuri. Lo sorpassò imbarazzata borbottando cose incomprensibili anche per sé stessa, domandandosi dove lo avesse già visto.
Avanzò quasi correndo lungo il corridoio e quando si voltò notò, stranamente senza sorprendersi, che era sparito nel nulla.
C'era solo lei, che si stava freneticamente grattando le nocche della mano come quando aveva paura o semplicemente si trovava a disagio, e pensierosa si voltò nuovamente diretta verso la sua classe.
Quel ragazzo la incuriosiva, ed era certa che non frequentasse quella scuola. L'avrebbe visto sicuramente, se fosse stato uno degli iscritti della Davies McLore High School, e l'avrebbe riconosciuto dalla scia di ragazze sbavanti che l'avrebbero venerato con occhi a cuoricino che certamente si sarebbe portato dietro.
Si sbatté una mano contro la fronte quando si accorse di aver sbagliato corridoio, talmente immersa nei pensieri, e sospirando iniziò una nuova corsa verso l'aula giusta.
Avrebbe potuto partecipare ad una maratona, magari. Nella ultima mezz'ora aveva corso più di quando avesse mai fatto dall'inizio dell'anno scolastico.

Aprì di scatto la porta dell'aula di Chimica scossa dagli affanni, venendo fulminata con lo sguardo dal Professor Miller.
-Ci ha finalmente degnato della sua presenza, signorina Watson.- gracchiò, mentre prendeva nota del suo ritardo.
-Mi scusi, la sveglia non ha suonato.- sospirò alzando gli occhi al cielo, già stufa di quella lezione.
-Un giorno il traffico, l'altro i dolori alla pancia, e quello ancora dopo il malfunzionamento della sveglia. Cosa inventerà domani, che gli alieni sono venuti a prenderla e lei ha dovuto subire dolorose operazioni al cervello per le loro ricerche sul genere umano?- chiese. -Oh no, mi perdoni. Gli alieni cercano forme di vita con quozienti intellettivi sviluppati.- continuò sogghignando, provocando i sorrisetti e le risatine degli altri studenti.
-Allora stia sicuro che non verrano mai a prenderla.- sibilò Hebe, prendendo posto all'ultimo banco infondo alla classe.
Il Professor Nelson Miller la odiava. E non era un'ipotesi, o una supposizione personale, davvero la detestava. -Sei identica a Mayrise McFlaid.- le aveva detto guardandola scettico il primo giorno di liceo. Hebe aveva corrugato le sopracciglia e gli aveva chiesto chi fosse. -La prima ragazza che alle superiori mi spezzò il cuore. Finta, bugiarda ed enigmatica come tutta la tua specie.- le aveva risposto, con una smorfia di disgusto.
La mia specie?, aveva pensato confusa Hebe. Al secondo anno aveva capito che si riferiva al genere femminile con i capelli del suo colore. Era un pazzo, su quello non vi era alcun dubbio; e lui l'aveva presa di mira non appena lei glielo aveva fatto involontariamente notare.
-Non ne posso più.- brontolò, accasciandosi sul banco.
-Come ha detto, signoria Watson?- domandò lui, increspando la fronte accigliato.
-Che lei rende ogni lezione sempre più coinvolgente e interessante, Professor Miller.- commentò benevola, sforzandosi di sorridere.
-Si, ne sono consapevole.- replicò piatto, alzando le spalle con superiorità.
Prima o poi l'avrebbe strangolato, ne era certa.

Dopo l'interessantissima lezione di Chimica, aveva subito due ore di Filosofia, e ora stava prendendo i libri di Biologia per la quarta ora dall'armadietto, quando sentì un ridacchiare nasale alle sue spalle.
Sasha, la capo cheerleader, le stava andando incontro muovendo spudoratamente a destra e a sinistra i fianchi, tanto che Hebe si domandò come facesse a non sbilanciarsi, tallonata dai due ragazzi più rinomati, zucche vuote, ricchi di testosteroni della scuola: Mark Parker, per sua immensa sfortuna, e Lucas O'Donnel.
-Che carine che siamo oggi.- commentò Lucas, appoggiando la schiena ad un armadietto celeste ricoperto di strass accanto il suo.
-Grazie.- balbettò lei, lisciandosi il maglioncino a disagio.
Lui le sorrise, venendo fulminato dall'amico. -Sta zitto, imbecille.- brontolò quest'ultimo.
-Ma guarda un po' chi si rivede, come mai da queste parti Watson?- squittì Sasha, rigirandosi una ciocca di capelli attorno l'indice, mentre le girava attorno come un aquila pronta per l'attacco.
Aveva un insopportabile voce fintamente infantile, che evidentemente lei trovava senza dubbio attraente; ed Hebe avrebbe tanto voluto farglielo notare, ma si trattenne mordendosi la lingua.
-Si da il caso che frequenti questa scuola da ormai cinque anni, Stevens.- sussurrò quindi, serrando gli occhi.
Era stufa, ma non doveva andare oltre o avrebbe solo peggiorato le cose.
Sta zitta Hebe, pensò grattandosi le mani, non parlare. Respirò affondo, ma non riuscì a trattenersi.
-Ma data la piccolezza del tuo cervello da gallina, non mi sorprende il fatto che tu l'abbia dimenticato.- aggiunse velocemente, sorridendole sarcasticamente.
Tutti spalancarono la bocca, compresa lei, sorpresi da come aveva reagito a quelle provocazioni. Non aveva mai risposto, era sempre rimasta tremante e angosciata come un piccolo ramoscello spazzato via dal vento quando la insultavano, ma ora aveva espresso pubblicamente quanto la trovasse stupida.
Si auto-complimentò da sola, immaginando un enorme platea di persone che si alzavano in piedi e la applaudivano per la sua sicurezza. Sicurezza che però vacillò quando l'espressione di Mark tramutò da sorpresa a furiosa. -Ma come ti azzardi, ragazzina?- grugnì, prendendo Hebe per un polso e sbattendola contro gli armadietti, azione che le provocò formicolii dolorosi per tutta la spalla destra.
-Lasciami. Mi fai male, idiota.- sussurrò digrignando i denti.
-Idiota? Te lo scordi.- sibilò ridendo sadicamente. -Adesso ci divertiamo un pò, vero Lucas?-
-Lasciatemi in pace, per favore.- sussurrò dimenandosi.
Il ragazzo interpellato fece per avvicinarsi quando una voce roca intervenne. La sua voce roca.
Era lo stesso ragazzo che aveva incontrato quella mattina.
-Toglietele le mani di dosso.- ringhiò.
Hebe era certa di non avere mai visto niente di più bello. Il cappotto scuro era lasciato aperto sul petto abbastanza da far intravedere la maglia nera che gli fasciava il busto, e gli stretti pantaloni rendevano la sua aria minacciosa altamente affascinante.
I ricci color cioccolato strategicamente messi in disordine, la mascella contratta, le labbra rosee e gli occhi freddi.
Era esattamente come lo ricordava, mentre disegnava durante Filosofia il suo profilo su uno dei fogli del quaderno per gli appunti.
-Chi cavolo sei, il paladino dei deboli?- chiese ridendo Mark, cercando di dimostrarsi il più disinvolto possibile. -Non sono affari tuoi. Esci dall'istituto, prima che qualcuno ti veda.- continuò, schioccando la lingua sotto al palato.
-È il tizio che ha picchiato quell'uomo difronte al Moonfire ieri sera.- sussurrò Lucas, cercando di non farsi sentire, con scarsi risultati.
Hebe corrugò le sopracciglia e guardò il riccio. Aveva un espressione impassibile.
-Ripeto, toglile le mani di dosso o il prossimo a cui romperò il naso sarai tu.- sibilò avvicinandosi.
Hebe guardava prima l'uno e poi l'altro senza fermarsi. Sasha se ne era andata subito dopo il suo arrivo, e Lucas aveva la stessa faccia scioccata di Hebe. Nessuno si era mai rivolto così a Mark Parker, era ben noto che poteva romperti in due, se voleva, ma a quanto pare la stazza del ragazzo non sembrava intimorire il misterioso difensore di Hebe.
-Ma sentilo.- rise. -E come pensi di fa..-
Fu interrotto bruscamente.
Hebe sgranò i grandi occhi cristallini, prima di girarsi per vedere cosa fosse successo.
Il naso di Mark era visibilmente rotto, e del sangue gli scorreva lungo il mento.
Non scherzava, pensò Hebe, gli ha davvero rotto il naso.
Spostò spaventata lo sguardo sul ragazzo dai bui occhi verdi, il quale se ne stava con immobile a guardare Parker barcollare all'indietro e mollare la presa ferrea dal suo polso.
-Così.- disse. -Penso proprio di fare così.-

 


Angolo autrice:
CIao a tutte!
Inizio col dire che questa è la prima volta che pubblico qualcosa, e questo mi elettrizza e spaventa a morte allo stesso tempo. Insomma, una mattina potrei anche trovare l'account pieno di insulti e cose del tipo ''Ma che cosa vai a scrivere? E'orribile!'', però tentare non nuoce.
Premetto che questo capitolo non è proprio la fine del mondo, e ne sono pienamente consapevole, ma man mano che vado avanti con la storia inizio a ''sciogliermi'' e a scrivere meglio. Credo che posterò, più o meno, uno o due capitoli a settimana, pregando affinchè qualcuno legga questa ff.
Spero davvero con tutto il cuore che vi piaccia, e che recensiate per farmi sapere cosa ne pensate! Incorcio le dita!
Un bacione,
Abby_xx

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** CAPITOLO II ***


                                                                                                              CAPITOLO II




 Hebe fremette, davanti a quella scena: non aveva mai amato il sangue. Le ricordava quando era caduta da bambina graffiandosi una gamba, e all'ospedale le avevano dovuto mettere i punti senza anestesia.
 Lucas spalancò la bocca e si accasciò sull'amico con una smorfia a increspargli le labbra.
-Tutto apposto?- sussurrò.
 Mark lo scansò con un gesto del braccio e si ripulì il mento dai rivoli di sangue. -Levati di mezzo.- ringhiò.
 Fu colta di sorpresa, quando il suo misterioso salvatore le prese in modo autoritario l'avambraccio e si abbassò su di lei fino a quando le sue labbra quasi non sfiorarono i suoi lobi.
-Vieni.- sussurrò roco.
 La spinse leggermente avanti a sé, e iniziò a camminare a grandi falcate.
-Se ti fai vedere ancora in giro te la faccio pagare.- grugnì Mark, quando il riccio stava per girare l'angolo del corridoio.
 Si fermò di botto, rischiando di far urtare il naso di Hebe contro la sua spalla, e si girò con sguardo atono.
 Alzò un sopracciglio, e fece un passo in direzione dei due; i quali se la diedero a gambe levate.
-Bambini.- biascicò rauco, voltandosi nuovamente.
 Hebe sussultò leggermente quando lui le agguantò un polso e riprese a camminare lungo i corridoi tinteggiati di giallo della scuola, continuando a trascinarla nonostante gli sguardi scettici dei bidelli.
 Il ragazzo la tirò al suo fianco fino a quando non furono fuori all'edificio, nel parcheggio sul retro.
 Hebe l'aveva seguito in silenzio, ancora leggermente sconvolta, senza neanche reagire quando lui l'aveva portata fuori dalla scuola; ma ora si trovava dinanzi ad una Range Rover nera e non era sicura di capirne bene il motivo.
 Il ragazzo dagli occhi spenti le lasciò il polso e avanzò di poco.
 -Sali.- disse, mentre saliva verso il lato del guidatore.
 Lo guardò scettica, e poi pensò al perché avrebbe dovuto o no saltare su.
 Non lo conosceva, ma aveva una strana sensazione che le faceva stringere lo stomaco quando lo guardava, ed era incuriosita da chi potesse essere; e soprattutto del perché da una settimana lo incontrava tutti i giorni.
 Rimaneva però sempre uno sconosciuto, e non era da lei accettare passaggi da persone mai incontrate prima.
-Allora, sali da sola o devo prenderti in braccio?- sbottò all'improvviso sbuffando, facendola sussultare e guardandola negli occhi.
 Hebe abbassò lo sguardo e incrociò le braccia al petto, grattandosi freneticamente le nocche fino a screpolarsele. Quel ragazzo la metteva in soggezione, e non poco.
-Chi stai aspettando Hebe? Muoviti.-
Come diavolo fa a sapere come mi chiamo?, pensò scombussolata.
 Respirò profondamente, sentendo il dolore alla spalla affievolirsi, e si avvicinò di pochi passi al finestrino.
-Non verrò in macchina con te.- biascicò sistemandosi un paio di ciocche dietro le orecchie.
 Lui la guardò piatto, scrutandola attentamente, poi si avvicinò e aprì lo sportello del passeggero dall'interno dell'abitacolo con forza, facendo sobbalzare all'indietro Hebe.
 -Sono pro per quanto riguarda la famosa frase del "non dare confidenza agli estranei", e suppongo dal tuo rifiuto che i tuoi genitori te l'hanno insegnata, quindi tanto di cappello.- schioccò la lingua sotto al palato. -Ma con me non hai di che preoccuparti. Voglio solo farti vedere un posto.- concluse porgendole una mano.
 Hebe socchiuse leggermente gli occhi, sorpresa e confusa al tempo stesso dato l'improvviso cambio di umore del riccio.
 Fino a pochi minuti prima sembrava allergico ad ogni tipo di emozione, e questo le faceva alquanto accapponare la pelle, soprattutto data l'imperscrutabilità dei suoi occhi; ma ora le stava perfino sorridendo.
-Non so neanche come ti chiami.- balbettò, rossa in viso.
 Lui non accennò ad abbassare il braccio teso, e allargò il sorriso sogghignate fino a far spuntare delle fossette ai lati delle guance.
-Harry.- sussurrò solamente.-Styles.-
Hebe accettò tremando la sua mano, facendo combaciare lentamente i loro palmi. Sussultarono entrambi nel momento in cui le loro mani si toccarono, scossi inspiegabilmente da una sorta di elettricità. Alzarono gli occhi, incrociando i loro sguardi, e Hebe riprovò a cercare qualcosa che dimostrasse che i suoi occhi non fossero profondi pozzi privi di sentimento. Ma lui li abbassò nuovamente, come la mattina all'ingresso, irrigidendo la mascella e tirando bruscamente Hebe per farla accomodare sul freddo sedile in pelle nera.
 Ingranò la marcia e partì, strascicando sommessamente: -Andiamo-.
 Hebe raddrizzò lentamente la schiena, e cercò di frenare il tremore alle mani. Aveva capito che gli dava fastidio il fatto che lei cercasse di guardare i suoi occhi, per quanto potessero farle paura. Nascondevano orribili segreti, ne era convinta. Avevano un qualcosa che li faceva essere talmente rigidi da farla rabbrividire. Ma lei voleva a tutti i costi capire cos'era quel qualcosa.
 Sorrise amaramente. Aveva davvero paura di un paio di occhi?
 
Erano in macchina da qualche minuto e nessuno dei due aveva ancora proferito parola.
 Harry era concentrato nella guida, e non l'aveva guardata, neanche per sbaglio, da quando erano entrati in macchina. Se ne stava semplicemente con la fronte corrugata e la mascella contratta, cambiando la marcia o il volume della radio di tanto in tanto, facendo un verso seccato quando iniziava una canzone che non gradiva.
 Lei, invece, aveva appoggiato la testa al finestrino e guardava distrattamente gli alberi che ogni tanto si presentavano durante il tragitto.
 Il perchè fosse salita in macchina poco prima ancora le era sconosciuto. Era talmente vogliosa di scoprire dove l'avrebbe portata, da essersi fidata anche se sapeva solo il suo nome.
 Guardò la strada con la vista sfocata, sommersa dai troppi pensieri. Perché aveva la sensazione di conoscere Harry?
 Aveva la convinzione di averlo già incontrato, ma proprio non sapeva quando.
 Mise a fuoco l'immagine del terreno sterrato, coperto in parte da ciottoli biancastri, e si concentrò nel cercare di identificare i piccoli fiori bianchi che si riversavano ai lati della strada. Margherite. Le erano sempre piaciute le margherite; ricordava quando con suo padre ne andava a cogliere a quantità esorbitanti perché erano le preferite della sua mamma. Strinse i pugni, travolta dall'ondata scottante dei vecchi ricordi, e sospirò pesantemente chiudendo gli occhi. Adrienne non aveva più fiori in casa da quattro anni, oramai. Una volta Hebe le aveva portato un mazzo di margherite, sperando che così la tristezza per la perdita dell'amato marito si alleviasse, ma la madre era diventata pallida in viso non appena le aveva viste, e le aveva urlato di gettarle via prima di chiudersi in camera. Hebe aveva pianto per ore, china sul parquet della sua camera, e non aveva più avuto il coraggio di guardare quei fiori. Fino a quel momento.
 Un balzo della macchina le procurò una fitta al collo, e la riscosse dai ricordi. Si piazzò velocemente una mano sul punto dolorante, portando indietro la testa e gemendo per il bruciore improvviso.
 Harry girò bruscamente la testa e la guardò, in un modo che quasi le parve preoccupato, prima di togliere una mano dal volante e posizionarla dietro la sua testa. Massaggiò attentamente quel punto, sotto lo sguardo scioccato di Hebe, e le sorrise distrattamente.
 Lei gli sorrise, e lui si irrigidì.
 -Va meglio?- le chiese riportando la mano al precedente posto.
 Si riscosse e aggrottò la fronte, espirando profondamente, strinse il manubrio fino a far divenire le nocche livide e rialzò il muro che lo estraniava dal mostrarsi diverso da un pezzo di ghiaccio. Non la guardò neanche quando lo ringraziò, rossa in viso, per averla aiutata a placare il dolore. Ed Hebe ebbe la netta sensazione dal modo in cui si era bruscamente allontanato, che la ignorasse per punirsi. Come se averle fatto del bene fosse stata una cosa cattiva.
-Grazie.- sussurrò all'improvviso lei, rompendo la tranquillità che aveva regnato fino a quell'istante. Lui la guardò di sfuggita, confuso. -Per prima a scuola.- continuò.
-Figurati.- biascicò lui, continuando a guardare la strada.
 Respirò ed inspirò ad occhi chiusi, preparandosi a dare inizio a una conversazione.
 -Dove stiamo andando?- chiese grattandosi le nocche.
 Dio, doveva smetterla con quella stupida mania; prima o poi si sarebbe ritrovata priva della pelle.
 Lui le guardò le mani e sorrise.
-È una sorpresa.- sussurrò con voce roca, come se qualcuno potesse sentirli. Poi si concesse di guardarla, continuando a sorridere, e per un istante lei sentì di andare a fuoco.
-Dovresti smetterla di grattarti così violentemente le mani.- disse, e con un cenno del capo indicò la direzione in cui le sue braccia erano congiunte. -Ti fai solo male.- continuò.
 Lei sgranò gli occhi: era esattamente ciò che aveva pensato due secondi prima.
-È un'abitudine che ho sin da piccola.- strascicò imbarazzata abbassando lo sguardo, portando i lunghi capelli sul viso per nascondere il rossore che si era impadronito delle sue guance solitamente pallide.
 Lui le scostò una ciocca di capelli dal viso, e sogghignò.
-Sei carina quando arrossisci.- affermò ritornando a guardare la strada.
 Ora sì, che stava andando a fuoco.
 
Rallentò sempre di più fino a fermarsi del tutto e ad accostare di fianco al marciapiede. Hebe scese dall'auto subito dopo di lui e ciò che le si presentò dinanzi la fece rabbrividire.
 Un parco giochi. Il parco giochi. Quello con cui andava con suo padre tutte le domeniche prima che la lasciasse.
 Nonostante ora fosse abbandonato, le imponenti querce c'erano ancora, e il prato umido splendeva sotto i raggi del sole.
-Bello, vero?- domandò, e lei annuì debolmente lasciandolo poco convinto. -Che hai?- chiese corrugando la fronte.
-Niente, sto bene.- rispose mettendo su un sorriso. -È solo che non ci vengo da tanto, tutto qui.-
Si incamminarono verso le altalene e si sedettero iniziando a dondolarsi leggermente.
 Hebe girò su se stessa, notando con dolorosa malinconia che la scritta incisa sul pilastro legnoso che teneva in equilibrio le altalene ancora era lì, nonostante i tanti anni.
 H&J. Hebe e John. Il suo papà.
-Hebe?- disse lui, prendendo una sigaretta dalla tasca del cappotto e riscuotendo la ragazza dai vecchi ricordi. Lei mugugnò confusa, e si voltò verso di lui alzando un sopracciglio.
-Perché stavi discutendo con Mark e gli altri, oggi?- domandò, aspirando il primo tiro.
-Non stavamo discutendo.- chiarì semplicemente. -È da un po' di tempo che si divertono così.- aggiunse abbassando il tono di voce.
Era talmente flebile quel sussurro che era convinta che Harry non l'avesse neanche sentito, invece lui bloccò i piedi a terra e frenò il traballare dell'altalena con un movimento brusco del braccio.
 -Da quanto va avanti?- chiese con voce graffiata, lasciando che il mozzicone gli prendesse tra le labbra.
 Hebe lo guardò sconvolta. Ribolliva di rabbia, e la mano gli tremava nonostante cercasse di tenerla ferma. Scrollò le spalle, e gli rivolse un sorriso amaro.
-Sarei dovuto essere lì per evitarlo, e invece non c'ero.- sussurrò, la voce incrinata dal rancore.
 Hebe socchiuse leggermente gli occhi chiari, stranita e sorpresa allo stesso tempo, e si chiese perché avesse una voglia matta di gettarsi su di lui e abbracciarlo come non aveva mai fatto con nessuno prima d'ora.
-Vorrei abbracciarti.- sussurrò di botto, rendendosi conto solo dopo che il suo sguardo confuso si posò su di lei, che l'aveva detto ad alta voce.
-Come?- chiese alzando le sopracciglia. Hebe poté giurare di aver visto un lampo attraversare i suoi occhi cristallini, prima che lui lo frenasse e abbassasse lo sguardo. L'aveva visto, ne era sicura. Aveva visto i suoi occhi brillare.
-Lascia stare, andiamo.- borbottò lei trattenendo l'istinto di gridare dalla vittoria, alzandosi traballante e cercando di dirigersi verso la macchina nonostante il tremore alla gambe e la consapevolezza bruciante di essere diventata un tutt'uno col colore rosso acceso della plastica del seggiolino delle altalene. Ma qualcosa, o meglio qualcuno, le si fiondò davanti facendole emettere un gridolino spaventato, e la fermò poggiandole entrambe le mani sulle esili spalle.
 -Ripeti quello che hai detto e poi andiamo.- le impose severo il riccio, ancora fremente.
-Ti comporti come se nessuno ti avesse mai detto una cosa simile.- sussurrò lei, riprendendo gradualmente il solito colorito.
 Lui la guardò negli occhi, e strinse la mascella.
 -Nessuno mai come l'hai detto tu.- sospirò rauco, abbassando lo sguardo.
-Vorrei abbracciarti.- ripeté, sicura.
 Lui scosse la testa, e scrollò le mani dalle sue spalle voltandosi e iniziando a camminare. Hebe lo guardò con un peso nel petto allontanarsi, e non si sentì mai così stupida come in quel momento.
 Lo seguì in silenzio, a pochi metri di distanza, osservando il modo rigido e impaziente in cui camminava.
 Non riusciva a dare una spiegazione ai suoi continui cambi d'umore, alla sua rigidezza, alla sua violenta mania di guardarla sfacciato.
 Respirò affondo, e decise che era meglio non pensarci: non lo conosceva neanche.
 Lo guardò scossa, quando lui si girò e la raggiunse velocemente.
 Corse verso si lei e la rinchiuse tra le sue braccia, facendola quasi cadere all'indietro, affondò la testa tra i suoi capelli e strinse le mani sulla sua schiena.
-Volevo abbracciarti anche io, non sai quanto.- sussurrò, esitante.
 Il cuore le prese a tamburellare contro il petto, e per un secondo ebbe paura che lui potesse sentirlo. Portò le braccia sul suo bacino e lo strinse un'ultima volta di più a sé.
 Lui si allontanò quel poco che bastava per poterle carezzare la guancia.
 -Non eri diffidente nel dare confidenza agli sconosciuti?- chiese.
 Hebe avvampò, e annaspò cercando una spiegazione logica a quello che gli aveva detto poco prima.
 Il lato scottante della situazione era che però una spiegazione logica a tutto quello non c'era; quindi respirò solo affondo, e alzò le spalle.
 Lui si corrucciò, poi alzò un angolo della bocca e la guardò beffardo.
 Passò le nocche lungo la linea del suo zigomo con calcolata delicatezza, quasi avesse paura che potesse rompersi, frantumarsi come un cristallo troppo fragile. Mosse il pollice avanti e indietro lungo la sua guancia, e Hebe si ritrovò a pensare a quanto potesse essere diverso il suo tocco in confronto al tono di voce duro e severo che aveva usato poco prima. Sentiva il suo respiro irregolare sulla pelle, e si sentì maledettamente bene.
 Non aveva mai baciato nessuno, senza contare quella volta, a tredici anni, in cui nel gioco della bottiglia dovette baciarsi con Tommy Jones nello stanzino della casa di Bridget Kennel.
 Ecco, quella era stata l'effusione amorosa col sesso opposto più grande che avesse mai avuto. Ma ora, tutto d'un tratto, sentì il bisogno di poggiare le sue labbra su quelle di un quasi sconosciuto.
 Represse quel desiderio che doveva restare segreto nel profondo della sua anima, e lo guardò negli occhi.
 Erano scuri, a differenza del suo sorriso, e un senso di delusione la avvolse in un abbraccio soffocante.
 
Restarono così, persi nella profondità dei loro occhi, per minuti, o forse ore, e Hebe cercò di imprime nella sua memoria quanto più potesse lo strano colore dell'iride del ragazzo riccio a pochi centimetri da lei: era verde, non quel verde solito e scontato, ma un verde cupo, oscuro, che sapeva nascondeva più segreti di quanto lei stessa potesse immaginare. Le sembrava tanto il colore delle foglie dei pini in inverno, ne sentiva quasi l'odore greve. Dei piccoli schizzi di un indefinito colore più scuro, che le pareva quasi blu, si intrecciavano con altri del colore degli smeraldi formando sottili disegni, e una sorta di fascia d'oro contornava la pupilla. Ne rimase incantata: erano anche più belli di quanto le erano sembrati quella stessa mattina, e vi affogò dentro, mentre li scrutava attentamente.. finché il suo cellulare non iniziò a vibrare.
 Cavolo, la mamma, pensò annoiata.
 -Pronto?- rispose con tono neutro mentre si allontanava riluttante dal tocco di Harry, il quale si stava dirigendo ora verso l'auto.
-Tesoro, sono la mamma.- esclamò, e la sua voce acuta risuonò ancora più alta del solito.
-Si mamma, lo so.- biascicò con finta esasperazione. -Che c'è?- continuò, lisciandosi come d'abitudine il maglione che indossava.
 Hebe corrugò la fronte e guardò l'ora sul telefonino. La scuola era finita da un pezzo, e neanche se n'era accorta.
-Niente, volevo solo avverti ti ho lasciato il pollo in frigo, per quando torni.- soffiò Adrienne con delicatezza, sospirando come era solita fare quando qualcosa non andava.
-Va tutto bene?- chiese, sapendo già la risposta.
-Si, è che ho discusso con Robert.- esclamò. -Sciocchezze.- aggiunse.
 Esattamente quello che pensava.
 Ogni volta che sua madre discuteva con lui, la chiamava per dirle che sarebbe stata via per un pò, per "schiarirsi le idee sulla loro storia". Una volta era stata via per giorni interi, in Grecia o forse in Australia, e non si era minimamente preoccupata di come Hebe avrebbe potuto reagire.
 Ma lei non le rinfacciava mai nulla: quello era il suo modo di reagire a ciò che era successo. Dedicarsi totalmente al lavoro e scappare dai problemi, come in quel momento.
-Ti ho chiamato anche per avvertirti che starò via.. Un paio giorni al massimo.- dichiarò improvvisamente, facendola sussultare.
Trattenne il fiato e chiuse gli occhi per un istante: non era necessario scoppiare a urlare proprio in quel momento.
 -L'avevo immaginato.- sospirò solamente. -Fai pure.-
 -Ormai sei grande abbastanza per stare da sola per un po' di giorni, no?- domandò. Hebe mugolò, e la sentì sorridere dall'altro capo del telefonino. -Ti voglio bene tesoro, a dopo.-
Attaccò subito dopo averle sussurrato 'anche io, mamma' e si diresse verso il marciapiede dove Harry aveva parcheggiato tempo prima.
 Canticchiò sottovoce mentre arrivava alla macchina, calciando un sassolino col piede sinistro mentre camminava.
 Non capiva perché sua madre si ostinasse tanto a continuare quella che lei definiva "una storia" con Robert. Hebe sapeva che non ne era innamorata, anche se cercava sempre di sembrarlo quando erano insieme. Forse era semplicemente un modo per riempire di poco quella solitudine che da ormai quattro anni si portava dietro. Solitudine che lei aveva sempre impedito a Hebe di colmare.
 Non pensarci più, pensò, non ti riguarda.
 Arrivò dopo poco nel punto in cui il riccio aveva fermato la macchina; ma fu costretta a fermarsi di scatto vedendo la scena che le si proponeva davanti.
 Harry era trattenuto per le spalle da due uomini contro lo sportello della macchina e aveva un ghigno stampato in volto, e un uomo che poteva essere definito più come un bestione, con una pistola in mano, gli gridava contro.
  Oh mio Dio, che diavolo sta succedendo?





Angolo autrice:

Ciao a tutte, lettrici silenziose e non:)!
Inizio con lo scusarmi per il ritardo, ma questa settimana sono andata al mare e la connessione faceva decisamente pena.. Comunque, meglio tardi che mai, no?
Volevo ringraziare le persone che già al primo capitolo hanno recensito, letto, e messo tra i preferiti la storia.. E' fantastico, e sono felicissima per questo.
Non avrei mai immaginato di ricevere una visita, figuriamoci tutte quelle che ho avuto! Siete fantastiche, davvero, vi ringrazio ancora tantissimo.
Spero di riuscire a pubblicare il prossimo capitolo tra giovedì e venerdì, tanto per cercare di rimediare al disastroso capitolo che sto pubblicando ora, e soprattutto che recensiate e mi facciate sapere cosa ne pensate, e se è il caso di continuare a scrivere la ff o meno.
Un bacione,
Abby_xx
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** CAPITOLO III ***


                                                                                                          CAPITOLO III                                                     


Urlò in preda al panico, portandosi le mani alla bocca, e sentì il respiro farsi pesante.
L'uomo con in mano l'arma si girò con sguardo truce, facendo sì che Hebe potesse vedere la cicatrice che contornava tutta la parte destra del suo viso.
Quello che un tempo doveva essere stato un taglio profondo ora era solo un frastagliato segno che lo faceva apparire ancora più minaccioso di quanto già non fosse. Aveva i capelli rasati, e la nuca completamente ricoperta di scuri tatuaggi sovrapposti l'uno all'altro; occhi marroni e della labbra talmente sottili da parerle quasi due fili di pelle rosata.
La guardò per un secondo con la confusione a riempirgli gli occhi scuri, poi le si avvicinò velocemente con un ghigno sadico stampato sul volto tumefatto, la prese per i capelli e posiziò la canna dell'arma proprio al disotto del suo mento.
Hebe vide Harry irrigidirsi a quell'azione, serrare la mascella e stringere talmente tanto forte i pugni da far diventare le nocche biancastre.
-A quanto vedo Styles, hai anche la fidanzata.- rise. -Certo che te le scegli proprio bene, nonostante tu sia così stupido.- sogghignò, spingendo sempre con maggior forza l'arma contro la pelle candida di Hebe, tanto che era certa che un livido violaceo si sarebbe formato di sicuro di lì a poco.
Emise un gemito di dolore quando aumentò anche la presa sui capelli, guadagnandosi in risposta un suo biascicare infastidito.
-Non sono la sua fidanzata.- protestò, rendendosi conto solo dopo di quello che lui aveva detto in precedenza.
-Ma fai sul serio, Hebe? Un tizio ti sta per far saltare il cervello in aria, e tu dici che non stiamo insieme?- sibilò Harry, guardando truce uno degli uomini che gli tenevano ferme le braccia, il quale gli sorrise beffardamente. -Senti Dave, lei non centra niente, quindi lasciala stare.- continuò, cercando di avvicinarsi di qualche passo.
-Oh, lei centra anche più di te. Lo sai.- affermò un'altro, serio, guardandola con la coda dell'occhio.
Hebe assottigliò gli occhi confusa, e si sentì rabbrividire quando notò quelli di Harry incupirsi sempre di più.
-Voglio i soldi. Tutti i soldi, Styles.- ghignò Dave, spingendo ancora di più la pistola contro la base del collo di lei. -Dammeli ora, e Drake non saprà mai niente sul fatto che vi abbiamo incontrato entrambi. E che vi abbiamo lasciato interi.-
-Non credi che forse dopo sarete voi quelli con seri problemi se viene a sapere che i soldi li avete avuti e non glieli avete dati?- chiese il riccio. -Non mi sembra uno che si fa tanti problemi a mozzare un braccio.-
Hebe lo guardò sgranando gli occhi, e iniziò a dimenarsi nonostante sapesse che così facendo si sarebbe solo fatta più male.
-Sta ferma.- urlò Dave, tirandole i capelli. -Giuro che l'ammazzo, Styles.- ringhiò.
-Vieni qui, Hebe.- disse Harry, provando a tendere una mano, mostrandosi più sicuro di quanto lei credesse potesse essere.
-Eh no, bimba.- rise l'uomo, quando lei provò ad avvicinarsi. -Finché il tuo amichetto non si deciderà a darmi ciò che mi spetta, tu resterai con me.- proferì, guardando di traverso Harry. -Tranquilla, ci divertiremo.- sibilò piano al suo orecchio.
Fece scendere la mano dai suoi capelli alla base del bacino, e la portò su un fianco stringendolo con forza. Hebe chiuse di scatto gli occhi a quell'azione, sentendo le lacrime minacciare di uscire.
-Vieni qui, Hebe.- urlò furioso Harry, facendola sobbalzare.
-Prima i soldi. Poi, forse, lascerò la ragazzina.- replicò Dave, carezzandole una coscia.
-Basta.- pregò lei, sentendo la gola bruciare e farsi secca.
Gli altri tre risero di gusto, affibbiandole nomignoli che non fecero altro che aumentare la rabbia di Harry, per quanto provasse a non darlo a vedere.
-Mettila in macchina.- biascicò uno tra le risate, guardandola maliziosamente.
Dave la prese per un braccio e la trascinò verso il viale opposto.
-No!- urlò. -Ti prego, Harry! Aiutami.- singhiozzò, mentre lui la tirava per farle svoltare l'angolo.
Il riccio la guardò atono, e rimase immobile.
Cambiarono strada, e lei si girò verso Dave guardandolo affranta.
-Ti ha abbandonata, vero principessa?- chiese. -Mai fidarsi di Harry Styles.- aggiunse scuotendo la testa divertito.
-Ti prego, lasciami stare.- sussurrò.
-Mi dispiace, ma non posso.- rise, carezzandole una guancia. -Proprio non posso.- strascicò avvicinandosi ancora di più al suo corpo.
-Io invece credo che tu debba.- sibilò qualcuno alle loro spalle.
Si voltarono entrambi, proprio mentre chi aveva proferito parola girava l'angolo e si faceva vedere.
Harry.
Il riccio se ne stava con la testa china, i pugni stretti e il respiro pesante, dinanzi ai due.
-A meno che tu non voglia ridurti come quegli altri due.- continuò, spostandosi quanto bastasse per permettere loro di guardare ciò che vi era alle sue spalle.
Ciò che le si presentò davanti era certa non lo avrebbe mai più dimenticato: i due uomini che prima tenevano Harry per le spalle, ora erano inermi al suolo, ricoperti di lividi e sangue.
-A differenza loro, tu sei sempre stato più ragionevole. O sbaglio?- ghignò, alzando lo sguardo.
Hebe rabbrividì, certa che i suoi occhi non fossero mai stati tanto privi di vita. Erano buchi neri in cui i suoi demoni regnavano felici.
Dave annaspò, e sgranò gli occhi.
-Vieni qui, Hebe.- ripeté per la terza volta, avvicinandosi di qualche passo.
Lei avanzò tremando, e quando Dave, ancora frastornato, cercò di riportarla stretta al suo petto si girò, e colpì con quanta più forza aveva in corpo il cavallo dei suoi jeans approfittando della sua confusione.
Lui trattenne un urlo e diminuì la presa dal suo braccio, permettendole di rifugiarsi sul petto del riccio.
Harry le afferrò fulmineo il polso e la strattonò velocemente in prossimità della macchina.
Salirono, e in una frazione di secondo si ritrovarono a debita distanza dal parco. Hebe controllò dallo specchietto retrovisore se Dave fosse al loro inseguimento o se ancora piegato in due, e notò deglutendo che la seconda opzione era quella esatta.
-Bel colpo.- rise Harry, riferendosi alla ginocchiata. Si levò il cappotto e lo gettò sui sedili posteriori.
Lei lo guardò con gli occhi tremanti, e aprì di poco le labbra per dire qualcosa.
-Non ora.- la precedette lui, senza neanche rivolgerle un'occhiata. -Ti dirò tutto più tardi.-
-Tutto cosa?- chiese flebilmente, grattandosi le nocche.
-Le cose che non sai.-

Passarono una decina di minuti, ed erano ancora in macchina nel silenzio più totale. Ogni tanto Hebe si voltava, e lo guardava mentre cambiava la marcia o girava lo sterzo, notando i suoi muscoli, messi in evidenza dalla leggera maglietta scura, contrarsi e rilassarsi ogni volta che si muoveva.
Scrutò aggrottando le sopracciglia il suo viso concentrato, i suoi occhi socchiusi, la bocca corrugata, i riccioli morbidi sparsi sulla fronte.
Lui sorrise, accorgendosi dello sguardo indagatore di Hebe sul suo corpo. Lei si girò di scatto, sentendo il calore affluire sulle guance.
-Dove stiamo andando, Harry?- domandò, cercando di darsi un contegno, non riconoscendo nessuna delle strade che avevano percorso.
-In un posto.- rispose lui, rimettendo apposto con un movimento rapido i pochi riccioli scuri che avevano creato una barriera del colore caldo del cioccolato fuso tra i suoi occhi e la strada.
-Dove, di preciso?- ribatté.
-Fa silenzio Hebe.- biascicò lui nervosamente, mordendosi il labbro inferiore con veemenza.
Hebe sospirò, e si accucciò contro il finestrino.
Perché mi sto fidando?

-Svegliati, Hebe.-
Sentì una voce sommessa incitarla a svegliarsi.
Mugugnò qualcosa in risposta che fu difficile da comprendere anche per lei, nonostante l'avesse pronunciata in prima persona.
-Svegliati.- continuò quella, ignorando le sue proteste.
Hebe alzò il braccio e si coprì il volto, provando ad attutire il vociare fastidioso. Ringraziò il Cielo quando non sentì più nulla, e sospirò soddisfatta.
Stava per riprendere sonno ma sentì un respiro caldo sul collo, e aprì gli occhi di scatto chiedendosi chi mai potesse essere.
Sentì i sogghigni di Harry irrompere nella stanza in cui si trovavano, e avvampò quando notò che la sovrastava dall'alto e che i loro visi erano a pochi centimetri di distanza.
Si allontanò di poco, lisciandosi il maglione per cercare di darsi un contegno, e si guardò attorno nonostante sentisse lo sguardo del riccio bruciargli sulla pelle.
Era sdraiata su un divano, al centro di un salotto che le ricordava tanto i posti in cui andava con la sua famiglia a mangiare in inverno quando era bambina.
Aveva un qualcosa di caldo e accogliente, ma non aveva mai visto quel posto prima d'allora.
Solo dopo qualche minuto ricollegò i fatti e capì che doveva essersi addormentata durante il tragitto in auto; l'unica cosa che le sfuggì era come era arrivata sul divano di una casa a lei sconosciuta.
-Come sono arrivata qui?- chiese dopo essersi seduta ed aver stropicciato gli occhi con i palmi delle mani. -Dove siamo?- aggiunse.
-Nella mia casa in montagna, dista poco da Holmes Chaple, quaranta minuti al massimo.- scrollò le spalle con calcolata rigidezza. -Ti ho portato io sul divano. Ti sei addormentata in macchina e non volevo svegliarti.- continuò.
Lei inclinò la testa, e lo guardò sconvolta.
-Tranquilla, ho mandato con il tuo cellulare un messaggio a tua madre dove l'avvertivo che saresti rimasta a dormire da una tua amica, e lei non ha fatto problemi.- disse lentamente, vedendo Hebe guardarlo in quel modo. -Sembrava entusiasta. Non esci molto spesso, vero?- chiese, dopo essersi seduto accanto a Hebe, ed aver attorcigliato la collanina che portava al collo attorno all'indice.
Non l'aveva mai notata: era una semplice catenina d'argento, con una croce come ciondolo.
Si riscosse e scosse mentalmente la testa, riprendendo a guardarlo.
-Chi ti dice che io voglia restare qui?- domandò scettica.
Aveva frugato nella sua borsa, probabilmente le aveva anche palpato il sedere mentre la teneva in braccio e aveva usato il suo telefonino, il tutto senza il suo consenso, ma da come Harry la guardava sembrava lei la cattiva della situazione.
-Resterai solo per poco, Hebe. Non puoi restare a casa, sarebbe pericoloso.- sussurrò corrugando la fronte, e scandendo bene ogni singola sillaba.
Si corrucciò, e poi aprì i grandi occhi cristallini.
Fu allora che si ricordò di Dave e dei due bestioni, di quello che avevano detto a Harry, della questione dei soldi e che lei centrava in quella situazione anche più di lui.
-Le cose che non so.- sussurrò allora. -Hai detto che mi avresti detto tutto.- disse, dopo aver portato il plaid a scacchi che aveva sulle gambe fin sopra le clavicole.
Harry smise per un secondo di giocare con la catenella, che aveva attorcigliato fino a ricoprire le nocche, e le rivolse di sfuggita un'occhiata, poi riprese come se nulla fosse accaduto.
-Quel tipo, Dave.- iniziò. -Lavora per un tizio a cui non sto molto a genio.- ghignò con un sorrisetto amaro, guardando il vuoto.
-E perchè era così arrabbiato? Ha cercato di falci saltare il cervello in aria, lo hai detto proprio tu. Tutto per degli stupidi soldi. Credo di meritare una spiegazione, non trovi? O almeno che tu mi chiarisca qualcosa, tipo per chi lavora e che centri tu. E perché centro anch'io.- disse velocemente con una sfumatura quasi ironica nella voce.
Harry la guardò per secondi che le parvero interminabili, sospirò e scosse la testa mormorando qualcosa, poi si passò una mano sugli occhi e si schiarì la voce stringendo la coperta che la ricopriva in un pugno.
-Lavora per persone poco affidabili, che fanno cose poco affidabili, che ora non ti starò a elencare.- iniziò. -Solitamente per un certo Drake Heyers, colui che ha la più grande traffica di eroina mai vista a Holmes Chaple. Diciamo semplicemente che i soldi di cui parlava sono quello che gli hanno dato in cambio di grandi quantità di droga e io gliene ho portati via una grossa parte.-
Hebe rimase immobile, la bocca socchiusa, e per un momento ebbe voglia di scoppiare a ridere.
-Certo, e io sono un genio della Matematica.- rise lei, alzando gli occhi al cielo e lasciandosi scappare un gemito di disperazione. Si alzò dal divano e prese la tracolla che Harry aveva lasciato ai suoi piedi. -Io me ne vado.- sussurrò.
Harry le prese un polso, quando lei iniziò a camminare verso la porta, e la voltò bruscamente.
-Hebe, non sto scherzando.- sussurrò roco, guardandole il collo.
Lei corrugò le sopracciglia e si toccò, quasi per riflesso, il punto che lui stava ansiosamente osservando.
Sentì quella parte di pelle pungere, e capì che era il risultato della violenza con cui la pistola era stata puntata contro la sua pelle candida.
Lo guardò, e trattenne il fiato.
-Ammettiamo che tutto questo sia vero..- sussurrò.
-Lo è.- la interruppe lui.
-..ancora non mi hai detto che centro io, però.- continuò, come se il riccio non avesse parlato. -E non mi hai ancora dato una motivazione per non chiamare la polizia.- aggiunse.
Tutto quello era ridicolo: e si rese conto di quanto stupida fosse stata ad accettare quel passaggio, quella mattina.
-Perché tu conosci più che bene colui per cui io lavoro.- sibilò, e i suoi occhi divennero ansiosi, cupi.
-Per chi lavori, Harry?- chiese.
La guardò, mordendosi ripetutamente il labbro inferiore, proprio come quando erano in auto: e Hebe intuì che lo faceva quando era abbastanza nervoso, o quando parlavano di argomenti che preferiva evitare.
Lentamente le prese le mani, e Hebe potette notare le decine di bianche cicatrici che le ricoprivano. Quelle non erano le mani di un ragazzo. Erano le mani di un uomo.
-Per tuo padre, Hebe.-

 


Angolo autrice:

Ebbene si, due capitoli in due giorni!
Volevo rimediare al ritardo del capitolo scorso, quindi ho deciso di pubblicare il terzo oggi ed il quarto venerdì, tanto per equilibrare un poco il tutto:)!
No però vabè, c'è da far notare che ho imparato a inserire i colori nei capitoli, ci vuole un applauso tzè.
Ringrazio ancora tutte le lettrici silenziose dei capitoli scorsi, chi ha recensito, inserito tra i preferiti e dato una possibilità a questa fan fiction.. Spero vi piaccia e che mi facciate sapere cosa ne pensate così da valutare se continuare a pubblicare altri capitoli o se invece è inutile perchè solo due persone la leggono.. e tra queste due sono compresa io. Però okay, non deprimiamoci e continuiamo a pregare AHAHAHAH.
Allora, chi è Harry in realtà? E davvero lavora per il defunto John, che in questo caso non sarebbe a tutti gli effetti defunto? Lo scopriremo nel prossimo capitolo, zanzanzan!
Ora basta fare la telepromotrice, sempre se si dice così, vi lascio ai commenti che spero non siano negativi!
Un bacio azzeccuso a tutti, ve se ama,
Abby_xx
Ho assunto troppi zuccheri stamattina, non fateci caso.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** CAPITOLO IV ***


                                                                                   CAPITOLO IV    


Harry vide Hebe sbiancare quando pronunciò quelle parole, e ritrarre immediatamente le mani, che fino a pochi istanti prima erano nascoste tra le sue.
-Non è vero.- sussurrò flebilmente, muovendo il capo da destra a sinistra e facendo sì che alcune ciocche dei folti capelli le ricadessero davanti agli occhi. Harry ebbe voglia di tendersi in avanti e posizionargliele dietro le orecchie, ma la consapevolezza che si sarebbe ritratta lo assalì. E così stette fermo aspettando una sua reazione.
Gliene sarebbe andata bene una qualsiasi: un attacco di rabbia, l'urlare isterico, uno schiaffo in pieno viso. Tutto. Ma quando la vide in silenzio con le mani screpolate congiunte sullo stomaco, la bocca semiaperta e gli occhi tremolanti, cadde in preda al panico e capì che forse, nonostante proprio suo padre gli avesse detto che quando l'avrebbe ritenuta pronta avrebbe potuto dirle la verità, quelli erano stati il modo e il momento più sbagliati.
-Non osare parlare di mio padre.- sibilò con voce sprezzante e gli occhi ridotti a due fessure. -Non ti azzardare.-
-Ascolta, Hebe..- sospirò lui.
-No, ascolta tu.- lo interruppe. -Tu non sai niente di mio padre. Non hai la più pallida idea di chi è stato, di come ha vissuto.- lo guardò, e lui si sentì morire. -E' lo scherzo più ignobile che mi sia mai capitato di subire. E, credimi, me ne hanno fatti tanti in questi quattro anni.- sorrise amaramente, e una lacrima le rigò il viso diafano lasciandole il segno sulla pelle candida come fosse stata vernice.
No, no, no, pensò.
Le agguantò un polso e scosse la testa. -Come puoi anche solo pensare che possa essere capace di mentire su una cosa simile?- chiese corrugando le sopracciglia.
Hebe strattonò il braccio dalla morsa in cui Harry l'aveva stretto e deglutì grattandosi le nocche.
-Hai ragione.-  dichiarò. -Infondo non so neanche chi tu sia realmente.- aggiunse torcendo le labbra rosee in una smorfia di delusione.
Stava per voltarsi, ma Harry la prese per le fragili spalle e le impedì di muovere anche un solo passo, stringendola contro il suo torace. Alzò lo sguardo su di Hebe, sentendo che se l'avesse lasciata le ginocchia le avrebbero ceduto, e vide i suoi occhi cristallini riempirsi di lacrime.
-Lasciami.- implorò tremante. -Voglio andare a casa.-
-No, Hebe.- sussurrò. Lei inziò ad annaspare, e sgrannò gli occhi quando lui strinse la presa. Le sembrava una piccola bambina spaventata, immobile tra le grinfie di un mostro.
Ed il mostro era lui, ancora una volta.
-Ti ho detto di lasciarmi.- ringhiò dimenandosi. La tracolla le scivolò sul pavimento, ed Harry notò che non se ne preoccupò minimamente: tutto ciò che le importava era scappare da lui.
-No.- ribattè lui.
-Toglimi le mani di dosso!- urlò.
-No!- gridò a sua volta; respirò affannosamente. -Devi ascoltarmi.-
Non posso lasciarti andare via.
-John Rider Watson, è l'uomo per cui lavoro.- sibilò. -Sai cosa faceva tuo padre, vero?- le domandò, cercando quanto più gli fosse possibie di placare il tono dell voce quanto bastasse per tranquillizzarla. Lei lo guardò, e chiuse gli occhi sospirando: il petto le si abbassava e rialzava incessantemente, e le mani le tremavano. Pensò che nonostante i capelli scombinati ed il maglione stropicciato, era comunque bellissima.
-Era un papà fantastico.- affermò, aprendo le palpebre. -Ma so che non ha avuto in passato un comportamento rispettabile.- strascicò, sorridendo tristemente.
-Tuo padre beveva, fumava, partiva per Las Vegas per giocare partite di poker. Spesso risaliva alle mani quando qualcuno non gli andava a genio.- sospirò. -Ma tu questo già lo sai, vero?- chiese, e lei annuì chiudendo gli occhi. -Lo faceva per il tuo bene e per quello di tua madre, Hebe. Per darvi una casa, e un futuro. Forse quello non era il modo migliore per guadagnare soldi, ma a lui andava bene.- esitò. -Non ha mai smesso, Hebe. A differenza di quello che ti ha fatto credere, ha continuato a vivere la sua vita in quel modo. Cercando di tenertelo nascosto.-
Lei non fiatò, si limitò semplicemente a stringere talmente tanto forte i pugni da far aprire le ferite che aveva sulle nocche fino a farle quasi sanguinare. Harry corrugò le sopracciglia, e racchiuse le piccole mani fredde di Hebe tra le sue, facendole rallentare la stretta.
-Fu quando tuo papà in una rissa fece fuori un uomo di Drake che iniziarono i guai. E per quanto volesse tenere al sicuro te e Adrienne dalle sue minacce, sapeva che non ci sarebbe riuscito. Così chiamò mio padre. Il suo migliore amico.- si fermò e aspettò che dicesse qualcosa. Non successe; continuò a tenere gli occhi serrati, e si morse l'interno della guancia sinistra. Capì ch non avrebbe reagito fino a quando lui non avesse finito di raccontare tutta la storia, così riprese.
-Quando John gli spiegò la situazione, lui non esitò un secondo e gli disse che l'avrebbe aiutato. Si misero sulle tracce di Hayers e cercarono quanto più era loro possibile di intralciare i suoi piani e le sue vendite. Pensavano che se fallivano i suoi traffici di eroina sarebbe fallito anche lui, e che di conseguenza vi avrebbe lasciato stare. E il loro piano era buono, funzionò anche per un qualche anno. Ma quando Drake capì che c'era tuo padre sotto tutto quello che gli stava capitando giurò di vendicarsi.- strinse la mascella, e continuò. -Fecero un patto. Tuo padre non si sarebbe più messo in mezzo, tua madre non avrebbe mai detto niente a nessuno, e lui vi avrebbe lasciato in pace. Finse la sua morte per tenervi al sicuro, in modo che tu non avresti mai saputo niente di tutta questa storia. Adrianne sa ogni cosa, tranne che John è ancora vivo e che vi sta tenendo d'occhio nell'ombra. Ora non si comporta più così, te lo assicuro. Cerca in tutti i modi possibili di far si che i delinquenti come Drake e i suoi uomini marciscano in galera, facendosi aiutare da altra gente.- concluse velocemente.
Il silenzio che seguì le sue parole gli faceva quasi prudere la pelle. Dì qualcosa, pensò, andiamo.
Ad un tratto lei aprì gli occhi, e lo guardò cacciando fuori tutta l'aria che Harry sapeva aveva trattenuto.
-Tu sei il figlio di Mike.- sussurrò, sorridendo di poco.
Lui annuì, anche se sapeva che non ce n'era bisogno.
-Ecco perché avevo la sensazione di conoscerti. Mi ricordavi tuo padre.- aggiunse corrucciandosi, dopo qualche secondo. -Come faccio a sapere che tutto quello che mi hai detto è la verità?- domandò tirando su col naso.
-Devi credermi e basta.- disse lui, guardandola serio.
Lei sospirò scuotendo la testa. -E' una cosa troppo grande, Harry. Non posso limitarmi a questo.-
-Ero al funerale di tuo padre.- biascicò allora lui velocemente. -Indossavi un abito nero che ti arrivava sopra le ginocchia, e avevi una margherita stretta nel pugno della mano destra. Tua madre singhiozzava al tuo fianco, ed era accasciata sulle ginocchia. Tutti piangevano. Ma tu no.- continuò serio, perdendosi nel ricordo risalente a quattro anni prima. -Avevi gli occhi vuoti, ed eri immobile. Per un momento ho creduto fossi una statua. Poi ti sei grattata le nocche con forza, e hai sbattuto le palpebre.- sorrise. -Quel giorno ho avuto la conferma di quello che sempre mi aveva detto tuo padre. Eri forte. Un involucro di pura forza che secerneva una piccola ragazzina di tredici anni che non voleva mostrarsi fragile, neanche davanti alla tomba di suo padre.- sospirò guardandole le labbra tremanti, e sentì il cuore frantumarsi. -Come potrei sapere tutte queste cose, se ti stessi mentendo?- le domandò.
-Tu che centri in tutto questo?- chiese con voce flebile, sviando la domanda che lui le aveva posto, guardandolo negli occhi. Harry abbassò lo sguardo, e si schiarì la voce: il fatto che lei cercasse ogni volta che ne aveva l'occasione di leggere i suoi occhi lo mandava in confusione, e lui odiava sentirsi così.
-Mio padre mi ha sempre fatto studiare da privatista. Quindi non è stato un problema entrare nella compagnia di tuo papà, non dovendo lasciare la scuola.- disse girandosi e lasciandole le mani. Le sue lacrime gli avevano seccato la gola, e stretto il petto.
Si chiese come era possibile: aveva visto tanta gente piangere, e non aveva mai provato niente. Ma ora era come se percepisse il dolore della piccola ragazza che si trovava a meno di un metro da lui.
-La mia domanda non era quella.- sospirò lei, facendolo voltare.
-Giusto, scusa.- annuì col capo. -Ho giurato di proteggerti, anche a costo della vita.-
Lei si corrucciò, e lo guardò confusa.
-John è tutto ciò che mi rimane, l'unica persona più vicina ad un padre che ho. Farei di tutto per lui, e per chi ama. E al primo posto della sua lista ci sei tu.- continuò, respirando profondamente.
-E Mike?- chiese corrugando la fronte. Si asciugò le guance con la manica del maglioncino, e si grattò le nocche con frenesia.
Lui si abbassò e prese la tracolla da terra, porgendogliela subito dopo senza guardarla. Si era impegnato così tanto in quegli ultimi anni per rimanere diffidente ad ogni tipo di emozione, ed ora una dicissettenne impaurita ed insicura gli stava scaturendo nel profondo dell'anima più emozioni di quante avrebbe potuto immaginare.
Non va per niente bene, Harry, pensò scuotendo mentalmente la testa.
-Infarto. Due anni fa.- sibilò piatto, rispondendo alla domanda posta in precedenza da Hebe.
Lei sgranò gli occhi, guardandolo profondamente, poi gli prese una mano. Harry la guardò stranito: era lui quello che avrebbe dovuto consolarla, dopo tutto quello che le aveva detto, ed invece ora era lei che cercava di confortare lui.
-Sto bene, Hebe. È passato.- sussurrò carezzandole il dorso della mani con il pollice.
Lei gli gettò le braccia al collo, e lo strinse più che potette lasciandolo stupito.
Odorava di mandorle e speranza.

Passarono un paio di minuti in cui restarono stretti, e nella stanza si sentirono solo i loro respiri accelerati. Poi lei parlò.
-Chiunque altro sarebbe scoppiato a ridere, o ti avrebbe preso a pugni. Ma io sono troppo stanca e sconvolta per fare sia l'una che l'altra, quindi mi limito a crederti.- disse, alzando gli angoli della bocca. Harry però era certo che quel sorriso nascondesse la profonda tristezza della consapevolezza di essere cresciuta senza un padre quando sarebbe stato possibile.
-Hebe?- sussurrò, aspirando a pieni polmoni l'odore di miele e mandorle che emanavano i suoi lunghi capelli.
-Si?- rispose lei, allontanandosi di poco.
-Tra qualche giorno ti porterò da tuo padre.- le riferì serio, scostandole una ciocca di capelli dal viso.
La sentì irrigidirsi istantaneamente quando pronunciò quelle poche parole, serrare la mascella e corrugare la fronte.
-Io non voglio vederlo.- disse con voce strozzata. -Mi ha abbandonato. Non voglio avere nulla a che fare con lui.- aggiunse abbassando lo sguardo.
-Devi fidarti.- disse sommessamente, lasciando cadere il braccio lungo il fianco: sentiva quasi la trama dei suoi capelli tra le dita.
-Come posso fidarmi di un uomo come lui? Di un uomo che ha fatto piangere persone su una bara vuota?- ribatté.
Lui scosse la testa, e sorrise amaramente.
-Non di lui.- iniziò con sguardo accigliato. -Di me.-
Lei lo guardò per un istante, con una strana luce nei grandi occhi cristallini, poi annuì lentamente; e per quanto volesse sembrare tranquilla quanto bastasse per convincere sia lui che se stessa, Harry poteva benissimo leggere nei suoi occhi la preoccupazione che la stava divorando internamente.
Andrà tutto bene, te lo prometto.





Angolo autrice:

Ciao a tutte lettrici silenziose e non:)!
Su esplicita richiesta di Sunshine_Roe, che mi ha scritto della sua imminente crisi di nervi, ho deciso di pubblicare il capitolo un giorno prima.. Non che interesi a qualcuno però oh, c'era di mezzo la vita di una persona qui eh HAHAHAHAH:)
Da quello che avete potuto capire il padre di Hebe non è quindi morto, ma vivo, vegeto e con Harry sotto la sua ala protettrice.
Sono stanchissima, il computer si è resettato e ha cancellato tutti i capitoli.. Ho dovuto riscriverli di nuovo sul pc di mia nonna, che mi ha cortesemente prestato a patto che io le dedicassi la storia.. Quindi signore e signori, un particolare grazie ai miei due fantastici e alternativi nonni che mi presteranno il loro pc al fine di farmi scrivere i capitoli quando ne avrò la necessità. Vi voglio bene, tantissimo!
Okay, superato questo momento di sdolcinata dolcezza, grazie per l'appoggio e per aver recensito la storia! So di essere ripetitiva, ma davvero vi devo tutto. Sapere che ci sono oltre duecento persone che hanno letto questa ff mi scalda il cuore e fa davvero tanto, ma tanto piacere!
Buonanotte a tutte, un abbraccio,
Abby_xx


PS: Sunshine_Roe, spero che la crisi ti sia passata! AHAHAHAH:)
A presto tesoro!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** CAPITOLO V ***


                                                                                    CAPITOLO V 



Erano appena scoccate le due di notte ed Harry era ancora sul davanzale della finestra, con l'ennesima sigaretta tra le labbra, guardando il temporale che stava andando avanti da qualche minuto infrangersi lungo i vetri. Si era rifugiato lì dopo che Hebe era andata a risposare, al piano di sopra, nella camera degli ospiti.
Aveva provato più e più volte anche lui a cercare di prendere sonno e a farsi cullare tra le braccia di Morfeo, ma proprio non ci riusciva.
Il pensiero di Hebe tra le sue braccia lo tormentava impedendogli di dormire.
Pensava e ripensava all'odore di miele e mandorle che i suoi capelli sprigionavano.
Pensava ai suoi occhi, che all'ingresso della scuola, quella mattina, era sicuro fossero blu; dovendosi ricredere però quando in auto scoprì invece che avevano delle pagliuzze dorate a contornare il confine dell'iride verde, dandosi dello stupido quel pomeriggio dopo aver notato quanto inconfondibilmente assomigliassero al grigio del mare in inverno.
Pensava alle sue labbra, piene e perennemente rosee, che lo facevano ammutolire ogni volta che le muoveva.
Pensava alla sua voce, e alla sua risata cristallina.
Al suo corpo esile ed elegante, alla bellezza sopraffina che neanche sapeva di possedere.
Pensava a quanto insicura e timida potesse essere in certi momenti, e estroversa ed estremamente forte in altri.
Pensava che in un solo giorno era riuscita a fargli scuotere il petto da più emozioni di quante fosse riuscito a sentire negli ultimi mesi. Pensava al fatto che con lei non era chiuso e duro come con gli altri, e il perché proprio non lo sapeva.

Era così assorto nei suoi pensieri, che non si era neanche lontanamente accorto di un'infreddolita Hebe che lo guardava da dietro il legno della porta, pensando a quanto fosse meravigliosa la sua espressione concentrata in un qualcosa che lei non poteva sfortunatamente venire a conoscenza, e a quanto fosse bello mentre avidamente asprirava boccate di fumo che gli rendevano i respiri grigi.
Fu quando urtò con un piede contro la parete color panna, mentre si voltava per ritornare al piano superiore, che Harry sobbalzò e si accorse della sua figura minuta che stava imprecando cose incomprensibili tenendosi la caviglia con espressione dolorante.
Spense la sigaretta quasi terminata nel portacenere poi si alzò prontamente dal davanzale e la soccorse, prendendola senza nessuno sforzo in braccio e poggiandola delicatamente sul piano cottura, poco distante dalla finestra.
Prese del ghiaccio dal congelatore e lo avvolse in un panno prima di posizionarlo sulla parte gonfia e livida del piede della ragazza.
Hebe guardò attentamente ogni sua minima mossa, dall'andatura sicura con cui si muoveva a passo svelto da una parte all'altra della cucina, al sorriso sereno e stanco che le rivolse prima di dirle di indicargli il punto più doloroso, restandone visibilmente incantata.
Harry, di canto suo, aveva fatto la stessa identica cosa con Hebe: non le aveva tolto gli occhi di dosso neanche quando si era dovuto chinare per prenderle il ghiaccio. Aveva notato quasi subito che si era cambiata, e aveva indossato una maglietta e un paio di pantaloni della tuta di sua proprietà, che aveva dovuto trovare nell'armadio della camera degli ospiti, e che le stavano a dir poco enormi.
Sorrise a quella visione, e pensò che con i suoi vestiti addosso e il chiarore lunare ad illuminarle il profilo, era ancora più bella.
-Dopo mi insegni come si fa a prendere botte simili contro una parete.- sussurrò sommessamente. -Insomma, credo bisogni avere un talento o cose simili, no?-
-È buio.- biascicò Hebe, arrossendo e abbassando lo sguardo.
-Oh, allora sì che le cose sono chiare.- commentò Harry guardandola di sfuggita.
Hebe sussultò leggermente, quando lui sfiorò con il panno la parte della caviglia che le causava più dolore, e di riflesso gli prese le mani allontanandole di poco. Lui alzò lo sguardo e si scusò con voce sommessa, poi corrugò le sopracciglia e puntò gli occhi scuri sul lato del suo collo.
-Ti fa ancora male?- chiese roco, liberando una delle mani dalla presa leggera della ragazza e sfiorando con un dito affusolato il punto livido formatosi per colpa di Dave.
Hebe sentì il calore affluire sulle guance, ma non smise di guardarlo, nè tantomeo lasciò la sua mano: era diverso, rispetto a quella mattina, le sembrava più sereno. Harry le scostò una ciocca di capelli sfuggita dalla sua coda improvvisata e inchiodò i suoi occhi verdi in quelli grigi di lei, avvicinandosi poi lentamente.
-Che ci facevi ancora alzato?- domandò allora Hebe, allontanandosi di poco e schiarendosi la voce. Lasciò la mano di Harry, vedendolo corrucciarsi leggermente. Fu questione di un istante: subito rialzò quella parete di cemento che gli impediva di mostrarsi umano più di quanto ritenesse necessario.
-Riflettevo.- strascicò semplicemente, scrollando le spalle con una smorfia.
-Uno come te alle tre di notte può solo riflettere su arogmenti filosoficamente essenziali, suppongo.- commentò ironica, sorridendo imbarazzata.  
-Mi stai dando dello stupido?- chiese inarcando un sopracciglio, sogghignando leggermente.
-Vuoi davvero che ti risponda?-
-Simpatica.- borbottò allora lui, alzando gli occhi al cielo.
-In effetti me lo dicono spesso.- scherzò lei, scendendo dal ripiano e aggiustandosi la fasciatura improvvisata che Harry le aveva fatto con i residui di garza trovati nel kit per il pronto soccorso.
Avanzò diretta verso la porta, sperando che lui la fermasse dicendole qualcosa.
-Tu invece che facevi sveglia?- chiese velocemente Harry, sperando di poter prolungare la conversazione che sembrava sul punto di finire.
Hebe sorrise, prima di girarsi per guardarlo. Tossì imbarazzata, e si grattò le nocche.
-Ho paura dei tuoni.- sussurrò flebimente, abbassando la testa e guardandosi le dita dei piedi scalzi.
-Come?- chiese lui, poggiandosi al ripiano di marmo. -Non ho capito.-
-Non lo ripeterò di nuovo.- biascicò dondalandosi su un piede.
-Non ho capito sul serio, Hebe.- ghignò lui, avvicinandosi. -Ripeti.-
-Ho..- balbettò, quando lui iniziò ad avanzare verso di lei.
-Hai?- chiese corrucciandosi.
-Ho paura dei tuoni.- strascicò più velocemente che potette, sentendo lo sguardo del riccio quasi pizzicarle la pelle chiara.
Notò lui sorriderle, e guardarla in un modo indecifrabile che identificò come a metà tra il malizioso e il divertito.
Smetti di guardarmi così, pensò allora, e smetti di avvicinarti.
-Se vuoi posso tenerti la mano mentre dormi.- suggerì lui all'improvviso, avanzando ancora.
Lei alzò lo sguardo, e sospirò concedendsi un leggero sorriso che le increspò le labbra carnose.
-Non credo di avere più tanto sonno.-

Parlare con lui le veniva naturale, come se lo facessero da sempre. Non era mai stata brava ad aprirsi subito con le persone, ma con Harry era diverso. Con lui stava bene, come non stava da anni. Era normale ridere senza preoccuparsi delle piccole rughe che le si formavano agli angoli degli occhi.
O parlare a vanvera senza avere la paura di essere ritenuta strana.
O anche mangiare un pacco di patatine alla paprica accucciata sul suo divano alle cinque di mattina vedendo l'ultima puntata della maratona dei Simpson, che nonostante ritenesse estremamente stupidi e del tutto privi di senso, era ben accetta a vedere, perché lui era restato tutto il tempo sveglio con lei, impaurita dal temporale, e si era preoccupato inutilmente della caviglia che ormai era apposto, e le sembrava il minimo. L'imbarazzo la travolgeva comunque, quando lui la guardava o anche semplicemente le sfiorava la mano, ma cercava di non farci tanto caso.
-Certo che Bart anche se viene strangolato con cornette per telefoni e spine della TV, non smette mai di fare lo stupido.- biascicò, ingurgitando una patatina, non riuscendo a capire la tattica di gioco del bambino giallo del cartone che sempre e comunque finiva con qualcosa attorcigliatogli al collo.
-Quel bambino è un genio.- affermò lui, alzando il palmo della mano verso il televisore. - Semplicemente si gode la vita senza preoccuparsi delle conseguenze. È intelligente, non idiota.-
Improvvisamente Hebe notò uno strano sorriso formarsi sul volto del riccio, creando delle piccole rughe attorno agli occhi cupi e lasciandola confusa.
Harry si alzò di scatto, prendendole le mani e trascinandola con se fuori dal portone; la spinse in mezzo al prato che regnava su quella grande pianura ricoperta d'alberi, facendola inzuppare data l'acqua che ancora scendeva a goccioloni dalle nuvole soprastanti.
-Che cosa stai facendo?- gridò Hebe cercando di superare il rumore incessante dell'acqua che scendeva imperterrita e copiosa su di loro.
-Faccio come Bart! Non mi preoccupo delle conseguenze!- urlò a sua volta. -E ora mi concederebbe un ballo, signorina?- aggiunse, facendo un mezzo inchino con un sorriso sghignazzante sul volto bagnato.
Hebe lo guardò furiosa, poi scoppiò a ridere e gli tese il palmo.
E così lui la prese per mano, e insieme danzarono con l'alba che li accoglieva e le note di un temporale che lasciava spazio al sole, completamente bagnati, già pazzi l'uno dell'altra.







