The Red Crow

di Doomsday_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nono ***
Capitolo 10: *** Capitolo Decimo ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undicesimo ***
Capitolo 12: *** Capitolo Dodicesimo ***
Capitolo 13: *** Capitolo Tredicesimo ***
Capitolo 14: *** Capitolo Quattordicesimo ***
Capitolo 15: *** Capitolo Quindicesimo ***
Capitolo 16: *** Capitolo Diciassettesimo ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo ***


Primo Capitolo
 





Un corvo gracchiava sopra di lei, fissandola con quei piccoli luminosi occhi di pietra.
Faceva da spola tra un ramo e l'altro, sorvolandola affinché lei lo seguisse con la testa.
E Lydia lo accontentava, osservando ogni suo movimento, finché non si quietò sopra uno dei rami più bassi.
Allora la donna allungò una mano ad accarezzarne il piumaggio rosso, morbido e liscio come seta.
Il corvo la fissava silenzioso, gli occhietti intelligenti sembravano scrutarle l'anima.
Fu allora che le piume si tramutarono in gocce di sangue. Colarono lente e calde lungo il braccio di Lydia. Eppure lei continuò a carezzare quel grumo rappreso fatto di morte con un sorriso pacifico a rasserenarle il viso.


 
***


Aprì gli occhi, sobbalzando appena. Si rigirò nel letto, aspettando che la vista si abituasse all'oscurità della stanza.
Allie dormiva, serena, accanto a lei. I morbidi boccoli rossi le ricoprivano il volto paffuto dall'espressione beata.
Lydia si tirò su a sedere, le rimboccò meglio le coperte e rimase a contemplarla per un attimo.
Le scostò i riccioli dalla fronte perdendosi in quel gesto semplice, che compiva mille volte al giorno.
Le succedeva spesso di rimanere incantata a guardare un particolare – sebbene noto – del volto di sua figlia: le ciglia lunghe, la pelle diafana, le labbra a bocciolo – ora coperte dal ciuccio.
Un sorriso spontaneo le si disegnò sul viso, ma così tremulo che si spense non appena udì la porta della stanza aprirsi.
Si voltò di scatto, spaventata: sulla soglia si stagliava la sagoma scura di un uomo. Le fissava, immobile, senza però accennare ad avere altre intenzioni.
Lydia scese dal letto e gli si avvicinò con cautela.
«Jordan?».
L'uomo non rispose. Stava ritto come un fusto, con gli occhi sbarrati e nessun indumento addosso.
Lydia gli pose le mani sulle guance e provò a chiamarlo nuovamente: «Jordan, mi senti?».
Le sue iridi erano luminose, incandescenti.
«Jordan...» mormorò un'altra volta la donna, carezzandolo dolcemente.
Fu allora che Jordan si riscosse e i suoi occhi tornarono normali, del consueto verde chiaro.
Lui la guardò senza dapprima capire, le sorrise innocentemente, poi si rese conto del suo stato, corrugò la fronte e abbracciò suo moglie senza riuscire a trattenere le lacrime.


 
***


Stiles scese di corsa le scale, allacciandosi la camicia della divisa.
«Malia, hai visto il mio distintivo?» chiese a gran voce, ma in risposta gli giunse solo l'eco del leggero canticchiare di sua moglie.
Si fermò a frugare in mezzo agli scaffali del salone, cercando di non inciampare tra le cianfrusaglie che Malia aveva ormai rinunciato a mettere apposto.
«Tesoro, è tardi!» gridò ancora lui, affacciandosi alla porta della cucina per farsi notare.
Malia era seduta al tavolo della colazione e canticchiava filastrocche per indurre Jamie a finire il suo vasetto di frutta.
«Sul tavolo», rispose finalmente, senza staccare gli occhi dal piccolo.
Stiles si avvicinò ma, nel punto indicato, trovò solo un toast bruciacchiato ad attenderlo. Sbuffò sonoramente e addentò la fetta di pane.
«Il caffé?» mugugnò, con la bocca ancora piena.
«Nella tazza» trillò Malia, rivolgendo un sorrisone esagerato a Jamie.
Stiles finì di divorare il toast guardandola fare tutte quelle smorfie buffe, che catturavano l'attenzione del bambino, trattenendo a stento le risate.
All'inizio la prendeva in giro per questo, ma aveva dovuto smettere dopo aver visto un filmato girato da Scott in cui lui faceva inconsapevolmente le stesse identiche facce.
Raggiunse il lavandino dove Malia aveva abbandonato la sua tazza e la trovò – come si aspettava – vuota.
«Okay, grazie, tesoro» borbottò tra sé, aprendo il frigo.
Prese una bottiglia d'acqua e, su di un piattino, trovò finalmente il suo distintivo. Se lo infilò in tasca, emettendo un lungo sospiro.
Aveva sperato fino all'ultimo che questa volta non le sarebbe successo, ma negli ultimi mesi Malia era tanto distratta e dimentica che in più di un'occasione aveva quasi dato fuoco all'intera casa.
Eppure, pensò, sempre meglio della prima gravidanza, quando tutta quella sbadataggine era stata un'enorme sorpresa, ben poco piacevole, per entrambi.
Le si appostò alle spalle, carezzandole i capelli lunghi affinché lei alzasse il viso a guardarlo; poi si chinò a baciarla.
«Scappo in centrale» disse, massaggiandole il ventre già visibilmente tondeggiante, che Malia riusciva ancora a nascondere bene sotto le grosse magliette di Stiles.
«Buon lavoro» rispose lei, seppur trattenendolo per la camicia per indurlo ad accostarsi alle sue labbra ancora una volta.
A Stiles piacevano quei baci, tutt'altro che distratti; quei brevi momenti in cui lei era totalmente concentrata su di lui.
«Ricordati che questa sera ci sono Scott e Kira a cena» aggiunse, quando ormai lei era tornata alla sua precedente occupazione.
«Va bene».
«Dopo ti mando un messaggio, magari», baciò velocemente la testa del figlio e si avviò verso l'uscita.
«Non ce n'è bisogno!» gli gridò dietro lei. «Vero, Jamie? La mamma non si dimenticherà un'altra volta di preparare la cena a papà. No, no».


 
***


«Stilinski, sei in ritardo».
Jordan uscì dall'ufficio dello sceriffo con sguardo scuro e mani puntellate sui fianchi.
Stiles inarcò le sopracciglia e rispose: «Buongiorno anche a te...», lasciandosi cadere sulla sedia della propria scrivania.
«Cosa c'è di tanto urgente? Un tamponamento? Denunce di inquinamento acustico?» chiese sarcastico, tirando fuori da uno dei cassetti una tazza ancora macchiata di caffé. Provò a ripulirla con un fazzoletto non meno sporco, sotto lo sguardo accigliato del collega.
«Malia si è dimenticata anche oggi, eh?»,
«Già», brontolò, «e questa non è neppure la parte peggiore. Credo che abbia intenzione di affamarmi. Si è fatta influenzare da un articolo sul diabete gestazionale, o che so io, e adesso non fa che preparare verdure e legumi. Dove diavolo si è mai visto un coyote vegetariano?».
Jordan, suo malgrado, rise.
«Okay,» assentì, «il tempo di un caffé e poi ti voglio attivo sul campo. C'è stato un omicidio».
Stiles saltò sulla sedia, esclamando: «Un omicidio? Perché non l'hai detto subito?!».
Jordan scosse la testa, esasperato, poi aggiunse: «Ah, comunque sei sporco qua» e indicò un punto imprecisato della sua camicia.
Stiles abbassò lo sguardo e trovò una macchia là dove prima Malia lo aveva afferrato.
«Oh, fantastico!», sbottò.
«Agente Jonas», gridò lo Sceriffo, mentre rientrava nel proprio ufficio, «assicurati che il Vicesceriffo si dia una mossa!».


 
***


Il Vicesceriffo Stilinski e l'agente Jonas arrivarono sulla scena del delitto quando già tutti erano in posizione e il nastro giallo collocato a delimitare il campo.
Furono costretti a lasciare la macchina al limitare della foresta, per poi addentrarsi a piedi per una decina di minuti, prima di arrivare sul posto.
Quella mattina il vento soffiava inclemente, rendendo difficoltoso il lavoro della squadra; ma a Stiles non dispiaceva quell'aria pungente che gli sferzava addosso l'odore della terra umida e del penetrante sentore della resina sugli alberi. Era grato a quell'aria fredda, che trasportava via con sé il marcire del cadavere e lo lasciava libero di respirare a pieni polmoni.
Si sentiva padrone di se stesso più lì, tra le fronde secche degli alberi, che seduto alla scrivania di Vicesceriffo.
Scavalcarono il nastro giallo e i due agenti si diressero spediti ad affiancare il medico legale, ancora china ad analizzare il corpo.
«Cosa abbiamo, Lydia?» furono le prime parole di Stiles.
La donna alzò lo sguardo, le labbra strette assunsero una piega di disappunto.
«Hai deciso di farti vivo, finalmente», ironizzò, ma Stiles udì facilmente il sollievo dietro quel tono distaccato che ella era solita utilizzare quando lavorava.
«Parrish mi ha avvisato solo quando sono arrivato in centrale! Non ho ricevuto nessuna chiamata...» si giustificò brevemente per poi avvicinarsi al corpo. La sua collega lo seguì come un'ombra: era il primo caso d'omicidio a cui era stata assegnata e Stiles non aveva fatto altro che ammonirla di restare in silenzio a guardarlo lavorare.
«Allora?», chiese di nuovo, impaziente.
«Donna bianca, diciotto anni. È stata trovata riversa a terra, supina. La gola tagliata da sinistra verso destra, quindi l'assassino è mancino. La ferita appare seghettata e irregolare, dubito che l'arma del delitto sia un coltello».
Stiles si piegò sulle ginocchia per osservare a sua volta la spoglia. Appariva così concentrato che sembrava aver smesso completamente di ascoltare il dettagliato resoconto di Lydia.
Scrutava il volto esangue della ragazza morta, sentendo che qualcosa in quel cadavere non andava. Era solo una sensazione, eppure lo turbò profondamente. Aveva imparato a dar retta al proprio istinto ancor prima di ascoltare la ragione e quando capì quel che esso gli suggeriva, un brivido gli corse lungo la schiena. Era l'espressione a non andare: quel giovane viso così pacifico, con neppure una sola macchia di sangue a sporcarlo; sereno, come se l'ultima cosa che avesse fatto fosse sorridere. Bastò quel semplice particolare, quell'elemento che stonava con tutto il resto, a fargli torcere le viscere.


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Note Autrice: In quanto ho iniziato a scrivere questa long prima dell'uscita della 5b, alcuni fatti non sono stati presi in considerazione. Inoltre vorrei specificare che - nonostante nella intro ci sia scritto che sono passati "cinque anni di pace" - sono passati almeno una quindicina di anni effettivi dal loro ultimo anno di liceo (quindi dalla quinta stagione).
Spero di mantenere i personaggi il più IC possibile, ma ho comunque voluto segnalare l'OOC dato che si parla in ogni caso di persone adulte, non più di adolescenti, che quindi in determinate circostanze potrebbero reagire differentemente dal loro personaggio canonico della serietv.
Detto questo, vi avviso che il prossimo capitolo sarà pubblicato l'8 Maggio.
Seguitemi sulla pagina Doomsday_ per controllare meglio gli aggiornamenti!
Vi ringrazio per l'attenzione e per aver letto!^^

Grazie alla mia dolce beta 
Horror_Vacui  che ha letto e riletto e corretto questi capitoli con una pazienza infinita. Come farei senza di te? Sei l'amore <3



 

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Capitolo 2
*** Capitolo Secondo ***




Secondo Capitolo



 



Portarono via il corpo che il sole era ormai alto.
Stiles parlava con gli uomini della scientifica, quando notò Lydia in disparte dal resto della squadra.
Fumava seduta su di una roccia vicino a un dirupo da cui era visibile tutta Beacon Hills. Guardava la cittadina con volto scuro.
Stiles ordinò all'agente Jonas di far sgombrare il campo e la raggiunse.
Il vento soffiava ancora più forte in quel punto della foresta meno coperto dagli alberi e agitava i capelli della donna come se fossero morbidi nastri rossi.
«Non ci sono né segni di morsi e né di graffi. Vedrai che si tratterà soltanto di un festino tra adolescenti finito male» disse Stiles, mettendosi ad ammirare il panorama assieme a lei.
Lydia annuì, senza troppa convinzione. Non si era lasciata sfuggire il modo in cui il viso di Stiles era cambiato mentre osservava il cadavere.
«Quanti anni sono passati?», chiese, invece, allungandogli la sigaretta.
Non dovette chiederle a cosa si riferisse, si limitò a scrollare le spalle fingendo disinteresse.
«Almeno cinque», rispose, aspirando a sua volta il fumo dal filtro, «Ma questo non vuol dire nulla» aggiunse dopo una breve pausa.
Lydia annuì ancora.
Le restituì il mozzicone con un mezzo sorriso, dicendo: «Malia vuole che smetta».
Lei sembrò riscuotersi a quelle parole e, finalmente, distolse lo sguardo dal panorama e gli restituì il sorriso.
«Sai, dovresti proprio essere più puntuale. Jordan è furioso. A casa non fa che lamentarsi».
Stiles rise, lisciandosi i baffi con le dita, mostrandosi leggermente in imbarazzo.
«Lo so, mi dispiace. Davvero. Sai, c'è questo momento la mattina, in cui Malia si alza per fare la doccia e mette Jamie nel nostro letto. Sono sveglio, ma non completamente. Lo sento rotolarsi tra le coperte e poi arrampicarsi sul mio petto. Lo fa tutte le mattine. Si sdraia su di me e restiamo così, abbracciati, a lasciarci scivolare via il sonno o a cercare di recuperarlo. Sento il suo respiro, la presa salda sulla mia maglietta e so per certo che non mi alzerò più da quel materasso. Questo finché Malia non esce dal bagno, prende Jamie e butta letteralmente me a terra».
I due amici scoppiarono a ridere, nonostante Lydia sembrava più commossa che divertita da quel che Stiles le aveva appena confidato.
«Hanno davvero cambiato tutto», concordò lei, «Non avrei mai immaginato quanto Allie avrebbe inciso così profondamente sulle mie abitudini, su di me. Quando Jordan resta a lavoro fino a tardi, io e lei dormiamo insieme. Le piace così tanto e io amo sentire il suo odore sul cuscino, e...» Lydia si bloccò all'improvviso, stringendo le labbra; il suo sguardo tornò cupo come poco prima.
Stiles aggrottò la fronte, trovandosi impreparato.
«Cosa c'è?», chiese.
«No... nulla. Ripensavo a questa notte e...», chiuse gli occhi e sorrise appena «lascia stare, non è importante».
«Puoi dirmelo, Lydia. Lo sai»,
«È solo... Jordan ti è sembrato strano questa mattina?»,
«Strano come rimanere chiuso in ufficio quando è stato appena commesso un omicidio?».
Lydia sospirò, fissò i suoi occhi in quelli di Stiles e ammise: «Penso che mi stia nascondendo qualcosa».
 
***


«Mal? Sono a casa!».
Stiles si chiuse la porta alle spalle e posò la giacca sull'attaccapanni. La casa era stranamente silenziosa, priva dei consueti rumori che la animavano.
«Mal?», chiamò ancora senza ricevere risposta.
Andò diretto in salone e come sempre lo trovò sommerso da giocattoli e pupazzi di ogni tipo.
Malia stava lì, sdraiata sul divano; sembrava dormire profondamente, con un'espressione tanto pacifica che Stiles avrebbe preferito non doverla svegliare.
Temporeggiò, raccogliendo qualche cianfrusaglia dal tappeto e riponendola nelle ceste dei giochi. Poi si sedette sul divano, all'altezza delle sue ginocchia, dove lo spazio lasciato dalle gambe della donna glielo permetteva. Le scostò un poco la coperta da dosso e le accarezzò i capelli. Sussurrò piano il suo nome, cercando di svegliarla il più dolcemente possibile.
Malia corrugò appena la fronte a quei tentativi e Stiles allora si chinò a lasciarle una scia di piccoli baci sulla tempia, poi giù lungo la mascella, fino ad arrivare alle labbra.
Malia sorrise e socchiuse un occhio.
«Sei tornato» mormorò.
«Dov'è Jamie?» chiese, continuando a lasciarle baci lungo il collo.
«Da tuo padre. Ho dimenticato di dirti che saresti dovuto passare a riprenderlo».
Stiles alzò la testa per scoccarle un'occhiata tra il divertito e l'esasperato.
«Okay», rise, «vado a prenderlo, allora». Ma non fece in tempo ad alzarsi che Malia gli legò le braccia al collo.
«Aspetta ancora un attimo» lo pregò, sospingendolo verso di sé.
«Scott e Kira arriveranno a momenti» obiettò Stiles, pur lasciandosi prendere di più ad ogni bacio.
Malia ignorò le sue proteste, le mani già occupate a sbottonargli la camicia.
Stiles rabbrividì nel sentire le mani fredde di Malia accarezzargli il petto ormai nudo. Gettò via la coperta che divideva i loro corpi e si accomodò meglio tra le gambe di lei.
Il petto di Malia si alzava e abbassava frenetico, sotto il suo tocco esperto.
Il loro fare l'amore era diverso quando aspettavano un figlio. Malia se ne era resa conto sin dal giorno in cui avevano scoperto che avrebbero avuto Jamie.
Il modo in cui lui la svestiva o si muoveva sopra di lei, attento, come se stesse maneggiando qualcosa di davvero fragile e prezioso. E questo la divertiva perché mai era stata ritenuta fragile da Stiles.
Vi erano meno morsi, meno graffi e decisamente meno movimento, ma questo aveva una bellezza tutto sua. Una bellezza che sapeva di perdizione, perché entrambi sembravano perdersi l'uno dentro l'altro come se per un lungo, infinito istante, non fossero altro che un singolo essere fatto di percezioni e sentimento.
Soprattutto lì, in quel momento, sopra al loro divano, mentre rubavano istanti di tempo alla quotidianità per amarsi e scoprirsi per l'ennesima volta, incuranti di obblighi, doveri o impegni.
Tutto era più intenso. Persino l'odore di lui cambiava. Come riconosceva la sua paura, l'ansia o la tristezza, Malia individuava anche quel particolare sentore che – segretamente – ricollegava all'emozione viva che dava la vista dell'oggetto amato. Un misto di felicità, passione e desiderio, di trasporto emotivo che rasentava il bisogno fisico; un miscuglio di sfaccettature accecanti, pura e semplice emozione.

 
***
 
Era la sesta volta che Lydia provava a chiamare Jordan, quella sera, senza avere risposta, quando finalmente udì il portoncino di casa aprirsi e poi richiudersi con un tonfo.
Ancora si sorprendeva di come – da una cosa semplice come il chiudere una porta – riuscisse a capire di che umore fosse suo marito.
Si trovava seduta sul tappeto a giocare insieme ad Allie. La bambina alzò veloce gli occhi verde chiaro, improvvisamente luminosi, su di lei rivolgendole un sorriso entusiasta.
«È tornato papà!» esclamò, scattando in piedi e correndo veloce verso l'ingresso.
Lydia si prese tutto il tempo per alzarsi e raggiungere, con calma, i due già in cucina.
Allie, in braccio a Jordan, aveva accoccolato la testa sulla sua spalla, mentre lui era impegnato a tirare fuori dal microonde la cena che Lydia gli aveva lasciato da parte.
La donna li guardò, poggiata contro lo stipite della porta della cucina, in silenzio. Quando lui si voltò non sembrò sorpreso di trovarla lì, a braccia conserte ed espressione grave.
Le rivolse un breve sorriso insicuro e poi si sedette a tavola senza dir nulla.
«Pensavo che oggi saresti tornato a casa prima», infine parlò, dato che Jordan non sembrava propenso a darle spiegazioni.
Lui scrollò le spalle e rispose: «Avevo un sacco di scartoffie da compilare. Lo sai come diventa la centrale di polizia quando c'è un omicidio...».
A quelle parole, Lydia si rivolse a sua figlia: «Tesoro, perché non vai di là a mettere a posto? È quasi ora di andare a letto».
Allie sembrò restia ad ascoltarla, ma non poté fare altrimenti quando Jordan la fece scendere dalle sue ginocchia, dicendole di ubbidire e fare la brava.
Una volta che la bambina fu uscita dalla stanza, Lydia si sedette a tavola accanto al marito e allungò una mano a coprire quella di lui.
«Perché ho la strana impressione che tu oggi mi stia evitando?».
Jordan rise a quella frase: «Non lo sto facendo. Perché dovrei?».
«Guardami negli occhi, Jordan» il suo tono risultò più duro di quanto lei in realtà volesse.
Lui lasciò andare la forchetta, che tintinnò rumorosamente contro il piatto, e fece un lungo sospiro. Tuttavia non si voltò a incrociare lo sguardo preoccupato di sua moglie.
«È per quello che è successo questa notte, non è vero?».
Jordan rimase nel suo silenzio ostinato, indurì la mascella e strinse le labbra in una linea sottile.
La mano di Lydia arpionò con maggiore forza quella di lui.
«Parlami, Jordan», lo pregò, «dimmi quello che hai visto».
«Sono piuttosto stanco, Lydia. Possiamo non parlarne adesso?», ma lei non sembrava avere l'intenzione di desistere perciò chiarì, masticando a mezza bocca un: «Non ho visto nulla».
Lydia sbuffò incredula e, mollando la presa, incrociò le braccia strette al petto.
Scuoté brevemente il capo prima di tornare all'attacco, affermando: «Ti dico ciò che ho visto io, allora: gli occhi di Cerbero. Quel Mastino Infernale che ha imparato a controllare la propria natura anni fa. E poi sai cos'altro ho visto? Gli occhi di mio marito. Persi, smarriti, privi della benché minima consapevolezza di ciò che stesse accadendo».
Jordan si alzò in piedi di scatto, rovesciando a terra la sedia, sbatté il pugno sul tavolo e, quando finalmente si voltò verso di lei, i suoi occhi erano di un arancio infuocato.
Lydia si raddrizzò sulla sedia, raggrinzendo le labbra: «Oh, non farmi urlare, Jordan! Sai benissimo che lo faccio e di là c'è Allie», sputò ogni parola impregnandola di disappunto.
Allora l'uomo serrò le palpebre, riacquistando lentamente la calma.
«Possiamo evitare questo discorso, per favore?» chiese ancora, facendo visibilmente fatica a controllare la voce.
«Cosa diavolo hai visto da sconvolgerti a tal punto da non volermelo neppure dire?», insisté lei.
«Non voglio parlarne, Lydia! Santo cielo, se avessi saputo che a casa mi aspettava un terzo grado del genere, me ne sarei volentieri rimasto a lavoro» sbottò, afferrando la giacca e infilandosela con rabbia.
«Dove stai andando?»,
«A prendere un po' d'aria. Oggi è stata una giornata pesante già senza che tu ci mettessi del tuo»
«Non posso crederci! Te ne vai mentre stiamo ancora parlando? Sei appena rincasato, Jordan. Cosa penserà Allie?» cercò di farlo ragionare, ma sembrò ottenere solo l'effetto opposto.
Jordan perse definitivamente la pazienza ed esclamò: «Non puoi risolvere ogni problema schiaffandomi in faccia il nome di nostra figlia!».
Si fissarono per un lungo momento e, solo quando Jordan vide gli occhi di lei farsi lucidi, capì di aver esagerato.
«Vuoi rimproverarmi qualcos'altro? Mi preoccupo per lei... ma sembra che lo debba fare sempre io per entrambi!»
L'ultima frase cancellò ogni più piccola traccia del senso di colpa che si era fatto strada sul volto di Jordan.
«Cosa vorresti dire con questo?», gridò, «Pensi che lei non sia la cosa più importante per me?», le parole si consumarono in un ringhio feroce.
Il suo viso mutò in qualcosa di mostruoso e il petto gli si incendiò, bruciando la camicia della divisa.
«Pensi che non farei di tutto per salvarla?» la voce questa volta uscì cavernosa e terribile.
Con una manata fece volare via il tavolo, il quale si abbatté contro il muro in un boato.
Le lacrime scesero copiose lungo il viso emaciato di Lydia, ma non per quel che Parrish aveva appena detto o fatto.
«Si tratta di lei, non è vero?», chiese in un soffio, sentendo che i suoi peggiori timori erano stati appena confermati.
«Non volevi dirmi nulla perché si tratta di lei. Hai visto Allie tra le tue braccia».
 
***
 
«Tutto squisito, Malia. Davvero», commentò Scott, massaggiandosi la pancia in segno di sazietà.
Malia aveva preparato l'intera cena senza particolari intoppi, se non per una presina dimenticata nella teglia che aveva rischiato di bruciare l'intero arrosto – il quale fu salvato dall'arrivo puntuale di Scott – e dal conseguente commento rassegnato di Stiles: «Mi ringhia contro se sente l'odore della nuova collega sulla mia divisa e poi neppure si rende conto che sta per far esplodere il forno».
Malia sorrise soddisfatta ai complimenti di Scott e si alzò per sparecchiare la tavola. Kira le andò dietro, pronta ad aiutarla.
«Ma quindi non ti manca neanche un po' la carne?» aggiunse l'uomo, sinceramente curioso.
Malia agitò la mano con noncuranza e rispose: «Non è un grosso sacrificio. E poi, un paio di volte alla settimana, posso concedermi qualche fettina di carne bianca».
Così dicendo, sparì in cucina e Stiles ne approfittò per sporgersi verso l'amico e dirgli a mezza bocca: «A dirla tutta, se le concede quasi ogni sera. Pensa che non me ne renda conto, ma quando si alza con la scusa del bagno, torna a letto che profuma come una braciola».
I due uomini scoppiarono a ridere.


La sala da pranzo dove le due coppie di amici erano riunite, si trovava adiacente al salone, nel quale i bambini giocavano indisturbati. Le due stanze erano divise unicamente da un arco, il quale permetteva ai genitori di tenere sott'occhio i giochi spericolati dei propri figli.
Adam, il primogenito di Scott, dall'alto dei suoi cinque anni, comandava a bacchetta i fratelli e Jamie affinché giocassero a quel che lui preferiva.
Nonostante Jamie non fosse abituato ai giochi scalmanati, come lo erano invece gli altri tre, li seguiva passo passo senza remore. Aveva solo due anni, ma all'interno dei suoi grandi occhi scuri già si poteva vedere la stessa luce di furbizia che animava anche quelli di suo padre.
Con un semplice sguardo d'intesa Jamie si alleava con Caleb, e Adam – per quanto più grande dei due – non poteva far altro che arrendersi.
In tutto questo, Matty – il più piccino dei McCall – se ne restava in disparte a guardare, giocando con le costruzioni e urlando se solo Adam si azzardava ad avvicinarsi troppo al suo passatempo.
«Scusa per tutta questa confusione» disse Kira, cercando di ammonire i figli con lo sguardo.
«Non preoccuparti! Lo sai bene che questo salone è sempre un disastro, con o senza i tuoi figli» rise Malia, per poi aggiungere: «Però basta maschi, okay?».
Per un attimo il volto di Kira si scurì. Parve invecchiare di colpo, i suoi occhi si fecero tristi e la bocca acquisì una piega amara. Ma durò solo un attimo, poi la donna sorrise come se nulla fosse e lanciò uno sguardo ovvio al pancione di Malia.
«Saranno anni difficili per lei, circondata da loro quattro».
«Beh, se riprenderà dalla madre saprà come farsi rispettare» si intromise Stiles, guardando la moglie in un modo tanto intimo che Kira preferì distogliere lo sguardo.
«E poi ci sarà Allie a sostenerla», aggiunse Malia, «Non vede l'ora! È così felice di non essere più l'unica femminuccia», accarezzandosi distrattamente il ventre.
«E Jamie? Ha ancora dubbi?» si informò Kira.
«Finge disinteresse» le rispose Stiles con tono rassegnato.
Malia concordò annuendo piano: «Ogni tanto poggia l'orecchio per ascoltare i movimenti. Ma non gli piace come idea. Vorrebbe che restassimo solo noi tre».
«Gli passerà» assicurò Scott con tono di chi la sa lunga.
«Ad Adam deve ancora passare» gli ricordò allora Kira, alla quale capitava frequentemente di dover recuperare i più piccoli dei figli dal vialetto di casa dato che il maggiore, puntualmente, provava a sbatterli fuori.
«Non sarà mai solo, è questo ciò che importa» lo sguardo di Malia si fece vacuo, mentre osservava il figlio da lontano, «e un giorno capirà quanto questo sia importante».
 
***
 
Sdraiata a letto, Malia si massaggiava il ventre con gli oli che le aveva regalato Lydia. Per dormire indossava una vecchia maglietta di Stiles, che ora teneva tirata su fino al seno.
Quando anche lui entrò nella camera, le rivolse un mezzo sorriso.
«Aspetta, ora faccio io» le disse, sbrigandosi a spogliarsi.
Si sdraiò sotto le coperte, ponendo la testa sul petto di Malia, si oliò con cura le mani e prese a lasciarle dolci carezze circolari usando molta più accortezza nei movimenti di quanto aveva dimostrato lei poc'anzi.
«La sento muoversi» mormorò Stiles.
«Oh, puoi dirlo forte. Sarà quasi un'ora che si agita così. Mi sta facendo venire la nausea».
«Si sta agitando?» ripeté Stiles allarmato, aumentando l'intensità dei massaggi sulla pancia di Malia, «No, Claudia... Sshh» soffiò, poggiando le labbra nel punto in cui avrebbe dovuto trovarsi la testa. Continuò a bisbigliare frasi dolci e a lasciare baci leggeri, finché Malia non si distese, finalmente rilassata.
«Si è calmata» lo avvisò, stringendogli la mano per ringraziarlo. Non aveva idea di come facesse, ma l'unico che riusciva a farla addormentare era lui.
Stiles si esibì in un'espressione tanto compiaciuta che per Malia fu impossibile non scoppiare a ridere.
«Dovresti stare più a riposo, però... e seguire i consigli della dottoressa».
Malia alzò platealmente gli occhi al cielo, esclamando: «Sto a riposo, Stiles! Non ricominciare. Da quando sono in maternità non faccio che starmene qui in casa senza far nulla».
Abbassò la maglietta bruscamente, con uno sbuffo. Poi puntò lo sguardo su di lui, assottigliando le palpebre: «Non mi hai ancora detto come è andato a lavoro».
Stiles si scansò, tornando nella sua parte di letto.
«Come al solito» commentò, vago.
«Nessun fatto rilevante?»,
«Non proprio»,
«Omicidi, per caso?».
Stiles la guardò di traverso.
«Ho sentito che ne parlavi con Scott, prima. Non voglio che tu mi nasconda le cose solo perché sono incinta!»,
«Non ti stavo nascondendo niente, Mal. È solo un omicidio, stiamo ancora indagando. Non volevo farti preoccupare per nulla»,
«Voglio saperlo se sta per arrivare qualcosa».
Stiles sbuffò e ribatté: «Ecco, è proprio quel che intendevo! Perché tutti pensate subito al peggio?».
Malia gli scoccò un'occhiata ovvia: «Perché si tratta sempre del peggio e tu lo sai bene. Non possiamo più permetterci di farci trovare impreparati»
«Sapevo che saresti entrata subito in modalità mamma-coyote-iperprotettiva».
A Malia sfuggì un ringhio sommesso.
«Ed è una cosa davvero molto dolce e normale» si affrettò ad aggiungere Stiles «e ti prometto che appena ci saranno novità sarai la prima a saperlo. Va bene?».
Malia si limitò a sospirare, certa che Stiles l'avrebbe fatta partecipe delle novità solamente se fossero state positive.
«Un po' di coccole prima di metterci a dormire?», propose lui con un sorriso smagliante.
Malia alzò gli occhi al cielo, gli diede le spalle e spense la lampada sul suo comodino.
«Va bene. È un no. Lo accetto».


________________________
Note Autrice: Prima di tutto: buona festa della mamma! Soprattutto alle donne di questa storia che ormai sono cresciute e hanno  messo su famiglia! :3
Secondo poi, grazie davvero di cuore a tutti voi che avete letto e lasciato una recensione per farmi sapere cosa pensate di questa storia! Spero di non deludervi e che continuerete a seguirmi tutti con lo stesso dolcissimo entusiasmo!

Detto questo, vi informo che il prossimo aggiornamento avverrà il 22 Maggio
!
Grazie

 


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Capitolo 3
*** Capitolo Terzo ***


Terzo Capitolo
 





Respirava a fondo, gli occhi chiusi, la katana salda stretta in entrambe le mani, dritta davanti a sé.
Ogni sua percezione convergeva sull'arma. Tutto era calibrato: l'inclinazione delle braccia, il peso, la stretta attorno all'impugnatura ruvida, l'equilibrio dell'elsa perfettamente parallela al suo corpo.
Un altro respiro profondo e mosse la katana in un unico movimento fluido, preciso, controllato, millimetrico.
Inspirò ancora una volta, profondamente, fino a sentire l'arma parte di sé, un'estremità della propria anima. Proprio come la Volpe che le bruciava il sangue e suonava con maestria le corde della suo essere.
Solo allora aprì gli occhi. Poggiò la punta della lama a terra e si asciugò la fronte imperlata di sudore.
Erano passati molti anni, ma per Kira si dimostrava sempre difficile tenere sotto controllo la Volpe. Vi erano delle volte in cui si sentiva addirittura sopraffatta, tanto da voler urlare a squarciagola pur di liberare quella potenza che le infiammava il cuore. Tutti gli allenamenti che giornalmente eseguiva sembravano non bastare mai.
Si svegliava di notte, con la katana in mano e gli occhi in fiamme, come se fosse pronta per combattere una guerra. E, forse, una guerra la combatteva realmente, giorno e notte, sempre contro se stessa. Ma non le piaceva vederla in questo modo, perché avrebbe voluto dire che perdeva più battaglie di quante ne vincesse.
Uscì dallo scantinato – trasformato in una palestra appositamente per lei da Scott – con l'umore incrinato.
La casa era tranquilla a quell'ora della giornata: Adam e Caleb erano già a scuola, Scott a lavoro e Matty ricadeva in un pisolino sufficientemente tranquillo da lasciarle il tempo di allenarsi abbastanza a lungo da mantenere i propri poteri controllati per il resto della giornata.
Per questo, quando entrò nella camera da letto sua e di Scott, per poco non urlò dallo spavento nel trovarvi quest'ultimo.
Lui rise nel vedere la sua reazione e si affrettò a scusarsi: «Non volevo disturbarti. Pensavo che saresti rimasta più a lungo giù ad allenarti».
Si tolse la camicia e continuò a raccontarle: «Oggi è stata una tragedia lasciare Caleb al nido. Piangeva e non mi si voleva staccare da dosso. Mi ha sporcato tutto di cioccolato».
«Devi smetterla di consolarlo con dei cioccolatini ogni volta che fa i capricci» lo rimproverò Kira, con cipiglio contrariato.
Non aveva mai visto nessuno viziare i propri figli come faceva Scott.
La luce del sole illuminava fiocamente la stanza, penetrando dalle serrande ancora abbassate. Kira rimase a guardare quel gioco di luce e ombra sul petto di Scott e il desiderio la colse impreparata.
Lui se ne era accorto e guardava il viso di lei ancora giovane, su cui gli anni non sembravano trascorrere, con un sorriso seducente. Kira non riuscì a fare a meno di accostarsi a lui e porre le proprie mani su i suoi addominali e le labbra sul suo collo.
Scott la strinse a sé, la baciò con trasporto trascinandola verso il letto.
«Sai, potrei tardare di cinque-dieci minuti» soffiò, contro la sua pelle.
Kira rise, sentendosi tentata a dirgli di sì.
«Sei già in ritardo» gli ricordò, invece.
Scott aggrottò la fronte, assumendo un'aria sconfitta «Okay», cedette, tirandosi su «ma questa sera continuiamo».
Si infilò in fretta una camicia pulita e, prima di uscire dalla stanza si voltò a guardarla un'ultima volta e le disse: «Potrebbe essere il momento giusto per il quarto McCall».
Kira sbiancò, ma Scott non era rimasto a guardare quale reazione avessero scatenato le sue parole; era già corso via, distratto dai suoi impegni, come se l'idea di un altro figlio non fosse poi chissà quale cambiamento importante.
La donna si lasciò cadere sul letto, il volto turbato. Come sempre suo marito parlava senza pensare alle conseguenze delle sue parole.


 
***


Quella mattina Malia si alzò presto e si vestì di tutto punto.
«Lo sai che non serve farlo ogni volta, vero?» le aveva detto Stiles, dopo averle dato un bacio sulla fronte a mo' di buongiorno.
Ma lei non gli diede ascolto. Non lo faceva mai. Indossò un vestito bianco, dai ricami merlettati perché in tutte le foto che l'aveva vista ritratta, la donna indossava abiti del genere e, in questo modo, pensava di farle cosa gradita.
Acquistarono il solito grosso mazzo di fiori e poi, con il braccio di Stiles stretto attorno alla sua vita, entrò nel cimitero di Beacon Hills.
Da quando c'era Malia a occuparsene, i fiori non li rubavano più.
Si inginocchiò davanti alla tomba di Claudia Stilinski e ne pulì la foto con la manica del giacchetto.
Curava il tutto con affetto, come se tra le mani avesse il cuore di suo marito piuttosto che una vecchia pietra fredda.
Stiles la lasciava fare, chiedendosi – il più delle volte – come una cosa che riguardasse così intimamente soltanto lui, potesse essere altrettanto importante per lei.
Si trattenevano sempre solo per pochi minuti, perché poi Stiles doveva correre a lavoro; eppure non importava di che ora fosse, quando i vasi ormai erano stati riempiti d'acqua, i fiori sistemati e Malia si era rialzata, aggiustandosi con impaccio le pieghe di un vestito che non era abituata a portare, Stiles non mancava mai di dire: «Questa volta potremmo andare anche dall'altra parte del cimitero».
Lo proponeva ogni mese, ma nell'altra parte del cimitero riposavano i rimorsi più grandi, quelli che Malia ancora non aveva imparato a perdonare. La vergogna continuava a bruciarle gli angoli degli occhi e le faceva tremare le membra dalla rabbia e dal disprezzo feroce per quel destino che era stato un po' troppo crudele con quella bambina così spaventata da non saper risparmiare neppure le due persone che amava di più al mondo.
Malia non lo sapeva, eppure di fiori freschi ce ne erano sempre anche lì, dove sua madre e sua sorella riposavano, perché seppure lei sentiva il senso di colpa ancora troppo forte per permetterle di inginocchiarsi davanti quella lapide nera e pulire con la manica del giacchetto anche le loro piccole foto scolorite, Stiles aveva bisogno di fargli sapere che vivevano ancora nella memoria di chi le aveva amate. Il matrimonio era anche questo, si diceva Stiles.
Ma quella mattina tutto questo non avvenne. Stiles era distratto, quasi assente, smanioso di andare a lavoro. A stento riusciva a tenere Jamie tranquillo, mentre Malia finiva di sistemare le ultime cose.
Quando il suo cellulare suonò per l'ennesima volta, le passò Jamie dicendole che non poteva proprio tardare oltre e scappò via, senza darle altre motivazioni.
Malia lo seguì con lo sguardo finché non riuscì più a vederlo. Poi rivolse un sorriso tirato a Jamie, il quale si era piuttosto stancato di dover restare tutto quel tempo in braccio ai propri genitori.
«Andiamo a mangiarci un gelato, io e te? Mh?» chiese al bambino, quando un lungo brivido le percorse la schiena e un capogiro la colse impreparata.
Barcollò, riuscendo comunque a restare salda su i propri piedi. Sentì i sensi farsi ovattati e le orecchie fischiare. Persino il volto di Jamie divenne sfocato.
In mezzo a tutta quell'improvvisa confusione, delle parole iniziarono a crearsi chiare nella sua testa, come leggeri sussurri.
«… La Grande Regina».
Si guardò attorno, seppure riuscisse a mettere a fuoco ciò che la circondava a stento, cercando la fonte di quella voce.
Sentì le manine di Jamie toccarle il viso. Forse la stava chiamando, ma lei non lo sentiva.
«Vedrete un mondo che non vi sarà caro…».
Malia strinse più forte Jamie a sé, quando lo vide: una figura sbiadita accanto a un cipresso. Una figura che assomigliava dolorosamente a quella di Deaton.
«Un'età empia…».
Malia iniziò a indietreggiare, ma non poteva sfuggire a quella voce che riecheggiava nella sua testa come un'eco lontano.
«Non guardarlo, il corvo rosso… Sorridi alla Grande Regina».
Per poco non inciampò su di una lapide alle sue spalle, quando tutto sembrò tornare alla normalità. Riprese a vedere e a sentire come se nulla di strano fosse mai avvenuto. Jamie ripeteva senza sosta degli allarmatissimi «Mamma?», ma Malia non poteva tranquillizzarlo, non quando le sue gambe le tremavano tanto e il cuore sembrava scoppiarle nel petto.
Fissò il punto in cui aveva appena visto la figura, ripetendosi che non poteva essere possibile. Deaton era morto. Era morto più di sei anni prima.


 
***


Scott era assorto a guardare le lastre di un paziente, quando un'infermiera entrò con impeto nella sala delle radiografie.
«Mi scusi, dottor McCall», disse con tono scocciato, «ma quelli della Omicidi chiedono di lei».
«La Omicidi?» ripeté, ancora concentrato nella sua occupazione.
«Sì. C'è qui il medico legale, la dottoressa Parrish. Ha chiesto di lei con una certa urgenza».
Scott si riscosse: «Parrish hai detto? Falla aspettare nella sala degli strutturati. Arrivo subito».
L'infermiera annuì senza replicare ed uscì.
Scott si prese un momento. Controllò il telefono, ma non vi trovò chiamate perse né da Kira e né da Stiles.
Lydia aveva di certo i suoi buoni motivi per essere venuta da lui di prima mattina, piuttosto che andare a lavoro, e si rese conto che – per la prima volta – ebbe paura di scoprire quali essi fossero.
Quando raggiunse la sala degli strutturati trovò Lydia seduta su di una poltrona, le mani giunte poggiate sulle gambe le tremavano appena e il suo viso sembrava più pallido e stanco del normale.
«Mi dispiace disturbarti, Scott» disse lei, appena lo vide entrare.
Lui le fece segno che non aveva importanza e prese posto davanti a lei.
«Cosa succede?»
Lydia abbassò lo sguardo e rispose: «Ho già inviato i risultati dell'autopsia a Stiles, ma penso che sia importante che li veda subito anche tu».
Così dicendo tirò fuori dalla valigetta le foto dei particolari del cadavere.
«Guarda le ferite lungo l'addome. Sono piccole, profonde, ma estremamente precise. Tutto il contrario del rozzo squarcio alla gola. Sono state fatte dopo la morte. Le analisi del sangue hanno mostrato delle notevoli alterazioni. La ragazza è stata drogata prima di essere uccisa».
«Sembra quasi trattarsi di una pratica rituale»,
«Esatto», concordò Lydia, come se non aspettasse altro che giungesse a quella conclusione anche lui, «Inoltre, all'interno della trachea, ho trovato un corpo estraneo. Era del vischio, Scott. Dalle ferite superficiali dell'apparato sembra essere stato introdotto con la forza prima del decesso».
«Vischio?», ripeté sbigottito l'uomo.
«Sì, è a tutti gli effetti un sacrificio rituale».
Scott tornò a fissare le immagini, soffermandosi con più attenzione sulle piccole incisioni chirurgiche circolari, poi chiese: «Stiles cosa dice?».
Lydia scosse la testa «Non lo so, sono subito corsa qui da te».
Scott strinse le labbra, grattandosi distrattamente la barba folta. Non sapeva cosa pensare.
«C'è un'altra cosa, Scott... in questi giorni faccio strani sogni...» ma la suoneria del telefonino dell'uomo la interruppe, impedendole di concludere la frase.
«È Stiles» disse Scott, controllando il display, prima di rispondere. Il suo sguardo si fece più serio, quasi antico, mentre ascoltava cosa aveva da dirgli l'amico.
«Okay, arriviamo subito» si limitò a dire, poi attaccò.
Si alzò di scatto e, in risposta allo sguardo interrogativo di Lydia, disse: «Hanno scoperto l'identità della vittima. Era un membro del branco di Brett».