Angolo autrice:
'Sera, ragazze!
Sono ancora alle prese con il riscrivere i capitoli, data l'improvvisa morte del mio pc, e sto praticamente passando le giornate tra il fare da baby-sitter a quelle mostriciattole delle mie cugine e di mia sorella e scrivere e studiare. Dire che sono distrutta sarebbe un'eufemismo!
Questo capitolo fa davvero pena, quindi perfavore perdonatemi e siate clementi! AHAHAHAHAH
Ci tenevo però davvero tanto a ringraziare tutti coloro che hanno inserito tra i preferiti, tra le seguite e recensito questa storia.. rendendomi la persona più felice del pianeta nonostante fossi stremata, e accendendo una piccola luce nei miei giorni noiosi.
Volevo soprattutto dire grazie a:
Sunshine_Roe,
Itwastobe,
Mydreamisyou3,
Windowsinthesky,
Federica_Bossa,
e Perfl0uis, che hanno recensito fino ad ora la maggior parte dei capitoli!
Grazie ragazze, vi adoro!
Auguro a tutte una buona notte e soprattutto una buona estate, fatemi sapere che ne pensate mi raccomando!
Un bacio,
Abby_xx

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** CAPITOLO VI ***


                                                                                CAPITOLO VI

                                      
Il temporale aveva raggiunto il suo termine da ormai tanto tempo, ma ad Harry ed Hebe non importava: loro continuavano a ridere rincorrendosi come due bambni, senza preoccuparsi di nulla. Senza pensare al giorno precedente ed al fatto che la vita della ragazza era stata sconvolta da improvvisi cambiamenti, e che di quei cambiameni avrebbe dovuto farne la sua quotidianità.
Harry le aveva detto ciò che sarebbe successo dopo quella notte, l'aveva avvertita del fatto che forse avrebbe dovuto cambiare città, conosceze e magari anche lasciare la scuola e dedicarsi a studi privati, per far sì che Drake non risalisse mai a lei e non le facesse mai del male. Lei aveva semplicemente alzato le spalle, ed aveva annuito torcendo le labbra rosee in un sorriso tirato.
-Non farà alcuna differenza.- aveva risposto, scuotendo debolmente la testa. -L'unica cosa che mi tratteneva era il ricordo di papà, ma ora che so che non ho neanche più questo andarmene sarebbe solo una liberazione. Spezzerei una catena che da ormai troppi anni mi tiene legata.-
Ed era la verità. Hebe aveva trascorso tutta la sua vita in quella cittadina di Londra, tra la perenne brezza fredda che le colpiva il voto anche d'estate, la gente stretta nei cappotti con in mano sempre delle tazze di caffè fumante, e tutti quegli edifici che sapevano di antico e che la stupivano con i loro particolari ogni volta che vi posava lo sguardo. Ma era da tempo oramai, che non si sentiva più a casa; che ogni volta che varcava l'uscio della porta sentiva un pugno nel petto e la sensazione che non era destinata a quel posto, e che per quanto potesse essere meraviglioso non la rendeva felice. Le piaceva tutto di Holmes Chapel, con i suoi parchi e i mattoni arancio delle palazzine, le panetterie e i negozianti che conoscevano tutto e tutti di quel piccolo paesino, ma erano quattro anni che si sentiva a disagio tra quelle persone. Quattro anni che i comportamenti un tempo amorevoli e espansivi di quella stessa gente che l'aveva vista crescere, si erano tramutati in diffidenti. Forse perchè sapevano cosa aveva fatto John per vivere, forse avevano intuito qualcosa o semplicemente delle voci erano girate facendole perdere tutte le amicizie che aveva coltivato nel corso della sua infanzia.
Ma ormai non le importava più sapere perchè da un giorno all'altro tutti se n'erano andati, voleva solo andarsene anche lei. Lontano da quel posto, dagli sguardi che le lancivano, dagli scherzi e dagli schernimenti che ogni giorno la investivano in tutta la loro pungente cattiveria, lontana dai ricordi e infine lontana da quello che un tempo credeva fosse tutto ciò di cui aveva bisogno. Mentre ora quello che riteneva fosse necessario si era trasformato semplicemente nello scappare via.

Harry guardava estasiato la figura di Hebe completamente zuppa con impresso sul viso un sorriso che, anche se accennato, era uno dei più grandi che avevano adornato il suo volto in quegli anni e che ora era in grado di riscaldargli appena il cuore. Sapere che il motivo per cui quella fragile ragazza gli sembrava così felice era lui lo rendeva stranamente contento, e non sapeva spiegarselo. Semplicemente vederla con quella tuta troppo grande addosso che si era appesantita ancora di più dopo la pioggia, con i capelli che le volavano attorno mentre girava su sè stessa, con le gote arrossate e gli occhi lucidi e  brillanti, lo faceva sentire come in un limbo: sospeso e con la mente annebbiata, privo di rancori e di tristezza.
Ghignò sommessamente quando Hebe rischiò di scivolare in una delle tante pozzanghere che si erano formate, scuotendo la testa mentre lei  arrossiva e cercava di riprendere l'equilibrio perso. -Sei davvero penosa.- strascicò raggiungendola.
Avanzò verso di lei, le agguantò un gracile braccio e la voltò. Corrugò le sopracciglia quando Hebe lo afferrò per i margini del cappotto, schiudendo la bocca per chiederle cosa stesse facendo.. ma si ritrovò steso a terra, in una pozza di fango e acqua, sporco dalla testa ai piedi, prima di poter anche solo prendere fiato.
-Sarei io quella penosa?- chiese retorica, incrociando le braccia al petto e inarcando le sopracciglia.
Harry gemette disgustato, mentre alzava le mani dal suolo e le scuoteva cecando di ripulirle da fango. Alzò lo sguardo, ed assottigliò gli occhi.
Non riusciva a capacitarsene: davvero quella minuta, timida e insicura ragazzina l'aveva gettato in un sudiciume facendolo imbrattare completamente?
-Corri.- grugnì quindi, mettendosi di nuovo in piedi.
Hebe sgranò gli occhi, ed indietreggiò di qualche passo scuotendo la testa; poi iniziò a correre attorno alla casa ridendo talmente tanto da non riuscire a respirare.
-Te la faccio pagare, Hebe!- urlò Harry, incominciando a rincorrerla con un ghigno malizioso a dipingergli il volto ombroso.
-Sempre se riesci a prendermi!- gridò ridendo lei, mentre lui la raggiungeva senza nessuno sforzo.
Hebe annaspò, merntre girava la testa per riprendere a correre più veloce, sentendo una fitta improvvisa sul punto ancora livido della caviglia, ed emettendo un urlo strozzato vide il terreno umido sempre più vicino al suo viso mentre cadeva di faccia.
Fu improvvisamente riportata verso l'alto, proprio mentre stava per toccare il suolo, e sgranò i grandi occhi cristallini rendendosi conto che erano state le braccia di Harry ad averla presa, e che ora la stavano stringendo.
Lui la girò lentamente, le braccia ancora strette intorno al suo busto e i nasi che ora si sfioravano, fancendole sentire brividi solleticanti percorrere ripetutamente la sua schiena.
-Presa.- sussurrò lui a pochi centimetri dalle labbra piene e tremolanti di Hebe, sentendo un calore mai provato farsi spazio nel suo stomaco.
Lei portò le sue braccia al collo di lui, aggrappandosi quel poco che bastava per evitare di piombare a terra dato il tremolio che si era impadronito delle sue gambe, persa nei suoi occhi spaventosamente scuri. Deglutì impercettibilmente e portò la sua piccola mano contro la fronte del riccio, scostando dei boccoli marroni dai suoi occhi.
Lo sentì irrigidirsi con quell'azione, e respirò pesantemente quando lui aumentò la stretta che la teneva ferma contro il suo torace.
-Non dovresti.- sussurrò roco sommessamente, corrucciandosi.
-Fare cosa?- sibilò flebilmente lei, non riuscendo a distogliere lo sguardo dal suo volto: gli sembrava quasi sofferente, e non riusciva a capire il perchè di quell'apparente dolore agghiacciante.
-Cercare di avvicinarti a me.- biascicò. -Non devi.-
-Perchè?- domandò, sospirando. Lui scosse la testa, e la strinse un'ultima volta a sè prima di allegerire la presa. -Credo sia meglio rientrare.- sussurrò Hebe, alzandosi di scatto e chiudendo gli occhi quando lui aprì i suoi, certa che sarebbe stata tormentata dall'immagine di quel vuoto composto da freddezza e mistero che li colmava in quell'listante.

Harry era sotto la doccia da quasi venti minuti, ed Hebe era rimasta a crogiolarsi sul divano sgranocchiando dei cereali trovati in dispensa come colazione mentre lo aspettava. Non avevano più parlato da quando erano rientrati, e lei era quasi certa che il motivo di tutta quella tensione fosse il fatto che avesse cercato di avvicinarsi a lui, quasi incosciamente, più di quanto avesse fatto in quei due giorni.
Il vibrare incessante del telefono la riscosse dai pensieri, e dopo aver posato la ciotola di cereali sul tavolino di mogano dinanzi al divano si alzò diretta alla cucina.
Mamma, pensò leggendo il numero sullo schermo.
-Sono viva, sta tranquilla.- esclamò sorridendo appena ebbe premuto il pulsante per accettare la chiamata.
-Non tornare a casa, Hebe.- esordì ferma Adrienne, col respiro pesante. Hebe corrugò la fronte e inclinò la testa confusa.
-Che cosa?- chiese.
-Hai sentito benissimo. Non tornare a casa, intesi?- concluse decisa, scossa dagli affanni. -Ti spiegherò tutto più tardi.-
-Mamma mi stai facendo paura.- strascicò Hebe, legandosi i capelli in una coda improvvisata.
-Promettimi che farai tutto quello che Harry ti dirà.-
Sgranò gli occhi.
-Mamma..-
-Promettimelo, Hebe.- la interruppe, prima che potesse finire di dire qualsiasi cosa. -Promettimelo.-
Si portò una mano tra i capelli e respirò affondo: come sapeva di Harry?
Perchè non posso tornare a casa?, pensò.
-Dimmi cosa sta succedendo.- sibilò, prendendo a camminare avanti e indietro.
-Mi mancherai.- singhiozzò Adrienne, cercando di regolarizzare il respiro: l'ultima cosa che voleva era far agitare Hebe più di quanto fosse necessario.
-Che significa?- ansimò. -Mamma che cosa significa?-
La sentì respirare a fondo, e trattenere le lacrime, prima che riprendesse a parlare con la voce rotta dai tremolii. -Harry ti spiegherà ogni cosa.- affermò. -Prima di chiudere voglio che tu mi dica una cosa, Hebe.- continuò, cercando di mostrarsi più ferma di quanto in realtà si sentisse.
Sentì dei passi far scricchiolare il legno scuro delle scale, e la voce di Harry tagliare quel silenzio divenuto troppo pesante.
-Hebe?- chiamò a voce alta, aggirandosi per il salotto.
-Cosa?- sussurrò lei alla madre, restando con gli occhi tremolanti e cristallini velati da una patina di lacrime amare a fissare immobile l'uscio della porta della cucina, non riuscendo neanche ad esalare un respiro.
-Hebe, dove sei?- ripetè severo il riccio, continuando a cercarla. Sorpassò la parete che lo separava dalla ragazza, ancora immobile, ed entrò nella stanza. -Eccoti.-
-Harry.- iniziò Adrienne. -Harry, è una brava persona?- chiese; ed Hebe riuscì a percepire la tensione nella sua voce.
-Con chi stai parlando?- chiese lui, avvicinandosi con la fronte corrugata.
Lo guardò: i capelli ancora umidi, la pelle candida, gli occhi verdi vuoti e le labbra gonfie e rosee. Prese un respiro profondo, cacciando fuori tutta l'aria trattenuta, e rispose.
-Si.- sussurrò. -Lo è.-
-Bene.- sospirò la madre. -Ti voglio bene, piccola mia.- E attaccò.
Il suono ripetitivo che segnava la fine della chiamata notò si plasmava completamente ai battiti incessantemente accellerati del suo cuore. Aveva paura.
-Chi era Hebe?- domandò freddo Harry, allontanandole la mano che stringeva il telefono dall'orecchio e prendendolo dopo che ebbe premuto il tasto di chiusura della telefonata.
-Mamma.- sussurrò Hebe, puntando i grandi occhi grigi nei suoi.
Harry sospirò e chiuse gli occhi. -Starà bene, vedrai.-
-Devo andare a casa, Harry.-
-Ti ho già spiegato che non puoi. Drake è sulle vostre tracce.- dichiarò. -Tua madre è al sicuro, ti do la mia parola.-
Hebe gemette in preda al panico, lo superò e si diresse verso il salotto.
Con la luce del giorno che entrava dalle finestre quella casa le sembrava molto più grande di quanto le era parso la sera prima.
Calda, sicura, accogliente, si disse prendendo la borsa ed il cappotto, peccato che ora mi sembri solo un posto da cui andare via all'istante.
-Stava piangendo, Harry. Io non la lascio da sola.- ribadì, infilando le gracili braccia nelle maniche.
-Tua madre sta partendo.- strascicò Harry, infilandosi anch'egli la giacca. -Va a Glasgow da una vecchia amica dei tuoi genitori. Resterà lì fino a quando non sarà tutto sistemato.-
Prese le chiavi della macchina e si avvicinò ad Hebe lentamente. -Hai detto che ti saresti fidata di me.- sibilò.
Lo guardò, e non riuscì a non arrossire quando notò l'estrema vicinanza dei loro corpi.
-E tu hai detto che non dovevo cercare di avvicinarmi a te.- strascicò, con la gola secca. -Fidarmi sarebbe un controsenso colossale.-
Lui calò il volto fino a quando non fu alla stessa altezza di lei, e ghignò strafottente quando vide le sue gote tingersi maggiormente di rosso.
-Hai detto che vuoi andartene, giusto?- chiese. -Allora andiamocene.-





Angolo autrice:
Scusatemi, scusatemi, scusatemi!
Un ritardo abissale ed imperdonabile, lo so, ma la connessione nel posto in cui sono stata questo fine settimana era a dir poco inesistente.
Vi giuro, sono stanchissima, non riesco neanche a pensare a una frase di senso compito tanto il sonno.
Cercherò di rimediare a questo capitolo disastrso e decisamente troppo corto pubblicando il prima possibile il prossimo capitolo:)!
Ancora un grazie enorme a tutti, per il sostegno e per sopportarmi con tutti i miei ''Angolo autrice'' che non servono a una pippa e per tutto il resto.
Sentite, io ho sonno, quindi scusatemi ma vado a dormire! AHAHAHAH
Un bacione fortissimo,
Abby_xx

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** CAPITOLO VII ***


                                                                                    CAPITOLO VII


L'aria tipicamente uggiosa di novembre era come una patina di triste velluto grigio che avvolgeva tutto in quella piccola cittadina nella quale si erano fermati temporaneamente, dandole l'aria triste e annoiata.
L'interno del bar in cui avevano deciso di entrare era decisamente più striminzito di quanto sembrasse all'esterno, e il numero di persone che vi erano dentro, nonostante si aggirasse solamente intorno alla dozzina, bastava per farlo apparire gremito fino all'orlo.
Dopottutto però non era male, notò: le erano sempre piaciuti i posti rustici e con quella sfacettatura quasi impercettibile di malandata e ostinata bellezza vecchio stile, che gli regalavano un'aria vissuta che la faceva quasi sorridere. Le pareti erano ricoperte per metà da una sorta di velluto un tempo forse rosso, ma che ora, constatò quasi con sconcerto, ricordava più lo scuro colore del sangue rappreso dati gli anni trascorsi, le macchie e l'umidità che l'avevano scurito. La metà inferiore era invece ricoperta da sottili tegole di legno lucido, poste verticalmente e orizzontalmente, che creavano un mosaico dalle tonalità pressochè identiche. I tavoli posizoinati come capitava, le panche e le sedie che in alcuni punti bloccavano il passaggio e la miriade di foto e di quadri appesi alle pareti accanto a vecchie bottiglie di vetro poste su scaffali consumati, davano ad Hebe la sensazione che quello fosse un posto che avrebbero potuto frequentare solo anziani signori intenzionati a passare il tempo in compagnia di vecchie amicizie e di qualche caraffa di birra.
Ma seduta da sola su di uno sgabello di legno malmesso tinteggiato di blu opaco, con i gomiti poggiati sul bancone e tra le mani una tazza di tè verde fumante, non poteva far altro che ingannare la noia farneticando e dedicandosi alla supposizione di quelle che sarebbero potute essere le vite della gente che si trovava a due passi da lei.
Harry era uscito fuori dal locale per fare una telefonata, e da quando aveva attaccato se ne stava con le spalle contro la porta di vetro trasparente a fumare una sigaretta dietro l'altra. L'aveva raggiunto due volte, chiedendogli cosa c'era che non andava, ed entrambe lui le aveva detto di rientrare fulminandola con lo sguardo.
Non lo conosceva, e ne era consapevole, ma aveva intuito che non fosse esattamente ciò che poteva essere definito un ragazzo coerente: alternava momenti di quasi espansività, ad altri di ironia pungente, ad altri ancora di calcolata freddezza che le raggelavano il sangue.
Ebbene, in quell'istante non sapeva affatto come comportarsi o cosa dirgli per cercare di capire cosa fosse successo di tanto scoraggiante da farlo richiudere nel suo guscio di impenetrabile rigidezza. Tutto ciò che le restava da fare era dunque donandolare i piedi avanti e indietro e provare a scaldarsi tenendo fra le gracili mani la terza tazza bollente di un tè che neanche le piaceva.
-Sei da sola?- sentì biascicare improvvisamente, e sussultando per la sorpresa si voltò verso la direzione in cui aveva sentito quel vociare strascicato.
Un uomo che si aggirava attorno alla quarantina d'anni di età la stava guardando con gli occhi lucidi sotto le palpebre pesanti, con un sorriso da ebete a inarcargli la bocca grinzosa e l'alito aspro di tutti i più comuni ubriachi. Aprì le labbra boccheggiando, alla ricerca delle giuste parole da dire per rifiutare le avance di colui che sarebbe potuto essere suo padre, ma un ragazzo alto e riccioluto si insinuò tra di loro prima che potesse anche solo iniziare a parlare.
-No, non lo è.- sibilò sommessamente Harry. -E sono certo che faresti meglio ad andare a casa a farti una doccia fredda, piuttosto che renderti ridicolo qui provandoci con delle minorenni.-
L'uomo sbuffò pesanemente, facendo percepire l'odore amaro del vino ad Hebe nonostante avesse davanti a sè il corpo massiccio di Harry.
-La prossima volta non lasciare per quaranta minuti la tua fidanzata da sola in un bar pieno di ubriachi.- commentò un ragazzo dietro al bancone, pulendo un bicchiere di vetro e guardandoli di sbieco. Hebe arrossì, e si grattò le nocche tossendo imbarazzata. Guardò l'etichetta plastificata attaccata al suo grembiule, e di conseguenza il nome scritto a pennarello su di esso: Ben. Non seppe spiegarsi perchè, ma in un certo senso quel ragazzo aveva proprio la faccia di uno che si chiamava così, e che lavorava in un posto del genere; pensò che altri nomi non gli sarebbero cascati a pennello come quello lì.
-Non mi sembra di aver chiesto la tua opinione.- rise Harry, prendendo la ragazza per un polso e facendola scendere dallo sgabello. -Muoviti, Hebe.- le disse poi duro, quando lei portò alle labbra la tazza contenente il liquido per finirlo.
-E a me non sembra quello il modo di rivolgerti ad una ragazza.- dichiarò il barista, alzando di poco la voce e gettando il panno nel lavabo.
Harry socchiuse gli occhi, e si voltò truce verso di lui. -Se vuoi che ti prenda a pugni dillo senza tutti questi giri di parole, perchè stai iniziando davvero a stancarmi.- sussurrò inflessibile, chinandosi leggermente in avanti.
-Basta, Harry.- intervenne con voce flebile Hebe, tirando il riccio per la manica del cappotto. -Andiamo via.-
-Harry?- rise Ben, gettando la testa all'indietro. -Che nome da checca.-
-Io ti ammazzo.- ringhiò allora lui, scansando Hebe con un braccio e lanciandosi verso il ragazzo, che indietreggiò alzando le mani.
-Harry!- gridò Hebe, afferrandolo per le spalle prima che potesse gettarsi su Ben.
Il riccio si fermò, e respirò pesantemente prima di passarsi una mano sulla maglietta e rivolgersi a quel ragazzo mai visto prima. -Farai meglio a pregare tutte le sere a partire da stanotte.- iniziò, voltandosi e dirigendosi verso la porta. -Perchè se ti incontro un'altra volta ti faccio a pezzi.-
-E tu farai meglio a tenerti stretta la ragazza.- ghignò Ben, ammiccandole prima che si voltasse anche lei per raggiungere il riccio. -Perchè se la becco di nuovo me la porto a letto.-
Hebe vide Harry irrigidirsi istantaneamente, e prima che potesse girarsi gli posizionò le piccole mani sul petto, facendolo fermare. -Sta solo cercando di stuzzicarti, non lo capisci?- sibilò scuotendo la testa. -E' solo uno stupido che cerca di attaccare bottone.- sorrise, spingendolo fuori dal locale.
-Nessuno può permettersi di pensare a te in quel modo senza che io lo faccia fuori.- ringhiò roco,  cercando di regolarizzare il respiro e di frenare l'adrenalina in circolo nel sangue. Hebe si sentì avvampare, ed abbassò lo sguardo sulle proprie mani che freneticamente si stavano grattando a vicenda.
Harry posizionò una delle sue, così in grandi in confronto a quelle della fragile ragazzina che aveva davanti, e si incupì ancora di più. -Nessuno.- ripetè.
Hebe annuì, e gli guardò le labbra secche mentre con la punta della lingua le inumidiva rendendole nuovamente rosee e lucide.
Nessuno, pensò, nessuno.

Erano in macchina da una ventina di minuti, stringendosi nei cappotti dato il freddo improvviso.
Tutto nei paraggi sembrava immobile, nonostate il vento che si infrangeva con la forza di una frusta invisibile contro ogni singola cosa.
Hebe aveva poggiato la fronte contro il finestrino, come al solito, e si stava godendo quegli attimi di silenzio lasciandosi cullare dal leggero tremore che il vetro infrangibile dello sportello esercitava anche sul suo corpo. Legò svogliatamente i lunghi capelli tanto belli quanto indomabili in una coda improvvisata, potendo così notare dallo specchietto retrovisore, una volta alzato lo sguardo, che la stessa macchina che si trovava dietro di loro dieci minuti prima, era ancora alle loro spalle nonostante ora avessero preso una strada secondaria e sterrata nel bel mezzo del nulla. Aveva la malsana certezza che quella non fosse una casualità, ma piuttosto un inseguimento.
-Harry?- sussurrò quindi confusa, sperando di ottenere l'attenzione del ragazzo che era concentrato nella guida.
Ottenne in risposta un mugolio, che la spronò a continuare.
-C'è una macchina che ci sta seguendo da venticinque minuti. Non trovi sia strano?- chiese voltandosi con la fronte adornata da una sottile ruga di preoccupazione.
-Che diavolo.. ?- sibilò lui, puntando i grandi occhi nella direzione nella quale erano rivolti quelli di Hebe. Un brivido solitario le percorse la nuca quando lo vide accigliarsi.
-Merda.- strascicò lui.
-Chi è, Harry?- domandò con voce rotta.
-Lavora per Drake. Come ha fatto a rintracciarci?- sbuffò, massaggiandosi una tempia. -Allacciati la cintura.-
-È allaccia..- Non riuscì però a terminare la frase, poichè Harry aveva già bruscamente manovrato in modo tale che ora la macchina si trovasse dinanzi a loro e non più dietro.
-Che vuoi fare?- chiese, annaspando in preda al panico. Harry sorrise distrattamente, e -Sta tranqiulla.- biascicò.
-Ti ucciderà.- si agitò Hebe, alzando le mani al cielo, senza rendersi conto di non star parlarndo con nessuno, dato che Harry era appena sceso e aveva sbattuto lo sportello.
-Qualunque cosa succeda tu rimani qui, sono stato chiaro Hebe? Resta qui e non scendere dall'auto.- sibilò lui, guardandola negli occhi prima di abbassarsi e prendere da sotto al sedile una pistola.
Hebe lo guardò spiazzata e lui gli fece segno di restare seduta, dicendole di non preoccuparsi.
Davanti a loro si trovava l'uomo che era in possesso del veicolo e si stava avvicinando ad Harry con fare minaccioso.
Il giovane, di canto suo, aveva lo stesso sguardo di chi ti sta per fare a brandelli e un sorrisetto sadico stampato sul volto.
Si avvicinarono e iniziarono a parlare, impedendo ad Hebe di ascoltare la conversazione dato che si trovava all'interno dell'abitacolo.
Fu quando l'uomo cercò di colpire Harry, il quale si scansò in tempo, che la ragazza sussultò iniziando a tremare, non riuscendo a gridare dato il groppo in gola che le si era creato.
Iniziarono a colpirsi, e a sferrare calci e pugni fino a quando Harry non cadde all'indietro dopo che era stato colpito alla testa.
L'uomo approfittando del fatto che il ragazzo fosse inginocchiato al suolo estrasse dai vecchie jeans una pistola.. e proprio mentre stava per premere il grilletto, venne colpito da un altro proiettile alla mano.
Urlando dal dolore lasciò cadere l'arma al suolo e si voltò per cercare di capire chi avesse sparato, potendo così vedere Hebe con le mani tremanti e la bocca spalancata impugnare, per la prima volta in vita sua, una pistola.
Grugnì rabbioso, e si avvicinò a passi veloci alla ragazza che ora aveva gli occhi sgranati. -Sporca puttana.- ringhiò.
La squadrò tenendosi la mano insanguinata con l'altra, provocando alla gracile ragazza un conato di vomito che trattenne con tutte le sue forze. Stava per gettarsi su di lei, ma venne preso da dietro e colpito alla nuca con l'impugnatura dell'arma da Harry, prima di poter anche solo porsi in avanti per afferrarla.
Cadde a terra inerme, e il ragazzo si avvicinò fremente a Hebe.
-Ti avevo detto che dovevi restare in macchina.- sospirò lui, prendendole un polso. -Dove l'hai trovata?- chiese.
Hebe respirò pesantemente, non riuscendo a distogliere lo sguardo cristallino dal volto abbandonato a sè stesso dell'uomo che aveva provato ad ucciderli.
Harry le sorrise amaro, prima di toglierle dalle mani quell'oggetto che mai più avrebbe desiderato vedere.
-Non ne posso più.- sibilò lei, stringendosi nelle spalle spigolose. -Voglio che le cose tornino come prima.- aggiunse, sentendo la propria voce distante; come se a pronunciare quelle parole fosse stato qualcun altro al di fuori di lei. E mai avrebbe pensato di dirlo.
-Niente sarà più come prima, Hebe.- affermò Harry, guardandola cupo. -Niente lo è mai stato.-




Angolo autrice:
Salve genteee:)!
Ritardo terribile, come da copione, e capitolo penoso, tanto per cambiare.. però va beeeeeene AHAHAHAHAH:)
Ho deciso di dividere il capitolo in due parti, perchè altrimenti sarebbe stato troppo lungo.. Okay, lo so che in questa parte del capitolo non succede praticamente niente, però pubblicare tre chilometri di scritto sarebbe stato noiosissimo per voi; in pratica in questa parte Hebe ed Harry vanno in una stupida cittadina nel bel mezzo nel niente, Hebe beve tre tazze di uno stupido tè che neanche le piace mentre Harry si complessa dopo una stupida telefonata della quale non si sa praticamente un tubo, uno stupido ubricone pluri-quarantenne ci prova con Hebe ed un altrettanto stupido barista sbuca fuori dal nulla con la malsana voglia di farsi mettere le mani addosso, infine, uno stupido tizio che lavora per Drake riesce a inseguirli e cerca di ucciderli entrambi.. E' tutto molto stupido, ma anche questa è okay! AHAHAHAH
Spero di non avervi deluse con questa schifezza, ma sto cercando di riscrivere tutto dall'inizio senza perdere tempo perchè altrimenti i ritardi delle pubblicazioni aumenterebbero a dismisura..
Vi ringrazio ancora per tutto, per chi ha recensito dandomi un opinione e un grazie anche alle lettrici silenziose che contribuiscono a darmi la carica per continuare a scrivere..
V voglio bene, davvero, nonostante non vi conosca!
Vi auguro buona notte e una bella settimana,
Un bacio azzeccuuuuuso a tutti! AHAHAHAH
Abby_xx

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** CAPITOLO VIII ***


                                                                                 CAPITOLO VIII



Quattro ore.
Quattro ore, ventisette minuti e trentatré secondi.
Trentaquattro, quando la vide di sottecchi spostare i lunghi capelli sulla spalla sinistra, e ben trentacinque nell'esatto istante in cui nuovamente si voltò verso la strada.
Li stava contando; a partire dal momento in cui erano saliti in auto, lei si era seduta sul sedile rivestito in pelle nera, e lui aveva acceso il motore facendolo ruggire come un drago nell'aggiacciante silenzio del suo castello. Contare, aveva constatato, era l'unico modo per non pensare.
Erano in macchina da tutto quel tempo e nonostante ciò nessun suono, che fosse stato diverso da lunghi sospiri e dallo sfregolio delle unghie di Hebe sulle proprie nocche, oramai arrossate e doloranti, era stato emesso in quell'auto.
Lui guidava in silenzio; aveva fumato tre sigarette, aggrottato le sopracciglia la maggior parte del tempo e tacitamente azzittito la ragazza al suo fianco con occhiate eloquenti quando capiva che stava per iniziare a instaurare un discorso.
Non aveva voglia di parlare, non in quel momento, e non con lei.

Lo stava guardando.
La sua mascella, la forma delle mani, la curva del collo, i tendini delle braccia che si intravedevano da sotto i tatuaggi quando le muoveva, gli occhi che apparivano verdi ma che in realtà sapeva erano più grigi dei suoi. Ogni tanto si voltava verso di lui, cercando di passare inosservata quel tanto che bastava per non farla apparire curiosa più del dovuto, e lo guardava cercando di imprimere quanto più poteva tutti i particolari che riusciva a scorgere del suo aspetto.
Aveva notato, durante tutto quel tempo passato a poco meno di mezzo metro da lui, cose che in quei giorni non aveva neppure scorso per sbaglio: sul sopracciglio sinistro, ad esempio, aveva una sottile cicatrice appena visibile, che tagliava la sua pelle in verticale, e che alla luce del mattino le pareva quasi brillare di riflessi argentei quando i raggi del sole la colpivano; la parte superiore delle nocche, invece, era leggermente colorata di viola, come se avesse ripetutamente colpito qualcosa. O qualcuno, pensò senza neanche accorgersene, provando nell'istante in cui si rese conto della naturalezza con cui l'aveva supposto un senso di nausea.
Fino a due giorni prima non avrebbe neanche lontanamente pensato ad una cosa simile: avrebbe magari ipotizzato una scivolata dalle scale, o un allenamento di pugilato che aveva lasciato le tracce della difficoltà con cui era stato affrontato. Ma mai, ne era convinta, quello che aveva immaginato in quel momento, senza tralaltro sorprendersi.
Chiuse gli occhi per un istante, e immaginò cosa avrebbe fatto quel giorno a quell'ora se non avesse mai incontrato Harry. Sarebbe stata a casa con Church, magari, stesa sul divano con un bel romanzo tra le mani e il suo gatto appisolato sulle gambe, a bere thè caldo o forse una cioccolata. Poi avrebbe chiamato sua madre, e le avrebbe chiesto come era andato il viaggio.
Mamma, sobbalzò riaprendo gli occhi. Aveva la necessità di sentire la sua voce, e di avere la certezza che stava davvero bene come le aveva detto.
-Devo chiamare mia madre.- disse quindi, sporgendosi verso i sedili posteriori per prendere la tracolla contenente il telefonino. Vide Harry scuotere la testa di poco, come se non sapesse dove fosse, segno che era immerso nei pensieri.
Poggiò la borsa sulle ginocchia, e scavò affondo cercando il cellulare.
Penne, chiavi, due dollari, libri, pensò muovendo freneticamente le mani all'interno, dov'è finito?
-Non è lì.- strascicò Harry all'improvviso, scostando i ricci dalla fronte meccanicamente.
Hebe alzò o sguardo verso di lui e corrugò le sopracciglia confusa, togliendo dalla vista delle ciocche di capelli. -Che vuol dire non è lì?- chiese flebilmente.
-L'ho lasciato per strada.- biascicò facendo spallucce.
Strabuzzò gli occhi, e sentì lo stomaco contorcersi e chiudersi come un pugno. Annaspò balbettando, stringendo le maniche del magioncino nei pugni quando Harry si voltò verso di lei e la guardò confuso.
-Non capisco questa tua reazione.- iniziò. -Oltre a un paio di foto di un gatto, e alcuni messaggi del tipo "Fai la spesa tu, oggi" o "Ti ho lasciato in frigo dell'insalata" da tua madre, non c'era granchè.- aggiunse. -La tua rubrica era praticamente vuota.-
-Hai frugato nella mia borsa e nel mio cellulare.- balbettò stupita. -E l'hai lasciato per strada.- continuò ansimando.
-Vuoi forse che ci rintraccino?- domandò scettico. -L'ho fatto per tenerti al sicuro. Così come terrò al sicuro Adrienne impedendoti di contattarla, almeno fino a quando le cose non si saranno sistemate.-
Hebe socchiuse leggermente le labbra, e provò a frenare l'istinto di mettersi a urlare.
-Stai dicendo che non potrò parlare più con mia madre?- chiese lentamente, con le gambe molli e pesanti come quando guardava il film Scream.
-Non finchè non saremo certi che non siete in pericolo.- sottolineò guardandola severo. -Lo sto facendo per te, Hebe.- aggiunse sospirado pesantemente.
-Era mia madre.- sibilò allora, capendo e sgranando gli occhi. -Era lei, vero?-
-Di cosa stai parlando?-
-Prima, fuori al locale, stavi parlando con qualcuno al telefono.- cominciò. -Era lei, non è così?-  continuò poggiando una mano tremante sul petto, all'altezza del cuore.
Harry sospirò, e si voltò verso la strada. Annuì impercettibilmente, e sorrise amaro. -Ha avuto la tua stessa reazione.- rise leggermente, scuotendo la testa.
Hebe ricacciò indietro il groppo che le si era formato alla gola, e buttò fuori tutta l'aria trattenuta. Chiuse gli occhi per qualche secondo, poi li riaprì e si rimise dritta. -D'accordo.- sussurrò. -Mi sta bene.-

La macchina si fermò quasi senza che Hebe se ne accorgesse, accostando di fianco ad un edificio che appariva come un vecchio dormitorio universitario. Nel bel mezzo del nulla, circondata solamente da alti alberi e dalla nebbia, sotto l'incessante pioggia, si innalzava la struttura dove avrebbe ritrovato suo padre. Un senso di vertigini le fece bloccare il respiro nel petto e tremare le gambe, come se si trovasse su un precipizio e stesse per cadere nell'oblio.
-Siamo arrivati, Hebe.- sibilò Harry roco, poggiando una mano sulla sua spalla.
Girò la testa verso di lui, e annuì prendendo un respiro.
Scese dall'auto e aspettò che Harry aprisse l'ombrello, posiziandosi poi al disotto di esso.
La pioggia scendeva fitta, creando rigagnoli e pozzanghere ai lati delle scale che portavano all'ingresso, che esplodevano schizzando fango ogni volta che l'acqua piombava su di loro.
-Lui abita qui?- chiese, cercando di mostrarsi più forte di quanto fosse necessario.
-Qui abitiamo tutti.- dichiarò Harry, spingendola leggermente in avanti per incitarla a camminare.
-Tutti chi?- chiese sgranando gli occhi, sentendo il calore affluire alle gote quando lui la strinse al suo petto per non farla bagnare.
-Tutti quelli che lavorano per tuo padre, compreso me.- rispose iniziando a salire i gradini.
Era grande, notò Hebe, e sembrava piuttosto antico. Era strano che nessuno avesse mai notato la presenza di quell'istituto dopo che era stato abbandonato. Le ricordava gli edifici gotici che vedeva sui libri di storia dell'arte: la forma delle finestre, il tipo di muratura, i colori e le forme delle pietre che rivestivano le sporgenze. Per essere vecchio, era messo piuttosto bene, constatò.
-Sei pronta?- chiese Harry, posizionando una mano sul pomello della porta. La guardò, e lei gonfiò il petto cercando di inspirare l'aria che sembrava non volesse entrare nei polmoni. Sentiva la testa girare e le tempie pulsare ritmicamente come se si trovasse sul fondo dell'oceano e delle forze invisibili la tenessero ferma per impedirle di tornare in superfice.
No, pensò, sono più che lontana dall'essere pronta.
-Si.- mentì però, posizionando lo sguardo sulla mano del riccio che circondava la maniglia.
La vide abbassarsi e aprire il portone come a rallentatore, come se la sua mente le stesse dando il tempo necessario per capire davvero ciò che stava per accadere.
Harry aprì la porta, e si spostò quel che bastava per permettere ad Hebe di vedere tutto.
Sentì il fiato mancargli, mentre faceva un passo avanti ed entrava in quell'enorme stanza dalle luci soffuse.
Vi erano almeno una trentina di persone in quello che anni prima sarebbe dovuto essere l'atrio del dormitorio, e con enorme sorpresa notò che la maggioranza era composta da ragazzi più giovani di quanto immaginasse.
-Mio Dio.-  strascicò a voce bassa, spostando lo sguardo in ogni dove. -Sono così giovani.- sussurrò, stringendo inconsciamente la mano su un suo braccio.
Le vertigini che già scuotevano il suo fragile corpo aumentarono, quando ipotizzò cosa mai potessero fare quei ragazzi per vivere in quel posto e per lavorare per suo padre.
Lui girò il volto verso di lei, e alzò di poco l'angolo della bocca. -Sono tutte reclute che tuo padre ha tolto dalla strada.- le sussurrò ad un orecchio, chinandosi fino a quando le sue labbra non sfiorarono i lobi di Hebe e mimando le virgolette quando pronunciò l'aggettivo che aveva usato per descrivere quei giovani.
Sarebbe arrossita, in altre circostanze, ma in quel momento stava ancora riflettendo su ciò che poco prima il riccio aveva affermato, e arrossire era l'ultimo dei suoi pensieri.

Il corridoio nel quale in quel momento si trovavano era spaventosamente silenzioso.
All'ombra della sua fine, in una soffitta all'ultimo piano di quell'istituto, tra il rumore della pioggia contro i vetri e il frusciare del vento, vide una porta. Solitaria, al centro di una stretta parete, con le luci delle fiammelle delle candele che oscillavano rendendere il tutto ancora più terrificante.
Mentre lo percorreva, Hebe sapeva che stava per succedere qualcosa. Qualcosa che l'avrebbe sconvolta, ma da cui avrebbe avuto tutte le risposte che le servivano.
In quell'istante, come per magia, le vertigini sparirono. Sparì anche il rumore tutt'intorno, la sensazione di nausea che la tormentava da quella mattina e le luci delle candele le parvero accendersi di una luce più luminosa. Riusciva a percepire solo il rumore del suo respiro e il battito costante del suo cuore, come se fosse contro un microfono che ne ampliava il suono, e il tempo cominciò a passare progressivamente in maniera sempre più lenta.
Era come se fosse all'interno di un film, in uno di quei momenti in cui la protagonista sta per affrontare una situazione carica di tensione, e lei fosse solo una spettatrice che guardava la sua vita dall'esterno.
Quando Harry però la sorpassò sfiorandole la spalla e aprì la porta, tutto tornò come prima, e la testa riprese a vorticarle.
Entrò in quella stanza, seguita dal ragazzo che aveva sconvolto la sua esistenza, e socchiuse gli occhi cercando di mettere a fuoco qualcosa nel buio che avvolgeva tutto.
Nell'esatto momento in cui Harry la chiuse, una figura nella penombra si girò di scatto.
-Chi c'è?- chiese questa roco, sciogliendo le mani intrecciate dietro la schiena.
Hebe ansimò una sola volta, poi trattenne il fiato e sentì le lacrime bruciarle gli occhi chiari.
-Sai, è alquanto inquietante, e soprattutto strano, passare i pomeriggi nel buio di una stanza a guardare il nulla dalla finestra.- commentò improvvisamente Harry, con una nota di sarcasmo a colorargli la voce rauca, avanzando di poco. -Ma se a te diverte, fai pure.- aggiunse congiungendo le mani davanti a se.
-Ho imparato a guardare oltre ciò che chiunque vedrebbe, col passare del tempo.- dichiarò lui. -Su di un ramo, sull'albero dinanzi la mia finestra, c'è un nido di passeri. Lo guardo sempre.- sorrise. -La madre ogni mattina lascia soli i suoi piccoli, per poi ritornare con tutto ciò che serve per sfamarli. Si prende cura di loro e li coccola come un brava mamma farebbe. Ma oggi li ha spinti giù dal nido, e loro sono volati via lasciando lei sola. Ma non è triste. Cinguetta da quando sono andati via, perchè nessun passerotto è morto, e sa che ora sono liberi e possono finalmente vivere.-  
Il silenzio che seguitò sarebbe stato difficile da sopportare per chiunque avesse sentito il tono di voce che suo padre aveva usato per descrivere quella scena.
Hebe sentì Harry sorridere nel buio della stanza.
John si schiarì la voce. -Chi hai lì con te, figliolo?- chiese, accorgendosi solo in quell'istante della presenza della giovane ragazza. Accese la luce, e sgranò gli occhi e socchiuse le labbra quando si accorse di chi si trattava.
Le mani di Hebe tremarono: era proprio lì, suo padre. Si trovava a pochi metri da lei dopo quattro anni.
Sembrava più anziano di quanto in realtà fosse: i capelli rigati da striature grigie, le palpebre appesantite e rughe che non ricordava di aver mai visto prima caratterizzavano ora il suo volto stanco. Sentiva nel profondo che non dormiva da tanto, ma non seppe spiegarsi perchè.
Aveva desiderato quel momento da quando se n'era andato, sognando di poterlo stringere e di potergli sussurrare un'ultima volta all'orecchio quanto gli volesse bene come quando era bambina.
Ma adesso si sentiva come se il suo corpo fosse divenuto una statua di marmo.
Guardò suo padre avanzare velocemente verso di lei, e fermarsi col respiro pesante quando le fu vicino. Una lacrima gli rigò il volto, ma non si curò di quel dettaglio, continuando ad osservarla.
-Papà.- sussurrò, sentendo la voce distante.
John sussultò e la tirò verso di sé stringendola contro il suo petto. Iniziò a singhiozzare e a sussurrare quanto gli fosse mancata; ma lei rimase ferma. Non si mosse, neppure quando sentì le lacrime iniziare a bagnarle le guance pallide.
-Non sai quando ho desiderato di poterti riabbracciare in questi anni.- sussurrò. -Sei cresciuta così tanto, bambina mia.- aggiunse, affondando la testa tra i suoi capelli e sfregando le mani sulla sua schiena.
Hebe lo allontanò spingendo i palmi delle mani contro il suo torace, e chiuse gli occhi quando vide la sua espressione angosciata.
-Non sono la tua bambina.- strascicò flebile. -Non più.- aggiunse scuotendo leggermente la testa, ed indietreggiò fino a quando la sua schiena non urtò contro il petto di Harry, il quale le strinse debolmente un fianco.
-Cosa stai dicendo, scricciolo?- chiese, sorridendo tristemente. -Cosa..-
-Non chiamarmi scricciolo.- lo interruppe lei, stringendo le mani in due pugni tremanti. -Non ne hai più il diritto da quando hai abbandonato me e la mamma. Non ti sei minimamente preoccupato di come ci saremmo sentite, di come io mi sarei sentita quando mi avrebbero detto che eri morto. Mi hai ricoperto di bugie per tutto il tempo. Ho pianto tutte le notti da quando te ne sei andato.- Un singhiozzo squarciò l'aria, facendo sussultare John. -E il fatto che mi fa arrabbiare ancora di più, è che per quanto io provi ad odiarti non ci riesco.- continuò, la voce rotta che non riusciva a far uscire ferma. -Io non ci riesco proprio.-
John le corse incontro e avvolse il suo fragile corpicino tra le sue braccia, sentendo le sue lacrime bagnarle la camicia. -Non piangere, Hebe. Per favore non farlo.- le sussurrò. -Non puoi neanche immaginare quanto io mi senta in colpa, ma ho fatto tutto questo per il bene delle persone che amavo. Ho fatto tutto questo per te e la mamma, scricciolo.- sospirò. -Perdonami. Perdonami, amore mio.- pianse, stringendola più forte che potette, con la paura di poterla perderla ancora.
Hebe aspirò avidamente l'odore di menta che emanava, sorridendo quando si rese conto che nonstante il passare del tempo, quel particolare non era mai cambiato.
-Ti voglio bene, piccola mia.- sorrise, baciandole la nuca. Hebe alzò il volto verso di lui, e quando vide il suo riflesso negli occhi del padre, capì quanto fosse impossibile provare a fingere che non gli importava nulla. Annuì, e si lasciò stringere ancora.
-Non vorrei distruggere questo momento di dovuta rinconcigliazione..- iniziò Harry, con voce soffocata.
-L'hai appena fatto, figliolo.- lo interruppe sospirando John, lasciando la figlia dall'abbraccio in cui l'aveva rinchiusa.
-..ma volevo sapere dove esattamente dovrebbe passare la notte Hebe.- continuò il riccio, ignorando volutamente il commento dell'uomo.
-Oh, giusto, certo.- si riscosse. -Naturalmente con te.-




Angolo autrice:
Okay, ragazze, sto facendo progressi. Questa volta niente ritardi esagerati, facciamo festaaaaaa ooohooh.. meglio di no.
Coooomunque, lo so che pubblicare capitoli ad agosto, con nessuno collegato che li possa leggere, è un autentico suicidio, però fa niente.. per quelle poche anime pie che li leggono anche con questo caldo, mi sembrava giusto continuare a pubblicare.
Tornando a noi, questa volta il capitolo è un po' più lungo degli altri quindi spero non vi siate annoiate leggendolo AHAHAHAHAHAH
In poche parole entra in scena il padre della nostra Hebe, che, dopo un tragico momento di leggittima tensione, riesce finalmente ad abbracciare sua figlia. Adesso, spero vivamente che mi facciate sapere cosa ne pensate e che non tutte le recensioni siano roba del tipo "E' oscena" o "Che vai a scrivere?" AHAHAHAH
Vi abbraccio tutte\i, buona settimana e buona estate!
Abby_xx

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** CAPITOLO IX ***


                                                                      CAPITOLO IX

Harry irrigidì le spalle.
Una sensazione di sgomento attraversò tutto il suo corpo: ma fu questione di un attimo.
La tensione che aveva sentito pungere come uno spillo persino il sangue nelle vene scomparve pochi istanti dopo che John ebbe terminato la frase.
Non si capacitava di quella reazione, e neanche credeva di voler davvero venire a conoscenza del motivo scatenante. Aveva avuto tante ragazze nella sua camera, talmente tante che nemmeno riusciva a ricordare quante, eppure mai aveva provato quella sensazione, che si avvicinava quasi al nervosismo, alla notizia di dover passare la notte con una di queste. 
Guardò Hebe, e vide che anche lei aveva la sua stessa medesima espressione, con la differenza che lo sconcerto sembrava non voler liberare il suo volto pallido.
La osservò più attentamente, al disotto delle lunghe ciglia scure, e per quanto si sforzò non riuscì a ricordare qualcuna con una bellezza comparabile anche solo lontanamente a quella della ragazza che aveva davanti.
La sua non era per nulla come le altre: aveva conosciuto donne suadenti, tentatrici, attraenti in una maniera tale da non poter dire no a nessuna richiesta, per quanto fatale questa potesse essere. Ma mai, mai, si era imbattuto in un fascino simile: era come un aura dorata che le splendeva attorno in tanti luminosi luccichii facendola ardere di un'innocenza e di una delicatezza in grado di fargli seccare la gola. 
Le sue movenze, il suo profilo e il modo in cui si poneva, il sorriso appena accennato e la luce che aveva negli occhi costantemente, facendogli credere che la brillantezza del sole e delle stelle si fosse fusa al loro interno. Era dotata dell'ingenuità e dell'inconsapevolezza del pericolo di una bambina che sta scoprendo il mondo da sola; forse era per quello, suppose, che lo incuriosiva così tanto.
Ad un tratto incontrò il grigio degli occhi di Hebe, e si rese conto che anche lei lo stava osservando da qualche secondo, con la bocca spalancata.
Spostò quindi lo sguardo altrove, cercando di concentrarsi su qualcosa che non fosse la perfetta ombreggiatura che la penombra regalava al suo viso: non aveva mai prestato tanta attenzione al volto di una donna, come stava facendo in quel momento con Hebe.. E questo lo spaventava da morire.
Si voltò verso la finestra, con le mani nelle tasche dei pantaloni, e il suo viso si contrasse in una smorfia.
Il tintinnare della pioggia sui vetri era fastidiosamente rilassante.
Era un paradosso, un controsenso che Harry non aveva mai capito: il rumore di tutta quella miriade di gocce d'acqua che si disintegravano schiantandosi, creando quel rumore tanto simile al ticchettare di un orologio accelerato, lo rilassava come pochi suoni sapevano fare; d'altronde, però, gli recava anche un enorme fastidio. 
Com'era possibile se l'era sempre domandato, e la risposta ancora gli veniva meno.
Ghignò sommessamente, quando voltandosi nuovamente notò che il rossore delle guance di Hebe era divenuto ancora più evidente, dipingendole il viso diafano di una sfumatura rosea che la faceva apparire più giovane di quanto già non fosse.
Dire che le parole di John l'avevano visibilmente sorpresa sarebbe stato un eufemismo; sembrava più che altro scombussolata, come se si fosse appena ridestata da un sonno durato decenni.
-Non hai paura che io possa portarmi a letto tua figlia?- domandò improvvisamente, dopo secondi di silenzio, portandosi l'indice della mano contro il mento, ed iniziando a tamburellare contro esso.
Alzò le spalle e corrugò le sopracciglia, quando vide i loro occhi strabuzzati. 
-Avanti.- sorrise. -Non puoi negare che io sia attraente.- aggiunse, rivolgendosi a John. -Potrei far esplodere questo istituto di una calorosa passione, se volessi.- continuò, socchiudendo gli occhi scuri e guardando entrambi da sotto le lunghe ciglia.
-Non ho dubbi.- dichiarò quest'ultimo. -E in tutta sincerità penso che un po' di passione non farebbe male a nessuno, in questo vecchio posto.- Poggiò una mano sulla spalla di Harry, e inchiodò i loro occhi l'un l'altro. -Ma tocca mia figlia e ti taglio gli organi genitali.- 
Hebe avvampò, e si coprì il volto con una mano. 
Harry alzò un angolo della bocca, e diede una pacca sulla mano del vecchio. -Concetto più esplicativo non credo potessi esprimerlo.- commentò guardandolo.
-Sono felice che tu l'abbia afferrato, davvero.-
-Una domanda l'avrei comunque, se permetti.- sussurrò roco il riccio, rivolgendosi all'uomo ma guardando la ragazza davanti a sé. -Con tutte le camere a disposizione, perché proprio nella mia?- 
-Avrò sempre la necessità che stia vicino a te, figliolo. Solo perché ora è qui, non significa che dobbiamo smettere di proteggerla.- 
Harry vide Hebe gonfiare il petto, e fu quasi completamente certo che l'aria che aveva inspirato poi non l'avesse rilasciata. Era una cosa che faceva spesso, aveva notato: inspirava più ossigeno che poteva, e liberava i polmoni solo quando non riusciva più a trattenerlo. 
Come se volesse accertarsi di essere viva, aveva pensato, di essere ancora capace di respirare.
-Ora andate a farvi una doccia e poi a dormire. Domani presenterò delle persone ad Hebe, e ho bisogno che siate riposati.- sospirò John, distogliendolo dai pensieri. Baciò affettuosamente la fronte della figlia, e posò il palmo della mano sulla schiena del ragazzo. -Buonanotte.-
-Si, certo, buonanotte.- sussurrò distrattamente, mentre riapriva la porta, e la guardava attraversare impacciata lo stretto corridoio.
Solo in quell'istante si rese conto di un dettaglio, stranamente passatogli inosservato: aveva smesso di piovere.

-La mia adorata dimora.- strascicò, spegnendo la sigaretta che aveva accesso poco prima, ora finita, nel posacenere accanto al muro.
Si scostò dalla porta quel tanto necessario che bastava per farla entrare nella camera che un tempo ospitava qualche sconosciuto studente universitario, guardandole attentamente il volto.
Hebe si guardò intorno, un senso di disagio a chiuderle la bocca dello stomaco.
Era grande, i muri spogli e il minimo indispensabile posto con accuratezza e discrezione nei punti giusti: pavimento ricoperto da parquet e pareti bianche. 
Avanzò lentamente, sentendo lo scricchiolio del legno al disotto delle scarpe, e ispezionò le poche cose all'interno di quella camera.
Una Tv, piazzata difronte ad un divano marroncino; una piccola cucina; una finestra posta accanto al frigo, e un'altra di fronte alla porta d'entrata, alla destra della poltrona di fianco al divano, la quale lasciava intravedere la mezzaluna che quella sera si sarebbe esibita nel cielo notturno. 
Proseguì, e scorse una porta di fianco al televisore, un corridoio alla sua sinistra, e altre due porte alla fine di esso.
-Allora?- chiese lui, raggiungendola silenziosamente.
Hebe trasalì, percependo il calore emanato dal suo corpo e il suo respiro sulla nuca, e i peli del collo le si rizzarono. Sentì un'ondata di calore assalirle il volto, e di conseguenza lo abbassò per impedirgli di notarlo. 
-È... Ordinata.- sussurrò, toccando distrattamente il tavolino di legno ai piedi del divano.
Sentiva il sorriso intimidatorio che gli era spuntato sul viso, anche se non riusciva veramente a vederlo, come se una parte di lei fosse collegata a lui.
Era come se riuscisse a percepire le labbra di Harry che si distendevano, alzando un angolo più di un'altro e facendo intravedere i denti perfettamente dritti.
-Il bagno è di là.- le comunicò Harry, poggiando una mano alla base della sua schiena.
Spalancò gli occhi, e sentì le ginocchia tremarle nell'esatto momento in cui le sue lunghe dita si inserirono nel colletto della sua giacca, sfiorandole delicatamente il collo, discendendo poi lentamente fino alla zip chiusa sul davanti.
La voltò verso di sé con una velocità tale da non farle rendere neanche conto di quanto stesse succedendo, facendole perdere l'equilibrio e inciampare sui suoi stessi piedi.
Alzò il viso, cercando di riacquistare stabilità, e trovò quello di lui a un soffio dal suo.
Riusciva a sentire i suoi respiri quasi fossero i propri. 
I nasi che si sfioravano, i petti che si toccavano. Erano talmente vicini che riusciva a sentire la collana che lui portava al disotto della maglietta pungerle lo sterno.
Vide i suoi occhi incupirsi, divenendo un tunnel di oscuri segreti trasudanti atroci verità. La pelle le si accapponò, facendole riprendere coscienza della propria mente e del proprio corpo.
-Che fai?- sbottò flebilmente.
Posò le piccole mani sui suoi polsi, e li allontanò bruscamente dal suo petto.
Lui la guardò con uno strano misto di confusione e scetticismo, mentre gli occhi vuoti divenivano nuovamente chiari.
Inarcò le sopracciglia, e espirò impercettibilmente.
-Volevo solo sfilarti la giacca.- dichiarò corrucciato, indicando con una mano il suo giubbotto. -Sai, la galanteria non è del tutto morta.- 
Hebe aprì le labbra rosee, boccheggiando in cerca di una qualche, anche stupida, giustificazione che potesse salvarla dall'imbarazzo. -Io..-
Harry soffocò un verso di disapprovazione misto ad una risata, e liquidò ciò che stava per dire con un gesto della mano. -Non tutti apprezzano la cavalleria, non te ne faccio una colpa.- commentò, guardandola di traverso mentre si dirigeva verso l'isolotto della cucina. 
Hebe lo seguì, cercando di tenere il passo delle gambe lunghe di Harry, sentendo un moto di sdegno invaderla completamente. 
-Sembrava tutt'altra cosa, in realtà.- borbottò difendendosi.
Chiuse le mani a pugno talmente con tanta forza da sentire le unghie infilarsi nella carne dei suoi palmi.
-Non era mia intenzione importunarti.- strascicò, dandole le spalle mentre metteva l'acqua per il tè a bollire.
Un'espressione di nausea le passò sul volto come un lampo: beveva solo tè da quasi tre giorni. 
-E io non volevo essere scortese.- farfugliò, incastrando una ciocca di capelli dietro l'orecchio e iniziando a grattarsi le nocche.
Harry sospirò, e si voltò per guardarla. Poggiò le mani sul lavabo, e socchiuse gli occhi scuri.
-Vado a farmi una doccia.- annunciò lei, imbarazzata dallo sguardo del riccio che percorreva spudoratamente il suo esile corpicino.
-Ti avverto, l'acqua calda scarseggia, scheggia.- strascicò lui, continuando a guardarla mentre si allontanava.
-Scheggia?- chiese lei, sorridendo distrattamente.
-Non ti piacciono i soprannomi?- domandò a sua volta, pescando nella tasca dei jeans un accendino e una sigaretta.
-No.- balbettò lei. -Cioè, si. Si, mi piacciono.- 
Harry sorrise, e scosse la testa. -Va a darti una ripulita.- 

Hebe uscì dal bagno solo dopo aver tirato più giù che poteva la maglietta che Harry le aveva momentaneamente prestato per la notte. L'ultima cosa che voleva era mostrargli le gambe, e il freddo neanche era tanto sopportabile.
Uscì, allungandola un'ultima volta verso le ginocchia, e lo vide seduto sul divano con la testa piegata verso il basso e gli occhi socchiusi; le ciglia scure a sfiorare le guance, i ricci scompigliati, la mano abbandonata sul fianco, e le labbra dischiuse.
Era bello mentre dormiva, pensò, guardandolo dallo stipite della porta.
Si avvicinò lentamente, camminando sulle punte dei piedi per non fare rumore, intravedendo nella penombra un oggetto dimenticato sulle sue ginocchia: un libro.
Lo guardò, poi posò gli occhi su di Harry, poi di nuovo sul libro; e lo prese.
Era liscio contro le sue dita, morbido come se fosse stato preso così poche volte da averlo lasciato come nuovo. La pelle, tinta di un rosso così scuro da sembrarle sangue, lo rilegava interamente; gli unici dettagli che si differenziavano spiccando in tutta quelle omogeneità di colore erano le rifiniture colorate d'oro ai lati della copertina e il titolo scavato su di essa della medesima tonalità splendente.
Aforismi.
Sorrise confusa e compiaciuta, e aprì con delicatezza la prima pagina.
Una lunga dedica riempiva tutta la parte lasciata libera al disotto del titolo scritto in corsivo sulla parte superiore del foglio.
Lesse solo le ultime parole.

Aprilo quando avrai bisogno di pensare, o semplicemente di qualcosa che ti dimostri che tutto va bene. Con me funzionava.
Per sempre tua, 
Kate.


Chiuse di scatto il libro.
Tenerlo fra le dita ora era come toccare tizzoni ardenti; le mani quasi le bruciavano. Respirare era divenuta improvvisamente la cosa più difficile del mondo.
Non sapeva perché, ma c'era qualcosa, in quella calligrafia disordinata e in quelle parole sbiadite, che le avevano procurato una fitta nel petto.
Non era gelosia, invidia, paura. 
Non era stato quel nome femminile a scombussolarle gli organi.
Ma qualcosa di ben più profondo, che non sapeva spiegarsi. 
Ripose il libro sul tavolino ai suoi piedi e corse verso il corridoio, dimenticandosi di provare a non far rumore, come se qualcuno la stesse inseguendo.
Si appoggiò alla parete, ed inspirò profondamente. Portò una mano contro la base della gola e chiuse gli occhi per un istante cercando di riprendere fiato, prima di dirigersi verso le due porte torreggianti dinanzi al proprio viso.
Le osservò entrambe, sentendo la tensione plasmarsi contro la pelle.
Aveva la sensazione che in una delle due stanze vi fosse qualcosa che doveva restare nascosto; qualcosa di misterioso, proibito.
Prese un respiro, e poggiò con leggerezza la mano sulla maniglia della porta che si trovava sulla sinistra; l'abbassò lentamente, facendo rimbombare nel silenzio della stanza lo stridio metallico. 
L'aprì di poco e lentamente si sporse, vedendo dallo spiraglio che aveva creato tra lo stipite e il legno una maestosa ombra scusa al centro della stanza. Socchiuse i grandi occhi grigi, cercando di scrutare nell'oscurità della notte qualcosa che le facesse capire cosa davvero fosse.
Mosse lentamente un passo in avanti, provando ad entrare nel buio pesto racchiuso in quella stanza priva di luce... Ma delle dita lunghe e callose le avvolsero l'avambraccio in una morsa dolorosa e la tirarono indietro, prima di chiudere la porta a chiave.
-Non entrare mai più lì dentro.- sibilò Harry al suo orecchio, greve. -Non ti azzardare, Hebe. Capito?- 
Hebe si voltò, e vide i suoi occhi scuri a un palmo dal suo viso.
Strinse la presa sul suo braccio, facendole sentire la pressione delle dita persino sulle ossa. 
Si morse il labbro, trattenendo l'istinto di mugolare dal dolore o di urlare dalla paura.
Sentiva il sapore metallico del sangue che le scorreva nella gola.
-Capito, Hebe?- La scosse, con tanta forza da farle traballare le ginocchia, e serrò le mascella.
-Si.- sussurrò lei; la voce tremante.
Fu come vedere all'improvviso il nero divenire bianco, la luna divenire sole, le tenebre luce.
La sua pupilla dilatata si restrinse, mostrando quel verde tanto oscuro quanto luminoso che le piaceva all'interno delle sue iridi.
Cambiò radicalmente espressione, mentre le lasciava il braccio e sospirava.
-Va a dormire.- sospirò, con lo sguardo vitreo perso nel vuoto; come se stesse guardando alle sue spalle qualcosa che solo lui era in grado di vedere.
Aprì la porta alla destra di Hebe, e la spinse delicatamente verso l'interno, richiudendola appena lei fu dentro.
Entrata nella stanza, rimase immobile.
Aveva gli occhi sbarrati, la gola prosciugata, ed il respiro pesante.
Sfiorò con la punta delle dita la parte del suo avambraccio che era stato vittima della pressione dolorosa che Harry aveva esercitato.
Trasalì e si morse nuovamente le labbra, ancora cosparse di quel sapore ferroso che odiava: le faceva male. 
I lividi sembravano melanzane violacee sulla pelle chiara, evidenti nonostante non fossero trascorsi che un paio di minuti. 
La forma delle sue dita era precisa, regolare; quasi fosse stata disegnata con cura. 
Percorse il tragitto che la separava dal letto velocemente, non degnandosi di osservare neanche per sbaglio altri dettagli all'interno di quella stanza.
L'unica cosa che distrattamente aveva notato, era che tutto era disposto con un ordine quasi maniacale.
Si distese sul letto e sprofondò la faccia nel cuscino coprendosi con le coperte fin sotto il mento.
Non doveva piangere, non voleva.
Nonostante suo padre, il libro rosso, la stanza impenetrabile immersa nel buio, la sagoma al centro di questa, gli occhi di lui privi di vita; nonostante nessuno potesse sopportare tutto quello in un solo giorno, nonostante nessuno avrebbe potuto, lei chiuse gli occhi e non lasciò che neanche una lacrima le rigasse il viso.

Era riuscita a prendere sonno, e forse anche da circa dieci minuti. 
Ma il cigolare delle molle del letto la fecero sussultare svegliandola. 
Qualcuno si era steso al suo fianco.
Aprì gli occhi all'istante, e voltò la testa verso il punto in cui il materasso era piegato.
A guardare il soffitto, con un braccio dietro la testa, un'altro che le sfiorava in fianco e solo dei jeans addosso, c'era Harry.
-Non volevo svegliarti.- lo sentì sussurrare, la voce graffiata e roca molto più del solito.
Lo guardò e basta.
Non provava imbarazzo, nonostante il suo petto nudo ricoperto da tatuaggi neri era a pochi centimetri dal suo corpo, avvolto solo in una misera maglia larga e informe.
In quel momento l'unica immagine che riusciva a vedere erano i suoi occhi che divenivano cupi, e la sua mano che le procurava lividi senza neanche accorgersene.
-Ti fa male?- chiese lui, quasi leggendola nel pensiero.
Hebe alzò lo sguardo, e lo incrociò a quello di lui, sentendosi nel petto il rimbombo dei respiri che emanava come fossero frastuoni che invadevano la quiete. Scosse la testa. -No.- mentì.
Lui si avvicinò, mettendosi a sedere e facendo drizzare sù anche lei.
Le prese il braccio, guardandola con le sopracciglia sollevate come a chiedere il permesso. Hebe annuì, e incrociò le gambe.
Posò con delicatezza le dita nei punti in cui queste avevano lasciato i segni, donando alla porcellana pallida della sua pelle un disegno bluastro. Le parve di sentirlo trattenere il fiato, mentre si rendeva conto che i suoi polpastrelli coincidevano perfettamente con i lividi.
Si schiarì la voce, e lasciò la presa.
-Vuoi che vada sul divano?- le chiese.
-È la tua stanza, sono io quella che dovrebbe dormire altrove.- rispose, con una calma che neanche sapeva di possedere.
Inchiodò gli occhi grigi nei suoi pozzi verdi, imponendosi categoricamente di non distogliere lo sguardo.
-Non voglio che tu vada da nessuna parte, stanotte.- dichiarò, la voce profonda.
Hebe sentì la pelle d'oca formarsi gradualmente sulle gambe, percorrerle la schiena, e arrivarle fino all'attaccatura dei capelli.
Il tono di voce che aveva usato per proferire quelle parole la fece rabbrividire ed accaldare al tempo stesso. Era come se il gelo ed il fuoco avessero invaso le sue vene, alternandosi ritmicamente e facendole venire il mal di testa.
Rilasciò un debole respiro e si distese sulle lenzuola annuendo, guardandolo fare lo stesso. La luna si vedeva perfettamente dalla finestra alla sua destra, e illuminava di un chiarore argenteo ogni cosa la sua luce riuscisse a toccare.
Trattenne il fiato quando sentì le dita del ragazzo al suo fianco sfiorare le sue.
Erano stesi entrambi sulla schiena; braccia, gambe, torace e visi paralleli l'uno all'altro.
L'unica cosa dei loro corpi che si toccava con una delicatezza disarmante, nonostante fossero nello stesso letto, erano le loro mani.
Il sonno la travolse come un'onda, e prima di abbandonarsi ad esso, accompagnata dai respiri regolari di Harry, un domanda le affiorò nella mente: chi era Kate?
Dischiuse le labbra, decisa a porgli quella domanda che le pesava come piombo nella mente, e si voltò per guardarlo con gli occhi socchiusi.
L'unica cosa che la fermò dal compiere quell'azione furono delle parole, tanto flebili da poter essere scambiate per dei sospiri; lei però le aveva sentite, mentre la vista diveniva sfocata e lei calava nel buio dietro le sue palpebre pesanti.
Mi dispiace.


Angolo autrice:
SONO VIVAAAA! Non uccidetemi, vi imploro! Lo so che sono terribile, da prendere a sprangate sulle gengive, ma sono andata in vacanza con i miei e, apparte questo sudicio bar dove sono ora, non c'era connessione praticamente da nessuna parte! Ho approfittato però di questo dettaglio per dedicarmi completamente alla rielaborazione del capitolo, mentre attendevo che qualche miracolo accadesse e che prendesse internet, e ho aggiunto dettagli che all'inizio non erano inseriti... Allora, devo sbrigarmi perché il proprietario mi sta fissando torvo e probabilmente ha intenzione di chiamare la polizia, dato che sono seduta al bancone da praticamente tutto il pomeriggio e ho bevuto circa sei tazze di caffè.. Ma ooookkkaaaaaaay. Spero di tornare a casa il prima possibile, con tutte le comoditá per scrivere e postare su efp. Ci tengo però a ribadire una cosa.. VI ADORO. E non scherzo affatto. Le vostre recensioni sono sempre positive, e mi danno la speranza che un giorno, magari, potrei scrivere come mestiere e non solo come hobby.. Dando vita al mio sogno più grande. Vi abbraccio tutti, dal primo all'ultimo,
Abby_xx
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** CAPITOLO X ***


                                                            CAPITOLO X                                                                                                       

 
La luce la accecava.
Più si dimenava, tanto più l'aria attorno si faceva densa e pesante, premendole le spalle e il petto con un calore insostenibile.
La testa le vorticava, i polsi le dolevano come se fossero stati avvolti con metallo ardente. Sentiva le grida soffocate, i lamenti, i gemiti nell'oblio al disotto del suo corpo, che reclamavano la salvezza dall'oscurità.
Stava fluttuando al centro di un turbine candido come le nuvole, bello e mortale come gli squali.
Sotto di lei, il vuoto. Sempre più profondo, buio, gelido e nero man mano che si estendeva. Mentre urlava di dolore, con la vista offuscata dall'agonia, riusciva a intravedere le mani pallide e livide sotto di lei che si allungavano, cercando appiglio in qualcosa che potesse sottrarli al loro destino.
Sentiva l'odore del bruciato e, sopra, quello più forte del sangue.
Ad un tratto, fu come se la corda che la teneva legata tra quei due mondi iniziasse a sbriciolarsi, come se la gravità riprendesse gradualmente possesso di tutto, facendole prosciugare la bocca dalla paura.
Smise di gridare: la fine era arrivata.
Poi, l'esplosione.
Un fuoco di luce bianca la travolse, con così tanta forza e luminosità che per un istante credette di aver perso la vista. Fu come sentire la propria pelle staccarsi dalle ossa, le viscere sciogliersi e il sangue nelle vene evaporare: un tremendo dolore, e poi il nulla. Si sentì leggera e vulnerabile, talmente fragile da poter essere spazzata via dal vento. Alzò gli occhi; i denti le cominciarono a battere quando, davanti a lei, si dischiusero due ali. Enormi, magnifiche e terrificanti. All'improvviso si piegarono all'indietro, lasciando che la sagoma completamente investita dal sole di un ragazzo potesse divenire visibile. Occhi verdi e scuri, l'unica cosa distinguibile in quell'ammasso di bianco, oro e argento, che la guardavano con una serietà e una forza che la fecero sentire piccola come un granello di sabbia. L'Angelo sorrise, crudele e amabile al tempo stesso, e le tese una mano. Era coperta da minuscole cicatrici bianche, le nocche livide.
Si sporse per afferrarla; e cadde nel vuoto.