 
***


Quando Scott e Lydia arrivarono alla stazione di polizia, la trovarono tanto in subbuglio che dovettero aspettare un'eternità prima che qualcuno desse loro retta.
Neppure ricordare agli agenti che Lydia era la moglie dello Sceriffo servì a qualcosa: restarono seduti, in attesa per un tempo che gli parve infinito finché finalmente Stiles non venne avvisato del loro arrivo e uscì dall'ufficio di Parrish facendo loro segno di entrare.
«Dov'è Jordan?» chiese Scott, sorpreso, quando trovò solo Stiles seduto alla scrivania dello Sceriffo, e – davanti a lui – Brett, fiancheggiato da altre due donne.
«Non ne ho idea... Oggi non si è presentato a lavoro e non risponde alle mie chiamate», disse Stiles fissando lo sguardo su Lydia in chiara attesa di spiegazioni.
La donna parve imbarazzata nel rispondere: «Si sente poco bene. Nulla di che».
Sia Scott che Stiles inarcarono le sopracciglia all'unisono, increduli, ma nessuno dei due volle insistere sulla questione.
«È scomparso un altro Licantropo» li aggiornò quindi il Vicesceriffo, «e anche questa volta si tratta di un membro del branco di Brett».
Scott fissò lo sguardo sull'uomo in questione: non era cambiato poi molto dal ragazzo che era stato al liceo. Stesso sguardo annoiato, dall'espressione strafottente di chi potrebbe considerare di mera importanza persino un eventuale fine del mondo.
Eppure non era la stessa persona. Un'ombra di oscurità era calata su di lui quando aveva accolto il ruolo di Alpha. Fu Satomi stessa a cedergli il comando quando, oramai troppo anziana e stanca per continuare, aveva preferito abbracciare la morte.
Molti dicevano che il dover uccidere la sua Alpha aveva segnato Brett nel profondo, tanto da renderlo incapace di mantenere il controllo dei propri poteri durante la luna piena.
Da allora il branco sotto la sua guida aveva finito per emarginarsi e tra esso e quello di Scott si era creata una distanza così profonda che tra di loro avvenivano contatti solo di rado e in casi strettamente necessari.
La donna alla destra di Brett prese la parola «Meagan stava ancora imparando a controllarsi» disse decisa e solo allora Scott la riconobbe: era Lori Talbot.
«Ha ricevuto il morso qualche mese fa e, sì, all'inizio non è stato facile, ma per chi lo è?», spiegò Lori, rivolgendosi direttamente a Scott. «Quando è scomparsa – circa una settimana fa – ho creduto che fosse a causa della luna piena. Poi però non è più tornata e abbiamo iniziato a cercarla», guardò suo fratello, scambiando un'occhiata carica di rammarico. «La morte dei suoi genitori l'aveva resa fragile, ma non debole. Era una brava ragazza e tutti le volevamo bene. Eravamo la sua famiglia, non aveva nessun motivo per andarsene. Perciò quando ci è giunta la notizia di un cadavere tra i boschi abbiamo subito capito che si trattava di lei».
L'altra donna, quella alla sinistra di Brett, si sciolse in un pianto sommesso e solo allora Scott notò che, stretta tra le mani, teneva la foto della giovane vittima. Il capo era chino per mantenere il proprio pianto privato e, in un lamento, disse: «E ora anche Thomas è scomparso».
Quindi si asciugò gli occhi col dorso della mano e, nello sporgersi a rimettere la foto nella cartella che conteneva le altre foto delle prove, rivelò un viso butterato da cicatrici piuttosto profonde.
«Chi ha ucciso Meagan ha preso anche Thomas. Dobbiamo trovarlo, prima che sia troppo tardi!»,
«Avete qualche sospetto?»,
«No, ma… il modo in cui Meagan è stata uccisa…» mormorò Brett in un basso ringhio «Non è stato un altro Licantropo».
Scott concordò, annuendo alle affermazioni dell'altro capobranco.
«Sembra mirare ai beta più instabili. Anche Thomas ha ancora difficoltà a mantenere il controllo», aggiunse Lori, «Ultimamente c'è un'aria diversa nella foresta. Qualcosa si sta nascondendo a Beacon Hills», nonostante l'evidente preoccupazione, la sua voce si rivelò ferma.
Stiles scoppiò a ridere: «Non vi sembra di esagerare? Un cadavere e già gridiamo al pericolo?».
Tutti i presenti si voltarono a guardarlo, chi interdetto e chi profondamente offeso.
«Meagan ha perso il controllo durante la luna piena. Forse la sua strada e quella di Thomas Murray si sono incrociate, quella notte. Lei lo ha aggredito e lui si è difeso finendo per ucciderla. Poi quando il cadavere è stato ritrovato non ha più sopportato la situazione ed è fuggito. Può essere un'ipotesi» esplicò Stiles con noncuranza, scrollando appena le spalle.
Dalle labbra di Brett uscì un ringhio indignato per tali accuse ma, prima che potesse dire alcunché, Lydia sbottò: «E tanto per dissimulare ha pensato bene di ficcarle un ramo di vischio in gola, no?», con voce che trasudava sarcasmo.
«Vischio?» le fece eco Stiles.
«Sì», confermò lei, «Non hai letto il referto che ti ho inviato questa mattina?»
«N-non ho avuto tempo», ammise il Vicesceriffo, afferrando la cartellina ancora sigillata davanti a sé, su cui spiccava evidente il bollino di priorità assoluta.
«Si tratta di un sacrificio rituale, Stiles. E se non ci sbrighiamo ce ne sarà un altro».
Lui si alzò, deglutendo a fatica «Scusatemi un attimo» disse, uscendo dall'ufficio.
Lydia lo seguì senza esitazioni, nonostante Stiles sembrasse avere tutta l'intenzione di volere un attimo per sé.
«Solo un minuto, Lydia» disse, infatti, quando se la ritrovò alle spalle.
Si lasciò cadere sulla sedia della propria scrivania con aria esausta.
«Senti, ti conosco: sei preoccupato, lo so e lo capisco. Ma non è il momento per sottovalutare la situazione e fingere che vada tutto per il meglio. Oramai è piuttosto certo che un nuovo essere ostile si stia nascondendo a Beacon Hills e forse un omicidio e un rapimento non sono sufficienti a confermarlo, ma il metodo di esecuzione sì», poggiò le mani sulla scrivania e si sporse verso di lui, rendendo il tono della sua voce più controllato e comprensivo, «Ho davvero bisogno che tu adesso torni ad essere quella persona paranoica e sospettosa che riesce a farci risolvere sempre ogni situazione».
Stiles sbuffò, alzando gli occhi al cielo, ma Lydia non sembrava avere nessuna intenzione di desistere.
«Abbiamo avuto la pace e ce la siamo goduta finché è durata», continuò imperterrita, «Lo sapevamo che non sarebbe continuata per sempre e negare l'evidenza non servirà a nulla. Ho bisogno del mio migliore amico, Stiles».
Forse l'uomo vide in fondo agli occhi di Lydia un tormento sufficiente da fargli comprendere che c'era sotto molto più di quello che le prove lasciavano intendere e di ciò che lui si ostinava a non voler vedere.
Il giorno prima gli aveva detto che forse Jordan le stava nascondendo qualcosa. In quel momento Stiles fu piuttosto certo che anche Lydia non era stata del tutto sincera con loro.
Il Vicesceriffo schiuse il primo cassetto della sua scrivania e tirò fuori la sua copia del Bestiario.
Lo aprì alla pagina desiderata e lo volse verso Lydia.
«Druidi», annuì lei, concordando con la sua intuizione.
«No» rispose Stiles, indicando un sottoparagrafo a fine pagina, «si tratta di un Darach».


 
***


Le ricerche nei dintorni della scena del crimine continuarono fino a tarda sera, ma non diedero nessun risultato.
Scott e Lydia stavano tornando alla macchina, esausti e sconfortati, pur senza darlo a vedere.
«Se sono i Beta ad essere presi di mira non dovremmo avvisare Liam ed Hayden?» Lydia diede voce ai dubbi che stavano assillando Scott da tutto il pomeriggio.
«No... Liam sta ad Amsterdam. Penso che sia il Beta più al sicuro in circolazione. Mentre il College di Hayden dista solo un paio d'ore di macchina. Quando le cose peggioreranno le dirò di tornare, ma fino ad allora è inutile creare allarmismi. Se si tratta davvero di un Darach sarà certamente qualcuno che si nasconde in mezzo a noi».
«Sai proprio come rassicurare le persone, tu» lo prese in giro lei e Scott fu sollevato di vederla sorridere, nonostante tutto.
«L'ultima volta che abbiamo avuto a che fare con un Darach, era stata mandata da Deucalion e ce la siamo dovuta vedere con un branco di Alpha» Lydia tentennò prima di proseguire, «pensi che anche questa volta potrebbe esserci qualcosa di peggio, dietro?».
Scott assottigliò le labbra, poi le cinse le spalle con un braccio, stringendola a sé: «Una cosa alla volta, okay?» rispose, dispiacendosi di poter dire solo parole evasive, prive di alcuna rassicurazione concreta.


 
***


Allie e Jamie disegnavano, tranquilli, seduti l'uno di fianco all'altra. O, per meglio dire, Allie scarabocchiava e Jamie fingeva di imitarla finendo per macchiare più il tavolo che il foglio da disegno.
Malia li teneva sott'occhio dalla cucina, senza farsi notare troppo, mentre preparava la cena.
Era impressionante come Jamie si trasformasse da uno scalmanato – con i fratelli McCall – a un angelo, in compagnia di Allie.
«Zia Malia?» la chiamò quest'ultima, correndo verso di lei e sventolando orgogliosa il suo foglio. Ma quando le fu davanti, si bloccò di colpo, osservandola curiosa con i suoi grandi occhi acuti. Inclinò leggermente la testa di lato e, indicando Malia, chiese: «Perché ti tocchi sempre la pancia?».
Allie aveva soltanto tre anni, ma possedeva già un'invidiabile parlantina e una dote critica non indifferente.
Spesso capitava che Malia assumesse inconsapevolmente la strana posizione che aveva suscitato la curiosità della piccola, quando sentiva leggere fitte al basso ventre: le mani a coppa, sotto la pancia, come a volerla sostenere. Perciò sorrise mesta, quando se ne rese conto: «Claudia inizia a pesare, soprattutto quando si muove», le spiegò e le fece segno di poggiare la mano per poter sentire.
I verdi occhi di Allie si illuminarono a quell'invito, lasciò cadere a terra il foglio e protese entrambe le manine paffute e poi, incapace di resistere, si alzò in punta di piedi per poggiarvi anche l'orecchio.
«La sento!» esclamò, le gote le si imporporarono dall'emozione.
Malia le accarezzò i riccioli rossi, rispondendo: «Vedrai, qualche mese ancora e potrete giocare insieme»
Allie si dimostrò entusiasta a quell'idea.
«Dai, ora fammi vedere cosa hai disegnato» propose Malia, e la bambina si precipitò a raccogliere il foglio da terra per porgerglielo.
Malia sorrise nel guardare gli scarabocchi privi di forme comprensibili: «È molto bello, Allie. Cosa sarebbe?».
Ci pensò su un attimo, poi rispose: «Un uccellino!»,
«Ah! E quale?».
Allie corrugò la fronte, indecisa.
«Un passerotto?» le venne in contro Malia, ma la bambina fece segno di no con la testa.
«Allora una rondine?», ma alla domanda seguì un altro diniego.
Allie si morse il labbro inferiore ed indicò la finestra della sala da pranzo che dava sul giardino posteriore; Malia si sporse oltre la porta della cucina per vedere e trovò, effettivamente, un uccellino che zampettava sul cornicione della finestra.
I lampioncini esterni illuminavano in modo appena sufficiente perché Malia ne potesse riconoscere la forma.
«Un corvo» disse, aggrottando appena la fronte, mentre Allie annuiva esultante.
Malia si avvicinò alla finestra: sul ramo dell'albero di fronte ce ne erano altri. Ma solo quando fu difronte al vetro poté vedere che l'intero albero ne era coperto.





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Note Autrice: Con questo capitolo si inizia a capire contro chi dovrà vedersela il branco di Scott, questa volta! Fatemi sapere cosa ne pensate! Delusi? Sorpresi? In ogni caso, spero di avervi coinvolto a sufficienza! Grazie ancora per tutto il sostegno e le bellissime recensioni che mi avete lasciato!

Il prossimo aggiornamento ci sarà il 29 Maggio
Grazie a tutti

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Capitolo 4
*** Capitolo Quarto ***


 
 
 
Quarto Capitolo


 





«Allison Lorraine Parrish!» tuonò Lydia tanto forte da far tremare le fondamenta della casa. Qualsiasi persona ne sarebbe stata facilmente terrorizzata, ma non sua figlia.
Quando si affacciò nella cameretta di Allie, la bambina le rivolse un sorrisino furbo, accompagnato da uno sguardo zuccheroso.
Lydia si dimenticò quasi all'istante di doverla sgridare, incrociò invece le braccia al petto e, con voce già più calma, disse: «Non hai ancora riposto i giocattoli. E ho trovato pezzi della tua merenda ad ammuffire sotto il divano!».
Allie abbozzò un sorriso che di dispiaciuto aveva ben poco e poi tornò ad imbrattare il suo foglio da disegno con tutti i colori che aveva a disposizione.
Lydia sospirò, chiedendosi tra sé come sua figlia potesse essere anche più testarda di lei.
«Dai, mettiti il giacchetto e andiamo all'asilo. Se non ci sbrighiamo chiuderanno i cancelli».
Allie le rivolse una smorfia, senza accennare a voler lasciare andare i pastelli: «Prima devo finire il disegno», si lagnò, infatti.
Lydia stava per ribattere quando Jordan le venne vicino.
Aveva l'aspetto trasandato, la barba di qualche giorno e indossava una tuta piuttosto logora che Lydia non ricordava di aver più lavato da un bel po'. Sembrava che nemmeno quel giorno avesse intenzione di andare a lavoro.
Una sorta di muro del silenzio li divideva da quando avevano discusso. Non si scambiavano più che qualche parola al giorno: mai erano stati tanto distanti.
Sentì un nodo alla gola nel ricordare lei e Jordan in cucina, lui che urlava fuori di sé mentre i motivi della sua rabbia divenivano per la donna dolorosamente chiari.
Ora Jordan evitava persino di guardarla negli occhi e Lydia non aveva più trovato la forza necessaria per ritornare sull'argomento.
«Lasciala a casa» disse con voce rauca. Sembrava stanco, a un passo dal crollare per il sonno arretrato.
«Ci penso io a lei», assicurò entrando nella cameretta e sedendosi sul lettino di Allie, per tenerla d'occhio mentre disegnava.
La bambina lo seguì con lo sguardo, ma non gli corse in contro per saltargli addosso e abbracciarlo come faceva sempre. Eppure sembrava tranquilla e piuttosto contenta del fatto che avrebbe potuto finire i suoi scarabocchi con tutta calma.
Lydia guardò suo marito, esitante, prima di annuire senza però nascondere la preoccupazione nel suo sguardo.
Si avvicinò a sua figlia per salutarla, la abbracciò e le baciò il viso. Jordan continuava a fissare le spalle di Allie, assumendo uno stato di trance che la fece rabbrividire.
Lydia lasciò la stanza, chiudendo dietro di sé la porta, quando gli occhi di Jordan si fecero di un arancio infuocato.


 
***


Malia, Kira e Lydia si incontravano due volte alla settimana al Caffé di Beacon Hills per fare colazione insieme. Era un'abitudine che piaceva seguire a tutte e tre, una breve pausa dalla famiglia, dalla casa e dal lavoro, ma – soprattutto – una ricorrenza che impediva agli impegni giornalieri di farle perdere di vista. Cosa che – a dispetto delle apparenze – sembrava succedere fin troppo facilmente.
Quando Kira arrivò trovò Malia già seduta al tavolo. Si ostinava a indossare magliette e felpe di Stiles anche per uscire, nonostante sia lei che Lydia le avevano regalato svariati vestiti dismessi delle loro precedenti gravidanze.
Quella mattina indossava una camicia di flanella del marito, quella a quadri rossa e blu che lui metteva dopo il lavoro, quando poteva finalmente togliersi l'uniforme.
Condividere l'armadio era stata la causa del loro primo serio litigio quando erano finalmente andati a convivere insieme: molti degli abiti di Malia si confondevano con quelli di Stiles; per lei non vi era poi tanta differenza, ma lui non era affatto felice di ritrovarsi incastrato dentro magliette cui non riusciva a far passare neppure le braccia.
Mentre aspettavano l'arrivo di Lydia ordinarono un caffé e un succo di frutta e iniziarono a chiacchierare del più e del meno.
Malia cercava di indirizzare la conversazione verso l'omicidio di cui Stiles non le aveva fornito altri dettagli, ma Scott aveva detto chiaro e tondo a Kira che Stiles non voleva farle sapere ancora nulla dei loro sospetti riguardo al Darach, almeno finché non ne sarebbero stati assolutamente certi. Così Kira continuò a mantenersi su un territorio neutrale, nella speranza che Lydia giungesse presto.
«... e poi Stiles si comporta in modo strano. Torna a notte fonda e la mattina è sempre di corsa. Sono giorni che non riesco ad avere una conversazione seria con lui. Ogni volta che provo a chiamarlo scatta la segreteria e ai messaggi risponde sempre con degli stupidi smile. Vorrei strangolarlo!», si lamentò Malia, dato che l'amica non sembrava darle corda.
Kira prese tempo, zuccherando con calma il proprio caffè, poi si limitò a rivolgerle un sorriso comprensivo e, con tutta l'innocenza possibile, tentò di cambiare nuovamente argomento, chiedendole: «Ormai hai quasi terminato il secondo trimestre di gestazione, giusto? Già inizi a sentirti affaticata?».
Finalmente Malia sembrò cedere e, con una smorfia, rispose: «Più che altro mi sento annoiata. Sono appena entrata in maternità e già non vedo l'ora di tornare a lavoro. Non so proprio come tu riesca a stare tutto il giorno in casa: io mi sento soffocare».
Solo in un secondo momento Malia si rese conto di quale espressione avesse assunto il volto di Kira.
Si allungò sul tavolino per stringerle il braccio «Ehi, lo sai che non era una critica, vero?».
Kira annuì: sarebbe stata una sciocca a offendersi per così poco, conoscendo quanta semplice ingenuità viveva dietro le parole di Malia. Eppure non fu capace di mandar giù quel magone che le era salito in gola.
«No, hai ragione tu. È una routine noiosa e spesso claustrofobica, che molte volte faccio fatica a sopportare. Ma poi penso ai bambini e l'idea di perdermi anche un solo attimo di quella routine mi toglie il respiro», strinse le labbra, come se volesse impedirsi di dire troppo. Per un momento pensò che sarebbe stato più facile lasciare che Malia le facesse tutte quelle domande insistenti sull'omicidio.
«Malia, alcune volte penso di aver sbagliato tutto. È arrivato tutto troppo presto» Kira, alla fine, esplose come un fiume in piena che non poteva più resistere entro gli argini, vomitò le paure che si teneva dentro e che la avvelenavano da chissà quanto tempo. Forse perché sapeva che Malia in fondo si era già accorta di qualcosa o forse per il senso di colpa che ormai la divorava o, semplicemente, perché non riusciva proprio più a nascondere quello che sentiva.
«Sono notti che non dormo. Amo Scott e amo i miei figli, ma vedo tutto questo enormemente sbagliato. Invecchieranno e moriranno e io starò lì con loro, ancora giovane, a veder questo succedere. Quale persona vorrebbe ciò? Voi tutti morirete mentre io resterò qui, sola, per altri novecento anni o forse anche di più e... non posso farcela», abbassò gli occhi, perché lo sguardo comprensivo di Malia la faceva sentire anche peggio.
Un singhiozzo sordo la scosse, prima di continuare in un mugugno quasi soffocato: «Adam ha già cinque anni, ti rendi conto? Il tempo sta passando così in fretta, ma non è nulla paragonato a quello che resta a me. Scott ne vorrebbe altri, lo dice tutti i giorni. Oddio, lui metterebbe su un'intera squadra di Lacrosse se potesse», a quel pensiero Kira rise tra lacrime che avevano iniziato a bagnarle le guance senza che se ne rendesse neppure conto, «Ma non capisce che per me non sarebbe crescere dei figli, ma come amare parti di me già morte», la voce della donna si spense con quell'ultima frase.
Malia, nonostante avesse notato da tempo la malinconia in fondo agli occhi scuri di Kira, non avrebbe mai immaginato quali tormenti si celassero dietro e si lasciò commuovere facilmente dalle sue parole.
In quel momento arrivò Lydia, la quale si bloccò sconvolta nel vederle.
Le due amiche si stavano guardando, in lacrime, tenendosi per mano in muto sostegno.
«Ma che diavolo sta succedendo qui?».


 
***


Quella mattina Stiles aveva deciso di tornare nel luogo del delitto da solo. Avrebbe dovuto portare con sé l'agente Jonas, ma la donna avrebbe finito certamente per privarlo della concentrazione necessaria, ponendogli solo domande irrilevanti. Inoltre – a dirla tutta – non sapeva bene neppure lui cosa ci faceva di nuovo lì o cosa esattamente stava cercando.
L'unica certezza che aveva in quel momento era di non voler passare un'altra mattinata chiuso nell'ufficio dello Sceriffo a sbrigare anche il lavoro al posto di Jordan come se nulla fosse.
Prese una lunga boccata d'aria, guardandosi attorno, quando tra gli alberi scorse una sagoma piuttosto famigliare.
Camminava a passo sicuro, spingendo il passeggino sull'impervio sentiero che a malapena si distingueva sul terreno boscoso.
L'aveva notata solo per quello: Malia non riusciva ad essere affatto silenziosa, quando doveva portarsi dietro Jamie.
Stiles la seguì con lo sguardo, dapprima incredulo, poi furioso. Le andò incontro.
Nonostante gli desse le spalle, Stiles sapeva che lei aveva già rintracciato il suo odore e udito i suoi passi dal modo in cui aveva raddrizzato la schiena e dato un passo più dolce al suo incedere.
«Cosa diavolo ci fate voi qui?» sbottò quando la raggiunse.
Malia sorrise, guardandolo con espressione di finta sorpresa: «Una passeggiata. È una così bella giornata!» rispose scrollando le spalle, «Tu, piuttosto, non dovresti essere in centrale? Questo tratto del bosco l'hanno già ispezionato Scott e Lydia e hanno detto di non aver trovato nessuna traccia del Darach».
«E tu che ne sai?», brontolò Stiles in risposta, sentendosi a disagio nell'averla lì.
«Lydia mi ha detto tutto», rispose Malia cercando di assumere l'espressione più innocente possibile.
Ma dato che sembrò non funzionare minimamente su Stiles, alzò gli occhi al cielo e sbuffò: «Oh, andiamo! Non guardarmi in quel modo! Sto solo dando un'occhiata».
«Ti sei portata dietro Jamie!» l'accusò lui, incrociando le braccia al petto.
«Tuo padre non poteva tenerlo e si tratta solo di una passeggiata in un bosco, Stiles» ribatté, tornando a spingere il passeggino «Non puoi pretendere che rimanga chiusa in casa in eterno!».
Stiles la seguì «Potrebbe non essere sicuro. Non abbiamo ancora idea di chi possa essere il Darach e...»
«... e bisogna che tutto il branco sia unito» Malia finì la frase al posto suo, «Lo sai bene, Stiles. Abbiamo già pagato troppe volte per le nostre decisioni sbagliate. Dobbiamo pensare prima ai nostri figli, adesso».
«Ma è proprio a loro che sto pensando!» esclamò, avvicinandosi a lei, «Davvero» confermò, ponendo le mani su i fianchi di lei e lasciando poi leggere carezze sul suo ventre.
«No, invece. L'unica cosa che fai è tenermi fuori. Fai sempre così: ogni volta che qualcosa ti spaventa davvero, ti allontani. Non lo trovo giusto. Non puoi semplicemente restartene sulle tue senza rendermi partecipe di ciò che ti succede» sbottò. «Non più» aggiunse, in un filo di voce.
Stiles abbassò lo sguardo, apparendo realmente ferito dalle accuse di sua moglie. Malia sembrava aver colpito un punto dolente.
«Ehi» mormorò lei, stringendo appena le labbra, pentendosi delle sue parole l'attimo stesso in cui le aveva pronunciate, «Va tutto bene, Stiles. Okay?».
Si avvicinò a lui, posando le mani sul suo viso e Stiles si rilassò sotto il tocco gentile di Malia, chiuse gli occhi godendo di quel leggero contatto ma poi un brivido gli corse lungo la schiena quando – nel riaprirli – si ritrovò a specchiarsi in iridi blu.
Malia strinse le labbra, i sensi visibilmente allerta e lo sguardo scuro.
«Cosa c'è?»,
«Sangue» rispose, corrugando la fronte.
«È impossibile», ribatté lui, «Scott ha detto di non aver sentito niente. Neppure l'odore di Thomas, come se non fosse mai passato per questi boschi».
Malia lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, «Sembra vicino», aggiunse la donna, sorpresa quasi quanto lo era suo marito.
Bastò una semplice occhiata e si mossero: Stiles prese la radiotrasmittente e chiamò rinforzi, Malia ritornò alla guida del passeggino e gli fece strada.
Dopo pochi metri Stiles tirò fuori la pistola d'ordinanza e si accostò maggiormente alla moglie.
«Seriamente?» chiese sarcastica.
«Non si sa mai» la zittì lui.
«Tieni quell'affare lontano da mio figlio»,
«Ho imparato a usare la pistola, Mal. Grazie per la fiducia», disse, agitando inconsapevolmente l'arma nel gesticolare, ricevendo così una delle peggiori occhiatacce di sua moglie.


Camminarono in silenzio per alcuni minuti, Stiles non accennava ad abbassare la guardia rendendo Malia sempre più nervosa.
«Non è da me che ti sto allontanando, Malia» Stiles ritornò al discorso come se fossero ancora nel bel mezzo della discussione.
Intorno a loro si udiva solo il rumore delle fronde degli alberi spostate dal vento.
«Tu lo sai perché preferisco essere sicuro di ciò che sta succedendo prima di parlartene» aggiunse, lanciandole qualche occhiata allarmata, non sapendo bene come avrebbe potuto reagire alle sue parole.
Malia non disse nulla, continuò a seguire la traccia di sangue, ma Stiles sapeva per esperienza che i suoi sensi erano concentrati anche su di lui, sul suo odore e su i battiti del suo cuore.
«Sono passati cinque anni di pace, poi resti di nuovo incinta e la vita non mi è sembrata mai tanto bella. Però poi inizi a stare male per la metà del tempo, quindi ci informano che è una gravidanza a rischio, che probabilmente sarà addirittura difficile farla arrivare al termine. Ma penso "Okay, possiamo farcela. Starà a riposo e tutto andrà bene. La nostra bambina starà bene". E proprio adesso un Druido decide che Beacon Hills sia il luogo più adatto per scegliere le proprie vittime sacrificali».
Si erano fermati, l'uno di fronte all'altro quasi a fronteggiarsi.
«Ho paura, Mal. Semplicemente questo. Ho la sensazione che tutto potrebbe crollare da un momento all'altro. Ogni cosa bella sembra tanto precaria da poter essere spazzata via con una folata di vento. Non sono mai stato così spaventato in tutta la mia vita. L'idea di perdere questo bambino mi terrorizza.
«Forse questo nemico non è interessato a noi e al nostro branco. Ma finiamo sempre per farci coinvolgere alla fine, ed è giusto perché si tratta della vita di persone che devono essere salvate. Andava bene, prima. Ma adesso ci sono i bambini... come facciamo ad essere sicuri che non verranno coinvolti anche loro in tutto questo?»
«Non siamo più dei ragazzini» rispose Malia con voce roca, sebbene ora sentiva chiaro in fondo al cuore lo stesso timore di suo marito.
Si avvicinò a lui, posandogli le mani sul viso «Torturerò chiunque provi anche solo ad avvicinarsi a te e a Jamie», promise e si allungò con il collo per baciarlo. Vide gli occhi di lui farsi opachi e capì che quello che gli aveva appena detto era proprio l'ultima cosa che avrebbe voluto sentire.
Ma durò solo un attimo, poi chiuse le palpebre perché le labbra di Malia erano vicine e rappresentavano sempre un conforto e una tentazione troppo grande per essere rifiutate.
Il modo in cui Stiles la strinse tra le braccia, cingendole le spalle, con una mano poggiata sulla nuca come se le volesse impedirle di allontanarsi, lasciò in Malia una sensazione di perdita.
Quando Stiles le permise di scostarsi da lui quel poco che gli bastava per poterla guardare, qualcosa alle sue spalle catturò l'attenzione di Malia. A Stiles servì vedere la sua espressione mutare per capire che l'avevano trovato.
Malia si assicurò che Jamie dormisse ancora tranquillamente, prima di avvicinarsi al corpo.
Era coperto da alcune foglie secche appena cadute, la pelle violacea e gonfia era sporca di terra; eppure aveva la stessa espressione pacifica della prima vittima, di chi era morto in pace.
«È lui?», chiese conferma e un'ombra scura le rabbuiò il viso. Thomas Murray, il ragazzo scomparso dopo il ritrovamento del precedente cadavere.
Stiles annuì, guardandola di sottecchi.
«Sembra così... piccolo»,
«Aveva quindici anni» confermò Stiles, «Non sarà affatto piacevole dare la brutta notizia al branco di Brett per la seconda volta».
Il rumore di un ramoscello calpestato spezzò il silenzio attorno a loro e un basso ringhio gutturale nacque in fondo alla gola di Malia. Era ancora rivolta verso Stiles, ma il suo viso aveva assunto i tratti del coyote: i suoi occhi brillavano di un blu accecante e i lunghi canini affondavano nel labbro inferiore.
Nello stesso istante in cui Malia aveva ringhiato, Jamie iniziò a piangere.
Stiles si voltò di scatto: una figura, coperta da una lunga veste rossa e con il volto celato da una maschera di legno, era china sopra al passeggino, una pallida mano già protesa verso il bambino. Malia reagì ancora prima che Stiles potesse comprendere quel che stava accadendo e, con un paio di veloci falcate, fu subito addosso alla minaccia. Lo afferrò per la gola e lo gettò a terra, bloccandolo, gli artigli infilzati nella carne del collo. Malia fece per togliergli la maschera, ma lui la bloccò torcendole il braccio e colpendole poi il volto, facendola cadere carponi.
Si alzò quindi da terra, sopraffacendo la donna.
Fu allora che Stiles sparò, colpendo il bersaglio in pieno petto. Eppure la figura non cedette, rimase in piedi come se il proiettile non l'avesse minimamente scalfita.
Ancora interdetto, Stiles non fu abbastanza rapido da sparare una seconda volta. Il nemico fuggì tra gli alberi, rapido come il soffiare del vento.
Stiles si precipitò a prendere in braccio Jamie per rassicurarlo.
«È proprio di questo che parlavo!» le gridò contro Stiles, «Ma cosa ti è passato per la testa? Portare Jamie con te!»
Malia era ancora a terra, pallida in volto e con il respiro affannato. Entrambi respiravano a fatica, come se la paura gli avesse interamente prosciugato l'aria dai polmoni.
«Stava per prenderlo, Stiles» mormorò in un filo di voce «Voleva Jamie. Perché voleva nostro figlio?» gli occhi le si riempirono di lacrime, ma neppure una le solcò il viso.
«È quello che cerco di dirti: non sappiamo ancora nulla!» continuò a gridare Stiles e Jamie riprese a piangere. «Ma tu devi sempre fare le cose di testa tua, senza rendere conto a nessuno! Cosa avresti fatto se...» Stiles si bloccò quando la faccia di Malia si fece ancor più esangue e venne attraversata da una smorfia di dolore. Strinse i denti, contorcendosi su se stessa.
Stiles si precipitò al suo fianco, lasciano a terra Jamie per poterle cingere le spalle.
«Mal?», la sua voce uscì strozzata, quasi stridula «Che hai?».
Malia si teneva con forza il grembo, digrignando i denti per impedirsi di gridare. Gli occhi lucidi di lacrime e arrossati per il dolore, furono ciò che di più sconvolsero Stiles.
Preso completamente dal panico, le aprì le gambe e scoprì una grossa macchia di sangue che andava ad allargarsi e a imbrattare i pantaloni all'altezza dell'inguine. Non vi erano ferite, capì Stiles. Si trattava del bambino.





Angolo Autrice: Chiedo umilmente venia per aver aggiornato con un giorno di ritardo! Purtroppo ieri ho avuto qualche imprevisto e mi è stato impossibile revisionare e pubblicare il capitolo >_< Comunque sia spero che l'attesa sia valsa la pena! Aspetto i vostri pareri riguardo questo capitolo!^^

Il prossimo aggiornamento ci sarà il 10 Giugno

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Capitolo 5
*** Capitolo Quinto ***





Quinto Capitolo






 
«Si tratta di contrazioni isolate. La bambina sta bene» la ginecologa indicò lo schermo dell'ecografo dove i segni vitali del feto erano registrati, mentre con la sonda continuava a premere sul ventre di Malia.
«Ma le è uscito del sangue», obiettò subito Stiles, del tutto incredulo che davvero sia Malia che la bambina stessero bene, «Un sacco di sangue», specificò.
«Può succedere sotto un affaticamento eccessivo. Le contrazioni e il sangue sono segnali che da il corpo per far capire che è al limite. Nel suo caso», disse la dottoressa, rivolgendo un sorriso rassicurante a Malia, «è piuttosto facile che ciò avvenga».
I suoi occhi erano concentrati, ma il sorriso e l'espressione tranquilla ispiravano fiducia sufficiente da far tirare un sospiro di sollievo persino a Stiles.
La dottoressa Redwell era una donna alta e imponente, dai lunghi capelli corvini e lo sguardo deciso. Aveva seguito anche la gravidanza di Jamie ed era lei che lo aveva fatto nascere, così come avrebbe fatto anche con Claudia. Di lei si potevano fidare.
La dottoressa porse a Malia un pezzo di carta per ripulirsi il ventre dal gel e spense l'ecografo.
«Non è un problema, ma potrebbe velocemente diventarlo. Ha quasi concluso il secondo trimestre, la bambina inizia a pesare e con un altro figlio a cui dover badare capisco che sia difficile restare tranquilli, ma dovrà stare seriamente a riposo se non vorrà essere ricoverata».
«Starà a riposo», promise subito Stiles, il quale era rimasto lì impalato come un soldato per tutta la durata dell'ecografia, attento ad ogni singola parola pronunciata dalla dottoressa.
«Prevenire è sempre un bene, ma non dovete preoccuparvi eccessivamente: è uno dei casi di placenta previa più tranquilli che abbia mai seguito».
Fissò i suoi occhi azzurri come il ghiaccio prima su Malia, per poi spostarli su Stiles. Possedeva quella strana dote di comunicare una notizia seria risultando comunque rassicurante.
«Okay, qui abbiamo finito», decretò, «Ah, un'ultima cosa», disse tirando fuori una siringa.
Malia alzò gli occhi al cielo.
«Mi dispiace, signora Stilinski. Lo so che non le piace, ma prometto che farò in fretta».
Stiles guardò dubbioso il liquido bianco all'interno della siringa e chiese: «Cos'è?».
«Ormoni».
Quando la dottoressa ripose la siringa, Stiles abbandonò finalmente la sua posizione rigida e si lasciò andare ad un sospiro di sollievo.
Lanciò una lunga occhiata a Malia «Mi dispiace per aver alzato la voce, prima», disse accostandosi.
La ginecologa si allontanò per lasciare loro un po' di intimità. Finse di sistemare alcune scartoffie sulla scrivania, mentre Stiles aiutava Malia a mettersi in piedi, guardandola con due grandi occhi dispiaciuti e una preoccupazione palpabile in ogni suo gesto, persino nella postura che aveva assunto.
D'un tratto la porta della stanza si aprì e Scott vi entrò di gran carriera. Aveva quell'espressione corrucciata ma sicura che Stiles e Malia riconobbero come "faccia-da-Alpha-preoccupato".
In un paio di falcate affiancò il suo migliore amico e lanciò un'occhiata indagatrice a Malia come se dovesse necessariamente constatare con i propri occhi il suo effettivo benessere.
Malia lo rassicurò con un sorriso incerto, dato che alle spalle di Scott la ginecologa guardava la scena allibita.
«Va tutto bene, amico» gli assicurò Stiles, poggiandogli una mano sulla spalla. Lui lo ignorò e finalmente si rivolse alla dottoressa, la quale non nascose affatto come l'intrusione di un altro strutturato, che non aveva nulla a che fare con la sua specializzazione, la indignasse.
«Voglio vedere la sua cartella», disse Scott, senza mezzi termini, porgendo la mano in chiaro segno di attesa.
«È un famigliare?» chiese lei, a labbra strette.
«No, sono il suo medico».
La dottoressa Redwell chiuse la cartella con la stessa forza che avrebbe utilizzato per sbattergli la porta in faccia.
«Dottor McCall, non mi sembra che lei sia uno strutturato di ginecologia, né un chirurgo neonatale, o sbaglio? Inoltre appare personalmente coinvolto con la signora Stilinski, perciò no, non la renderò partecipe dei miei metodi d'approccio alla cura della mia paziente. Ora è pregato di andarsene se non vuole che il Primario venga informato del suo comportamento».
Dall'espressione di Scott sembrò che avesse appena ricevuto uno schiaffo in piena faccia. Stiles diede una pacca comprensiva alla spalla dell'amico e rivolse un'occhiata imbarazzata alla dottoressa, prima di trascinare via sia lui che Malia e togliere velocemente il disturbo.


 
***


Stiles la aiutò a sdraiarsi e le rimboccò con cura le coperte.
«Stai comoda? Vuoi che ti porti qualcosa da mangiare?».
Malia roteò gli occhi, togliendo qualcuno dei cuscini che Stiles le aveva sistemato tutt'attorno.
«Non sono neppure stanca, Stiles. Non capisco perché debba starmene a letto senza far nulla» protestò, senza riuscire a smuoverlo dalla sua decisione di farla stare a riposo.
«La dottoressa ha detto che non ti saresti dovuta alzare per almeno un paio di giorni, Mal... solo per questa sera. Okay?» le fece promettere e lei non poté far altro che assentire.
Le baciò la fronte e si tirò su; stava per lasciare la stanza, ma Malia, con tono titubante disse: «Siamo dei bravi genitori». Voleva essere un'affermazione, ma la frase di Malia suonò più come una domanda preoccupata.
Ricordava quando all'inizio di bambini Malia non ne voleva proprio sentir parlare. Godiamoci il matrimonio, gli ripeteva. Poi era rimasta incinta di Jamie e a Stiles era servita tutta la persuasione di cui era capace per convincerla che erano pronti, che stavano insieme e insieme avrebbero potuto affrontare qualsiasi cosa. Che non importava chi fossero i suoi genitori, lei sarebbe stata migliore. E ne era sicuro perché Malia sapeva amare con tutta se stessa, in un modo così totale da fare paura. E Stiles lo sapeva bene, perché nessuno era mai stato capace di amarlo come era in grado di fare lei. In un modo semplice, disinteressato, come se non ne potesse farne a meno perché ciò che provava era parte di lei.
«Ottimi genitori!» concordò immediatamente Stiles.
Vide il dubbio annebbiarle lo sguardo e sentì il senso di colpa soffocarlo. Quel giorno avevano sbagliato entrambi.
«Dimmi che non andrai più nella foresta da sola».
Malia alzò le mani in segno di resa e disse: «Sei ufficialmente autorizzato a incatenarmi a questo letto come facevi nel seminterrato della Casa al Lago».
Stiles rise «Sembra eccitante».
E pensò che sì, dopo tutto, non sarebbe neppure stata una così cattiva idea farlo davvero per assicurarsi di farle rispettare la promessa. In fondo, Malia non brillava certo per la sua capacità a starsene tranquilla.