Hebe si alzò di scatto a sedere, letteralmente strappata via dal sonno, il petto scosso da fremiti.
Puntò le mani sulle lenzuola, e le strinse in due pugni con talmente tanta forza da sentire i filamenti di cotone spezzarsi nella sua presa.
Cercò di respirare, accasciandosi su sé stessa e raggomitolandosi, ma l'aria sembrava non le volesse entrare nei polmoni. Aveva fatto ancora quel sogno.
Erano due settimane che continuava a riproporsi nella sua mente sempre la stessa scena: un turbine di vento, l'oblio, un Angelo che le porgeva la mano e lei che cadeva nelle tenebre. Non aveva mai fatto sogni simili in vita sua. Ma quello, quasi definibile profetico, continuava a ripetersi dalla prima notte in cui si era addormentata con Harry al suo fianco.
Non l'aveva detto a nessuno, e nessuno doveva saperlo.
Suo padre aveva notato il suo nervosismo, i momenti in cui guardava il vuoto immergendosi nei pensieri e restandoci per ore, ma credeva fosse per la stanchezza e lo stress, così non aveva fatto domande. Un sorriso fece capolino sul suo viso: sua madre invece avrebbe senz'altro capito cosa c'era che non andava; era sempre stata perspicace, ed Hebe sapeva che nasconderle qualcosa era, la maggior parte delle volte, impossibile. Le mancava così tanto.
Una fitta le bloccò il respiro: perché pensava a sua madre al passato?
Stava bene, lo sapeva: suo padre la contattava ogni giorno per avere anche lui la certezza che fosse al sicuro. Non aveva ragioni per ripensare a lei in quel modo. Non doveva averne.
Sospirando si alzò e si voltò verso la parte opposta del materasso: un senso di sollievo la invase quando si accorse che non vi era nessuno a occuparlo; spiegare il suo ennesimo risveglio travagliato sarebbe stato insopportabile.
Ma aveva creduto di avercela fatta troppo in fretta: la porta si aprì di scatto, lasciando entrare nella stanza la figura sfocata di un ragazzo. Mise a fuoco, e un brivido le corse solitario lungo la nuca quando si rese conto di chi fosse.
-Non vorrei essere irruente, ma sono quasi le dieci, e credo tu debba svegliarti.- esordì Harry, cercando nella tasca dei pantaloni una sigaretta, mentre chiudeva con un piede la porta. -Definire intransigente tuo pa...-
Si interruppe non appena posò lo sguardo su Hebe, ancora con gli occhi sbarrati e il respiro tremante.
Smise di rovistare nelle tasche; i suoi occhi divennero scuri, e tutti i muscoli si irrigidirono visibilmente.
-Hai fatto ancora quel sogno?- le chiese, con la voce rauca e bassa come se la sua gola fosse stata carta vetrata. Lei scosse la testa, troppo velocemente e con troppa enfasi per essere anche solo lontanamente credibile.
-Forse non hai capito la domanda, ed è comprensibile, dato che sarai ancora insonnolita.- Avanzò lentamente, fino a trovarsi a qualche passo la lei. -Te la riformulo?-
Lei non disse nulla, e prese a grattarsi le nocche.
-Hai fatto ancora quel...-
-Smettila.- sibilò flebilmente Hebe, interrompendolo prima che potesse concludere. Si sedette sul bordo del materasso, e si prese la testa fra le mani. -Smettila e basta.-
Lo sentì espirare con forza, prima che la imitasse poggiandosi sul letto disfatto. Non voleva guardarlo, perché sapeva che la stava fissando, ma non voleva nemmeno restare con il volto rivolto verso il pavimento, poiché era sicura che sarebbe scoppiata in lacrime: allora alzò lo sguardo davanti a sé, e lo inchiodò fuori dalla finestra. I raggi del mattino entravano nella camera come tante spade lucenti che laceravano l'aria. Il cielo era chiaro, più grigio che celeste, e le nuvole lo tappezzavano con soffici forme irregolari. Pensò a come sarebbe stato essere un uccello, libero di sorvolare il mondo accanto al sole e le stelle. Forse si sarebbe sentita meno volubile, più forte, poiché in grado di poter affermare di aver volato nell'infinito.
O forse semplicemente perché sarebbe stata qualcos'altro e non lei.
-Credi che potrai mai dirmi cos'è che sogni di tanto orripilante da lasciarti senza fiato la mattina?-
La voce di Harry le risuonò in testa in maniera tanto inaspettata che trasalì come scossa dai singhiozzi. Sentiva il suo sguardo sul proprio viso, i suoi occhi cupi che ispezionavano ogni angolo di esso alla ricerca di indizi o espressioni da cogliere al volo per riuscire a capire qualcosa.
-E tu credi che portai mai dirmi cosa nasconde quella stanza di tanto orrendo da farti seccare la gola ogni volta che la oltrepassi?- domandò, sentendo una scarica di adrenalina invaderle il sangue nelle vene, quasi facendoglielo ribollire. Lo vide immobilizzarsi, e serrare le labbra in una linea rigida.
-Hebe, non..-
-Vedi, Harry.- continuò, la voce resa acuta dalla disperazione. -Ci sono cose, a volte, che per quanta forza ci mettiamo non riusciamo ad affrontare. Turbinii di sensazioni ci travolgono, e ci costringono a rinchiuderci in noi stessi e a non fare parola con nessuno riguardo la paura che portiamo addosso, per quanto possiamo provarci. Il tempo è forse l'unica cosa che un giorno, magari, riuscirà a farci andare avanti.-
Deglutì, e provò a frenare i respiri irregolari che ora uscivano imperterriti scuotendole il torace.
L'immagine del libro rilegato in rosso le annebbiò la vista, impedendole di vedere qualsiasi altra cosa. Aveva provato a dimenticare ciò che aveva letto, quello che vi era scritto e, soprattutto, come era scritto, la calligrafia tremolante e disomogenea, ma non riusciva a sgombrare la mente da quei pensieri. Non ne aveva fatto parola con Harry, troppo sconvolta e assalita dai sensi di colpa. La curiosità la stava divorando internamente con una voracità tale da averle scavato un solco all'altezza dello stomaco, ma non riusciva ad affrontare quell'argomento; e il perché proprio non lo conosceva.
-Hai paura?- le domandò, facendole sentire i respiri racchiusi in quei sussurri contro il collo. Si voltò, e lo guardò: i riccioli del colore del cioccolato intricati come rampicanti in maniera strategicamente perfetta, gli occhi profondi e scuri, le labbra rosee e carnose, la pelle diafana e la piccola cicatrice a forma di mezzaluna all'altezza della mascella che faceva in modo di non rendere tutta quella perfezione noiosa.
-E tu?- soffiò.
-No.-
-Tutti abbiamo paura.-
-Ne ho avuta per così tanto tempo, e così tanta, che ora non credo di poterne avere più.- dichiarò con voce ferma, gli occhi che correvano esplorando ogni parte del suo viso.
Hebe aprì la bocca per replicare, ma il suono del campanello la interruppe, risuonando in tutta la camera.
-Il sole splende, e gli uccellini cinguettano!- sentì gridare dal corridoio esterno. -O alzi il culo o entro e ti prendo a calci!-
Harry sospirò, e si passò una mano tra i folti ricci ravvivandoli freneticamente. -Resta qui.- biascicò, palesemente annoiato.
-Ma che...- balbettò lei.
-Tom.- dichiarò semplicemente, sbuffando quando questi prese a intonare una canzone pacchiana a gran voce.
-Chiudi il becco!- gli gridò Harry, mentre usciva dalla stanza.
Hebe aggrottò le sopracciglia chiare, ancora seduta sulle lenzuola, e rifletté: in quelle due settimane le erano state presentate da suo padre solo quelle poche persone che lui riteneva indispensabili per la sua sicurezza. Si ricordò di Scott, un uomo tarchiato e con i piccoli occhi vispi e neri, che si occupava di tutto ciò che aveva a che fare con l'informatica; George, smilzo e destinato alla supervisione dei ragazzi più giovani; ed infine Mitchell e Freddie, i due gemelli, all'apparenza massicci e sinistri, che assicuravano che nessuno entrasse nell'istituto. Ma nessuno che ricordasse portava il nome di Tom.
Harry le aveva negato di conoscere gente al di fuori delle persone che le aveva presentato il padre, affermando che 'la maggior parte è composta solo da immaturi, i cui neuroni si sono progressivamente consumati'.
Scosse la testa, con un sorriso appena accennato a incresparle le labbra che neanche si era accorta avesse preso forma.
Si alzò, e si diresse verso il corridoio; il trambusto che proveniva dalla cucina la aiutò a capire dove fossero andati i due.
-Finiscila.- stava brontolando Harry, seduto sulla sedia accostata al tavolo, con i gomiti posti sulla base in legno e la testa poggiata sul palmo della mano. -Sei noioso.-
Hebe si affacciò, infilando la testa dietro lo stipite della porta, per vedere cosa stesse succedendo.
La prima cosa che fece fu puntare lo sguardo su Tom: biondo, dalla corporatura asciutta e tonica, occhi nocciola e un cucchiaio di legno tenuto traballante in equilibrio sul naso. Soffocò una risata quando lo fece cadere, saltando di slancio come una ragazzina.
-Noioso, davvero?- replicò. -La gelosia è un brutto animale, amico.-
-Una brutta bestia.- strascicò Harry, muovendo la mano con fare disinvolto.
-Eh?-
-Si dice una brutta bestia, non un brutto animale.-
Tom si strinse nelle spalle, e prese a girovagare per il cucinotto canticchiando a voce sommessa. Si fermò all'istante quando vide Hebe osservarlo. Gli occhi gli si illuminarono, e un sorriso gli divise la faccia in due mentre si avvicinava.
-Sogno o son desto?- si chiese, porgendole una mano. Hebe arrossì, e sorrise timida mentre vedeva Harry alzare lo sguardo svogliato. Spalancò gli occhi e si buttò una mano sulla faccia quando vide l'amico inginocchiarsi ai piedi della ragazza.
-Oh, adorabile donzella.- iniziò.
-No, ti prego...- farfugliò Harry.
-Sapevo che eravate una fanciulla rispettabile e virtuosa, leggiadra come una ninfa che cavalca il vento, ma ora che vi ho dinanzi ai miei occhi la vostra bellezza mi acceca.- Si portò teatralmente una mano sulla fronte, ed Hebe rise arricciando il naso. -Temo di non poter resistere ulteriormente al vostro fascino regale, abbiate riguardo per il mio amore! E vi prego, fate di me ciò che volete.-
Aprì entrambe le braccia gettandosi all'indietro, facendola sobbalzare dalla sorpresa.
-Tom.- lo richiamò Harry, torvo.
Lui lo ignorò, e si alzò in piedi continuano ad avanzare verso Hebe, ridente e imbarazzata.
Unì le labbra in un bacio e si sporse verso il suo volto distorto da un cipiglio confuso.
-Non ti azzardare.- esordì greve Harry.
-Okay.- Si mise le mani in tasca e si voltò di scatto, barcollando svogliatamente verso il lavabo della cucina. Prima però si chinò verso il riccio, che lo guardava esasperato e rabbioso. -Non mi avevi detto che era così carina, però.- gli sussurrò, ammiccandole. -Volevi tenertela tutta per te, non è così?- Sorrise ironico, e gli passò una mano tra i capelli muovendoglieli da tutte le parti. Harry lo trucidò con lo sguardo, e gli diede un pugno sul bicipite, facendolo mugolare dal dolore. -Devo proteggerla.- affermò.
-Anche qui dentro?- Si corrucciò. -E da chi, scusa?-
-Non saprei.- strascicò. -Dagli squilibrati come te, ad esempio?-
-Oggi ti sei svegliato con una sconsiderata vena di ironia più irritante delle altre volte, biscottino?- domandò, fintamente languido.
-Biscottino?- chiese Hebe, facendosi timidamente avanti. -Sul serio?-
-Potrai sorprenderti, scheggia, ma non è la prima volta che mi chiama così.-
-Io comunque sono Tom.- si intromise il biondo, porgendole la mano, questa volta senza tanti fronzoli.
-Ma dai? Non l'aveva capito.- sorrise Harry, ironico.
-È per questo infatti che glielo sto dicendo.- replicò lui, guardandolo da sopra una spalla. -Invidioso.- borbottò.
-Io sono...- iniziò lei, rossa in viso.
-Hebe. Lo so.- la interruppe, stringendole la fragile mano. -Tutti parlano di te, qui.-
-Oh, ehm.. Davvero?- domandò, grattandosi le nocche.
-Ovviamente. Sei la figlia di John, e l'unica a cui Harry non abbia tolto le mutandine nonostante ci viva insieme da due settimane!- Hebe spalancò gli occhi, e vide Harry aprire la bocca per ribattere, furente. -Non le hai tolto le mutandine, giusto?- chiese il biondo, corrucciandosi dubbioso. -Insomma, me lo avresti detto se l'avessi fatto, no?-
-Tom!- sbraitò lui, alzandosi di scatto. -Fuori!-
-Ma, noi...- balbettò. -Stavamo solo parlando.- biascicò, offeso.
Hebe li guardò e, nonostante l'imbarazzo che l'aveva travolta negli ultimi cinque minuti, riuscì comunque a farsi scappare un sorriso sincero: sembravano amici come mai ne aveva visti. Il modo in cui si rivolgevano l'un l'altro, le frecciatine e gli sguardi complici. Un senso di disagio la travolse: avrebbe tanto voluto anche lei un amico così.
Harry si avvicinò con poche falcate ad Hebe e Tom, riportandola alla realtà, e gli prese con forza una spalla. -Tu ora te ne vai.- dichiarò, severo.
-Intendevo solo dire che sarebbe controproducente, e soprattutto non da te.- gemette, con la voce che usciva smorzata dietro i denti serrati per il dolore, mentre lui lo trascinava verso la porta. -Cioè, avere una relazione clandestina con la tua coinquilina andrebbe contro tutti i tuoi principi da giovane uomo di buona fede.- tentò, benevolo, cercando di dimenarsi.
-Stai cercando di entrare nelle mie grazie con improponibili sotterfugi?- chiese, esasperato.
-Sto cercando di impietosirti, in realtà.- disse Tom, smettendo per un secondo di scalciare e contorcersi. -Ma la tua versione è meno patetica.- esordì, facendo una smorfia.
Hebe guardò Harry, e, ne era sicura, gli parve di vederlo sorridere. Un sorriso stufo, divertito e leggero, che si voltatizzò con tanta velocità con cui era apparso. Ma pur sempre un sorriso. Scosse la testa sospirando quando lui strinse nuovamente la presa sulla spalla dell'amico, costringendolo a camminare verso l'uscita. 
-Ho promesso agli altri che ti avrei portato con me a fare colazione, questa mattina. Non ti vedono da un secolo.- disse Tom, sibilando le parole dietro i denti digrignati dall'agonia. -Fai un tantino male.- aggiunse, arrivato alla porta. -Però poco, eh.-
Harry lasciò la presa, e aprì la porta incitandolo a uscire con lo sguardo. -Ciao, Tom.-
-Oh, adiamo.- piagnucolò questi. -Non ti manchiamo neanche un po'?- Mise i palmi delle mani sotto al mento, e sorrise amabile.
Hebe, un paio di metri dietro di loro, non potette far altro se non sorridere. Quel ragazzo le piaceva.
-No.- disse il riccio, cupo.
-Neanche poco poco?-
-No.-
-Poco poco pochissimo?-
-Devo stare con Hebe, Tom.- Alzò gli occhi al cielo, e fece per chiudere la porta, ma la mano del biondo la bloccò; un sorriso sghembo a dipingergli il viso.
-Portala con noi.- sussurrò, gli occhi vispi.
-Ti sei fumato il cervello, per caso?- domandò scettico Harry, alzando le sopracciglia e il tono della voce.
-Non credo sia concretamente possibile, e comunque no.- cominciò. -Ma andiamo, biscottino. Non portai mica tenerla segregata qui fino alla fine dei suoi giorni!- Si poggiò contro lo stipite della porta e la guardò. -Sbaglio?-
-Io...-
-Guardala!- urlò, interrompendola. -L'hai così allontanata dal mondo che scommetto non ricorda neanche più come si forma una frase.-
Lei si corrucciò: -In realtà...-
-Forza, Harry.- lo pregò lui, non permettendole di concludere, ancora.
-Andiamo, biscottino.- sussurrò flebilmente Hebe, avvicinandosi di qualche passo.
Lui sospirò, poi li guardò, sospirò nuovamente e emise un suono roco dal fondo della gola. -E va bene, va a vestirti.-
Hebe e Tom esultarono, battendosi il cinque e saltellando per la camera.
-Scheggia.- la richiamò Harry, serio, prima che potesse entrare in camera. Lei si voltò, e lo guardò socchiudendo gli occhi chiari. -Non raccontare a nessuno la storia del biscottino.-
Lei rise, e si chiuse la porta alle spalle. Mente si vestiva lì sentì continuare a farfugliare.
Aprì l'armadio a due ante dinanzi al letto, dove aveva risposto i vestiti che suo padre le aveva portato. Una parte disordinata e confusionale riservata a lei, e l'altra meticolosamente ordinata occupata dai vestiti scuri e consumati del riccio. Frugò freneticamente alla ricerca di qualcosa da indossare, spostando occhi e mani in ogni dove. Harry aveva ragione, quando la rimproverava: doveva riordinare quel disastro. Sembrava che un ciclone avesse soggiornato nel suo lato dell'armadio! Guardarlo con entrambe le ante aperte era bizzarro e inconcepibile: da un lato tutti gli indumenti posti con cautela e discrezioni nei posti riservati ai determinati capi, jeans e maglioni appesi e maglie e camicie piegate con attenzione, e poi, l'altra parte, disastrosa e grottesca.
Sbuffò quando, nel prendere un maglione, un'intera pila di magliette cadde sul pavimento. Alzò le mani in aria e si inginocchiò, raggruppando in un mucchio il tutto e gettandolo da un lato.
Le mani iniziarono a tremarle, quando spostato lo sguardo sul fondo dell'armadio, lo vide.
Il libro, con l'iscrizione Aforismi dorata, luccicante nonostante si trovasse in ombra, e la rilegatura in pelle rossa che metteva i brividi, all'interno di un cofanetto di legno dimenticato aperto.
Si morse il labbro, lottando contro l'istinto sbagliato di sporgersi e afferrarlo, e si alzò in piedi.
Camminò traballante verso il letto, infilandosi di fretta un paio di jeans e un maglione presi distrattamente, sentendo le gambe molli.
Respirò profondamente, e chiuse gli occhi.
Non farlo, non farlo.
-Non ce la faccio.- sibilò.
Si voltò nuovamente verso le ante ancora aperte, i piedi scalzi sul pavimento freddo, e corse verso di esso gettandosi poi in ginocchio.
Scavò sul fondo, sentendo le orecchie fischiare, e una volta trovato prese il cofanetto; lo strinse come se fosse l'unica cosa che le permetteva di restare in vita.
Guardò al suo interno, le mani tremanti: il libro risposto da un lato, e una catenina con un ciondolo a forma di aereo di carta dall'altra. Non aveva mai visto Harry indossarla, pensò confusa.
Li prese, e ripose lo scrigno di legno dove l'aveva trovato; con la sola differenza che ora era vuoto.
Chiuse l'armadio, e si diresse nuovamente verso il materasso: diede uno sguardo veloce alle sue spalle, accertandosi che la porta fosse ben chiusa, lo alzò e nascose ciò che aveva preso.
Aveva il respiro pesante, le guance accaldante e la bile in gola.
Provava disprezzo verso sé stessa, misto a esasperazione e tristezza: sentiva la disonestà bruciarle l'anima. Se Harry aveva nascosto quegli oggetti, era perché non voleva che nessuno li trovasse; e lei era andata contro il suo volere, tradendolo spudoratamente.
Si infilò le scarpe meccanicamente, con lo sguardo perso nel vuoto, vitreo e distante, e poi si diresse verso la cucina.
Sentiva i mormorii al suo interno, le loro voci sovrapposte e il calore del sole che entrava dalla finestra. Deglutì, ed entrò.
-Credevo ti piacesse quel soprannome.- stava dicendo Tom, offeso.
-Virile e mascolino, certo che mi piace.- rispose Harry, tagliente, porgendo ad Hebe la sua giacca. Lei sorrise di sbieco, e lo ringraziò.
Traditrice.
-D'accordo, te ne troverò un'altro...- biascicò il biondo, pensieroso e annoiato.
-Spero tu ci metta più tempo del dovuto.- commentò il riccio, sfilandogli le chiavi dell'auto dalla presa, nello stesso instante in cui lui urlava: -Trovato!-
Hebe lo guardò, sollevando le sopracciglia come per incitarlo a continuare, mentre Harry scuoteva la testa esausto.
Il biondo sorrise, e parlò.
-Fiorellino!-




Angolo autrice:
Sono penooooosaaaaaaa, non uccidetemi, vi prego.
Il capitolo è orribile, il ritardo ancora di più... Mi dispiace, giuro giuro giuro!
Mi farò perdonare però, e lo so che lo dico ogni volta ma questa davvero ci provo AHAHAHAHAHAHAH
Tornando al capitolo... VI DEVONO FARE SANTI, con tanto di aureola, arpa, e tutte quelle cose lì.
Le visualizzazioni sono sempre di più, e davvero non potrei essere più felice!
In questo capitolo c'è poco da dire, in realtà: Hebe continua ad avere questo sogno da quando si è addormentata al fianco di Harry (eheh), ma il sogno finisce sempre a metà, lasciandola esasperata e spaventata.. 'poretta.
Ah! Poi entra in scena Tom, che io personalmente immagino troppo carino e coccoloso, ovvero il miglior amico del nostro Haroldino. Inoltre, Hebe nasconde il libro e la catenina di Harry sotto al materasso (wtf?), e poi viene assalita dai sensi di colpa... Un po' come me quando mangio la cioccolata AHAHAHAH
TOOOOORNIAMO SERI.. certo. Vi abbraccio tutti pandorini pandorosi, vi voglio troppo bene!
Spero che anche le lettrici silenziose mi facciano sapere cosa ne pensano... mi fate fare i filmini mentali sull vostre opinioni la sera, prima di andare a dormire, siate clementi e aiutate questa povera anima pia, sù!
Un bacio grosso quanto l'istituto,
Abby_xx

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** CAPITOLO XI ***


                                                                                                 CAPITOLO XI                                                                                                 


Hebe aveva riso durante tutto il tragitto, immersa in una conversazione più che altro basata sull'ascoltare Tom dare voce ai propri pensieri riguardanti i nomignoli che sarebbero stati perfetti da affibbiare alle persone che incontravano per le strade.
Harry si era limitato a muovere la testa e a sbuffare pigramente, ma sia lei che il biondo sapevano che lo faceva per trattenere i sorrisi.
Hebe poggiò la testa sul palmo della mano, il gomito inserito strategicamente tra la maniglia di apertura dello sportello e il finestrino, in modo da rendere quella posizione stabile. Stava ancora rimuginando su quanto era successo poco prima: l'aver nascosto quei due oggetti le dava sollievo, ma le faceva provare anche un soffocante senso di disgusto verso sé stessa.
Tom accese la radio, battendo ritmicamente la mano sulla gamba destra come a voler prendere il ritmo di una canzone che solo lui poteva sentire. Appena la musica partì, fece una smorfia: prima di confusione, poi di compiacimento.
Il suono dei tasti di un pianoforte risuonò in tutto l'abitacolo, travolgendo Hebe con la loro sinfonia melodica e rilassante. Chiuse gli occhi per un istante, lasciando che la sua mente si immergesse nei ricordi di quando era bambina: lei che giocava al parco con suo padre e lui che la prendeva in braccio e danzava tendendola stretta al suo petto per averla alla sua stessa altezza e le canticchiava all'orecchio le melodie di Beethoven, sua madre che la riprendeva ridente con la telecamera mentre lei imitava una ballerina di danza classica sotto le note di un brano al piano di Chopin. Un gemito di palese sconcerto rimbombò nella sua testa, riportandola alla realtà con uno strano senso di mancanza a premerle il petto.
-Ma per favore.- sbuffò Tom, alzando gli occhi al cielo. -Tu suoni molto meglio di questo qui!- dichiarò, rivolgendosi ad Harry con aria ovvia.
Hebe corrugò le sopracciglia confusa: le spalle del riccio vennero attraversate da una rigida tensione e il suo volto si incupì, facendo sbiancare Tom.
-Siamo arrivati.- esordì provando a tenere la voce ferma, e spostò il braccio sul freno.
-Io...-
-Ho detto che siamo arrivati, Tom.- lo interruppe, aprendo lo sportello e scendendo bruscamente dalla macchina.
Tom scosse la testa, il rimpianto e l'amarezza a colmargli gli occhi solitamente gioiosi.
Harry aprì lo sportello di Hebe, facendole distogliere lo sguardo dalle rughe di tensione che si erano formate agli angoli della bocca del biondo.
Alzò gli occhi verso il riccio, vedendo il suo petto immobile.
Non sta respirando.
-Scendi, Hebe.- disse piano, provando a sorriderle.
-Harry...- iniziò lei, mentre portava lentamente i piedi fuori dalla macchina.
Lui le prese l'avambraccio con un movimento tanto veloce da non permetterle neanche di rendersi conto di quanto stesse accadendo, l'afferrò e la tirò verso di sé, facendola cadere sul suo petto.
-Dimenticalo.- sussurrò solamente, inchiodando gli occhi cupi nei suoi. L'aiutò a ristabilire l'equilibrio, cosa che in quel momento le sembrava di una difficoltà abissale, e alzò un angolo della bocca provando a mostrarsi tranquillo. -A volte dice tante di quelle sciocchezze.- biascicò, il petto ancora immobile.
Hebe guardò prima il suo torace fermo, poi il sorriso forzato che le stava rivolgendo, il viso pallido dell'amico e nuovamente il ragazzo che le teneva con fermezza il braccio sinistro. Il suo viso si contrasse in un cipiglio scettico.
-Non capisco perché tu...-
-Dimenticalo, Hebe.- la interruppe, come pochi istanti prima. -Dava solo aria alla bocca.- affermò, guardando di traverso Tom. Questi prese a giocherellare con la catenina che portava al collo, a disagio.
 -Non c'è niente di male a suonare il piano.- commentò lei, sfilando l'avambraccio dalla sua morsa. -La trovo una cosa bellissima.- aggiunse, calando il tono di voce quando lui iniziò ad allontanarsi.
Lo raggiunse con poche falcate, tallonata da Tom, e gli agguantò il polso. -Perché reagisci così?-
-Non suono il piano, Hebe.- tuonò con voce greve, facendola trasalire, e strattonò la mano per far si che lei lo lasciasse. -Non fare la bambina ed entra.-
Hebe boccheggiò, cercando qualcosa da dire che non la facesse sembrare una povera stupida in piena crisi di nervi. Voleva dirgli che non tollerava le sue improvvise reazioni scontrose, il suo modo di andarsene e di interromperla quando non voleva parlare di qualcosa.
E soprattutto voleva dirgli che non capiva perché se la fosse presa tanto, quando invece lei credeva che se avesse suonato il piano sarebbe stato solo ancora più bello ai suoi occhi. Tutto quello che riuscì a fare invece fu grattarsi le nocche, e guardare le sue spalle tese e il suo passo accelerato che si dirigevano verso la porta a vetri di quel bar in periferia.
-Sei tu quello che fa il bambino, qui!- farfugliò, col respiro affannoso, alzando il tono della voce quel tanto che bastava per essere sicura che sentisse. Lo vide fermarsi per un istante, le dita avvolte intorno la maniglia; e per un momento si ricordò della prima sera che era entrata nella sua camera, e di come quelle dita erano diventate bianche mentre afferravano il pomello della porta che lei stava per aprire, chiudendola con un movimento secco.
Harry si voltò, e quando Hebe vide i suoi occhi il mondo si fermò per un istante e l'ennesimo brivido le percorse la spina dorsale.
Abbassò lo sguardo, ed entrò nel piccolo locale. Vide Tom passarle accanto come una figura sfocata, e le parole che le rivolse mentre le metteva la mano tra le scapole, incitandola a camminare, risultarono ovattate al suo udito. Scosse la testa ed espirò, avanzando e chiedendosi perché mai quel ragazzo che tanto sembrava un angelo avesse negli occhi l'oscurità più profonda.


Una volta aperta la porta traslucida, l'odore pungente della birra, i mormorii, le risate, e un calore rasserenante l'avvolsero completamente. Tom le accennò un sorriso, che lei ricambiò con la stessa distrazione. Si calò il beane sulla fronte e srotolò la sciarpa di lana che aveva avvolta al collo, presi di corsa sull'uscio di casa.
Guardò le persone sedute ai tavoli ed al bancone intente a chiacchierare tra loro, e le cameriere che con destrezza e passo veloce si muovevano svelte tra i tavoli: e per un istante le sembrò di essere tornata alla normalità, a quando, anni prima, con i suoi amici andava nella piccola caffetteria fuori Holmes Chaple perché faceva le cioccolate calde più buone di tutti.
Poi però girando con lo sguardo vide Harry guardarla di soppiatto da lontano, con aria tetra, e si rese conto che ora tutta la normalità che si poteva permettere era quella che poteva esserci passando la colazione in quel posto: i suoi canoni e le sue aspettative si erano nettamente dimezzate, in quel periodo. Tom le indicò un tavolo accanto la finestra a vetri alla loro destra, e dopo aver pregato Harry con lo sguardo di raggiungerli, si diresse in quella direzione.
Hebe notò che dallo schienale della panca di legno alla quale si stavano dirigendo, spuntavano altre quattro teste.
Sentiva odore di dopobarba, e un vago aroma di miele accanto a sé: non ebbe bisogno di voltarsi per capire che la persona al suo fianco era Harry, che ora le aveva afferrato il maglioncino grigio perla, fermandola.
-Non devi per forza conoscerli, se non ti va.- sussurrò piano, facendole sentire il suo respiro caldo sul collo.
Hebe girò il volto appena, quel tanto che bastava per averlo talmente vicino che i loro nasi si toccarono, facendolo sospirare.
-Tom ci sta chiamando.- biascicò lei, guardando da sotto le folte ciglia le labbra del riccio che venivano inumidite dalla punta rosea della sua lingua con estrema lentezza.
Lui sorrise vacuo e scosse la testa: -Non mi piace come svii i discorsi.-
Fece spallucce, e riprese ad avanzare.
Perché in effetti Tom li stava davvero chiamando; o per meglio dire si stava sbracciando attirando l'attenzione di tutti su di loro. Hebe rallentò, sentendo gli occhi dei clienti e del personale quasi fossero tanti spilli che le pizzicavano la pelle pallida.
Una volta seduta, con ancora la testa china e le unghie che si scorticavano con violenza le nocche delle mani congiunte, sentì il silenzio calare per un istante tutt'intorno.
Alzò lentamente gli occhi, sentendo quelli degli altri ragazzi seduti al tavolo fissi su di lei, e trattenne il fiato aspettandosi esattamente le stesse espressioni che la gente che sapeva aveva quando la guardava: quel misto di confusione, riconoscenza verso suo padre che riversavano in lei, sorpresa e sconforto che le dava sempre un senso di disagio. In alcuni dei volti di chi la osservava, al dormitorio, ricordò di aver persino scorto una punta di paura.
Ma quelli che aveva davanti ora no, non potevano essere descritti con nessuno dei numerosi aggettivi che di solito attribuiva all'altra gente: loro semplicemente la guardavano, con il sorriso di cortesia di chi sta per conoscere qualcuno.
-Il mio pesce rosso è più veloce di voi.- commentò Tom, sbadigliando blandamente. Una volta finito di contorcersi su sé stesso, intento a stiracchiarsi, sorrise malizioso alla ragazza difronte Hebe, che gemette inorridita.
Hebe sentì Harry sospirare esausto.
-Tengo a precisare che tu non hai alcun pesce rosso.- strascicò, annoiato. -E inoltre, dopo le lagne che ho dovuto subire con lo scopo di essere portato qui, sarebbe gradito che voi tutti mostraste un po' di contentezza nel vedermi.- aggiunse, rivolgendosi alla ragazza e ai tre ragazzi seduti dal alto opposto del tavolo. Tutti allora scoppiarono in elogi e esclamazioni ironiche, dicendogli quanto gli era mancato e quanto avessero atteso con ansia il momento in cui lo avrebbero rivisto.
Harry sorrise scettico, e estrasse una sigaretta dal pacchetto già aperto che c'era sul tavolo.
Hebe esaminò senza troppa discrezione ognuno dei quattro ragazzi posti davanti a lei: guardò per prima la ragazza dalla pelle ambrata e i lunghi capelli neri, gli occhi leggermente a mandorla e l'aspetto curato di chi sa come usare ingegnosamente trucchi e accessori. Poi fu il turno del ragazzo alla sua sinistra, che sembrava poco più piccolo degli altri, con cappellino di lana blu schiacciato sui capelli rossi, le lentiggini sparse come schizzi d'inchiostro su naso e gote, e i lineamenti asciutti che le faceva credere che ancora forse non avesse compiuto neanche diciassette anni. Il successivo, notò, gli occhi dolci e languidi, aveva quel tipo di lucentezza nel sorriso che la faceva sorridere a sua volta; le venne in mente il tipico ragazzo della porta accanto, bello e gentile.
Spostò gli occhi sull'ultima persona che sarebbe stata vittima delle sue scrupolose osservazioni, e constatò che il ragazzo che aveva intenzione di guardare, stava facendo la stessa identica cosa con lei. Il trambusto che si era creato tutt'intorno si soffocò nel giro di pochi istanti, quel lasso di tempo che le servì per incrociare lo sguardo dello sconosciuto davanti a sé: capelli neri come la pece, occhi nocciola e sorriso rassicurante; non poté far a meno di notare quanto attraente fosse, tant'è che quando questi le porse la mano, lei arrossì.
-Sono Jack.- soffiò delicato, baciandole il dorso della mano con galanteria, senza però staccare gli occhi dai suoi.
Hebe sorrise di rimando, e sentì il corpo di Harry irrigidirsi di colpo.
Tuttavia non vi prestò conto.
-Hebe.- rispose. -Io sono Hebe.-
Jack le rivolse l'ennesimo sorriso e, questa volta, era certa non fosse di cortesia.
-Mia piccola e adorata amichetta.- esordì Tom, facendola voltare verso di lui. -Loro sono gli incredibili, meravigliosi, esuberanti, indispensabili...-
-Cosa ti serve, Tom?- sbuffò il ragazzo dai capelli rossi, ridendo.
Tom si grattò la nuca, e poi si protese leggermente verso l'amico.
-Giuro che non l'ho fatto apposta.- iniziò. -Ma a quanto pare ho dimenticato il portafoglio a casa.-
La ragazza mora sbuffò, e gli passò una banconota sul tavolo. -Bastano?-
Lui le rivolse un sorriso ironico. -Devo comprarci un caffè mica tutto il bar.-
-Un semplice grazie sarebbe più appropriato.-
-Grazie.- cantilenò lui allora. -Piccola strega odiosa e arrogante.-
Lei gli tirò un pezzo della brioche che stava mangiando, ottenendo in risposta una bustina di zucchero in faccia.
Hebe li guardò, con un misto di confusione e divertimento negli occhi, iniziare a tirarsi ripetutamente cibo nei capelli e insulti infantili.
-Comportati come se non stesse accadendo nulla di tutto questo.- le sussurrò Harry ad un orecchio. -Se inizi a non prestargli attenzione, dopo un po' la smettono.-
-Fanno sempre così?-
-Ogni singola volta.- le sorrise, capendo che aveva intuito quello che tutti già sapevano: la ragazza dai capelli corvini e Tom erano decisamente attratti l'uno dall'altra, altroché se lo erano.
Hebe li guardò smettere di lanciarsi cose addosso, e iniziare a sbuffare dopo i rimproveri del ragazzo dai capelli rossi, continuando però a punzecchiarsi ininterrottamente.
-Comunque.- riprese il rosso. -Noi che siamo, immondizia?- sbottò, rivolgendosi ad un disinteressato Harry. -Le presenti Jack ma non noi tre. Davvero carino da parte tua, amico.-
-Jack si è presentato da solo.- precisò lui, rivolgendo al diretto interessato un'occhiata tagliente.
-Io comunque sono Tyler, ma tutti mi chiamano Ty.- esordì cordiale il moro, stringendole la mano con enfasi. Hebe annuì e gli sorrise.
-Questa essere antipatica e meschina è Megan.- disse Tom, indicandole inorridito la ragazza davanti a sé.
-Ma puoi chiamarmi Meg.- sorrise lei, ignorando il commento di Tom.
Hebe emise un risolino, e annuì ancora.
-E ora il mio turno.- sorrise il ragazzino, strofinandosi le mani prima di porgergliene una. -Sono Ethan, ma per tutti Ethan e mi va benissimo Ethan.-
Hebe rise, e gli strinse la mano, mentre Megan e Tyler lo guardavano scettici per averli imitati con ironia.
Si voltò verso Harry, e con sorpresa lo trovò intento a fissarle le mani.
Sentendo lo sguardo inquisitorio di Hebe sul suo volto, lui alzò lo sguardo, e si corrucciò. -Ti fanno male le nocche?-
-Come?-
-Guarda.- le disse con voce bassa, prendendo una delle sue piccole mani e racchiudendola nella sua. -Sono più screpolate del solito.-
Lei arrossì nell'esatto istante in cui lui intrecciò le loro dita sotto al tavolo, rimanendo a fissarlo con gli occhi sgranati e la bocca socchiusa per i seguenti cinque minuti.
Sapeva che lui era al corrente del fatto che lo stesse fissando, e che faceva di tutto per far apparire quel gesto disinvolto. Sorrise.
-Che ne dici di uscire stasera, Hebe?- chiese di getto Jack, guardandola con entusiasmo.
-È un'idea grandiosa!- gridò Megan, portando la mano curata al petto. -Potremmo andare in quel nuovo locale a...-
-Meg.- la interruppe lui. -Intendevo solo io e Hebe.- chiarì, non distogliendo gli occhi dai suoi imbarazzati.
Hebe vide la mano di Harry lentamente lasciare la presa dalla sua, e divenire un involucro di tensione bianca e serrata a pugno.
Tom spalancò la bocca, e annaspò mentre cercava le giuste parole da dire per evitare una catastrofe: che lui fingeva di provarci con Hebe andava bene, ma che un altro ragazzo tentasse di rimorchiarla era decisamente fuori discussione e soprattutto pericoloso. Davvero molto pericoloso per chi ci provasse.
Sapeva quanto Harry fosse protettivo nei confronti della gracile ragazza al suo fianco, e nonostante lui sapeva non lo avrebbe mai ammesso, era anche a conoscenza dei sentimenti che provava per lei.
Così scoppiò a ridere, tentando di smorzare la tensione.
-Stava scherzando!- esclamò. -Mi pare evidente!-
-Tom, sono...-
-Stavi scherzando, Jack.- lo fermò, con il sorriso sulle labbra ma con la voce intimidatoria di chi vuole far tacere. Hebe non capiva più niente.
Sapeva solo che Jack era confuso, Tom le sembrava spaventato e Harry era rigido al suo fianco.
-Posso sapere cosa sta succedendo?- chiese allora, con la solita voce amabile e flebile.
Harry iniziò a rilassarsi gradualmente appena lei parlò: il suono della sua voce lo calmava sempre.
-In effetti anche io non credo di aver capito granché.- biascicò Ty.
-Io ho capito tutto invece.- farfugliò Ethan.
-Illuminaci.- disse Megan, sbadigliando con grazia e poggiando il gomito sulla spalliera della sedia, le gambe accavallate. Hebe in quel momento desiderò con tutta sé stessa avere la sua femminilità, aggraziata e attraente.
-A tuo fratello la signorina qui presente piace parecchio. Mi sembra logico.- dichiarò, con guardandola con aria ovvia.
-Tuo fratello?- borbottò Hebe. -Jack è tuo fratello?-
 -Sono suo fratello, si.- sbuffò il diretto interessato, sviando le chiacchiere degli amici con un gesto della mano. -E preferirei dire io in prima persona ciò che mi riguarda, senza intermediari.- Lanciò un'occhiata di fuoco ad Ethan. -Allora, Hebe, ti va di uscire stasera?-
Harry, silenzioso e distaccato, si irrigidì nuovamente. Hebe non vi prestò molta attenzione, e si concentrò sul ragazzo dai capelli neri davanti a sé. Stilò mentalmente una lista dei pro e i contro che potevano esserci nel rispondere di si a quell'invito: in quel momento l'unico lato negativo che poteva esserci le sembrava proprio rifiutare.
Non aveva mai avuto un appuntamento, e, nonostante il suo costante imbarazzo, intendeva rimediare.
-Si.- esordì allora, vedendo gli occhi di Jack cominciare a brillare. -Mi va di...-
-Dobbiamo andare, scheggia.- la interruppe Harry, lasciandola allibita.
Si alzò di scatto dalla sedia, trascinandola con sé attraverso i tavoli. Hebe aggrottò le sopracciglia: -Ma che...-
-Tom, muovi il culo e vieni fuori tra cinque minuti!- gridò furioso Harry, girandosi per un attimo.
Hebe arrossì quando notò tutto il personale e i clienti volgere la loro completa attenzione sul ragazzo che aveva appena dato un pugno alla parete di mattoni del bar.
Tom strabuzzò gli occhi, e fece cenno ad una scettica Hebe di seguirlo.
-Andiamo.- sibilò Harry, severo, mentre la conduceva con fretta in un vicolo a poche decine di metri da quel bar isolato.


Pochi secondi e tutta la sua rabbia esplose.
-Come gli è saltato in mente?- gridò, a nessuno in particolare, camminando avanti e indietro e tirandosi ciocche di ricci con foga. -Io lo ammazzo. Giuro che questa volta lo ammazzo.-
Hebe lo guardava senza fiatare, stringendosi nel suo maglioncino di lana mentre sentiva il freddo pungente pizzicarle dolorosamente la pelle candida.
 Non capiva cosa stesse succedendo, ne tantomeno era sicura di volerlo: in quel periodo più cosa non sapeva, più stranamente stava meglio. Le ritornò per un momento l'immagine del cofanetto nell'armadio contenete il libro e il ciondolo, e deglutì forzatamente: quella era una delle poche cose a cui al contrario voleva trovare una risposta.
-Non posso crederci, Hebe.- tuonò all'improvviso, facendola indietreggiare. -Come puoi farmi questo?-
Hebe boccheggiò: -Io non...-
-Fammi indovinare.- la fermò, alzando un dito lungo e affusolato. -Non sai di cosa sto parlando, è così?- Rise istericamente, e scosse la testa. -E come potresti, d'altronde.-
Si voltò, lasciandola a bocca aperta, e cominciò a tornare sui suoi passi: se ne stava andando.
Chiuse gli occhi per un secondo, e gonfiò i polmoni. Non ne poteva più.
-È questo il problema!- urlò allora, raggiungendolo. -Non so mai di cosa tu parli, Harry.-
Lui si fermò, i capelli sconvolti in un groviglio di ricci e punte e la maglietta leggera che svolazzava spinta dal vento autunnale.
Non si voltò per guardarla, ma Hebe, a pochi passi dalla sua schiena, sapeva che aveva stretto la bocca in una sottile linea rigida.
-E sai perché?- chiese. -Perché ogni volta che iniziò un discorso che non ti piace, tu lo stronchi andandotene senza un motivo.- Prese fiato, e sentì i polmoni bruciarle quando l'aria fredda li invase. -Non puoi trascinarmi qui fuori e non darmi neanche una motivazione valida, non te lo...-
-Non lascerò che Jack ti sbatta sul sedile posteriore della sua auto, come una delle sue puttane!- gridò, girandosi. Hebe irrigidì l'addome.
I suoi occhi erano la cosa più oscura che avesse mai visto fino a quell'istante: tutto il verde che amava, che le lasciava vedere quando erano solo loro due, era stato sostituito da quell'oscurità che le faceva accapponare la pelle.
Poi si rese conto di quello che aveva appena detto.
Lo guardò, e le lacrime iniziarono a pizzicarle gli occhi chiari: come poteva pensare quelle cose di lei?
Improvvisamente il volto di Harry venne attraversato da un'ondata di risentimento e tristezza, e il verde riapparve: -Non volevo dire quelle...-
-Beh.- lo interruppe. -L'hai fatto.-
-Hebe, io...-
-Come puoi anche solo immaginare una cosa simile?- domandò, più a sé stessa che a lui. -Mi ha solamente chiesto di uscire, Harry.-
Lui sentì la rabbia scuotergli il petto, e solo il viso addolorato della piccola Hebe, lo fece calmare.
-Non uscirai con lui.- sibilò. -Non te lo permetterò.-
-Ti rendi conto di quello che dici?-
-Perfettamente.-
-Dio!- esclamò, sorridendo con scetticismo. -Mi farai impazzire prima o poi.-
Scosse la testa e mosse un passo, intenzionata a tornare indietro.
Harry scattò tanto velocemente che neanche se ne accorse; la prese per un braccio e la bloccò contro il muro di mattoni: lo spigoloso corpo di Hebe fu presto racchiuso in una morsa, che al posto delle tenaglie aveva il corpo asciutto del ragazzo per cui non sapeva cosa provava e una fredda parete che le graffiava le spalle.
-Non hai proprio capito, vero?- sussurrò, stringendo le dita in due pugni. Chiuse gli occhi e corrugò la fronte con angoscia: -Tu mi hai già fatto impazzire.-
Il mondo si fermò per un istante, per la piccola Hebe: non sentiva più freddo, non le importava dei mattoni che le stavano tagliando la schiena, i brividi cessarono e tutto ciò che il suo campo visivo le concesse di vedere era il volto del ragazzo a pochi centimetri dal suo. Come se il resto fosse confuso e sfocato, un groviglio di nebbia e cose indistinte, l'unica cosa che in quel momento riusciva a distinguere era lui. Lui, in tutta la sua completa imperfezione perfettamente giusta; i ricci sconvolti, la piccola cicatrice che nessuno sarebbe riuscito a trovare, la fossetta che incideva la guancia quando si corrucciava, come in quel momento. Neanche le importava più delle domande e dei pensieri che costantemente le vorticavano nella testa, confondendola più del dovuto.
 Aveva tracciato un confine tra il mondo esterno e il loro, e il piccolo spazio che si era creata la faceva stare bene in una maniera disarmante.
-Stai tremando.- sussurrò lui, tenendo gli occhi rivolti verso il basso. La mano che teneva poggiata al muro accanto alla sua testa fremette, e lui strinse le nocche: -Mi dispiace essermi dimenticato il cappotto, prima. Ho agito...-
-Tremi anche tu.- lo fermò, la voce appena udibile. -Hai freddo.-
Lui scosse la testa, e premette la fronte sulla parte di muro a pochi centimetri dal suo viso: le respirava accanto, facendole sentire i bollenti sospiri sulla base del collo. -No.-
-Perché stai stringendo i pugni?- chiese, ignorando il fatto che le avesse mentito; perché lui aveva freddo, ma non voleva allontanarsi da lei.
-Sto provando in tutti i modi a non toccarti.-
Soffocò la voce poggiando la bocca sulla sua spalla, e sospirò amaramente. Hebe alzò una mano e prese la sua, portandola verso il basso: intrecciò le loro dita, e lo sentì tremare ancora di più.
-Hebe.- la richiamò, cercando di sciogliere la presa.
Di tutta risposta lei strinse nella sua piccola mano anche l'altra, notando che le aveva premute così forte contro la parete da averle graffiate.
-Hebe.-
Lei inspirò a fondo, e posò un delicato bacio sulle sue nocche tumefatte.
-Hebe, ti prego.- la supplicò.
Hebe si corrucciò: la stava implorando di non toccarlo.
-Sono io che sto toccando te.- sussurrò allora. -Quindi non puoi rimproverarti di niente.-
Perché infondo lei aveva sempre saputo il motivo per il quale Harry si comportava in quel modo: lui aveva paura di farle del male.
Dal primo giorno in cui si erano incontrati, aveva sempre regolato metodicamente la forza che impiegava anche quando la sfiorava semplicemente. La riteneva così fragile, così piccola, che aveva la ferma convinzione che anche solo il più leggero dei movimenti avrebbe potuto ferirla.
La cosa che però non capiva, era che a lei faceva più male quando lui non la toccava; quando non la guardava neanche col terrore che lei scappasse dinanzi a tutto il buio che segretamente portava dentro, e che dopo diciannove anni gli faceva pesare il petto.
Fu un attimo: cacciò fuori tutta l'aria trattenuta e la strinse tra le braccia come se fosse l'unica cosa in grado di tenerlo in vita. Hebe tremò per pochi secondi, quando lui le prese il volto tra le mani e poggiò le labbra sulla sua fronte.
-Cosa mi stai facendo?- biascicò contro i suoi capelli.
Hebe vide le ombre scure al disotto dei suoi occhi più pronunciate, e la ruga preoccupata tra le sopracciglia farsi spazio sulla fronte.
-Harry...- sospirò.
-Niente.- la fermò. -Non dire niente, Hebe. Per favore.-
Avvicinò i loro volti con una lentezza che credeva potesse ucciderla: i loro nasi si sfiorarono, e le loro mani anche. Ma non accadde nient'altro.
Lui semplicemente chiuse gli occhi e si abbandonò al suono flebile dei respiri di lei che si mischiavano ai suoi, ed Hebe fece esattamente la stessa cosa, non pronunciando neanche una sillaba come lui le aveva chiesto.
Irreale era l'unica parola che le veniva in mente in quel momento. Irreale e perfetto.
Fino a quando però Harry non si allontanò di scatto, lasciando che il vento freddo ritornasse ad avvolgerla. Vacillò all'indietro, con lo sguardo perso nel vuoto ma comunque puntato su Hebe, e si fermò solo quando la sua schiena aderì al muro difronte a lei.
Lo guardò confusa, poi vide delle figure farsi spazio correndo nel vicolo: Tom e gli altri. Posò gli occhi su Harry, e la confusione mista ad un insana consapevolezza li riempirono.
Come aveva capito che stavano arrivando continuò a chiederselo all'infinito.
-Avevo detto cinque minuti.- sibilò il riccio quando l'amico gli fu accanto. Tom alzò gli occhi al cielo: -E tu hai fatto in modo che ora tutti sappiano chi siamo, complimenti.- balbettò, riferendosi alla scenata avvenuta all'interno del locale minuti prima. -Alla faccia della discrezione.-
Harry lo liquidò con un gesto della mano e si voltò verso Jack, avvicinandosi lentamente a lui.
Hebe sentì nel profondo che non stava per succedere nulla di buono.
-Mio Dio, starai morendo di freddo.- la rimproverò Megan, facendola sobbalzare, e le posò il cappotto sulle spalle. -Quel ragazzo è un immaturo.- continuò, guardando Harry, con lo stesso tono da mamma che aveva avuto con lei.
-Perché tu invece sei una donna a tutti gli effetti, giusto?- rise Ethan, andando loro incontro. Megan lo zittì alzando la mano e le sopracciglia con superiorità, ed Hebe sorrise.
-Andiamo!- dichiarò Tyler, facendo saltare Ethan sulla schiena e iniziando a correre.
Hebe sorrise ancora, questa volta sicura di non essersi sbagliata quando si era detta fin da subito che quelle persone erano speciali.
Iniziò ad avanzare verso la macchina di Harry, e salutò tutti con un sorriso generale.
-Hebe!- urlò Jack, prima che aprisse la portiera. Hebe si voltò confusa, e lo vide boccheggiare mentre cercava di prendere fiato dopo la corsa che aveva fatto per raggiungerla.
Rise, e poi disse: -Allora per stasera è sicuro?-
Improvvisamente desiderò scomparire, o sprofondare, o anche solo non essere mai nata: per quella sera era tutto sicuro?
Dopo ciò che era appena successo con Harry, poteva ancora dirgli di si?
L'unica cosa che fece fu dunque spostare gli occhi su un groviglio di ricci che li stavano raggiungendo. Jack seguì confuso il suo sguardo, e sorrise quando capì cosa stava guardando.
-Tranquilla.- le sorrise. -Mi ha solo fatto giurare di portarti a casa prima della mezzanotte.-
Hebe si sentì tradita e umiliata. E anche arrabbiata. Tradita, umiliata, arrabbiata, e piccola.
E quando Harry alzò gli occhi e la vide osservarlo, e le sorrise come se nulla fosse accaduto, si sentì ancora più minuscola.
E si chiese perché mai avesse pensato che quelle parole sussurrare attimi prima, e le sue mani che la stringevano, potessero significare qualcosa.
E una risposta non seppe trovarla.
Quindi si voltò nuovamente verso Jack, che la guardava impaziente e con gli occhi scintillanti, e nonostante sapeva che Harry li stava fissando non se ne curò.
-Si.- affermò allora. -A stasera.-
Lui le sorrise felice, e le baciò una guancia.
-Passo da te alle otto.-
Annuì, e aprì lo sportello entrando all'interno dell'auto un attimo dopo.
Guardò fuori dal finestrino gli altri salutarsi, Megan guardarsi le unghie con disinvoltura e noia, Ethan e Tyler parlottare tra di loro, Jack continuare a fissarla sorridente e Harry e Tom che si salutavano.
Si salutavano.
Aggrottò le sopracciglia cercando di capire perché.
Vide poi Tom avvicinarsi frettolosamente alla macchina, e abbassò il vetro.
-Mia dolce amica.- iniziò, sorridendole. -Credo di doverti salutare.-
Soffiò arricciando le labbra un capello biondo che gli era caduto dinanzi agli occhi e ritornò a guardarla.
-Ma...- borbottò.
-Torni solo con Harry, io accompagno Ethan a vedere un posto.-
Le strizzò un occhio e le scompigliò i capelli.
-Tom.- lo ammonì, pregandolo con lo sguardo di non lasciarla sola.
-Ti voglio bene, mezza sconosciuta!- urlò, arretrando e facendo spallucce.
Scosse la testa e sbuffò.
 Non le restava che aspettare il momento in cui sapeva sarebbe piombata nel più totale disagio; quel momento in cui avrebbero preso a vorticarle di nuovo tutte quelle domande nella testa.
 Alzò il viso pallido quando sentì la portiera al suo fianco aprirsi, e trattenne il fiato mentre lui entrava nella macchina con una velocità e una lentezza che ancora non capiva.
Aveva una precisione mirata in tutto ciò che faceva, e la velocità, i movimenti aggraziati e la leggerezza che aveva il suo corpo ne erano la prova. Allo stesso tempo però, quella velocità le sembrava di una lentezza disarmante: come se il suo occhio le permettesse di vedere attraverso due diversi punti di vista.
 Abbassò gli occhi quando lui la fissò.
 Poi anche Harry distolse lo sguardo.
 Stranamente però non accade nulla di ciò che aveva premeditato.
Lui semplicemente di sedette sul freddo sedile in pelle nera, inserì la marcia, e avviò il motore accendendosi poi la solita sigaretta col retrogusto di liquirizia; non le parlò neanche, le allacciò solo la cintura che si era dimenticata di mettere, con il mozzicone a penzoloni tra le labbra umide, e partì verso il dormitorio.
E lei non si ingolfò affatto la testa di pensieri.
L'unica cosa che si chiese era come potesse il silenzio essere a volte così rumoroso.




Angolo autrice:
MI dispicae. Per tutto.
Per i ritardi, per le promesse, per questa storia che credevo potesse salvarmi scrivendola.
Credo sia quasi un mese che non aggiornavo, e mi sento male al solo pensiero di quanta delusione ho riscosso in voi. Neanche scrivere mi fa stare più bene, adesso. Ho avuto problemi, sia fisici che psicologici, e stavo talmente male da non riuscire a buttare giù neanche due parole. Ma non voglio annoiarvi con le mie preoccupazioni, e finisco semplicemente col dire che solo grazie a voi ora sto meglio.
Perchè solo il pensiero di tutti i messaggi che mi avete lasciato in posta mi ha dato la forza di alzarmi dal letto e scrivere questo capitolo, che anche se non sarà grandioso, è almeno un inizio.
Quindi grazie, e spero vivamente che vi piaccia come un tempo e che mi facciate sapere cosa ne pensate. Mi rivolgo anche a voi mie piccole\i lettrici\lettori silenziose\i!
Vi mando un abbraccio e un bacio grosso come una casa!
VI voglio bene,
Abby_xx
 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** CAPITOLO XII ***


                                         CAPITOLO XII                                                                                               


-E così questa mattina sei uscita fuori dall'istituto, giusto?-
Hebe e John stavano camminando per i corridoi del dormitorio da più di un'ora. Restando in silenzio.
 Ed Hebe non era sicura di sentirsi a proprio agio.
 Avanzava con lentezza toccando con la punta delle dita affusolate il muro rivestito dalla tappezzeria.
 Appena tornata era subito scappata diretta all'ufficio di suo padre, senza neanche un motivo valido e senza nemmeno voltarsi per vedere l'espressione attonita di Harry; l'aveva trovato che vagava frettolosamente tra i corridoi. -Stavo aspettando che tornassi.- le aveva detto. -Vieni.-
E ora si ritrovava lì, all'ultimo piano e col rumore della pioggia e del vento che si scagliava sulle finestre, in un istituto nel bel mezzo del nulla accanto a un uomo che credeva fino a poche settimane prima, morto.
 A quelle parole ricordò in un attimo quando, ore prima, aveva conosciuto quei ragazzi e a quello che Harry le aveva fatto, a quello che le aveva detto.
 Ricordò la sua voce roca che le sussurrava flebili parole all'orecchio, e le sue mani che la stringevano, e le sue labbra che le baciavano la fronte; senza un tocco di malizia, come fosse una bambina. Arrossì.
-Mh.- annuì, distratta.
 John annuì a sua volta.
-In realtà non credo si possa definire un uscita a tutti gli effetti, la mia.- precisò accigliandosi, all'improvviso. -Sono andata in un bar, questo è vero. E c'era della gente.- Si corrucciò, e John sorrise. -Ma era pur sempre un bar sperduto, e Harry prima di acconsentire si è accertato che non ci fosse nessuno che potesse riconoscermi.-
 -Però sei uscita.-
 -Questo non posso negarlo.- biascicò, sospirando.
-E come ti è sembrato, fuori? Dopo tutto questo tempo, intendo.- chiarì, alla vista del suo sguardo perplesso.
 Si fermò per una frazione di secondo, e rifletté: non ci aveva ancora pensato.
-Mi ha ricordato casa.- sussurrò, riprendendo a camminare.
 -E non ne sei felice?- chiese lui, corrugando le sopracciglia folte.
 -Mi ha anche ricordato che tu a casa non c'eri mai.-
Pronunciò quelle semplici parole con estrema tranquillità, come se non sapesse che dirle avrebbe fatto provare ad entrambi la sensazione di star per cadere da un dirupo.
 John fissò gli occhi al pavimento, e socchiuse la labbra tanto simili a quelle della figlia.
-Non voglio sentire altre scuse, papà.- dichiarò ferma ma dolce, quando capì che stava per iniziare a supplicare ancora il suo perdono; perché infondo, nonostante tutto, lui l'aveva sempre avuto.
 Ed Hebe non gli rinfacciava nulla.
-Lo sai che lo facevo solo per il vostro bene.- sussurrò, vergognandosi di sé stesso.
-No, papà.- Scosse la testa. -Lo facevi solo per te.-
 -Scricciolo io...-
 -Ci sarebbero stati altri migliaia di modi per portare un po' di soldi a casa, quindi non usare questa come scusa. Per favore.- lo interruppe.
 -Hebe...-
-Non sono arrabbiata.- decretò, fermandosi di botto e voltandosi completamente verso suo padre. -Non ti rimprovero nulla. Tutti facciamo degli errori, e tu ti sei pentito dei tuoi. Questo mi basta.-
John la guardò, negli occhi la piena consapevolezza del coraggio che aveva la sua bambina, e non poté fare a meno di notare quanto bella fosse sotto le flebili luci attaccate alla parete.
 Guardò i tratti del suo volto, le unghie che grattavano le nocche, i capelli che le cadevano sotto alla curva del seno e gli occhi determinati ma umili uguali alla madre.
 Non è più la mia bambina, pensò sorridendo amaro, è una donna.
 Alzò una mano e le carezzò il volto.
 Sentì la gola farsi secca e gli occhi celarsi di rimpianti.
-Mi vuoi ancora bene, vero?- chiese, più a sé stesso che a lei.
 Hebe piegò il volto verso il palmo freddo del padre, e si corrucciò.
-Papà.- gemette.
 Si gettò sul suo petto, racchiudendogli il bacino con le braccia. Sentiva lo sterno di John vibrare contro la sua fronte, mentre provava a trattenere le lacrime sigillando le labbra tra loro.
-Ti prometto che tutto questo finirà, che Drake non ci darà più fastidio, e che saremo di nuovo io, tu e la mamma, Hebe. Farò di tutto per riavervi.- sussurrò contro i suoi capelli.
-Papà?- sibilò, tanto flebilmente che per un istante credette di non essere stata sentita. Ma poi John mugolò, e lei riprese. -Non è vero che mi sono abituata e che ora sono più forte. Mi manca la mamma.-
 -Lo so, bambina mia.- La voce gli si incrinò quando ripensò ad Adrienne. -Manca anche a me.-
 -Lei non ama Robert, non lo ha mai amato.- Alzò gli occhi verso il suo volto, e scosse la testa come una bambina. -Ama ancora te. Anche se non me lo ha mai detto, non ha mai smesso. Io lo so.-
John sorrise quando vide la speranza invadere la figlia quasi fosse stata una ventata d'aria fresca che aveva spazzato via le cose tristi.
 -E so che anche tu l'ami ancora.-
 -Ogni giorno.- sorrise. -Sempre un po' di più.-
E questo le bastò per credere d'essere un po' più felice.


 Prese un'altro bicchiere dal lavello e lo riempì con dell'acqua.
-Smetti di lamentarti.- lo rimproverò, passandogli una bibita. -Sembri un bambino capriccioso.-
 -Io non ti capisco!- si lamentò ancora una volta Tom, guardandolo con occhi confusi.
 -Non c'è nulla da capire.- Scrollò le spalle.
 -Davvero?- gli chiese, guardando accigliato come l'amico mentre portava alle labbra un sorso d'acqua e lo mandava giù con disinvoltura. -Ne sei proprio sicuro?-
 -Tom, sei noioso.- strascicò annoiato, osservandolo di traverso.
-Zitto.- lo ammonì -Voglio sapere perché hai improvvisamente cambiato idea sulla questione.-
Si alzò dalla sedia e puntò i palmi delle mani sul tavolo, fissando l'amico con fermezza, mentre lui semplicemente sorseggiava il liquido dal bicchiere come nulla fosse.
-Semplicemente non mi interessa.- dichiarò con fermezza, irrigidendo la mascella e alzando gli occhi verso il ragazzo avanti a sé.
 Lui si accigliò, e scosse la testa.
-Hai smesso di bere.- sussurrò poi.
-E questo cosa centra?- domandò, l'espressione cupa degli occhi ancora più profonda man mano che i secondi passavano.
-Hai smesso da quando lei è arrivata qui.-
 -Ho solo capito che bere del whisky il pomeriggio anziché della comune acqua era rischioso per la mia salute fisica.-
 -Non fare questo gioco con me, Harry.-
Il tono che utilizzò per formulare quelle poche, essenziali parole gli fece raddrizzare la schiena in un istante. Ed infondo, Harry sapeva benissimo che con lui sviare il discorso su altri argomenti usando frecciatine o battute taglienti non avrebbe funzionato come invece con chiunque altro.
-Perché continui a insistere, Tom?- chiese quindi, aggrottando le sopracciglia scure e alzandosi di botto.
 -Potresti fare qualcosa per impedire che questa sera lei esca con Jack!-
-Ma io non voglio!- tuonò. -Non posso permettermelo.- aggiunse, a voce sempre più bassa.
 Tom lo guardò per un istante, poi si sedette calando lo sguardo.
-Il mio compito è quello di badare a lei, e di tenerla al sicuro. Non di affezionarmi.- continuò, puntandogli un dito sul petto. -Non posso permettere che accada.-
 -Sappiamo entrambi che è già successo.-
Si immobilizzò all'istante, e per la prima volta da quando l'amico era entrato nella sua camera, non seppe cosa dire. Non poteva rispondergli con sufficienza, così come non poteva negare.
-Devi solo ammetterlo a te stesso.- proseguì, vedendolo abbassare la testa e lasciarsi cadere sulla sedia senza controbattere. -Anche lei prova lo stesso per te, e lo sai bene.-
Harry sentì un battito mancargli a quell'affermazione, ma fece finta di nulla; come ormai da troppo.
-Negandolo ad entrambi non farai altro che spingerla tra le braccia di qualcuno che non è chi dovrebbe essere.-
 -La conosci solo da un giorno.- sorrise scettico, una nota di amarezza a colorargli la voce profonda. -Non puoi sapere quello che prova.-
 -Ho visto il modo in cui ti guarda.- decretò. -Non mi serve conoscerla per capirlo.-
Harry alzò gli occhi, e li puntò in quelli dell'amico. -Smettila, Tom.-
Lui sorrise blasfemo, irato e compiaciuto allo stesso tempo, perché infondo sapeva di aver ragione, e si diresse verso la porta.
 L'aprì con uno scatto rapido del polso, e Harry quasi poté sentire il rumore dell'osso che girava il pomello tanta era la forza che aveva esercitato.
-Ricordati solo una cosa.- sussurrò, sospirando. -Devi andare avanti.-
E uscì.


 Harry rimase a rimuginare sulle parole che avevano lasciato la bocca dell'amico per i seguenti dieci minuti.
 Andare avanti.
 Le domande che lo tormentavano erano triplicate, ora: cosa intendeva Tom con questo? Credeva forse che fosse possibile dimenticare tutto come se nulla fosse mai accaduto? Dimenticare che la persona più importante della sua vita ora non era più accanto a lui?
 Iniziò a chiedersi se fosse davvero possibile, dimenticare. Se si potesse, col tempo, imparare a non pensare più a ciò che era successo.
 A spazzare via dalla mente e dal cuore momenti ed emozioni come fossero foglie secche.
 Ma lui non voleva farlo.
 Ricordarla era l'unica cosa che gli permetteva di non ridurre la sua vita a uno straccio di malsani vizi e ignobili passi falsi. Era la sola via di fuga da tutto quello che costantemente lo faceva sentire insignificante e colpevole. Colpevole di tutto; anche del fatto che lei non fosse più al suo fianco.
 Allora si alzò, e chiuse gli occhi quando si rese conto che, immerso nei pensieri, la rabbia gli aveva fatto stringere talmente forte il bicchiere che aveva tra le mani da romperlo in mille pezzi.
 Li raccolse con estrema lentezza, esaminando ogni scheggia che gli capitava sotto gli occhi quasi racchiudesse qualche oscuro segreto; si sciacquò la mano estraenti via i pezzetti di verto infilzati nel palmo, e la avvolse con della garza. Prese un respiro profondo, e si tenne in equilibrio sul marmo del lavabo della cucina sicuro che altrimenti sarebbe piombato al suolo.
 Sorrise inconsciamente quando si ricordò che, settimane prima, era stata la piccola Hebe a tenersi al marmo con la paura di un temporale e la caviglia slogata, nella sua casa in montagna.
 La sua immagine si piazzò nella sua mente senza che lui potesse far nulla per evitarlo; vide oltre le sue palpebre chiuse i suoi capelli quasi rossicci, le sue mani che si grattavano a vicenda quando era in imbarazzo, i suoi occhi timorosi e profondi, il suo corpo elegante e femminile nella sua estrema fragilità. I suoi movimenti, la curva delle labbra rosse quando rideva o semplicemente respirava. La delicatezza mista a decisione che aveva nel comportarsi, ma che si trasformavano in vulnerabilità e quasi sottomissione quando era lui a tenerla vicina.
 E poi ricordò che lei, quasi divenuta per lui una dipendenza, quella stessa sera sarebbe stata di qualcun altro. Di qualcuno che non meritava neanche un briciolo di lei.
 Non pensarci, si disse, non fare nulla di cui poi potresti pentirti.
 Aprì gli occhi e si voltò, diretto alla sua stanza. Percorse il corridoio barcollando, e non era sicuro di sapere realmente perché, e una volta giunto nella camera si inginocchiò dinanzi all'armadio aperto.
 Scavò nel suo fondo, spostando abiti e scatoloni, e quando trovò il cofanetto sospirò di sollievo.
 Ricordarsi di lei, per quanto Tom potesse credere gli facesse solo male, era in realtà una delle poche cose che lo facevano stare bene.
 Aprì il cofanetto; sentì il cuore fermarsi per un istante.
 Era tutto spartito.


 Hebe chiuse la porta col piede, e soffiò un capello che le era caduto dinanzi agli occhi dalla coda improvvisata.
 Un sospirò lasciò le sue labbra rosse mentre si dirigeva verso il bagno.
 Era ancora piuttosto sconvolta da quello che era stato l'ultimo argomento di conversazione con suo padre: l'uscita di quella sera.
 A quanto pareva Jack aveva chiesto il permesso a John di portare la figlia fuori a cena, e lui, scettico e sospettoso, gli aveva concesso un'unica opzione; il bosco dietro il dormitorio. Da quello che le aveva raccontato il ragazzo non gli era parso affatto deluso e, al contrario, aveva immediatamente acconsentito scusandosi per il disturbo e annuendo consapevole quando John gli aveva ricordato che Hebe non poteva uscire per la città come se nulla fosse.
 Arricciò le labbra in una smorfia ripensando al commento che aveva poi fatto: -Non voglio che sia Jack a riaccompagnati.- aveva detto. -Appena finito il tutto chiama Harry.-
Era stata cinque buoni minuti a discutere su quanto detto; non capiva sinceramente perché non potesse attraversare i trenta metri che separavano il bosco dalla porta d'ingresso dell'istituto da sola. Si sentiva trattata da stupida, e tutto ciò non gli andava affatto a genio.
 Forse però la verità era un'altra: non voleva che fosse Harry a trattarla da stupida.
 Aprì la porta del bagno, e la richiuse alle sue spalle con la stessa svogliatezza con cui l'aveva spalancata; chiuse la tendina della doccia mentre apriva l'acqua calda.
 Sciolse i capelli, calciò via le scarpe, tolse i vestiti e poi l'intimo, prendendo a guardarsi nello specchio dopo essersi sciacquata il viso. Sospirò.
 Senza trucco, con i lunghi capelli né biondi né rossi, i grandi occhi grigi, la pelle diafana e il collo scoperto, il corpo nudo esile e bianco come la neve, sembrava davvero una bambina.
 Chi non la conosceva le avrebbe dato quindici anni al massimo.
 E lei quasi si odiava per questo; per non avere la femminilità delle sue vecchie compagne di liceo, o la loro bellezza amazzonica, o anche semplicemente un minimo di quella spavalderia tipica della sua età.
 Non capiva di essere meravigliosa, forse anche più delle altre, proprio per quei dettagli che lei andava sempre a osservare con quella punta di disprezzo che non le si addiceva per niente. Proprio non lo capiva.
 La colpa però non era tutta sua: la gente era stata cattiva con lei, fin da quando aveva cominciato a capire che sarebbe diventata bellissima. L'avevano mortificata talmente tante di quelle volte che era arrivata a reputare bugie ogni sorta di complimento.
 Per questo in quel momento, sotto l'acqua bollente che le rendeva la pelle violacea, con la porta chiusa a chiave e le gambe rannicchiate al petto, teneva gli occhi chiusi e le mani incrociate sulle clavicole, sotto alla base del collo; perché quella che gli altri deridevano e vedevano come una bambina, aveva talmente tanta forza da riuscire a reprimere anche le lacrime.