Quando tornò in salotto, trovò Scott e Lydia nella stessa posizione in cui li aveva lasciati: lui seduto sul divano e lei in piedi, con Jamie tra le braccia nel tentativo di cullarlo. Il piccolo piangeva ininterrottamente e Lydia sembrava aver rinunciato quasi del tutto all'impresa di calmarlo.
Non appena Jamie vide Stiles scendere le scale, si sbracciò per tornare tra le sue braccia, aumentando – se possibile – l'intensità delle urla.
Stiles si affrettò ad accontentarlo, spaventato all'idea che Malia si potesse allarmare nel sentire il suo pianto.
Appena Jamie si fu accoccolato contro il suo petto, Stiles si preparò ad affrontare i due amici.
«Avreste dovuto dircelo» lo accusò, difatti, Lydia, senza perder tempo. «Avremmo potuto… ».
Ma Stiles la bloccò sul nascere: «No, invece. Non avreste potuto fare assolutamente nulla. È successo e basta. Non è qualcosa che il suo corpo è in grado di guarire e nulla avrebbe potuto evitarlo», sbottò chiarendo fin da subito che non aveva nessuna intenzione di discuterne con loro.
Lydia si ammutolì all'istante e solo allora Stiles si rese conto di quale tono aggressivo avesse usato contro di lei. Le rivolse un'occhiata dispiaciuta, prima di fare un sospiro e proseguire con più calma.
«Non è questo l'importante per il momento, okay?», si voltò a fissare gli occhi in quelli di Scott e proseguì: «Siamo stati aggrediti. Dobbiamo risolvere questa faccenda. E in fretta anche» nonostante cercasse di mantenere un tono di voce calmo, una nota d'isteria tradì il suo intento e le mani gli tremavano appena nell'accarezzare la schiena di Jamie.
«Ma non ha senso. Perché prendere di mira un bambino?», chiese Lydia con occhi tormentati.
«Credimi, se avesse voluto Jamie l'avrebbe preso. Sembrava più che altro intenzionato ad attirare la nostra attenzione. Come se volesse uscire allo scoperto. Voleva essere visto da noi», rispose Stiles, assottigliando lo sguardo. «Sa come nascondersi e cancellare ogni sua traccia. Il messaggio penso sia chiaro: è lui a condurre il gioco».
«Per ora» aggiunse Scott, masticando le parole.
Il volto di Stiles si rabbuiò nel ricordare l'accaduto. Strinse le labbra, i suoi occhi si fecero distanti.
«Dovevi vederla, nel bosco: Malia si è lanciata all'attacco senza neppure riflettere. È un problema, Scott. Sembra non rendersi conto che adesso ha dei limiti».
«Cosa vorresti dire con questo? Credi che stia perdendo parte dei suoi poteri? Con Jamie non è successo» chiese Lydia.
«Pensi che questa volta sia diverso?» si accodò Scott.
Al tempo, avevano preso in considerazione qualsiasi possibilità, persino che – sottraendo completamente i poteri alla Lupa del Deserto – Malia non avesse subito la stessa sorte toccata a sua madre. Ma la verità era semplice e, in fondo, anche se nessuno l'aveva ancora detto, tutti loro l'avevano già capito: Jamie era umano. Niente poteri, artigli o occhi luminosi. Malia ne era felice, Stiles un po' meno.
Stiles non rispose, eppure il suo sguardo era inequivocabile.
Che alcune mancanze di Malia non fossero solamente la distrazione della gravidanza, Stiles ne era sempre più sicuro.
Quando Jamie riprese a piagnucolare, Stiles si diresse in cucina e mise a scaldare un biberon di latte. Ne approfittò per preparare anche una tazza di caffè per sé e i due ospiti.
Lydia sembrava propensa a dargli una mano, ma Stiles non glielo permise. Era evidente quanto volesse dimostrare che aveva ancora tutto sotto controllo.
Lasciò Jamie nel box a bere il latte, poi raggiunse i due amici già seduti al tavolo della cucina.
Quando prese posto, chiuse gli occhi e tirò un lungo sospiro, ricercando quella calma che sembrava minacciare di abbandonarlo all'improvviso.
Si grattò distrattamente la barba, con sguardo vacuo. Cercò le sigarette nella tasca della giacca, senza trovarle; Malia le aveva buttate tutte e lui non le aveva più ricomprate. Scott e Lydia discutevano animatamente su da dove iniziare a cercare indizi, ma Stiles sembrava non ascoltarli affatto.
Non riusciva a fare a meno di ripensare al bosco e al cadavere di quel ragazzo, a tutto il sangue e a quel mostro che stava per toccare suo figlio. Ma ogni cosa alla fine lo riconduceva sempre là, ogni particolare di quel momento lo trascinava a Malia, a terra, con il volto esangue. E lui impotente, accanto a lei, senza poter far altro che aspettare i rinforzi che, per fortuna, aveva già chiamato.
«Non so come potrà reagire alla perdita parziale dei suoi poteri, adesso che siamo minacciati da un Darach», parlò piano, ma fu sufficiente perché i due amici tacessero all'istante.
Stiles si stava torturando le dita delle mani abbandonate sul tavolo, accanto alla tazza di caffè fumante e ancora intatta.
«Oggi, quando il Darach stava per prendere Jamie, c'è stato un attimo in cui ho creduto che Malia lo avrebbe ucciso senza pensarci troppo. Quell'espressione… non ne ho mai vista una simile sul volto di Malia. Ma poi il Darach ha reagito e l'ha colpita. L'aveva sovrastata e le stava per fare ancora del male e ho capito che quello pronto a uccidere ero io. E ci ho provato, avrei continuato a sparargli se solo fosse servito a qualcosa o se non fosse fuggito via».
Stiles adesso guardava Scott come se – con quelle parole – lo stesse profondamente deludendo, ma negli occhi dell'amico si poteva leggere solo tutta la comprensione del mondo.
«Non credo di essere pronto a questo. A doverla proteggere. È lei quella che combatte, non io».
«Non sarebbe la prima volta che lo faresti. Proteggerla, intendo» gli fece notare Lydia.
«Già e come è finita in quei casi? Malia che si espone più del necessario finendo quasi per farsi ammazzare, perché puntualmente io rimango ferito e lei perde la testa. Non ho superpoteri, artigli o forza bruta. Ho solo una pistola e sembra che in questo caso persino questa sia inutile» provò a mascherare l'amarezza di quelle parole sotto un tono di finto sarcasmo.
Ma non si trattava più del solito Stiles che cercava di prendere i momenti difficili in modo leggero. Era più uno Stiles con i nervi a pezzi.
Scott gli poggiò una mano sulla spalla «Okay, ora calmati però».
Prima che Stiles potesse ribattere, anche Lydia gli venne incontro.
«Hai detto che indossava una maschera, giusto?» chiese, prendendo carta e penna, «Sapresti descrivere come era fatta?».
Stiles annuì, sporgendosi verso l'amica per poter guardare meglio il foglio e seguire i tratti che Lydia già stava disegnando.
«Era una maschera in legno. Levigata, in modo da riprodurre i lineamenti di un viso femminile, con l'unica anomalia delle labbra poste solo in un lato della faccia».
Lydia seguì la descrizione attentamente, riproducendola quasi alla perfezione.
«Potremmo iniziare le ricerche da qui. È un punto di partenza» disse la Banshee, rivolgendo un sorriso incoraggiante a Stiles.
Poi gli pose una mano sulla sua e la strinse «Andrà tutto bene. Supereremo anche questa».
«Domani inizieremo con i libri che abbiamo a disposizione, vedrai che scopriremo di che si tratta e fermeremo il Darach in tempo».
L'ottimismo di Lydia non rese affatto Stiles più tranquillo. La guardò, senza ammettere che quelle parole gli sembravano più una condanna a morte certa e si limitò ad annuire per accontentarla.
Poi, grattandosi distrattamente la testa, ammise: «Sì, bhe, credo proprio che io inizierò questa sera. In ogni caso non credo che riuscirei a pensare ad altro».
Scott aggrottò la fronte e disse: «Facciamo così: ordino una pizza e iniziamo a consultare i libri di storia celtica che hai qui a casa. Che ne dici?»
Stiles gli sorrise e per un attimo sembrò tentato di dirgli di sì. Loro due come ai vecchi tempi: montagne di libri da consultare, discorsi insensati e una pizza enorme al salame piccante, pronti ad affrontare la prossima minaccia soprannaturale come se tutti quegli anni di pace non fossero mai trascorsi.
«Torna a casa da Kira, Scott. I bambini vorranno stare con te», disse, invece. Ammiccò a Jamie, crollato da un pezzo all'interno del box «Noi due ce la caveremo anche da soli».


 
***


Una volta usciti da casa Stilinski, Scott fece per salutare Lydia, ma la donna lo fermò.
«So che è tardi, ma… ho davvero bisogno del tuo aiuto»,
«Che succede?»,
«Si tratta di Jordan» rispose Lydia con voce grave, «mi ha chiesto di non dirti nulla, ma non posso semplicemente ignorarlo. È sconvolto, Scott. Sono giorni che non si presenta a lavoro. Si è rinchiuso dentro il suo studio ed esce solamente per controllare Allie. Con me non vuole parlare, ma non può continuare così…».
Scott poggiò entrambe le mani sulle spalle della donna. «Okay, Lydia, non ti agitare. Ci penso io, va bene?».
La donna annuì. Sembrava esausta, il suo viso era sempre pallido ultimamente, segnato da occhiaie gonfie.
Con un messaggio avvisò Kira che avrebbe ritardato ulteriormente e, insieme a Lydia, si diressero a casa di lei.
Quando Scott bussò alla porta dello studio di Jordan, non ricevette risposta, eppure entrò ugualmente, con circospezione, senza attendere il suo invito.
Lo trovò seduto alla scrivania, il capo abbandonato sullo schienale della poltrona. Dormiva e sembrava sfinito persino nel sonno.
Scott tentennò prima di decidere di voltarsi e lasciare che continuasse il suo riposo, quando Parrish si destò.
«Cosa ci fai qui?»,
«Lydia» si limitò a dire Scott, sapendo che come spiegazione sarebbe stata più che sufficiente.
L'espressione di Jordan si fece quasi insofferente, si massaggiò la base del naso e gli rivolse un'occhiata gelida come se Scott fosse un estraneo e non l'amico con cui trascorreva il Natale e le vacanze estive.
Scott si sedette su una delle poltrone, sembrava cercare le parole giuste, ma poi disse semplicemente: «Vuoi parlarne?».
A quella domanda gli occhi di Jordan si arrossarono.
Scott era sempre stato l'adulto del branco, sin da adolescente. Era un Alpha, un leader e aveva sempre dovuto dimostrare di poter essere all'altezza di ogni situazione. Era stato un uomo nel corpo di un ragazzo per lungo tempo e, adesso che era divenuto un uomo, Jordan ebbe l'impressione di avere dinanzi a sé un anziano patriarca a cui poter affidare i problemi più insormontabili.
Nonostante Jordan fosse più grande di lui, non aveva mai sentito la differenza di età quando si trovava in compagnia di Scott. Erano alla pari.
Ora però, i ruoli sembravano essersi capovolti: lui assomigliava ad un'adolescente spaventato sotto lo sguardo preoccupato di Scott e non riusciva a superare quanto questo lo imbarazzasse.
«Non proprio», mormorò.
«È scomparso un altro ragazzo. Thomas Murray. Stiles si sta facendo carico anche del tuo lavoro, ma i federali iniziano a stargli addosso. Vorrebbero parlare con lo Sceriffo, non con il suo Vice».
Jordan rimase in silenzio, lo sguardo basso carico di senso di colpa.
«È piuttosto frustrante, in effetti, non riuscire a trovare neppure una traccia da poter seguire. Come se questo Darach non avesse odore. Ha attaccato Malia e Stiles oggi, eppure Malia non ha sentito nulla. Sai, capisco fin troppo bene il bisogno di chiudersi dentro una stanza e lasciare fuori il resto del mondo, ma non credo che si rivelerebbe una tattica vincente, a lungo andare».
Gli occhi di Jordan si fecero lucidi e sembrò provare a resistere alla tentazione di piangere. Un uomo non piange, soprattutto non davanti a un altro uomo.
«Era morta, Scott. Allie… la mia bambina. Morta tra le mie braccia. Ogni volta che chiudo gli occhi sento ancora il suo corpicino freddo e inerte rannicchiato contro il mio petto».
Un singhiozzo strozzato gli fece morire in gola la frase. Deglutì, respirando a fondo, prima di poter continuare, ma fu Scott a venirgli incontro: «E il giorno seguente in ufficio ti attende un caso di omicidio».
Annuì distrattamente, comprendendo quanto fosse stato facile per Jordan crollare in quel modo.
«Ho visto tante cose terribili, tante morti. Ma questo… non sarò mai abbastanza pronto per questo»,
«E non dovrai esserlo» gli promise l'amico


 
***


Jordan entrò nella camera da letto sua e di Lydia con occhi bassi. In piedi sul lettone, Allie saltellava e si rotolava, mentre guardava alla TV il dvd della Sirenetta.
«Allie, mettiti giù, potresti cadere» la ammonì Jordan, ma la bambina non sembrava volergli dare retta.
«Dov'è mamma?» chiese allora e Allie, intenta a cantare le canzoni del cartone, si limitò a indicare la porta del bagno.
Lydia stava davanti allo specchio del lavandino; era appena uscita dalla doccia e aveva solo il telo da bagno a coprirle il corpo.
«È stato un colpo basso quello di coinvolgere Scott», disse Jordan, restando sulla porta del bagno.
Lydia non si girò nel sentire la sua voce, bensì gli rispose guardandolo dal riflesso dello specchio.
«Però ha funzionato, no?», disse. Non sembrava preoccuparsi poi molto della promessa infranta.
Jordan corrugò la fronte a quella risposta.
«Sei qui. Vuoi parlare» inclinò di poco la testa e lo guardò con la coda dell'occhio e aggiunse «Finalmente».
Jordan entrò nel bagno, fermandosi a pochi passi dalle sue spalle.
Alzò le mani per poggiarle sulle sue spalle nude. Avrebbe voluto accarezzarla, toccarla, ma non lo fece. In quegli ultimi giorni, ciò che gli mancava di più era il contatto con sua moglie.
«Ho perso letteralmente il controllo, Lyds. Mi dispiace. È stato troppo da sopportare. E non potevo farti questo. Avrei dovuto dirti fin da subito cosa ho visto, ma non tolleravo l'idea di ferirti a tal punto»
Gli occhi di Lydia si fecero umidi, ma si forzò di mantenere un'espressione controllata.
Jordan le si accostò e il suo petto aderì alla schiena nuda e ancora bagnata di lei. Le cinse la vita con le braccia e poggiò il mento sulla sua testa.
«I morti che vedo nei miei sogni sono causa mia», mormorò con voce rotta «è così che mi sento mentre li trasporto tra le braccia, avvolto dalle fiamme. E quella notte stringevo Allie, così…»
«Non succederà» lo interruppe bruscamente Lydia. In fondo alla sua voce fu ben udibile una chiara nota di disperazione.
La foga con cui lo disse era allarmante. Si districò dall'abbraccio impacciato di Jordan, per voltarsi e guardarlo negli occhi.
«Non succederà» ripeté, con il respiro affannato di chi non aveva più aria nei polmoni.
Tremava appena, Jordan se ne accorse solo perché oramai la conosceva e sapeva cogliere ogni suo più piccolo particolare.
Si chinò per poggiare la fronte contro quella di Lydia. Chiuse gli occhi e inspirò il suo profumo.
Solo lei riusciva a dargli quel senso di chiarezza necessario. Ad ancorarlo alla ragione anche quando tutto sembrava non avere più alcun senso.
Ma quell'attimo di distrazione gli costò caro.
Jordan cadde in ginocchio, gli occhi persi mutarono in quelli del Mastino Infernale. Persino i tratti del viso si guastarono e dalle labbra apparvero denti affilati.
«Jordan?» fece Lydia, chinandosi su di lui. Lasciò carezze leggere sul suo volto, ma lui non la sentiva. Non era più con lei, in quel momento.
Il cigolio della porta catturò l'attenzione di Lydia e vide Allie, lì impalata a fissare la scena.
Aveva già visto prima gli occhi di suo padre cambiare improvvisamente colore, ma mai si era ritrovata faccia a faccia con il Mastino Infernale.
Il piccolo viso sembrava terrorizzato, gli occhi chiari spalancati, enormi.
«Papà?» chiese con vocetta acuta, come se faticasse a riconoscerlo in quello stato che, a tutti gli effetti, era più simile a un mostro.
Accennò un passo, senza riuscire a togliere gli occhi da suo padre.
«Aspetta, Allie!» la ammonì Lydia, ponendo il braccio avanti, come se così facendo potesse proteggerla anche da quella distanza. Ma la bambina ignorò l'avvertimento e si piantò davanti a Jordan.
Lo scrutò velocemente, con quei suoi occhi intelligenti, di un verde chiaro proprio come erano quelli di suo padre, poi con quella sicurezza tipica dei bambini, pose le mani sulle sue guance e si sporse per baciargli il viso, incurante di zanne e occhi spaventosi.
Un gesto così dolce che fece commuovere Lydia, tanto che le lacrime che aveva trattenuto a stento in quei giorni le solcarono il viso, copiose.
Ancora in trance, Jordan mosse le labbra, sussurrando parole che Lydia non riuscì a cogliere, finché Allie non lasciò andare il suo volto e allora quei sussurri divennero parole comprensibili.
«Un corvo rosso» annaspò Jordan, come se gli facesse fatica anche solo parlare.
«Cosa?» chiese Lydia, tremando nel ricordare tutti i sogni che stava facendo in quelle notti. Prese in braccio Allie, percependo l'improvviso impulso viscerale di tenerla al sicuro da una minaccia che sembrava sempre più evanescente.
«Un corvo rosso ci sta fissando».




Angolo Autrice: Prima di tutto vorrei ringraziare tutti quanti voi per aver letto e recensito, per seguire questa storia con così tanta passione! Davvero, siete meravigliosi! Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto! Secondo voi come reagirà Stiles a questa nuova minaccia?



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Placenta previa: è una situazione in cui la placenta si inserisce nella parte bassa dell’utero, andando a coprire in parte o interamente l’orifizio uterino. Provoca sanguinamenti vaginali abbondanti e spesso anche immotivati. Aumenta la probabilità di un distacco della placenta.

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Il prossimo aggiornamento avverrà il 24 Giugno




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Capitolo 6
*** Capitolo Sesto ***




Sesto capitolo


 
 
Malia era seduta al tavolo della colazione. Davanti a lei, Stiles trafficava tra i fornelli e il frigo, intento a preparare i pancakes.
Non ricordava neppure l'ultima volta in cui lui si era fermato per fare colazione insieme a lei, da quando aveva ricevuto la promozione di Vicesceriffo. Eppure eccolo lì, a mescolare la pastella e spremere arance, come se lo facesse tutti i giorni.
«Mal? Malia, mi senti?» solo in un secondo momento Malia si rese conto che Stiles le stava parlando.
Si era fermato a guardarla, con il mestolo in una mano che gocciava sulle piastrelle del pavimento, scrutandola con attenzione.
«Ti senti bene?» chiese ancora.
Malia annuì, smettendo di toccarsi il ventre che aveva iniziato a massaggiare senza neppure rendersene conto.
«Non sei venuto a letto, questa notte» mormorò, mettendo in bocca un pezzo di pancacke. Non voleva suonare come un'accusa, ma il suo tono risentito non lasciava presupporre diversamente.
Stiles si grattò la testa con aria distratta «Non avevo molto sonno. Ho preferito approfittarne per leggere un po'».
A Malia la notte non era mai sembrata tanto lunga, senza Stiles accanto.
«Scoperto qualcosa di interessante?», chiese, sforzandosi di mantenere un tono distaccato.
«Direi di no… Niente Darach fanatici di mantelli rossi o di maschere inquietanti».
Il Darach. Quella notte era stato più volte ospite sgradito degli incubi di Malia, aveva perso il conto di quante volte si era svegliata nel cuore della notte, il respiro affannoso e la mano che vagava nel letto vuoto alla ricerca del corpo di Stiles. Si era alzata quando mancavano solo poche ore all'alba, per assicurarsi che Jamie stesse bene, che il sangue e le urla erano esistite solo nella sua testa.
Li aveva trovati in sala da pranzo: Stiles seduto a tavola, il capo abbandonato su uno dei libri che stava consultando, mentre Jamie dormiva beatamente nel suo box, ignaro di quale ansia si agitasse nel cuore dei suoi genitori.
Sentendosi una sciocca, Malia si era avvicinata al bambino per sentirlo respirare, nonostante udisse chiaramente i battiti regolari del suo cuore.
«Puoi dirmi cos'hai?» le chiese Stiles con voce seccata nel rendersi conto che Malia non lo ascoltava già più.
Malia se ne sorprese: «Non ho nulla», rispose sforzandosi di rivolgergli anche un sorriso, «te l'ho detto».
«Conosco quell'espressione. Tu hai in mente qualcosa».
Stiles assottigliò lo sguardo nell'accusarla e Malia preferì quindi sviare il discorso.
«Non stai facendo tardi a lavoro?».
«Ho preso una giornata di permesso»,
«Tu non prendi mai giornate di permesso»,
«Perché non ce n'è mai stato bisogno».
Malia alzò gli occhi al cielo ma prima che potesse replicare Stiles disse: «Mangia tutto quanto, Mal. Okay?».
Lei accennò un sorriso, questa volta più sincero, e lo guardò divertita.
«Va bene, cos'hai tanto da ridere?», sbuffò lui, guardandola di traverso.
«Il prossimo passo è sederti a tavola e imboccarmi?» lo sbeffeggiò con un sorriso felino.
Stiles le puntò il mestolo contro, lanciando pastella ovunque «Non mi far sentire ridicolo solo perché mi sto preoccupando. Lasciamelo fare e basta, d'accordo?», brontolò, imbarazzato.
«Mi piace. Tu che ti preoccupi così, mi piace»,
«Certo che ti piace. Sono un ottimo cuoco. E, al contrario tuo, non faccio bruciare nulla»,
«Saresti una casalinga fantastica» concordò lei.
Stiles sembrò felice nel sentirla scherzare in modo così tranquillo. Le si accostò per poterle lasciare una carezza tra i capelli e azzardò: «Stavo pensando che oggi potremmo starcene un po' per conto nostro. Guardarci un film e ingozzarci di gelato. Solo tu e io», propose con un sorriso piuttosto persuasivo.
«Potremmo sentire se mio padre o il tuo possono tenere Jamie per qualche ora, mh?».
Malia aggrottò la fronte «Ma poi salterebbe il programma del venerdì. La scorsa settimana Jamie è stato con tuo padre e questo venerdì è il turno del mio. Ma se il tuo lo tiene oggi ce lo avrebbe per due settimane di fila, oppure mio padre…»,
«Okay, fermati» la bloccò Stiles, «lo chiederemo a Kira, così non salterà nessuno dei tuoi programmi».
Si rivolse a Jamie, arruffandogli i capelli e lanciandogli un occhiolino «Vuoi andare dalla zia Kira? E giocare con Adam e Caleb?».
Jamie gli rispose con una smorfia e Stiles cercò di sorvolare su quanto lo sguardo contrariato di suo figlio assomigliasse in modo inquietante a quello di Malia, in quel momento.
Si rivolse nuovamente a sua moglie con entusiasmo: «Visto? Non vede l'ora».


Gli era bastato guardare in faccia Malia meno di un secondo per capire che quel giorno Jamie non si sarebbe mosso da casa.
Aveva insistito per guardare la trilogia di Batman. Quei film piacevano anche a Malia, ma non erano passati neppure i primi dieci minuti che Jamie aveva preteso di nuovo i suoi cartoni animati preferiti.
Così Malia e Stiles se ne stavano abbracciati a mangiare gelato e a guardare i Bubble Guppies e discutere per l'ennesima volta del perché ci fosse un cane con la coda di pesce e non un semplice pescecane.
Ogni tanto il telefono di Stiles squillava ma, anche se controllava chi fosse, finiva sempre per ignorare la chiamata.
Jamie sembrava entusiasta di avere entrambi i genitori a casa e passava metà del tempo sul divano, accoccolato su Malia o sul tappeto a lanciare i giochi addosso a Stiles.
«Neppure lo sta guardando questo stupido cartone» brontolò Stiles e Malia rise, dandogli un colpetto sul petto col dorso della mano.
Di nuovo la suoneria del telefono squillò, ma questa volta non si trattava di quello di Stiles.
«Pronto?» rispose Malia, ignorando le proteste di suo marito. Era Lydia e Malia non ignorava le chiamate del branco.
«Finalmente!» sbuffò la Banshee dall'altro capo del telefono «Passami Stiles».
Sembrava piuttosto agitata, perciò Malia fece come le aveva chiesto senza replicare.
Stiles roteò gli occhi, prima di afferrare il cellulare e rispondere. Ma Lydia non gli diede il tempo di spiccicare mezza parola.
Malia la sentì parlare rapida, seppure non riuscì a cogliere ciò che gli stava dicendo. Vide solo il volto di Stiles cambiare espressione. Si alzò dal divano e si limitò a dire: «Sì, arrivo subito».
«Cosa succede?» volle sapere Malia.
«Nulla di che…» disse, ma un'ombra gli oscurò il viso.
«Stiles…» sospirò la donna, seguendolo per il salone mentre raccattava la giacca della divisa e la fondina con la pistola.
«Hanno trovato un altro cadavere», si voltò a guardare Malia, ponendo le mani sui suoi fianchi «non so altro. Davvero. Questa sera prometto di raccontarti ogni cosa».
Malia annuì, abbassando gli occhi a terra e Stiles la lasciò andare.
«Porto Jamie da mio padre» decretò, cercando di usare un tono che non ammetteva discussioni.
Inaspettatamente Malia si trovò d'accordo «Allora ti preparo la borsa con i giochi e il cambio».
Stiles assottigliò lo sguardo, sentendo che qualcosa non quadrava, ma non aveva tempo per preoccuparsi di cosa passava per la testa di Malia in quel momento.




 
***


Scott si precipitò all'ingresso e si infilò in fretta e furia la giacca.
Kira gli corse dietro, con Matty in braccio, senza sapere il perché di quella improvvisa fretta.
L'attimo prima Scott era sdraiato per terra a giocare con i bambini, lasciando che gli saltassero addosso e lo aggredissero con il solletico e piccoli morsi, e l'attimo dopo ogni minima traccia di serenità sul suo volto era scomparsa.
«Cosa succede?» chiese, cercando – con i suoi – gli occhi sfuggenti del marito. Avrebbe preferito limitarsi a seguirlo ovunque stesse andando, piuttosto che doversi accontentare di porre solo delle domande. Il desiderio di mettere mano alla katana in quel momento era così forte che sentiva la palma formicolare e la volpe dentro di sé agitarsi.
«Hanno trovato il corpo di un'altra vittima nei boschi. Sto andando da Lydia», disse aprendo la porta d'ingresso, pronto a scappar via se non fosse stato per la persona che si ritrovò dinanzi.
Lydia si trovava ferma sotto al portico di casa McCall, lo sguardo vacuo e i capelli spettinati.
La giacca le pendeva dalle spalle, scomposta, come se fosse stata sul punto di togliersela ma poi se ne fosse dimenticata.
Si dondolava appena su se stessa, bisbigliando piano.
Kira sentì il sangue gelarsi nelle vene. La volpe si dimenava, ringhiando. Sapeva cosa sarebbe accaduto di lì a pochi secondi.
Scott varcò la soglia, muovendosi cauto.
«Lydia?», la chiamò con gentilezza.
La Banshee si voltò di scatto nella sua direzione. Lo guardò, senza vederlo realmente, con occhi di pietra; prese fiato ed urlò.


«Raccontami ciò che hai visto».
Anche se il tono di voce di Scott sembrava stanco, la rassicurazione nei suoi occhi non mancava.
Kira aveva preparato un paio di tazze di caffè e li aveva lasciati soli a parlare, seduti al tavolo della cucina.
Lydia fissava la propria tazza, ma con il pensiero era distante.
«Lydia?» la chiamò ancora Scott e una nota di impazienza tradì il suo tono solitamente calmo.
La donna raggrinzì le labbra e si sforzò di alzare lo sguardo sul suo interlocutore. Poi fece un respiro profondo e prese la parola.
«È da un po' che volevo parlarti di un sogno ricorrente. Non credevo fosse importante, perché non si tratta delle solite visioni da Banshee…»
Scott poggiò appena le labbra sul bordo della sua tazza e assaggiò la bevanda calda, mentre ascoltava ciò che aveva da dirgli l'amica.
La donna serrò le labbra sconfortata e picchiettò distrattamente con le unghie sulla tazza.
Sembrava trovare difficile continuare a parlare.
«Cielo, Kira fa proprio un caffè tremendo» commentò Scott per riempire quegli attimi di silenzio, dopo aver dato una seconda sorsata.
Lydia sorrise; si sistemò meglio sulla sedia cercando di calmarsi. In fondo si trovava a casa di Scott e non esisteva luogo in cui si sentisse più al sicuro.
«Sembrava un sogno premonitore, come se qualcuno cercasse di avvisarmi. Non saprei come altro definirlo», continuò, sentendo lei stessa quanto quelle parole sembrassero assurde.
«Un messaggio? Perché un nemico dovrebbe avvisarci?»
Lydia scrollò le spalle «Potrebbe non essere da parte del Darach».
Scott aggrottò la fronte e annuì, fingendo che tutti quei fatti sconclusionati avessero senso.
«Hai detto che questo sogno ti ha scossa» la invitò a continuare.
«Eravamo in sei nel sogno, Scott: io, te, Jordan, Kira, Malia e Peter Hale».
«Peter Hale?» ripeté l'uomo, accigliato.
Lydia annuì, «Tutti in silenzio. In un silenzio di pace. Tranne Malia. Lei era accasciata a terra, piangeva» la voce di Lydia si ruppe nel ricordare quel particolare «ed era completamente sporca di sangue, Scott. I vestiti, le mani, il viso, persino il pavimento ne era coperto».
Scott tacque a lungo, poi disse: «Pensi che sarà la prima?».
«La domanda è: prima a cosa? Ne sappiamo ancora così poco…»,
«Perché non ne hai parlato con loro?»,
«Malia è incinta, non posso darle un pensiero simile» rispose lei con tono incerto.
«E Stiles?»,
«Scherzi? Lui sì che darebbe di matto. Diverrebbe paranoico... ed è già sulla buona strada per diventarlo senza che io gli dia la spinta finale».
«Sì, hai ragione».
Il volto di Scott era ancora corrucciato, ma non dipendeva da ciò che gli aveva appena raccontato Lydia. La donna tentennò, prima di trovare il coraggio per chiedergli cosa ci fosse che non andava.
«Tu» rispose schietto l'Alpha «Sei tu a non andare, Lydia. Sai delle cose ma continui a nasconderle. Persino a me. Pensavo che fosse solo una delle solite paranoie di Stiles, ma credo che invece lui abbia ragione. E non sto parlando di questo sogno» sbottò.
«Non so di…» provò a difendersi Lydia, ma Scott non le fece neppure finire la frase.
«Sei venuta fin qui, davanti casa mia, senza neppure rendertene conto. E ora mi vuoi far credere di non aver visto nulla?».
Gli occhi di Lydia si riempirono di lacrime.
«Te l'ho già detto, Scott. C'era solo buio intorno a me».
Scott sbatté un pugno sul tavolo «Smettila di mentirmi!» gridò.
Lydia serrò gli occhi e allora le lacrime le rigarono il volto.
«C'era un bambino» mormorò con voce rauca, «correva davanti a me e io l'ho seguito. Quando finalmente sono riuscita a posargli una mano sulla spalla, mi sono ritrovata qui fuori, davanti a te e a Kira».
«Chi era il bambino?» domandò Scott a denti stretti.
Lydia singhiozzava sommessamente, «Non lo so, Scott. Non gli ho visto il volto», balbettò.
«Lydia…», ringhiò l'Alpha.
«Non aveva il volto. Era un bambino senza volto, Scott! Un bambino senza occhi, né bocca. Un bambino morto».
«Ti ha portata qui. È uno dei miei figli. Dimmelo, Lydia. Dimmi chi era di loro»,
«Non lo so».
«Maledizione, eri presente il giorno in cui sono nati! Ti occupi di loro, li stai vedendo crescere. Ti chiamano zia! Dimmelo» gridò Scott e i suoi occhi si accesero di rosso.
«Adam» mormorò Lydia, in un filo di voce.


 
***


Si fermò davanti all'alto cancello nero e restò lì impalata a fissarlo. Tutti quegli anni non erano riusciti a cancellarle da dosso l'orribile sensazione che riusciva a darle quel posto.
Malia varcò l'entrata di Eichen House, stringendosi di più nella felpa di Stiles. Rabbrividì al solo pensiero di quanto l'uomo avrebbe potuto dare di matto se solo avesse saputo che lei si trovava lì in quel momento. Quando Malia entrò nell'edificio, attraversò l'atrio dell'ingesso e si diresse verso la guardiola dove un infermiere stava seduto scomposto alla scrivania intento a leggere un fumetto.
Nonostante avesse bussato contro il plexiglass, il ragazzo non diete segno di averla vista né sentita.
«Mi scusi? Sono qui per una visita» disse, picchiettando ancora la superficie trasparente.
Il ragazzo masticava annoiato la gomma, finì di sfogliare le ultime pagine e solo dopo aver chiuso il fumetto alzò gli occhi su Malia.
Sul taschino del camice azzurro, Malia notò la targhetta con il nome: Lucas Reed.
L'infermiere Reed aprì lo sportello della guardiola e, con voce annoiata, disse: «Solo i famigliari possono visitare i pazienti».
«Sono la figlia» rispose impassibile Malia, tirando fuori un documento.
Il ragazzo lo prese e lo analizzò con attenzione, poi glielo restituì con un sorrisetto scaltro e una curiosità che riuscì ad accendere i suoi occhi spenti.
«Sotterranei, uhm?» la guardò, finalmente interessato, e si sbrigò a prendere la chiave elettronica.
«Mi segua».


Più scendevano i piani e più Malia sentiva di star facendo qualcosa di cui si sarebbe certamente pentita. Ma il suo passo sicuro e lo sguardo deciso non lasciavano intravedere neppure il minimo sentimento di timore che si agitava in lei.
Eppure, quando arrivarono alla porta dietro la quale si trovava il reparto in cui venivano rinchiuse le creature soprannaturali, la donna si dovette fermare un attimo.
«Da quanto hai detto che lavori dentro questo posto, Lucas?» chiese Malia, prima che il ragazzo potesse aprire la porta.
Non l'avrebbe mai ammesso, ma fare tutte quelle scale l'aveva affaticata e aveva bisogno di riprendere fiato. Per quanto fosse difficile, doveva accettare il fatto che non era più al pieno delle sue forze e che riusciva a sentirsi spossata anche nel scendere dei semplici scalini.
L'infermiere la scrutò, soffermandosi sul suo ventre tondo, ciancicò la gomma a bocca aperta e poi rispose: «Un paio di mesi».
Le lanciò un'altra di quelle occhiate capaci di farle accapponare la pelle, che davano l'impressione di studiarle il corpo come se volesse memorizzarlo in ogni più piccolo particolare.
«Mai visto una donna incinta?» lo schernì Malia, stufa di quel comportamento insolente.
Il ragazzo arrossì, facendo una smorfia e si voltò per aprire la porta.
Con le mani a coppa sotto la pancia, Malia gli andò dietro. Sfilò tra le celle dalle pareti a vetro, a testa alta, ignorando i mostri che vi erano rinchiusi.
Quando arrivarono a metà del corridoio, si fermarono davanti una spessa porta in metallo.
«Qui dentro» disse Lucas, inserendo la chiave elettronica per sbloccare la serratura.
«Hai mezz'ora. Se vuoi uscire prima, sono qui fuori. Ti basta bussare».
Malia a malapena gli diede ascolto, nervosa com'era all'idea di dover oltrepassare quell'ultima barriera che la divideva dalla persona che più disprezzava al mondo.
Il suo respiro si fece irregolare. Cercò di controllarsi, ma senza successo. Non era da lei avere paura, ma la consapevolezza di essere lì, da sola, dentro Eichen House la colpì come una frusta.
La stanza era bianca e asettica, nel mezzo divisa da una spessa parete di vetro, dietro alla quale una donna, dai lunghi capelli scuri rigati da spesse ciocche grige, la stava guardando.
Occhi senz'anima la scrutarono, famelici, pronti a divorarla.
Corinne esplose in una risata incontrollata nel vedere il pancione prominente di Malia.
«Lo sapevo. Sapevo che saresti venuta da me, prima o poi» gridò con voce graffiante.
Malia pose entrambe le mani sul ventre, come a volerlo proteggere da quegli occhi nemici, e lo accarezzò cercando di mostrare quanto fosse calma e padrona di sé.
Lei che solitamente lo nascondeva sotto i larghi indumenti di suo marito, sentì impellente il desiderio di sottolineare il suo stato. Era una presa di posizione, una condizione da sfoggiare con fierezza davanti a qualcuno che aveva rifiutato la propria.
«Non mi dire, hai sposato l'umano? Che storia romantica. I tuoi sogni di stupida piccola adolescente si sono finalmente coronati e ora ti stai godendo il frutto di questa patetica relazione».
Corinne parlava in fretta, mangiandosi le parole che raggiungevano note isteriche.
«Ma il frutto è marcio, non è così?» rise sguaiatamente, picchiettando le dita contro il vetro, in chiara attesa di una qualche reazione da parte di sua figlia.
Ma Malia continuò a restare in silenzio e Corinne perse definitivamente la pazienza.
«Parlami!» gridò, sbattendo entrambe le mani contro la superficie del vetro. «Lo so che sei reale. Parlami!».
Si lasciò scivolare a terra, rannicchiandosi e dondolando su se stessa, senza però staccarle gli occhi di dosso un solo istante.
«Ho aspettato questo momento per quindici anni. Non è passato giorno in cui io non ti abbia pensata, pregustando il momento in cui finalmente avrei potuto metterti le mani addosso e porre fine alla tua vita. Quindici anni chiusa in questa cella, sola con la tua faccia nella mia testa che mi tormentava. Ma tu non sei nella mia testa. Sei reale. Vero? PARLAMI!».
Malia sentì Claudia scalciare agitata dentro di sé e non poté darle torto.
Deglutì a fatica e, con voce calma e controllata, disse: «Ho bisogno di sapere cosa ti disse Talia».
«Quando eri incinta è stata lei a prendersi cura di te», continuò Malia ignorando il basso ringhio che aveva iniziato a emettere Corinne, nell'udire il nome di Talia.
«Ho letto di un rituale Pawnee che permette alle donne lupo che portano in grembo un figlio di riappropriarsi dei poteri in caso questi venissero assorbiti dal bambino. Potrebbe funzionare anche per i Coyote», la buttò lì, come se si trattasse di una cosa da nulla. Ciò che stava ammettendo davanti a sua madre era fin troppo vergognoso.
Corinne si alzò di nuovo in piedi rivolgendole uno sguardo colmo di scherno.
«I Pawnee… gli uomini che bevevano sangue di lupo e si coprivano con le loro pelli. Tesoro, sei così stupida. È un rituale antico che prevede di divorare il bambino non appena viene al mondo. Si usava in antichità, quando ancora non avevano compreso che si trattava di una pratica inutile. Solo tra coyote mannari avviene questo processo e… indovina? Non funziona neppure nel nostro caso».
Corinne la guardò come se avesse davanti una ragazzina un po' tarda di comprendonio, ma Malia neppure ci fece caso mentre vedeva la sua ultima speranza andare in frantumi.
Impallidì, una strana nausea la colse e il desiderio di sedersi un attimo si fece quasi impellente.
Dentro di sé Malia pregò che non si notasse, ma dubitava che qualcosa potesse sfuggire a quegli occhi voraci.
«Lo senti già, non è vero? Le forze prosciugate, l'energia che se ne va, secondo dopo secondo, come se ti stesse risucchiando via la vita stessa».
«Sarei pronta a cedere a mia figlia tutti i miei poteri se fosse necessario» ringhiò Malia, stringendo con forza i pugni.
«Eppure sei qui, sei corsa dalla tua mamma per farti dire che l'unico modo possibile per ottenere ciò che vuoi è uccidere la bambina che porti in grembo. Sei venuta da me in cerca di risposte che già conosci, soltanto perché sei solo una piccola insulsa codarda. E alla fine lo vorrai. Desidererai uccidere quel piccolo parassita che si è impiantato dentro di te. È nella nostra natura».
«No. Io non sono come te» sibilò Malia e per un attimo rischiò di cedere alle provocazioni di Corinne, mentre sentiva gli angoli degli occhi pizzicare a causa delle lacrime che minacciavano di uscire.
«Non ho intenzione di impedire questo processo. Ho solo bisogno che non avvenga adesso. Non posso proteggere la mia famiglia se non sono al pieno delle mie forze»,
«Proteggere da chi?» la incalzò Corinne, divertita dal possibile pericolo che gravava su sua figlia.
Malia si morse il labbro inferiore, ben poco entusiasta di doverlo ammettere: «Crediamo che un Darach stia cercando di compiere un rituale sacrificando i Beta presenti a Beacon Hills».
Come si aspettava, Corinne rise: «Un branco come il vostro, spaventato da un Darach?».
Malia sollevò il mento in segno di sfida e ribatté: «Ieri mi ci sono scontrata ed è riuscito a sopraffarmi facilmente».
«Impossibile» sbottò Corinne, corrugando la fronte.
«Si tratta di un Darach forte e incredibilmente veloce. Indossa strani indumenti, una veste rossa e una maschera di legno. Ma non abbiamo trovato nulla di simile nel Bestiario o nei libri di cultura celtica, perciò forse si tratta di qualcos'altro…».
Corinne sbarrò gli occhi e le sue labbra tremolarono nel pronunciare un nome che Malia non riuscì però a intendere.
Si avvicinò alle pareti della cella con sguardo scuro. «Sai di cosa si tratta, non è così?» la speranza fece vibrare la voce di Malia.
Per la prima volta Corinne non aveva frasi argute con cui ribattere.
Malia allora provò a ricordare le parole che aveva sentito risuonare nella propria testa quando si era ritrovata sola nel cimitero e, avvicinandosi al vetro tanto da sfiorarlo con la punta delle dita, disse: «Chi è la Grande Regina?».
Vide la paura scivolare via dagli occhi di Corinne e comparire un sorriso astuto.
«Sai più di quanto pensi», confessò la Lupa del Deserto, «Liberami e ti dirò tutto quello che so».
«Non esiste proprio» abbaiò Malia in risposta «pensi davvero che sia tanto disperata?».
«No. Non adesso, per lo meno. Ma lo sarai, prima di quanto immagini. E allora tornerai qui e sarai disposta a tutto, persino a restituirmi la libertà».
Una strana luce brillò in fondo agli occhi scuri di Corinne e allora Malia si accorse di quanto si fosse avvicinata a lei senza neppure rendersene conto.
«Sei davvero impazzita qui dentro se pensi questo» rispose e si voltò, dirigendosi verso l'uscita. Corinne non le avrebbe detto nulla, stava solamente perdendo tempo e sprecando forze.
«Siete tutti già morti» le urlò dietro con quanto fiato aveva in corpo, «Voi e i cuccioli del vostro patetico branco. Morti, ti dico! Non potrai proteggere i tuoi figli, tesoro. È troppo tardi!».
La voce della Lupa del Deserto la seguì anche fuori dalla cella, forte e chiara con tutto che ormai la porta si era richiusa alle sue spalle.
Malia aveva il volto visibilmente sconvolto, ma non si permise di indugiare oltre in quel luogo sinistro. Non c'era traccia del giovane infermiere che l'aveva accompagnata, quindi ripercorse la strada a ritroso da sola.
Proseguì la sua marcia fuori dall'edificio, smaniosa più che mai di prendere una boccata d'aria fresca. Non incontrò impedimenti: le porte erano tutte aperte e non vide altri infermieri finché non giunse al piano terra.
A grandi passi si diresse verso l'uscita e, una volta all'aria aperta, non si fermò neppure un attimo per riprendere fiato.
Tirò dritta verso il parcheggio e solo quando raggiunse la sua macchina, si permise di fermarsi e concedersi un lungo sospiro.
Teneva entrambe le mani poggiate contro lo sportello ancora chiuso e il capo chino. I dolori al basso ventre la distraevano, tanto che le era difficile scacciare dalla mente la voce graffiante di Corinne.
Forse fu proprio per questo che non si accorse della presenza alle sue spalle.
Malia si stava per voltare quando qualcuno le infilzò una siringa alla base della gola.
La donna ringhiò e i suoi occhi si accesero di un blu intenso. Con un ruggito afferrò il braccio del suo aggressore e gli spezzò l'osso di netto con un unico movimento secco. Poi si tolse la siringa di dosso e la gettò a terra.
Si trattava dell'infermiere, Lucas Reed. Malia annaspò, una mano premuta ancora sul collo, sconvolta.
Il ragazzo si rotolava a terra, stringendosi il braccio rotto contro il petto e gridando dal dolore.
Malia salì velocemente in macchina, la vista già annebbiata e le idee confuse. L'aveva drogata, non aveva speranze di rimanere lucida abbastanza a lungo per guidare fino a casa, eppure mise in moto.
Lottò contro i giramenti di testa e la nausea improvvisa, quindi inserì la retromarcia e poi svenne.