 L'aveva sentita entrare e andare sotto la doccia, ma non si era mosso di neanche un millimetro.
 Aveva continuato a tenere la bocca stretta in una linea severa e gli occhi vitrei, immerso nei pensieri; era certo di aver riposto lì sia il libro che la catenina, quindi perché non erano più nel cofanetto?
 Per quanto si sforzasse non riusciva a trovare una spiegazione valida a quanto accaduto: nessuno sapeva di quegli oggetti nascosti segretamente; o almeno così sperava.
 Sentì l'acqua della doccia cessare di scorrere, e capì che Hebe doveva aver finito di fare ciò che stava facendo.
 Ripose con accortezza lo scrigno nella parte più remota dell'armadio, e si diresse verso il bagno.
 Nello stesso istante in cui lui allungò il braccio per bussare, la porta si spalancò, rivelando una piccola Hebe avvolta da un semplice asciugamano: gli occhi grandi e rossi, le lunghe ciglia bagnate e luminose, le labbra scure per l'acqua calda che le aveva toccate, le gote accaldare e i lunghi capelli grondanti.
 Poi scese con lo sguardo, e le gambe nude e le braccia scoperte gli fecero sentire la gola palpitare. Un calore immane lo avvolse totalmente, e improvvisamente credette di star per perdere la testa.
 Lei rimase immobile appena vide Harry dinanzi a lei; entrambi rimasero di ghiaccio.
 Lui non poteva di certo evitarlo: era la cosa più bella che avesse mai visto in tutta la sua vita.
 I secondi, i minuti passavano, e nessuno dei due, a distanza di pochi centimetri l'uno dall'altro, emetteva alcun suono. Si guardavano soltanto, con una naturalezza che fece sentire la terra mancare sotto i piedi a tutti e due.
 La guardò negli occhi, e le labbra gli pizzicarono talmente tanto da doverle stringere tra i denti fino quasi a farle sanguinare. Ricordò come si erano quasi toccare con le sue quella stessa mattina, e non riuscì a dire ancora una volta a sé stesso che tutto ciò non era significato niente. E, ancora una volta quel giorno, si rese conto di quanto sbagliato fosse che lei quella sera uscisse con Jack.
-Non credevo fossi qui.- sussurrò poi flebile lei. Lo studiò attentamente, e quando lo vide accigliarsi e scuotere la testa si accigliò di poco a sua volta.
-Io...- vacillò. La trovava talmente bella da sembrare irreale, e la concezione del tempo, così come l'uso delle parole, gli erano diventati sconosciuti. -Vado a prenderti dei vestiti.- concluse, tossendo imbarazzato.
 -Faccio io, tranquillo.- intervenne lei, appena lo vide indietreggiare.
 Iniziò a camminare e, una volta raggiunto, lo fermò prendendogli una spalla. Lui si voltò, e pregò affinché lei non notasse in che situazione l'aveva messo.
-Meglio che te li prendo io.- esordì roco. -La finestra in camera è aperta, e bagnata come sei ti prenderesti sicuramente qualcosa.-
Alzò lo sguardo sul suo volto, e quando vide che lo stava guardando lo riabassò immediatamente. Aveva visto talmente tante donne, ancora più svestite di quella che ora aveva davanti, e mai, mai, si era sentito così. Così a disagio, così accaldato, così inesperto.
Perchè era sempre stato lui a condurre i giochi, e adesso, a differenza delle altre volte, aveva l'impressione che lui fosse il burattino, e lei la burattinaia. E non si erano neanche sfiorati. -Io... Si, vado.-
Sparì per pochi secondi nella camera, e ritornò con velocità con una maglietta e un paio di jeans.
-Grazie.- borbottò Hebe, prendendogli dalle mani ciò che le aveva portato.
-Di nulla, scheggia.- strascicò lui, il respiro affannato come se avesse corso.
 Lei si voltò, dopo avergli rivolto un sorriso vacuo, e si diresse nuovamente verso il bagno.
 Harry rimase a fissare come i muscoli della schiena lasciata scoperta dall'asciugamano le si contraevano e distendevano mentre camminava.
 Si girò e chiuse gli occhi, poggiando con una forza immane una mano e la fronte contro la porta che lei si era appena richiusa alle spalle: non aveva mai avuto così tanta voglia di baciare qualcuno.
 Ed Hebe, dall'altra parte del legno, stava esattamente nella sua stessa posizione.
 La gola palpitava e le labbra pizzicavano anche a lei.

 Angolo autrice:
 Belle di mamma vostraaaaa! Sono tornata!
 Ora, tralasciando il piccolo e insulso dettaglio che a nessuno interessa granché, parliamo della storia!
 Perché, mie care lettrici, mi sono arrivati decine di messaggi in cui mi dicevano "Quando si mettono insieme?", "Quando si baciano?". "Faranno mai tuca tuca in Patagonia a cavallo di un rinoceronte strabico multicolore?"
 Ebbene, la risposta non ve la do:) Tittittattattò:)
 Sono sadica, i konw. Adesso però, cercando di ritornare a quel briciolo di serietà che forse ancora mi rimane, anche se in minima parte, oltre alle solite scuse che vi devo per il ritardo vergognoso di questo capitolo, che alla fine è anche pessimo, ci starebbe bene una motivazione: in primis, già sapete che non sono stata tanto bene, ma poi c'è da considerare anche la marea di interrogazioni e test che ho dovuto affrontare a scuola, e che mi hanno tenuta impegnata sui libri tutti i giorni a tutte le ore. Se ve lo state chiedendo si, la mia vita sociale si è ridotta a zero:)
 Mi dispiace se questo capitolo vi ha lasciate delusi ma prometto che farò del mio meglio per ricominciare a dedicarmici come prima:)
Una nuova cosa esce fuori, qui: il perenne disagio di Hebe con se stessa, la scursa autostima e la convinzione di non essere abbastanza. Tutto quello che solitamente si prova quando si ha quindici anni, ma che in lei perdura da tanto; è l'inizio di un bisogno necessario che ha di sentirsi amata, e che presto sfocerà in qualcosa di più grande. Altra informazione, è la chiara attrazione che oramai Harry prova per lei e che non può più negare neanche a se stesso, ma anche il suo attaccamento al passato che gli impedisce di andare avanti: chi sarà Kate quindi, e che cosa è successo? 
Lo scoprirete nella prossima puntata, mmmhmh:) 
 Fatemi sapere cosa ne pensate, vi prego!
 Un bacione,
 Abby_xx


Una ragazza mi ha chiesto di lasciare una piccola anticipazione, ebbene, ecco qui una frase che spero le farà fare sogni più lieti AHAHAH:
"...Per la prima volta. in quel momento, dopo quasi cinque anni, si sentiva leggera e viva. Si sentiva una donna."

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** CAPITOLO XIII ***


                                                                                                 CAPITOLO XIII                                                                               



Affacciato alla finestra, con la testa poggiata al muro alle sue spalle, guardava fuori: la luna gli sembrava più grande, quella sera.
 Luminosa, pallida, vicina.
 Così vicina che sentiva quasi di poterla toccare se avesse allungato una mano verso l'alto. Allora ci provò, e tese il braccio verso le stelle; quando le dita carezzavano il vuoto i suoi occhi si chiusero. Non era reale.
 Niente era reale.
 Poi si voltò, aprendo gli occhi, ed ebbe voglia di gridare. Lei era reale.
 Lei, nel suo vestito bianco che le ricadeva leggero sul corpo come fosse trattenuto da una forza esterna, con i capelli raccolti, le spalle scoperte e gli occhi grandi e la bocca rossa. Lei era l'unica cosa che credeva fosse reale in una vita che l'aveva portato a credere solo all' esistenza della menzogna e delle illusioni. E mentre la guardava, sentì che forse era anche troppo vera per essere sua.
 Sorrise a quel pensiero: era proprio per quel motivo che quella sera i suoi occhi attendevano ansiosi, e le sue mani si graffiavano impazienti per la paura di non essere abbastanza bella, per qualcuno che non era lui.
 -Smettila.- le disse, vedendola voltarsi dalla porta a lui. -Sta arrivando.-
 E tu sei bellissima, voleva aggiungere, ma lo tenne per sé.
 Scostò la schiena dal muro, e avanzò verso di lei.
 Il fiato gli si mozzò quando le fu abbastanza vicino da rendersi conto che in controluce il vestito che indossava sembrava un delicato telo trasparente posto con grazia sul suo corpo, e che questi era evidente al disotto con le fattezze di un'ombra. La gola prese a palpitargli come quel pomeriggio.
-Hebe.- esordì, con una voce talmente profonda e graffiata da farla fremere. -Preferirei che ti cambiassi.-
Vide la pelle d'oca formarsi sul suo petto, e le ossa dello sterno, evidenti nel chiarore lunare, vibrare all'istante.
-Grandioso.- sorrise -Sono ridicola.- sussurrò, abbassando il volto e stringendo in due pugni l'orlo dell'abito merlettato.
 Corrugò le sopracciglia e irrigidì la mascella; alzò il suo volto con un dito e la guardò negli occhi.
-Lo sei.- sibilò. Le sue pupille di dilatarono, e la consapevolezza le invase lo sguardo cristallino mentre lo rivolgeva nuovamente verso il basso. -Ogni volta che pensi di esserlo.- aggiunse, prendendole il viso tra le mani; e in quel momento tutto quello che voleva era stringerla a sé. Ma sapeva di non poterselo permettere.


Hebe tremò quando le baciò una tempia, e credette che il suo petto stesse per scoppiare nel l'esatto istante in cui con l'indice le sfiorò il collo.
 Chiuse gli occhi per un attimo, e decise che, per quanto sbagliato potesse essere, quei minuti li avrebbe dedicati alla singola presenza, infinitamente scura e allo stesso tempo maestosamente limpida, del ragazzo che ora le stringeva una spalla.
-Vai.- le sussurrò ad un orecchio; non capì se era stata la sua immaginazione o meno, ma ebbe l'impressione che la sua voce fosse divenuta improvvisamente grave.
 Alzò il volto, e si accigliò confusa.
 Harry si voltò verso le stelle, dandole le spalle, e si sfregò il volto con i palmi delle mani.
 -Il vostro cavaliere sta bussando, milady.- sorrise ironico, girandosi; prese dalla tasca una sigaretta e l'accese con lentezza. -Non vorrai farlo attendere.-
Si mise al suo fianco, e espirò un cerchio di fumo.
-Io, non..- balbettò.
-Tu, non?- chiese. Si abbassò verso il suo viso, e quando mancarono pochi millimetri a dividerli si fermò. -Non devi dimenticare niente, scheggia. Niente.-
Hebe rimase qualche secondo con la bocca socchiusa e le guance accaldate a guardarlo, non capendo a cosa volesse alludere, e le ci volle qualche secondo prima di rendersi conto che qualcuno stava bussando.
 Lisciò l'abito che indossava, distogliendo lo sguardo dal suo e deglutendo, prima di dirigersi verso l'uscita. Girò per un secondo il volto, cercando la sua approvazione nonostante sapesse non ve ne era un motivo: ma lui era sparito.
 Chiuse le palpebre sospirando, e aprì, consapevole che non avrebbe mai capito i suoi comportamenti.
 -Io non volevo fare tardi, lo giuro. Ma Megan si rifiutava di farmi uscire dalla camera.-
 Un affannoso, elegante e bellissimo Jack era ora dinanzi a lei, chino su sé stesso per riprendere fiato, e la guardava sorridente con dei fiori stretti tra le dita. Glieli porse di slancio, rendendosi conto di averli ancora tra le mani, e lei sorrise sinceramente divertita.
-Non fa niente.- gli sorrise. Guardò i fiori, e allargò ancora di più il sorriso. -Margherite.- esclamò. -Come sapevi che erano le mie preferite?-
Jack drizzò la schiena e le strizzò un occhio, piegando il braccio per ospitare il suo. -Fortuna.-


Quando Jack si chiuse alle spalle l'immenso portone del dormitorio, un brivido le percorse la spina dorsale: era da qualche minuto che continuava a domandarsi se fosse davvero all'altezza di un vero appuntamento, senza riuscire a prestare attenzione a quello che lui le diceva.
 -Andiamo?- chiese poi, continuando a sorriderle.
 Sembrava un bravo ragazzo, dopotutto, pensò, quindi perché non provare a sembrare normale, per una sera? Perché non fingere di essere una ragazza qualunque che usciva con un ragazzo altrettanto comune?
 Allora annuì, e lo seguì verso il bosco.
 Le erano sempre piaciuti i posti come quello: solitari, misteriosi, sotto certi aspetti quasi lugubri, ma che lei riusciva a vedere solo magnifici.
 Gli alberi che sembrava toccassero il cielo, il rumore delle foglie che scricchiolavano quando le calpestava, i rami in cui si impigliavano i capelli e i sentieri naturali che quasi parevano progettati apposta. Trovava tutto così magico.
-Ora devi chiudere gli occhi.- sussurrò lui all'improvviso, facendola sobbalzare. Le prese la vita, tirandola verso il suo petto, e le mise le mani sul viso, per coprirle gli occhi.
 Lei sorrise ancora una volta, e posò a sua volta le sue mani affusolate su quelle di lui.
 Magari si sarebbe divertita, pensò, mentre ridevano per non cadere, anche se non era lui.


-Allora, Hebe Watson, prossima domanda.-
 Hebe era seduta nel mezzo di un bosco, di notte, su una tovaglia verde bottiglia accanto ad un ragazzo che la faceva ridere.
 Ricordò che quando Jack le aveva tolto le mani dagli occhi, aveva creduto di sognare: una cena a lume di candela, sotto le stelle, con le luci di Natale attorno ai rami degli alberi e i petali delle margherite in ogni dove.
 L'aveva guardato e aveva pensato a quanto si dovesse essere impegnato per mettere sù tutto quello spettacolo, solo per lei. E le era quasi venuta voglia di andare via, perché aveva pensato che nessuno si era mai impegnato tanto per sorprenderla come aveva fatto lui, e lei stava pensando ad un altro. Si sentiva una traditrice, e le dispiaceva da morire, perché sapeva cosa significava sentirsi traditi. Ricordò di averlo abbracciato e di avergli detto grazie tante di quelle volte da farlo ridere e dirle di smetterla, e aveva deciso che per quelle poche ore che avrebbe passato in sua compagnia, avrebbe provato a concentrarsi unicamente su di lui.
 Si erano accovacciati al suolo, e avevano iniziato a parlare, di tutto e di niente, e quando lui aveva aperto il coperchio del cestino Hebe aveva sorriso ancora di più perché le aveva cucinato tutti i suoi cibi preferiti; ad un certo punto della serata Jack le aveva proposto di scambiarsi domande a turno, alle quali dovevano rispondere con la più completa sincerità. Le era venuto in mente che da bambina ci giocava sempre, e allora aveva accettato.
 -Come fai?- le chiese, infilando in bocca un acino d'uva bianca.
-A far cosa?- domandò, stringendo tra le dita dei petali.
 -Ad avere accanto la persona che ami, e fingere che sia tutto normale.- rise, mettendole un fiore tra i capelli.
 Lei sorrise, le guance leggermente colorate di rosa, e alzò le sopracciglia.
-Ci consociamo da così poco e già credi che sia innamorata di te?-
 -Mi sembra lecito.-
 -Presuntuoso.- lo corresse.
-Forse.- acconsentì, ridendo. -Ma, per quanto ne potrei essere onorato, non ero io quello di cui stavo parlando.-
I suoi occhi improvvisamente scuri la fecero corrucciare, e imbarazzare, ma quando rivolse lo sguardo verso le sue labbra, e vide che erano piegate in un appena accennato e dolce sorriso, drizzò la schiena.
 -Non c'è nessun altro qui, no?- scherzò dunque, alzando le spalle.
 Jack scosse la testa, e la sua espressione le fece pensare a qualcuno che anche se sapeva qualcosa che faceva male, lo accettava comunque.
-Qui no.- assentì, aprendo le braccia e guardando ovunque. -Ma qui si.- continuò, picchiettandole un dito sulla fronte.
 Hebe balbettò, non sapendo né come reagire né tantomeno dove la sua insinuazione volesse arrivare, sentendo un calore scottante invaderle il corpo e la mente; non sapeva con esattezza se fosse imbarazzo, o semplicemente la menzogna che usciva allo scoperto.
-Non volevo farti arrossire.- Vacillò. -Ma andiamo, ho capito benissimo che non sono io il fortunato con cui avresti voluto passare questa serata.-
 -Jack, io...-
 -Hebe.- la interruppe. -Il tuo cuore è padrone di scegliere a chi concedersi, e sappiamo entrambi che quel qualcuno non sono io.-
Lo guardò, puntando i suoi occhi grandi e cristallini in quelli di lui così dolci ed espressivi, e capì quanto intelligente e perspicace fosse. Quanto dolce, inattaccabile, consapevole e maturo le sembrasse, nonostante lo conoscesse da così poco tempo. Ma soprattutto capì quanto grata le fosse, per aver compreso così rapidamente che, per quanto faticasse ad ammetterlo, una parte di lei avrebbe sempre desiderato una sola persona. Ovunque fosse stata, con chiunque avrebbe passato le notti e i giorni, qualunque cosa avesse fatto, lui avrebbe sempre popolato i suoi pensieri; e lei non poteva fare niente per impedirlo.
-Non ne sono innamorata, Jack.- esordì, posandogli una mano sulla spalla. -E mi dispiace tanto.- proseguì, sentendo la propria voce spezzarsi come carta.
 Perché davvero le dispiaceva, più di quanto avrebbe immaginato. Le dispiaceva di aver dato false speranze a una persona gentile come lui, anche se solo per una sera, e di non essere stata abbastanza coraggiosa da ammettere a sé stessa ciò che realmente sentiva.
 -Io e Harry siamo sempre stati in conflitto, sai?- le disse, ridendo appena. -Abbiamo sempre palesato il fatto che non ci piacevamo.-
 -Non..-
-Ogni volta che conoscevo una ragazza, con il suo fascino e il suo essere così misterioso lui me la portava via.- continuò, ignorando il suo tentativo di fermarlo. -Gli piaceva comportarsi male, stuzzicare la gente, indurla al suo volere con trucchi che mai nessuno avrebbe capito. Ma il suo sarcasmo, il suo inviolabile scudo di egocentrismo, mistero e sfacciataggine, facevano sì che chiunque lo incontrasse, per quanto male lui potesse fargli, lo amasse incondizionatamente. Ha qualcosa, qualcosa che ti porta a non poter fare a meno della sua presenza.-
Prese un respiro profondo, e in quella frazione di secondo in cui l'unico suono che si sentì fu quello del fruscio delle foglie, Hebe ebbe la sensazione che il suo cuore si stesse contorcendo.
-Ma con te è diverso. Lui lo è.- le sorrise. -Tu sei così, così...-
 -Jack...-
 -Volevo portarti via da lui, per fargli provare quello che ho provato io. Almeno una volta volevo essere io ad averla vinta.- Sorrise, le prese una mano, e la carezzò delicatamente. -Ma ho solo capito quanto avrei sbagliato, perché nonostante tutto io gli voglio bene.- aggiunse velocemente, prima di alzare lo sguardo verso il suo. -Perché ho visto come ti guarda, e nei suoi occhi ho ho letto la felicità.-
Hebe trattene il fiato, a quelle parole, e le parve che la gola avesse preso a bruciargli, come se il fiato fosse bollente.
-Me ne rendo conto solo ora, e ti chiedo scusa per questo.- sussurrò, posando un bacio sul dorso della sua mano.
-Sei una brava persona, Jack.- sibilò, non sapendo cos'altro dirgli.
 -Ognuno ha i suoi difetti.- rise.
 E mentre si stringevano in un abbraccio, entrambi con un peso in meno sul petto, Harry li guardava da lontano e ingoiava un altro sorso di liquore, e sentiva che a lui se ne stava appena formando un altro all'altezza del cuore.


 Qualcuno immerso nel buoi pesto del bosco batté d'improvviso le mani, facendoli sussultare.
-Che scena romantica.- biascicò con voce roca. -Non credevo potessi essere capace di tanto.-
 -Harry.- sospirò Hebe, posandosi una mano sul petto per riprendersi dal momentaneo spavento. -Che fai qui?-
 -Sono il tuo cocchiere stanotte, ricordi?- disse. -Il tempo è scaduto, la carrozza sta per diventare zucca, i topolini dei cavalli e io mi sono stancato.- Si inchinò facendosi cadere sul jeans del liquore dimenticato sul fondo della bottiglia. -Merda.- imprecò, voltando la bottiglia verso il basso e scuotendola. -È finito.-
 -Sei ubriaco.- borbottò Jack, alzandosi in piedi e tirando Hebe al suo fianco. -L'accompagno io.-
 -No.- sussurrò lei, stringendogli una spalla; gli sorrise e lo ringraziò con lo sguardo.
 Si incamminò verso Harry, barcollante e gemente, e fece per prendergli un braccio; ma Jack fu più veloce, e la tirò indietro prima che potesse anche solo sfiorarlo.
-È questo il tuo modo di prenderti cura di lei?- chiese. -Puzzi di Jack Daniels.-
 Lui contrasse il viso in una smorfia: -Non berrei mai qualcosa col tuo nome.-
 -Vieni, Hebe.-
-Levati!- tuonò Harry, la voce un grido graffiato che lacerava l'aria, spingendolo all'indietro e facendolo piombare sul terreno con un tonfo. -Levati, cazzo!-
Hebe urlò quando cadde, e fu come vedere la scena dall'esterno, a rallentatore: i bicchieri di vetro alle sue spalle, i suoi occhi che si spalancavano per la sorpresa, la mano che lasciava la sua piccola e pallida e lui che perdeva l'equilibrio e finiva col ritrovarsi un braccio sanguinante; i pezzi di vetro ora rossi, e che riflettevano sotto le luci il loro colore negli occhi di Hebe.
 Non le piaceva il sangue.
 Jack inspirò, estrasse dalla carne le schegge e si alzò in piedi: -Come vuoi.-
Non la guardò neanche, prima di voltarsi e iniziare a camminare verso l'istituto, e lei continuò a guardare la scia rossa che percorreva il suo avambraccio anche quando sparì nell'ombra. Si voltò verso Harry, e scosse la testa.
 -Andiamo a casa.- disse, prendendogli un braccio.
-No.- sibilò. -Voglio restare qui.-
Hebe sospirò, e per qualche secondo restò a guardarlo. Notò che era bello anche ridotto in quel modo.
-Andiamo.- ripeté.
-Ha già fatto breccia nel tuo cuore, vero?- strascicò, gettando la bottiglia vuota a terra. -Chi credi che gli abbia detto che ti piacevano le luci di Natale, eh?-
 -Harry, andiamo via.-
 -O che le margherite erano i tuoi fiori preferiti?-
 -Smettila, sei ubriaco.- sibilò.
 Lui rise istericamente e poi digrignò i denti, colpendo un albero con una mano. I ricci gli caddero davanti agli occhi, e il verde che li riempiva divenne più profondo di quanto credeva potesse accadere.
 -Sono lucidissimo.-
-Non sai quello che stai dicendo, hai bisogno di riposare.- sussurrò flebilmente, indietreggiando quando lui le corse incontro.
-Non ti sopporto più!- urlò. Le strinse le mani attorno alla vita e la spinse fino a farle sbattere la schiena contro la corteccia di un albero.
 Trattenne il fiato quando sentì la spina dorsale colpire il legno, e per un secondo la vista le si appannò e le sue grida divennero ovattate.
-Non sopporto più quello che mi stai facendo!- continuò a gridare, a un millimetro dal suo volto, la pressione delle mani sul suo corpo che aumentava ad ogni sillaba. -Non ne posso più, Hebe!-
E smise di gridare.
 Lei era assente, ma concentrata su di lui. La sua mente vorticava, le sue pupille si dilatavano e il respiro le usciva affannato come il ragazzo che aveva dinanzi a sé. E tutto quello a cui riusciva a pensare era che non aveva paura. Lui le gridava contro, schiacciandole il corpo con il suo, e lei riusciva solo a chiedersi perché non provasse niente se non affetto.
 Harry strinse gli occhi, e la sua voce risuonò come un lamento: -Perché sono pazzo di te, e tu non te ne rendi conto, e io questo non lo sopporto.-
Le prese una ciocca di capelli e avvicinò il suo volto a quello di lei, carezzandoglielo con una delicatezza che paragonata alle sue grida era un paradosso, e lei non riuscì a pensare a niente.
-E tu sei così bella.- sussurrò. -Giuro che sei bellissima.-
Nella sua voce le parve di cogliere un qualcosa di disperato, ma non sapeva perché.
 Le baciò la gola, abbandonandosi contro di lei, e le sfiorò l'esterno della coscia sollevandole di poco l'abito leggero.
-Sei così bella.- ripeté. -Non voglio che tu vada via.-
 -Harry.- fremette, quando lui strinse ancora di più i loro corpi.
 Poggiò la fronte su quella di lei, e lasciò che il suo respiro affannato le colpisse la bocca rossa. Si sporse verso le sue labbra, sfiorandole con una lentezza che le fece perdere le forze, e le prese le mani unendole e portandosele sul petto.
-Ho voglia di baciarti.- biascicò levandosi la giacca. Dovette smettere di guardargli la bocca scura per rendersi conto che le stava poggiando con accortezza il giubbotto sulle spalle: non si era neanche accorta di star battendo i denti dal freddo.
 Chiuse gli occhi quando tirò i lembi verso di sé, facendo urtare i loro petti.
 Lasciò che la mente si svuotasse, che il respiro fuoriuscisse affannato e che il calore del suo fiato riscaldasse entrambi. Per la prima volta. in quel momento, dopo quasi cinque anni, si sentiva leggera e viva. Si sentiva una donna.
 Il freddo l'avvolse d'improvviso completamente; aprì gli occhi frastornata, e vide che Harry si era allontanato, e la stava guardando bramoso, le gote accaldate. -Ma meriti di più.-
Si voltò, camminando troppo correttamente per aver bevuto un intera bottiglia di liquore, e lei trattenne il respiro quando capì che se ne stava andando via.
 Un prurito fastidioso le percorse tutto il corpo: quella volta non si sarebbe fatta lasciar trattate come una bambina. Si stava sentendo finalmente donna, e non gli avrebbe permesso di lasciarla sola ancora.
 Quindi i suoi piedi si mossero decisi, senza neanche che lo prevedesse, come se il suo corpo avesse acquisito una volontà separata dalla sua, e si diressero verso di lui.
 Gli agguantò il polso, voltandolo con una forza che neanche credeva potesse avere, e gli prese il viso tra le mani: -Decido io cosa merito.-
E lo baciò. Lo baciò come se fosse l'unica cosa in grado di tenerla in vita.
 Unendo la forza alla disperazione e la dolcezza alla passione in una maniera esasperante. Strinse i loro corpi quasi a volerli plasmare in uno solo, e quando lui sospirò contro le sue labbra e l'avvolse in un abbraccio credette di riuscire a toccare le stelle.
 I respiri che si fondevano in un unico, caldo e febbrile, le mani che esploravano i loro corpi, il palpitare accelerato dei loro cuori che quasi battevano all'unisono; si sentiva così bene.
-Diamine, Hebe.- sussurrò lui, la voce graffiata, mentre assaporava con dolcezza le sue labbra arrossate.
 Harry la baciò con attenzione, con delicatezza, anche se non era la delicatezza che Hebe voleva, non dopo tutto quel tempo.
 Unì i loro corpi con forza, nonostante trovasse difficile respirare; voleva solo restare così più tempo che poteva.
 Harry gemette piano, un roco rumore dal fondo della gola, e nonostante i vestiti, lei sentiva il calore del suo corpo bruciarle la pelle.
 Gli prese le mani, toccando le sottili cicatrici che le adornavano come sottili fili in rilievo: immaginava in che modo se le fosse procurate, pensando che se per gli altri sarebbero dovute apparire come imperfezioni, per lei erano solo bellissime.
 Nell'esatto istante in cui con riluttanza si allontanarono, solo per riprendere fiato, lo guardò: i suoi occhi, per la prima volta da quando lo conosceva, gli sembrarono più vivi; quegli occhi che tanto temeva ma che era tanto curiosa di guardare, divennero tanto profondi e oscuri quanto limpidi e luminosi.
 Unì le loro fronti, e sentì il cuore sorriderle.
-Non dovremmo.- sibilò poi lui.
-Perché?-
 -Non voglio farti del male, Hebe.-
 -Non me ne farai.- sussurrò, baciandolo un ultima volta.
 Lui sospirò, capendo che era impossibile allontanarsi da lei, o anche solo provarci.
 E mentre univano le loro labbra in un'ennesimo bacio, capì anche che non vi era bisogno di toccare la luna o le stelle per essere felice; aveva già lei.



Angolo autrice:
Okay, la cena è pronta e mia mamma ha detto che se non vado subito a tavola mi proibisce di leggere un ennesima volta "Orgoglio e Pregiuzio" della Austen. Capitemi, devo sbrigarmi. Quindi non mi dileguerò in chiacchiere inutili come al solito. Andando al sodo, dunque...
SI SONO BACIATI. Ballate la macarena, galoppate felici su unicorni colorati su una pianura di candide nuvole, cantate We Are The Champions a squarciagola o piangete esauste: BASTA CHE MI FATE SAPERE SE VI E' PIACIUTO!
Non volevo deludere nessuno, e con tutte le idee che gironzolavano nella mia mente bacata ne ho dovute scegliere solo alcune, quindi spero vi piaccia anche se non è ricchissimo di dettagli!
Ora vado, altrimenti mi strappano i capelli:)
Vi bacio!
Abby_xx

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** CAPITOLO XIV ***


Per favore, leggete la seconda parte dell'Angolo Autrice, è importante. Vi voglio bene, buona lettura.

                                                                                       CAPITOLO XIV




La osservava da tempo immemore. Stava fermo a guardarla da minuti, forse ore; ma non gli bastava mai.
 Pensò alla notte precedente, alle sue gote rosse e alla luce che quasi gli sembrava vedere nel buio mentre si addormentava con lei al suo fianco. Ricordò che, per la prima volta, in quel letto non furono le loro mani l'unica cosa che si sfiorò.
 Ricordò come si sentiva colpevole, di averle sussurrato quanto fosse tutto tremendamente sbagliato, e di averla baciata mentre lo diceva: e lei aveva socchiuso gli occhi, e aveva sospirato abbandonandosi a lui.
 La voleva da così tanto. La voleva così tanto.
 Le carezzò i capelli, baciandole la fronte prima di alzarsi.
 Si infilò il giubbotto di pelle scura e la guardò un ultima volta: era ancora più bella mentre dormiva.
 I lunghi capelli rossicci sparsi sul cuscino bianco, la mano poggiata sul petto, vicino la gola, e lo stesso abito sgualcito della sera prima che quasi si confondeva con le coperte. La pelle diafana, il naso piccolo e le lentiggini che la facevano apparire così fragile.
-Che ho fatto.- sussurrò, strofinandosi il volto con i palmi delle mani.
 Lui non poteva farlo, tantomeno non con lei. Non poteva sentirsi così vivo, felice, con qualcuno; non lo meritava.
 Chiuse gli occhi per un istante, e cercò di fingere di non aver provato tutti quei sentimenti che invece gli avevano perforato il petto: provò a pensare che davanti a lui in quel momento vi fosse qualcun altro, che ancora lo guardava e gli sorrideva carezzandogli il braccio come tempo prima. Immaginò la sua voce vellutata che gli sussurrava va tutto bene, e le sue braccia confortanti che si avvolgevano attorno al suo busto.
 Ma Kate non c'era più. E immaginarla non era come averla davvero al proprio fianco.
 Quindi aprì gli occhi, e guardò l'armadio aperto in cui era risposto il cofanetto, ora vuoto, con sconforto.
 Uscì dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle. Doveva andare da lei.

Un fuoco di luce bianca la travolse, con così tanta forza e luminosità che per un istante credette di aver perso la vista. Fu come sentire la propria pelle staccarsi dalle ossa, le viscere sciogliersi e il sangue nelle vene evaporare: un tremendo dolore, e poi il nulla. Si sentì leggera e vulnerabile, talmente fragile da poter essere spazzata via dal vento. Alzò gli occhi; i denti le cominciarono a battere quando, davanti a lei, si dischiusero due ali. Enormi, magnifiche e terrificanti. All'improvviso si piegarono all'indietro, lasciando che la sagoma completamente investita dal sole di un ragazzo potesse divenire visibile. Occhi verdi e scuri, l'unica cosa distinguibile in quell'ammasso di bianco, oro e argento, che la guardavano con una serietà e una forza che la fecero sentire piccola come un granello di sabbia. L'Angelo sorrise, crudele e amabile al tempo stesso, e le tese una mano. Era coperta da minuscole cicatrici bianche, le nocche livide.
 Si sporse per afferrarla; e cadde nel vuoto.
 Aprì la bocca per gridare, ma tutto ciò che fuoriuscì dalle sue labbra fu un respiro soffocato. Pensò come dovesse essere, morire. Ma non aveva paura. Non ora che l'aveva visto. Poi lui la prese; con quelle stesse mani coperte di cicatrici. Stringendole il polso con forza e tirandola verso di sé nell'esatto momento in cui le mani livide sotto i suoi piedi nudi stavano per ghermirla.
 Alzò lo sguardo, e l'Angelo dagli occhi verdi avvolse entrambi nelle sue ali e le sorrise: -Harry.-

Il sonno le venne strappato via con violenza, facendole perdere il fiato.
 Aprì gli occhi, ansimando come ogni volta in cui si risvegliava da quel sogno privo di finale. A differenza di quella volta. Per la prima volta da quando avevano iniziato a tormentarle la mente, quelle immagini erano giunte ad una conclusione.
 E l'Angelo che credeva la lasciasse cadere nell'oblio, in realtà le salvava la vita.
 Sapeva di averlo guardato in viso, nonostante la luce accecante che emanava le bruciasse gli occhi chiari, e di averlo riconosciuto, ma non ricordava chi fosse.
 Guardò al suo fianco, cercando conforto. Ma quella mattina lui non era lì; come tutte.
 Carezzò con delicatezza la parte del letto su cui aveva risposato, venendo pervasa dall'odore pungente e inebriante che sempre si portava dietro.
 Si stese nuovamente, e abbracciò il cuscino che gli aveva sorretto la testa quella notte, chiudendo gli occhi e sorridendo al pensiero che la sera prima tra le sue braccia vi era il suo torace caldo e non un ammasso di piume.
 Quando le tornarono alla mente quei ricordi le guance le si dipinsero di rosso. Al pensiero che l'avesse baciata, che lei fosse stata baciata per la prima volta, da lui; che l'aveva stretta con così tanto amore da farle temere il crepacuore. Sospirò sorridendo.
 Si srotolò le coperte fini da dosso alzandosi, e tese le braccia spigolose verso l'alto per stiracchiarsi.
 Quando fu sul punto di superare la porta che divideva la sua camera e il corridoio, una luce cupa si impadronì del suo viso.
 Corse verso il materasso, alzandolo con talmente tanta disperazione che le mani le tremavano. L'idea che quella mattina lui non fosse al suo fianco poiché aveva trovato ciò che aveva nascosto, le fece accapponare la pelle.
-Ti prego.- strascicò, gli occhi lucidi, stringendo i denti e scavando sotto la rete.
 Spinse il braccio talmente tanto forte da lacerarsi la pelle col filo metallico che sporgeva dalle rientranze. Trattenne il respiro per non gridare, e quando tastò alla ceca un oggetto, lo tirò fuori con velocità. Più per dolore che per sicurezza.
 La scritta dorata Aforismi le invase la vista.
 Aprì il libro nella sua parte centrale, e quando trovò la catenina d'argento si sentì morire.
 Avrebbe preferito che l'avesse trovate lui, quelle cose; in modo da liberarsi dal peso della menzogna.
 La realtà era che non v'era neanche una ragione concreta per cui lei aveva risposto quelle cose con accortezza e segretezza. Aveva solo pensato che l'aveva fatto lui prima di lei, e che voleva solo sapere perché. Perché nascondere due oggetti così semplici, ma al contempo unici, alla vista di tutti. E soprattutto perché su entrambi era sottinteso il nome indelebile di Kate, e chi era lei.
 Rispose il libro sotto al materasso, e guardò la catenella.
 Sospirò, e dopo attimi di tensione, la legò al collo facendo scendere il ciondolo sullo sterno.
 Non era gelosia, quella che provava, solo paura. Paura di qualcosa più grande di lei, che ancora non poteva sapere le avrebbe distrutto l'anima.

-Guarda il lago, figliolo. Guardalo e dimmi cosa vedi.-
 Margaret l'aveva portato ancora una volta sulla riva del lago poco distante dalla sua piccola casa immersa nel verde. E ancora una volta lui non sapeva cosa risponderle.
 Andava da lei la maggior parte delle mattine, all'alba, da neanche ricordava quanto tempo.
 Si poteva dire che per certi versi l'aveva cresciuto lei, con le sue maniere da vecchia eremita burbera, e nella sua casetta dispersa tra le montagne che sembrava appena uscita da una fiaba per bambini.
 -Vedo dell'acqua Margaret.- rispose, fingendo interesse e stupefazione. -Tu cosa vedi?-
Lei fissò lo sguardo impenetrabile sull'acqua limpida, e accigliò il volto rugoso e invecchiato in un cipiglio severo.
-Vedo ciò che la mia anima riflette.- sibilò. -Ciò che oltre il mio occhio posso vedere.-
Lui annuì compiaciuto, e un sorriso beffardo fece capolino sul suo bel viso: -Suppongo che tu sappia anche leggere il futuro.-
 -Ragazzo.-
 -È cosa da poco, per una che è in grado di leggere ciò che riflette la propria anima sulla superficie di un lago, no?-
 -Se sei qui per gettarmi contro i tuoi insulsi atteggiamenti beffardi e intimidatori, sei libero di andartene.- dichiarò, continuando a guardare davanti a sé come se a parlare fosse stato qualcun altro. -Il tempo è prezioso, e non sono di certo disposta a sprecarlo lasciando che tu sfoghi la tua disperata malinconia su di me.-
Harry voltò nuovamente lo sguardo verso l'orizzonte, chiedendosi perché continuasse a provare a trattarla come gli altri; perché alla fine con lei era sempre lui quello che veniva lasciato a bocca aperta. Era l'unica che riusciva a dargli filo da torcere. E lui le voleva bene anche per quello.
-Non vedo niente, Margaret.- sospirò. -Come sempre.-
 -Non vedi, ragazzo mio.- rise, la voce graffiata e l'odore del tè verde che beveva ogni giorno ad avvolgerlo come quando era bambino. -Tu guardi.- continuò. Per la prima volta da quando si erano seduti sulla riva, lo guardò, e gli batté la mano rugosa sul ginocchio. -E c'è una grande differenza.-
 -È che...-
 -Tu aspetti che ciò che devi vedere ti salti all'occhio come i pesci che saltano nel lago.- biascicò, sistemandosi i pochi capelli al disotto del turbante giallo che le ricopriva il capo. -Devi avere pazienza e concentrarti, Harold.-
 -Lo sono, Maggie.- replicò, affibbiandole il nomignolo che da giovane odiava.
 -Non stuzzicarmi.- disse, puntandogli contro un dito. -E fa' quello che ti ho detto.-
 Sorrise scuotendo la testa coperta di ricci, e sospirò ancora una volta alla vista di quella distesa d'acqua che lei tanto si ostinava a volergli mostrare.
 -Perché proprio qui, Margaret?- sussurrò.
 Gli sembrò di vederla vacillare per un istante.
 -In questo posto c'è la vita della tua famiglia, ragazzo.- affermò, più rigida di quanto fosse in precedenza. -Ho mostrato questo posto a tuo padre, tua madre, a Kate.-
A quel nome la pelle d'oca si impadronì del suo corpo possente, e lui si accigliò respingendo via tutti quei sentimenti che mai lasciava intravedere.
 -Cosa vedevano, loro?- chiese, tirando l'erba con le punta delle dita.
 Gli rivolse un'occhiata vacua: -Tu più di tutti consoci il mio riguardo nel mantenere i segreti.- disse, proteggendo la tacita promessa che aveva instaurato con quelle sue vecchie conoscenze.
-Non capisco cosa dovrei vedere, Margaret.- si lamentò lui.
 -A volte loro vedevano semplicemente il tuo volto.-
 Trattenne il respiro.
 -Quando chiedevo loro di leggere la propria anima sull'acqua, non intendevo altro che scavare nel proprio cuore ed esternare ciò che sentivano. Aprirsi, sfogarsi. E loro vedevano gioia, amore, a volte dolore e rabbia, ammirazione o fedeltà. Altre volte dicevano di vedere te.- Corrucciò le labbra. -Ciò che più di tutto contava nelle loro vite.-
In quel momento Harry desiderò avere con sé la catenina di Kate, così leggera e preziosa per lui, per stringerla tra le dita come ogni volta che si sentiva oppresso dal dolore che il pensiero del passato gli infliggeva.
 Si concentrò più che potette, respirando lentamente e sentendo il tempo rallentare assieme al battito del suo cuore. Guardò le profondità del lago, scuro ma al contempo limpido, e provò a immaginare quello che vi si sarebbe potuto riversare se la sua anima avesse potuto esprimersi.
 Vide il nero riempire le acque come una chiazza d'inchiostro che andava espandendosi man mano che il dolore e il rimpianto che racchiudeva fuoriuscivano moltiplicandosi. Lo vide coprire ogni cosa, arrivare ai margini del lago con velocità e sopperire ogni forma di vita che lo abitava. Fino a che un fiore non bloccò il suo cammino. Una margherita.
 E ciò che gli venne in mente fu così esplicito e ovvio che per un attimo ebbe paura. Hebe.
 Riusciva a vedere in quel fiore candido e meraviglioso la purezza della ragazza che gli aveva stravolto la vita; dipingendo con una punta di bianco, che si stava piano piano allargando, il nero che la opprimeva.
 -Hebe.- sorrise Margaret. -Oh cielo, ragazzo. Sei pazzo di lei.-
 -Cosa?- Si riscosse. -Come...-
-Hai detto il suo nome decine di volte. E gli occhi ti sorridevano, altroché se ti sorridevano.-
 -Non credevo che la mente potesse fare certe cose, Margaret.- sussurrò stupito, accigliandosi poi severamente.
-Può fare più di quello che immagini.- sibilò. -Se assomiglia alla madre dev'essere proprio una gran ragazza.- ipotizzò, riprendendo a parlare di Hebe. - Forte, intelligente, sensibile e bellissima.-
Lui irrigidì la mascella.
 -Non la vedo da quand'era bambina.- proseguì. -Adrienne è sempre stata molto restia nel portarla qui. Diceva che voleva vederla crescere nella normalità.-
 -Hebe è tutto fuorché normale.- commentò, estraendo dalla tasca della giacca una sigaretta.
 Margaret gli schiaffeggiò la mano con la propria, facendogli cadere la miccia al suolo. -Se vuoi rovinarti i polmoni, fallo lontano dalla flora di casa mia.-
 -Scommetto che da giovane eri ricca di vizi e malizie perverse.-
 -Perché fai di tutto per non parlare della ragazza, Harold?- chiese. -Provare dei sentimenti per qualcuno è umano, e devi accettarlo.-
 -Non posso, Margaret.- ringhiò, alzandosi. -Smettila di insistere.-
 -Il dolore che provi non è una punizione. E anche se tu credi che lo sia, questo non lo renderà tale.-
 -Cosa vuoi dire, allora?- gridò. -Che devo allietarmi col fatto d'averla persa?- Respirò a fondo. -Allora mi dispiace, ma se la pensi a questo modo quella inumana qui sei tu.-
Margaret si alzò, poggiandosi con le mani sulle ginocchia per non perdere l'equilibrio; per un momento ebbe pietà di lei, e di averle urlato contro nonostante la sua età. Poi vide i suoi occhi, e capì che a provare pietà era lei. Per lui.
-Voglio solo dire che non potevi fare nulla per impedire che se ne andasse, ragazzo mio. E che tu più di chiunque altro al mondo meriti d'essere felice.- sussurrò. -E da quanto ho potuto capire sentendo la tua voce quando parlavi di lei, Hebe sarebbe in grado di renderti nuovamente la persona che eri.-
 -Non voglio ferire anche lei, Margaret.-
 -Tom mi ha riferito che hai smesso di bere, da quando lei è con te.- disse. -E che hai anche smesso di giocare. È la verità?-
La guardò negli occhi: -Si.-
 -Le ha detto cosa c'è nella stanza?-
Irrigidì la mascella, ma non smise di guardarla: -No.-
Margaret scosse la testa, avvolta da quel turbante stravagante, e gli posò la mano sulla spalla.
 -Non ferirai nessuno. Non l'hai mai fatto.- sibilò, e lui percepì il sorriso nelle sue parole anche se l'espressione del suo viso era fredda come il ghiaccio. Pensò che non sorrideva quasi mai. -Quindi non pentirti del bacio che lei hai dato, e goditi l'amore che potete condividere.-
Detto ciò, si allontanò, ondeggiando lo scialle giallo che le avvolgeva le spalle.
 Rimase di sasso, mentre la guardava sparire tra gli alberi, e scosse la testa pensando a come avesse potuto intuire ciò che era accaduto la sera prima. Raccolse la miccia che era caduta a terra piegandosi sulle ginocchia, e se la rigirò tra le dita: -Ah, Maggie.-

 -Non è il mio genere, Megan. Davvero.-
Era da tutta la mattinata che la ragazza dai capelli corvini provava a convincerla a partecipare alla festa di compleanno di Ethan, che si sarebbe tenuta due mesi dopo, e lei davvero non sapeva cos'altro inventarsi per non partecipare.
 La verità era che le feste non le erano mai piaciute, e non credeva che quella sarebbe potuta essere diversa dalle altre.
 Lei sbuffò, mandando giù un sorso di caffè, e poi si inginocchiò ai piedi di Hebe: -Io, Megan Winnifred Lanford...-
 -Che stai facendo?- rise lei.
 -Zitta e fammi fare.-
-Non sapevo ti chiamassi così.- continuò a sorridere, posando la tazza di tè sul tavolo della cucina.
 Megan l'azzittì, e proseguì drizzando la schiena: -Io, Megan Winnifred Lanford, giuro solennemente sul mio nome e sul mio paio preferito di scarpe, che questa festa a sorpresa non ti recherà nessun disagio e sarà solo estremamente divertente e totalmente imbarazzante per il festeggiato ma non per la qui presente Hebe...- Si interruppe, corrucciando le sopracciglia disegnate. -Qual è il tuo nome per intero?- sussurrò.
 Hebe rise ancora di più, scuotendo la testa e stringendole le mani dalle unghie dipinte di blu che lei aveva preso tra le sue.
 -Hebe Arabella Watson.-
 Megan sorrise. -Quindi non per la qui presente Hebe Arabella Watson.- Alzò lo sguardo, puntando i grandi occhi scuri in quelli chiari di Hebe, e si strinse nelle spalle. -Ci vieni?-
Lei sospirò, scuotendo la testa esausta, e Megan le saltò al collo emettendo un urlo.
-Sarà uno spasso, vedrai!-
 -Ho interrotto qualcosa?-
Una voce profonda e roca risuonò nella cucina lasciando la piccola Hebe di sasso.
 La ragazza dai capelli neri si voltò, sorridendo maliziosa: -Possiamo sempre fare un ménage à trois.-
 -Meg.- sibilò Hebe, arrossendo.
-Harry sà che scherzo!- rise.
 Lei trattenne il fiato, provando a placare il calore che le aveva invaso il viso, e lentamente voltò la testa verso la fonte della voce che le aveva interrotte.
 Lo vide accanto all'uscio della cucina, con le chiavi della macchina ciondolanti da un dito, e i soliti vestiti scuri ad avvolgergli il corpo longilineo.
 Sentì il cuore perdere un battito.
 Quando i loro occhi si incontrarono, fu come se il tempo si fermasse, e i ricordi di quella notte travolgessero entrambi con eguale forza e passione.
 -D'accordo, ho capito.- esclamò Megan, ridestandoli. -Io qui sono di troppo.-
Alzò entrambe le mani, e la guardò ammiccante.
 Hebe arrossì: -No, Meg...-
 -Infatti.- la interruppe lui, avanzando verso di lei. -Devo parlare.- sussurrò.
-Perfetto.- cantilenò Megan, prendendo un altro sorso dalla tazza di caffè sul lavabo. -Magari poi dopo vieni nella mia camera e mi elenchi i dettagli perversi di quanto accadrà.-
 -Megan.- balbettò lei, vedendo entrambi squadrarla.
 -Ve bene, allora non tutti. Solo un paio.-
 Harry si voltò di scatto, prendendola per le spalle e spingendola verso la porta. -Sarà lieta di spettegolarti come una quindicenne tutti i particolari viziosi e immorali dei nostri atti iniqui.- strascicò.
-La tazza di caffè?- chiese lei, alzandola con una mano.
-Te la puoi tenere.-
-Trovo così eccitante il fatto che tu abbia un modo così antico di parlare. Un uomo d'altri tempi.- strascicò, trattenendo una risata.
-Addio.- tagliò corto lui.
 Le chiuse la porta in faccia, lasciandola sconvolta e divertita, e percorse il tragitto a ritroso fino a ritrovarsi nuovamente dinanzi ad Hebe.
 Passarono i minuti, e lui non fece altro che restare in silenzio.
 Respirò profondamente, guardandola bramoso. Si avvicinò velocemente e strinse il maglione che aveva indossato in un pugno.
-Ti sei cambiata.- notò, sorridendo.
 Spinse il suo busto fino a farle toccare il proprio, e inchiodò i loro occhi. Lei annuì, e sperò vivamente di non apparire più imbarazzata di quanto credeva d'essere.
-Sei stupenda.- sussurrò. -Ma quel vestito mi piaceva di più.-
Quando vide i suoi occhi divenire più scuri e profondi, sentì il respiro accelerarle e il petto scaldarsi.
 Harry le carezzò una guancia, e le pressò l'altra mano sulla schiena.
 Unì le loro fronti, e lei chiuse gli occhi mentre si sporgeva per baciarla.
-Arabella.- ripetè sulle sue labbra. -Mi piace.-
 -Hai sentito tutto?- chiese, arrossendo mentre sorrideva.
-Non proprio tutto.- replicò lui, allargando il ghigno che aveva preso possesso del suo viso. -Solo qualcosina.-
Piegò il viso verso il suo, e unì le loro labbra.
 Hebe chiuse gli occhi, mentre quel piccolo bacio diveniva qualcosa di più profondo, e si alzò sulle punte per raggiungere il suo collo con le braccia.
 Harry le carezzò la schiena, percorrendo con le dita la sua colonna vertebrale, e strinse gli occhi quando lei spinse il torace ancora più vicino al suo. Camminò incespicando in avanti, incastrando il suo minuto corpo tra lui e il muro accanto al lavabo.
 Le baciò il collo, le guance, la fronte.
 Approfondì quel bacio fino a restare senza fiato; ma nonostante quel piccolo dettaglio non accennò a lasciarla.
 Il respiro gli si accelerò, e trattenersi divenne più difficile di quanto potesse credere possibile. Quando capì d'essere quasi al culmine, e di non riuscire più a fermarsi, si staccò riluttante da lei, e strinse i suoi fianchi tra le mani.
-Devi fermarmi, ad un certo punto.- fremette, con la voce talmente graffiata da farle accapponare la pelle, e aprì gli occhi. -Va bene?-
Hebe si morse il labbro inferiore fino quasi a farlo sanguinare, e annuì impegnando tutte le sue forze per non stringerlo ancora a sé.
 Lui le sorrise, e le carezzò una guancia.
-E'... difficile, trattenersi. Con te.- Strinse i denti. -Hai un odore così buono. Non vorrei perdere il controllo.-
-Va bene.- biascicò, e chiuse gli occhi.
 Abbassò gli occhi sul suo petto, e corrugò le sopracciglia: -Non ricordavo portassi una collana.-
E il mondo precipitò.
 -Io, non...-
 -Posso vederla?- chiese dolce, continuando a sorridere e facendo scorrere le dita sul filo d'argento.
-No.- lo fermò lei, bloccandogli le mani prima che potesse estrasse il ciondolo da sotto la maglia. -Harry, io...-
Il suo volto cambiò radicalmente, venendo pervaso da una luce oscura. I suoi occhi persero quel verde che tanto amava, e si tramutarono in quel qualcosa che tanto la spaventava appena l'aveva conosciuto.
 -Cosa c'è?- domandò, e la sua voce era di nuovo fredda e distante.
 Lei spalancò gli occhi: -Stavo per dirtelo.-
E lui tirò la catenina, ritrovandosela tra le dita tanta era la forza con cui gliel'aveva strappata dal collo.
-Harry...- sussurrò.
 Lui alzò gli occhi verso i suoi, ed Hebe inspirò con forza quando vide il suo volto.
 Harry gridò, facendola urlare per lo spavento a sua volta, e colpì la parete ad un centimetro dal suo volto.
 La mano prese a sanguinargli quando il muro si ruppe attorno alle sue dita, e i riccioli gli caddero dinanzi agli occhi scuri.
 -Chi te l'ha data?- sibilò, avvicinando il viso al suo.
 Hebe si voltò, chiudendo gli occhi e sentendo le lacrime calde bruciargli la pelle candida.
 -Chi te l'ha data?- gridò nuovamente.
 -L'ho trovata.- sussurrò. - Volevo solo...-
 -Che diritto avevi, tu?- Il tono sprezzante con cui le parlò la fece sussultare.
-Volevo solo avere delle risposte.- gemette, quando lui si voltò dandole le spalle.
 Harry rise senza fare alcun rumore e gettò la catenina al suolo.
 Prese la giacca dal tavolo e la indossò con velocità.
-Dove vai?- sussurrò, avanzando piano verso di lui. -Harry?-
Un singhiozzò squarciò l'aria, e quando si rese conto d'essere lei la fonte di quello straziante suono, si posò una mano sulle labbra.
 Harry strinse i pugni, e trattenne il fiato. Si diresse verso la porta, e l'apri con violenza.
 -Harry, ti prego.-
 -Non aspettarmi sveglia.-
 E se ne andò via.
 Andò via, facendole rimbombare nella testa la sua voce piena d'odio con cui le si era rivolto.
 Rimase a fissare la porta per secondi interminabili; poi si accasciò al suolo, liberandosi in un pianto che le lacerò il petto.





Angolo Autrice:

BUON ANNO NUOVO!
Che il 2015 sia ricco di amore, felicità, soddisfazioni, e tutti quei paroloni che vengono usati per farci credere che quest'anno possa essere migliore del precedente e peggiore di quello futuro. E io, da svampita ragazzina che è restata bambina nell'animo, ogni anno ci credo un pò.
Tralasciando però la contetezza per il nuovo anno, che sfortunatamente sò non essere uguale per tutti, prendiamo in considerazione il nuovo capitolo!
Che dire... Bhè, in realtà da dire ci sarebbe parecchio, ma a quanto ho capito ho la lingua lunga per parlare e riparlare all'infinito di tutti i più svariati argomenti ma non di quello che scrivo. E sono ancora indecisa se considerarlo positivo o meno.
Però, oggi, farò un piccolo sforzo:
Per prima cosa, parliamo degli immensi sensi di colpa, rimpianti e ripensamenti che scombussolano perennemente l'animo tormentato del giovane Harold; il quale nega l'esistenza di un lato umano nel suo animo e rivaluta la possibilità di essere ancora troppo legato ad un passato burrascoso per permettersi di pensare a sè stesso, incolpandosi e rifutando una qualsivoglia forma anche più piccola di felicità. Ripensandoci è meglio non parlarne.
Però c'è Hebe! Già, la piccola, dolce, pianificatrice Hebe. Okay, pianificatrice è un pò brutto. Cooomunque, abbiamo finalmente scoperto chi diamine era il famoso volto che occupava i suoi sogni/incubi e, come da copione.... è Harry! Strano, vero?
Poi abbiamo Margaret, una donna tanto anziana e tanto scrupolosamente saggia da darmi l'idea di una brava strega Voodoo che riparara tutti i malfatti delle persone. E fin qui, ci siamo. Ha cresciuto Harry, e vuole solo il meglio per lui, anche se la sua facciata di implacabile freddezza lascierebbe pensare ad una donna insensibile al dolore... Un Harry2LaVendetta, insomma.
AH! Poi la carinissima Megan! Che in questo capitolo sembra avere una strana passione per le battute perverse, ma che vi assicuro in realtà non è così.

Però, riprendendo un minuto di serietà... Volevo parlarvi con un briciolo di sfacciataggine, ma che non sfocerà in cattiveria o egoismo, perchè giuro di non esserne il tipo. Sapete quanto io vi voglia bene, perchè nel vostro piccolo mi date tantissime soddisfazioni, e forse non ve ne rendete conto, ma con una semplice lettura o due parole scritte alla rinfusa, mi rendete tanto orgogliosa, anche se queste possano essere non positive, ovviamente.
Dovevo però considerare anche altri aspetti: credo abbiate capito quanto io tenga alla scuola e allo studio, e se non l'avevate capito prima, credetemi... è quasi un'ossessione, per me, non avere una brutta media. O più che altro ci tengo a dare soddisfazioni ai miei genitori; anche perchè loro danno la vita per me, giorno dopo giorno. E qui entrate in gioco voi. Cerco di avere abbastanza tempo sia per lo studio, sia per dei piccoli lavoretti per me, che per scrivere questa storia. E forse ne ho anche, ma sono troppo stupida per usarlo nel modo giusto.
Quindi volevo solamente porvi una domanda, alla quale se rispondeste sarei finalmente gratificata: volete davvero che continui questa FanFiction?
E non lo dico per sentirmi dire i soliti ''Si, ci piace!'' dediti solo al vanto dei miei scritti. Solo i miei genitori sanno che pubblico qualcosa qui, e di conseguenza loro sarebbero gli unici con cui potrei farlo. Vorrei solo sapere la verità, e anche se a me danno soddisfazione anche solo due persone, per avere davvero una pagina impiego tutte le mie forze, e vorrei avere la conferma del fatto che il tempo che impiego non sia buttato via.
Per favore, vi chiedo dunque, sareste disposti a farmi sapere in quanti più potete, che qualcuno legge davvero tutto questo?
E forse si, è vero, oltre ad esserne finalmente fiera al 100%, me ne vanterò anche un pò con me stessa.

Vi mando sempre il solito grasso grosso bacio, e che quest'anno vi dia davvero tutte le soddisfazioni che meritate
Buona notte,
Abby_xx



 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** CAPITOLO XV ***


                                      CAPITOLO XV


Continuò a tenere lo sguardo fisso, seduta con le gambe rannicchiate contro la parete, e strinse in una mano la catenina d'argento che le era stata strappata dal collo ore prima.
Sentiva la gola arida, e una sensazione di bruciore la percorreva da quando aveva smesso di piangere; come se avesse deglutito qualcosa che l'avesse raschiata lungo la faringe, lasciando i marchi sulla carne come una lama che aveva affondato la sua punta con forza.
Gli occhi erano gonfi, e non le serviva guardare il suo riflesso per capirlo: la sensazione era quella che provava quando, al mare, stava troppo tempo sott'acqua con lo sguardo aperto, è una volta tornata sul bagnasciuga aveva difficoltà a guardare lucidamente per la quantità di salsedine che li aveva colpiti.
Continuava comunque a tenerli aperti, strofinandoseli di tanto in tanto con il dorso della mano per rimandare giù le lacrime che provavano a fuoriuscire. 
Fissava la porta da quando lui aveva varcato la soglia, sperando nel profondo di vederlo rientrare.
 
Il rimbombo delle note assodanti di quella musica che neanche gli piaceva gli stavano facendo esplodere la testa, e pulsare le tempie: ma fingeva che non fosse così, e che le luci colorate non gli stessero infastidendo gli occhi chiari, continuando a girare e rigirare la cannuccia giallo acceso nel drink che non si decideva a mandare giù.
La verità era che quei posti non gli piacevano più granché, e forse neanche gli erano mai piaciuti davvero: tutto quel movimento, le mani di tutti che toccavano i corpi sudati di tutti, le ragazze seminude che si agitavano furiosamente pur di sentire il proprio corpo strusciare contro quello di un altro. 
Era da tempo che non beveva più, o perlomeno nulla di così forte da mandarlo nel pallone, e non era completamente convinto di voler entrare nuovamente in quel circolo lussurioso di pura frenesia. 
L'idea era allettante, e su questo non aveva dubbi, ma continuava a chiedersi cosa avrebbe pensato lei se avesse bevuto di nuovo. 
Ricordò che l'ultima volta che aveva ingerito qualcosa di tanto alcolico come quello che ora teneva tra le mani, era stato dopo una discussione con Kate: era finito col dover essere rinchiuso nella cantina dell'istituto poiché continuava a scagliarsi su chiunque incontrasse. 
Come un animale.
Ricordò che la mattina dopo gli raccontarono d'aver gridato così forte, quando la porta d'acciaio era stata chiusa, da farla piangere. 
Era rimasta tutta la notte con le spalle contro quella porta, fredda e agghiacciante, fino a quando lui non aveva vomitato tutto quello che aveva ingerito e era stato finalmente pronto per uscire. 
Ricordava ancora il suo viso, e la maternità con cui lei l'aveva abbracciato, facendolo sentire protetto. 
Scosse la testa a quei ricordi, e si concentrò su altro: osservò le persone che lo circondavano, con aria assente ma scrupolosa.
Ma oramai vedere tanta gente diversa tra loro non lo stupiva più come prima.
-Non lo bevi?-
Alzò l'angolo delle labbra nell'udire quelle parole.
Lentamente si voltò a occhi bassi, e quando vide la scollatura profonda e la pelle del corsetto nero stringerle il busto, ebbe la certezza di chi fosse.
-In realtà sono combattuto.- Alzò gli occhi: -Bere o no bere?- 
Non si sorprese granché quando la vide gonfiare il petto, e scosse la testa sorridendo.
La ragazza dai capelli rossi sorrise: -È da un po' che non ti fai vedere.- 
-Questo posto non mi è mancato affatto.-
Becky lo guardò maliziosa, e posò una mano sul suo ginocchio: -E io?- sussurrò al suo orecchio.
Quando le sue dita iniziarono a salire le agguantò il polso con rapidità, e lo alzò tra i loro visi: -Non stanotte.- dichiarò severo.
Lei rise di gusto, e avvicinò i loro volti fino a quando l'odore pungente degli alcolici che aveva ingerito non invase anche lui.
-Qualcuno ti aspetta a casa?- sorrise.
Fece scivolare l'altra mano sulla sua coscia, e quando lui alzò anch'essa a mezz'aria, scuro in volto, lei rise ancora di più. 
-Mi piace quando sei aggressivo.- sibilò, socchiudendo le ciglia folte.
I ricci rossi le caddero davanti agli occhi marroni, ma la voglia di scostarglieli dalla fronte non lo pervase, a differenza di quando succedeva ad Hebe.
Quando formulò quel pensiero, il viso candido di Hebe gli annebbiò la mente: voleva vederla. 
Ma al contempo pensò alla collana d'argento che gli era stata sottratta, a come lei l'avesse ingannato non confessandogli la verità, e a come si sentiva stupido per essersi affezionato ancora a una persona che non fosse se stesso. 
Quindi l'orgoglio e il dolore prevalsero, facendolo sorridere e avvicinare il corpo di Becky a un soffio dal suo. 
Lei mosse la testa vittoriosa, e avvolse le braccia attorno al suo collo.
Harry si voltò verso il bancone, afferrando il bicchiere e mandando giù in un sorso il liquido aspro: -A quanto pare ci divertiremo.- 
 
 
Quando aveva deciso di alzarsi dal pavimento freddo, erano appena scoccate le undici. 
Si era sforzata più volte di muovere le gambe per far leva e tirarsi su, ma la mente le sembrava attiva ed il corpo un involucro di materia che non eseguiva gli ordini impartiti.
E dal momento che, come sorretto da una forza esterna, si era sollevata, erano passate altre due ore.
Ore in cui, le uniche cose che aveva sentito di dover fare, erano state riparare la catenina e riporre il libro di Aforismi sul comò dalla parte del letto del ragazzo che le dormiva accanto; più che altro, per fingere che in minima parte quelle azioni potessero risarcirlo della delusione che lei gli aveva inflitto.
Ed ora, con la luce della notte che l'avvolgeva, forse anche troppo stretta, se ne stava con la testa tra le mani a guardare la luna che sembrava si specchiasse nel vetro della finestra, riversando la sua luce chiara su di lei; quando, d'improvviso, lo scattare della serratura della porta d'ingresso riecheggiò in tutta la camera. 
Ansimò ansiosa, e si fece coraggio, grattandosi le nocche.
Corse verso l'entrata, sperando di fargli capire quanto le dispiacesse, e soprattutto di essere pronta: ma il dispiacere, quando vide ciò che aveva davanti, divenne così offuscato da scomparire, e si rese conto che, per quello, pronta non lo era.
Fu come sentire il proprio cuore smettere di pulsare, e il petto fare tanto male da farle credere di stare sul punto di gridare dal dolore. 
Non aveva mai pensato a come potesse essere vederlo stringere un'altra.
Vedere come le sue mani graffiavano e svestivano con rude velocità il corpo di qualcuna estranea da se stessa: erano così attaccati, in un miscuglio di sudore e alcool, da farle pensare per un momento che fossero un unico corpo.
Dopo averla spinta con foga sul divano, Harry alzò gli occhi verso Hebe: fu solo nell'istante che ne lesse dentro vuoto, che capì d'essere ancora ferma a guardarli, e nel momento in cui lui le sorrise, si decise a correre nella camera da letto. 
 
Chiuse con velocità la porta, e iniziò a graffiare il legno con rabbia; non si rese neanche conto d'aver iniziato a singhiozzare. 
Si voltò, dando le spalle alla soglia, e poggiò le scapole contro la parete, lasciandosi cadere al suolo, per la seconda volta quella sera.
Respirò profondamente, ma nonostante le lacrime avessero finito di scorrere imperterrite, i singhiozzi secchi ancora scuotevano il suo fragile corpo. Respirò ancora.
Si alzò in piedi, chiudendo gli occhi per qualche istante e trattenendo il fiato ogni qual volta sentiva di star per piangere, e accostò l'orecchio contro il muro. 
Il trambusto che all'improvviso si scatenò nella sala di fianco fu come un lampo che squarciava il cielo sereno: i gemiti, le grida e i respiri affannati dei due, presto riempirono il silenzio che aveva governato indiscusso fino a pochi attimi prima.
Si pressò una mano sulle labbra, e l'unica cosa che le passò per la mente fu che, mentre lei cercava di non proferire parola, lui non faceva altro che ringhiare e ansimare, facendo gridare di piacere la ragazza sotto di sé.
Quando lo sentì chiamare il nome della ragazza dai capelli rossi d'istinto si portò le mani sulle orecchie, iniziando a contare fino a dieci innumerevoli volte per sopraffare coi suoi pensieri quelle grida prive di pudore.
Uno, due, tre, un grido, quattro, cinque sei, un gemito più forte degli altri, sette, otto, nove, lei che urlava il nome di lui, dieci, silenzio.
Silenzio. Fu tutto ciò che succedette quegli attimi di passione sfrenata; quello, e lo schiocco duro della porta che veniva sbattuta. 
Hebe allontanò lentamente le mani dalle orecchie, trattenendo il fiato mentre poggiava la tempia sinistra contro la sua porta per sentire di più: niente. Erano come evaporati nel nulla.
Fece per posare le dita sulla maniglia, ma qualcuno, da fuori, fu più svelto, facendole sbattere la fronte contro il legno tanta era la forza con cui l'aveva spalancata. 
Arretrò disorienta, abbassando lo sguardo e massaggiandosi la testa con una mano: nel momento in cui nel suo campo visivo entrarono un paio di piedi scalzi, coperti in parte dai jeans larghi, sentì un calore immane attraversarle il corpo freddo. Come cera bollente su un pezzo di ghiaccio.
Alzò gli occhi, trovando quelli di Harry a poca distanza dai suoi: la sua bocca assottigliata in un sorriso intimidatorio, gli occhi febbricitanti, la mascella contratta, i capelli scarmigliati, il buio del suo viso. 
Si rese conto che era bello ancora di più, così. 
E si accorse anche di un rumore costante, frenetico che si propagava nella stanza: ad un tratto lo vide spalancare di poco gli occhi, e quando li puntò sul suo petto, capì.
Quel frastuono disarmante, che aveva stupito entrambi, non era altro che il rimbombo dei suoi respiri interdetti, soffocati e pesanti; i sussulti del suo sterno, in preda ad attacchi di silenziosi singhiozzi. Trattenne il fiato, spaventata dalla sua stessa reazione.
Lui si avvicinò di un passo, e sorprendendosi, lei si accorse di non essere indietreggiata. 
-Piaciuto lo spettacolo?- chiese retorico, glaciale e ombroso, prendendole una ciocca di capelli e arrotolandosela attorno l'indice. -Certo che non riesci proprio a non ficcare il naso nelle mie cose.- sorrise. -Cosa c'è, Hebe, sei triste?- 
Lei irrigidì i denti, capendo il motivo per il quale poco prima non si era fatta indietro: quello che provava non era tristezza, ma delusione.
Scostò la sua mano, quando questa cercò il suo volto, e si allontanò di qualche centimetro.
Il suo sguardo si accigliò per un istante, riprendendo poi l'aspetto impenetrabile e famelico precedente: -Un secondo.- esclamò. -Ci sono.-  Si avvicinò di un passo, e questa volta lei indietreggiò: -Capisco a cosa è dovuto tutto questo malumore, adesso. Volevi partecipare al nostro piccolo gioco, è così?- sorrise, sardonico. -La prossima volta te terrò conto. Magari invitiamo anche Jack, che ne dici?- 
Guardò i suoi occhi: era dal primo giorno che l'aveva visto che non credeva che degli occhi così belli potessero essere tanto vuoti. 
Trattenne il fiato, e non ascoltò nient'altro, in quel momento, se non quel piccolo barlume di lucidità che era rimasto nel profondo della sua mente offuscata. 
Si avvicinò di un passo, tenendo gli occhi cristallini fissi nei suoi, e quando notò il sorriso beffardo ampliarsi sul suo volto, quasi si sentì male.
Alzò il viso, sfiorandogli il lobo dell'orecchio con le labbra, e lo sentì fremere per un secondo: -Mi fai schifo.- 
Lui smise di sorridere.
Avanzò lentamente, colpendogli la spalla con la propria, e si diresse verso l'armadio. Lo aprì e infilò in un borsone le prime cose che le capitava di vedere; un paio di jeans, qualche maglietta, l'intimo e dei pantaloni. 
Nell'istante in cui chiuse la cerniera della borsa, avvertì alle sue spalle i passi pesanti di Harry dirigersi verso di lei. La prese per un braccio, voltandola.
-Che credi di fare, Hebe, scappare?- rise. 
-Lasciami.- 
-Dove andrai? Sono l'unico che può proteggerti.- 
-Harry.- 
-È questa la tua matura soluzione ai problemi, andare via?- 
Hebe strattonò il braccio con violenza, forse troppa, fino a quando lui non mollò la presa, ma non smise di guardarlo. 
-Me lo hai insegnato tu.- 
Harry boccheggiò per un istante, e lei dovette distogliere lo sguardo, convinta che nel vedere il dolore sul suo viso, sarebbe scoppiata in lacrime. Poi però, con una velocità disarmante, il suo sguardo si riempì nuovamente di gelo e impassibile diffidenza: sorrise internamente al pensiero che era un atteggiamento oramai tanto quotidiano, da non sorprenderla più.
Nonostante ciò, continuava a sentire la cera calda scorrere sul suo corpo ghiacciato.
Drizzò la schiena, e si diresse verso il salone, decisa a terminare qualcosa che, con rancore, era arrivata a credere non fosse mai iniziata.
Arrivata davanti la porta d'entrata, si fermò, e sentì i passi di Harry fermarsi a loro volta dietro di lei. Sospirò, il borsone in spalla.
-È questo che vuoi?- chiese, gelido.
Lei chiuse gli occhi, grattandosi le nocche, certa che non potesse vederla. 
-È questo che vuoi, scheggia?- 
Sussultò nel percepire il dolore nella sua voce, e si voltò lentamente. 
Non aveva mai visto il suo viso così straziato. 
-Si.- Vide il suo petto fremere. 
Si voltò di nuovo verso la porta, e nell'istante in cui abbassò la maniglia, si sentì tirare indietro. 
La strinse tra le sue braccia, e inspirò a fondo l'odore dei suoi capelli: -Non puoi andare via. Non puoi lasciarmi.- 
-Per favore.- lo supplicò. -Basta.- 
-Non puoi andare via, non puoi.- 
Si dimenò, ma lui non la lasciava: -Harry, basta!- gridò, sentendo il cuore scoppiare.
Lui si fermò, impallidendo. 
-Smettila.- lo rimproverò, la voce ferma. 
Harry inspirò, e le aprì la porta, sfiorandole un fianco col braccio. 
Lei chiuse le palpebre. 
-Se davvero vuoi andare via, io non ti fermerò.- esordì, roco. -A te la scelta.- 
Scegliere cosa? Si chiese. 
Scegliere di rimanere al suo fianco, nonostante i torbidi segreti che lui si portava dentro, a sopportare la dolorosa consapevolezza di dover soffrire ogni singolo giorno nella speranza di aiutarlo. 
Scegliere di farsi voler bene, di vivere serena, andando tanto lontano da non ricordarsi neanche la strada di casa, così da poter cominciare una nuova vita, priva di dolore e tristezza, ma lontano da lui.
E, per una volta, decise di scegliere il suo bene prima di quello degli altri.
Nonostante fosse consapevole che il non vederlo avrebbe comportato stare male lo stesso; ma sperava fosse un male superabile e meno doloroso del vedere gli occhi della persona che amava incupirsi giorno dopo giorno.
Allora si aggiustò la borsa in spalla, e si voltò verso di lui. 
Camminò, vacillando, fino alla soglia della porta, e poi fino a quando fu fuori dalla camera. 
Girò il busto verso Harry, il suo volto pallido e scavato, e prese la maniglia della porta, chiudendola: e intanto si sentiva come se, assieme a quella porta, stesse chiudendo fuori anche lui.
Fu allora che si ricordò che il ghiaccio, colpito dalla cera bollente, si scioglie.
E chiuse la porta.