__________________
Note Autrice: Ed eccoci alla fine di un altro capitolo! Malia si è messa nei guai... secondo voi cosa succederà nel prossimo capitolo?^^

Oddio già siamo al sesto capitolo! Non posso crederci!
Se sono arrivata fino a questo punto è soltanto grazie a voi e alla mia dolce nazi-editor Horror_Vacui a cui tocca rileggere millemila volte ogni pezzo! Grazie davvero! In particolar modo anche a Giuliuli che non si perde mai neppure un capitolo! Siete davvero preziose! <3

Il prossimo aggiornamento ci sarà l' 8 Luglio

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Capitolo 7
*** Capitolo Settimo ***





Settimo Capitolo









Jordan si accorse fin da subito che qualcosa non andava. Scott, Stiles e Lydia lavoravano come una squadra affiatata, nel modo in cui facevano sempre, ma c'era un gelo non indifferente nel loro modo di comunicare.
Scott era scuro in volto, Stiles tanto distratto che prestava più attenzione al display del proprio cellulare che al cadavere che aveva davanti, mentre Lydia era stranamente taciturna.
Lo Sceriffo fece più attenzione al volto di sua moglie e lo trovò pallido e smunto. Si teneva in disparte, soprattutto da Scott.
L'Alpha stava analizzando ancora il cadavere con sguardo clinico, quando disse: «Forse dovremmo semplicemente farci da parte, questa volta».
«Cosa vorresti dire?» chiese Stiles, con tono distratto. I suoi occhi erano nuovamente puntati sul cellulare.
«È evidente che questa storia non ci riguarda. Penso che il nostro branco non corra alcun pericolo. Il Darach ha aggredito te e Malia solo perché eravate nel bosco ad indagare. E anche in quella circostanza si è limitato ad un avvertimento, nonostante avrebbe potuto uccidervi», il tono di voce di Scott era grave, ma sicuro.
Stiles si concentrò sull'amico, rivolgendogli un'occhiata accigliata, sicuro che avesse capito male.
«Si tratta di omicidi, Scott. Di persone innocenti che vengono sacrificate nella nostra città. Come può non riguardarci?»,
«E se i nostri figli finissero in mezzo proprio perché non ci siamo fatti gli affari nostri?»,
«Inizi a parlare come Brett. Ma che ti succede? Sei tu quello che vuole salvare tutti, persino i nemici!» rispose Stiles, con un sorrisetto incredulo. Quello che gli stava dicendo sembrava uno scherzo: Scott non si tirava mai indietro.
«Facciamo un'ipotesi: se il Darach in questo momento andasse a casa tua per uccidere Jamie, solamente perché tu ti trovi qui, adesso, a indagare su una delle sue vittime, te la sentiresti ancora di andare avanti? Mh?».
Stiles lo guardò sbigottito e si volse verso Lydia, in cerca di sostegno, ma gli occhi della donna erano ancora bassi. Allora guardò Jordan, che tossicchiò appena prima di prendere parola.
«Vivresti davvero nel dubbio e nella paura, Scott? Il Darach è una minaccia e va eliminata, proprio come abbiamo sempre fatto», cercò di farlo ragionare, proprio come aveva fatto Scott quando era venuto a parlargli nel suo studio.
Ma Scott non gli prestò la minima attenzione, al contrario fissava Lydia che in tutta risposta preferì allontanarsi un attimo per andare in bagno.
Jordan la seguì cercando di essere quanto più discreto possibile e, una volta dentro, chiuse a chiave la porta del bagno per assicurarsi che nessun collega li disturbasse.
«Tutto bene?», chiese.
Lydia si lasciò andare a un lungo sospiro.
«Non direi proprio» mormorò, aprendo il rubinetto del lavandino per sciacquarsi le mani.
«Cos'è successo?».
«Non è affatto facile dover essere messaggero di morte di figli e mogli dei propri migliori amici» ironizzò con voce rauca dal groppo che le si era creato in gola.
«Ambasciator non porta pena», le ricordò Jordan.
«Invece sì, se c'è un Alpha arrabbiato che non ha con chi prendersela»,
«Scott lo sa che tu non c'entri nulla… Le visioni sono solo avvertimenti».
Lydia annuì senza troppa convinzione.
«Hai parlato anche con Stiles?» si informò Jordan.
«No… sarebbe come innescare una bomba»,
«Ma dovrai farlo, prima o poi».
Lydia sbuffò. «È come se fossi io a causarlo, Jordan. Vedere le loro morti le rende reali, possibili. Come posso dar loro torto se fanno fatica persino a guardarmi in faccia?»,
«Calmati, Lydia. Non è così, ti stai colpevolizzando inutilmente. È normale essere sconvolti»
le prese il mento tra le dita «Ti ricordi cosa mi dici sempre? Le morti non sono causa nostra. E si possono evitare. Quante volte abbiamo visto la morte dell'intero branco? Eppure siamo ancora tutti qua»,
«È che… sono i nostri bambini. È tutto così spaventoso» mormorò, abbassando il capo.
«Lydia… Ehi, guardami. Lo so… So quanto è difficile, ma dobbiamo restare in piedi» disse e le prese la mano. «Non mi lasciare solo proprio adesso. Ho bisogno di te».
Gli occhi di Lydia si sollevarono su di lui e Jordan si accorse che erano arrossati.
«E quando ero io ad avere bisogno di te? Per settimane non hai fatto che escludermi, a stento mi parlavi! Sei tu ad avermi lasciata sola!» sbottò la donna.
«Tu mi trovi sempre, Jordan. Quando sono in pericolo, lontana, persino quando sono persa nella mia stessa mente. Tu riesci a trovarmi. Ma adesso che mi sento davvero sola e perduta non hai neppure provando a cercarmi».
Jordan era così abituato a sentire Lydia parte di sé, che a stento si era reso conto che quel malessere crescente non era altro che la lontananza dalla sua Banshee.
E allora fece quello che si era privato di fare negli ultimi giorni a causa del senso di colpa: afferrò i fianchi di Lydia tirandola a sé e la baciò rudemente, con tanta foga da farla scontrare contro i lavandini alle sue spalle.
La aiutò a sedersi sul piano in marmo e Lydia si aggrappò con le gambe attorno alla vita di lui, sorpresa ma grata di sentire di nuovo il corpo di suo marito sul suo.
Jordan vagò con la mano sotto la sua gonna e strappò via i collant e gli slip, mentre Lydia trafficava con la fibbia della sua cintura e poi con la cerniera dei pantaloni della divisa.
Neppure per un secondo le diede occasione di interrompere quel bacio che stava per sfociare in un piacere molto più grande. Le strinse i glutei nudi con entrambe le mani spingendola con decisione verso di sé e Lydia sussultò, mordendogli il labbro inferiore, nel sentirlo finalmente dentro di sé.
«Trovami, Jordan» mugugnò contro le labbra di lui, per poi scendere a succhiargli il collo, mentre i loro bacini si scontravano sempre più rapidi.
Non aveva idea di come fosse potuto sopravvivere in quei giorni privi del contatto con Lydia. Senza il suo fiato caldo ad accarezzargli la pelle, l'odore dei suoi capelli e quei gemiti strozzati che risalivano dal fondo della gola come fusa.
Lydia si strinse a lui, come se fosse l'ultima cosa capace di tenerla a galla. Arpionò le unghie sulle spalle di Jordan e spalancò gli occhi.


 
***


Risvegliarsi fu come ritornare in superficie dopo essere stati a un passo dall'annegare. Malia annaspò facendo una lunga boccata d'ossigeno dall'odore pungente di naftalina e muffa.
Provò ad aprire gli occhi, ma le palpebre erano ancora troppo pesanti e si richiudevano ad ogni tentativo. Aveva la mente confusa, annebbiata, tanto da non sapere neppure dove si trovasse.
Ogni volta che provava a socchiudere gli occhi vedeva sprazzi di un ambiente poco illuminato, con pareti grige, disseminato di robaccia vecchia.
Delle voci in sottofondo iniziarono a ronzarle in testa come mosche morenti che allontanavano il torpore.
«Questa puttana mi ha rotto il braccio» fu la prima frase chiara che distinse. Era la voce di un ragazzo.
«Fatti un'altra iniezione di morfina e taci, idiota», ringhiò in risposta una voce femminile.
«Morfina? Ho bisogno di un medico! L'osso mi ha perforato la carne» fece un lamento sofferto, quasi un piagnucolio, poi continuò: «Se mi dessi ciò che mi hai promesso, allora…»,
«Ti ho detto di stare zitto!» lo interruppe la donna, con rabbia e allora Malia riconobbe la voce di sua madre. La voce di Corinne.
Passarono alcuni istanti di silenzio, nei quali si udirono solo i lamenti strozzati del ragazzo e un sinistro rumore metallico.
E allora Malia ricordò quel che era successo: Eichen House, la discussione con la Lupa del Deserto e infine l'infermiere che l'aveva aggredita alle spalle quando stava per salire in macchina e andarsene.
Lucas riprese la parola: «Non mi avevi detto che si trattava di una donna incinta».
«Che differenza fa?»
Seguì un breve momento di silenzio, poi Corinne esplose in una risata.
«Non fare quella faccia, ragazzino. Penserò a tutto io. Lei è mia».
«Ma devi sbrigarti: tra poco passeranno gli infermieri a controllare tutte le celle. Si accorgeranno subito che ti ho fatta uscire! Sempre che non lo sappiano già…» ora nella sua voce era ben udibile quanto si fosse pentito di aver creduto alle parole di un'assassina invasata rinchiusa in un Istituto di Igiene Mentale.
«Mi serve solamente il tempo necessario per risolvere il conto in sospeso che ho con mia figlia» sputò Corinne in risposta e dal suo tono non sembrava propensa ad accettare altre interruzioni dal giovane infermiere.
L'avevano legata ad una vecchia barella malconcia e arrugginita. La sua mente era più lucida e sentì le forze tornare lentamente in lei. Riuscì ad aprire gli occhi e a mantenerli vigili. Adesso vedeva chiaramente: erano ancora dentro Eichen House, in una stanza apparentemente utilizzata come magazzino per vecchie cianfrusaglie in disuso. L'unica luce proveniva da una lampadina che pendeva tristemente dal soffitto, neppure sufficiente per illuminare gli angoli dell'ambiente. Corinne si trovava nell'ombra, seduta su di un divano sgangherato a caricare il tamburo della sua pistola. Lucas, a terra accanto ai suoi piedi, annaspava tentando di tamponare il sangue che fluiva copioso dal braccio.
Il cuore di Malia iniziò a battere fuori controllo quando divenne davvero cosciente del pericolo in cui versava. Strattonò i lacci con cui le avevano legato braccia e gambe, ma il materiale non diede il minimo segno di cedimento.
Corinne se ne accorse subito e rise: «Prova quanto vuoi, tesoro. L'ho imbevuta con lo Strozzalupo. Non sono solamente gli strascichi del sonnifero, quello che senti»
«Liberami» boccheggiò Malia. Proprio come era accaduto nella foresta, iniziò a sentire le piccole contrazioni al bassoventre.
Corinne si alzò e le venne vicino. La fissò con uno sguardo di finto rammarico. «Ti verrà a cercare», la minacciò. Ripensò all'ultima volta che si era trovata in una situazione simile, dover sopravvivere all'istinto omicida di sua madre. Anche allora si sentiva sola, come lo era adesso. Ma non lo era mai stata davvero: Braeden era rimasta al suo fianco. Si permise un ultimo pensiero nostalgico alla mercenaria che l'aveva aiutata quando nessun altro avrebbe potuto farlo.
Nessuno sapeva dove si trovasse. Nessuno sarebbe potuto arrivare in tempo per fermare Corinne.
Era sola. Per la prima volta era davvero sola.
«Chi? Il tuo patetico maritino?»,
«Il branco».
«Ce ne sono anche altri? Altri mostri come voi?» si intromise Lucas e sia il terrore che l'eccitazione furono ben udibili nella sua voce.
«Molti» lo minacciò Malia «e tutti ben disposti a staccarti la testa dal collo».
Lucas si rivolse nuovamente a Corinne, il viso contorto dalla paura «Ho fatto ciò che mi avevi chiesto! Ora fai la tua parte» la pregò.
Si avvicinò alla Lupa del Deserto porgendole il braccio sano.
«Dammi il morso!».
Malia scoppiò a ridere «è questo che ti ha promesso?»
Il giovane infermiere la fissò: aveva il volto pallido e gli occhi cerchiati di rosso «Forza, velocità, istinto sviluppato. Sarei come un supereroe. Invincibile» biascicò. Sembrava sul punto di svenire.
Malia ricordò quando era entrata nell'atrio di Eichen House e l'aveva trovato seduto a leggere annoiato un fumetto su Spiderman e si permise di provare pena per quel ragazzo così ingenuo.
Per questo lo guardò con decisione e disse: «Ti ha mentito, Lucas. Lei non può trasformarti. Solo gli Alpha possono farlo e lei… lei non è niente».
Il calcio della pistola si abbatté con violenza sul suo viso, tanto veloce che non poté evitarlo.
«Stai zitta!» gridò Corinne.
Malia sentì il sangue caldo scivolarle lungo la guancia.
Poi il viso di sua madre si fece d'un tratto tenero e, con un sorriso, le carezzò lo zigomo ferito. Quei suoi cambiamenti d'umore repentini, inquietavano Malia ben più delle armi con cui la stava minacciando.
«Te lo avevo detto, amore di mamma, no? Te lo avevo detto che saresti tornata qui da me».
Gli occhi di Corinne si fecero vacui e iniziò a intonare una cantilena, mentre carezzava i capelli scuri di sua figlia.
Una smorfia di disgusto attraversò il volto di Malia.
«Smettila» sputò «Tu non sei mia madre. Non lo sei mai stata. Non toccarmi!».
«La piccola orfanella abbandonata da mamma e papà che non ha mai desiderato altro che una famiglia» la derise Corinne, con voce acuta e cantilenante, continuando a lasciarle buffetti sulla testa.
«Ti sbagli, stronza: ce l'ho una famiglia. Ho avuto un padre e una madre che mi hanno amata. Le persone che hanno scelto di restarmi accanto sono la mia famiglia. Il branco è la mia famiglia. Ma non mi aspetto certo che tu possa capire una cosa del genere»
«Provi pena per la mia condizione? Ti aspetti che mi penta per le mie decisioni? Oh, tesoro, l'unica cosa di cui mi sono sempre pentita è di non averti soffocata la prima volta che ti hanno messo tra le mie braccia».
«Non chiamarmi tesoro» sbottò Malia, con le lacrime agli occhi.
Come un flash ricordò la prima volta che aveva tenuto Jamie tra le sue braccia. Quel bambino che non era sicura di voler avere, così piccolo e indifeso che piangeva a pieni polmoni. Ricordava cosa avesse sentito e provato, ogni più piccola emozione le era rimasta dentro, indelebile.
E le sembrò impossibile che – davanti a qualcosa di così grande – qualcuno potesse restare insensibile. Nessuno, alla sua nascita, l'aveva guardata provando quelle sensazioni. E nessuno – con ogni probabilità – ci sarebbe stato per sua figlia.
«Sei diventata debole» Corinne le asciugò le lacrime, poi le accarezzò una guancia, fino ad arrivare a stringere le dita attorno al collo di Malia.
Strinse forte, facendo pressione sulla carotide. Il volto di Malia sbiancò velocemente e la sua bocca annaspò in cerca d'aria.
«Aspetta» disse inaspettatamente Lucas «Non farlo. Aspetta un attimo».
Corrinne si riscosse e lasciò andare la presa.
«Tranquillo, non è così che ho intenzione di ucciderla».
Malia tossì per riprendere fiato e Lucas approfittò di quel momento di distrazione della Lupa del Deserto per avvicinarsi a un lato della lettiga e tagliare via con un coltellino il nastro di tessuto che le legava le mani.
Malia ebbe solamente il tempo di guardarlo negli occhi, poi Lucas si allontanò nuovamente, passando inosservato. Le aveva appena regalato un'opportunità per sopravvivere.
Malia non ci pensò due volte: tirò fuori gli artigli e, rapida, recise anche il legaccio che bloccava l'altra mano.
Si tirò su a sedere, per raggiungere anche i piedi, ma si mosse troppo rapidamente.
Un'improvvisa fitta al ventre la fece tornare supina, a corto di fiato.
Corinne si avvicinò nuovamente a lei e le slegò i piedi, scuotendo leggermente il capo.
«Come devo fare con te? Sempre così combattiva... non ti arrendi mai, mh? Neppure davanti alla fine», ridacchiò «Alzati pure, tesoro. Non ho alcuna intenzione di ammazzarti senza prima combattere».
«Avanti, alzati! Alzati!».
Un verso sofferto sfuggì dalle labbra di Malia quando la Lupa del Deserto la strattonò per un braccio, facendola cadere dalla lettiga.
Atterrò su di un fianco e strinse i denti, per non darle la soddisfazione di udire un altro gemito di dolore uscire dalle sue labbra.
Corinne tirò fuori la pistola.
«Ti ricordi? Era esattamente così quella notte. E ora ti mostrerò come sarebbe dovuta andare a finire»
Le puntò l'arma contro e allora Malia si arrese. Non aveva le forze per alzarsi e non aveva la minima possibilità di affrontare Corinne.
«Uccidimi, ma salva almeno lei. Salva mia figlia, non c'entra nulla con tutto questo».
«Anche lei è un piccolo parassita, proprio come te!» sbraitò Corinne e la faccia le si chiazzò di rosso.
Riprese il controllo, respirando piano e quell'improvvisa vena di pazzia scemò. La infastidiva, capì Malia: parlare della bambina che portava in grembo infastidiva Corinne più del normale.
La Lupa del Deserto si morse le labbra e si forzò una nuova risata derisoria. «Ma sì, perché no: in fondo potrei farlo. Potrei spararti un colpo in testa e poi sventrarti per divorare la tua bambina. Detto mai che i Pawnee, alla fin fine, non predicassero il vero»
In Malia si affacciò ben visibile un senso intenso di vomito.
«Ti prego» mormorò quasi senza fiato. Si mise in ginocchio e alzò le mani in segno di resa «Ti sto pregando, Corinne».
La Lupa del Deserto si leccò il contorno labbra. «Guardati: sei patetica. Una donna devota alla famiglia, una madre che si prodiga per i propri figli. Sono quasi disgustata. Mi hai sottratto i poteri per cosa? Preparare pappette e cambiare pannolini? Saresti potuta essere l'Alpha di un branco tutto tuo. Avere il potere. E invece te ne vai ancora in giro con quell'umano e la sua prole».
Malia non si mosse di un centimetro. Non provò ad alzarsi nuovamente o a fuggire: rimase in ginocchio e attese.
Ma Corinne non si fece commuovere minimamente da un gesto del genere.
«Dovresti ringraziarmi: ti sto per liberare dal peso di questa tua insulsa esistenza» disse la Lupa del Deserto prendendo la mira.
«Un pezzo» sibilò, sparando un colpo «alla volta».
Malia si tenne la spalla ferita, tremando.
Corinne rise, puntando la pistola sul ventre di Malia e quest'ultima ringhiò con potenza, mostrando le fauci e gli occhi della bestia che era parte di lei.
Ultimo inutile tentativo di rivalsa, nonostante fosse a terra, sconfitta, incapace di muoversi. Corinne sparò il secondo colpo e Malia serrò gli occhi.
Eppure non sentì dolore, ma solo un urlo di sorpresa e rabbia. Una figura si era frapposta tra lei e Corinne, qualcuno che indossava una lunga veste rossa e una maschera di legno. Il Darach si era preso la pallottola al posto di Malia.
Per la prima volta Malia vide il terrore affacciarsi negli occhi scuri di sua madre.
Corinne sparò una seconda volta, poi un'altra, ma il Darach non indietreggiò neppure di un passo. Al contrario avanzò verso la Lupa del Deserto e la afferrò per la gola, sollevandola da terra.
Corinne guardò il suo aggressore, poi lanciò un'ultima occhiata a sua figlia e, senza più fiato, mormorò: «Morrigan».
Poi si udì il rumore secco di ossa che si rompono e la testa di Corinne ciondolò scomposta da un lato. Il Darach gettò il corpo senza vita a terra, come se stesse maneggiando un pupazzo di pezza.
La Lupa del Deserto era morta.


 
***


Lydia entrò nel seminterrato di Eichen House con la pistola dello Sceriffo già sollevata davanti a sé, pronta a sparare.
Sembrava determinata e inarrestabile, ma le mani le tremavano e agli angoli degli occhi aveva ancora alcune lacrime rimaste intrappolate nelle ciglia.
Guardò, confusa, Malia a terra sul corpo di Corinne e il ragazzo con il camice da infermiere che piangeva sommessamente, tenendosi stretto il braccio ferito.
«Lydia…» mormorò Malia incredula, nel vederla entrare, pur tenendo ancora stretta tra le sue la mano inerte di sua madre.
«Oddio» bofonchiò Lydia, senza riuscire a trattenere un singhiozzo «Sei viva».
Le andò incontro e si lasciò cadere accanto a Malia e posò la pistola per terra per poterla abbracciare.
Malia abbandonò il capo sulla sua spalla, senza riuscire a reagire e a ricambiare la stretta.
«Come mi hai trovata? Come sei riuscita ad arrivare fin qui?» balbettò.
«Ti ho vista, Mal. Stavi per morire e ho capito subito che stava succedendo adesso».
Malia sospirò nel sorridere «Sì, tu lo capisci sempre».
Lydia la strinse un po' di più e le baciò la fronte, prima di lasciarla andare.
«Stiles ha attivato il GPS al tuo cellulare, prima di uscire da casa. Siamo riusciti a trovarti solo per questo» sorrise appena e aggiunse «Alcune volte avere un marito paranoico può salvarti la vita».
«Lui è qui?» chiese Malia e il suo viso si fece terreo.
Come avrebbe potuto giustificare quanto fosse stata sciocca a voler vedere Corinne da sola?
In risposta alla sua domanda, udì l'eco della voce di Stiles provenire dal corridoio.
«Mani dietro la schiena e faccia contro il muro. In ginocchio!» seguito da lamenti e tonfi sordi «In ginocchio, ho detto!».
Poi fece irruzione nel seminterrato, strattonando uno dei dottori, tenendogli premuto la pistola contro la schiena.
«Questo è abuso di potere. Le ho già detto che non so assolutamente cosa…», ma la voce dell'anziano uomo si spense nel vedere il sangue a terra, l'infermiere ferito e il corpo senza vita di uno dei suoi pazienti.
«Per l'amor di Dio» bofonchiò.
Stiles lo lasciò andare non appena i suoi occhi incontrarono quelli di Malia.
La coyote si alzò in piedi, sentendo ancora le gambe instabili.
Si preparò ad affrontare Stiles. Sapeva che tipo di reazioni aveva suo marito in quelle determinate circostanze e perciò era pronta ad affrontare rabbia, urla, sguardi di gelida delusione o silenzi amareggiati.
Ma Stiles reagì invece nell'unico modo che Malia non avrebbe potuto sopportare.
Corse da lei e, con le lacrime agli occhi, la abbracciò.


 
***


Non era stato facile per Stiles e Parrish convincere Eichen House a non sporgere denuncia, ma alla fine erano giunti ad un compromesso piuttosto accettabile, anche se non propriamente legale.
Lo Sceriffo avrebbe mantenuto il silenzio sull'accaduto e sui loro dipendenti inaffidabili e in cambio l'irruzione del Vicesceriffo nella struttura privata non sarebbe stata denunciata.
Stiles rientrò in casa, stremato. Appese il giaccone e la cintura della fondina all'attaccapanni. Un dolce profumo di cucinato lo avvolse, risollevandogli un poco l'umore abbattuto.
«Malia?» chiamò, senza ricevere risposta.
Salì al piano di sopra, seguendo il suono delle risate di Malia e di Jamie. Li trovò in bagno, nella vasca, con la schiuma alta fin quasi sopra i bordi.
Jamie sguazzava in tondo, sorretto dalla madre, lanciando in alto la schiuma, oppure scansandola per poter fare le bolle con la bocca sul pelo dell'acqua.
Malia era poggiata contro l'angolo della vasca, i capelli tirati su in una crocchia scomposta frettolosa, alcune ciocche sfuggite ad essa le aderivano al collo, bagnate. Il seno e un accenno di pancia – contro cui Jamie si poggiava per richiedere una coccola in più – appena visibile tra le coltri di schiuma. Aveva il volto stanco, più corrucciato del normale, ma comunque felice nell'osservare i giochi di suo figlio.
Stiles rimase a lungo a guardarli, finché Jamie non si accorse della sua presenza ed esclamò: «Papà!», dibattendo le braccia nella sua direzione come se potesse afferrarlo anche da quella distanza, «Papà, guadda le bolle!».
Stiles rise e si avvicinò per baciarlo, incurante degli schizzi che i movimenti allegri di suo figlio producevano, bagnandogli l'intera camicia.
Ne approfittò per togliersela, la gettò a terra come anche i pantaloni e ogni altro indumento che aveva indosso. Si infilò nella vasca insieme a loro, ponendosi dietro Malia. La abbracciò, lasciando che si poggiasse contro il suo petto.
Le sfiorò con le dita le spalle, attento a non spostare la garza che copriva la ferita del proiettile.
«Dovresti stare attenta a non bagnarla», le disse. Con le mani continuò a seguire le curve del corpo di lei.
«Sta già guarendo» soffiò Malia in risposta. Si era irrigidita quando lui era entrato nella vasca, come se tutte quelle carezze le fossero improvvisamente sgradite.