Angolo autrice:

Ragazzuole, sono tornata con un nuovo capirlo! E voi giustamente starete pensando, "ecchisenefrega?"! Però spero che la maggior parte di voi sia contenta di questa nuova pubblicazione:) Che dire, non mi odiate, vi imploro. Giuro che non volevo andasse a finire così, pensate che avevo scritto un finale totalmente opposto all'attuale, ma poi il mio stravagante intelletto ha deciso di stravolgere radicalmente la conclusione di questo capitolo... Non fatemi male, grazie. Io vado bei bambini, e spero che vi piaccia! Fatemi sapere che ne pensate, un bacio e buonanotte, Abby_xx

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** CAPITOLO XVI ***


                       CAPITOLO XVI
 
 
 
 
Chiuse gli occhi, provando a fingere che con lo sparire della vista potesse sparire anche tutto il dolore che le straziava il cuore.
Poggiò la fronte contro il legno della porta che aveva appena chiuso, e strinse gli occhi con la paura che le lacrime potessero sfuggire al suo comando e inondarle il volto.
-Sei stata brava- sussurrò a se stessa, la voce spezzata -Ora va via.- 
Lentamente, quasi con pigrizia, si voltò, e aggiustandosi il borsone sulla spalla spigolosa iniziò a camminare verso la fine del corridoio. 
E man mano, assieme al suo passo, acceleravano anche i suoi pensieri. 
Si ritrovò la mente invasa da immagini, parole, suoni, sospiri: ogni cosa avesse vissuto o immaginato di vivere con lui, si stava riversando con forza nella sua testa, facendole pulsare le tempie.
La prima volta che le aveva parlato, quella mattina sulle scale, e come avesse percepito di conoscerlo già da tanto; la notte nella casa in montagna, e i loro balli sotto la pioggia nell'aspettare l'alba; i loro baci, e la sensazione di protezione mista a pericolo che l'avvolgeva quando era con lui. 
Per un momento la testa le vorticò così forte da doversi appoggiare al muro per non piombare al suolo. 
Pressò le mani sulle tempie, e quando riaprì gli occhi, si rese conto con sorpresa d'essere arrivata inconsciamente fino all'ultimo piano, nel corridoio dalle luci offuscate che ospitava lo studio di suo padre. 
Calò gli occhi dietro la sua spalla e abbassò lo sguardo dalle ciglia lunghe per essere sicura che non vi fosse nessuno dietro di lei; la sua ombra era la sola che la stava spiando in attesa di un suo movimento.
Non attese oltre: si avviò in punta di piedi verso la porta dello studio, e una volta arrivata a un passo dall'uscio, seguita silenziosamente dalla sua sagoma scura e da quelle delle fiammelle delle candele, fece un respiro profondo. 
Stilò nella sua mente una lunga lista degli innumerevoli motivi per i quali entrare lì e guardare nei cassetti della scrivania di suo padre fosse una cosa sbagliata: ma poi si rese conto di quanti invece fossero i motivi giusti, e di quanto poco le importasse fare qualcosa di sbagliato in quel momento. 
Aprì quindi la porta, voltando il pomello oramai opaco verso destra, ed entrò nella stanza facendo cigolare il pavimento di legno: il buio l'avvolse in un terrificante abbraccio, e cacciando fuori leggeri respiri cercò di fare meno rumore possibile e di non prestare attenzione alla sensazione di paura che le stringeva in una morsa lo stomaco.
Mosse passi instabili verso quella che le sembrava l'ombra della scrivania, e accertandosi che non vi fosse nessuno, la superò e proseguì verso la finestra, aprendo le tende. 
Guardò fuori, vedendo il vetro appannarsi per opera del suo fiato tremolate, e facendosi coraggio raggiunse con velocità il cassetto della scrivania: aprì il cassetto color cioccolato, intagliato con una precisione ammirevole, e diede due colpetti sul fondo. 
Il doppio fondo divenne accessibile in un battito di ciglia. 
Con maestria mista a indecisione alzò il sottile ripiano di legno per prendere le chiavi che le avrebbero permesso l'accesso alla cassaforte di suo padre. 
Respirò affondo prima di protendere la mano in avanti e infilare le dita nel piccolo anello a cui erano appese: le sfilò dal cassetto e le strinse forte, sperando nel profondo di veder qualcuno entrare e di essere così scoperta, in modo tale da non compiere il gesto che stava per attuare.
Chiuse le chiavi nell'involucro del suo fragile pugno, e lo serrò così forte da credere per un istante che il ferro le si stesse affondando nel palmo. 
Ebbe l'accesso alla piccola stanza all'interno dello studio spostando una grande libreria avvantaggiata da ruote, e vi avanzò velocemente dentro dopo aver richiuso quella sorta di porta dietro di sé. 
Ricordò la prima volta che vi era entrata, e suo padre che come un bambino eccitato le mostrava il doppio fondo del cassetto e il trucchetto della libreria: pensò poi alla sua faccia seria mentre apriva uno dei settori del grande raccoglitore in acciaio, come stava facendo lei in quell'istante, e a quando le aveva mostrato la sfilza infinita di fascicoli elencati in ordine alfabetico estraendone un paio per farle capire cosa contenevano; e intanto scorreva le dita sulla carte inizianti per A, seguendo il flusso dei suoi pensieri. 
Ricordò i movimenti fluidi delle mani di suo padre mentre sfogliava meticolosamente un fascicolo preso a caso che mostrava il nome di Philip Levard, giovane francese predisposto geneticamente più alle prestazioni mentali che fisiche il quale dedicava le sue conoscenze matematiche a scopi benefici e non più alla produzione di cocaina. 
E mentre la foto segnaletica di Philip Levard le affiorava nella mente, quella di sua madre le appariva sotto gli occhi. 
In quello scatto era così giovane da farle credere d'essere lei stessa: l'unico dettaglio che le differenziava era il colore degli occhi, e il taglio dei capelli che la madre portava allora. 
Lesse attentamente i primi righi, i tabulati telefonici, la descrizione delle capacità che la caratterizzavano, i dati anagrafici, i suoi curriculum e le varie cartelle cliniche degli ultimi anni.
Il respiro le si fermò in gola quando lesse l'ultima pagina: 
 
ULTIMO AVVISTAMENTO PUBBLICO NEI PRESSI DI HOLMES CHAPLE, TRONSTREET 564, NOVEMBRE 17.
 
ULTIMO CONTATTO VENERDÌ 23, ORE 22:07-01:46
 
POSIZIONE ATTUALE RISERVATA ALLA SINGOLA CONOSCENZA DEL SOTTOSCRITTO PER MOTIVI DI SICUREZZA
 
Chiuse il fascicolo.
Sperava vivamente di trovare qualche informazione in più, come dove fosse in quel momento o come potesse rintracciarla. Non capiva a cosa servisse chiudere un plico di fogli in un cassetto a cui accedere era pressoché impossibile se non conoscendo i giusti trucchi, se poi non diceva nulla di concreto.
Riposò dunque il fascicolo all'interno del cassetto nel punto della fila di nomi in cui l'aveva trovato, chiudendolo per bene. 
Alzò gli occhi. 
 
FASCICOLI H-L, ORDINE ALFABETICO 
 
Le mani le prudevano tanta era la voglia di aprirlo. 
Guardò da una parte e poi dall'altra, grattandosi le nocche per frenare la curiosità. 
Sapeva quanto fosse sbagliato anche solo pensare di sfiorare quei documenti, e sapeva di avergli appena detto addio. 
Ma non poteva smettere di pensare a lui, Dio, non poteva proprio.
Neanche se ne rese conto quando di getto infilò le chiavi nella serratura ed estrasse il plico denominato con il suo nome, quasi le sue mani avessero preso l'iniziativa. 
HAROLD EDWARD STYLES risaltava a caratteri cubitali sulla pagina iniziale, invadendole completamente la vista. 
Con delicatezza lo aprì, sfogliando le pagine con distrazione: non sapeva perché ma non aveva voglia di sapere tutte le informazioni riguardanti ciò che aveva commesso in passato, o le sue capacità straordinarie. 
Sapeva che era speciale, non aveva bisogno di leggerlo; e, infondo, aveva anche paura di ciò che avrebbe portato scoprire. 
Aprì quindi la pagina dei dati anagrafici, senza prestare attenzione agli altri dettagli.
Corrugò la fronte quando vide quei fogli: tutto era sbarrato da un pennarello nero, ed era completamente, totalmente, inimmaginabilmente invisibile: non ne capiva il motivo. 
Alzando il plico in controluce scorse però dei dettagli, come la sua data di nascita, e le iniziali dell'ospedale in cui era nato. 
Notò anche che, stranamente, i nomi riguardanti il suo albero genealogico erano stati cancellati con tratti ancora più copiosi degli altri, e leggere anche solo poche lettere le risultava impossibile. 
Aguzzando la vista cercò di applicarsi ancora di più, e, piegando il foglio in maniera strategica, riuscì a leggere alcune lettere del cognome di suo padre: Y R S.
La sua mente si annebbiò ancora di più: il suo cognome non aveva una R all'interno.
Un rumore sordo rimbombò nella stanza, facendola appiattire contro il muro coperto di intonaco bianco. 
Chiuse il fascicolo.
-Mi serve avere quei fogli entro stasera, Gregor. Stasera.- esordì fermo suo padre.
-Si, Signore.- 
-Abbiamo intercettato la chiamata del trafficante, e l'appuntamento è previsto verso il tardo pomeriggio di domani.- 
-Ho avvertito gli uomini, manderemo Jeremy a fotografare gli svolgimenti e chiameremo il corpo di polizia appena siamo sicuri di averli incastrati.- 
-Perfetto.- annuì John, aggiustando vari fogli. -Gregor?- aggiunse poi.
-Si?- chiese.
-Chiuditi la zip.- 
E le parve quasi di sentirlo arrossire, mentre tirava verso l'alto, con un movimento impacciato, la chiusura dei pantaloni, anche se non poteva vederlo. 
Si pressò un braccio sulla bocca per evitare che la sua risata facesse più rumore del dovuto, e con attenzione si sporse per intravedere dagli spazi degli scaffali della porta-libreria cosa stava accadendo.
-Questo è tutto ciò che ci serve.- dichiarò John prendendo dei fogli. -Possiamo andare.- 
E mentre si voltavano, uno ghignante e l'altro imbarazzato, si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. 
-Aspetta.- Si fermò. 
Voltò la testa di poco, e poi lentamente anche il corpo, fino a quando non fu difronte alla libreria.
Fece qualche passo, lento e calcolato, tenendo con una mano i fogli, e l'altra pendente lungo il fianco. 
Si avvicinò fino a trovarsi con la faccia a pochi centimetri dalla sua e lei trattenne il fiato, pur sapendo che questo non avrebbe comportato il non vederla.
Sentì le braccia rigide quando i loro occhi si incontrarono, ma non ebbe il coraggio di pronunziare alcuna parola. 
Lo vide prendere una boccata d'aria, ed espirare pesantemente. 
Alzò poi un braccio, e sfilò dallo scaffale un libro all'altezza del suo sguardo. 
-Edgar Allan Poe, mi è sempre piaciuto tantissimo.- commentò, posizionando il libro appena preso sotto un braccio. -Ora possiamo davvero andare.- 
E mentre si chiudevano la porta alle spalle, lei si lasciava cadere a terra e pensava a quanto avesse creduto d'essere senza via d'uscita, e di quanto invece si fosse sbagliata.
Una cosa però non capiva: non capiva perché non le avesse detto nulla. Perché i loro occhi si erano intrecciati, e di quello ne era sicura.
 
Camminò furtivamente tra i corridoi dell'edificio, mascherandosi nelle ombre della notte, fino ad arrivare dinanzi alla porta della ragazza dai capelli corvini. 
La porta in legno era stata così ricoperta di adesivi e scotch poi rimossi, da essere totalmente appiccicosa: ricordò che Megan le aveva raccontato, appena l'aveva conosciuta, quanto suo padre tenesse alla pulizia delle stanze, e quante ore lei aveva dunque passato a rimuovere i vari stickers che aveva attaccato alla porta appena arrivata, inconsapevole della folle mania di John.
Bussò più volte, tenendo ben saldo il borsone sulle spalle, fino a quando non sentì un tonfo provenire dall'interno e la sua voce gridare: sorrise, pensando che forse fosse caduta dal letto. 
Scorse poi un'altro timbro, e la mascella quasi le cadde. 
Un ragazzo alto, dal fisico asciutto e il sorriso sornione le aprì la porta. 
-Tom.- borbottò sbigottita. 
Lo squadrò la testa a piedi, e una volta finito di guardarlo dovette tornare con lo sguardo verso il basso, credendo di avere le allucinazioni. 
Divenne paonazza: al posto dei pantaloni, per coprirsi, aveva un cuscino del divano della sua amica che teneva contro di sé. 
-Straniera!- esclamò lui. -Che ci fai qui?- 
-Che ci fai tu qui?- replicò lei, imbarazzata.
Lui si sporse per guardare all'interno della casa, sorridendo quando sentì Megan urlare. 
-Il solito.- 
-Tom?-
-Cerchi la strega?- chiese, allargando il sorriso. 
-Dammi un secondo.- Respirò profondamente, sentendo il suo io interiore sbellicarsi dalle risate e congratularsi con Megan. 
-Dov'è?- chiese poi.
-Dov'è chi?-
-Megan, Tom. Dov'è?- 
-L'ho chiusa in bagno.- Scrollò le spalle.
-L'hai chiusa in bagno.- ripeté lei, pensierosa. -L'hai chiusa in bagno?- urlò poi, ridestandosi. 
Lui le mise l'indice contro le labbra. -Abbassa la voce.- sussurrò. -Non tutti si danno alla pazza gioia come noi a quest'ora della notte.- 
Chiuse gli occhi di scatto. 
-Che c'è?- chiese lui. 
-Il cuscino.- biascicò. -Ti è caduto il cuscino.- 
Lui guardò in basso e rise. -Oh, è vero.- 
Entrò prima di vederlo abbassarsi per raccoglierlo, e si diresse verso il bagno. Aprì la serratura, esitando per qualche istante: ne aveva aperte già troppe, nelle ultime ore. 
Megan corse come una furia fuori, tenendosi il lenzuolo attorno al corpo. 
-Tu!- sbraitò, indicando Tom.
-Dici a me?- chiese lui, puntellandosi il petto. 
-Io ti ammazzo!- 
-Non credi che ci abbiamo dato dentro già tanto per oggi? Certo che non ne hai mai abbastanza.- 
-Ciao.- sussurrò Hebe, posando il borsone sul divano. 
-Quello è il luogo del concepimento del nostro amore.- le disse lui, tappando con una mano la bocca dell'amica, che si dimenava furiosamente. 
Hebe lo alzò di colpo e lo posò sul bancone della cucina.
-Anche quello.- continuò. -E il bagno, e la stanza da letto, e il ripostiglio.- 
-Perché l'hai chiusa nel bagno?- 
Si massaggiò le tempie, guardando altrove mentre lui andava nella camera a prendere i pantaloni. 
-Non la smette di blaterare idiozie!- urlò lei, facendo muovere i capelli come furie. 
-Tu non la smetti di fare domande stupide!- ribatté lui. 
-Chi ha iniziato?- sospirò Hebe. 
-Lui!- disse lei, nell'esatto momento in cui lui dichiarò: -Lei!-
Hebe sorrise.
-Potere discuterne domani? Vorrei parlare con Megan.- 
Si guardarono corrucciarti, poi lui sbuffò e le fece il verso mentre andava a prendere le sue cose. 
Megan si avvicinò, ed Hebe fu sicura che stesse provando a fare di tutto per non esplodere dalla gioia. 
-Devi dirmi qualcosa?- chiese la ragazza dai capelli neri.
-Credo di dovertela fare io questa domanda.- strascicò lei, lasciandosi andare ad una risata liberatoria.
Il volto di Megan si inondò di calore, e le sembrò così giovane e innamorata da farle tenerezza.
-Io quello non lo sopporto.- borbottò. 
Si sorrisero, e dopo qualche istante di divertimento, calò la tensione. 
La guardò.
-Lui?- chiese, ora seria.
Lei scrollò le spalle, e nonostante provò a restare immobile, si gettò poco dopo tra le sue braccia: -Posso restare qui stanotte?-
Megan la strinse forte: -Dolcezza, puoi restare tutto il tempo che vuoi.- 
-Anche io?- intervenne Tom, sbucando dal bagno e posando ad entrambe un bacio sulla testa. 
Sciolsero l'abbraccio, ed Hebe provò a sorridere, riuscendoci davvero quando sentì il braccio della ragazza al suo fianco non smettere di stringerle un fianco: le voleva così bene. 
-Tu vai via.- chiarì poi. 
-Ti detesto.- brontolò Tom, avviandosi alla porta. 
-Ti odio.- ribatté lei, accompagnandolo. 
-Strega manipolatrice.-
-Cretino.- 
-Solo? Mi deludi.- Scosse la testa. -Il mio insulto era di gran lunga migliore del tuo.-
Rimasero qualche secondo in silenzio, poi lui, appoggiato allo stipite della porta, abbassò il viso e le posò un bacio sulle labbra: -Ti sognerò.- E andò via.
E pensando quanto quei due stessero così bene insieme, proprio nei loro litigi e nella loro sfacciataggine, guardava Megan, è più la osservava sorridere più la vedeva davvero felice.
Quando lei si voltò, chiudendo la porta, corrugò la fronte, e incrociò le braccia al petto: -Non guardarmi così!-
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo autrice: 
 
Ragazze/i!
Non devo andare a ripararmi perché mi state per prendere a sassate, vero? 
Sono un disastro, lo so.
Ma non mi odiate, vi prego!
Siamo giunti al punto in cui oramai non mi credete più quando vi dico 'aggiorno la settimana prossima'... E fate bene!
Sono svampita, questo l'avete capito.
Ma ho avuto talmente tanto da studiare che non ho neanche potuto rileggere ciò che avevo scritto tempo fa, con l'intenzione di pubblicarlo dopo poco il capitolo precedente a questo (starete morendo dal ridere, ne sono sicura), quindi perdonatemi se vi sono errori o se non è accettabile come gli altri, ma sono davvero stremata.
Ebbene, smetto di annoiarvi e vi lascio pensare a quanto letto... Sapete che mi piace da matti leggere i vostri messaggi in cui formulate pensieri e costruite storie pensando a ciò che potrebbe succedere di capitolo in capitolo! Intanto già vi dico che presto migliorerò il capitolo per quanto riguarda le scritture corsive e i colori del titolo, ma sono in biblioteca a studiare e ho dovuto pubblicare il testo con l'iPod... Un enorme caos!
Vi lascio miei piccoli e grandi lettori, e vi chiedo ancora umilmente perdono.
Un abbraccio grande più che posso, sempre vostra,
Abby_xx
 
 
 
PS: Spero di non ricevere troppi commenti scandalosi sulla storia tra Tom e Megan... Io li amo troppo, sono come la rappresentazione delle relazioni simpatiche e composte da persone totalmente agli antipodi che strappano sempre un sorriso! Okay basta vado a rinchiudermi, fate sogni d'oro.  

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** CAPITOLO XVII ***


CAPITOLO XVIII

Il sole era sorto, da un paio d'ore o forse anche di più. 
Ed invece quelle che aveva passato sveglio, con gli occhi vitrei e le cicche delle sigarette ai piedi, erano cinquantasette; o forse anche di più.
Oramai la cognizione del tempo non era più cosa a cui badava.
Sapeva però che se ne stava da quasi tre giorni con la schiena poggiata al muro, esattamente nella parte della parete che separava le due porte alla fine del corridoio. 
Delle quali Hebe era riuscita ad aprirne solo una.
E lui ancora si domandava perché fosse sempre stato così chiuso a volte con lei, perché non le avesse svelato semplicemente la verità e non l'avesse fatta entrare nella sua vita totalmente, dandole la possibilità di scegliere se rimanere al suo fianco ad affrontare con lui i suoi demoni o andarsene chiedendosi cosa avesse di sbagliato. Poi però si ricordava che neanche lui era convinto di quella che definiva verità, quella che gli altri gli avevano insegnato a definire tale, e che sarebbero dovuti entrare nel suo passato ancora una volta, per sciogliere assieme tutti quei nodi nella sua testa, i quali alle volte, anche se non lo diceva mai, lo spaventavano più di tutto. Tenendolo sveglio la notte con la paura di affrontare tutto di nuovo. 
Ma cosa avrebbe potuto fare?, si chiedeva allora, trascinarla in un mondo dal quale lui stesso sarebbe voluto evadere?, in una vita che di buono non aveva quasi più nulla?
Ma lei le mancava, le mancava più di quanto volesse e potesse ammettere. 
Nonostante non la vedesse da sole cinquantasette ore, o forse anche più; nonostante la consapevolezza del male che avrebbe potuto farle se l'avesse portata nella sua oscurità.
Ma la voglia di lei, con tutto quello che comportava, era così forte da fargli superare anche quei pensieri; lo spingeva quasi a non importarsene, contraddicendo il suo volere proteggerla, persino da lui. 
Erano come due parti della sua mente che si opponevano agli estremi della sua testa, lottando per averla al suo fianco e anche per cercare di allontanarla.
Ma aveva appreso una cosa, sin da quando era bambino, che non sempre era positiva: l'orgoglio.
Ed ora, per quanto non volesse, l'orgoglio gli impediva di andare a riprendersela. E gli impediva di accettare un lavoro dal quale non era sicuro sarebbe ritornato.


Tom poggiò il cornetto che aveva in mano sul tavolo, e si portò le dita alle labbra per leccare via lo zucchero. 
-Quindi?- iniziò. -Che avete combinato?-
Megan guardò Hebe, che giocherellava con la bustina del tè, e alzò le sopracciglia disegnate tornando a fissare il ragazzo dinanzi a sé. 
-Sai, le solite cose.- strascicò. -Manicure, pedicure, pettegolezzi e film.- 
Lui si corrucciò: -Non sapevo che Harry avesse una passione per le unghie.- 
Hebe rabbrividì a quelle parole, ma non diede peso al magone che aveva in gola. 
-Non capisco di cosa tu stia parlando, sinceramente.- mormorò languida, sbattendo le ciglia come una cerbiatta. 
-Oh, io credo di si.- ribatté lui. -Mi riferisco a cosa hanno combinato loro, piccola strega.-
Megan lo fulminò con lo sguardo, e scosse la testa per fargli capire di tacere, senza però riuscire a non essere vista da Hebe. 
-Megan, sai che sono vicino a te, vero?- blaterò quest'ultima. 
La mora si fermò di colpo, facendo cadere ciuffi di capelli neri davanti al volto: -Certo, dolcezza.- 
-Allora, ti prego, smetti di mandargli segnali come se io non fossi qui.- 
-La biondina è perspicace.- rise Tom. 
-Chiudi il becco.- si alterò Meg. -E prendi un tovagliolo. Mi stai sporcando il tavolo di briciole!- 
Tom alzò gli occhi al cielo e si voltò, restando in bilico sulla sedia, per prendere il portatovaglioli sul bancone dietro sé.
-Contenta?- canzonò.
Lei annuì arricciando il naso, e si alzò per andare al bagno: -Non la importunare mentre sono via.- 
-Credi davvero che in quei cinque minuti della tua assenza potrei farlo?- 
-Te ne bastano due.- rispose lei.
-Me ne bastano due anche per qualcos'altro.- 
L'aria torrida è imbarazzante che seguì quelle parole la fece avvampare.
Hebe alzò gli occhi inorridita, e li vide lanciarsi occhiate bollenti come se lei non fosse tra loro. 
-Ragazzi?- sibilò, imbarazzata. -Meg?- 
Lei si ridestò e la guardò confusa, poi rise e si diresse in bagno.
Tom riprese a mangiare la sua colazione, e quando ebbe finito posò i gomiti sul tavolo e inchiodò gli occhi nei suoi. 
-Il tè non ti piace o hai altro per la testa?-
La sua voce gli rimbombò nella mente, facendole notare che non aveva ancora iniziato né a bere né a mangiare: -Non ho tanta fame.- 
Lui prese un respiro: -Non hai tanta fame da tre giorni.- 
-Ieri ho mangiato.- 
-Sai che acqua e gomme da masticare non sono un pasto, vero?- 
Lei arrossì e si guardò le mani, iniziando a grattarsi le nocche con frenesia. 
-Anche lui non mangia da tre giorni.- 
La sua voce fu così flebile che per un istante credette di non averla sentita davvero, ma che quelle parole fossero solo un gioco della sua mente. 
-Cosa?- chiese, intontita.
-Sai benissimo a chi mi riferisco, Hebe.- disse piano. -Sta impazzendo. Non esce dalla sua camera da quando sei andata via, si rifiuta di parlare persino con me e credimi, che con me parla sempre. Quindi ti prego, puoi farmi capire cosa gli sia successo? Perché sei andata via?- 
-Non sono andata via.- ribatté lei. -Sono ancora qui, non posso scappare.-
-Sei andata via da lui.- 
Lei si alzò in piedi, continuando a grattarsi le nocche, e respirò affannosamente: -Non ti sei mai chiesto se è stato lui a mandarmi via?- chiese, camminando avanti e indietro. -Perché devo essere stata io? Non hai mai pensato che magari è stato lui a decidere di farmi venire qui, da Megan?- 
Tom si mise in piedi lentamente, quasi con noia, e le andò tanto vicino che lei poté sentire l'odore del suo dopobarba, ed anche l'aroma del profumo di Meg che gli aleggiava attorno al collo. Quasi le venne da sorridere. 
-E tu ti sei mai chiesta perché io sia così convinto che sei stata tu a decidere di andare via?- sibilò. -Conosco Harry da neanche ricordo quanto, è mio fratello.- Strinse il labbro inferiore tra i denti, e guardò da un'altra parte. -Lo conosco meglio di quanto conosca me stesso, e so per certo che non ti avrebbe mai lasciata andare. Anche se questo avrebbe comportato mettersi contro tutti.- Le puntò un dito sul petto e la fissò così profondamente che fu lei, ora, che dovette distogliere lo sguardo. -Ti conosce realmente da così poco tempo, eppure sei già così importante per lui. Quindi non venirmi a dire che è stato lui a mandarti via, perché credimi, che non ci avrebbe neanche mai pensato.- 
Nei secondi successivi iniziò a chiedersi cosa avesse mai pensato di poter fare, di poter dire, nonostante sapesse benissimo quanto Tom fosse bravo con le parole. 
-Ora puoi venire!- urlò poi lui.
Hebe corrugò la fronte, e lo vide sorridere impertinente. Cosa?
Il viso di Megan spuntò da dietro la parete alle loro spalle, e il contrasto tra la sua carnagione scura, ora rossa, e il bianco del muro era così evidente che Hebe dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere. La situazione non glielo permetteva.
-Non stavo origliando.- sottolineò subito lei. Quando si rese conto del sorriso beffardo del biondo sbuffò e andò loro incontro: -Come facevi a sapere che ero lì dietro?- 
-Andiamo, neanche tu impieghi così tanto tempo per fare pipì.-

Quando aveva Megan aveva fatto entrare "il Messaggero" nella stanza, un uomo minuto e dai capelli folti di nome Enea Atala, non si sarebbe mai aspettata che quella ad essere convocata con urgenza sarebbe risultata proprio lei. 
Sia lei che la mora credevano che servisse l'aiuto di quest'ultima in qualche lavoro del mestiere, dato che solitamente era lei a ricevere certi avvisi, eppure entrambe erano in errore.
-Tuo padre vuole vederti, ha detto che è importante.- aveva detto.
E lei era rimasta perplessa ed anche, nel profondo, alquanto lusingata per quel modo di porsi che solo a lei era destinato. 
Continuava sempre a trovare strano e triste il fatto che fossero rare le volte in cui era John in persona a convocarla, ma col tempo si era resa conto che in quel tipo di ambiente quello era il massimo che poteva pretendere quando vi erano più persona in loro presenza. Ma non era ancora passato abbastanza tempo affinché trovasse questo anche solo lontanamente normale. 
Quando Enea aveva pronunciato quella secca frase, senza giri di parole, lei aveva sentito il cuore saltare un battito. 
-Notizie di mia madre?- aveva chiesto. -Verrà anche lei qui?- 
L'aria sognante che aveva momentaneamente invaso il suo viso pallido lo aveva imbarazzato, ma con aria seria, schiarendosi la voce, le aveva confidato che non era sicuro si trattasse di quello. 
Alla vista del suo sguardo angosciato si era richiuso di tutta fretta la porta alle spalle, e Megan l'aveva guardata stranita, con lo spazzolino tra i denti: -Forse ti ha comprato un gatto.- aveva strascicato. 
E lei le aveva sorriso, sperando infondo che fosse qualcosa di simile. 
Ma ora, mentre camminava in quel corridoio all'ultimo piano che aveva calpestato tante e tante volte, sentiva che un piccolo gatto sarebbe stata l'ultima cosa che John le avrebbe mostrato. 
Bussò piano e esitante alla porta semichiusa, intravedendo un fascio di luce mattutina spianarsi in una sottile riga chiara sul pavimento. 
-Entra.- Sentì dire dall'interno. 
Si fece coraggio e in un colpo d'impeto spalancò quella lastra di legno che la divideva dalla soluzione alle sue domande: il cuore le si fermò.
In un primo momento non si accorse neanche della persona seduta di fronte suo padre, accasciata ma composta in una maniera calcolata, incentrando tutta la sua attenzione sull'uomo da cui era partito tutto ciò. 
Aveva inchiodato gli occhi nei suoi, entrando con un semplice: -Ciao, papà.- 
Poi però lo sguardo di John si era posato su quella persona, per un istante passatale inosservata, e anche lei di conseguenza aveva puntato gli occhi cristallini in quella direzione.
E non ebbe bisogno di vedere chi fosse in volto per capire di chi si trattasse. 
-Siediti, scricciolo.- le disse John, indicando cortesemente con una mano l'altra sedia libera. 
Hebe mosse passi indecisi, finendo per urtare col bacino spigoloso l'angolo della poltroncina; si sedette, rigida e severa, e fissò la persona al suo fianco. 
Harry non la guardava neanche.
Se ne stava impassibile, come ormai aveva appreso fosse sua abitudine, battendo il piede sinistro sul pavimento in un ritmo costante e preciso, quasi a voler intonare una canzone. 
-Credo che scheggia le piaccia di più.- ribatté, vitreo. 
-Avete forse qualcosa che dovreste dirmi, ragazzi?- chiese John, ignorando il commento precedente.
Lei non gli toglieva gli occhi di dosso, ammirando come la forma della mascella e il profilo del naso fossero così ben proporzionati da risultare quasi impossibili. Le ciglia lunghe e nere, che stagliavano ombre fin sotto gli zigomi, si posavano sulle guance bianche dandole l'impressione che avesse quasi gli occhi chiusi. 
La bocca rossa, la spalle larghe e le collane d'argento che sparivano sotto la maglia leggera. 
Le collane. 
Lui ne aveva sempre portata una sola; il pensiero che fosse quella di Kate la fece tremare.
-Tuo padre ti ha fatto una domanda.- sospirò lui, facendole alzare gli occhi.
Era così concentrata a cercare di intravedere il ciondolo che non s'era accorta che lui la stava guardando e aveva smesso di battere il piede. Arrossì e iniziò a grattarsi le nocche.
-In realtà l'ho fatta ad entrambi.- lo contraddisse suo padre. -E sarei felice se mi guardaste, ora che iniziamo a parlare del perché vi ho convocato.- 
-Cavolo, John.- sbuffò Harry. -Sembra di star parlando con un datore di lavoro.- 
-In teoria lo sarei.- sorrise. -Adesso per entrambi.- 
Hebe corrugò le sopracciglia, fermando le sue unghie che grattavano con forza sulle nocche.
Trattenne per qualche secondo il fiato, rilasciandolo poi in un soffio di dolore: sentiva il pizzicore della carne che aveva sfregiato bruciare contro la polvere nell'aria. 
Le mani di Harry si strinsero in due pugni, finendo per non far passare il sangue nelle dita, che divennero biancastre. 
La sua mente formulò un pensiero che la fece sorridere d'istinto: faceva così solo quando voleva toccarla, ma si tratteneva dal farlo. Lo sapeva. 
-Avevamo detto che sarebbe rimasta fuori da tutta questa storia, John.- esplose poi lui. 
-E noi invece che ti saresti preso cura di mia figlia.- ribatté irato, alzandosi e poggiando i palmi sulla scrivania. -Quando lei ora si trova a dormire in una stanza che non è la tua.- 
-Come fai saperlo?- chiese lei, curiosa e imbarazzata per lo sguardo che rivolse ad entrambi. 
-Sono gli occhi e le orecchie di questo edificio, bambina mia. So tutto.- 
-Ora dorme da Megan Lanford, la sorella di Jack Lanford. Non vedo cosa ci sia di sbagliato.- 
-C'è di sbagliato che io avevo affidato a te il compito di starle accanto, in quanto se dovesse restare da me sarebbe sottoposta a continui trasferimenti. E io ho deciso che doveva stare nella tua stanza.- esordì. -Le vostre discussioni non mi interessano, e non devono essere motivo di certi comportamenti. Lei tornerà a stare da te, e non voglio venire mai più a conoscenza di niente del genere.- 
-Non sei il mio capo, John.- disse Harry, irrigidendosi. 
-No, non lo sono.- biascicò lui. -Non sono il capo di nessuno, qui. Tutti hanno la piena libertà di andarsene quando vogliono. Io provo semplicemente a combattere esattamente quello che un volta erano anche loro.- proseguì. -Ma sono la tua famiglia, il che è di gran lunga diverso.- 
Calò il silenzio.
-Sai che non volevo negare questo.- sospirò Harry. 
-Lo so, ragazzo.- precisò. -E ti chiedo di portarla con te a svolgere quel compito. Niente di più, niente di meno.-
Hebe guardava suo padre con confusione mista a tristezza, ed Harry nella stessa maniera. 
-Di che cosa state parlando?- chiese dunque, prendendo parola.
John si sedette nuovamente, e respirò profondamente prendendosi sfregandosi la faccia con le mani ruvide.
-Harry andrà per qualche giorno a Venezia, in Italia.- La guardò. -E tu andrai con lui.- 
-Sei pazzo.- dichiarò Harry, in una singola risata, secca e dura.
-Come?- farneticò lei, tenendosi ai braccioli della poltroncina per paura di cadere. 
-Non la voglio con me.- insistette lui, facendola sentire minuscola. -Come pensi che potrò terminare il lavoro se devo stare attento persino che non si strappi un capello?- 
-Ho già preso la mia decisione.- sorrise lui, provando a rassicurarla.
-La tua decisone?- ripeté Harry, alzandosi in piedi. -E come pensi che possa mai proteggerla lì?- 
-Non voglio che tu la protegga, in quel posto.- chiarì John e loro lo guardarono. -Voglio che la educhi.- 
-Papà.- sospirò lei.
-Vuoi tenerla lontano da questo mondo, facendocela entrare?- rise Harry, fissandolo scettico. -Fatico ancora a capirti.- 
-Non voglio che lei entri in tutto questo, figliolo. Voglio solo che impari a difendersi da quello che questa vita comporta.- 
Lei si passò le mani tra i capelli, ed Harry la guardò. 
-Sei tu suo padre.- disse. -Insegnale tu quello che deve sapere. Io non la porterò lì, non di mano mia. Non mi prenderò le responsabilità di quello che potrebbe accadere e non ti lascerò convincermi a farlo. Falle incontrare la morte per opera di qualcun altro. Ma sii certo che non avverrà sotto la mia guida.- 
Hebe non sapeva come sentirsi, in quel preciso momento: non capiva se quelle parole e quella freddezza fossero dovute al fatto che non la volesse con lui, o semplicemente perché ancora si interessava a tenerla al sicuro, anche se fingeva fosse il contrario. 
-Non succederà nulla di simile, figliolo.- disse John, andandogli incontro. -Sai benissimo che è più al sicuro con te di quanto lo sarà mai con me.- proseguì, con voce bassa. -Per quanto questo possa farmi sentire inutile ed un pessimo padre, la sento salva più con te. Anche se a volte ti comporti come un bambino viziato, sai proteggerla meglio di quanto io potrò mai fare.- 
Hebe si alzò a sua volta: -Come puoi sapere che mi proteggerà così bene come pensi?- 
Camminò lentamente, trovandosi faccia a faccia col ragazzo dalla quale era scappata pochi giorni prima. 
Inchiodarono i loro occhi, e nonostante parlassero a suo padre non smettevano di guardarsi. 
-Perché questo ragazzo è più uomo di tutti quelli che ho conosciuto finora.- rispose. -Ha conosciuto il dolore della perdita più di chiunque altro, e meglio di tutti sa quanto la vita delle brave persone sia un bene importante.- Le prese una spalla e la voltò verso di sé: -Partirai con lui Hebe, imparando come difenderti in un mondo del quale solo io sono stato artefice. Non avrei mai voluto portare la mia bambina in tutto questo e mi sento una persona orribile per averlo fatto, non smetterò mai di ripetertelo. Ma ora devi andare con lui, e sapere come difenderti dai miei errori.- 
-Non posso farlo.- esordì Harry, continuando a guardarla. 
-Invece puoi.- ribatté John.
-Se le accadesse qualcosa me ne sentirei colpevole a vita.- Sospirò. -Non posso avere un altra morte sulla coscienza, John. Non posso.- 
Quelle parole la fecero sussultare: chi era morto a causa sua?
Una parte di lei le suggeriva insistentemente la terribile risposta a quella domanda, ma stava provando con tutte le sue forze a reprimere quel sentore. Ma il diario, la collana, la stanza chiusa a chiave e la sua rabbia nell'affrontare quegli argomenti, le suggerivano solo un nome: Kate.
-Sono suo padre, Harry. Non la manderei mai in pasto alla sua fine.-
Lui gli rivolse il suo sguardo, facendola sentire abbracciata dal freddo non appena i suoi occhi la lasciarono. 
-Non se lei non lo vuole.- chiarì Harry.
-Voglio farlo.- si sentì dire, quasi fosse un'altra lei a pronunciare quelle parole. -Voglio imparare a difendermi.- 
Harry la guardò nuovamente, e lei vide per qualche secondo un luccichio brillargli meglio occhi cupi. 
-E così sia.- dichiarò allora il ragazzo, alzando il mento in un movimento di superiorità. -Fatti trovare pronta per il tramonto. Partiamo per Venezia.- 





Angolo Autrice:

Giovincelle e giovincelli!
Ecco il nuovo capitolo!
...con tanti giorni di ritardo, però oramai credo abbiate capito come son fatta.
Non voglio blaterare e annoiarvi adesso, anche perché sono in macchina e mi sta venendo il voltastomaco guardando il cellulare, ma volevo solo dirvi che, come sempre, vi sono grata per le belle parole che spendete per farmi sapere cosa ne pensate dei miei scritti!
Ora vado, prima che vomiti sul sedile!
...è un'immagine alquanto oscena, ma d'accordo.
Un bacione, e buon fine settimana,
Abby_xx






Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** CAPITOLO XVIII ***


                                                  CAPITOLO XVIII




Il grigio del cielo si stendeva come una coperta sopra la testa di Hebe, avvolgendola di un tenue bagliore azzurrino che le ricordava la trama sottile della pelle delle sue palpebre.
 Era adornato da nuvole nere che si diramavano in tante soffici strisce che rendevano quasi invisibile la lucentezza dei raggi del sole.
 Aspettava sui gradini dell'edificio che Harry arrivasse, provando a ignorare il magone che le chiudeva la gola, seduta con le gambe al petto e gli occhi rivolti verso l'alto.
 Una grande macchina nera a due scomparti, che le ricordava quasi un furgoncino, era appostata poco lontano da lei e Freddie e Mitchell Johanner, quelli che il padre le aveva presentato tempo prima come gli uomini d'acciaio che l'avrebbero protetta al di fuori di lì, attendevano pazienti contro gli sportelli dell'auto.
 Aveva appena salutato tutti: il padre, Tomàs e Megan, che l'avevano stretta fino a lasciarla senza fiato, Ethan e Tyler, fino ad arrivare a Jack, che l'aveva abbracciata imbarazzato senza guardarla negli occhi. Sorrise a quei pensieri, pensando a come si trovasse bene in quel determinato ambiente nonostante la funzione che sapeva avesse. E nonostante la mancanza della madre e di Church che aveva paura potesse svanire.
 Non sapeva esattamente cosa pensare, su cosa riflettere prima che lo vedesse varcare la porta d'entrata: aveva davvero in mente di andare a Venezia, pergiunta da sola con lui?
 Non era sicura di voler affrontare quel mondo, di voler davvero entrare in qualcosa di più grande di lei.
 Soprattutto se la prospettiva che le si proponeva davanti era dover passare giorni, settimane, se non mesi, sola col ragazzo che stava provando ad odiare, nonostante non ci riuscisse.
 Aveva però deciso fermamente di volerlo ignorare il più possibile, o perlomeno di parlagli, seppur sempre con distacco, solo durante i suoi "addestramenti".
 Chiuse gli occhi, tanto simili al cielo sopra di lei, e provò a dimenticarsi di tutto, lasciandosi andare ai rumori che le si riversavano attorno: le foglie che volavano ai lati del suo volto, il vento che le soffiava sul viso, facendole tremare le labbra tanta era la potenza con cui si scagliava contro il suo corpo minuto. Ebbe quasi l'impressione che potesse volare via, se si fosse abbandonata a quella forza.
 -Non dovresti stare qui, con questo freddo.-
 Una voce fredda la travolse completamente, facendole scorrere un brivido dietro la schiena; non ebbe bisogno di aprire gli occhi per capire chi fosse. Harry.
-Potresti prenderti un malanno.- continuò, sedendosi accanto a lei. Sentiva il calore della sua spalla che sfiorava la sua invaderla di un calore improvviso, nettamente in contrasto con l'aria esterna.
-Ora ti interessa della mia incolumità fisica?- chiese, con una freddezza spavalda che dedusse fosse tale solo grazie al fatto che non lo vedesse, sprofondata com'era nel buio delle sue palpebre chiuse.
 Lo sentì trattenere per un attimo il fiato, e pensò che forse fosse stata troppo gelida difronte alla sua premura.
 Poi però l'immagine di lui avvinghiato sere prima al copro di un'alta donna la travolse, facendole venire voglia di vomitare. E improvvisamente non le importava più se lo avesse ferito o meno.
-In realtà non vorrei dovermi portar dietro un peso inutile.- replicò, adattandosi al suo atteggiamento distaccato. -Stiamo andando a Venezia cosicché io possa insegnarti a sfruttare le tue capacità, non per farti da infermiere.- concluse, sfrontato. -Sempre che tu ne abbia, di capacità.-
Lei aprì gli occhi, voltandosi di scatto in un impeto di sdegno. Lo vide con un sogghigno stampato sul volto, la schiena ritta e la sua solita espressione che sembrava piena di tristezza e derisione verso il mondo.
 Guardò il cielo socchiudendo gli occhi, facendole mozzare il fiato tanta era la bellezza che sin dal primo giorno aveva notato avesse, e finse che la tensione e la rabbia che aleggiava tra loro non esistesse.
 Si chiese quale fosse il motivo di tanta falsa tranquillità: forse era troppo orgoglioso per ammettere quanto stava accadendo, e di conseguenza per capire il disagio e l'odio, quasi, che lei provava in sua presenza; oppure, semplicemente perché suo padre era stato così categorico, che lui aveva capito che doveva agire come se niente stesse accadendo, al fine di portare a termine quel servizio oltreoceano del quale lei ancora aveva preferito restare all'oscuro.
 Tossì, riportandola con gli occhi su di lui. Non si era resa conto che si era alzato e le aveva teso una mano, e che aspettava che lei poggiasse il proprio palmo sul suo.
 -Andiamo?- chiese, dolcemente.
 Lei si sentì avvampare, sorpresa da quell'improvviso tono cordiale, e si alzò, impacciata, strofinandosi la mano sudata sui pantaloni prima di posarla sulla sua.
 Se una parte di lei aveva pensato che lui volesse accompagnarla all'auto mano nella mano, si sbagliava: l'aiutò solo ad alzarsi, poi la lasciò sola mentre iniziava a camminare.
-I bagagli sono già dentro la macchina.- sussurrò, mentre si avvicinavano a Freddie e Mitchell. -Ho provato a convincere Megan ad aiutarmi a scegliere qualche libro da farti leggere durante il viaggio, ma si rifiuta di parlarmi. Almeno fino a quando non le avrò detto di cosa sono colpevole. Così ho fatto da solo.-
Si grattò le nocche delle mani, cercando di convincersi che non si stesse davvero scusando indirettamente; almeno fino a quando non le avrò detto di cosa sono colpevole.
 Quella frase le rimbombava nella testa come il rintocco di una campana.
 Poi pensò alla frase precedente: le voleva regalare un libro. Per poco non le venne voglia di chiudere in un cassetto lontano l'orgoglio e perdonarlo all'istante: si diede della stupida da sola.
-Avresti potuto chiedermelo personalmente.- ribatté, dopo qualche secondo d'esitazione.
 Lui corrugò la fronte: -Credevo avessi chiarito di non volermi più vedere.- disse. -E che quello che ha detto tuo padre oggi avesse mandato in frantumi i tuoi piani. Non volevo infierire.-
 -Non sono una bambina. E poi non ho mai detto di non volerti più vedere.- chiarì lei, provando a sembrare rigorosa e di ghiaccio: sembrava che lui stesse per scoppiarle a ridere in faccia.
 Possibile che ha già scordato cosa ci siamo detti l'ultima volta, e come io me ne sia andata?
 Sembrava così di buon umore, pensò, che avrebbe quasi voluto prenderlo a schiaffi fino a che non fosse tornato serio.
-Quindi ti manco?- domandò lui, mentre le apriva lo sportello e salutava con un cenno del capo i fratelli Johanner.
 Lei si voltò, guardandolo dritto negli occhi, poi disse: -Intendevo solo che sarebbe risultato impossibile. Viviamo sotto lo stesso tetto.-
E salì in macchina.
 Non alzò lo sguardo per vedere che faccia avesse fatto, ma sperava ardentemente di averlo lasciato a bocca aperta; quando entrò anche lui, sedendosi sul sedile dinanzi a lei, sorrideva ancora più di prima.
 Stupido, stupido, stupido.
 Distolse lo sguardo, incrociando le braccia al petto dopo averlo sentito emettere un verso tra il divertimento e la noia.
-Per quanto tempo andrà avanti così?- chiese, massaggiandosi la fronte. -Mi ignorerei tutto il tempo, Arabella?-
Trattenne il fiato: non l'aveva mai chiamata così, e lei non aveva nemmeno mai notato come il suo nome venisse pronunciato.
 Il leggero soffio che lasciava le sue labbra quando si soffermava sulle consonanti, il mondo il cui queste si toccavano. Avvampò.
 -Cosa hai detto?- chiese, senza ragionare prima di parlare.
 Aveva quasi la sensazione di essersi sognata tutto.
 Lui espirò: -Ti ho domandato se sei a conoscenza di quanto durerà questa scenata.-
 -No, intendevo l'altra cosa.-
 -Di che parli?-
 -Mi hai chiamata Arabella.- sussurrò, tornando a guardarlo. -Non l'avevi mai fatto prima.-
 -Io, io...- balbettò. Vide quasi tingersi le sue guance di rosa, ma si disse che era impossibile. Harry non arrossiva mai. -Non me ne sono reso conto. Sono desolato.-
 -Mi piace.- strascicò invece lei, accennando un sorriso.
 Lui la guardò confuso, come se si fosse appena ridestato da un sogno e non sapesse se ciò che stava guardando fosse sogno o realtà.
 Hebe lo osservò con meticolosa attenzione, concentrandosi su ogni dettaglio del suo volto e del suo corpo come se volesse ricordarne i particolari una volta chiusi gli occhi, la notte.
 I mossi capelli scuri arruffati davanti agli occhi; questi cerchiati da profonde mezzelune viola; le guance pallide e la curva morbida delle labbra rosse. Poi la mascella, i contorni distinti del volto, le ombre del bosco al di fuori che si stagliavano sulla parte destra del suo corpo. I muscoli asciutti, il busto eretto, la gambe lunghe, le mani coperte di bianche cicatrici e i vestiti spiegazzati, come se non li togliesse dalla sera precedente. Sembrava non dormisse da giorni.
 Si sentì mancare un battito.
-Piace anche a me.- Lo sentì bisbigliare, pochi istanti dopo.
 I loro occhi si incontrarono, e per quel breve periodo di tempo tutto ciò che era estraneo a loro due sembrò ovattarsi, lasciandoli a crogiolarsi, ignari di tutto, privi di malizie, nella loro piccola parte di mondo.
 Poi un guizzo apparve nei suoi occhi, e lui sussultò, come se si fosse appena ricordato qualcosa: si mosse con rapidità, voltandosi per slacciarsi la cintura che si era appena resa conto avesse allacciato, e prese dalla giacca un piccolo rettangolo rigido avvolto da carta lucida: il libro.
 Le mani le pizzicarono quasi avesse toccato dell'ortica, tanta era la voglia che aveva di vedere cosa fosse, e quando lui glielo porse lei lo prese con tanta velocità da farlo sorridere.
 -Che cos'è?- chiese, felice come una bambina il giorno di Natale.
 Lui lo indicò con un movimento della testa: -Aprilo.-
Infilò le dita sottili tra le pieghe della carta e, dopo qualche vano tentativo, riuscì a strapparla rivelandone il contenuto: la scritta Aforismi risaltava luminosa quasi fosse stata in possesso della luce delle stelle, lasciando che la copertina rossa le facesse da cielo.
 Aprì e chiuse la bocca più volte, non sapendo né cosa dire né come reagire a quell'inaspettata sorpresa.
 Era esattamente lo stesso libro che aveva lui ma, una volta sfogliata la prima pagina, si rese consapevole che la dedica della misteriosa Kate nella sua copia mancava.
 La testa le girava: che quella fosse una cattiveria della quale era autore per farle pentire di aver preso a sua insaputa il suo libro?
 Si raddrizzò, e lo vide corrucciarsi non appena il suo sguardo divenne nuovamente freddo.
-È per quello che ho fatto?- chiese. -Ti ho già chiesto scusa. Questa è solo pura cattiveria.-
Lo sguardo di Harry si andò a scurire sempre maggiormente, sostituendo il verde acceso in uno cupo e desolato.
 Non riusciva a rendersi capace di quella situazione: non l'aveva mai visto così stanco e provato, così dedito al suo bene e voglioso del suo perdono.
 -Non fraintendere.- Adesso anche la sua voce era seria, esitante. -Volevo solo che lo avessi anche tu.-
-Perché? Così non potrò più mettere le mani sulle tue cose?-
Si toccò i capelli in un gesto esasperato: -Sto provando a comportarmi in maniera educata e premurosa. Non rendere le cose più difficili.- disse.
-Quindi mi hai perdonato?- domandò, tentennante.
 -L'ho già fatto da tanto, Hebe.- La guardò, in un misto di disperazione e freddezza. Lei non si scompose. -Ma a quanto vedo non posso dire lo stesso di te.-
Hebe si grattò le nocche, dopo aver posato sul grembo il libro: -Come puoi aver già dimenticato tutto dopo così poco tempo? Ti rendi conto di quello che è successo?-
 -Ho imparato a non provare rancore più del dovuto. Almeno non verso persone che non credo lo meritino.-
 -Io non ho imparato la stessa cosa.- dichiarò lei, lottando interiormente per non gettarsi tra le sue braccia a farsi sussurrare quelle belle parole di cui solo lui era capace. -Ti chiedo solo tempo. Tutto qui.-
Chiuse gli occhi, per non vedere il suo sguardo spegnere definitivamente la lucentezza che aveva avuto fino a poco prima.
 La portiera dell'auto si aprì d'improvviso, facendoli sussultare.
-Stiamo per partire, signor Styles.- lo informò Freddie, calandosi sul naso gli occhiali scuri.
 Il repentino cambiamento d'atteggiamento che lui ebbe la sbigottì.
 Scrollò le spalle, e irrigidì il volto.
-Perfetto.- biascicò lui. Notando che Freddie continuvsva a restare lì, in un misto di imbarazzo e tentennamento, chiuse gli occhi annoiato. -Cosa c'è ancora?-
 -Insomma... Volevo solo...- tossì arrossendo.
 -Freddie, non mordo.-
-Si. Cioè, no, certo.- Scosse la testa. -La sto aspettando.-
 -Oh.- fece lui, come se si fosse appena ridestato. La guardò nascondendo parte degli occhi sotto le lunghe ciglia scure. -Rimarrò qui. Avverti anche Mitchell che può partire.-
Hebe incrociò le braccia al petto e distolse lo sguardo, concentrandosi sulle pareti umide dell'istituto.
 Aveva davvero sperato di passare il minor tempo possibile in sua compagnia, anche se la vista di un ragazzo tanto bello non la disturbasse affatto; forse era proprio per quello che voleva stare sola.
 -Ma, signore... Non viaggia mai nel retro del furgone.-
-Devo assicurarmi che alla signorina Hebe non accada alcunché.-
Non sapeva esattamente perché, pensò Hebe, ma le sembrava tanto che quella fosse la prima cosa che gli fosse passata per la testa: quasi volesse giustificare il voler stare con lei.
 Freddie lo fissò confuso per qualche istante, poi annuì e li salutò con un cenno del capo. -Signor Styles, signorina.-
Andò via chiudendosi lo sportello alle spalle, e facendo sì che nell'abitacolo rimbombasse un opprimente silenzio.
 La macchina partì scoppiettando, e nell'avviarsi sulla strada sterrata si mosse tanto violentemente da farle sbattere la spalla spigolosa contro il finestrino: si morse il labbro superiore per non gemere.
-il viaggio durerà un bel po'.- disse, strofinandosi le mani sui pantaloni scuri. -Hai intenzione di costringerti al silenzio?-
 -Lo hai già detto.- esordì lei.
 -Non esattamente in questi termini.-
 Si rese conto solo in quel momento della maniera cordiale con la quale le si rivolgeva: non era mai così ironico e dolce; solo poche volte, quando lei riusciva a farlo abbandonare a sé stesso, nell'intimità di certi momenti in cui non avevano altro da fare se non parlare: ma adesso, dopo quello che era successo, credeva davvero che quel modo di approcciarsi per, forse, ristabilire il loro rapporto, era davvero poco conveniente.
-Sei sempre così rigoroso?-
 -Stai sviando la domanda, scheggia?-
Si irrigidì: non voleva la chiamasse così; non era giusto. Sapeva l'effetto che aveva su di lei: -Rispondi.-
 -Semplicemente mi piace usufruire di un linguaggio corretto.- Scrollò le spalle.
 -Il tuo modo di fare influisce sul comportamento degli altri, lo sai vero?-
 Lui sorrise: -Intendi Freddie? Oh, Cielo. Lui è solo troppo educato per smettere di darmi del voi.- Alla sua faccia confusa, sorrise ancor più. -Gli chiedo da tanto di smettere di rivolgersi a me come "Signore", anche perché come minimo ha il doppio della mia età, ma è stato educato in questo modo, e io non voglio privarlo delle sue abitudini.-
Lei annuì, distaccata, tornando a guardare fuori: il cielo sembrava essersi oscurato ancora di più, e le nuvole piene annunciavano pioggia.
 Pensò che sia sua madre che Church odiavano profondamente i temporali, e che ogni qualvolta lei si fermava davanti la finestra, magari con un libro o una tazza di tè tra le mani, la guardavano corrucciati.
-E su di te?- domandò dopo poco, improvvisamente serio. -Il mio comportamento, influisce anche su di te?-
Lei sospirò, e si prese un secondo per essere sicura di non rispondere con troppa enfasi. Contò fino a cinque, poi disse: -Si. Si, e tu lo sai.-
 -Ed è una cosa negativa?-
 -Dipende dalle situazioni.-
 -Tipo quali?- replicò, corrugando la fronte. -Tipo questa?-
 -Anche il mio modo di fare ti condiziona.- esordì lei, ignorando la domanda. -Forse adesso ti stai comportando come una persona umana per merito mio.-
Harry emise un verso spazientito: -Non so se te ne sei resa conto, ma io sono una persona umana.-
Hebe strinse i denti: -Certe volte ho dubbi a riguardo.-

Un rumore fievole e costante le penetrò nella testa con soffice delicatezza: sentiva un frusciare calmante, e un odore salato e gradevole invaderle il setto nasale.
 Non voleva aprire gli occhi, una volta resasi conto d'essersi addormentata ed appena svegliata, volendosi abbandonare totalmente a quella poetica condizione di calma e serenità.
 Ma un rumore sordo e improvviso la fece balzare sul sedile, esattamente nell'attimo in cui stava per ricadere nel sonno più profondo.
 Aprì gli occhi balzando, e strinse le mani sui cuscinetti di pelle dove era seduta per ristabilire l'equilibrio: era al mare, in un porto, e una nave stava per prendere il largo.
-Hebe!- urlò qualcuno fuori dall'auto, precipitandosi al finestrino.
Socchiuse gli occhi chiari, concentrandosi per guardare attraverso il buio della sera la igura slanciata che le si avvicinava quasi correndo.
 Harry ticchettò con le nocche sul vetro, e per un secondo, per la stanchezza e la confusione attorno a sé, non si rese neanche conto che era lui: aveva un cappello calato sui folti capelli scuri, una giacca mimetica e dei pantaloni da lavoro.
 Scoppiò a ridere, mentre lui le intimava digrignando i denti di abbassare il finestrino, e quando lo fece il suo riso non si placò affatto.
 Sembrava un tuttofare pronto per il suo lavoro, e con quel l'aria scorbutica e fintamente minacciosa ne dava ancor più l'idea.
-Che ci fai ancora qui?- sbraitò, calando la voce quando un'anziano signore dalla pelle ustionata gli passò accanto borbottando.
 -Come?- chiese lei, mentre lui infilava la mano nell'abitacolo e apriva lo sportello dall'interno. -Quando ti sei messo addosso quelle cose?-
 La fece scendere tirandola per la giacca e le serrò la mano sull'avambraccio per trascinarsela dietro.
 Era quasi notte fonda, e l'aria era umida e fresca come solo quella dei posti al mare può essere.
-Ti avevo detto cinque minuti fa di scendere dal furgone. Per poco non perdevamo la nave.- blaterò alterato, ignorando ciò che gli aveva chiesto.
 Si stropicciò gli occhi e lo guardò confusa e curiosa: -Io... Non ricordo.-
 -Certo, ti sei riaddormentata!-
La tenne per il braccio mentre salivano il piccolo ponte per entrare nel retro dell'enorme nave, accompagnati da un giovane uomo, e una volta dentro lei si guardò attorno.
 Assi di qualche metallo rivestivano le pareti della stanza buia in cui erano, e grandi box di plastica erano disposti tutt'attorno le pareti e il pavimento.
 -Dove siamo?- chiese. -Dove sono Freddie e Mitchell?-
 Lui armeggiò con un chiavistello e una volta finito di aprire un box, girò il corpo verso di lei.
 -Sono andati via appena sei scesa dalla macchina.- disse. -Te ne saresti accorta se prestassi attenzione a quello che succede.-
-Perché siamo qui dentro?- proseguì, ignorando il commento del ragazzo. Nello stesso istante in cui pronunciò quelle parole, un uomo due volte la stazza di Harry uscì dal box; salutò entrambi e avanzò nell'altro capo della stanza.
 Strabuzzò gli occhi sconvolta, e si portò una mano al petto.
 Stava sognando?
 Si grattò le nocche, e dal dolore delle unghie sulla carne già scavata trasalì, rendendosi conto che quella era la realtà. Una terribile realtà.
-Oh Dio, ma quello è un uomo!- sussurrò, avvicinandosi ad Harry. -Ed è appena uscito da lì dentro!-
Alzò un dito e indicò freneticamente il box rosso. Lui alzò pacato a sua volta una mano e la posò sulla sua, abbassandola con calma.
-Davvero?- chiese, stupito. -Il tuo grado di distinzione dei sessi e di localizzazione è veramente elevato.-
 -Non fare lo stupido.- ringhiò, fulminandolo con gli occhi.
 Lui la guardò con circospezione, poi sorrise.
 -Si chiama Xavier, e lavora per tuo padre.-
 Non ebbe bisogno di chiedere cosa facesse, oramai tutte le persone che incontrava le rispondevano la stessa cosa: era lì per proteggerla.
 Guardò Xavier, e distolse lo sguardo quando vide la cicatrice che gli deturpava la parte sinistra del collo.
Ignorò una vocina che cercava di farle capire perchè la maggior parte delle persone che aveva conosciuto negli ultimi tempi fosse ricoperta di cicatrici: non era affatto quello il momento di sembrare una bambina spaventata.
-Allora, perché siamo qui?- domandò, per l'ennesima volta. -Non credo sia esattamente legale.-
 -Cosa te lo fa pensare?- chiese lui, poggiandosi una mano callosa sul petto con fare indignato.
-Non saprei.- disse lei. -Sarà che siamo solo noi tre in un carico merci.-
Lui sorrise, e scrollò le spalle: -Però, ottima intuizione.-
 -Quindi è illegale?-
 -Fai sempre tante domande?- domandò. -Non è esattamente illegale.-
 -Ma non è neanche legale.-
 -È il modo più sicuro per arrivare a Venezia senza inconvenienti sgradevoli, va bene?-
Lo fissò arrabbiata, senza neppure un preciso motivo -un po' per la scena delle notti prima che continuava a ripetersi nella sua mente, un po' per il sonno che ancora le faceva pulsare le tempie- e si legò i lunghi capelli rossicci in una coda armeggiando con un nastro di raso bianco che aveva legato al polso.
 -Vieni a sederti. Cadrai tra non molto, ne sono sicuro.- le disse lui, sedendosi a terra con la schiena al muro mentre la nave la faceva ballonzolare da un lato all'altro.
-Riesco a tenermi in piedi, ti ringrazio.- biascicò, avanzando con attenzione.
 Ma l'equilibrio, lo sapeva, non le apparteneva per nulla: cadde dopo pochi passi, percependo il pavimento di metallo sempre più vicino al suo volto mentre cadeva a faccia in giù.
 Si ritrovò sorretta a pochi centimetri dal suolo, e quella scena, per quanto imbarazzante, le ricordava tanto il giorno che lo ebbe conosciuto, quando aveva rischiato di scivolare sull'erba bagnata e si era ritrovata col volto di un angelo a guardarla accigliato.
 Ma ora la situazione era alquanto diversa, perché, si rese conto, non era stata proprio presa al volo ma era più che altro caduta sulle sue gambe, finendo con la testa sul suo petto.
 Alzò lo sguardo rossa in viso e per quanto provò a mantenere lo sguardo severo, era consapevole di essersi abbandonata alla sua stretta confortante, per quanto fredda fosse.
-Ricorda...- sussurrò.
-Hai sempre ragione?- lo anticipò Hebe, sorridendo suo malgrado.
 Harry le guardò le labbra, e scosse la testa.
-Ci sei andata vicina.- esordì. -Volevo dirti di ricordare delle mie capacità di predizione del futuro.-
Gli angoli della bocca le guizzarono verso l'alto, e le represse l'istinto di sorridere ancora di più.
 -Non credo tu ne abbia.-
 -E quella di prima cos'era, se non queste?-
 -Fortuna.- Scrollò le spalle.
 Il volto di Harry si fece allora serio, e il sorriso andò a sciamare dal suo volto.
 Deglutì, ed Hebe guardò incantata il movimento della sua gola e i suoi occhi cristallini.
 D'improvviso si rese consapevole della pressione delle sue mani sulla sua vita, del suo respiro caldo che le bruciava la guancia, del calore che aleggiava tra loro due nonostante il freddo e del palpitare veloce della vena del collo di Harry che le mostrava il battito del suo cuore, e che andava a ritmo con il suo.
 Lui la guardò, e le sembrò tanto che stesse guardando oltre lei, al suo interno: come se potesse vedere la sua anima riflessa e ne stesse studiando l'immagine.
 Nonostante i vestiti doppi e la giacca pesante, si sentì nuda sotto quello sguardo.
 -Forse ti conosco semplicemente troppo bene.-






 

Angolo autrice:
 Fanciulle e giovanotti miei!
 Ecco qui il nuovo capitolo, con il solito ritardo e la solita scrittura lunga -spero non noiosa- che ogni mese vi propongo... Questa volta da dire non c'è tanto, più che altro perché sapere come sono fatta, e che non trovo mai le parole per commentarmi!
 Quindi fate voi, con commenti positivi o negativi, mi anno piacere entrambi.
 Oramai ve lo dico da tantissimo tempo, quindi inutile ripeterlo!
 Vi lascio, che devo tornare a studiare per un esame!
 Baci e buonanotte,
 Abby_xx

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** CAPITOLO XIX ***


                                                                                             CAPITOLO XIX


Era quasi sorta l'alba, ed Harry continuava a stare con la schiena poggiata al muro di ferro della nave e con la testa rossiccia di Hebe china sulla sua spalla.
 Sentiva le gambe intorpidite, le braccia pressate da una forza invisibile e gli occhi stanchi e doloranti: ma svegliarla per farla spostare era l'ultima cosa che voleva.
 Ne sentiva così tanto la mancanza, quasi questa potesse trafiggergli il cuore con milioni di aghi invisibili, ognuno dei quali chiamava il suo nome.
Hebe, Hebe, Hebe.
 Negli ultimi giorni era tutto ciò a cui aveva pensato: aveva socchiuso gli occhi e l'aveva immaginata più volte accanto a sé, con i suoi grandi e chiari occhi, la sua bocca rossa e la sua espressione matura così spaventosamente confortante nel suo corpo elegante e minuto.
 Aveva pensato a come si sarebbe potuta inginocchiare al suo fianco, le notti che aveva passato insonne appoggiato alla porta, mentre i capelli rossicci le svolazzavano attorno come un mantello, e al modo in cui lo avrebbe rimproverato per il disordine e poi gli avrebbe preso la mano, cullandolo mentre lui le chiedeva perdono.
 Strinse con forza gli occhi, sentendo il sapore amaro della bile salirgli alla gola: non riusciva a credere a quello che aveva fatto.
 Credeva di star cambiando al suo fianco, di star migliorando e tornando al ragazzo gentile e giusto che era un tempo. Quello che non le avrebbe mai gridato contro perché aveva frugato nel suo armadio, ma che avrebbe provato ad ascoltarla conoscendo la sua curiosità; quello che non avrebbe mai portato, la sera stessa in cui l'aveva lasciata per ore ed ore in casa da sola, un'altra donna, solo per vederla soffrire come aveva sofferto lui.
 Perché era vero che aveva sofferto; vederla con quella catenella al collo e sapere che aveva letto il suo libro, lo aveva ricondotto allo stato di rabbia e tristezza che aveva provato quando Katherine era morta; e lui aveva intenzione di non tornare con la mente su quell'avvenimento più del necessario.
 Ed era proprio per quel motivo che tutte le volte che aveva voluto chiederle perdono, qualsiasi cosa questo avrebbe implicato poi, camminando velocemente fino alla porta della camera di Megan, era restato lì davanti per non sapeva quanto tempo. E poi era andato via; con la mascella serrata ed uno squarcio nel petto.
 Aprì gli occhi e spostò accigliato lo sguardo sulla ragazza poggiata su di lui, e represse l'istinto di scostarle una delle ciocche che le copriva gli occhi chiusi; la osservò -sapendo che nonostante tutte le volte che l'aveva guardata dormire ogni volta che si perdeva in quella visione scovava un particolare diverso, nuovo e spettacolare- e lei, quasi accorgendosi di quello che stava facendo, corrugò le sopracciglia alzando una mano per strofinarsi il volto. Poi sbadigliò e si svegliò.
-Buongiorno, dormigliona.- sussurrò Harry, reprimendo un sorriso.
 Hebe si guardò attorno, confusa, e lui vide la sua pupilla dilatarsi e poi rimpicciolirsi nuovamente quando lei ricondusse gli avvenimenti e capì dove si trovava; quando spostò gli occhi su di lui e lo vide a poco dal suo viso, arrossì furiosamente.
 Sollevò il suo corpo spigoloso lasciando libero il braccio sinistro di Harry, poi tolse il nastro di raso dai capelli scompigliati e lo legò al polso.
 -Non volevo dormirti addosso.- biascicò, guardando ovunque tranne che lui. -Ti... Ti ho fatto male?-
Il suo improvviso essere timida e impacciata -in netto contrasto con la Hebe che poche ore prima aveva provato, se ne era accorto, in tutti i modi a mostrarsi severa e distaccata- gli fece ammorbidire lo sguardo d'impulso senza che potesse fare niente per fermarsi.
-In realtà mi mancava dormire così.- disse, perdendosi nei ricordi. -L'ultima volta che qualcuno è stato ore contro la mia spalla avevo nove anni, e colei che mi ha bloccato la circolazione ad un lato del corpo era appena più grande di me.-
Hebe smise di grattarsi le nocche, che ormai erano più screpolate che altro, e si sedette con la schiena accanto a lui per ascoltarlo.
 Non chiese né di cosa stesse parlando né chi fosse la protagonista del suo racconto: la trovava magnificamente deliziosa.
 Riprese: -Eravamo stati tutta la giornata nella piccola biblioteca di casa mia, ad ascoltare la Signora Iolanda, la mia insegnate privata -non lasciarti ingannare dal suo nome quasi adorabile, era un'arpia- elencarci tutte le avventure che Don Chisciotte aveva coraggiosamente, per dir suo, intrapreso; anche se a me era sembrato più che altro un incompetente che confondeva mulini a vento con dei giganti.-
Sorrise a quei ricordi, ed Hebe strinse le gambe al petto dandogli quasi l'impressione di una bambina che ascoltava appassionata una fiaba: gli ricordava lui tempo prima, quando ancora non aveva perso nessuna inibizione e poteva considerare il mondo in cui viveva ancora degno di possedere qualche speranza.
-Ricordo che eravamo talmente divertiti dalle sue parole, e che lei era talmente rigorosa che non appena Kate scoppiò a ridere le bacchettò le mani con la sua personale Bacchetta Punitrice. Era così che la chiamava.-
Sentì Hebe irrigidire il corpo al suo fianco nello stesso istante in cui pronunciò il nome "Kate"; non ne era veramente certo, si trovò a pensare in un attimo di tentennamento, perché aveva il vago sentore che ad irrigidirsi fosse stato lui.
 Fece finta di non averlo notato, e di non sapere di starsi aprendo con lei: in quel momento desiderava solo condividere i suoi pensieri con la ragazza che invadeva la sua mente dal primo momento che l'aveva vista, stretta in un abito nero sopra una bara vuota. Sentiva di poterle dire tutto, di poterle persino parlare del tempo e di come le rane gli sembravano animali spaventosamente orripilanti, senza avere paura che lei potesse ridere di lui o andare via dopo aver scoperto del suo passato tormentato.
-Kate mise il broncio, e io sapevo che stava per piangere perché la sua disperazione iniziava sempre così, con le labbra tremolanti e strette tra i denti, e quando Iolanda andò via si abbandonò ad un pianto liberatorio. Nonostante fossi più piccolo di lei mi costrinsi a non provare confusione ed imbarazzo con una ragazza che singhiozzava, e mi sedetti contro la libreria portandomela dietro per permettermi di consolarla. Fu la prima e l'ultima persona per cui provai tenerezza e istinto di protezione.- Prese un respiro, rendendosi conto d'aver trattenuto il fiato durante tutto il tempo della storia. -Fino a che non ho incontrato te.-
Ci fu qualche secondo di silenzio, un silenzio che non era affatto colmo di disperazione e rabbia come lui aveva pensato potesse essere dopo un'avvenimento che ritraeva lui e Katherine assieme.
 Lei semplicemente si limitò a guardarlo, con i suoi occhi grandi e grigi, e non gli chiese nulla; neanche perché avesse iniziato a raccontarle tutto ciò.
-Non mi hai detto se ti ho fatto male, però.- Si limitò a dire, col tono di chi non aveva appena ascoltato la persona meno incline ai racconti della propria vita ricordare a voce alta una persona a lei estranea.
 Harry sorrise e la trovò ancora più bella perché aveva capito che lo conosceva, oramai, e che sapeva quanto difficile fosse per lui trattare certi argomenti, anche se non colmi di importanti particolarità o abissali convinzioni umanistiche, e che non soffermarcisi a lungo era la cosa migliore da fare.
 -No, non mi hai fatto male.-

Hebe guardava Harry e Xavier che discutevano a voce bassa in merito al da farsi una volta giunti ad un porto, della macchina che li avrebbe aspettati e poi condotti a Venezia, e delle maree, anche se lei non capiva esattamente come quell'argomento potesse influenzare sulla destinazione finale.
 Stava provando a mangiucchiare una mela, su ordine di Harry, impiegando tutte le sue forze per non vomitare ciò che aveva appena ingoiato: ultimamente mangiava e dormiva poco, e lui l'aveva notato.
 Il susseguirsi di eventi che si erano sovrapposti nelle ultime settimane l'avevano indotta a pensare a tutto tranne che alla sua salute, e di certo ciò che Harry le aveva appena confidato non aiutava a liberarle i pensieri.
 Aveva fatto di tutto per trattenere le raffica di domande che avrebbe voluto porgli, sapendo che quel momento era stato sacro in maniera sconcertante: parlare l'avrebbe fatta sentire come se avesse interrotto una messa.
 Era ancora sconvolta e allucinata da ciò che era successo: mai, mai e poi mai da quando si erano conosciuti, lui le aveva accennato di sua spontanea volontà qualcosa riguardante il suo passato e la famosa ragazza che aveva lasciato una dedica sul libro di Aforismi.
 Non aveva neanche la certezza che lui sapesse che lei l'avesse letta, quella dedica. Forse aveva semplicemente voluto condividere i suoi pensieri con lei.
 Fatto sta che per lei, Katherine, era sempre stata una presenza indissolubile e pragmatica che invadeva la stanza che condivideva con lui: una sorta di alone che l'avvolgeva da quando ne aveva scoperto l'esistenza, tendendola a farle percepire ogni movimento di Harry collegato a degli avvenimenti a lei sconosciuti, e che lui poteva condividere solo con qualcuno che lei non conosceva.
 A volte, quando si svegliava e non lo trovava, si sentiva quasi tremendamente inutile: un peso per lui e per sé stessa. Come se non fosse capace di riempire il suo vuoto.
 Stava provando, negli ultimi minuti, a collegare i vari fili, tessendo nella sua mente una possibile situazione: ora aveva la certezza che lui e Kate si conoscevano sin da bambini, e che lui era poco più piccolo di lei.
 Un magone le fermò il respiro, facendole poggiare la metà della mela in grembo: che Kate fosse stato il suo grande amore?
 Non era gelosia, quella che provava: ma tristezza. Perché, non sapeva il motivo, aveva la sensazione che Katherine non ci fosse più.

Lo guardò, e fece di tutto per mascherare l'agitazione e il tormento quando lui le sorrise, allacciando i loro sguardi.
 Non appena Harry incontrò i suoi occhi, si accigliò palesemente: fece un cenno a Xavier e gli disse qualcosa, poi camminò traballante verso di lei, con lo sciabordio del mare ad accompagnare il suo passo vacillante.
 -Cosa succede?- le chiese, prendendola per la vita per aiutarla ad alzarsi.
 Lei represse lo sforzo di vomito che le chiudeva acido la gola, e scosse la testa: -Solo mal di mare, credo.-
-Hebe...- iniziò. -Volevo che...-
Non terminò la frase, lasciando che le parole volassero tra loro a metà.
 Vuoi cosa?, si chiese, scusarti? Dirmi che rimpiangi d'avermi detto certe cose?
 Ignorò le voci nella sua testa.
 Le aveva lasciato i fianchi, ma erano comunque abbastanza vicini perché lui potesse afferrarli nuovamente: e lei non era del tutto sicura di non volerlo.
 Dopo che le aveva detto quelle cose, il suo atteggiamento nei suoi confronti non era variato, all'apparenza, mentre quello di Hebe era tornato a quello di un tempo: la freddezza del pomeriggio l'aveva lasciata, portandola tra le braccia del sicuro e intenso calore che l'avvolgeva quando era con Harry.
-È tutto okay, davvero.- sussurrò, senza motivo. -Tutto okay.-
Lui annuì e mosse poco la mano, alzandola lentamente; si fermò, guardandola, e la lasciò ricadere al suo fianco.
 Lei si chiese se avesse voluto accarezzarla, e avvampò: non la toccava in quel modo da tanti giorni.
 Il pensiero delle sue mani grandi e pallide che la stringevano le rendeva difficile respirare.
 -Non hai mangiato niente.- Riprese dopo un po'.
 -Non c'è niente da mangiare.- Si giustificò lei, vedendo i suoi occhi scurirsi.
-Hai rifiutato di mangiare tutto ciò che ti abbiamo proposto.- disse, gelido, alludendo a lui e Xavier.
 -Non c'era poi così tanta scelta.- continuò Hebe, stuzzicandolo.
 Si sentiva tanto una bambina viziata, e sapeva di starlo infastidendo, ma vederlo sull'orlo dell'esaurimento la divertiva scandalosamente.
 -Hebe.- fece lui. -Non siamo in un ristorante.-
 -Di questo me ne ero accorta.-
 Sentirono un suono soffocato, e si girarono contemporaneamente vedendo Xavier portarsi una mano sulle labbra per impedirsi di ridere.
-Lo fai apposta, vero?- domandò, girandosi nuovamente. -Ti diverte vedermi nervoso.-
 -Ad essere sincera non ti ho mai visto non-nervoso. Alterni solo momenti di nervosismo puro ad altri di nervosismo mascherato.-
 -Da quando sei diventata così audacemente e sfrontatamente simpatica?-
 -Da quando tu hai perso il tuo carisma.- strascicò lei, sentendo la testa girare per un poco: ignorò la sensazione di oppressione petto e la vista sfocata e si concentrò su Harry.
-Io ho un immenso carisma.- ribatté lui. -Non ne ho mai avuto meno e mai questo diminuirà, se proprio ci tieni a saperlo.-
Lei rise, una risata meditabonda e gorgogliante, e camminò all'indietro ad occhi chiusi fino a che non sentì la prete fredda contro le scapole.
 Percepì Harry irrigidirsi: -Stai bene?-
Non rispose: sentiva la testa vorticare senza che potesse controllarla, vedeva le sue mani sfocate e sentiva un peso caldo e fastidioso allargarsi nella cassa toracica. Conosceva quella sensazione: l'angosciante e odioso annuncio della perdita di coscienza.
 Quando era bambina e negli ultimi periodi le capitava spesso: pensava d'essere una delle poche persone che prima di svenire venivano catapultate in uno spazio fatto di caldi afosi e venti soffocanti. Tutto ciò che sentiva era calore: un calore gelido che non la faceva sudare, ma che anzi scuoteva il suo corpo di piccoli brividi.
 Annaspò, muovendo le mani davanti a sé, ed Harry le corse incontro prendendole le spalle.
 -Guardami.- La sua voce non ammetteva repliche. -Hebe, tieni gli occhi su di me e non li muovere.-
 -Io...- Sentiva la voce distante, e la gola un tubo surriscaldato impregnato di aria bollente.
-Guardami.- ripeté lui.
-Non ci riesco.- riuscì a dire.
 Lo sentì imprecare, e vide i contorni del suo viso voltarsi e gridare qualcosa, poi un'altra figura corse dietro di lui dirigendosi verso il box contenente gli alimenti.
-Concentrati.- sussurrò Harry, le labbra contro il suo orecchio sinistro. -Concentrati sulla mia voce, e sul tuo respiro. Non puoi svenire adesso, Hebe, non puoi.-
Fece come gli aveva detto e collegò il sistema uditivo al movimento dei polmoni e alla voce profonda di Harry, chiudendo gli occhi e reclinando la testa.
 Dentro, fuori, dentro, fuori, continuava a ripetersi.
 Xavier andò loro incontro instanti dopo, con qualcosa stretto tra le mani che lei non riuscì ad identificare.
-Apri la bocca.- le ordinò Harry, prendendole con una mano la mascella.
 Lei avrebbe tanto voluto scuotere la testa e dirgli di non trattarla come una bambina, ma si sentiva così stanca che anche solo muovere le labbra le sembrava impegnativo in maniera disarmate.
 Lui le mise qualcosa in bocca, poi la fece scivolare a terra.
-Mastica, Hebe.- sussurrò. -Starai bene, non è niente. Mastica e manda giù.-
Fece come gli era stato detto, e il sapore appena salato e gradevole del pane le allontanò il calore dalla testa, dal petto e da tutto il corpo.
 Respirò affondo, mangiandone altri piccoli pezzi prima di aprire gli occhi.
 Lo vide inginocchiato dinanzi a sé, con gli occhi spalancati e la fronte aggrottata.
 Appena la vide riprendersi sospirò, e le puntò un dito contro il torace.
-Ecco cosa comporta fare il contrario di quello che ti chiedo.- decretò, la voce una vena più acuta del solito. -Non lo fare mai più, Hebe, capito?-
Hebe annuì, e cercò la sua mano per stringerla; non appena la racchiuse nella sua lo sentì trasalire.
 -Non l'ho fatto apposta, davvero.- strascicò, ancora un po' disorientata. -Il medico diceva che il mio corpo non riusciva a sopportare tanti sforzi fisici o stressanti, quando ero piccola.-
-È comprensibile.- Harry annuì e si sedette accanto a lei. -Pensare che una personcina minuta come te possa compiere grandi atti è disumano.-
Lei strinse di più la sua mano e lo colpì con la spalla: -Stai forse insinuando che sono una rammollita?-
 -Non mi permetterei mai.- rispose lui, fingendosi indignato. -Dico solo che la tua forza morale è maggiore di quella fisica.-
Hebe rise, e ringraziò Xavier congedandolo.
 Lo guardò andare nuovamente alla sua postazione, anche se credeva che fosse solo un posto dove lui sentiva di non dare fastidio, dove non poteva ascoltare quello che loro due si dicevano, e poi si voltò verso la testa riccia che si era seduta accanto a sé.
 Lo trovò che la fissava intensamente: gli occhi verde scuro un po' più chiari via via che i giorni passavano.
-Da quanto tempo stai così?- le chiese, schiarendosi la voce.
-Così come?-
 -Sei dimagrita in maniera allarmante, Hebe. E non solo da quando...-
Non terminò la frase, ma lei sapeva cosa voleva dire: da quando ho fatto quello che ho fatto, e tu sei andata via, ed entrambi siamo rimasti a crogiolarci nel nostro inutile e deprimente dolore sperando che uno dei due andasse a confortare l'altro.
-Ho lo stomaco chiuso.- biascicò. -Non riesco a mangiare nulla.-
 -Ansia?- domandò.
 Una domanda semplice, di quelle che le poneva quando ancora non c'era quel tipo di disagio tra loro; ma no, non era disagio: era più una sorta di ferita ancora aperta, e che ancora bruciava, che avrebbe impiegato tempo prima di rimarginarsi.
 Si prese un momento per riflettere.
-Mancanza, più che altro.- rispose poi, pensierosa. -La mamma, Church.-
 -Stanno bene.-
 -Lo so.- disse lei.
-Entrambi.- continuò Harry. -So che Church sente la tua mancanza come solo un gatto grande e grosso come lui potrebbe fare.-
 -Come fai ad esserne sicuro?- chiese, non riuscendo a sorridere e non volendoci neanche provare.
 -Magari non ne sei a conoscenza, ma ho un legame telepatico con tutti i tipi di animali. Ti sorprenderebbe sapere dei pensieri lascivi dei canguri in merito alla giraffe: davvero deplorevoli.-
 Quella volta rise lievemente.
 Lo guardò arricciando il naso, e vide quasi un barlume di tenerezza invadergli di occhi verdi prima che riuscisse a frenarlo.
-Sei normale adesso, sai.- decretò, continuando a guardarlo.
 -Intendi fatto di carne, e d'ossa, e di tutte quelle altri parti che compongono le persone?- chiese lui, ironico. -Lo sono sempre stato, a dir la verità.-
 -Smettila. Intendo normale normale.-
 -Spiegati meglio.-
Prese un respiro: -Non parli più col tuo modo di parlare, quello elegante e complicato. Hai smesso di essere sempre cupo e adesso provi perfino a farmi ridere, quasi non fosse successo nulla: sei normale.-
Silenzio.
 Il fruscio del vento si sentiva nonostante le spesse pareti, il che le fece dedurre che dovesse essere davvero tanto forte.
 Lui strinse le mascelle e si passò una mano tra i capelli, guardando il pavimento di metallo mentre il rumore delle onde gli faceva da colonna sonora.
 Poi parlò: -Sto solo provando ad accelerare il processo di rappacificazione che potrà di nuovo consentirmi di guardarti e sfiorarti in quel modo, senza farmi sentire uno schifoso verme che non merita il tuo perdono.-
Era bello mentre lo diceva, pensò, era bello e anche sincero.
 Col tempo, dopo tutte le false amicizie di cui era stata circondata, dopo tutte le prese in giro e le cattiverie subite, aveva imparato a distinguere i menzogneri da chi diceva la verità: Harry Styles rientrava in uno di quelli.
 Aveva negli occhi e nel modo di porsi i tratti distintivi di quelle persone che abbondavano di sincerità quasi fino a scoppiare: in lui vedeva una mezza sincerità, se doveva dire il vero, e solo poche volte; una che poteva sempre essere stravolta e modificata dalle bugie.
 La vedeva solo con lei, però, quella quasi sincerità; era stato esattamente quel particolare a farle accettare il suo passaggio la mattina fuori scuola, settimane prima.
 Quindi non ebbe paura di sembrare una stupida ragazzina che credeva alle bugie, quando si voltò per guardarlo e gli sfiorò la guancia con il dorso della mano.
 Lo vide serrare gli occhi e le labbra, quasi il suo tocco implicasse un dolore fisico; Hebe, seguendo il contorno del suo viso, gli scostò i capelli dal viso.
-Non sono arrabbiata con te, Harry.- disse infine, quando lui riaprì gli occhi. -Sono solo delusa.-
 -No, no Hebe.- sussurrò lui.
-Non voglio infierire, e non voglio le tue scuse. Non è successo nulla di così eclatante. Ma è stato qualcosa che mi ha colpito più di quanto potessi immaginare.- Respirò affondo. -Vederti con... Mi ha fatto capire quanto poco avessero contato quelle piccole volte che mi avevi guardato in un modo diverso. Mi ha fatto sentire azzerata.-
 -Mi dispiace così tanto, scheggia.-
 -Non voglio le tue scuse.- ripeté lei, lasciando che la mano liberasse il suo viso e le ricadesse sul fianco. -Ne ho già sentite troppe.-
 -Non voglio che tu possa pensare che non ho considerato i nostri baci come qualcosa di immenso e puro, e non voglio che ricordi i miei abbracci come falsi e ipocriti.- Si mise a sedere dritto e la guardò: gli occhi scuri e cupi come sempre, le gote arrossate e le labbra lucide. -Ho apprezzato e dato un valore ad ogni minimo gesto, dal primo momento che ho capito quanto fosse grande la voglia che avevo di proteggerti e stare con te, Hebe. Mi sono comportato da uomo indegno, e so di non essere nessuno per pretendere il tuo perdono, così come so d'averti fatto il torto più grande che potessi farti nelle tue vesti di donna. La rabbia acceca, Hebe, e la mia quella sera era mischiata a una dose di dolore e rimpianto che mi hanno fatto perdere ogni concezione della realtà. Ti chiedo solo di credermi. Di credere a quello che ti dico: mi dispiace. E potrebbe essere la cosa più stupida da dire, quella più usata e probabilmente la meno originale, lo so, ma al momento non mi viene in mente nient'altro da dire. Ho preparato almeno sei, sette discorsi da recitarti per renderti partecipe della mia vergogna, ma non ricordo più nulla. Voglio solo che accetti le mie scuse e basta, Hebe, sul serio. Solo questo. E se credi che sia troppo, va bene, lo accetto.-

Le sue scuse non erano state eccezionali, non erano avvenute sotto le stelle e lui non le aveva offerto una rosa in segno di perdono; era ricorso strascicante e a voce bassa alle prime parole a cui aveva pensato, seduto su un pavimento freddo, confondendo parole di un discorso che aveva preparato ad altre di altri tanti.
 Hebe l'aveva guardato, piccola e magra nel suo maglioncino, con un'aria seria e gelida che le rendeva gli occhi, già grandi, enormi nel viso pallido.
 Non fiatava, lo guardava e basta.
 Per un istante infinitamente lungo desiderò non averle mai detto quelle cose; proprio come quando, nella casa in montagna, le aveva rivelato che lavorava per l'uomo che l'aveva messa la mondo e che lei credeva morto.
 Passarono dieci, venti secondi; e poi due, tre, quattro minuti. Continuava a non dire niente, e lui si sentiva quasi come se il peso del mondo gli fosse piombato tutto d'un tratto sulle spalle, lasciandolo senza fiato e annaspante alla ricerca d'aria.
 Non aveva mai provato certe sensazioni, non credeva neanche possibile cose come quella: la lontana, ora vicina, possibilità che una persona potesse farlo sentire svuotato e pieno allo stesso tempo.
 La sensazione di smarrimento quando era distante da lei, e quella di essere la persona più fortunata della Terra quando l'aveva al suo fianco.
 Come se tutto dipendesse da Hebe; tutto quello che faceva, diceva, respirava e di cui parlava.
 Anche in quel momento, quando la vide gonfiare il petto per prendere fiato e aprì la bocca per parlare, tutto dipendeva da lei.
 Attese in silenzio.
-Non voglio fingere cose che non provo, e a cui non credo.- disse, dopo minuti di silenzio soffocanti. -Ho creduto e credo, però, che tutto quello che facciamo abbia un suo perché.-
Ancora silenzio.
 Riprese dopo poco: -Non credo a qualcuno più grande di noi, che comanda a bacchetta tutto ciò di cui siamo artefici. Ma credo in Qualcosa che genera tali atti, e che ci rende capaci di avere la consapevolezza di ciò che facciamo. Bisogna avere coscienza di ciò che si compie, ed entrambi non ne abbiamo avuta. Sono entrata nella tua vita senza che tu me ne abbia dato il permesso, e sono dispiaciuta per questo.- Prese un respiro, il più lungo che le avesse mai visto prendere. -Non accetto le tue scuse e il tuo perdono e non solo perché mi farebbero sentire meno colpevole di quanto io sia, ma anche perché ti ho già perdonato; appena ti ho visto.- Un lampo di gioia invase il suo cuore a quelle parole, alleviando il disprezzo che provava da tanto, troppo tempo per sé stesso. -Non dico di poter tornare a prima in un attimo. Ma solo che col tempo non credo che ciò risulterà impossibile.-
Trattenne l'istinto di baciarla, che divenne ancora più difficile quando lei si morse il labbro superiore e si grattò le nocche, ed invece le prese le mani, lasciando che le sue nocche finissero d'essere scorticate.
 Sorrise di poco: -Quand'è che sei diventata così saggia?- le chiese, abbassando il capo.
 Lei si sporse, abbassandolo a sua volta per guardargli il viso.
 -Non sono saggia.- rispose. -Sono solo sincera.-
 La guardò da sotto i capelli scuri, trovandola stupenda in quella sua aria tenera e matura.
 Mi sei mancata, Arabella, pensò.
 Ma non lo disse; aveva troppa paura che quello fosse un sogno per permettersi di parlare col rischio di tornare alla realtà.




Angolo autrice:

Ragazze\i!
Sono tornata e i ritardi sono i soliti poichè ho avuto tanto da studiare, ma ho trovato cinque minuti di spazio dall'angosciante pressione che sto avendo e mi sono liberata dall'ansia e da tutte le preoccupazioni! Finalmente ho potuto postarre qualcosa e per fortuna -nonostante odi profondamente questra stagione a volte per il caldo e per la gente che urla e si lamenta per questo- ho il tempo che mi occorre per scrivere, postare e rilassarmi!
E, adesso... Il capitolo!
Harry che parla con HEbe del suo passato di sua spontanea volontà... chi l'avrebbe mai detto?
Il mistero di Kate si infittisce e per la prima volta è detto esplicitamente che è deceduta. Tante di voi mi hanno chiesto se lei fosse legata al lato da forse pianista di Harry... ma sapete che non dico nulla, e mi dispiace ma dovrete pazientare ancora un po'!
lo svenimento di Hebe, poi, è collegato al movimento e allo svolgimento degli avvenimenti che le son opiombati addosso di colpo e che nonostante finga di sopportare in realtà non subisce affatto.
L'ipotetico rapporto tra lei ed Harry è cambiato rispetto all'inizio: ora entrambi riescono a parlare ed approcciarsi in maniera ancora più naturale. Il cambiamento di lui nei suoi riguardi è effettivamente palese e credo che non sia del tutto un male.
Non ho mai commentato così tanto nei dettagli un capitolo, mio Dio...
Vi lascio ai commenti e ai pensieri e spero vivamente, come sempre, che la storia continui a piacervi!
Un  bacio e buonanotte, Abby_xx

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** CAPITOLO XX ***


                                                                                                     CAPITOLO XX



Venezia era la città più bella che avesse visto fino a quel momento.
 La calma delle sue acque, quiete e grigie sotto la luce del primo pomeriggio, pareva invogliare tutti ad un giro sulle gondole per osservarne il fondale; il chiarore del cielo e le pittoresche case che si susseguivano e che quasi sembravano voler superare la bellezza delle precedenti. Era giunta ore prima, dopo giorni e giorni di navi, aerei e macchine in cui tutto ciò che aveva visto era stato il volto di Harry e di diversi uomini che facevano loro da scorta nel viaggio che li aveva condotti lì; appena era arrivata, tutto le era sembrato più luminoso, magico, vivo.
 Ricordò d'aver riso quando aveva visto nelle strade della città un uomo che somigliava tanto a Robert, il fidanzato di sua madre, e d'averlo fatto ancora di più quando Harry le aveva detto: -Sai che si sono lasciati mesi fa, vero?-
Non capiva se quella città le piacesse tanto poiché era la prima che vedeva da molto tempo, o perché semplicemente era davvero tanto meravigliosa come le sembrava. Ma, per sua sventura, aveva ammirato la sua bellezza colorata solo per poche ore, il tempo che l'aveva separata dall'arrivo al maestoso e splendido albergo dove lei e quello che sarebbe stato il suo futuro "tutore" avrebbero alloggiato.
 Le proteste erano state inutili quando Harry, una volta arrivati nella sala d'ingresso, l'aveva informata che non sarebbero andati per le vie della città per tutto il periodo del soggiorno, concedendole di poter attraversare le vie abitate solo quel che occorreva per arrivare nella sala per il suo allenamento e per il ritorno in quell'albergo.
-Non sei serio, vero?- aveva constatato sconvolta lei, mentre lui prendeva dal cappotto nero la carta d'identità.
-Non lo sono mai stato più di ora.- biascicava lui, mentre lei continuava a rimarcare le stesse frasi che si ostinava a ripetergli da quando erano giunti.
-È una città meravigliosa.- aveva detto per l'ennesima volta, mentre si dirigevano ingolfati di valige verso l'assistente dell'hotel che li attendeva con un sorriso dietro il bancone principale.
-L'hai già detto. Venti volte.-
Un ragazzo che indossava una divisa color verde oliva andò loro incontro e si accostò con lentezza ai bagagli prima di prenderli e posarli su di un carrello; Harry lo ringraziò con un cenno.
-Non puoi proibirmi di vedere Venezia. È una delle zone turistiche più romantiche e conosciute del mondo interno.- aveva aggiunto, mentre lui porgeva i documenti alla donna, la quale si occupava della consegna delle chiavi.
 Avevano entrambi carte d'identità false -piuttosto ben fatte, aveva notato mentre le porgeva la sua- che suo padre aveva esplicitamente dichiarato fossero necessarie per la sicurezza sia della sua persona che di Harry.
 Scritto sul foglio vi era quello che sarebbe stato il suo nome: Meredith Tornland.
 Non era sicura se le piacesse o meno, fatto stava che non le sembrava per niente che le si addicesse.
 -Dove l'hai letto?- aveva chiesto Harry, mentre la donna si accertava della prenotazione controllando le cartelle del computer.
 Hebe aveva allora alzato il depliant informativo che aveva trovato sul bancone e l'aveva sventolato davanti al viso di Harry, mentre lui alzava gli occhi al cielo.
 -La signorina Tornland ha ragione, signor Greenjoy.- era convenuta la donna mentre gli porgeva la chiave, guardando Hebe con un sorriso.
 Greenjoy?, aveva pensato lei, mentre le restituiva il sorriso.
 L'accento italiano della donna era forte, ma la sua voce dolce e vellutata. Sembrava avesse una cinquantina d'anni, e nonostante avesse una bellezza d'altri tempi, tutta spigoli e morbide curve, aveva gli occhi verdi che sprigionavano gioventù e divertimento: i capelli scuri raccolti e il tailleur facevano risaltare la pelle chiara.
 -Lo vedi?- aveva detto, alzando i sopraccigli.
 -Azzittisciti.- aveva sussurrato lui, tornando a guardare la graziosa donna che li osservava curiosa.
-Venezia è davvero stupenda di sera.- aveva continuato. -Vi consiglio vivamente di visitarla, sarebbe un peccato che una coppia di giovani adulti come voi non visitasse la città dell'amore.-
Hebe era arrossita di colpo e aveva annaspato alla ricerca di qualche frase, ma Harry l'aveva preceduta poggiando la mano sulla sua, che teneva stretta al bordo di legno del bancone.
 Aveva restituito il sorriso alla signora dinanzi a sé e aveva parlato: -La ringrazio per il consiglio, io e la mia compagna prenderemo sicuramente in considerazione la possibilità di visitare Venezia. Mi fido del suo parere, una donna di classe come lei saprà con ovvietà ciò che dice.-
La signora era arrossita, ammaliata dal suo fascino, accompagnata da Hebe, ed aveva poggiato una mano sul foulard rosso che portava al collo per infilarlo meglio nella giacca.
 Si erano poi allontanati, una imbarazzata e l'altro a proprio agio, dopo essere stati avvertiti che la cena avrebbe avuto luogo nella sala al piano superiore alle otto di sera.
 Una volta giunti nella loro camera, la numero 126, Hebe si era gettata sulla poltrona e aveva sentito ridere Harry.
-Com'è che ti chiami?- gli aveva chiesto, mentre si liberava del giubbotto e della sciarpa.
 -Jamie Greenjoy.- aveva esclamato lui, inchinandosi con una mano dietro la schiena ed un'altra davanti al petto. -Al vostro servizio.-
 Lei aveva storto il naso: -Non hai la faccia da Jamie.-
-E tu da Meredith, ma non si può scegliere con quale nome venire al mondo, no?-
Lei aveva sorriso, e si era alzata per guardare la stanza: il tavolo di vimini era coperto da una tovaglia lavorata in pizzo che cadeva toccando con i bordi il suolo di parquet e fiori e piante erano posti su di esso, l'armadio a due ante aveva lo stesso colore delle dei comodini e delle sedie, una piccola libreria era occupata per metà da libri perfettamente spolverati e il letto matrimoniale, coperto da un lenzuolo bianco e da cuscini ricamati, era posto proprio di fianco alla poltrona su cui aveva seduto.
 Tutto sembrava trapelare romanticismo e classicità.
 Poi le venne in mente un piccolo ma significante dettaglio: il letto.
 Avevano dormito nello stesso letto per settimane, ma non si erano mai neanche lontanamente sfiorati: il solo pensiero di dover passare la notte accanto al lui, dopo tutto ciò che era avvenuto, l'aveva fatta sentire a disagio e stranamente rancorosa.
-Harry?- aveva detto, confusa e imbarazzata. -C'è solo un letto.-
Lui l'aveva guardata di sfuggita, e poi aveva posto gli occhi su di esso: era rimasto a fissarlo per qualche secondo, lo sguardo perso e distante, e poi era tornato a guardarla, improvvisamente ridestatosi.
 -Devono aver pensato fossimo...- Si era fermato. -Posso dormire sulla poltrona.- aveva detto infine.
 -Non credi sia meglio andare a chiedere di cambiare stanza?-
 -Si creerebbe uno scompiglio inutile, Hebe.- aveva risposto lui, scuotendo i ricci scuri. -Non dobbiamo dare troppo nell'occhio.-
-Non ti lascerò dormire su di una poltrona.-
Harry aveva sospirato e si era avvicinato a lei, le aveva poi preso la giacca e la sciarpa dalle mani e aveva posato entrambi sul letto.
 -Sei voluta venire alle mie condizioni, no?- aveva biascicato. -Quindi si fa come dico io, Meredith.- aveva concluso.
 Prima che potesse insistere oltre, si era diretto verso la porta e le aveva detto di restare lì, poi era sparito nel corridoio.
 Hebe aveva boccheggiato, cercando qualcosa da dire pur sapendo che non fosse più lì per poterla sentire, e si era quindi gettata sul letto, sospirando a vuoto.
 -Benvenuta a Venezia, Meredith Tornland.-

Se ne stava con la testa contro la sbarra del letto -rifinita con tanti piccoli intagli in mogano che si intrecciavano tra di loro formando una rete di fiori e foglie- a rigirare tra le dita sempre la stessa ciocca di capelli rossicci; il libro di Aforismi rilegato poggiato sulle gambe.
 Ne aveva letto gran parte, durante il viaggio che l'aveva portata lì; ogni volta che Harry non la guardava: aveva la sensazione che vederla leggere qualcosa che era forse appartenuto anche Kate potesse rattristarlo o farlo arrabbiare, quindi evitava di mostrarsi a lui quando sfogliava le pagine.
 Lo chiuse, mettendo una forcina tra le pagine su cui si era soffermata per tenere il segno, e lo posò sotto il letto. Sospirò.
 Non aveva idea di dove lui fosse andato, e non sapeva neppure perché ci stesse mettendo tanto tempo; erano oramai quasi le sette di sera e sapeva che era passato troppo tempo per qualunque cosa stesse facendo.
 Aveva la testa che le scoppiava e non dormiva quasi da un giorno intero: era stata così elettrizzata e al contempo preoccupata da mettere in secondo piano il sonno.
 Nonostante la stanchezza, però, la sensazione allo stomaco che presagiva la preoccupazione iniziava a stringerle il petto in una morsa: si chiedeva da ore dove fosse corso così tanto di fretta, e adesso che non lo sentiva da un po' era ancora più angosciata di quella che sarebbe potuta essere la risposta.
 Come sempre si disse di non pensarci.
 Sua madre, una volta, le aveva detto che supporre milioni di possibilità che potrebbero succedersi quando qualcosa sembra andare storto è solo un futile spreco di tempo: il futuro è tale, e cercare di cambiarlo sarebbe come tenere la sabbia tra le mani e provare ad impedire che volasse via in tanti piccoli granelli.
 Il pensiero di Adrienne la fece sorridere, ma la mancanza che provava era più forte: strinse un cuscino al petto, e chiuse gli occhi sussurrando a sé stessa come un mantra che piangere era del tutto inutile.
-È al sicuro.- si disse, allentando la presa e riaprendo gli occhi all'istante. -Non c'è bisogno di preoccuparsi.-
Trasse un respiro profondo e nello stesso momento in cui decise di alzarsi dal letto il chiavistello della porta stridette, e con un cigolio questa si aprì.
 Il corridoio fuori era buio pesto, tranne per qualche piccolo lumino in lontananza, e dovette socchiudere gli occhi per capire chi fosse: nonostante non vedesse il volto della persona che stava entrando, la zazzera di capelli scuri sparati in tutte le direzioni le fece capire fosse Harry.
 -Hebe?- chiese questo, la voce un sussurro smorzato.
 Hebe drizzò la schiena, mentre lui si voltava a chiudere la porta: qualcosa non andava.
-Harry...- sussurrò. -Tutto bene?-
Non appena si voltò, trasalì.
 La maglia grigia era macchiata, striata di terra e qualcos'altro -che, nel profondo, non voleva conoscere-, il labbro spaccato ed entrambe le mani livide e sporche; un rivolo di sangue secco che partiva da sotto i capelli gli sporcava lo zigomo.
 Ma, nonostante tutti quei dettagli che un tempo l'avrebbero sconvolta, ciò che la lasciò senza fiato era che lui sorrideva.
 Le sorrideva umile e sincero, quel pizzico di malizia che l'avrebbe sempre accompagnato e gli occhi scintillanti di una luce cupa e avida.
 Gli corse incontro nell'esatto istante in cui lui si mosse verso di lei.
-Cosa diavolo hai fatto?- ansimò, prendendogli il volto tra le mani per esaminarne ogni centimetro.
 Lui sospirò: -Non avevo nulla da fare, così mi sono infilato in una zuffa.-
Lei si fermò di colpo e lo guardò negli occhi.
 -Scherzavo, Hebe.- sorrise.
 -Cos'hai combinato, Harry?- chiese ancora, ispezionandogli il collo.
 Era macchiato di olio, e quando vi passò un dito sopra si macchiò anche lei.
 -Nulla di cui debba preoccuparti.- disse lui, scostandole la mano che aveva poggiato sul petto.
 La strinse un attimo tra la sua e poi la lasciò.
-Ti rendi conto in che stato sei?- disse allora. -Torni dopo ore, per di più conciato così, e poi pretendi che non che chieda nulla?-
-D'accordo, va bene.- sbuffò lui. -Ti dirò tutto.-
Lei sorrise e incrociò le braccia al petto: -Perfetto. Come mai sei sporco e sanguini, dunque?-
Lui la guardò serio, gli occhi semi-coperti da ciuffi scuri.
-Un gattino è rimasto impigliato in un albero, e date le mie infinite doti ho saputo come salvarlo.- esordì. -Quindi dei bambini mi hanno incoronato re per il mio coraggio e hanno suggellato la promessa di servirmi in ogni circostanza, seppur dolorosa, con del fango.-
Silenzio.
 Poi lei lo colpì sul petto: -Sei ridicolo.-
 -Metti in dubbio i miei racconti veritieri?-
 -Non mi stupirei se tu l'avessi fatto davvero.- commentò poi fredda lei, ignorandolo e dandogli le spalle. -Le tue manie egocentriche prenderebbero il sopravvento in ogni situazione, se fosse per loro.-
Sentì i suoi passi dietro di lei, e poi il fiato caldo sulla sua spalla quando si avvicinò alla sua schiena.
 -Manie egocentriche, eh?- chiese.
 Poi avvenne tutto di colpo: la prese per i fianchi, facendola urlare dalla sorpresa, e la spinse sul letto; le bloccò le mani in una morsa, forzandole sopra la sua testa; il resto furono risate e solletico ovunque.
 -Smettila, smettila!- continuava a urlare Hebe, tra le risate. -Non respiro, smettila!-
-E io sarei egocentrico?- domandò lui, continuando a solleticarle il busto. -Dì che ti dispiace e mi fermo.-
 -Mai!-
Lui aumentò la dose di solletico: -Come vuoi.-
 -D'accordo, mi dispiace!- urlò, contorcendosi sotto di lui. -Mi dispiace!-
La bocca di Harry si stiracchiò in un leggero sorriso e lui si fermò, affannando assieme a lei, ma non le liberò le mani.
 -Mi dispiace.- sorrise un'ultima volta lei, chiudendo gli occhi e regolando il respiro.
 Emise risolini ancora per un po', concentrandosi sul ritornare a far funzionare l'apparato respiratorio correttamente per non continuare ad annaspare.
 Non vide ciò che accadde, ma ebbe la netta sensazione che il sorriso dalle labbra di Harry si fosse lentamente spento: sentì il suo respiro accanto la guancia, caldo ed ora costante.
 Aprì gli occhi e vide a pochi centimetri dal suo il volto di Harry, serio e angosciato.
-Anche a me.- biascicò, liberandole le mani.
 Si guardarono per un tempo che le parve infinito, rincorrendo i loro sguardi in una corsa senza fine.
 Era seduto a cavalcioni su di lei, le mani ai lati del suo volto: era sicura che, anche se avesse voluto, non sarebbe riuscita a muoversi.
 Il sangue le salì alla testa, invadendola di un calore pari a quello del suo corpo. Vedeva e percepiva tutto a rallentatore: i ritmi dei loro respiri, i petti che si muovevano in simbiosi, i nasi che si sfioravano e le labbra sempre più vicine.
 Nonostante i pensieri dei giorni prima e le promesse che si era ripetutamente fatta, non voleva affatto scostarsi da lui.
 Nonostante tutto, provare a fingere che averlo lontano da lei non le opprimeva il cuore era surreale ed inutile.
-Non credi che dovremmo scendere per la cena?- le domandò, distrattamente: sembrava puramente ed interamente concentrato su di lei.
 -Che ore sono?- chiese Hebe, intontita.
 -Tardi.- Sorrise. -Mal che vada possiamo uscire sul retro e mangiare gli avanzi.-
 Lei rise; una risata spontanea e sincera. Non le capitava da tanto.
 Quando lo guardò, le labbra piegate all'insù, vide i suoi occhi addolciti.
 Le carezzò una guancia: -Va a vestirti.-
 -Prima devi dirmi cosa eri andato a fare.- esordì lei, accigliandosi. -La verità.-
 -Non ha importanza.-
 -Ce l'ha.- disse lei, puntellandosi sui gomiti. -Per me.-
 -Non voglio che tu sappia ciò di cui ci occupiamo.-
 -Voglio sapere quello che tu fai.- insistette, guardandolo abbassare il capo e scuoterlo ripetutamente. -Degli altri non mi interessa niente.-
 -Non preoccuparti per me, scheggia.-
 -Non capisci...-
 -No.- disse lui. -Forse no. Ma ti garantisco che tutto ciò che faccio è per tuo padre, per te. E non farei mai qualcosa che potrebbe recarvi dispiacere.-
 -Non voglio che tu ti faccia male.- La sua voce era spezzata, un flebile respiro che si intersecava in parole sussurrate.
 Harry chiuse gli occhi e respirò profondamente: -Non me ne farò.-
Quando si alzò il freddo l'avvolse, facendole pesare la sua lontananza improvvisa. Ma oramai c'era abituata.
 Lui non si voltò, mentre si dirigeva all'armadio per prendere vestiti puliti e poi si chiudeva nel bagno, e lei, sorprendendosi, rimase impassibile.

La sala principale, al piano terra, era stata addobbata per la cena: enormi finestre erano disposte lungo tutti e due i lati della stanza, ed all'estremità, proprio davanti alla porta da cui entrò, un immenso balcone dalla balaustra in marmo ospitava si affacciava sulla città, luminoso sotto le luci della notte; tutto era avvolto da tendaggi rossi trattenuti da pomelli avorio.
 Harry guardò sopra di se, e a stento trattenne lo stupore: il soffitto era una cupola, le cui pareti ritraevano angeli intenti a rincorrersi su candide e soffici nuvole, e dal punto più alto cadeva un lampadario talmente imponente che il solo guardarlo lo fece rabbrividire; aveva lunghi bracci, che si articolavano in altri ed altri ancora, ognuno dei quali sorreggeva infinite candele accese che gocciolavano la cera nei piccoli piattini aderenti alla loro base.
 Vi erano tavoli ancora occupati, e la possibilità di poter cenare ancora nonostante l'orario era certa, ma credeva vivamente che dopo aver viso un simile spettacolo avrebbe potuto anche non toccar cibo.
 Aspettava Hebe sull'uscio della porta della sala, riuscendo a stento a trattenere l'impazienza.
 Un cameriere gli si avvicinò con un sorriso: -Vuole accomodarsi, signore?-
 -Preferisco attendere ancora per qualche secondo, la ringrazio.- rispose lui.
-Come preferisce.- Gli fece un lieve cenno col capo e andò via.
 Chiuse gli occhi: era già il terzo, in pochi minuti, che gli ripeteva la stessa cosa.
 Dove sei, Hebe?, si chiese, allargandosi con un dito il collo della camicia.
 Non era solito indossare abiti come quello, con tanto di camicia bianca e giacca nera, ma in quel posto lo aveva invaso la sensazione di dover essere all'altezza di alloggiare lì -un luogo che lui, neanche nei suoi sogni più remoti, avrebbe mai immaginato poter condividere con lei.
 Lo scalpiccio frenetico sulle scale alle sue spalle lo fece voltare: le labbra diventarono secche ed il suo cuore perse un battito.
-Non riuscivo a trovare le scarpe.- affannò Hebe, grattandosi le nocche.
 Lui non seppe che dire, la gola asciutta: aveva i capelli raccolti dietro la nuca, ciuffi tra il biondo ed il rossiccio che le volteggiavano attorno al volto; indossava un vestito rosato che le ricadeva leggero appena sopra il ginocchio, avvolgendole il petto e lasciandole liberi collo e spalle; ballerine chiare ed uno scialle di seta poggiato sugli avambracci.
 Non l'aveva mai trovata tanto bella.
-Cosa c'è?- chiese, arricciando il naso confusa. -Non hai più fame?-
 -Io...- strascicò, non riuscendo a staccarle gli occhi da dosso. -Andiamo.- disse solo, roco.
 Si voltò velocemente e si diresse verso il primo tavolo vuoto che vide, accanto al balcone.
 Sentì Hebe seguirlo, il rumore delle scarpe che battevano sul pavimento ticchettando, e quando le scostò la sedia dal tavolo per farla accomodare lei si sedette affannando.
-Come mai tutta questa fretta?- domandò, lasciandosi cadere lo scialle sulle gambe.
-Sono affamato.- esordì Harry, alzando la mano per chiamare un cameriere.
 -Lo vedo.- rise lei, corrugando le sopracciglia.
 Uno dei camerieri, un giovane ragazzo sui vent'anni dall'aria familiare, accorse frettoloso con un tovagliolo poggiato sul braccio piegato, ed appena fu loro abbastanza vicino sorrise ad entrambi cortesemente.
 -Signor Greenjoy, signorina Tornald.-
-C'è ancora qualcosa che possa riempirci lo stomaco?- chiese Harry, provando in tutti i modi a non guardare Hebe.
 Il cameriere sorrise ancora: -Quello che volete. La cucina è sempre aperta.-
Diede loro i menù, cartoncini intagliati coperti di plastica semi-lucida, e attese paziente fino a che entrambi non ebbero decretato i loro ordini; dopo aver servito loro del vino li lasciò soli.
-Allora...- iniziò Hebe, imbarazzata. -È la prima volta che ceniamo assieme.-
 -Ti ricordo che abbiamo condiviso la stessa camera per settimane.- precisò lui, accigliato.
 Era talmente bella che tutto ciò che riusciva a fare era comportarsi freddamente.
 Un paradosso, pensò: aveva il cuore caldo ma tutto quello che faceva rilasciava rigidità.
 Mise l'indice sul perimetro del bicchiere di cristallo, girando e rigirando all'infinito fino a quando il contatto tra la pelle ed il bordo non rilasciò una lieve melodia.
 Inghiottì il nodo che gli stringeva la gola e la osservò: le sembrava così delicata e piccola, che per un istante tutto ciò a cui pensò fu che potesse volare via da un momento all'altro come una nuvola.
 Allora decise, perdendosi nei suoi occhi grandi e umili, che quella sera avrebbe provato ad essere semplicemente sé stesso, e non colui che si mostrava perennemente angosciato all'idea di doverle stare accanto.
 -Tu non c'eri quasi mai, la sera.- gli sorrise poi lei, e lui ebbe l'impressione d'aver intravisto nei suoi occhi una certa malinconia, per un secondo.
 -Su questo non posso replicare.-
 -No, non puoi.-
 Silenzio.
 Harry prese un respiro profondo, e si schiarì la gola: -Allora Meredith, sei davvero...- tentennò. -Graziosa.- disse infine.
 Provò a non guardarle il collo scoperto, talmente candido ed esile, e si concentrò sui lineamenti del suo viso: la bocca rossa, gli occhi grigi e la fossetta sullo zigomo evidente solo quando sorrideva o si corrucciava; proprio come in quel momento.
-Grazie.- sussurrò, arrossendo. -Stai bene anche tu.-
 -I vestiti eleganti risaltano la mia carnagione, non trovi?-
Lei rise, spontanea e meravigliosa come non la vedeva da tanto: gli sembrava quasi che avesse azzerato tutti i pensieri negativi, e che stesse provando a dimenticare anche ciò che era successo tra di loro.
-Sai, mi piace il tuo nuovo tu.- disse, mettendosi il tovagliolo sulle gambe dopo averlo aperto. -Di solito non eri così sarcastico.-
 -Non volevo sembrarti...-
 -Un idiota?- lo fermò lei, pensierosa.
-Stavo per dire una persona priva di sostanza ma sì, pressoché il contenuto è identico.-
Il ragazzo che aveva servito loro il vino entrò nella sala con i piatti che avevano ordinato, ed una volta giunto al loro tavolo li posò con accortezza ai loro posti.
-Risotto al tartufo bianco con radicchio rosso e noci tritate.- esordì, drizzando la schiena e congiungendo le mani dietro il bacino. -Spero sia di vostro gradimento.-
Harry lo scrutò attentamente, continuando a pensare che avesse un ché di familiare: il volto asciutto e spigoloso, i capelli chiari e gli occhi nocciola.
 Lui lo osservò di rimando, lo stesso atteggiamento confuso: -Buon appetito.- strascicò poi.
 Una volta andato via Harry ed Hebe si guardarono accigliati.
 -Sembra complicato.- disse lei, prendendone una forchettata.
 -Mi piacciono le cose complicate. Tu lo sei.-
 Non si accorse di averlo detto davvero fino a quando lei non alzò lo sguardo, le gote arrossate.
 Si guardarono per qualche istante, poi lui calò gli occhi sul piatto ed iniziò a mangiare.
 Lei lo guardava ancora.

 Un'ondata d'aria fresca le colpì il viso con audacia. Avevano appena terminato di cenare, e dopo che quasi tutte le persone che ospitavano la sala si erano rintanate nelle proprie stanze, Harry le aveva chiesto di uscire fuori.
 Aveva accettato titubante, improvvisamente invasa da uno strano calore. Lui le aveva preso la mano, delicato ma deciso, e l'aveva condotta sul balcone, chiudendosi la portafinestra alle spalle.
 Era poggiata alla balaustra di marmo, così liscia al tatto, lasciandosi pervadere dai brividi, conseguenze spiacevoli del vestito privo di maniche in quei giorni di dicembre.
 Le luci della notte le si riflettevano negli occhi chiari, accendendole il grigio di vaste gamme di barlumi luminescenti.
 Da lassù vedeva il Ponte di Rialto che torreggiava sul fiume, calmo e languido, e quasi le parve di cogliere da lontano le persone che ridevano guardando verso il basso.
 Era tutto così tranquillo che credeva quasi di essere addormentata, e che fosse immersa in sogni che mai sarebbero potuti essere realtà.
 -Hebe?-
 La voce ruvida di Harry la fece trasalire, e fu felice d'essere aggrappata in parte alla balaustra.
-Hebe.- ripeté ancora, stavolta con dolcezza.
 Era accanto a lei, le mani poggiate sul marmo a poca distanza dalle sue.
 Lei guardò sù: le pallide stelle che illuminavano il cielo notturno risaltavano assieme alla luna in un lenzuolo nero.
-È bello qui.- disse, socchiudendo gli occhi. Lui annuì, e seguì il suo sguardo.
 -Ho sentito tuo padre, oggi.- disse poi, tornando a guardarla. -Era preoccupato per te.-
 Hebe si voltò e corrugò le sopracciglia: -Perché?-
 -Abbiamo perso di vista Drake da tanto, oramai. Ha paura che possa presentarsi da un momento all'altro.-
 -E cosa accadrebbe, se succedesse?-
Harry strinse le mascelle, facendo guizzare un nervo sotto la guancia: -Non pensarci.-
 -E a cosa dovrei pensare, altrimenti?- chiese, poggiando i gomiti sulla balaustra, pensierosa. -A te che sparisci e torni dopo ore?-
 -Hebe...-
 -Il pensiero di ciò che tu debba fare mi tormenta, Harry.-
Si prese la testa tra le mani: non voleva continuare ad insistere su argomenti che sapeva lui non avrebbe apprezzato, ma era tutto ciò a cui pensava da quando l'aveva conosciuto. Cosa implicava lavorare per suo padre?, continuava a domandarsi, ininterrottamente.
-Sono bravo, Hebe.- Sorrise. -Tanto. Non devi temere per la mia incolumità.-
Lei scosse la testa, esausta dei suoi mille giri di parole, e le sue spalle tremarono per il forte vento; si strinse ancora di più bello scialle.
 -Hai freddo?- chiese poi lui, tenero come mai l'aveva sentito.
 Si voltò stralunata, vedendo il suo volto coperto in parte dalle ombre poco lontano dal suo. Lo guardò: gli occhi scuri e malinconici, sotto i soffici ricci, erano privi della solita freddezza. Erano limpidi e puri come l'acqua, luminosi e dolci, pieni di un qualcosa che non seppe definire, ma che le fece credere fosse quasi amore.
 Era così che aveva sempre immaginato potesse essere negli occhi di qualcuno: tenero e passionale; lo stesso sguardo che non avrebbe mai associato ad Harry Styles. Eppure lui, in quel momento, con i capelli impigliati nelle lunghe ciglia scure, la bocca rossa, quasi chino su di lei, la stava guardando esattamente in quel mondo.
-Non ho freddo.- riuscì a sussurrare, tanto piano che per un istante credette che lui non avesse sentito.
 Lui sorrise leggermente, e con accortezza mista ad una rapidità che oramai non la sorprendeva più si levò la giacca e la poggiò sulle sue spalle.
-Ma, chissà perché, improvvisamente ora hai smesso di tremare.-
Hebe si strinse nelle spalle, il freddo che con lentezza abbandonava il suo corpo; fremette quando pensò alla prima volta che lui le aveva posato la sua giacca sulle spalle, immersi nel buio come in quel momento ma con gli alberi a far loro da sfondo: quella volta, con le luci di Natale appese sui rami e un bicchiere rotto ai loro piedi, erano finiti col baciarsi.
 Hebe alzò la testa, e si accigliò: -Dovremmo rientrare.-
Mosse un paio di passi verso la portafinestra, barcollante e impacciata: la verità era che non voleva affatto rientrare, sarebbe voluta rimanere così per sempre, con il calore del suo corpo che la riscaldava e i suoi occhi mortalmente dolci che la guardavano come mai prima.
 Quasi cadde quando, d'improvviso, lui le prese una mano e la voltò con destrezza verso sé. Chiuse gli occhi lucidi e abbassò la testa.
 -Hebe, guardami.- disse piano lui, poggiandole esitante una mano sulla guancia.
 Sentiva il viso bruciare, quasi, al suo tocco: il freddo che lasciava spazio ad un caldo cocente e immane, passionale e sublime.
-Guardami.- ripeté, quasi in un sussurro, chinandosi nuovamente su di lei.
 Sentì il suo fiato sul collo, e un lamento le sfuggì dalle labbra fuori dal suo controllo. Aprì gli occhi controvoglia, nello stesso istante in cui lui le afferrò con lentezza un fianco, avvicinandola ancora di più a lui.
-Arabella.- strascicò, unendo le loro fronti, in un tono che le ricordava il dolore ed il rancore. -Arabella mia...-
Sospirò a quelle parole, abbandonandosi completamente al suo tocco: le sue ciglia si mossero più volte, gli occhi semiaperti, le labbra che le pizzicavano nonostante le tenesse serrate tra di loro; si aggrappò con forza alla sua camicia, facendo sì che un lembo fuoriuscisse dai pantaloni tanta era la tenacia con cui l'aveva afferrata. Sentiva le gambe molli, la vita bollente nei punti in cui il suo braccio l'avvolgeva.
 Ricordava quanto avesse sofferto giorni prima, ed anche in quel momento vedeva con chiarezza ciò che i suoi occhi avevano catturato l'ultima notte che aveva passato nella sua camera all'istituto, sapendo sarebbe rimasto impresso nella sua mente come una cicatrice; sapeva anche quanto fosse tremendamente sbagliato ed incoerente quello che stava facendo, ciò che stava provando, ma era tutto ciò che in quel momento le sembrava giusto.
 Quindi alzò le mani con delicatezza, e spostò ciuffi scuri dal suo volto: lui fremette e non appena accennò a scostarsi, il viso contratto in una smorfia, lei serrò la presa sul suo collo.
 -No.- disse, stringendo in un pugno la sua camicia e nell'altro i ciuffi sulla sua nuca. -Non andartene.-
 Lui spalancò gli occhi per un istante, e lei vi lesse nel verde la sorpresa e il rammarico; le tolse le mani dal suo corpo, e dopo avergliele posate lungo i fianchi prese il suo volto tra i palmi.
-Non lo farei mai, Hebe.- sussurrò con veemenza. -Mai.-
 -Io credevo...-
Lui scosse la testa: -No.- disse piano. -Aspetto da così tanto questo momento, che mi sembra quasi irreale.-
 -Allora cosa c'è?- chiese, e lui le carezzò gli zigomi: le dita che disegnavano cerchi concentrici sulle sue gote, i calli ruvidi che le grattavano leggeri la pelle.
-Voglio essere certo che tutto sia vero.- strascicò, contro la sua guancia. -Che tu sia qui, e che io ti stia accarezzando in questo modo senza farti scappare via.-
Lei prese un bavero della giacca che le copriva le spalle e lo abbracciò coprendo entrambi con la stoffa; lui le sorrise.
-Lo è.- disse lei. -E per quanto io sia potuta stare male, adesso è tutto quello che voglio.-
Harry fremette nel sentire quelle parole, e posò le mani sulle sue spalle coperte: ne sentiva il calore propagarsi nelle ossa, nelle vene, nella gola, nel cuore.
 Insinuò con calma le mani tra i suoi capelli raccolti e con accortezza levò il fermaglio che li teneva legati; non appena le caddero sulle spalle in tante onde rossicce lui li accarezzò con cura, attorcigliandosi una ciocca attorno al dito.
 Non smise di guardarla neanche un istante: le toccò le tempie, la curva degli zigomi, il contorno della bocca.
 Si soffermò sulla base del collo per qualche secondo, espirando con forza quando sentì il battito del suo cuore pulsare contro la punta delle sue dita; le sfiorò le spalle, scendendo con le dita fino alle clavicole. Distolse gli occhi dai suoi e li posò sul suo petto, nell'esatto punto in cui la sua mano sfiorava il corpetto del vestito; discese entrambi i palmi lungo i suoi fianchi, insinuandoli sotto la giacca che la copriva -troppo grande per lei eppure in quel momento così stretta- e li cinse appena sopra il suo bacino.
-Sei così bella.- sussurrò, sfiorandole il naso con il proprio.
 Lei sospirò, un respiro secco e spezzato, e lo guardò nonostante l'immensa vicinanza le facesse male agli occhi chiari.
-Mi sei mancata così tanto.- sussurrò, corrugando la fronte e chiudendo gli occhi.
 Hebe posò con delicatezza le mani sul suo petto, e poi viso. Sentiva il pulsare del sangue accanto l'orecchio, e le catenelle che portava sotto la giacca pizzicarle la guancia; le ignorò. Harry la strinse forte a sé e poggiò le labbra sulla sua testa.
 -Non facciamoci più male, ti prego.- Il suo tono sprigionava un'emozione mai provata prima d'ora, colma di passione e dolcezza.
 Harry la scostò dal suo petto e le pese il volto tra le mani; non capì cosa stesse succedendo. Vide solo i suoi occhi che quasi luccicavano, e poi sentì le sue labbra sulle sue.
 Le mosse con lentezza, come se avesse il terrore che lei potesse ritrarsi; non appena lei afferrò il suo collo, lui espirò con violenza: come se avesse trattenuto il respiro tutta una vita, in attesa solo di quel momento. Avanzò fino a bloccarla tra la balaustra in marmo ed il suo corpo, togliendole il fiato quando infilò le mani fra i suoi capelli sciolti.
 L'ultima volta che si erano baciati l'avevano fatto con forza e passione, con l'intenzione di sfogare quasi tutte le emozioni che avevano dentro; ma quella volta no.
 Le loro labbra si mossero metodiche, assaporando ogni singolo momento, ogni singolo istante in cui i loro corpi si abbracciavano. Harry la strinse a sé, allacciando le braccia attorno al suo busto, ai suoi fianchi, al suo collo, infilandole le mani nei capelli e carezzandole ancora le gambe sopra il vestito leggero.
-Harry...- sussurrò Hebe.
 Lui le mordicchiò il labbro inferiore, rallentando il flusso dei baci fino a terminarlo del tutto, ma non la lasciò.
-Vuoi fermarti?- domandò, con voce cauta e affannata, e le strinse leggermente le anche.
 -No.- Scosse la testa. -No, mai.-
-Forse abbiamo bevuto troppo vino.- rise, baciandole l'angolo delle labbra. -Cosa c'è?-
Hebe si guardò attorno, e scosse le testa. Venezia, la cena, il cibo tanto buono da parerle irreale, la vista da qual balcone e lui: era tutto così magnifico che dubitava potesse durare; avrebbe dato tutto per far sì che succedesse. Pensò a Drake, a sua madre chissà dove, ai loro nomi falsi ed al fatto che non potessero comportarsi come persone normali per dei complotti vendicativi che lei neanche conosceva.
 Poi lo guardò, e vide i suoi occhi un tempo oscuri e freddi che brillavano appena nella luce della notte, i suoi capelli davanti al volto, le sue labbra arrossate e le gote altrettanto rosse, la sua espressione che mai fu più dolce di allora.
-Nulla.- disse quindi, piano. Posò un bacio sulla base del suo collo, ed ispirò il suo odore di menta e nicotina. -Voglio solo che sia così sempre.-
 -Lo sarà, te lo prometto.-


Angolo Autrice:

Ragazzuoli\e!
Finalmente aggiorno, nonostantre la connessione sia alquanto orripilante.
Ma... Hebe ed Harry sono arrivati a Venezia e, come avete certo intuito, si stanno più che riappacificando! Evviva!
No, d'accordo, ora torniamo alla serietà: a quanto pare lei soffre la mancaza della madre -come sempre, d'altronde- e lui si è occupato di qualcosa che ancora non si conosce... non ancora, sottolineo.
Voglio tenervi sulle spine, sì. Bene, vi lascio ai commenti!
Un bacio e divertitevi questa estate!
Abby_xx 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** CAPITOLO XXI ***


                                                                                               CAPITOLO XXI


-Devi restare concentrata su ciò che hai davanti.- le disse ancora. -Fletti il ginocchio sinistro e prendi la mira.-
Erano nella sala degli addestramenti -che si era rivelata una comune sala addobbata per essere tale nell'ultimo piano di un edificio poco distante dai loro alloggi- e lei era talmente stremata da dover stringere i denti per non gemere dalla stanchezza.
 Aveva le gambe deboli, le braccia doloranti e lividi grigiastri lungo tutto il corpo; appena arrivata Harry le aveva consegnato una tuta nera e delle ginocchiere, che sarebbero dovuti servire a procurarle meno dolore, ma le botte che prendeva sembravano ignorare il loro uso.
 Non le aveva mai chiesto se fosse esausta o se volesse fare una pausa, e lei era convinta che, nonostante cercasse di fingersi attiva e di trattenere gli urli quando veniva colpita, Harry sapeva quanto fosse stanca.
-Non perdere la concentrazione.- Le bacchettò la coscia destra con la mazza che aveva stretta nel pugno sinistro e lei strinse la mascella.
-Sono concentrata.- ribadì, per l'ennesima volta da quando erano arrivati.
 Harry sorrise sardonico: -Nonostante ciò non hai mai centrato il tabellone.-
 -Ci sono metri di distanza a separarmi da quel coso.- Si voltò verso di lui e indicò con il coltello che aveva tra le dita il tabellone circolare -una sorta di tiro a segno per freccette- che avrebbe dovuto colpire. -Come pretendi che ci riesca?-
Harry le sorrise, poi, senza staccarle gli occhi da dosso, estrasse un coltello ricurvo dalla cintura e lo lanciò.
 Il pugnale fendé l'aria, silenzioso e preciso, e quando il rumore della sua lama infilzò il tabellone un rumore vibrante echeggiò nella grande sala.
 Hebe si voltò sbalordita ed i suoi occhi si spalancarono ancora di più quando vide che, oltre ad aver a differenza sua centrato l'obbiettivo, aveva anche colpito il cerchio rosso all'interno dei neri; il più difficile da mirare.
-Vedi?- domandò, retorico. -Non mi sono serviti ventiquattro colpi per riuscirci.-
 -Oh, davvero maturo da parte tua.- biascicò lei, incrociando le braccia al petto. -Facile per uno che lo fa da quando è venuto al mondo.-
 -È facile per chi ha giusta concentrazione e volontà.- rispose lui, girandole attorno come un avvoltoio. Si fermò accanto a lei, e calò il volto fino a sfiorare con le labbra il suo orecchio. -Ma gli anni di preparazione forse aiutano un po'.-
Le afferrò la vita e la voltò verso di lui, sorridendo quando Hebe arrossì e legò le braccia dietro la sua nuca.
 -Sei piuttosto brava.- ammise, sollevandola per la vita fino ad averla alla sua altezza. -Abbastanza impacciata, ma brava.-
-Ho un bravo insegnante.- ribatté lei, carezzandogli i ricci. -Abbastanza pretenzioso, ma bravo.-
 -Credi io sia pretenzioso?- domandò, sollevando le sopracciglia in un arco di finto disappunto. -Pretendere che tu sia addestrata in maniera tale da non rischiare la vita ogni secondo non è pretenzioso, ma coscienzioso e ragionevole.-
Lo guardò deglutire accigliato, e passò un dito contro il suo collo mentre lui ancora la teneva sospesa e stretta contro di sé.
 -Se non devo preoccuparmi io non devi farlo neanche tu.- disse, con dolcezza mista a decisione.
 -Io so cavarmela da solo.-
 -Tu mi stai insegnando a farlo.-
 Tenne lo sguardo fisso nei suoi occhi, ed Hebe sentì quel verde smeraldo scuro e distante che li colmava avvolgerla e trascinarla nel loro piccolo spazio di mondo.
-Sai già come cavartela, scheggia.- sussurrò poi. Lei socchiuse gli occhi e allontanò di poco le mani dal suo viso per poterlo guardare meglio.
-Allora perché pensi che debba aver bisogno di perenne protezione?- Carezzò piano la sua guancia, e lui la fece scivolare lentamente a terra. I suoi piedi toccarono il pavimento freddo e un soffio d'aria lasciò le sue labbra quando Harry le afferrò la vita.
 -Tanti motivi.- disse semplicemente.
 Poi, prima che potesse accorgersene o anche solo prestare attenzione a ciò che stava accadendo, si ritrovò a terra dopo aver emesso un gridolino sorpreso. Aprì la bocca confusa e lo vide ghignare.
-Non perdere mai la concentrazione.- strascicò, voltandosi e iniziando a camminare verso la parte della sala rivestita di materassi ginnici.
-Ma stavamo parlando!- sbottò, sconvolta. -Non vale.-
 -Non ho mai detto che l'allenamento fosse finito.-
Lei sbuffò e si rimise in piedi, facendo forza sulle braccia magre per alzarsi.
 Camminò trascinando i piedi sul pavimento, e alzò gli occhi al cielo quando lui le rivolse un'occhiata di rimprovero.
-Vieni qui.- disse. Hebe si avvicinò e mise le mani sui fianchi. -Ora colpiscimi.-
 -Come?- disse lei, arricciando il naso.
-In qualunque modo ti venga in mente.- Fece un passo verso di lei e la guardò da sotto i ricci scuri. -Capiremo i tuoi punti di forza e le maniere di combattimento in cui non sei allenata.-
 -Non sono allenata in nulla, a dir la verità.- biascicò Hebe, grattandosi la testa. -Come faccio a colpirti se non so neanche da dove iniziare?-
 -Segui l'istinto.- disse lui, scrollando le spalle. -Imparerai molto di più così che non se ti dicessi io come agire.-
 Hebe sospirò, stringendosi i capelli in una coda arruffata, e posizionò un piede dinanzi all'altro; girò il busto di poco, e preparò i pugni contro il viso come aveva solitamente visto fare.
-Avanti.- la esortò lui. -Mettimi al tappeto.-
Hebe sferrò il primo pugno, i gomiti stretti al petto, ed Harry lo schivò con naturalezza. Strinse i denti e fece un passo avanti, protendendo l'altra mano serrata per provare ancora. Lo mancò di nuovo.
 -Tutto qui?- chiese lui, provocandola.
 Hebe saltellò sulle punte dei piedi, e dopo altri due mancati pugni decise di calciare diretta allo stomaco.
 Contrasse la faccia in una smorfia decisa e alzò la gamba. Tutto sembrò succedere al rallentatore; il suo calcio che si alzava fino al suo busto, il sospiro di Harry e poi le sue mani che le si avvolgevano attorno la caviglia, ruotandola e mandandola, per l'ennesima volta quel giorno, sul pavimento.
 Lui le piombò addosso silenziosamente e dopo averle preso le mani in una morsa le serrò sopra la sua testa.
-Sai come muoverti.- constatò col fiato affannato nonostante sembrasse impassibile. -Non sei poi così una frana.-
 -Non ti ho colpito neanche una volta.- disse Hebe, arrossendo quando lui le sfiorò una guancia con la mano libera.
 -Ci sei andata vicina.-
-Dobbiamo lavorarci su, credo.- sussurrò, e protese imbarazzata la bocca verso la sua fino a sfiorargli le labbra.
-Si.- strascicò Harry. Le lasciò la mano che teneva stretta sopra la testa e le avvolse il busto con le braccia, alzandola con sé mente si rimetteva in piedi; la strinse forte e sorrise. -Si, lo credo anche io.-
Calò il viso verso il suo, e unì con delicatezza le loro labbra; tutto il resto, per la piccola Hebe, sembrò dissolversi nell'aria: non pensò più ai rischi che correva, all'allenamento, alla malinconica mancanza che provava verso sua madre, alle notizie che non aveva da tempo su Church e neanche alla necessità che tutto quello finisse. Concentrò la propria mente ed il proprio corpo sul ragazzo che la teneva avvolta tra le braccia, lasciandosi in balìa di quel sentimento nuovo e letale che con decisione si stava facendo spazio nel suo petto.
 Mosse con lentezza le labbra, accogliendo quelle di lui con morbide carezze; passò la punta delle dita sul suo collo, accarezzò le braccia e poggiò i palmi sul suo sterno; quando sentì le mani di Harry avvolgerle il busto, la schiena, e risalire nuovamente la spina dorsale gemette sospirando e rabbrividì dal piacere.
 Harry si fermò per un istante e la osservò, quasi esterrefatto, affannando.
-Voglio che con te sia diverso, Arabella.- le sussurrò, la voce quasi un lamento, pressando la fronte sul suo collo. -Tu non sei come le altre, e io non rovinerò tutto. Te lo prometto.-
Hebe percepì quelle parole come un rimbombo, una voce portata dal vento; era come se stesse osservando ciò che accadeva da angolazioni diverse, fuori dal suo corpo, sospesa nell'ebrezza e nella gioia spaventosamente forte dovuta alla sua vicinanza. Era come se il solo toccarsi provocasse ad entrambi sensazioni così intense da aver paura potessero lasciare cicatrici nelle loro carni, nella loro testa e nel loro cuore.
 -Non c'è bisogno di dirlo.- biascicò, abbandonandosi completamente ai suoi baci. -Io mi fido di te.-
Tutto ciò che sentì nei secondi successivi a quelle parole fu solo silenzio: un silenzio atroce, la tensione nell'aria e la frenetica voglia di riempirlo.
 Harry alzò il viso dal suo collo e corrugò le sopracciglia, l'espressione malinconica che sprigionava agonia.
 -Cosa c'è?- chiese, improvvisamente rossa in viso.
 Aveva paura potesse essere stato un errore madornale aver detto quelle semplici parole, brevi ma piene di significato: sapeva quanto per lui fosse difficile aprirsi, mostrarle ciò che provava o rivelarle dettagli sul suo passato; e lei non voleva spaventarlo. Chiuse di scatto la bocca, resasi conto di averlo guardato stravolta tutto quel tempo, e strinse inconsciamente la sua maglia in un pugno per la paura che potesse andarsene.
 Lui continuava a guardarla, immobile nella sua triste espressione, e quando Hebe boccheggiò per parlare, per dire qualsiasi cosa potesse farli tornare come attimi prima, lui la fermò unendo le loro labbra.
-Non te ne farò pentire.- sussurrò tra un bacio e l'altro, la voce tesa e lontana. -Farò di tutto per esserne degno.-
Alle sue parole seguì un fragore metallico che riecheggiò in tutta la sala: entrambi si voltarono verso la porta confusi, e non appena Hebe capì ciò che stava accadendo il respiro le si mozzò in gola.
 Un uomo entrò nella grande stanza, il berretto rosso ben sistemato per coprire il volto; Hebe rabbrividì: tra le mani, coperte dai guanti neri, reggeva una pistola. Harry si irrigidì quasi impercettibilmente, e se lei non avesse tenuto le mani sul suo petto non se ne sarebbe mai resa conto.
 Lo sentì muovere la mano verso la parte posteriore dei pantaloni da esercitazione, e quando capì cosa stesse facendo lo guardò ansiosa.
 -Eccovi qui, finalmente.-
 Quella voce, pensò; era così familiare che un nodo le si strinse sul petto, lasciandola senza fiato. -Sarei venuto prima, ma era necessaria la giusta pazienza.-
Mosse la mano libera sul capo e non appena scoprì il viso Hebe aspirò l'aria fredda di colpo.
 -Tyler.-
 La voce di Harry era piatta, incolore: non sorpresa come si era immaginata potesse essere, ma così vuota e neutra che si rese conto sarebbe stato meno doloroso se avesse gridato. Il suo tono tranquillo fece immobilizzare Tyler; per un attimo Hebe vide un barlume di rimorso brillare nei suoi occhi scuri, un tempo così dolci, poi lui ghignò e l'avidità tornò a colmarli.
 Il ragazzo cortese e gentile che aveva conosciuto tempo prima, colui che era stato amico del ragazzo al suo fianco per anni ed anni, ora teneva tesa una pistola contro di loro. Sentì il petto di Harry vibrare sotto le sue dita, una risata muta e fasulla.
 -L'agnello che si scopre essere il leone.- strascicò, la voce neutra. -Avrei dovuto capire che dietro i tuoi modi pacati si nascondeva un menzognere privo di fedeltà.-
 -Mi sopravvaluti, amico mio.- sorrise il ragazzo. -Ho solo capito che la vicinanza a quella ragazzina ci avrebbe fatto correre inutili pericoli.- Indicò Hebe con la canna della pistola. -John mirava solo ad avere di nuovo intatta la sua bella famiglia. Non gli interessava davvero darci una vita migliore.-
 -Perché?- sussurrò Hebe, ignorando le insinuazioni menzognere sulle volontà di suo padre, mentre Harry si parava dinanzi a lei. -Perché tradire tutti?-
Tyler digrignò i denti: -Potere, piccola bastarda.-
A quelle parole Harry fremette, e non appena si mosse Hebe gli afferrò una spalla, stringendola tra le dita sottili.
 Non voleva si scatenasse nulla che si sarebbe concluso tragicamente.
 -Non voglio farti del male, Tyler.- disse Harry, la voce un sussurro roco, cavernicolo. -Non costringermi. Abbassa la pistola e va via.-
 Tyler rise brevemente, poi si accigliò: -Sono stanco che la gente mi dica cosa fare.-
Quando Hebe lo vide alzare la pistola verso di loro e sentì Harry muoversi intento a proteggerla, l'istinto prevalse su qualsiasi forma di ragione: prese con velocità il suo polso sinistro, e con una spinta si parò dinanzi a lui. Legò le braccia attorno al suo collo e sentì il rumore metallico del grilletto che scattava riecheggiarle nella mente; nello stesso momento in cui il proiettile attraversò lo spazio che li separava, il pugnale che Harry lanciò tagliò l'aria tesa con forza ed agilità.
 Non riuscì a voltarsi per vedere se l'avesse colpito, limitandosi solo a guardare il suo viso impassibile.
 Nell'esatto istante in cui lui calò gli occhi per osservarla, un calore atroce e doloroso invase in suo busto: corrugò le sopracciglia accigliata e confusa, e quando vide le pupille di Harry dilatarsi spaventosamente guardò verso il suo stomaco.
 Una chiazza scura si allargava sul nero della maglia, colorandola di sfumature rosse: vi poggiò la mano, e si sporcò il palmo. Non le era mai piaciuto il sangue. Alzò il viso verso Harry, e quando lo vide boccheggiare le gambe le cedettero; lui la prese tra le braccia prima che toccasse il suolo, cadendo con lei fino a sedersi sul pavimento freddo.
 Le ultime cose che fluttuarono indistinte nella sua testa mentre lo sguardo le si annebbiava fu perché non sentisse dolore.
 Altri passi risuonarono nella sala, ma lui non smise di guardarla: irrigidì la mascella e pressò la sua ferita, gli occhi verdi che risaltavano in un contorno sfocato.
 Un altro sparo lacerò il silenzio che si era creato, ed il corpo di Harry ricadde barcollante sul suo. Poi il buio.

 Il buio dietro le palpebre chiuse lo circondò di una sensazione di disagio. Il freddo sembrava invadergli le ossa, ghiacciandolo dall'interno; sentiva le gambe intorpidite, i polsi doloranti e la bocca impastata. Percepiva un fascio di luce illuminargli il volto in un bagliore incostante, ma aveva gli occhi troppo pesanti per potersi permettere di aprirli subito.
 Sentiva la testa come sospesa, la sensazione di ondeggiare in un oceano scuro e infinito.
 Aprì gli occhi verdi di scatto, così velocemente che tutto ciò che era attorno a sé si appannò per qualche secondo; non appena mise a fuoco il perimetro della stanza in cui si trovava, con un brivido gli si gelò il sangue nelle vene.
 Si trovava in un sottoscala, un'ennesima volta.
 La stanza era spaziosa, ma le pareti rivestite di legno e metallo ed il pavimento scuro la facevano apparire più grande di quanto realmente fosse. Calò gli occhi sul suo corpo, ed improvvisamente la spiegazione all'intorpidimento ed al freddo divenne lampante: era stato legato ad una sedia di metallo -fissata al pavimento, si rese conto- le mani dietro lo schienale strette da una corda e le caviglie legate assieme da un fascetta da elettricista.
 Un sapore amaro pervase tutta la sua bocca, facendolo tossire ripetutamente fino a quando non riuscì a sputare a terra: chiuse gli occhi ringhiando dalla rabbia.
 Avrebbe riconosciuto quel sapore in qualsiasi momento; l'amaro ed il dolciastro che si alternavano ad ogni deglutire, l'impossibilità di parlare senza sforzi e la voglia di dormire: era stato sedato. Ringhiò ancora e si agitò con forza.
 Quando iniziò a dimenarsi la lampadina che lo illuminava traballò assieme a lui, avvolgendolo di luci intermittenti.
-Andiamo.- grugnì, sfregando i polsi tra loro. -Forza!-
Soffocò un urlo disperato pressando le labbra sulla spalla, e quando compì quel gesto un'unica cosa invase la sua mente: Hebe.
 Si mosse ancora più in fretta, strofinando i polsi lividi e provando ad allargare la fascetta che gli teneva legati i piedi con calci e spinte.
-Andiamo!- urlò ancora, con un ultima spinta. La corda, quasi avesse percepito il suo dolore, si sciolse all'istante.
 Harry boccheggiò per qualche secondo, i graffi sanguinanti sulle mani che sembravano quasi sfrigolare, poi si calò sulle sue gambe e fece pressione fino a quando riuscì ad allargarle la fascia; si mise in piedi con cautela, lo sguardo che vagava nella piccola stanza vuota rivestita di metallo, poi si voltò, dando le spalle alla sedia, e corrugò le sopracciglia: un vetro spesso percorreva per metà la superficie della parete anteriore, partendo da un metro da terra fino al soffitto.
 Si avvicinò con lentezza, il pensiero perennemente rivolto ad Hebe, la sensazione di freddo che lo ghiacciava dall'interno che non si frenava nonostante non fosse più seduto sul metallo; alzò una mano dinanzi al suo volto, il passo sempre più metodico e lento, e quando toccò la parete fredda si decise ad alzare lo sguardo.
 Ciò che vide gli mozzò il fiato tanto violentemente da fargli temere di non poter tornare a respirare mai più; l'unico pensiero che lo travolse, mentre teneva lo sguardo tetro fisso davanti a sé, fu che il suo petto stesse andando in tanti piccoli pezzi; stesa su di un tavolo di ferro con una singola lampadina ad illuminarla, dietro a quel vetro spesso e lucente, la stanza buia a circondarla, c'era la sua Hebe.
 Il viso di un pallore violaceo insolito, che rendeva possibile alle vene grigie del collo e delle tempie di risaltare sulla pelle bianca; le labbra pallide, cadaveriche, talmente chiare che non riuscì a vederne il contorno; gli occhi chiusi che permettevano alle lunghe ciglia di sfiorarle le candide guance. La mano abbandonata al vuoto, che cadeva dal perimetro del tavolo, de i capelli scombinati sulla fronte. I piedi scalzi e le sottili gambe coperte che gli sembravano sul punto di frantumarsi se fossero state solo sfiorate. Il completo nero intriso di sangue scuro.
 Fu allora che capì; che capì che quella non era davvero lei, che non poteva essere lei. La Hebe sempre rossa in volto per l'imbarazzo, con gli occhi grandi perennemente aperti, pronti a scovare tutti i più piccoli dettagli del mondo che nessuno sarebbe mai riuscito a cogliere, non era il fragile involucro senza vita posato dietro quello specchio. Quella ragazza, abbandonata a sé stessa in un aurea di dolore e freddezza su di un tavolo, le nocche graffiate e il petto sanguinante, non doveva essere il corpicino pallido e vivace di cui si era invaghito.
 Fu allora che il suo petto di deteriorò del tutto; perché la sua Hebe era sempre stata viva.
 Lei era morta.


Angolo autrice:
Prima che mi minacciate di lanciarmi coltelli contro come in Kill BIl, vi giuro che non doveva andare così. Ma poi ho passato le ultime tre settimane a vedere film violenti e deprimenti, e la mia testa bacata ha pensato di stravolgere l'intero capitolo, ed i successivi, e quelli ancora dopo...
Però mi volete bene lo stesso, vero? Insomma, non è ancora finita!
Per Harry, intendo... Okay, la smetto. In compenso, però, vi dico che ho passato questo mese nel mio solito posto estivo fuori dalla civiltà e privo di una connessione ad interent decente a scrivere, scrivere e scrivere. Penso che tra un paio di giorni aggiornerò di nuovo, se non domani stesso! Sta a voi dirmi se vi rifiutate categoricamente di proseguire la storia e che volete iniziare maniacali maledizioni Vodoo da gettarmi contro, oppure se siete curiose!
Adesso vi lascio, fatemi sapere in tanti!
Baci,
Abby_xx

PS: E si, sono andata a scrivere nello stesso bar dell'anno scorso... E si, il cameriere è lo stesso e continua a gettarmi occhiate confuse e strabuzzanti per le ore ed i caffè che spendo lì. Penso sia spaventato dal fatto che se uno di questi giorni avrò qualche schock da troppa caffeina, lui -essendo l'unico essere vivente all'intero di quel posto malmesso- dovrà o caricarmi sulle spalle e gettarmi nel cassonetto, o trascinarmi all'ospedale di peso o ancora fingersi morto.

PPS: Chiunque tu sia, se stai leggendo, l'ultima opzione è la migliore.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** CAPITOLO XXII ***


                                                                                                  CAPITOLO XXII                       





Per la prima volta dopo tanto tempo, sentì il respiro bloccarsi nel petto. Era come se si trovasse migliaia di metri sotto l'acqua, ed il suo corpo fosse troppo stanco per provare a tornare in superficie; l'aria non c'era più e lui stava affogando nella paura. Lentamente, dolorosamente. Sentiva le labbra secche, le gambe molli; sarebbe piombato al suolo sulle ginocchia se non si fosse mantenuto al muro.
-Non è morta.-
Una voce ruppe il gelido silenzio che aveva regnato fino a poco prima. Una voce profonda, fredda e sardonica.
Non si voltò, continuò a fissare immobile la ragazza stesa sul tavolo come se fosse tutto ciò che il suo sguardo riuscisse a cogliere.
-È stata medicata. Non è morta.- ripeté la voce; passi lenti schioccarono sul pavimento liscio, e l'uomo che aveva pronunciato parola si fermò accanto a lui, le mani nelle tasche dei pantaloni costosi. -Non ancora, perlomeno.- Rise. -Il suo piccolo cuoricino è stanco, ma sta ancora battendo.-
Harry si voltò, impiegando tutte le forze che aveva per non prendere tra le mani il suo collo e stringerlo fino a spezzarlo. Lo guardò, e vide lo stesso uomo di anni prima.
 -Drake.- disse, la voce ferma e lontana.
 Lui lo guardava impassibile, gli occhi vuoti ed il viso contratto in una smorfia di pura presunzione. Gli stessi occhi neri e vuoti che aveva visto anni prima, la stessa barba incolta ed i capelli tagliati corti; le spalle larghe, il fisico asciutto, ed il completo grigio fumo d'alta sartoria. Non sembrava invecchiato di un giorno.
-È passato tanto tempo, Harold.- strascicò, giocando con l'orologio d'argento legato al polso sinistro. -Iniziavo a sentire la tua mancanza.-
 -Cosa le hai fatto?- sussurrò, sprezzante, tornando a guardarla.
-Nulla che tu non abbia già visto ripetutamente.- rispose, alzando le labbra in un grande sorriso.
 Mise una mano davanti al vetro che li separava da Hebe, le dita che premevano contro la superficie, e mimò con lentezza lo sparo di una pistola.
-Bang.- soffiò. -Nessun colpo fatale, se te lo stai chiedendo.-
 -Perché?- chiese, premendo le nocche contro la parete; non riusciva a reprimere la rabbia, la voglia di togliergli la vita con tanta forza da procuragli un'agonia immane. Ma lei era lì, davanti a lui, immobile come una statua, il petto che si sollevava impercettibilmente, e lui sentiva la sua stessa vita scorrere via come se fosse dentro di lei; non riusciva a compiere un solo gesto.
-Perché non hai sedato anche lei?- domandò allora. -Perché colpirla così?-
 -Guarda quanto è bella.- sussurrò, osservandola e sviando le sue domande. -Così gracile e candida. Una dea.-
La collera si nutrì di lui fino all'ultima goccia di sangue; il sentirlo parlare di lei a quel modo gli provocava tanto turbamento quanto dolore.
 -L'incrocio perfetto tra la bellezza gelida della madre e quella dolce di un fiore.- Sorrise. -Ma tu lo sai già, vero, figlio mio?-
Quelle parole, così naturali e amabili, lo travolsero di emozioni così forti che ebbe la sensazione di stare per scoppiare.
-Non azzardarti.- grugnì, la mascella una linea rigida. -Non pronunciare quelle parole una volta ancora.-
-Ti sei chiesto perché non riesci a reagire?- chiese, il sorriso che non andava via. -Io sono qui, uccidimi.-
Aprì le braccia ai lati del corpo, e lo osservò neutrale.
-Lasciami andare da lei, Drake.- sussurrò lui, la voce un lamento gorgogliante roco e lontano. -Lascia che io la salvi.-
Drake rise, battendosi le mani sulle ginocchia. -Questo è incredibile.- Harry continuò a guardare la lastra di vetro. -Sai cos'è questo sentimento che ti impedisce di muoverti? Amore.- disse sprezzante. -La più maligna delle malattie. Ti riempie le viscere e ti lascia debole ed insignificante.-
Harry non replicò: non perché non credeva ne valesse la pena, o perché era troppo spaventato da ciò che stava guardando per rispondere, ma poiché non era sicuro che Drake si sbagliasse su ciò che provava. Era la prima volta che pensava a lei come qualcosa senza la quale non potesse respirare, dormire, sognare, vivere; per la quale avrebbe dato la vita e avrebbe corso qualsiasi rischio. E se ne era reso conto solo allora.
 E si rese conto anche che non poteva permettere che accadesse; che non sarebbe morto senza aver provato a salvarla, senza aver tentato di salvare tutti.
 Perché lei non era Katherine, si disse, e lui non sarebbe restato inerme a sopportare la morte di qualcun altro.
-Hai sempre saputo dove eravamo.- constatò dopo qualche secondo, accigliandosi.
 Lui rise ancora, una risata così finta e vuota che Harry provò ribrezzo e pena per quanto stava guardando: era convinto che quell'uomo non sarebbe mai stato in grado di provare qualcosa diverso dall'odio.
-Credevate davvero che un uomo come me non sapesse dove foste?- chiese, retorico. -Ti credevo più perspicace, Harold.-
 -Allora perché reagire adesso? Perché aspettare così tanto?-
Drake mosse un passo verso di lui, gli occhi neri inchiodati nei suoi: -Per te, figlio mio.-
 Harry represse la cupa voglia di colpirlo dolorosamente fino a farlo sanguinare, e si concentrò sulle sue parole: più tempo impiegavano nei discorsi, più lei diventava fragile.
-Ora sei pronto.- sussurrò, febbricitante. -Avresti mai accettato di salvarle la vita a costo della tua se non l'avessi amata così tanto?- Drake avanzò ancora, lo schiocco delle scarpe laccate sul pavimento che lo seguiva ad ogni mossa. -Dovevo aspettare che ti rendessi conto di quanto sei disposto a fare per lei, di quanto perderesti delle tua vecchia vita per iniziarle una nuova. Con me.-
Harry guardò Hebe, così gracile e piccola, e pensò agli anni passati a vivere quella vita ed ai rischi e le soddisfazioni che questa comportava; pensò a tutte le volte che scovavano un indizio, ed alle miriadi di riunioni a cui Tyler voleva sempre partecipare.
-Tutto ciò che abbiamo fatto, tutte le volte che credevamo d'avere una possibilità...- disse quindi. -Eri tu a giostrarci; hai progettato ogni nostra minima mossa. E Tyler ti ha aiutato ad ottenere ciò che volevi: il totale controllo delle nostre posizioni. John, Hebe ed i traffici di droga erano solo delle pedine.-
 -Sapevo di poter contare sul tuo intuito, ragazzo.-
Un fragore rimbombò per tutta la stanza, ed una serranda di ferro sbucò dal soffitto; scese lentamente e coprì il vetro dietro il quale vi era Hebe, oscurando la stanza ancora di più.
 Harry si morse l'interno della guancia, e gli diede le spalle. Sentiva il sangue scorrere nelle vene, il battito del suo cuore pulsare nelle orecchie; tutto ciò che lo circondava venne reso più saturo e vivido dall'adrenalina: se non si fosse calmato l'avrebbe ucciso.
 Non ora, intimò a sé stesso, non adesso.
-Perché io, Drake?-
Lui si infilò le mani nelle tasche, e camminò cadenzante fino alla sedia di metallo al centro della stanza; mise una mano sullo schienale, e strinse le dita fino a farle divenire bianche.
 -Siediti, ti racconto una storia.-
 Dopo qualche secondo di tentennamento, Harry avanzò verso di lui, ed una volta sedutosi irrigidì la schiena.
 Più cose avesse saputo, tanto più sarebbe stato facile incastrarlo.
-Anni fa incontrai una donna.- iniziò Drake. -Meravigliosa. Occhi verdi e lunghi capelli neri.- Lo guardò con circospezione, lo guardò nero e vuoto che vagava lungo il suo corpo mentre gli girava attorno. -Era brillante e spensierata, e quando la conobbi me ne innamorai all'istante. La tipica donna che ti entra in testa e non riesci a dimenticare. Sai cosa intendo, vero, ragazzo mio?-
Harry strinse i pugni lungo i fianchi, tanto forte che le unghie penetrarono nella carne.
-Una notte ci incontrammo, la passione ci trascinò e non seppi resistere. Ero così felice.- Tacque per un istante, la bocca una linea dura che sprigionava severità. -Poi una mattina venne da me e mi disse d'essere incinta. Non seppi cosa risponderle, ne fui sconvolto: divenire padre non era nei miei piani. Lo stesso giorno, come se non fosse già insostenibile ciò che aveva affermato, mi rivelò anche di amare un altro uomo, d'avere già una figlia e che ciò che era successo era stato tutto un inconveniente.- Rise, e guardò Harry. -Un inconveniente.- ripeté. -Aspettavo un figlio da una donna che non mi amava e che riteneva il nostro breve rapporto un errore madornale. Non la volli più vedere, né lei né il bambino che avrebbe dato alla luce. Le dissi di far crescere suo figlio dall'uomo che diceva tanto di voler bene, e la minacciai fino a quando non si decise a sparire dalla mia vita. Quando morì non lo venni a sapere.- Chiuse gli occhi scuri, il nero che veniva rimpiazzato dal bianco delle palpebre. Aveva un'espressione che non gli ricordò la malinconia, la tristezza o il dolore: emanava pura e glaciale impassibilità. -Seppi della morte del padre adottivo e della sorella, ma non provai nulla. Non cercai neanche mio figlio. È stato lui, inconsapevolmente, a farsi trovare.-
 Non seppe perché, ma quando incontrò il suo sguardo sentì la rabbia abbandonare la sua mente ed il terrore invadere il suo cuore.
 Non lo dire, pensò, i pugni contro i fianchi che si serravano sempre più, non parlare ancora.
 Darke lo guardò, e con un sospiro gli andò davanti: -Ti ho riconosciuto subito.-
 -No.- sussurrò. -Smettila.-
 -Sei mio figlio, Harry. Il mio bambino.-
Lui si alzò di scatto, tanto veloce te che se la sedia non fosse stata fissata al pavimento sarebbe volata via. Prese a camminare per la stanza, senza sapere perché fosse tanto agitato; non sapeva se quella storia fosse veritiera, non credeva neanche che lui fosse capace di parlare con sincerità.
-Non è vero nulla.- sibilò, la voce tesa.
-Posso provartelo, se è questo che vuoi.- Tese un braccio. -Una goccia del tuo sangue e ti dimostrerò che siamo uniti da un legame indissolubile.-
Harry gli guardò la mano, rabbrividendo all'idea d'avere come padre un uomo in grado di distruggere qualsiasi cosa per il semplice gusto di farlo.
-Cosa vuoi che faccia?- domandò dunque, cercando di allontanare le immagini della sua infanzia che avevano iniziato a popolargli la mente. -Non dico di credere alle tue parole, ma se questo fosse vero, cosa centrerebbero Hebe e la sua famiglia?-
 -Mi credi così meschino d'avere un secondo fine oltre la felicità di ritrovare mio figlio?- sorrise lui, i denti bianchi che quasi luccicavano nel buio della stanza.
-Parla, Drake.- disse, furibondo. -Parla, o giuro sulla mia vita che non mi tratterrò dal diventare la persona violenta che ero un tempo.-
Drake schioccò le dita, e sorrise ampiamente: -Ecco!- esclamò. -È esattamente questo ciò che mi serve. Ho in mente un gran piano, Harold. Un piano in cui tu, la tua forza bruta e la tua bravura nel campo siete essenziali.-
Si avvicinò ancora più ad Harry, e l'acqua di colonia che indossava gli invase il setto nasale.
 -Dunque quale miglior modo di convincerti a tornare l'animale da guerra di un tempo se non tenere in fin di vita la ragazza che ami nella stanza adiacente?- chiese, sorridendo. -Le scelte sono due, figliolo: o accetti e la salvi, o vai via e lei muore.-
Harry lo guardò sprezzante, gli occhi ridotti a due fessure traboccanti odio: lo osservò, e vide i suoi occhi famelici ed il suo sorriso ghignante. Non era pazzo, pensò, ma cattivo.
-Se accetto di lavorare per te...- sussurrò dunque. -Come portò essere sicuro che non toccherai Hebe?-
 -La riporterai tu a casa, figlio mio.- rispose. -Ti lascerò assicurarti che sia indenne da qualsiasi pericolo e portai stare con lei per altre ventiquattro ore ancora. Poi tornerai da me. Non sono così insensibile da non lasciarti dirle addio.-
 -Così alimenterai solo il mio odio.- irruppe lui. -E un maggiore odio conferirà maggiore voglia vendicativa che sfogherò nei compiti che mi assegnerai.-
 -Degno figlio di tuo padre.- sorrise Drake. -Sapevo che non avrei potuto nasconderti nulla.-
 -Dove siamo?- chiese poi.
-Il posto non è rilevante. Tra meno di otto ore sarete nuovamente in Inghilterra; odio le navi, non ve ne farò prendere ancora una. Gli aerei sono molto più comodi.-
Harry gli si avvicinò, così tanto da sfioragli il naso con il proprio.
-Se tutto questo è una menzogna, giuro che ti troverò e non avrò pietà di te.- sussurrò.
 Drake sorrise un'ennesima volta: -Conserva la rabbia per i prossimi giorni.-
Sentì dei passi alle sue spalle, e mentre la pressione al collo della siringa che penetrava nella carne lo faceva irrigidire, stette immobile con lo sguardo puntato negli occhi di suo padre; l'ultima cosa che vide fu il suo sorriso sparire.

 Appena aprì gli occhi tutto ciò che il suo sguardo colse fu lo splendere della luna piena alta nel cielo: si trovò steso sull'erba, lo scricchiolio delle foglie secche che si ripeteva ad ogni suo movimento anche accennato; gli alberi lo avvolgevano tutt'intorno, circondandolo di rami spogli e lugubri tronchi rinsecchiti; l'aria fredda dei primi di gennaio gli colpiva il viso, costringendolo ad assottigliare gli occhi verdi per poter vedere nel buio della notte. Non sapeva quanto tempo fosse trascorso dall'incontro con Drake, tutto ciò che sapeva era che si trovava nel mezzo del bosco che circondava il dormitorio.
 Era nuovamente in Inghilterra.
 Si alzò in piedi, strofinandosi dai pantaloni il terriccio; nello stesso momento in cui si alzò in piedi, sentì un gemito soffocato alle sue spalle. Si fermò.
 Credette d'averlo immaginato, ma poi vi fu un altro sussurro; si voltò, e la vide.
 Era stesa sull'erba secca, i lunghi capelli ramati che le circondavano il corpo gracile, la pelle pallida che pareva emanare aloni cerei nell'aria.
-Hebe.- Le corse incontro barcollando e non appena le fu davanti si gettò al suolo; le prese il busto tra le braccia e le poggiò il volto sulla sua spalla.
 -Harry...-
-Va tutto bene.- sussurrò, più a sé stesso che a lei. Le carezzò la testa, le braccia, il viso. -Andrà tutto bene.-
Lei sorrise, gli occhi chiari che riflettevano la luce delle stelle.
-Va già tutto bene.- Poggiò una mano sul suo petto, all'altezza del suo cuore. -Tu sei con me.-
 -Hebe, mia piccola scheggia.-
 -Non piangere.- sussurrò lei, la voce che le tremava nonostante il suo sguardo fermo. Aveva le labbra violacee, il viso di un pallore tanto chiaro da far risultare quasi visibili le vene sottili sotto la pelle. Ma gli occhi erano i suoi, grandi, luminosi. -Non piangere, ti prego.-
Harry si corrucciò, e alzò una mano per toccarsi il volto; gocce salate gli solcavano il viso, lasciandogli striature bagnate fin sotto il mento: non piangeva da quando sua sorella era morta. La sua Katherine.
-Batte forte.- sussurrò fievolmente, un leggero sorriso a incresparle le labbra, mentre teneva il palmo premuto sulla sua maglia.
 Harry sorrise amaro a quelle parole, le prese la mano racchiudendola nella propria e la pressò ancora più sul suo torace.
 -Fai questo effetto.-
 La vide incupirsi e ritrarre la mano spasmodicamente prima di prendere quella del riccio per premerla sul suo petto.
-È lo stesso che mi fai tu, tutto il tempo.- disse, provando a sorridere.
 Vedeva lo sforzo che impiegava ad ogni respiro, ad ogni parola che pronunciava; vedeva la sofferenza che cercava di nascondere pur di non farlo spaventare, e l'orgoglio e la paura si pararono eque ai lati della sua mente.
 -Chiamo Tom, ti porto via da qui.- disse piano, non riuscendo a fermare il suo petto scosso dai tremiti.
 Tastò i pantaloni che indossava sperando di non essere stato privato del cellulare durante il tragitto, e quando lo trovò sospirò di sollievo.
-Pronto?- La voce assonnata di Tom risuonò nel silenzio del bosco, ed Harry fu grato all'amico d'aver risposto.
 -Tom, vai nel lato ovest del bosco. Prendi la mia auto e porta anche Megan.-
 -Harry?- domandò lui. Gli parve quasi di vederlo alzarsi dal letto corrucciato, i ciuffi di capelli biondi disordinati sparsi in tutte le direzioni e gli occhi stanchi. -Sei qui? Di cosa stai parlando?-
 -Tom.- insisté, stringendo il telefono tra le dita. -Si tratta di Hebe.-
Sentì Tomàs boccheggiare, poi disse: -Arrivo subito.- Ed attaccò.
 Guardò Hebe, e le carezzò la nuca.
-Tra poco sarà tutto finito.- disse. -Resisti per me.-
 -Ho sonno, sai?- sospirò lei tremando.
-Facciamo un patto.- disse allora lui, stringendola tra le braccia. -Se non ti addormenti prometto che aprirò la stanza che non ti ho mai permesso di vedere.- disse, sopprimendo la voglia di gridare dal dolore. -Prometto che ti farò entrare, e che risponderò a tutte le domande che vorrai pormi. Ti dirò di Kate, e ti racconterò della mia infanzia.-
La voce calma, ma gli occhi pieni di dolorosa paura e le lacrime a bagnargli le guance.
-Vedrò quello che posso fare, amore mio.- Hebe sorrise triste, asciugando con la punta violacea delle dita ogni nuova goccia che tentava di cadere.
 Harry fremette, e la guardò dietro il velo di lacrime che gli offuscava la vista.
-Non mi hai mai chiamato così.- sospirò, chiudendo gli occhi e abbandonandosi del tocco delicato delle sue piccole mani fredde.
-Ho sempre desiderato farlo.- tremò. -È un buon momento per iniziare?- sussurrò, e gli sembrò che anche respirare fosse divenuto per lei uno sforzo insostenibile.
 Harry annuì.
 -Credo di essermi innamorata di te, amore mio.- disse piano, prima di far ricadere le braccia ai lati del bacino.
 Tutto intorno a lui sembrò fermarsi all'istante, gelato dal dolore e dall'amore che librava nell'aria. Harry la guardò, e gli sembrò di vedere la piccola ragazza che era rimasta immobile dinanzi alla tomba vuota di suo padre e pensò che forse, senza rendersene conto, viveva per lei da quell'esatto momento.
-Dimmelo.- sussurrò allora.
-Dirti cosa?- chiese lei, inclinando la testa. Sorrise, e le sembrò così piccola e indifesa; non meritava tutto quel dolore.
-Dì che mi ami.-
Hebe mosse una mano verso il suo volto, e carezzò i ricci che gli cadevano dinanzi agli occhi. Alzò la schiena, ed Harry l'aiuto a raddrizzarsi fino a quando i loro volti furono perfettamente allineati, un incrocio di gambe e braccia a far loro da nido.
-Ti amo.- soffiò, poggiando la fronte sulla sua.
 Gli aveva detto che l'amava, e lui le credeva. Era la prima persona a cui credeva.
 La guardò e vide nei suoi occhi il disperato bisogno di sentirsi ricambiata. Impegnò tutte le sue forze prima di ritrovare la voce.
-Ti amo, Hebe.- sussurrò con voce rotta.
 E lei sorrise. Sorrise stanca prima di chiudere gli occhi e abbandonarsi ad un sonno profondo. Continuò a cullarla anche quando sentì il rombo del motore della sua auto alle spalle, ed i passi di Tom e Megan che si avvicinavano, non riuscendo a placare il calore che gli infondevano quelle parole.
 Tom gridò il suo nome, e i loro passi si fecero più pesanti man mano che gli andavano incontro.
 Le baciò la fronte, e la strinse al petto.
-Ti amo, così tanto che il cuore mi fa male.- strascicò contro i suoi capelli.
 E si sentì completo, mentre pronunciava quelle semplici parole capaci di riempirgli l'anima un tempo vuota.
 L'aveva detto; le aveva confessato che l'amava talmente tanto che il cuore gli bruciava.
 Ma lei non poteva sentirlo.



Angolo Autrice:
Eccomi!
Sono ancora qui, e dopo una settimana di attesa anche il capitolo si è fatto vivo! Perdonatemi ancora una volta, ma ho capito che postare un aggiornamento ad un giorno dal precedente non era proprio da me. Insomma... credo abbiate oramai capito quanto ami alla follia farvi attendere!
Adesso... tante cose si sono finalmente rivelate -in effetti credo di non aver mai detto tante rivelazioni in un unico capitolo- ma spero vi faccia solo piacere!
Una delle più importanti: Drake è il padre biologico di Harry. Molto drammatico, lo so, ma non potevo farne a meno!
La storia che gli racconta dice più o meno come sono andate le cose e lui -ovviamente- cade dalle nuvole e gli crede all'istante. Giusto, non trovate?
Secondo posto: Katherine. Chi non ha mai fatto un solo pensiero sulla nostra misteriosa Kate ed Harry in quel senso scagli la prima pietra. Chi avrebbe mai detto che la tanto nominata donna scomparsa - ora sappiamo morta, a dir la verità- fosse la sua amata sorellona? Tipico di queste autrici da quattro soldi drammatiche e petulanti.
Vabene, la smetto di parlare di me in terza persona.
Terza novità, ma prima per tutti. si son detti ti amo. Io ero tipo in defibrillazzione perchè sogno una scena romantica-terrificante di lei in fin di vita che si dichiara da quando ero un'acerba adolescente. Si, ho visto parecchi film finiti male.
Adesso, smetto di parlare e vi lascio ai commenti!
Vi voglio sempre un mondo di bene, fatevi sentire!
Un abbraccio,
Abby_xx

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** CAPITOLO XXIII ***


                                                                                                   CAPITOLO XXIII



Tomàs guidava ad una velocità che superava di gran lunga i limiti, il vento lasciato entrare dal finestrino che gli colpiva violento il viso. Lo chiuse premendo un bottone e rivolse lo sguardo allo specchietto: Harry, seduto vitreo sui sedili posteriori, teneva tra le braccia il corpo esanime di Hebe, la testa tra il suo collo e la sua clavicola. Intravide di sbieco il suo candido braccio abbandonato oltre il sedile, nel vuoto, il palmo rivolto verso all'insù; era così pallida che le vene azzurrine del suo avambraccio a scoperto sembrava le fossero state disegnate col l'inchiostro.
 Gli si contorse lo stomaco.
 Megan, al suo fianco, non riusciva a smettere di singhiozzare; e lui, per quanto cercasse di nasconderlo, sapeva di avere la loro stessa espressione spaventata.
 Voleva bene ad Hebe, più di quanto avrebbe mai ammesso, e quando era arrivato nel bosco e l'aveva vista, tutto ciò che aveva sempre desiderato non accadesse mai si era presentato dinanzi ai suoi occhi senza che potesse evitarlo: quella fragile ragazza in fin di vita, Megan -la sua dolce, sconsiderata e capricciosa Megan- gettata in ginocchio mentre si teneva le braccia contro il petto scosso dai singhiozzi, ed ancora una volta lo sguardo del suo migliore amico perduto nel nulla. Aveva visto tante e tante volte Harry tenere tra le braccia un corpo senza vita -ma mai, mai, aveva scorto quell'espressione sul suo viso, mai aveva osservato in qualcuno quella forza e al contempo la leggerezza con cui lui stringeva Hebe contro il suo petto. Era stato lì, nell'esatto istante in cui i loro occhi si erano incrociati, che aveva capito quanto ciò che sarebbe successo se non l'avessero salvata avrebbe potuto distruggerlo per sempre.
 Aveva visto nei suoi occhi la disperazione di perdere colei che lo stava riportando ad amare, che -lui lo sapeva, nonostante non l'avesse mai detto- aveva aperto in un lui una voragine di emozioni e sensazioni perdute che gli ricordavano giorno per giorno che non tutto era andato perso, che una speranza di poter assaporare la felicità non doveva essere a tutti i costi qualcosa per lui di irraggiungibile.
 Ed in quel momento, mentre teneva stretto forte tra le dita il manubrio e svoltava in una radura seguendo le flebili indicazioni di Harry, provò tanto dolore e rabbia che si chiese se non rischiasse di dare di matto.
-Dove stiamo andando?- sussurrò Megan, voltandosi verso di lui; aveva smesso di piangere.
 Tom guardò Harry dal vetro, e lui sembrò capirlo all'istante.
 -Dovete fidarvi di me.- disse, gelido.
-Non fare più domande, Megan.- sussurrò Tom, continuando a fissare il suo amico.
-Sta morendo, Tom.- sibilò lei, guardando esterrefatta e entrambi. Lui sussultò a quelle parole, rendendosi conto di quanto il dirlo ad alta voce lo rendesse più vero. -Se John fosse qui, vorreb...-
 -Ma lui non c'è.- la interruppe Tomàs, stringendo ancora di più il volante tra le mani. -Sarà lì quando arriveremo, non preoccuparti.-
Megan si mise una mano contro la bocca e riprese a singhiozzare: -Per favore, Harry.- sussurrò. -È la mia unica amica. Dimmi dove stiamo andando, ti prego.-
 Harry scostò una ciocca di capelli dal volto di Hebe, e la guardò. Tom riconobbe all'istante quello sguardo: era sofferenza.
 Alzò gli occhi, e li fissò dinanzi a sé: -Andiamo da Margaret.-

Tom sfrecciò sul terreno bagnato e fermò la macchina.
 -Scendete, avanti.- disse Harry, uscendo dall'auto con Hebe stretta al petto.
 Attraversarono uno dietro l'altro il sentiero di pietre scivolose che conduceva all'ingresso della casa di Margaret, camminando velocemente fino a quando non arrivarono al portone.
 Megan bussò con forza, le nocche che schioccavano sulla vernice rosso scarlatto; la casa era di piccole dimensioni, a Tom ricordava tanto quelle che solitamente vi erano nelle favole per bambini. Era ricoperta di rampicanti attorcigliati fra loro, ed i rami figuravano in una sorta di danza esotica dai colori che sfumavano dal marrone al verde e dal rosso al viola.
 Minute finestre simili ad oblò erano poste ai lati della porta, ma a Tom davano la netta impressione di non poter essere aperti. Non sapeva dove fossero, ma si fidava del suo migliore amico e sapeva che se li aveva condotti lì era perché non vi era posto migliore per salvare la vita di Hebe.
-Perché non aprono?- chiese Megan, passandosi una mano fra i capelli scuri.
 Tom la osservò, provando a non osservare Harry dietro di sé che cullava Hebe coperta di sangue. Gli sembrò così spaventata e titubante che faticò a non afferrarle le braccia e stringerla contro il suo petto.
-Abbiamo fatto un disastro.- biascicò poi, continuando a battere la mano contro la porta. -Dovevamo portarla all'ospedale, senza pensare alle conseguenze ed ai rischi.-
Si voltò, e quando vide Harry ed Hebe ebbe un ennesimo sussulto.
-Non posso sopportarlo, non ce la faccio.- disse, e tornò a colpire il legno rosso.
 -Megan, smettila.- disse Tom, prendendole le mani.
 Lei singhiozzo mentre dei passi risuonavano dall'interno della casa, e lo guardò stremata, il volto rigato di lacrime.
-Non è come le altre volte, Tom.- sussurrò. -Se lei muore, io...-
 -Non succederà.- Le prese il volto tra le mani, e sentì gli occhi di Harry bruciargli sulla schiena. -Voglio bene anche io a quella piccola straniera.-
La porta si aprì, e sulla soglia apparve l'ombra di una donna: Margaret.
 Indossava un'enorme tunica di raso viola lunga fino alle caviglie, adornate con quanti più ninnoli potesse indossarvi, un turbante blu cobalto e uno scialle giallo canarino lasciato cadere sulle spalle leggermente ricurve. Aveva l'aria assonnata e gli lo sguardo corrucciato.
 -Svegliare un'anziana signora che pratica chiaroveggenza e cartomanzia è poco saggio, ragazzini.- biascicò, facendo tintinnare i bracciali dorati quando poggiò la mano allo stipite. -Cosa volete?-
 -Deve farci entrare, la prego.- supplicò Megan, avanzando. Tom la prese per un polso.
 La vecchia socchiuse gli occhi: -Chi si nasconde dietro di voi, figlioli?-
 Tomàs guardò Meg, fece un cenno col capo e poi entrambi si pararono ai lati della porta, lasciando che Margaret potesse vedere Harry ed Hebe.
-Dio del Cielo.- sussurrò lei, portandosi una mano sul petto. -Non mi dire che lei è...-
Si fermò, e il suo sguardo divenne severo. Avanzò fuori la porta, e si fermò solo una volta arrivata dinanzi ad Hebe; le posò il dorso della mano sulla fronte, poi guardò Harry.
 -Ragazzo mio...- disse, scuotendo il capo. -Entrate.-
 Tutti si infilarono nella casa barcollando velocemente, poi Margaret serrò la porta.

Hebe percepiva il vociare indistinto attorno a sé come un rimbombo lontano che le arrivava ovattato all'udito; le sembrava di fluttuare tra il sonno e la veglia, piombando nel sogno e nuovamente nella realtà infinite volte.
 Uno strano calore troppo intenso per essere semplicemente proveniente dalla finestra si riversava su tutta la parte sinistra del suo corpo: una stufa, pensò.
 Cercò di muoversi, di aprire gli occhi. Ma il suo corpo era talmente debole che anche solo respirare le recava un dolore immane; le palpebre erano pesanti, ed i tentativi di aprirle le risultarono del tutto vani.
 Rassegnata, provò ad attenuare il volume dei sussurri intorno a lei concentrandosi sui pensieri che le vagavano liberi per la mente.
 Cercò di ricordare cosa fosse successo la notte precedente, ma un inquietante buio si fece spazio nella sua testa. Ricordava solo il volto di Tyler, e gli occhi di Harry che la osservavano strabuzzanti mentre lei cadeva al suolo.
 Stava per riaddormentarsi quando una voce roca e bassa parlò: Harry. Provò nuovamente a muoversi, la voglia di vederlo che superava l'indolenzimento.
 Strinse la mano e ne sentì un'altra avvinghiata alla sua.
-Si è mossa, Harry.- sussurrò qualcuno.
 Quella voce.
 Passi riecheggiarono al suo fianco, e sentì qualcuno pressarle le dita sul polso.
-Vi lascio sole.- disse lui, ed Hebe percepì il sorriso nelle sue parole.
 Non andare via, no.
 -La mia bambina, si sta svegliando.-
 Era un sussurro dolce, la voce profonda e forte; inspirò a lungo, e l'aroma di un profumo dal retrogusto amarognolo le invase i sensi.
 Mamma.
 Hebe aprì gli occhi impegnando tutte le sue forze in quel semplice, facile movimento e la prima cose che i suo occhi videro fu un groviglio di capelli rossi accasciato sul suo avambraccio.
 Mise a fuoco l'immagine, e sospiro di sollievo. A squadrarla dolcemente vi erano grandi e lucidi occhi verdi.
-Mamma.- sibilò piano, sentendo le lacrime bagnarle le guance e la gola bruciarle. Lei le sorrise, sorridendo appena come quando non voleva mostrale di star piangendo, e le carezzò una guancia col dorso della mano.
 -Ben svegliata, piccola mia.- disse, la voce rotta.
 Aprì le braccia ai lati del suo corpo, e sua madre si gettò sul suo busto stringendola forte. Chiuse gli occhi, e godé appieno di quel momento di ricongiungimento che aveva sognato per tante notti. Inspirò appieno il suo odore, e si beò della morbidezza dei suoi capelli lunghi e del suo golfino turchese.
-Che cosa ci fai tu qui?- domandò. -Dove siamo?-
 -Non parlare, bambina mia.- sussurrò Adrienne, passando la mano tra i suoi capelli. Le baciò la gola e si asciugò nuovamente la guancia dalle lacrime, poi si rimise dritta. -Risposa ancora un po', ti spiegherò tutto dopo.-
Guardò la stanza in cui si trovava, e si rese conto che non era nessuna di quelle del dormitorio: le pareti erano di legno scuro, macchiate d'umidità agli angoli. Calò lo sguardo, e notò il pavimento in legno cosparso di aghi, garze, barattoli d'unguenti e strisce scure di un liquido rossastro quasi totalmente secco. Sembrava succo di ciliegie. Hebe guardò scettica il pavimento, poi il letto su cui era distesa; alzò le coperte che ricoprivano il suo corpo, e si accorse d'indossare un vestito leggero che non era il suo. Vide le macchie rosse che sporcavano il materasso su cui era stesa, e rabbrividì.
 Era sangue. Il suo sangue.
 Trasalì spaventata, ed una fitta allo stomaco e un dolore incontrollabile alla gabbia toracica la fecero mugugnare. I polmoni le bruciavano, facendole provare fatica a respirare; era come se l'aria fosse stata intrisa di gas acidi che le stavano abbrustolendo lentamente la carne. Sentiva la gola che le bruciava, ed una volta guardati meglio i medicinali capì che era tutto dovuto a questi. Sentì le forze mancarle, e cadde con un tonfo sul materasso.
 Esattamente in quel momento, Harry aprì la porta ed entrò nella stanza.
 Hebe sentì una volta ancora il fiato mancarle; aveva i ricci sparsi confusamente sulla fronte, gli stessi vestiti del giorno prima e le labbra rosse e piene come quando lei l'aveva baciato. Non appena i loro occhi si incrociarono, Hebe capì che il suo cuore sarebbe esploso da un momento all'altro.
-Credevo fossi caduta.- sussurrò, continuando a guardarla. -Non volevo interrompervi.-
 -Non ci hai interrotte, Harry.- disse sua madre, carezzandole intanto la spalla. -Io vado nell'altra stanza.-
Fece per alzarsi, ma Harry avanzò con le mani a mezz'aria e la fermò.
 -Non ve n'è nessun bisogno, signora. Volevo solo essere d'aiuto.-
Si guardarono ancora per un istante, ed Hebe sentì l'imbarazzo colorarle di rosso le guance. Sentì la leggera risata di sua madre rimbombarle nelle orecchie, poi lei si alzò del tutto e sorrise ad entrambi.
 -Credo che invece vi sia bisogno che parliate un po'. Io posso godermi mia figlia in un altro momento.-
Harry cercò di dileguarsi nuovamente, ma sua madre lo prese per le spalle e lo fece sedere. Poi uscì e si richiuse la porta alle spalle.
 Per secondi, minuti il silenzio lo avvolse completamente; poi Harry le prese la mano e iniziò a disegnare cerchi concentrici sul suo dorso.
 -Credevo d'aver ti persa per sempre.- biascicò, guardando come il suo pollice lasciava disegni immaginare visibili solo al suo occhio.
 -Ti ho promesso che non me ne sarei mai andata.- disse lei, cacciando quelle parole da neanche sapeva dove. -Non l'avrei mai fatto.-
Lui alzò gli occhi, e le parve di vedere il suo sguardo perso dentro di sé.
-Cristo, Hebe.- imprecò, e le prese il volto tra le mani.
 Pressò le labbra sulle sue con forza, quasi avesse trattenuto quell'istinto per fin troppo tempo, e l'attesa l'avesse fatto impazzire.
-Ho così tante cose da dirti.- sussurrò contro le sue labbra.
 Hebe sorrise e strinse i suoi ricci in un pugno, poi lo baciò ancora.
 -Non ricordo niente.- Scosse la testa. -Dovrai dirmi davvero tante cose.-
 Harry si scostò di poco, quel tanto che bastava per poterla osservare accigliato.
 -Qual'è l'ultima cosa di cui hai memoria?- chiese, rigido.
 Hebe lo guardò confusa e gli carezzò distrattamente la nuca.
 -Non importa.- disse, stringendosi nelle spalle.
-No, Hebe.- scattò lui, drizzandosi in piedi. -Cosa ricordi?-
Hebe lo guardò meglio, e notò la sua espressione corrucciata e la bocca stretta in una linea dura.
 -La sala d'addestramento, e Tyler.- sibilò dunque, provando a mettersi in piedi per raggiungerlo. -Perché è così importante?-
Scostò le coperte pesanti avvolte attorno le sue anche, e fece scivolare i piedi fuori dal letto.
 Il loro colorito era più pallido del solito, e macchie livide che sembravano piccole melanzane le ricoprivano le caviglie e la punta delle dita. Si pressò le nocche sulla tempia, sentendola pulsare fastidiosamente.
 Harry le prese delicatamente una spalla, le avvolse un braccia attorno al busto e scosse la testa.
-Non muoverti, scheggia. Sei ancora molto debole.- sospirò.
 -Cos'è che non vuoi dirmi?- domandò lei, scendendo dal letto nonostante i tentativi di Harry di tenerla ferma.
 -Parleremo dopo, promesso.-
 Le carezzò un braccio e le sorrise. Hebe lo osservò corrugando le sopracciglia e capì che, per quanto non volesse mostrarglielo, qualcosa lo turbava.
 Sentì una fitta allo sterno, e quando pressò la mano sulla parte dolorante coperta dalla veste leggera sentì sotto le sue dita la superficie ruvida della garza.
 Mandò giù il groppo in gola e soffocò il dolore mordendosi a sangue il labbro. Guardò ancora Harry, e annuì poco convinta.
-Se non ricordi nulla è probabile che tu abbia avuto un trauma.- disse piano, poi guardò la porta. -Margaret non mi ha voluto mettere a conoscenza di nulla.-
Hebe socchiuse gli occhi chiari: -Margaret?-
 -La donna che ti ha medicato.- chiarì lui. -È una vecchia amica.-
Hebe annuì ancora, e strinse il suo braccio involontariamente quando il dolore ritornò.
 -Riesci a camminare, scheggia?- chiese, guardandola con la stessa espressione torva e sconsolata che aveva catturato il suo viso poco prima. -Gli altri vorrebbero vederti.-
 -Gli altri?-
 -Meg, Tom e tuo padre.-
-Vado a parlargli.- disse lei. Prese a camminare e cercò di non mostrare il dolore che la stava stringendo in una morsa soffocante. L'ultima cosa che desiderava era essere un peso; voleva tornare al dormitorio il prima possibile.
 Harry sorrise, e lei si chiese ancora una volta perché le sembrasse che qualcosa non quadrasse.
 Non vi prestò più attenzione e si insinuò nel corridoio dietro la porta.

 

Angolo autrice:
 Bentrovati, miei fidati amici!
 Sono tornata con il nuovo capitolo, come tutti i lunedì! In realtà sono solo un paio di settimane che mantengo questa promessa, ma fingiate che sia sempre stata puntuale e che non vi sia nulla di strano... Tornando alla storia, abbiamo ben capito che Hebe non ricordi assolutamente nulla di ciò che sia successo la notte prima -il che include il famoso ti amo che lei ed Harry si sono appassionatamente scambiati mentre lei moriva dissanguata- il che ha turbato molto Harry, in quanto aprirsi, si sa, per lui non è stata una passeggiata.
Ma, adesso, devo proprio andare!
Vi voglio tanto tanto bene, a presto!
Un abbraccio,
Abby_xx

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** CAPITOLO XXIV ***


                                                                                            CAPITOLO XXIV                                                     

 

Hebe percorse in punta di piedi il corridoio -verniciato con un intenso color scarlatto e ricco di ciotole e inquietanti oggetti di legno -, e si diresse verso la sua fine, seguendo il profumo di tè verde e salvia e lo scricchiolare del caminetto e cercando con le poche forze che aveva di non piombare a terra per il fastidioso pulsare alle tempie. Si ritrovò in una stanza poco illuminata, nonostante fosse giorno, stravagante e variopinta; non con colori vivaci, notò, ma con svariate tonalità di colori che ricordavano i film dell'orrore. Il nero, il rosso, pochi spruzzi dorati e un intenso viola dominavano quello che doveva essere il soggiorno. Anche il fuoco tremolante all'interno del camino era privo della solita lucentezza brillante delle fiamme. Poggiò entrambe le mani allo stipite della porta, sia per restare nella penombra dello stipite della porta sia per tenersi in piedi.
 Trasalì quando sentì due mani poggiarsi sulla sommità dei suoi fianchi, avvolgendoli interamente, ma non si mosse ulteriormente.
 Sapeva fosse Harry.
 Riusciva a sentire il suo respiro e il suo profumo struggente invaderle il setto nasale. Chiuse gli occhi e inspirò a fondo dilatando di poco le narici per assorbirne tutta la fragranza. Harry le baciò delicatamente il collo e le carezzò un fianco per infonderle sicurezza.
 Guardò meglio la stanza, assottigliando gli occhi per poter distinguere le movenze di ciascuna persona all'interno di essa. Scorse il padre, seduto su un divano al centro della stanza, con la testa tra le mani e il petto scosso da fremiti e gli parve molto più vecchio di quanto non fosse. Megan, alla sua destra, era seduta su di una poltrona accanto al camino e le dava la schiena; non seppe come, ma dalla curvatura innaturale delle sue spalle capì che quanto fosse un pena per lei.
 Vide poi Tom giocare con la catenina in acciaio che portava al collo, l'espressione angosciata e il collo rigido, poggiato al muro coperto di stemmi sconosciuti. Difronte a lei, riconobbe i folti capelli lunghi e rossi di Adrienne, che le dava le spalle per concentrarsi sul temporale che incombeva al di fuori della casa. Accanto a lei vi era una donna, più grande di entrambi i suoi genitori, che si stringeva nel pesante scialle che le copriva le spalle.
-È Margaret.- le sussurrò Harry ad un orecchio. -È stata lei a medicarti e lavarti via il sangue.-
Hebe sorse scorgere il dolore nella sua voce roca. Gli strinse una mano che tentava stretta sul suo bacino e sospirò.
-Abbiamo appurato tutti che se l'avesse fatto tua madre sarebbe svenuta.- continuò, sorridendole contro la tempia.
 Hebe sorrise amaramente capendo quanto tutti loro stessero cercando di sminuire quanto fosse successo, quanto Harry stesse provando a nascondere la preoccupazione provando a farla ridere. Ed intanto, -non sapeva se consciamente o meno- aveva poggiato la mano sulla parte del fianco coperta dalla garza.
 Le sembrarono tutti più morenti di lei stessa. Il loro dolore era palpabile, riusciva quasi a sentirlo penetrarle le ossa e invaderle la mente.
 Si agitò al solo pensiero che tutto quello sconforto fosse dovuto a ciò che le era successo. Anche se lei non ricordava.
-Vai.- le sussurrò poi Harry, riportandola alla realtà.
 La spinse leggermente in avanti, lasciandola solo quando con delicate falcate entrò nella piccola sala e la luce fioca del mattino la investì completamente.
 Tutti si le puntarono gli occhi addosso nello stesso momento, facendola arrossire.
-Finalmente.- biascicò John, alzandosi ed andandole incontro. La strinse leggermente e le baciò la testa. Vide sua madre sorridere di sbieco quando lui le premette il viso contro i capelli, e per un istante credette di poter tornare alla normalità.
-Sto bene, papà.- sussurrò poi, colpendolo sul braccio per rassicuralo.
 John la strinse un ultima volta e lasciò passare Megan.
-Mi hai fatta preoccupare così tanto.- strascicò lei, portandosi una mano al petto.
 Le gettò le braccia al collo e la strinse a sé, imprecando quando Hebe sussultò per il dolore alle articolazioni.
-Per un secondo ho pensato che non sarei più potuta andare alla festa di Ethan.- disse, mettendole le mani sulle spalle e facendola sorridere. -Ho un vestito fantastico, sarebbe un errore madornale non mostrarlo al mondo.-
Hebe rise, e continuò a farlo quando Tom la prese per un braccio e la scostò di peso.
-Già, perché tutti vorrebbero vedere una strega in abito da sera.- blaterò, alzando gli occhi al cielo.
 Poi aprì le braccia e la strinse contro il suo fianco.
-Non dirlo a nessuno.- le sussurrò contro un orecchio. -Ma anche io mi sono preoccupato tanto, straniera.- Hebe annuì e gli posò un bacio sulla guancia. Non sapeva quando, ma aveva iniziato davvero a voler tanto bene a quel ragazzo.
 Barcollò quando lui la lasciò, sentendo un dolore acuto invaderle il fianco. Sorrise forzatamente per impedire che se ne accorgessero, e le parve che nessuno l'avesse notato. Ma Harry non era nessuno, e la osservò accigliato prima di avvicinarsi. Le premette una mano sulla schiena e la guardò truce.
 -Credo sia ora che tu torni a riposare.- disse.
 Lei gli posò una mano sul petto, all'altezza del cuore, e percepì la sua postura ammorbidirsi a quel tocco.
-Sto bene.- replicò sorridendo.
 Uno sbuffo le fece alzare gli occhi.
-Non dire sciocchezze, signorina.- strascicò Margaret, andandole incontro.
 Per tutto quel tempo non si era affatto scomposta ma, anzi, era rimasta immobile ad osservare la pioggia smettere di battere sui piccoli vetri tondi nella stessa rigida posizione in cui Hebe l'aveva vista prima d'entrare.
-Hai bisogno di risposo.- continuò, assumendo un tono severo. -Di riposo ed anche di ulteriori cure.- disse, mentre dalla sua voce spariva quel velo di pungente ostilità.
-La ringrazio, per tutto ciò che ha fatto.- disse piano, osservandola.
 La guardò mente camminava oscillando verso di lei con un sorriso curioso stampato in volto.
 -Non si ricorda di me, vero Adrienne?- chiese, facendo trasalire sua madre.
 Hebe intrecciò i suoi occhi a quelli delle madre, e lei scosse la testa ricomponendosi; le sembrava si fosse persa nel guardarla.
-Non ti vede da quando è bambina, Margaret. Non può ricordarsi.-
Margaret squadrò la ragazza da capo a piedi, ispezionando con meticolosità il suo volto e le sue mani.
-La spalla ti duole.- constatò, dopo qualche secondo. -Torna a dormire.-
 -Io...- sussurrò Hebe. -Io sto bene.-
 -Bambina mia, fa come dice.- intervenne sua madre, nello stesso istante in cui Harry le strinse la mano per incitarla a seguire il consiglio della donna.
 Adrienne le andò vicino, seguita dallo sguardo soprappensiero di Margaret, e le prese il volto tra le mani.
 Riusciva quasi a specchiarsi nei suoi occhi grandi, non più duri e vuoti come mesi prima. Credeva fermamente che l'amore per il padre stesse aumentando la piccola fiamma che non era mai cessata d'esistere nel cuore di sua mamma.
 -Vai a letto.- disse, ferma.
 -Mamma...-
 La voce di Adrienne si incrinò: -Non voglio rischiare di vederti in fin di vita ancora.-
Hebe voltò il viso verso Megan, Tom e suo padre, i quali la guardavano titubanti, quasi all'allerta che potesse piombare al suolo da un istante all'altro.
 Guardò Harry, al suo fianco, che non cessava di tenerle il braccio attorno busto. Poi Margaret, che continuava a squadrarla pensosa.
 Sembravano tutti a conoscenza di qualcosa che lei ignorava.
 -D'accordo.- disse dunque.
 Posò un bacio sulla fronte della madre e si diresse nuovamente verso il corridoio, immersa nei pensieri della notte precedente.
Camminò lentamente, siorando con le dita della mano destra la parete al suo fianco.
 Cosa era successo? Perché non ricordava?
 Una mano le agguantò il polso nell'esatto momento in cui afferrò il pomello della porta della stanza in cui aveva riposato, facendola trasalire.
 Harry.
 La voltò lentamente, rigido.
-Non volevo spaventarti.- strascicò, lasciandole la mano.
 -Non ti ho sentito arrivare.- rispose lei, cercando i suoi occhi.
 Lui continuava ad evitare il suo sguardo.
 Cosa sta accadendo?
-Vorrei farti vedere un posto.- disse improvvisamente, sputando fuori l'aria come se l'avesse trattenuta tutti qual tempo. -Ma solo se avrò la certezza che tu stia bene, un volta sveglia.- si affrettò ad aggiungere, quasi terrorizzato all'idea di illuderla. Sorrise.
Hebe lo guardò confusa: -Quale posto?-
Lui scosse la testa e alzò un angolo delle labbra carnose.
 -Non vuoi dirmelo?-
 Harry le carezzò con un dito la gola.
-Una volta sveglia ti porterò lì, e parleremo di tutto ciò che vorrai.-
Hebe annaspò confusa, ma quando provò a chiedergli cosa volesse dire era già troppo tardi. Era andato via, così velocemente e silenziosamente come era arrivato.

 Angolo autrice:
 Miei adorati lettori e lettrici!
 Ecco qui il nuovo capitolo -con ben tre giorni di ritardo, lo so- che anche se breve e conciso era necessario per lo sviluppo della storia.
 Prometto però, a mia difesa, che quello che verrà sarà sicuramente migliore di questo e spero vi sorprenderà parecchio.
 Spero vi stiate godendo questi ultimi giorni d'estate!
 Un bacio e buona serata,
 Abby_xx

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** CAPITOLO XXV ***


                                               
                                                CAPITOLO XXIV
 

 

L'Angelo sorrise, crudele e amabile al tempo stesso, e le tese una mano. Era coperta da minuscole cicatrici bianche, le nocche livide.
 Si sporse per afferrarla; e cadde nel vuoto.
 Aprì la bocca per gridare, ma tutto ciò che fuoriuscì dalle sue labbra fu un respiro soffocato. Pensò come dovesse essere, morire. Ma non aveva paura. Non ora che l'aveva visto. Poi lui la prese; con quelle stesse mani coperte di cicatrici. Stringendole il polso con forza e tirandola verso di sé nell'esatto momento in cui le mani livide sotto i suoi piedi nudi stavano per ghermirla.
 Alzò lo sguardo, e l'Angelo dagli occhi verdi avvolse entrambi nelle sue ali e le sorrise: -Harry.

 

Hebe sentiva l'umidità dell'erba ancora fresca penetrarle nel tessuto delle scarpe, e si beava silenziosamente della frescura che le provocava; Harry aveva posato le mani sui suoi occhi, impedendole di vedere la strada che stavano percorrendo, e le sussurrava meticoloso come doveva muoversi per non finire in pozzanghere o cumuli di terriccio bagnato. 
Una volta svegliatasi, nel primo pomeriggio, era trasalita come ogni qual volta quel sogno le si riproponeva; ma, a differenza dei risvegli precedenti, quel pomeriggio ricordava. Ricordava ogni attimo, ogni particolare ed il suo viso. 
Harry era l'angelo che la salvava; colui che l'aveva guardata precipitare nell'oblio e poi aveva teso la mano per afferrarla e riportarla alla luce. 
Quando aveva aperto gli occhi -la mano sul petto scosso dai fremiti ed il respiro sconnesso- lui l'aveva presa tra le braccia e l'aveva cullata fino a quando non si era calmata. 
-Sei tu.- aveva sussurrato. -Tu.-
Harry l'aveva guardata confuso, poi aveva posato le labbra sulla sua fronte ed aveva continuato a tenerla contro il suo petto, senza pronunciare parola. 
Quando aveva deciso di scendere dal letto lui aveva protestato; era convinto che il suo risveglio travagliato avrebbe potuto recarle maggiore dolore fisico di quello che già provava. 
Margaret, sorprendentemente, era intervenuta dicendo ad entrambi che l'aria fresca avrebbe aiutato la sua guarigione. 
Ora, dunque, si trovava a camminare lentamente nell'erba -lo scricchiolare dei rami secchi e delle foglie che di tanto in tanto risuonava- ed Harry, rigido e serio come non era da tanto, l'aiutava a non inciampare sui suoi stessi piedi.
Quella mattina aveva notato quanto strano fosse; le sembrava cupo e ansioso per qualcosa che lei non riusciva a capire.
Prima che si addormentasse, quella mattina, le aveva chiesto se ricordava qualcosa di quello che era successo la notte precedente, e lei aveva negato confusa.
Le era parso deluso, arrabbiato e rancoroso: non riusciva a spiegarsi perché. Cosa si erano mai potuti dire di tanto importante?
-Va bene, puoi aprirli.- le sussurrò ad un orecchio.
Tolse i palmi dal suo campo visivo e le poggiò sui suoi fianchi, distogliendola dai troppi pensieri.
Hebe respirò profondamente prima di aprire i grandi occhi cristallini, poi ammirò l'immagine che le si proponeva davanti.
Per un secondo ebbe la sensazione di essere stata catapultata in un universo estraneo alla loro realtà: era tutto così magnifico.
Un bosco di abeti si estendeva a perdita d'occhio attorno ai loro, circondando un'enorme distesa di erba verde che abbracciava al suo centro un enorme lago. 
Sembrava un sogno. Non riusciva a smettere di guardare tutta questa natura, quei fiori ancora chiusi, l'acqua trasparente che pareva brillare toccata dal leggere fascio di luce opaca che si era stagliato su di loro, penetrando i fitti alberi; non riusciva a liberarsi dall'espressione stupita che aveva preso possesso del suo viso.
-Ti piace?- le chiese dopo un po', quasi ansioso, vedendola taciturna.
Lei annuì leggermente, non riuscendo a compiere ulteriori movimenti.
-Credo sia la cosa più bella che possa esserci al mondo.-  sospirò, e gli prese una mano.
Harry la strinse una volta sola: -Dopo te.- lo sentì strascicare lei.
Alzò gli occhi e si voltò turbata, angosciata dal suo tono spaventosamente serio. Sembrava quasi gli avesse provocato dolore, quell'affermazione. Se ne stava corrucciato, a guardare il lago con espressione atona, e stringeva spasmodicamente sempre più forte la mano di Hebe.
Lo guardò e cercò di leggere nel suo volto e nei suoi occhi cosa fosse potuto succedere per farlo divenire così inquieto; ma non ricordava. Improvvisamente lui drizzò il collo e deglutì, ritornando freddo e distaccato come era solito fare quando capiva che le emozioni stavano prendendo il sopravvento.
-Andiamo.- disse, accompagnandola sotto un alber.
-Cosa c'è?- domandò lei, puntando i piedi a terra e facendolo fermare.
-Nulla che debba recarti preoccupazioni, scheggia.- sorrise lui, carezzandole rigido una guancia.
Lei sfilò la mano dalla sua presa, e si allontano di poco. 
-Non sono più una bambina.- dichiarò. -So quando qualcuno mente.- 
La faceva sentire ingannata, quel suo teatrale comportamento per convincerla che andava tutto bene; poiché per quanto lui si sforzasse, lei aveva imparato a capire quando qualcosa lo turbava.
-Non ti sto mentendo, Hebe.- ribatté, prendendole un polso e portandola di peso sotto l'albero.
Hebe strascicò i piedi al suolo, ed una volta sedutasi sotto la chioma dell'albero strinse le gambe al petto.
-Sei un pessimo bugiardo.- sussurrò.
Un leggero vento fresco aveva iniziato a muovere i rami sopra di lei, e piano piano percepì il freddo insinuarsi tra le sue scapole; strinse i denti. I dolori al fianco, per quanto potesse cercare di ignorarli, la tormentavano imperterriti.
-Cosa è accaduto ieri notte, Harry?- domandò, guardando i suoi occhi cupi.
Lui alzò gli occhi in un attimo, e le sembrò quasi che l'avesse guardata sorpreso prima di tornare a tirare i fili d'erba. 
Si prese poi la testa fra le mani, e mosse i ricci frettolosamente; si tolse la giacca dalle spalle per posarla su quelle di Hebe, poi le sorrise.
-Ti ho promesso che ti avrei raccontato tutto, quando sarei stato pronto.- cominciò, ignorando la sua domanda. -E ora lo sono.-
Hebe sgrano gli occhi ed inghiottì la saliva; la gola secca.
Era entusiasta di poter venire a conoscenza della storia di Harry -aveva insistito così tanto per poter capire come cosa lo tormentasse- ed ora avrebbe potuto aiutarlo ad affrontare i demoni del suo passato; ma allo stesso tempo la paura di quelle che sarebbero potute essere le risposte, l'aveva racchiusa così forte tra le sue pungenti braccia, da lasciarla paralizzata.
Harry sorrise, senza allegria, vedendola tanto agitata.
-Se vuoi possiamo parlarne un'altra volta.- Scrollò le spalle e tracciò con un dito affusolato linee e vortici immaginari lungo il dorso della sua mano.
Silenzio.
Solo lo scrosciare delle foglie degli alberi, e i loro respiri.
-Perché odi tutti?- chiese lei, d'improvviso.
Lui la guardò corrugando le sopracciglia, e prese un respiro.
-Non le persone, Hebe, ma la cattiveria che può esserci in loro.- rispose. -Odio il fatto che avrei troppi motivi per odiare.-
-E quali sarebbero?- domandò, avvicinandosi.
-La morte di Katherine, ad esempio.- 
Silenzio.
Il fatidico momento -quello che aveva sempre aspettato, sperato che giungesse, curiosa e spaventata da quello che avrebbero potuto comportare le verità su di lei, era arrivato. Così velocemente e senza preavviso da lasciarla per un attimo scombussolata.
-Chi era Kate, Harry?- chiese poi Hebe, dopo secondi -minuti, forse- di silenzio.
Lui fremette nel sentire quel nome uscire così fievolmente dalle sue labbra. Era di una delicatezza disarmante, pietrificante.
-Mia sorella.- La guardò. -Kate era mia sorella.- 
Hebe tremò nel vedere i suoi occhi . Racchiudevano più dolore di quello che un ragazzo della sua età avrebbe potuto e dovuto sopportare; non credeva neanche possibile poter riuscire a contenerne tanto.
L'unica persona che ricordava della sua famiglia era Mike, suo padre. Quella notizia la sconvolse.
-Com'è morta?-
-Questo tipo di vita l'ha uccisa.- disse lui, voltandosi verso il lago.
Lo fissò per qualche istante, poi calò il volto.
Hebe chiuse gli occhi, ed inspirò.
-E la tua mamma?- chiese lei, la voce dolce.
-Era Kate la mia mamma.- La sua voce tremò.
Hebe espirò, cacciando fuori tutta l'aria che aveva trattenuto, e strinse l'erba in un piccolo pugno per frenarsi dall'urlare.
Mai avrebbe pensato di poterlo vedere così affranto. Mai così arrabbiato -con sé stesso. E lei non capiva il perché.
-Non so com'è morta. Mia madre, intendo.- continuò, e si massaggiò le tempie. -Non me la ricordo neanche.-
Sorrise amaro, e scosse ancora freneticamente i capelli con la mano.
Hebe lo guardò seria. Strisciò sulla terra -le gambe pallide che si puntellavano delle gocce di umidità che coprivano le foglie sotto di lei- e si inginocchiò dinanzi a lui; gli prese il volto tra le piccole mani ed inchiodo gli occhi nei suoi.
-Non è colpa tua.- disse.
Lui strinse le labbra e spostò delicatamente le sue dita, scuotendo la testa.
Hebe ritornò con le mani sul suo viso, e lo costrinse a mantenere lo sguardo nel suo.
-Non è colpa tua.- ripeté.
-Smettila.- sibilò lui, serrando le palpebre.
-Non è colpa tua.- Scandì lentamente le parole, lasciando che lui si accasciasse contro la sua fronte. 
-Basta, Hebe.- ringhiò lui, levandole con un gesto del braccio entrambe le mani dalle sue guance.
Si alzò in piedi con una mossa sola ed iniziò a dirigersi verso l'acqua cristallina.
-Non è colpa tua.- ribatté. -Non potevi fare niente.- 
-Avrei potuto salvare tutti, invece non ho fatto nulla, capisci? Ho avuto paura, e li ho lasciate morire.- gridò, voltandosi verso di lei. -Sono morti perché ero troppo stupido per capire come agire.- 
-Harry...- 
-Io le ho uccise.- disse d'improvviso -la voce straziata e gorgogliante- e si lasciò cadere a terra. -Ho ucciso la mia famiglia.- 
Hebe si avanzò con cautela e si sedette davanti a lui.
-Eri solo un bambino.- 
Poi li sentì. Sentì i tremiti che gli scossero la schiena, i singhiozzi che premevano contro il suo petto. 
Si spose avanti e sussultò. Le lacrime solcavano le sue guance, gli occhi erano stretti per impedire che scivolassero giù e una mano gli copriva la bocca arrossata per non permetterle di sentire il suo pianto.
Lo guardò, e cercò di non gridare. 
Lui piangeva, talmente tanto che lei percepiva quasi il dolore che lo affliggeva, il bruciore alla gola che lo attanagliava.
-Non è colpa tua.- 
Harry alzò lo sguardo -gli occhi arrossati e le pupille dilatate- poi si gettò sul petto di lei, nascondendo il volto nel leggero incavo dei suoi seni; senza malizia, o doppi fini. Voleva sentirsi protetto, al sicuro -lei lo sapeva.
Quando Hebe avvolse le braccia attorno alle sue spalle lui pianse più forte.
-Non mi hai chiesto della stanza.- disse, dopo minuti di silenzio, biascicando le parole contro la sua pelle.
-Me la farai vedere?- chiese lei è lo strinse a sé.
Lui annuì e chiuse gli occhi.
-Allora non ho bisogno di sentire più nulla, adesso.- disse Hebe, respirando profondamente per non piangere.
 
Harry la guardò e si chiese cosa mai avesse fatto per avere proprio lei.
Stava per dirle che l'amava, mai poi il respiro sembrò mancargli e un nodo alla gola lo fermò, così si disse che l'avrebbe fatto un'altra volta.
-Tu non andartene.- riuscì solo a dire, la voce bassa e roca.
-Io non me ne vado.- Gli baciò la fronte e scosse la testa.
E lui già si sentì un po' meglio. 
 
E lei fu consapevole di amarlo più di quanto amasse il mare, o Church, o i disegni, la musica, i libri, la cioccolata o le mattine invernali.
Si rese conto di amarlo talmente tanto da non riuscire a dirglielo, e questo la faceva arrabbiare.
-Non andartene mai, Hebe. Per favore non farlo mai.- biascicò, premuto sul suo petto.
Lei mugolò e si stese sull'erba, i capelli che quasi toccavano l'acqua, e lo fece stendere accanto a se 
E capì che in quel momento tutto ciò di cui lui aveva bisogno era stare disteso su quell'erba, con lei e le sue lacrime.
 
Ora Hebe capiva tutto. Capiva la rabbia, il dolore, l'aggressività e l'orgoglio che si portava sempre dietro. Capiva che la sua ironia, la sua sfacciataggine perenne erano una maschera per impedire al mondo di fargli ancora del male.
Riusciva a comprendere le ore passate in palestra, la sera, e le nocche screpolate per i troppi pugni.
Voleva chiedergli tante altre cose, ma si trattenne, e morse l'interno della guancia per non parlare. Avrebbe solo rovinato la quiete che in quel momento li avvolgeva; così preferì stare in silenzio a lasciarsi cullare dal rumore del vento.
 
-Hebe?- sussurrò Harry, carezzandole un fianco.
Lei lo guardò e gli spostò alcuni ricci dalla fronte.
Trattenne il fiato mentre compiva quel gesto, e prese fiato prima di parlare.
-C'è un'altra cosa che devo dirti.- esordì con voce ferma, alzando il busto quanto bastasse per poterla guardare. 
Hebe si puntellò sui gomiti ed alzò il volto fino ad allinearlo con il suo; immerse lo sguardo nei suoi occhi verdi, e li vide angosciati.
-Cosa?- 
-Mio padre...- strascicò; spostò lo sguardo altrove, poi riprese. -Mike non era mio padre.- 
Hebe socchiuse gli occhi confusa, e gli toccò un braccio. 
-Cosa significa?-
Harry cacciò fuori l'aria che aveva trattenuto, e strinse le labbra: -Mio padre biologico non è chi credevo fosse, Hebe.- 
La ragazza si sedette, e si guardò le nocche screpolate; con costanza le ferite si stavano rimarginando, ma -non sapeva come- sentiva che le risposte a quella rivelazione le avrebbero di nuovo provocato la loro apertura.
-Quando l'hai saputo?- chiese, la voce fievole.
-Stanotte.- 
Le mancò il fiato; lentamente, ogni cosa si collegava automaticamente. 
-Sai chi è, adesso?- 
Harry annuì.
-L'hai conosciuto?- domandò.
Lui annuì ancora. 
-Hai capito tutto, non è vero?- disse lui, sorridendo amaro. 
Hebe ricordò allora al viso di Mike -un'immagine sfocata nella sua memoria- e a quanto fosse diverso da quello del ragazzo che aveva davanti; pensò alla notte precedente, e alle poche persone che avevano visto. Infine, mentre l'impossibilità e l'incredulità si facevano spazio nella sua mente, ricordò anche i fascicoli nascosti nella stanza di suo padre ed alle lettere cancellate del profilo di nascita di Harry.
H Y S.
Hayers.
-Drake.- sibilò, stringendo l'erba sottile fra le dita pallide. Un corvo volò tra i rami degli alberi, ed il suo verso si espanse nella radura. -È impossibile.- 
-Sembrerebbe di no, invece.- disse lui, piatto. -Ha avuto una relazione con mia madre, ed è finita così.- Indicò se stesso e sorrise. -Non siete mai stati un loro bersaglio, tu e tuo padre. Cercava solo di arrivare a me, alla mia tattica e alla mia forza in questo campo.- 
-Perché?- disse lei, guardandolo spossata. -Perché adesso?-
Lui la fissò immobile, ma i suoi occhi la guardarono addolciti: -Ha aspettato che avessi qualcosa per cui sarei stato disposto a fare di tutto.- 
Hebe socchiuse gli occhi cristallini, e si strinse nelle spalle per il leggero vento. Non riusciva a credere a ciò che le aveva appena confessato, non riusciva a farlo.
-Te, Hebe.- disse, vitreo. -Ha aspettato per te.- 
-Ma come sapeva che saresti diventato...-
-Lo sentiva e basta.- la interruppe lui. -Ha solo atteso qualcosa per cui ricattarmi.- sussurrò. -E tu sei tutto ciò che vale di più per me.- 
Hebe aprì le labbra rosse per pronunciare parola; la richiuse. 
Non sapeva cosa dire, come comportarsi, come agire. Sapeva solo di sentirsi arrabbiata. Arrabbiata non per aver speso mesi a nascondersi da tutto e tutti inutilmente, a provare paura al pensiero di dover essere trovata; ma arrabbiata per aver saputo quale uomo mostruoso era il padre del ragazzo che credeva d'amare. 
-Non può essere la verità, Harry.- disse, scuotendo la testa. Lo prese per le spalle e lo osservò attentamente. -Non sai se è la verità. Potrebbe essere solo qualcosa per...- 
-Hebe.- disse, fermandola. -Tra poche ore andrò da lui.- 
Tutto attorno a loro sembrò cessare assieme al suo respiro. 
Le sorrise, e lei rabbrividì.
-Non lo farai.- biascicò, sorridendogli forzatamente, e gli posò il palmo della mano su di una guancia.
Harry corrugò la fronte, e scosse la testa.
-Non era una domanda.- disse. -Non mi farai cambiar idea.- 
-Tu non puoi andare da lui.- ribadì, con voce rotta. -Perché farlo?-
-Per te, Hebe. Per far sì che tutto questo finisca.- 
-Non te lo permetterò.-
Harry si alzò, ed Hebe lo seguì di rimando.
-Ho già preso la mia decisione.- dichiarò, e le prese una mano.
I suoi occhi erano di nuovo vuoti, persi nei pensieri, ed un altro brivido le percorse la base della spina dorsale.
-Ed io ho preso la mia.- sussurrò, esasperata. -Non ti lascerò andare via.- 
-Lo farò comunque.- disse, amareggiato. 
-Per quale assurdo motivo?- si dimenò, strattonando il braccio per sfilarlo dalla sua presa. -Come intendi cessare questa situazione? Lavorerai per lui? Ti farai ammazzare?- 
Non riusciva a capire come avesse potuto anche solo aver pensato di accettare, non capiva perché dovesse farlo. 
-Dammi un motivo- gridò. 
-Ho giurato che ti avrei protetto anche a costo della mia vita, ed è quello che farò.- disse lui, avvicinandosi a lei. -Ha detto che se avessi accettato di lavorare per lui mi avrebbe lasciato salvarti. Non ho intenzione di farlo, ma devo fermarlo comunque. Lo sanno tutti, e mi appoggiano.- 
Harry si volse, gli occhi vuoti, ed iniziò a camminare.
Sentì il dolore al petto nascere ed aumentare, e chiuse gli occhi provando a fermarlo. 
-Non andare via da me!- urlò.
 
Harry si fermò, e lasciò che i singhiozzi di Hebe squarciassero l'aria. Ricordò come l'aveva tenuto tra le braccia mentre lui piangeva, minuti e minuti prima, e strinse gli occhi.
Tornò indietro, fino a trovarsi a pochi centimetri dal suo viso diafano.
-Tengo più alla tua vita che alla mia.- sibilò. -E se ciò che sto per fare mi permetterà di salvarvi, di salvarti, allora non puoi fermarmi.- concluse.
Lei chiuse gli occhi.
Vederla scossa dai singhiozzi lo distrusse più di quanto potesse mai aver immaginato.
-Non lo fare.- biascicò. -Ti prego, Harry. Non lasciarmi.- 
Trattenne il respiro.
-Tornerò da te, Hebe. Te lo prometto.- sibilò.
Lei pianse più forte e si strinse con uno slancio al suo petto.
La prese mentre ancora Hebe si gettava su di lui e lei si aggrappò al suo collo, poi allontanò le braccia dal suo corpo.
-Non andare via, non farlo.-
Non si mosse, lasciando le braccia ai lati del busto: se l'avesse stretta non credeva sarebbe più riuscito a lasciarla andare.
-Farò solo ciò che è necessario, poi tornerò da te.- sussurrò, flebilmente, trattenendosi dallo stringerla a sé. 
-Cosa.- disse. -Voglio sapere cosa farai.- 
Lui scivolò via dal suo abbraccio e la guardò, gelido. 
-Vado ad uccidere mio padre.-





Angolo autrice:
Ciao, miei amati/e!
Come ve la state passando? Spero che questo nuovo inizio di studi, lavori e quant'altro si sia rivelato non troppo spiacevole!
Ma adesso pensiamo alla storia...
Punto cruciale: Harry racconta specifiche cose ad Hebe riguardanti il suo passato.
ADESSO GLI ASINI VOLERANNO E IL CIELO CADRÀ.
Chi l'avrebbe mai detto?
Partiamo dal presupposto che Hebe non rammenta NULLA. Zero. Nada. 
Andiamo, davvero? Mi sconvolgo da sola. Potete immaginare come sia potuto rimanere allibito Harry dinanzi tale dichiarazione. Già è stato difficile per lui esternarle i suoi sentimenti, poi lei lo dimentica anche... Grandioso, sul serio. Ebbene, poi...
Abbiamo scoperto che le complicazioni che questo stile di vita comportava hanno determinato la morte di Katherine, anche se il tutto è rivelato molto vagamente. In tutta sincerità, avevo preparato un discorso incentrato sulle ragioni della sua dipartita, ma poi ci ho riflettuto sopra e ho cercato di immedesimarmi nel suo personaggio: oramai avrete tutti capito quando poco aperto ed esplicito lui sia, quando certi discorsi emergono, quindi non credo sarebbe stato ideale far si che lui parlasse approfonditamente e con chiarezza sulla morte dei familiari. Credo che il suo personaggio racchiuda tante sfaccettature diverse ed una psicologia più complessa di quella che forse anche io potrei provare a scrivere. Non sono affatto sicura, dunque, che anche se con lei lui sarebbe riuscito a raccontare meticolosamente tutto ciò che determinò la morte della madre e di Kate.
Oh, Dio! Non ho mai ampliato così tanto un discorso su di Harry e il suo carattere. 
Poi subentra, in ultimo, la clamorosa notizia del suo vero padre biologico! E che lui ha intenzione di schiacciare come un moscerino. Eh, già.

Alla fine, tutto è sempre molto normale, si.
Cos'altro dire? 
Buona notte a tutti!
Un bacione, 
Abby_xx

 

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** CAPITOLO XXVI ***


             CAPITOLO XXVI
 
Harry accostò con un calcio la porta e barcollò lungo il corridoio della sua camera, togliendosi le scarpe e i calzini durante il tragitto.
Infilò la mano nel retro dei pantaloni e chiuse gli occhi prendendo profondi respiri.
Tastò le lunghe dita nella tasca posteriore dei jeans, fino a quando non sentì la presenza metallica che stava cercando con un groppo in gola. 
Deglutì e tiro fuori la chiave.
 
Hebe non riusciva a respirare.
John stringeva di tanto in tanto la robusta mano poggiata sul ginocchio della figlia come per infonderle sicurezza. O forse perché era più spaventato di lei.  La madre, seduta sui sedili posteriori, le carezzava i capelli.
Hebe non riusciva a respirare, e allora chiuse gli occhi e abbassò il finestrino della vecchia auto del padre, cacciando fuori la testa e inspirando a pieni polmoni l'aria che si scagliava contro il suo viso come una frusta. Le faceva quasi male, ma mai come le bruciava il cuore. Lo sentiva ribollire, sfrigolare, scoppiare e ricomporsi, facendo ripetere all'infinito quel ciclo doloroso che la tormentava da quando Harry l'aveva riportata da Margaret e poi era corso via.
Sapeva che non se n'era andato davvero, che era solo tornato a casa per qualche ora; ma lei sentiva che una parte di sé si era riscossa e aveva preso la rincorsa per raggiungerlo, lasciandola con un profondo senso di vuoto che la faceva sentire nauseata.
-Non ti lascio Hebe.- le aveva sussurrato, prima di andare via. 
-Ti prego.- aveva detto lei. -Per favore, non farlo.- 
Ma lui le aveva baciato il solco tra le sopracciglia e era salito in macchina, per poi sfrecciare lontano
Hebe pensò a Megan e Tom. Prima di andare via li aveva abbracciati, e loro le avevano sussurrato che tutto sarebbe andato per il verso giusto. 
-Guarda il lato positivo.- aveva sorriso Tom. -Adesso puoi uscire di casa senza la paura che ti uccidano.- 
E se si è spaventati che possano far del male a qualcuno a cui vuoi bene, invece? 
Lei aveva cacciato le lacrime indietro e aveva annuito come se niente fosse. Era stanca così di piangere e dirsi di non poter fare nulla. 
Perché lei era forte; era coraggiosa e sapeva d'amarlo così tanto da essere capace di morire pur di lasciar vivere lui. 
Quindi prese la mano del padre, facendolo sussultare tanta la foga con cui si voltò verso i suoi genitori. 
Sapeva cosa fare. E l'avrebbe fatto.
-Dove andrà per incontrare Drake?- domandò, mentre suo padre rimetteva le dita attorno al volante. -Tra quanto si incontreranno? Qual'è il suo piano?- 
-Hebe.- disse suo padre, fermo. -Non vuole saperne di essere aiutato.- 
Adrienne infilò la testa rossa tra i seduti anteriori, per poterla guardare negli occhi. 
-Harry è troppo protettivo per metterci a conoscenza di ciò che vuole fare.- disse. 
-Ho un'idea.- disse, dopo qualche secondo di silenzio. -Harry non vuole sapere che proviamo a interferire in ciò che farà, giusto?- 
-Esatto.- annuì John. 
-E se non lo sapesse?- disse allora, guardano i suoi genitori. -Se lo aiutassimo senza farci vedere?- 
Adrienne strinse le labbra distendendo la pelle del mento ed ai lati della bocca.
-Come?- chiese. 
Hebe si sedette meglio sul sedile e prese fiato, riuscendo in qualche istante a fermare il dolore al fianco continuava a tormentarla. 
-Papà invierà degli uomini a seguirlo; sparpagliati, e che lui non possa riconoscere. Noi ci terremo in contatto con loro e interverremo non appena Drake si farà vedere.- 
-Credi sia così semplice?- intervenne suo padre.
-Affatto.- rispose lei. -Drake è troppo astuto per presentarsi da solo, lo so. Ma noi siamo tanti, papà. Se tu riuscissi a coinvolgere tante persone avremo più possibilità di allontanarlo dai suoi collaboratori ed isolarlo. Non sei mai riuscito a prendere lui perché non hai mai saputo dove fosse. Ora possiamo scoprirlo.-  
I suoi genitori si guardarono, e le parve di intravedere un barlume nei loro occhi che le ricordava la complicità di una volta.
Poi suo padre si voltò, prima di accostare la macchina ai gradini dell'istituto. Non si era neanche accorta che erano arrivati.
-Speravo tanto che riuscissi a comprendere ciò che avevo detto.- disse, esaltato. 
-Cosa?- Hebe socchiuse gli occhi.
-Credevi davvero che avremmo lasciato quel ragazzo andare da solo incontro ad un tale pericolo?- disse sua madre. -Non me lo sarei mai perdonato.- 
Hebe li osservò attentamente, poi spalancò la bocca.
-Voi avevate già organizzato tutto.- esclamò, indicandoli. -Perché non mi avete detto nulla?-
-Bambina mia.- disse sua madre, sorridendo. -Se l'avessimo fatto lui l'avrebbe capito in un secondo guardandoti negli occhi.- 
-Ma voi, Margaret e Tom, Megan...- continuò.
Suo padre scosse la testa e la guardò con gli stessi occhi grandi e bonari che aveva quando lei era piccola; gli stessi occhi familiari che non aveva mai dimenticato.
-Lui osserva solo te con attenzione, scricciolo.- disse. -E questo mi rende geloso, si.-
Hebe sorrise, gli baciò la guancia e aprì lo sportello dell'auto.
Il cuore le batteva forte, ed ora respirava.
 
Infilò la chiave nella serratura e girò lentamente il polso fino a quando non sentì lo scatto metallico.
Aprì la porta, inspirando ed espirando affannosamente, poi guardò la figura coperta dal telo bianco, ormai ricoperto di polvere, al centro della stanza. Tutt'intorno, ciò che era rimasto dei ricordi che lo tenevano ancora legato alla sua famiglia.
Avanzò lentamente, pensando a Hebe.
Le aveva promesso che un giorno le avrebbe mostrato cosa nascondeva quella camera, ma prima voleva assicurarsi di essere ancora bravo come un tempo.
Chiuse in due pugni le estremità del lenzuolo e lo tirò via senza guardare.
Eccolo lì.
Un pianoforte nero a coda che riscuoteva in lui più sensazioni di quanto facesse qualsiasi altro oggetto avesse mai visto.
Serrò le palpebre e infilò con forza le mani tra i ricci, tirandoli tanto che qualcuno gli rimase tra le dita. Vedeva crearsi nella sua mente sempre più nitidamente la figura sorridente di Katherine che muoveva le dita sulla tastiera, leggere come se bastasse solo sfiorare i tasti per provocarne la melodia. Riaprì li occhi. 
Doveva farlo. Ne aveva bisogno.
Si sedette rigido sullo sgabello in pelle nera impolverato, e carezzò con la punta dell'indice la vernice nera del piano.
Aveva smesso di suonare per un lungo periodo quando Kate era morta; aveva provato raramente a suonare ancora: una volta dinanzi a  Tom, in un bar isolato in città.
Non era riuscito a ricordare gli accordi della sonata su cui si era sempre esercitato e aveva deciso che non avrebbe mai ripetuto lo sbaglio di suonare per qualcuno a lui caro. 
Si era sentito inutile ed incapace, ed aveva ripromesso a sé stesso che avrebbe suonato solo una volta ogni anno, il giorno del compleanno di sua sorella. Poi era arrivata Hebe, e con lei le sue promesse. 
Aveva detto che le avrebbe permesso di entrare nel suo misterioso mondo di segreti inconfessabili, una volta pronto. Non era sicuro di esserlo, ma in quel momento nulla contava più.
Se sarebbe sopravvissuto a ciò a cui stava andando incontro, portarla in quelle stanza sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto.
Pensò ad Hebe, e iniziò; a suonare.
Chiuse gli occhi e lasciò che le immagini che apparvero nella sua mente lo guidassero lungo i tasti esatti.
Ricordò quando l'aveva vista la prima volta, vestita di nero di fronte ad una bara vuota, con la margherita stretta nel pugno e la maturità negli occhi trasparenti nonostante i suoi tredici anni. 
Quando la osservava da lontano attraversare la strada con le unghie che grattavano freneticamente le nocche, scorticate ad ogni fine giornata.
Chiuse gli occhi più forte, e suonò ancora.
Pensò ai suoi occhi grandi e luminosi la prima volta che l'aveva vista da vicino e a come le era sembrato impossibile che una persona potesse te racchiudere tanta bellezza. A come l'aveva baciata la prima volta, tra le luci di un Natale non festeggiato, ed a come si era sentito bene nel farlo. Pensò alla forma delle sue mani sottili e alla curva del suo collo candido.
E la mano premette su un tasto che non era quello giusto.
Ricordò la tremenda notte che lui aveva passato con un'altra e a come aveva letto la delusione la stanchezza sul suo viso scosso. A come non si fece più vedere fino a quando non fu costretta, fino a quando lui non le disse di avere bisogno di lei più di quanto gli servisse l'aria per vivere.
E sbagliò ancora una volta.
Ripensò al modo in cui l'aveva tenuta stretta a sé dopo che Tyler l'aveva sparata, al suo corpo freddo ed al calore con contrastante del sangue che gli tingeva le lunghe dita.
E sbagliò una terza volta, iniziando a sentire la rabbia fargli fischiare le orecchie.
Pensò a Drake, al suo sorriso malsano nel guardarla morente; alle parole che aveva sussurrato metodico per farlo sentire oppresso dal dolore e dall'esigenza di salvarle la vita.
Improvvisamente non riuscì più a coordinare le dita con quello che voleva suonare, non riusciva a controllare il respiro e la furia che gli fece spingere i talloni sul pavimento fino a quando non li sentì bruciare.
Le dita si muovevano senza che lui potesse controllarle, scosso dai ricordi.
Aprì di scatto gli occhi e grugnì.
Premette le mani chiuse a pugno sulla prima parte della tastiera, ed il suono roco e basso delle corde riecheggiò in tutta la stanza.
Respirò affannosamente e si alzò.
Diresse verso la mensola dinanzi a sé e la osservò con circospezione, quasi come se gli oggetti riposti su di essa potessero ferirlo. 
Prese un libro, e se lo rigirò per le mani; poi lo gettò contro il muro. Camminò in tondo ed iniziò a prendere tra le mani tutto ciò che i suoi occhi catturavano per poi scagliarlo sul pavimento, accecato dal dolore.
Foto, cornici, mobili, libri. Tutto quello che intercettava era per lui come una minaccia. 
Tutto ciò che era suo quando era felice -quando Katherine c'era, sia madre ed anche suo padre- adesso era solo qualcosa da distruggere.
Urlò con quanta più voce riuscisse a cacciare fuori; sino a quando sentì la gola bruciare e i polmoni privi di ossigeno.
Poggiò la fronte contro il muro e tossì sommessamente.
Stava per colpire la parete una volta ancora quando sentì un respiro strozzato alle spalle. 
Si voltò.
-Hebe.- disse, guardandola come fosse una proiezione; qualcosa di intoccabile ed inesistente, uno scherzo traditore della sua memoria offuscata.
-Volevo salutarti.- disse lei, tenendo puntati gli occhi su di lui senza battere ciglio.
Aveva i capelli raccolti in una coda scompigliata, gli occhi arrossati e l'esile corpo tremante come una foglia.
Non riusciva neanche a guardarla.
Ore prima l'aveva guardata piangere senza preoccuparsi di come il suo corpo avrebbe potuto reagire agli spasmi; sarebbe potuta svenire per quanto sangue aveva perso, e lui le aveva semplice te raccomandato di non preoccuparsi.
Egoista era l'unica parola che gli veniva in mente in quelli stante per descriversi.
Ed ora, davanti a lei, con i capelli arruffati e la bocca rossa, non sapeva cosa fare e a cosa pensare.
Allora non lo fece. Le corse incontro e si lasciò cadere ai suoi piedi, poi avvolse le sue gambe in un abbraccio.
-Mi dispiace.- strascicò. -Giuro che mi dispiace.- 
Strinse i suoi polpacci con più forza ad ogni parola, e le affondò la testa tra le  ginocchia.
Non voleva farsi vedere, si sentiva un bambino. Uno come lui, da sempre restio alle emozioni, che si mostrava vulnerabile ancora una volta.
-Voglio solo tenerti al sicuro.- strascicò rauco. -È la motivazione a tutte le azioni che compio.-
La sentì sospirare e rabbrividire quando le baciò il ventre. Riusciva a percepire la sua pelle d'oca anche attraverso il tessuto della maglietta.
Non disse nulla per minuti, ma lui non la lascio andare.
Poi la sua flebile voce squarciò il silenzio, e un sospiro gli fuoriuscì dalle labbra quando lei gli carezzò a nuca.
-Suona per me.- sussurrò.
Harry sbarrò gli occhi, e serrò le labbra.
Non l'aveva vista in viso, ma aveva percepito il sorriso nelle sue parole.
Alzò quindi la testa, la guardò e se ne innamorò ancora.
-Suona per te.- ribadì.
Harry sorrise e dopo qualche secondo si alzò in piedi.
Le prese la mano e si sedette sullo sgabello, con lei al suo fianco che gli carezzava la schiena.
Poggiò entrambe le mani sui tasti, ed espirò profondamente.
Iniziò a suonare, cercando di regolarizzare i battiti del cuore ed il respiro.
Ma sbagliò.
Prima una, poi due, poi tre e quattro volte. Ringhiò sommessamente aprendo gli occhi prima di alzarsi di scatto.
-Non ci riesco.- disse, irato ed esasperato. -Non ci riesco.- 
Hebe gli prese la mano e lo costrinse a girarsi. Gli sorrise, e il respiro gli si fermò nel petto. Leggeva nitidamente la stanchezza nei suoi occhi chiari, vedeva la sua mano tremante e le occhiaie scure, ma non disse niente.
-Una volta ho letto che la musica bisogna suonarla con quello che si sente nel cuore. E non con la testa, o con le mani.- affermò. -Cosa senti?- chiese, e gli pressò il palmo della sua stessa mano sul suo petto.
Lui chiuse gli occhi, e corrugò le sopracciglia. 
Sentiva un vuoto, che piano piano si stava riempendo.
Sentiva l'odore di mandorle che emanavano i lunghi capelli soffici di Hebe. Sentiva la sua risata, e il sapore delle sue labbra.
Sentiva lei. Nel suo cuore lui sentiva Hebe.
Allora aprì gli occhi, e le baciò la testa. Camminò con i piedi scalzi lungo il tragitto freddo e polveroso che lo portava al pianoforte. Si sedette, e la guardò.
La vide sorridere, e la fossetta che aveva sopra lo zigomo apparire in tutta la sua dolcezza.
Guardandola suonò, come mai aveva fatto prima.
 
 
 
 
 
Angolo autrice:
 
Miei bellissimi lettori!
Ecco qui il capitolo -con un po' di ritardo, si, ma sorvoliamo- spero vi piaccia!
A quanto pare Hebe si è risvegliata dal suo intorpidimento letale temporaneo e ha avuto un'idea.
Idea precedentemente affiorata nella mente dei suoi genitori, già. Ed anche questa delusione ha centrato il bersaglio. 
Ma, cosa più importante di qualsiasi altra situazione, abbiamo scoperto cosa nasconde la famosa stanza segreta di Harry. 
Un piano. 
La storia verrà successivamente raccontata, poiché rovinare un suo momento di esaurimento nervoso con le chiacchiere era sia pericoloso che privo di suspance.
Hebe sta diventano piano piano una piccola psicologa. Buon per lei.
Al prossimo capitolo, amici miei!
Un abbraccio,
Abby_xx

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** CAPITOLO XXVII ***


CAPITOLO XXVII

 

Mozart. 

Ad Hebe era sempre piaciuto.
Ricordava ancora quando, da bambina, sua madre le fece ascoltare per la prima volta una sua melodia per farla addormentare.
Le faceva venire voglia di sollevarsi sulle punte dei piedi e danzare leggiadra come una piuma: come quelle fate nei boschi delle favole, delicate e bellissime.
Harry stava suonando da tanto, ma lei aveva perso completamente la cognizione del tempo; aveva chiuso gli occhi e si era lasciata cullare da quella dolce musica che nasceva dalle leggere pressioni che lui esercitava su ogni singolo tasto, dimenticandosi di tutto e tutti. Lasciando che la sua mente le mostrasse una sola immagine: lui.
Sereno e calmo come quando dormiva e la teneva tra le braccia; come quando la guardava e lei arrossiva facendolo sorridere; come quando si poggiava sul marmo della finestra e chiudeva gli occhi inspirando a pieni polmoni l'odore che proveniva dall'esterno, dicendole che aveva lo stesso profumo dei suoi capelli.
Ad un tratto il suono del piano scomparve, lasciando che risuonasse nel silenzio solo l'eco di quelle che erano state le ultime note di un'opera d'arte. 
Aprì gli occhi, e non lo vide. Corrugò le sopracciglia e si poggiò sul pianoforte sporgendosi di poco per vedere dove fosse; poi sentì le dita di Harry sfiorarle il collo da dietro, e smise di cercare abbandonandosi al suo tocco.
Sospirò e chiuse nuovamente gli occhi, facendo cadere la testa sulla spalla del riccio.
Lui calò il volto fino a quando le sue labbra non furono a contatto con la base della mascella di Hebe, discendendo poi fino alle clavicole.
Le prese delicatamente per i fianchi e la girò verso di sé, stringendola contro il suo torace.
-È stato bello.- sussurrò lei, aggrappandosi alle sue possenti spalle per restare in equilibrio: sicura che il contatto tra i loro corpi e i loro occhi le avrebbe fatto perdere la stabilità.
Lui le sorrise, e le scostò una ciocca di capelli dal viso dopo che le ebbe slegato la coda frettolosa che si era fatta ore prima.
-Non vuoi chiedermi perché suono il piano?- domandò. -Non vuoi sapere perché te l'ho tenuto nascosto fino ad ora?-
Lei inspirò tutta l'aria che potette, e poi la rilasciò in un flebile respiro.
-Voglio sapere solo quello che vuoi dirmi.- decretò, guardandolo negli occhi. -Nient'altro che quello che sei pronto a condividere con me.- proseguí, carezzandogli una guancia. Lui chiuse gli occhi per un istante, piegando il volto verso il palmo di Hebe per sentire completamente quella fragile pelle contro la sua.
-Mia madre insegnò a mia sorella a suonare il piano quando poco prima di morire.- disse, corrucciandosi. -Ma Kate ha sempre avuto difficoltà ad imparare qualcosa che non riteneva necessario. Era una scansafatiche a cui piaceva sentire la musica, ma non suonarla. Quindi appena fui abbastanza grande, Kate insegnò a me.- sorrise. -Era strabiliante, conosceva tutte le note e i giusti accordi per creare capolavori. Ma diceva che non era quello che voleva fare, che aveva la fortuna di essere capace, ma non aveva il cuore. E se non è qualcosa che ti emoziona, suonare il piano non serve a niente.- 
Hebe ingoiò il groppo che le aveva attanagliato la gola e sorrise.
-E tu, invece?- chiese.
-Suonavo con tutto me stesso. Cuore, anima, corpo. E lei era orgogliosa di me, così come mio padre.- trattenne il fiato e posò la sua fronte su quella della ragazza. -Da quando è morta mi faceva stare male anche solo guardare questo pianoforte. Mi ricordava lei. Ma non ho mai avuto il coraggio di gettarlo via, poiché era un qualcosa che mi teneva ancora legato a Katherine. Era il nostro pianoforte, non il mio o il suo. Era nostro. È come se continuassi a sentire la sua presenza, tenendolo qui.- 
Le sfiorò le labbra con il pollice e si prese del tempo per respirare, corrugando le sopracciglia e facendo formare di conseguenza quella sottile ruga al centro della fronte che le piaceva tanto.
Hebe sapeva a cosa stava pensando, cosa stava ricordando. Quindi aspettò che fosse lui a parlare.
-Entro qui una volta ogni anno.- riprese, dopo un poco. -Tutti gli anni, il giorno del suo compleanno.- concluse.
Hebe non fiatava, e non aveva neanche l'intenzione di farlo; quei racconti l'avevano turbata e lasciata interdetta come se i ricordi che di Harry fossero stati i suoi; non sapeva cosa dovergli dire per farlo stare meglio, quindi stette in silenzio respirando i suoi respiri.
-Sei la prima persona a cui lo racconto.- sorride,  una miriade di sfaccettature amare a colmargli la voce roca.
Hebe gli carezzò la nuca. -Non voglio che tu stia male.- sussurrò. -Che ti senta così.- 
Harry aprì gli occhi e si accigliò.
-Così come?-
Hebe sospirò quando lo sentì posare inconsciamente la mano sulla zona del suo busto coperta dalla fasciatura.
Era nervoso, lo vedeva: vedeva i suoi occhi che si muovevano da una parte all'altra della stanza, di quel verde oscuro che ora le sembrava ancora più cupo; vedeva il suo corpo contrarsi di tanto in tanto, e rilasciare la tensione nei sospiri che provava a soffocare nel petto; le sue labbra, che ogni tanto mordeva con veemenza. Poteva dire di conoscerlo abbastanza bene da sapere che in quell'istante non era in pace con sé stesso -o, perlomeno, meno del solito.
Quindi lo guardò negli occhi e fece in modo che lui non distogliesse lo sguardo come era solito fare premendogli una mano contro la guancia. 
-Riesco a vedere quanto tu stia male, Harry.- disse. -Voglio solo capire perché. Se ripensare a ciò che è accaduto in passato ti turba...-
-Non è questo.- la interruppe lui.
Respirò profondamente, e passò la punta della lingua sulle labbra per inumidirle.
-Cosa, allora?- insistette lei.
Harry strinse gli occhi, e serrò  le labbra rendendole una sottile riga trasudante nervosismo. 
-Tu non ricordi.- sbottò improvvisamente.
Scostò la mano di Hebe dal suo viso e indietreggiò con passo traballante, poi si fermò al centro della stanza. 
-Quello che è accaduto stanotte.- Strinse i riccioli mori tra le mani e chiuse gli occhi.
-Non capisco..- iniziò lei, avanzando di un passo.
-Lo so, Hebe!- urlò allora lui, interrompendola. -Ed è questo che mi spaventa a morte!-
Hebe lo osservò ad occhi spalancati e aspettò che proseguisse.
-Ti ho detto una cosa, questa notte.- iniziò. -Una cosa che mai avrei pensato potessi dire.- sospirò. -Provare.- 
-Dimmelo un'altra volta, allora.- biascicò flebilmente Hebe, il petto che si abbassava e rialzava costantemente anche se non emetteva nessun respiro.
-È esattamente questo il problema.- disse Harry, congiungendo le mani davanti a sé, come stesse pregando. -Io non riesco a ripeterlo.- aggiunse. -È talmente forte, il suo significato.. E io non riesco a ripeterlo, perché il solo pensare che tu possa dimenticarlo nuovamente mi divora.- 
-Non lo dimenticherò.- disse piano, avvicinandosi con circospezione come ore prima. -Se è tanto importante, perché dovrei scordarlo?- 
-L'hai già fatto.- gemette.
-Ti prego..- inizò lei.
-Non dirtelo mi sta corrodendo l'anima.- fremette, interrompendola. -Ma ho la perenne paura che un giorno tu possa renderti conto di quanto sbagliata tutta questa situazione sia, e che te ne vada. E dopo stanotte le probabilità non sono che aumentate. Perderti mi ucciderebbe, capisci?- 
Hebe lo osservò confusa, poi cercò  nelle profondità del suo animo la voce più tenue e calma che aveva. -Non succederà, Harry.- 
-E se accadesse, invece?- replicò lui, guardandola sconvolto. -Se tu capissi che tutto questo è solo un errore? Non dicendoti che ti amo forse farebbe meno male, se te ne andassi.- 
 
Silenzio.
I secondi successivi alle parole di Harry furono solo secondi colmi di silenzio.
Neanche si era accorto di averle detto che l'amava, in un primo momento; poi l'aveva vista boccheggiare, aveva notato le sue pupille dilatarsi e le mani iniziare a tremare, ed aveva capito. Pensò alla notte precedente, ed a come non avesse pensato a nulla quando le aveva sussurrato malinconico ciò che sapeva di provare dal primo momento in cui l'aveva vista, quattro anni prima. Ma quella mattina, invece, tutto ciò che credeva stabile nella sua vita aveva vacillato pericolosamente; e l'ultima cosa che desiderava era che anche la presenza di Hebe ondeggiasse sul baratro dell'oblio della sua vita.
Ma ora eccolo, il fatidico momento in cui tutto ciò in cui poteva sperare era che dopo quello che le aveva confidato lei lo amasse ancora; in cui l'unico suono percepibile era quello delle foglie degli alberi che venivano scosse dal vento. 
Attese. Attese per secondi, minuti; non seppe quanto tempo era passato quando decise di andarle incontro. 
-Ti amo.- ripeté, enfatizzando quella semplice parola. Si fermò a pochi centimetri dal suo corpo e la osservò minuziosamente. -Ti ho amata dal momento in cui i miei occhi hanno incontrato il tuo viso. Lo faccio tutt'ora. E se è vero che gli uomini continuano a vivere nelle loro anime quando queste abbandonano i corpi in cui hanno giaciuto, allora sì, ti amerò anche allora. Perché finché avrò memoria di te sarai tutto ciò per cui vivrò.-  
-No.- sibilò poi lei, facendolo trasalire per un istante. -No, no.-
Scosse la testa e prese la sua tra le mani, riscaldandogli con il tepore dei palmi le gote fredde. 
Harry spalancò gli occhi, temendo che le sue parole l'avessero spaventata. 
Poi però i suoi occhi vennero offuscati da un leggero strato di lacrime e non seppe perché, ma sentì il suo cuore riscaldarsi inconsciamente.
-Harry.- sussurrò Hebe, gli occhi che brillavano. Strinse i suoi capelli tra le dita e posò le sue labbra su quelle di lui. -Ti amo, Harry.- sussurrò contro la sua bocca. -Non ho mai avuta certezza maggiore di questa.- 
-Oh, Hebe.- sorrise lui, e baciò il suo viso senza tralasciare nessun centimetro. 
Strinse le mani attorno alla sua vita, e le congiunse dietro la sua schiena. Era così delicata e fragile che riuscì a racchiuderla completamente nel suo abbraccio, rifugiando il bene più grande che aveva stretto al suo petto.
Hebe fece scorrere le mani lungo il suo torace, percorrendo una linea immaginaria che partiva dalla base del suo collo e si concludeva appena sopra l'ombelico. Raggiunse l'orso della leggera maglia che portava -nonostante il tempo umido e freddo di quel periodo- e infilò cautamente i polpastrelli sotto la stoffa. Harry espirò con forza quando i suoi palmi si poggiarono sul suo addome, irradiando calore e nonostante ciò procurandogli brividi dietro la nuca.
La baciò con maggiore passione, prendendosi il tempo di assaporare appieno la sua bocca rossa. Mosse le labbra verso il mento, si soffermò per qualche secondo nell'angolo tra il collo e la mandibola  -il tempo necessario per sentire il suo respiro affannarsi- poi continuò fino a raggiungere la base del collo.
Posò con delicatezza le mani sui suoi fianchi, per tenerla ancora più contro di sé -per quanto fosse possibile-, ma non appena le sue mani sfiorarono la parte del busto coperta dalla fasciatura si fermò all'istante. 
Alzò gli occhi verso il viso di lei, e notò le sue mascelle serrate ed il viso contratto, gli occhi cristallini guardarlo sofferenti.
-Perché non mi hai fermato?- sussurrò flebilmente. -Devi provare un dolore atroce.-
Hebe socchiuse gli occhi e lo guardò da sotto le lunghe ciglia, il respiro che si ristabiliva man mano che il dolore defluiva dal suo corpo. 
-Lo preferisco all'averti lontano.- disse. 
Harry carezzò con circospezione una sua guancia e unì le loro fronti: -Non devi fingere che non faccia male, Hebe. So quanto sia tremendo.-
-Lo dici come se l'avessi provato.- ribatté; poi soffermò lo sguardo sul suo volto, allontanandosi di poco, e si incupì. -Dimmi che non è così.- 
Harry arricciò le labbra in un leggero sorriso: -È solo un ricordo, adesso.- la tranquillizzò lui. -È passato tanto tempo.- 
-Quanto?- chiese.
-Non ha importanza.- Scosse la testa. -Adesso sei tu quella ferita.-  
-Ed orribile, si.- confermò lei, avvicinando il viso a quello di lui. -Ma non è nulla che non possa sopportare.- 
Lo baciò con accortezza, solo sfiorando le sue labbra, poi si ritrasse. 
-Se andrai da Drake, però, potresti non tornare più.- La sua voce si incrinò. -E quello... Quello non sono sicura di poterlo sopportare.-
Harry chiuse gli occhi per un istante, poi le prese la mano. 
Portò il palmo di Hebe sul suo petto, posizionandolo all'altezza del cuore, e la guardò dritta negli occhi. 
-Tornerò da te.- disse, assicurandosi di mantenere il respiro costante. -Entro un paio di giorni tutto questo sarà finito. Senti il battito del mio cuore, Hebe.- disse. -È regolare. Non ti sto mentendo.- 
Lei strinse tra le dita il tessuto della sua maglietta: -Non sai come potrebbero andare le cose.-
-Ma so che voglio proteggervi, fermare ciò che lui compie da anni. È un assassino.- 
-Ti sporcherai le mani di sangue, Harry. Del tuo sangue.- esordì lei, allontanandosi. 
Camminò fino alla soglia della porta, poi si voltò.
-E tu?- chiese. -Dopo ciò che farai, non sarai un omicida anche tu?- 
Harry sentì la gola prosciugarsi e divenire secca, lo stomaco contrarsi e la mente riempirsi di pensieri. 
Aveva già pensato alle conseguenze, a ciò che avrebbe comportato uccidere Drake -uccidere suo padre- e gli era parso tutto irrilevante in confronto alle atrocità che quell'uomo aveva commesso.
Se lo merita, aveva pensato, se qualcuno non lo ferma le azioni spregevoli che compie da anni andranno avanti.
Ma in quel momento, guardando il volto di Hebe e la tristezza che riempiva i suoi occhi, le sue convinzioni vacillarono pericolosamente.
-Qualcuno deve fermarlo.- ripeté, scuotendo di poco la testa come per scacciare via le domande.
-E quel qualcuno devi essere proprio tu?- irruppe lei, fissandolo atterrita, poi uscì.
-Io...- iniziò. 
Ma ciò che voleva dire si perse nell'aria. A tutto quello che stava per succedere vi era una ragione plausibile, una abbastanza imponente e necessaria per voler togliere la vita a colui che si dichiarava il suo stesso padre: voleva tenere al sicuro le poche persone che contavano per lui, e tutte le altre che Drake avrebbe potuto ferire.
Le motivazioni per mettere a rischio la sua vita erano più che sufficienti. 
Ma non abbastanza per quella di Hebe. Più la guardava più vedeva il terrore dipinto nitido sul suo viso pallido; la consapevolezza che -se le cose sarebbero andate nel verso sbagliato- le avrebbe potuto recare un dolore così grande da sottrarle per sempre l'amore che il suo cuore custodiva, gli annebbiò la mente.
Ma doveva provarci, doveva
Si diresse fuori dalla stanza con fermezza, mostrandosi più convinto di quanto realmente fosse. 
La trovò seduta sul piccolo divano accanto alla porta, il volto tra le mani. 
Prese la giacca che aveva posato sulla sedia in soggiorno e si inginocchiò ai suoi piedi per poter essere alla sua stessa altezza, poi unì le loro labbra in un bacio.
-Ti amo.- ripeté ancora. -Non lo dimenticare.- 
Prima che potesse proferire ulteriore parola, si alzò ed aprì la porta. 
Hebe lo osservò sconcertata e fece forza sulla braccia per mettersi in piedi. Harry la guardò un'ultima volta e prima che potesse raggiungerlo uscì dalla camera e chiuse a chiave il portone, blindandola all'interno. 
-Harry!- urlò lei. -Harry, no!- 
Inspirò affondo e si infilò il giubbotto con un movimento rapido, prendendo a camminare lungo il corridoio scarsamente illuminato. 
Sotto la maglia, la canna della pistola che aveva inserito per metà nei pantaloni gli gelò il fianco.
 
 
 
 

Angolo autrice:
Miei piccoli amici! 
Questo capitolo è più lungo degli ultimi -credo tanto più lungo- ma dividerlo in più parti come ho fatto altre volte sarebbe forse stato noioso... Spero non lo sia per la lunghezza, però!
Parlando della storia, invece...
Harry ha finalmente ricordato ad Hebe cosa si erano confidati la notte precedente, e, a quanto pare, lei l'ha presa più che bene.
Per quanto riguarda il suo voler uccidere il padre, al contrario... Da quel che si può capire -più che giusto, a mio parere- non le scende tanto giù.
E la ragazza ha ragione, accidenti!
Dunque quale magnificente idea brilla nella mete del nostro galantuomo? Ovvio, blindare la sua amata nella loro camera. 
Oh, Cielo...
Adesso la smetto, davvero. Solo che quando ripenso a ciò che scrivo mi rendo conto di quante immature circostanze si susseguono senza una logica. 
Spero vi piaccia, e come al solito sono sempre più che predisposta a leggere i vostri commenti!
Un bacio e buonanotte,
Abby_xx

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** CAPITOLO XXVIII ***


                                                                   CAPITOLO XXVIII             


Hebe camminava lentamente nell'ufficio di suo padre, facendo risuonare lo scalpiccio delle scarpe sul pavimento in tutta la stanza. 
Muoveva passi contati e precisi, sentendo ciò che John decretava senza ascoltare veramente.
Due passi avantiDue indietro.
Si pressò il gomito contro il petto, sulla ferita ancora dolorante, e trattenne il respiro sino a quando non smise di pulsare.
Continuava a pensare a ciò che stava accadendo ad Harry durante il tempo che loro spendevano a ipotizzare azioni e conseguenze.
-Nessuno aveva previsto che sarebbe uscito dalla stanza prima del dovuto, John.- stava dicendo Adrienne, tenendosi a dovuta distanza dal marito. -Ma gruppi da tre e quattro persone sono già andati a cercarlo.- 
Era dall'altro capo della camera, le spalle spigolose come quelle della figlia avvolte in una sciarpa pesante; nonostante la distanza che li separava, Hebe percepiva una sorta di filo immateriale che li univa. 
Un sottile spago che li teneva legati l'uno all'altra nonostante i sentimenti controversi. Lo stesso che riteneva legasse lei ed il ragazzo che l'aveva rinchiusa ore prima nella loro stanza per scamparla da un terribile dolore. 
Dolore che, per quanto psichico fosse, perseverava procurandole fastidiosi bruciori al petto ed alla gola. 
-Non conosce il posto in cui si incontreranno.- irruppe Jack, facendosi avanti. -Starà camminando a zonzo senza sapere dove andare...- 
-Aspettando di essere preso e portato via.- continuò Megan, finendo il discorso del fratello. 
-Tutto questo è assurdo.- mormorò Hebe, fermano il suo andirivieni. Strinse le braccia attorno al busto per ripararsi dalla sensazione di colpevolezza che l'attanagliava e parlò ancora. 
-Non può essere andato lontano.- 
Tutti si voltarono a guardarla: era restata in silenzio dal momento in cui John e Tom avevano scassinato la serratura della porta della sua camera per farla uscire. 
-Da quanto tempo è andato via?- aveva chiesto Tom, gli occhi spalancati. -Da quanto, Hebe?- 
Lei aveva scosso la testa e si era rifugiata tra le braccia del padre.
-Lo troveremo, Hebe.- disse John, sollevando lo sguardo dai fogli sparsi sul tavolo per incontrare quello della figlia. 
-Lo so.- disse lei, annuendo. -Si. Si, lo so.- 
Tutti ripresero a parlare, sovrastando il rumore del vento che infieriva contro le finestre ma non i suoi pensieri.
Sentì i passi della madre alle sue spalle, e calò di poco il viso verso il pavimento per osservarla con la coda dell'occhio.
Adrienne le posò una mano alla base della schiena e scosse la testa sospirando.
-Smetti di pensare che è colpa tua, bambina.- disse, con voce tanto fievole che le parve un sussurro portato dal vento. -Se lui ti ama non ci puoi far nulla.- 
Hebe si voltò verso la madre, gli occhi socchiusi e la consapevolezza di non poter negare ciò che aveva appena detto.
-E se non riuscisse ad uccidere Drake, senza il nostro aiuto?- chiese. Non si stupì della naturalezza con cui aveva pronunciato quella parola, quasi fosse qualcosa di talmente quotidiano da non sconvolgerla più come prima. 
-Se non riuscisse a tornare?- 
-Avrai il ricordo di qualcuno che ha temuto più per la tua vita che per la propria.- rispose, senza tentennamenti. -Ma credimi, non c'è niente che dia più coraggio e forza del pensiero di qualcuno da cui tornare.- 
Hebe osservò sua madre: il rosso aranciato dei capelli, la forma delicata e severa del viso, gli occhi gelidi e il sorriso sereno. Osservò sua madre, e pensò che era tanto che non lo faceva; tanto che non le parlava davvero, tanto che non le stesse accanto senza il timore di infastidirla, tanto che non le dicesse quanto bene le volesse; tanto e basta.
Il bussare alla porta la distolse dalle sue considerazioni e fece voltare tutti i presenti.
-Avanti.- disse John, la voce profonda. 
Enea Atala, il messaggero che l'aveva portata giorni e giorni prima nello studio di suo padre per la partenza verso Venezia, si fece avanti facendo sbucare prima la testa imbarazzata e poi il corpo minuto. 
-Signore...- iniziò, asciugandosi le gocce di sudore che grondavano dalla fronte. -Signore, ho fatto prima che potevo.- 
-Parla, Enea.-
-Il signorino Styles, signore...- Annaspò un'ultima volta, poi divenne serio. -L'hanno trovato.- 
Hebe recepì solo dopo qualche istante la notizia, pensando solo che quell'espressione provata ed al contempo rigida era profondamente sbagliata per il magro viso di Enea. 
Capì dopo; quando tutti spalancarono gli occhi e Megan si portò una mano al cuore. 
Sentì la testa vorticarle ed i pensieri ritornare ad ingolfarle la mente. 
-Dii loro di non agire, solo di seguirlo con discrezione una volta che anche loro l'avranno trovato.- decretò il padre. -Dobbiamo scovare il luogo in cui Drake è nascosto da oramai troppo tempo.- 
-E poi?- chiese Tomàs, accigliandosi. -Chiameremo le forze dell'ordine?- 
-E poi agiremo.- disse. -Noi, e nessun altro.- 
 
 
Harry camminava lungo le umide strade della cittadella di Berkel -distante un paio d'ore dall'istituto- guardando come gli scarponi infangati battevano sui ciottoli scivolosi, schizzando gocce d'acqua sporca. 
Stava girando lungo gli stessi posti da non sapeva quanto, stringendosi nella giacca scura quando il vento gli si sferzava contro; vicoli colmi di bancarelle, frastuoni e risate.
Era tutto così sbagliato, così in contrasto con ciò che stava accadendo in quei giorni, in quella vita. 
Non sapeva neanche perché avesse deciso di infilarsi nelle strade di quella piccola città, l'aveva fatto e basta. Sapeva che lo stavano guardando, lo sentiva, quindi aveva semplicemente scelto uno dei tanti posti in cui l'avrebbero potuto prendere.
Scosse la testa e continuò a camminare.
D'un tratto un gatto dal pelo lungo si infilò tra i suoi piedi, costringendolo a rallentare: corrugò le sopracciglia sorpreso. 
Tolse le mani dalle tasche del giubbotto e si piegò sulle ginocchia. 
-Micio.- sussurrò, carezzandogli il pelo bagnato. 
Era identico a Church. Ed era strano pensarlo, ma non vederlo più attraverso la finestra di casa Watson gli procurava malinconia.
Il gatto lo guardò, gli occhi spaventosamente simili al ragazzo, poi filò via. 
Harry sospirò e si pressò i palmi contro gli occhi chiusi; non riusciva a smettere di pensare al viso pallido di Hebe che lo guardava andare via, scosso e stupito per qualcosa che non riusciva a motivare veramente. 
Il frastuono attorno a sé sembrava ampliarsi sempre di più, colmarsi sempre più delle parole delle persone e degli urli dei venditori. 
Ma non abbastanza da non permettergli di sentire i passi costanti dell'uomo alle sue spalle; Harry si alzò in piedi, serrando la mascella tanto da far male, e aspettò che fu al suo fianco prima di sorridere. 
-È giunta ora di andare.- biascicò l'uomo -la pelle cadente e scura che lo faceva forse sembrare più vecchio di quanto fosse. 
Harry guardò un'ultima volta i colori attorno a loro, i movimenti semplici e disinvolti di tutti ed i loro visi normali. Si chiese quanto in realtà vi fosse di normale; nessuno era chi appariva esternamente, e questo l'aveva imparato fin troppo bene. 
Nonostante ciò pensò che ad Hebe sarebbe piaciuto lì.
Si voltò e prese a camminare, seguito dall'uomo al suo fianco; altri tre li stavano aspettando alla fine del vicolo. 
-Drake è ansioso di vederti.- esclamò uno di questi, non appena fu abbastanza vicino da poter udire ciò che dicevano. 
Harry sorrise, cupo.
-Mai quanto me.- 
 
 
La parete di metallo del retro del camion in cui l'avevano fatto entrare -solo, ovviamente- era gelida contro le sue scapole.
Era rimasto seduto, le lunghe gambe stese ed il petto stretto alle braccia per il freddo, da quando era salito sù.
Non aveva emesso alcun suono, concedendosi solo fievoli respiri per non interferire col rumore nella sua testa. Voleva tanto smettere di pensare ad Hebe e a tutto il resto, ma per quanto ci provasse sapeva che la sua mente gli avrebbe comunque mostrato quelle immagini. 
A volte l'aveva vista accanto a sé, quando chiudeva gli occhi, con i capelli rossicci che sfioravano la spalla di lui e le sue dita a toccare quelle di lei; l'aveva immaginata in tutta la sua pudica bellezza, tanto reale da fargli impressione, e l'aveva vista più volte scomparire quando alzava tremolante il braccio per toccarla. 
Il portellone di metallo davanti a sé si riscosse con un forte trambusto, facendo scuotere le placche di metallo che lo tenevano assieme nel momento in cui uno degli uomini che l'aveva preso lo alzò con le braccia. 
Harry rimase fermo a guardarlo, troppo stanco ed annoiato per emettere anche un fievole suono. 
-Il viaggetto è finito.- disse, grugnendo. -Scendi.- 
-Peccato.- sospirò Harry, impassibile. Si alzò lentamente da terra, facendo ben attenzione a non urtare la pistola nascosta nei pantaloni contro la parete metallica. Camminò ballonzolante fino alla soglia del camion, poi saltò agile in terra. -Proprio ora che iniziavo a divertirmi.- 
L'uomo lo prese per la schiena ringhiando infastidito e lo spinse in avanti, invitandolo a muoversi. 
La pistola scivolò verso il basso della cintura.
Per un secondo tutti i muscoli del suo corpo si irrigidirono, quasi a voler avvolgere nella carne quell'oggetto che non avevano ancora scovato e che, per quanti ne avesse visti in vita sua, lo portava sempre in uno stato di adrenalina.
-Cammina.- gli intimò, dandogli un altro colpo alla spalla. 
Harry si voltò cupo, un sorriso appena accennato a increspagli le labbra gonfie. 
-Sai,- disse. -non dovresti agire così impetuosamente nei confronti del presunto figlio del tuo capo.- 
-Come?- fece lui, accigliandosi. 
-Si, insomma...- iniziò, sorridendo. -Le conseguenze potrebbero essere più dannose di ciò che ti aspetti.- 
Prese a camminare più velocemente, avanzando sul terreno umido che copriva quella parte di strada. 
Si trovavano su una valle sterrata, coperta di alberi dai lunghi rami pioventi e di vegetazione incolta. Sentiva lo scalpiccio degli uomini alle sue spalle, ma fingeva che tutto quello fosse estremamente normale. Avanzava con scioltezza, muovendo le gambe con attenta leggerezza. 
-Siamo arrivati.- disse uno degli scagnozzi, raggiungendolo. -Fermati qui, ragazzino.-  
Harry strinse la mascella, serrando i denti per calmare il respiro. 
Non dovevano chiamarlo così, mai.
Si voltò di slancio, ruotando e alzando il braccio. Le nocche strette a pugno colpirono con precisione la mascella inferiore dell'uomo, mandandogli la testa all'indietro. 
-Un ragazzino, eh?-  chiese. -Deve essere dunque molto imbarazzante, essere stato messo al tappeto da un ragazzino.- 
Un battito di mani riecheggiò nella radura facendo voltare tutti, tranne Harry. 
Sapeva chi fosse.
-Perbacco.- esclamò Drake, avanzando verso di loro. 
Harry sentiva il suo respiro accanto a sé, la presenza impotente ed il profumo pungente; ma non lo guardò.
-Ti sei calato perfettamente nel ruolo.- sorrise, annuendo sadicamente quando il labbro del suo uomo prese a sanguinare copiosamente. 
-Quale, dei tanti?- ribatté Harry. -Quello del figlio problematico o quello del ragazzo arrabbiato assetato di vendetta?- 
Darke gli strinse una spalla e scrollò le spalle: -Entrambi.- 
-La tua felicità è disgustosa.- 
Lui rise ancora di più.
Harry sentì il sangue pulsagli alle tempie ed il calore della rabbia avvolgergli lo sterno.
Non adesso, si disse. Non ancora.
Guardò diffidente la sua risata affievolirsi ed il suo respiro tornare costante; una volta stiratosi la camicia con il palmo della mano, Drake si mosse con calma verso l'uomo ancora dolorante. 
-Fa male?- chiese, retorico. 
Quando quello annuì, gli occhi rivolti verso il basso in segno di insensato rispetto, lui gli assestò un altro pugno alle costole. 
L'uomo barcollò gemendo, poi cadde a terra. 
-Non gradisco essere umiliato.- disse, alzando un angolo della bocca con repulsione.
Si voltò verso Harry, e socchiuse gli occhi.
-O tradito.-
Sfilò dall'interno della giacca scura una pistola e l'alzò con calma verso il volto di Harry, il braccio teso e l'espressione concentrata.
Un rumore sordo risuonò nell'aria.
 
 
 
 
Angolo Autrice:
Buon Natale e tante belle gioie, amici miei!
Lo so, come sempre sono imperdonabile; ma sono certa che proverete a capire che oramai il mio è un caso perso. 
D'altronde, chi non lo è?
Ma basta poeteggiare e torniamo alla normalità realistica -mmmh- della nostra storia: a quanto pare Harry è scappato in un paesino di campagna, ai confini del mondo, senza però sfuggire alle grinfie degli scagnozzi del suo novello -mica tanto- padre.
Hebe, immersa in domande che le trastullano la mente, si attribuisce come sempre la colpa di quanto accaduto; niente paura, la dolce Adrienne subentra in soccorso all'amata figlia. 
Come ormai è risaputo, il grado di rimorso del padre del nostro caro Harold è minimo se non inesistente: difatti, inorridito dinanzi alla poca mascolinità del suo uomo non esita nel sferragli il resto di ciò a cui aveva già accuratamente provveduto suo figlio. 
Ma, rullo di tamburi, il pover'uomo -anche qui si fa per dire- non è la sola vittima della situazione; Harry, che nel frattempo aveva sfruttato la sua grande astuzia nascondendo un'arma nei pantaloni, crede d'essere stato scoperto dal padre. Lo sparo finale poi, mette in luce ed ombra il tutto. 
Sarà stato Drake? Harry? Qualcuno nel bosco? Unicorno? Bene. 
Lo capiremo tra un po'. 
Perdonate la mia insolita felicità ma durante le feste faccio un abuso di zuccheri non poco limitato. 
Vi voglio sempre tanto bene e vi vorrei -condizionale, ehpiù attivi, giusto per sapere se le persone che leggono sono poche o se posso vantare una quasi candidatura al premio Pulitzer.
Un abbraccio e buone vacanze,
Abby_xx

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** CAPITOLO XXIX ***


                                                                           CAPITOLO XXIX


In un istante, quasi come se il cielo avesse associato quel tumulto generale ad un richiamo impellente, cadde una scrosciante tempesta. 
Hebe, dall'alto della collina su cui era nascosta assieme al padre, Jack ed altri due uomini armati -tutti rigidi dopo quell'assordante rimbombo-, sentì il cuore sprofondarle sino all'ombelico. 
Harry, a una sessantina di metri da lei, era ancora in piedi. 
Drake aveva la schiena rigida e la mano ferma che agguantava una pistola; era in grado di vedere la luccicante vernice nonostante la pioggia.
Più si inzuppava i vestiti, più sentiva il sangue pomparle alla tempie. 
Se non era caduto in ginocchio agonizzante, voleva dire che era ancora vivo: non aveva colpito lui.
Vide sfocatamente il busto di Harry girarsi verso gli alberi alle sue spalle, e muovere un passo indietro arrancando. 
Due uomini robusti trascinavano il corpo inerme di un uomo dai folti capelli chiari, bagnati fradici.
Non può essere.
Hebe voltò freneticamente la testa verso Jack, al suo fianco. 
Aveva anche lui gli occhi spalancati ed era bianco come un cencio. 
Non era un uomo quello che stavano trascinando nella terra zuppa. 
Era Tom. 
Si asciugò la faccia dalla pioggia, strofinandosi gli occhi con forza; magari era solo una visione e magari, una volta tolte le gocce d'acqua dalle ciglia, avrebbe scoperto che non era lui l'uomo steso al suolo. 
Ma tutte le speranze risultarono vane una volta visto Harry gettarsi sulle ginocchia. 
Non riusciva a sentire la voce di Drake, ma il suo braccio ancora steso e la posizione rigida erano indizi  necessari per capire che Tomàs non era ancora morto.
-Che faceva lì?- disse Jack, alzando il busto dall'erba su cui era steso, ed il fucile gli cadde di mano. -Cosa diamine faceva lì?- gridò.
-Sta zitto!- urlò di conseguenza John, cupo in volto. -Lo devono aver trovato nel bosco.- 
Hebe voltò nuovamente la testa, con così tanta lentezza che si chiese se sarebbe tutto finito una volta che si fosse messa di nuovo dritta. 
-No.- sussurrò, la voce spezzata non udibile sotto tutta quella pioggia. -Ti prego, no.- 
 
Rimase immobile, con gli stinchi infangati e la vista ostacolata dai ricci bagnati, flosci sulla fronte. 
Più guardava il suo volto cinereo piegato su una spalla, le sue gambe scomposte, le braccia inerti, più si chiedeva quanto tempo sarebbe passato prima che il dolore uccidesse anche lui.
Poi successe tutto in un lampo: si alzò con uno slancio, gridando come una furia, si gettò sul corpo di Tom, liberandolo dalla presa degli uomini del padre, e lo coprì col suo stendendolo sul terreno.
-Alzati!- sentì Drake gridare, in lontananza. Un colpo partì dalla postola. -Alzati adesso!-
Harry pressò il volto sulla spalla dell'amico, sussurrando parole a vanvera nella speranza di ridestarlo.
Si sentì sollevare per la schiena e scalciò come un folle nel tentativo di liberarsi, non togliendo comunque gli occhi dal corpo di Tom.
-Sei patetico!- ruggì, strattonandosi con violenza. -Lurido bastardo!- 
La risata di Drake esplose come un latrato nella pioggia scrosciante. 
-Sono venuti a salvarti.- cantilenò con voce infantile, muovendo la testa con la bocca corrucciata. -I tuoi impavidi amichetti hanno deciso di morire per te.-
Harry ringhiò con tutta la voce che aveva in corpo e nello stesso istante in cui si liberò dalla stretta presa degli scagnozzi di Drake, una pioggia di proiettili si riversò su di loro mischiandosi a quella che vi era già. 
Si gettò sul padre senza preoccuparsi di ciò che accadeva attorno a sé, colpendogli il naso con la fronte e schizzandosi di sangue caldo.
Rotolarono sulla terra bagnata, gridando e muovendo i pugni alla rinfusa con la speranza di cogliere il viso dell'altro, impossibile da distinguere sotto tutta quell'acqua. 
Più volte rischiarono di essere colpiti da proiettili vaganti e, quando Harry venne colpito alla nuca ed alzò la testa con la vista annebbiata, il vedere la marea di gente che si era riversata sulla pianura lo lasciò sbigottito per un istante.
Se ne pentì subito dopo. 
Drake approfittò della sua momentanea confusione per schiacciarlo sotto il suo corpo, le mani serrate sulla sua gola. Harry mosse le gambe con spasmi violenti, provando a colpirlo in qualsiasi punto del busto, ma il padre era troppo concentrato a soffocarlo per permettersi di sentire dolore. 
La vista gli si annebbiò, e divenne così difficile e doloroso respirare che preferì non farlo. Vedeva i contorni sfocati del viso di suo padre, rabbioso e famelico, e per la prima volta notò la loro spaventosa somiglianza. 
E, sorprendendo persino sé stesso, capì di non provare rancore o dolore nel vedere l'unico suo familiare che cercava di ucciderlo. 
Voleva solo che finisse; che finisse tutto. Era stanco di sentirsi oppresso dalla tristezza, dalla paura di deludere la prima persona che aveva imparato ad amare, dalla paura di farla soffrire. 
Poi, mentre le gambe si facevano troppo pesanti per continuare a muoverle nel disperato tentativo di salvarsi, un ennesimo sparo risuonò più forte, vicino degli altri. 
Drake, il volto che si stirava in un'espressione di pura confusione, guardò suo figlio; un altro colpo, e il suo petto sussultò ancora; un ultimo, e un fiotto di sangue scuro gli bagnò il mento scivolandogli per la gola mentre lui scivolava nel fango. 
Harry tossì con forza, rannicchiandosi e riprendendo fiato. Si scostò dal corpo inerte del padre, strisciando nella terra, e dopo qualche tentativo si rialzò in piedi. 
Davanti a sé, immobile, c'era Hebe. 
Il pallido viso impassibile, l'espressione seria e gli occhi lucidi. 
Harry si alzò barcollando, sporco di fango e sangue, e le andò incontro. 
La distanza che li separava era così breve, ma sembrava infinita. Mosse lenti passi verso di lei, ed una volta giuntole dinanzi si guardarono a lungo.
Poi la strinse contro il suo petto con uno slancio, e la sentì tremare. 
-Va tutto bene, Hebe.- sussurrò, chiudendo gli occhi e non ascoltando altro che il suo respiro affannato.
-Era l'unica cosa che potevo fare.- disse lei, la voce paradossalmente ferma contro il tremore del suo corpo. 
-È tutto finito.- 
Alzò gli occhi verdi sulla prateria che lo circondava e rimase allibito come la prima volta che vi aveva posto lo sguardo, pochi minuti prima. 
Nessuno lottava più; non vi erano più fucili, proiettili, coltelli. Corpi senza vita giacevano sulla terra umida, e coloro a cui non era ancora stata strappata la vita erano tenuti fermi dalla marea di uomini di John.
Era quasi come se con la fine della pioggia -se ne rese conto solo allora- e quella di suo padre, tutto il male fosse cessato.
E allora guardò verso Tom, tenendo sempre stretta a sé Hebe, e lo vide che sorrideva a Jack. 
John stava chiudendo gli occhi agli uomini deceduti, e provava a non guardare verso Harry e sua figlia. 
Allora capì; capì che nulla era finito e tutto stava per iniziare.
 
 
 
 
 
 
 
Nota finale:
 
Non so se sia giusto iniziare -o, per meglio dire- finire in questo modo, ma lasciare la storia alla libera interpretazione, lasciare i miei amati personaggi a vagare nelle vostre menti in tutte le vesti che vorrete mi sembra il modo migliore per concludere quest'avventura.
Non voglio dire null'altro perché in tutti questi mesi, tra abbandoni e riprese, ho detto tutto ciò che volevo. 
Vi ho voluto bene -per quanto se ne possa volere a qualcuno di cui non si conosce l'identità e con cui non si ha mai avuto il piacere di prendere un gelato- perché mi avete accompagnato leggendo la mia storia dal primo giorno, dal secondo, o magari proprio da oggi, ma comunque facendolo.  
Se ripenso ai primi capitoli di questa stranissima storia d'amore, mi viene da ridere. 
Il mio modo da ragazzina di descrivere i fatti e gli atteggiamenti capitolo dopo capitolo, è andato piano piano diminuendo. Posso dunque concludere discendo che, grazie a voi che mi avete spronato a continuare a dilettarmi in ciò che più amo fare, sono cresciuta quel poco per avere la consapevolezza d'averlo fatto.
Mi scuso se questo non era il tipo di capitolo che sognavate come finale di questa storia; ma proprio come dicono le sue ultime righe, questa non è affatto la fine, bensì l'inizio.
Un bacio e buonanotte,
La vostra Abby_xx
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2682058