Stiles tornò in camera quasi subito, Malia lo aspettava già sdraiata sul letto. Aveva la testa abbandonata sul cuscino, gli occhi chiusi, premendo con movimenti circolari la base della pancia. Il taglio sullo zigomo spiccava, ancora rosso, sul suo viso.
«È crollato non appena ha poggiato la testa sul cuscino», la informò Stiles, con una breve risata incrinata.
Malia non aprì neppure gli occhi.
«Cos'hai? Non ti senti bene?».
«Sto bene, Stiles», socchiuse le palpebre e fissò gli occhi in quelli del marito. «E tu stai bene?».
Stiles rimase in silenzio.
Malia sbuffò e si mise a sedere: «Santo cielo, reagisci. Fa' qualcosa. Urla, arrabbiati con me. Ma non fare finta che vada tutto bene. Tu non ti comporti in questo modo calmo. Mai» sbottò.
«Non ho intenzione di urlare, perché non sono arrabbiato» il suono monotone della sua voce irritò ancor più la donna.
Malia sollevò le spalle, con espressione incredula stampata in faccia «Vuol dire che non ti è importato nulla di quello che è successo oggi?».
Stiles inspirò profondamente e si grattò la barba come se così cercasse di impedirsi a rispondere.
Solo dopo aver deglutito a vuoto, gracchiò: «Sono entrato dentro quel posto con la certezza di trovarti morta».
Gli occhi di Stiles si arrossarono velocemente e le sue labbra si strinsero in una linea dura.
«Mentre arrivavamo, Lydia non è riuscita più a vederti. Ha singhiozzato per tutto il tragitto».
Malia sapeva come gestire uno Stiles paranoico. Ma quel Stiles che adesso aveva di fronte, Malia lo conosceva appena.
«Non sono arrabbiato, Malia. Sono distrutto», fece una lunga pausa, «Ma anche grato. Sei viva, stai bene e voglio solo concentrarmi su questo, perché so benissimo quanto stavo per perdere oggi. E credimi se ti dico che è solamente per questo che riesco ancora a guardarti in faccia».
Tremando dalla rabbia, si voltò per uscire dalla camera da letto, ma quando arrivò alla porta cambiò idea. Si passò una mano tra i capelli, poi tornò indietro, si tolse la maglietta e si buttò sul letto accanto a lei.
Nonostante tutto non voleva lasciarla sola.
Si ricordava ancora le prime volte in cui durante la notte trovava Malia nel suo letto. E allora si faceva stringere da lei per farla sentire al sicuro. Adesso si sentiva un po' così, perso e spaventato come lo era anche lei quando era tornata nella sua forma umana e aveva perso la sola casa che aveva conosciuto per otto lunghi anni.
Malia lo stava fissando, senza riuscire a dire alcunché, ma lui puntò con ostinazione lo sguardo sul soffitto.
Allora lei gli prese la mano e la poggiò sulla sua pancia.
Claudia si stava muovendo e in quel momento la sagoma della manina era ben visibile nel punto in cui premeva.
Stiles non poté fare a meno di voltarsi a guardare e un sorriso spontaneo si fece largo sul suo viso, poi si volse verso Malia e si sollevò sulle ginocchia. La baciò piano, in un modo dolce che divenne presto irruente. Le loro lingue si incontrarono e si lambirono in un bacio intenso che aveva il sapore di disperazione e di bisogno.
Con la mano, Stiles tornò ad accarezzarle la pancia, mentre le sue labbra si spostarono, prima sull'angolo della bocca, poi sulla guancia, sul taglio e poi giù a mordicchiare la pelle del collo, fino a raggiungere la garza sulla spalla.
Piccoli baci che riuscirono a strappare una risata a Malia. E lui sorrise a sua volta, nel guardarla.
Quell'espressione sconosciuta sul suo volto non c'era più.
«Ti amo», bofonchiò Stiles, con labbra tremanti. Malia sentì cuore di lui mancare un battito e si sporse per poterlo baciare un'altra volta. Non c'era nulla che riuscisse a renderla felice come quella semplice reazione involontaria che Stiles aveva ogni volta che diceva di amarla.
Stiles deglutì, riacquistando vigore alla propria voce «Ti amo da morire».






Angolo Autrice: Perdonate questo leggero ritardo, ma c'erano dei dettagli che non mi convincevano e per questo non sono riuscita a pubblicare in tempo.
In tutta sincerità continua a non soddisfarmi a pieno come capitolo, ma spero che lo apprezziate comunque!
Grazie davvero di cuore per leggere e seguire la storia con tanta passione! E soprattutto grazie per le vostre meravigliose recensioni!

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Capitolo 8
*** Capitolo Ottavo ***


Ottavo Capitolo










 
Lydia gettò nel carrello l'ennesima tutina rosa con i pois. Si aggirava nel reparto dei neonati, con espressione beata, arraffando dagli scaffali qualsiasi cosa attirasse la sua attenzione.
Malia dietro di lei, spingeva il carrello, seguendola con sguardo annoiato ed espressione rassegnata, controllando i prezzi di ogni indumento che Lydia prendeva per riporlo l'attimo dopo.
«Lyds, non ho bisogno di tutta questa roba» ripeté Malia per l'ennesima volta, cercando di farglielo entrare in testa.
«Certo che ne hai bisogno!».
Si trovavano ai Grandi Magazzini, insieme a Kira. Il pretesto era dover comprare le ultime cose per Claudia, eppure Malia aveva la sgradevole sensazione che la vera motivazione fosse quella di tenerla sott'occhio.
«Mi hai già regalato i vestitini di Allie e poi ho ancora tutta la roba di Jamie», ribatté. Lo shopping non faceva per lei.
«Mal, non puoi vestire Claudia con le cose dismesse di Jamie. Sono da maschio».
Malia aggrottò la fronte e arricciò il naso, non capendo dove fosse il problema.
Lydia alzò gli occhi al cielo «Okay, facciamo che questo è un regalo da parte mia allora. Sarò la madrina, ho il diritto di prendere ciò che voglio, no?»
Malia imbronciò le labbra «Stiles ti ha…?»
«Stiles non mi ha detto nulla», la bloccò subito Lydia, con voce scherzosa «Sono una Banshee, ricordi?».
Malia la guardò di traverso e Lydia rise.
«Insomma, Scott è il padrino di Jamie. Mi sembra ovvio che adesso venga il mio turno» esplicò Lydia con voce di chi la sapeva lunga.
«C'è sempre Kira» le ricordò Malia, e Lydia ammutolì.
Kira stava nel reparto maschietti, per la prima volta non era Lydia a dover fare acquisti da sola.
E Lydia ne approfittò per ribattere: «Allora mettiamola così: è stato il turno dei McCall e ora tocca ai Parrish» disse risoluta, mettendo fine al discorso con un'aria trionfale che fece ridere Malia.
«Va bene, hai ragione. Ora smettila di svuotare il reparto neonati, però» disse Malia, togliendole dalle mani una magliettina fiorellata.
Lydia sbuffò e uscì di gran carriera dal reparto, per entrare in quello di intimo per donna. Tirò su una lingeria di pizzo e seta e la agitò con un sorriso felino.
«Sarebbe interessante per Stiles vederti con addosso qualcosa di diverso dalle sue vecchie magliette slabbrate» la incitò Lydia, divertita.
Malia si imbronciò tenendosi la pancia con le mani a coppa «Maglietta o lingerie, sarei comunque enorme e ben poco attraente. Tanto vale star comodi».
Lydia sorrise e diede un buffetto alla pancia. Poi un pensiero cupo sembrò attraversarla perché la sua espressione si rabbuiò.
«A proposito… Come vanno le cose con Stiles?»
Malia aggrottò la fronte senza capire «In che senso?».
Lydia scrollò le spalle «Parlo di ciò che è successo a Eichen House. Eri lì per Claudia, non è vero? Non penso sia stato facile discutere su una cosa del genere», tentennò Lydia, cercando di utilizzare quanto più tatto possibile.
La voce di Malia si fece d'un tratto gelida «In realtà non ne abbiamo proprio parlato. Io e Claudia stiamo bene, non c'è niente di cui dover discutere».
Lydia se ne sorprese «Non ti ha chiesto nulla?».
«Stiles non ha bisogno di chiedere il motivo per cui mi trovavo lì, Lydia. Lo sa benissimo» sbottò Malia e il fastidio nella sua voce fu ben udibile.
«E gli sta bene?»,
«No, Lydia. Ovviamente no. Come non sta bene neppure a me. Ma è così: ho messo Stiles e Jamie prima di mia figlia e non ne vado fiera. Ma farei qualsiasi cosa per tenere loro al sicuro!» esclamò Malia.
La vergogna le bruciò agli angoli degli occhi e le fece piegare la bocca in una smorfia colpevole «E lo stesso farei per Claudia» aggiunse poi, in un filo di voce «Non esiterei un solo istante a sacrificare la mia vita a favore della sua. Ma non giudicarmi se metto al primo posto Jamie e Stiles… Questo lui lo capisce».
Lydia abbassò lo sguardo «Non ti sto giudicando, Mal».
Malia chiuse gli occhi, prendendo un lungo respiro.
«Lo so» disse, abbracciandola «Lo so, Lyds. Scusa».
Quando Lydia sciolse l'abbraccio, Malia si sbrigò ad asciugare le lacrime ancora intrappolate nelle ciglia e a forzare un sorriso.
«Colpa degli ormoni della gravidanza» farfugliò, agitando una mano con noncuranza. «Il più delle volte mi fanno sembrare una pazza».
Lydia tentennò, prima di stringere le labbra e dirle «Per quel che vale, l'avrei fatto anche io. Non hai commesso nulla di male, eri soltanto in cerca di risposte. Solo… la prossima volta parlamene, okay?».
E allora Malia tornò in mente ciò che Stiles le aveva detto la scorsa sera: «Mentre arrivavamo, Lydia non è riuscita più a vederti. Ha singhiozzato per tutto il tragitto» e le si strinse il cuore.
Stava per allungare la mano a stringere quella di Lydia, quando un brivido le corse lungo la spina dorsale. Il ricordo di quelle parole le aveva aperto gli occhi.
«Stiles ha detto che d'improvviso non sei riuscita più vedermi, quando Corinne stava per spararmi, è vero?» sillabò, ancora incerta su dove quella considerazione la stesse conducendo.
Lydia fece una smorfia al ricordo, prese il carrello e lo spinse nella direzione in cui si trovava Kira. Tutto a un tratto sembrava a disagio a doverne parlare.
«Sì…», rispose, «Ho visto Corinne puntarti l'arma contro e il suono dello sparo ha risuonato nella mia testa al pari di un boato e…» la voce di Lydia si incrinò, ma a Malia non serviva sapere nient'altro.
«Penso che sia stato a causa della presenza del Darach», esclamò. «Sa come bloccare i tuoi poteri, Lydia. Per questo non puoi vederlo. Quando si è frapposto tra me e Corinne, i suoi poteri devono aver interferito anche con la visione che stavi avendo su di me, per questo non sei riuscita più a vedermi. Conosce il modo per nascondere il suo odore e offuscare quello dei cadaveri finché decide di farceli trovare».
Il volto chiaro di Lydia impallidì ulteriormente: «Spiegherebbe il perché tu e Scott non siete riusciti a percepire nessuna traccia finché non vi siete ritrovati davanti ai corpi».


 
***


Aveva trascorso il pomeriggio a cercare informazioni da possibili testimoni oculari, ma ogni interrogatorio si era rivelato un buco nell'acqua. Aveva interrogato i genitori di Thomas Murray, la seconda vittima e i compagni di classe della prima, Meagan Lavery.
Ma niente: nessuno aveva visto nulla e nessuno sapeva nulla. La notte in cui i due ragazzi erano scomparsi sembrava una notte come tutte le altre.
Stiles guardò l'ora: Scott lo aveva chiamato per chiedergli se potevano venire a casa sua quella sera. Urgeva una riunione del branco; non potevano continuare a brancolare nel buio, senza sapere neppure come muoversi, con tutte quelle minacce che sembravano divenire ogni giorno più concrete.
Lo vide uscire dall'ospedale in perfetto orario e mise in moto la macchina.
«Come sta Malia?» si informò per prima cosa Scott, salendo sull'auto del Vicesceriffo.
Stiles sollevò appena gli occhi dai documenti delle deposizioni che teneva sulle gambe «Bene», rispose, gettando i fascicoli sui sedili posteriori. Poi fece una smorfia «Io un po' meno».
Scott aggrottò la fronte «Cosa vorresti dire?».
Stiles assunse un'espressione imbronciata e rispose: «Ho accompagnato Malia a fare un'altra ecografia questa mattina, per assicurarci che tutto andasse bene. La dottoressa Redwell ha visto la ferita al viso e alla spalla di Malia e ha dato in escandescenza. Mi ha accusato di violenza domestica», raccontò, inserendo la marcia con più forza di quanta ne servisse.
Scott inarcò le sopracciglia «E tu cosa le hai risposto?»
Stiles scrollò le spalle «Nulla» disse, «la reazione di Malia è stata più che sufficiente: è scoppiata a ridere e la dottoressa si è sentita prendere in contropiede».
«Le abbiamo detto che Malia è caduta dalle scale. Che è stato un incidente… per fortuna non ha insistito per voler vedere sotto la garza della spalla o sarebbe stato davvero imbarazzante dover spiegare una ferita da arma da fuoco. Non avrei mai pensato che qualcuno potesse credere una cosa del genere. Insomma, mi conosce da quasi tre anni! Ha fatto nascere Jamie! Come fa anche solo a pensare che potrei essere un tipo del genere?».
«Non ci pensare, Stiles. Non è così, è questa l'unica cosa che conta».
Lui sospirò «Pensi che dovrei controllarla di più? Malia, intendo».
«Certo» rispose Scott. «Mettile un collare e un microchip di localizzazione» lo prese in giro Scott, beccandosi un'occhiataccia da parte dell'amico.
«Magari del sorbo selvatico da spargere intorno casa. Non sarebbe una cattiva idea rinchiuderla una volta per tutte» ironizzò Stiles e Scott non riuscì a comprendere fino a che punto scherzasse.
Dopo qualche minuto di silenzio Stiles, non riuscendo più a trattenersi colse l'occasione di quel momento privato tra loro due per chiedergli: «Pensi ancora quello che hai detto all'obitorio? Che tutto questo non ne vale la pena?».
Scott guardò fuori dal finestrino, a disagio. Era solito confidare a Stiles tutti i suoi demoni, non si erano mai nascosti nulla loro due.
Stiles si sorprese di quanto Scott sembrasse mortificato da tale argomento.
«Quando sono entrato dentro Eichen House e Lydia piangeva ripetendo che Malia era morta, ho capito quello che cercavi di dirci. L'ho capito, ma non lo condivido. Forse questi anni di pace ci hanno rammollito, ma… Scott, questa è la tua città. La proteggi da sempre. Siamo rimasti tutti qui per questo, perché il branco restasse unito e la nostra gente fosse al sicuro».
«Lo so» mormorò con sguardo vacuo.
«Siamo noi che dobbiamo fare la differenza. Anche se questo vuol dire rischiare la vita»
Un ringhio soffuso crebbe in fondo alla gola di Scott «Nessuno del mio branco rischierà la vita!» abbaiò, mostrando gli occhi dell'Alpha «Nessuno».
Stiles strinse le labbra, restando in silenzio. Scott gli rivolse uno sguardo colpevole e poi tornò a guardare la strada, come se quel repentino cambio d'umore non fosse avvenuto.
Stiles si limitò a guardarlo di sottecchi, pensando fino a che punto la paura di perdere qualcuno avrebbe cambiato il suo migliore amico.


 
***


Erano seduti al tavolo della sala da pranzo di casa Stilinski, sul quale montagne di libri in pendenza rischiavano di crollare da un momento all'altro.
Stiles e Malia stavano consultando i libri di storia celtica dei testi latini. Erano seduti l'una di fianco all'altra e ogni tanto Stiles le lasciava una distratta carezza sul dorso della mano, per poi tornare a girare un'altra pagina del proprio testo. Lo faceva senza quasi rendersene conto, come se percepisse il suo nervosismo e sentisse il bisogno di farle sapere che era lì, che i suoi pensieri erano comunque rivolti a lei, che andava tutto bene perché erano insieme.
Scott, invece, si alzava per sgranchirsi le gambe ogni cinque minuti; non era più abituato a restare seduto per così lungo tempo e approfittava della confusione che facevano i bambini nel salone adiacente, per poter fuggire dalla lettura forzata e andare ad ammonirli.
Kira sfogliava i testi sui culti religiosi e le tradizioni celtiche con più interesse di quanto dimostrava il resto del branco. Lydia, a differenza di tutti, con matita in pugno e foglio bianco davanti, provava in tutti i modi di avere una visione più utile di quelle le si erano già presentate.
«Leggete qui!» esultò Kira, di punto in bianco, facendo sobbalzare Lydia che lanciò via la matita e le strappò di mano il libro senza troppi complimenti.
Kira si sporse da dietro la sua spalla per mostrarle il punto indicato: «Morrigan».
Lydia sgranò gli occhi.
«Allora?» chiese Stiles, trepidante e prossimo ad appropriarsi a sua volta del volume.
«Ecco perché non trovavamo nulla» farfugliò Lydia, gli occhi stralunati mentre i piccoli pezzi del puzzle che vorticavano incessantemente nella sua testa andavano finalmente a combinarsi tra di loro.
«Non si tratta di un Darach in particolare» le venne incontro Kira, dato che la Banshee restava in silenzio, «Ma di un culto».
Kira sfilò con gentilezza il libro dalla presa ormai debole di Lydia e lo depose con cura al centro del tavolo, dove tutti poterono scorgere la pagina interessata.
«Morrigan è una dea celtica» continuò Kira, rivolgendo poi lo sguardo su Malia «“Mòr” dall'antico irlandese “grande” e “Rigain”, “regina”».
«La Grande Regina. La dea dalle vesti rosse, con le labbra solo su un lato del volto» bisbigliò Lydia, «che compare davanti ai soldati prossimi alla morte sotto forma di corvo».
Malia le lanciò una lunga occhiata preoccupata poi, sospirando, si alzò e pose le mani su quelle tremanti dell'amica.
«Vieni, Lyds» disse con voce rassicurante, dandole una mano ad alzarsi «Aiutami a preparare il caffè».
Lydia annuì distrattamente e seguì Malia in cucina senza replicare.
Stiles intanto si era appropriato del volume e, insieme a Scott – che si era subito seduto al posto lasciato vuoto da Malia – stava leggendo tutto quello che riguardava Morrigan.
Aveva la fronte aggrottata. Non capiva come la dea potesse ricollegarsi ai sacrifici.
«È una figura triadica, ma i cadaveri sono solo due… Questo vuol dire che ce ne sarà un terzo?»
«Leggi quello che c'è scritto» intimò Scott con impazienza.
Stiles tossicchiò appena e iniziò a leggere: «… I lamenti rituali accompagnavano le anime dei soldati caduti in battaglia verso la loro eterna dimora. Si racconta che fossero i corvi della Morrigan a intonarli. Ogni qualvolta i corvi gracchiavano sui corpi dei caduti, nella valle echeggiava la voce della Morrigan».
«Inquietante» bofonchiò Kira.
«… la Morrigan impiegava la sua forza sovrumana per volgere le sorti della battaglia in favore dei suoi protetti, donando loro il controllo della Luna.»
«Il controllo della Luna?» gli fece eco Scott.
Stiles ammutolì.
«Forse potrebbe trattarsi del rituale che stiamo cercando» disse Kira, cercando il sostegno negli occhi di suo marito.
«Non dice altro?» chiese Scott, la delusione ben udibile nella sua voce.
Stiles sfogliò inutilmente le pagine «No» rispose, sconfortato.
«Accenna a una Profezia, ma qui non ce ne è traccia».
«Okay, quindi un Druido che adora la dea Morrigan sta sacrificando persone in suo onore per avere il “controllo della Luna” e non abbiamo assolutamente idea di cosa questo significhi».
«Dal nome non sembra presagire nulla di buono» disse Lydia uscendo dalla cucina con in mano una tazza fumante. Malia la seguiva, trasportando un vassoio con altre tazze e una caffettiera di vetro ricolma, che poggiò sul tavolo facendo cadere a terra una delle pile di volumi.
«Perciò l'unico modo di capirci qualcosa è trovare questa Profezia?» chiese Malia, che aveva ascoltato con attenzione la lettura di suo marito dalla cucina.
«Ora la cosa fondamentale è capire chi sarà la prossima vittima e impedire al Darach di completare il rituale. Manca poco alla luna piena, non abbiamo molto tempo» disse Scott con voce grave, «Vado nella foresta, Brett deve mettere in guardia il suo branco e anche noi dobbiamo tenere gli occhi aperti» il suo sguardo si fermò su Malia. «E non fare nulla di troppo avventato», aggiunse.
Poi fece un cenno verso Kira perché prendesse i bambini e lo seguisse in macchina.
«E io andrò in Centrale ad aggiornare Jordan sulle ultime novità» annunciò Stiles, mettendosi il libro sotto braccio e afferrando la giacca.
«Ma…» obiettò Malia, senza sapere davvero cosa dire per fermarlo.
A Stiles non servì altro per capire il dubbio inespresso di sua moglie.
«Farò presto» promise, lasciandole un bacio frettoloso a fior di labbra.
«Vai tranquillo, Stiles. Io ed Allie faremo compagnia a Malia finché non tornerai» lo rassicurò Lydia quando Stiles si bloccò davanti alla porta nel guardare Malia.
Annuì distrattamente, gli occhi stranamente smarriti. Scosse la testa come a voler scacciare una mosca fastidiosa ed uscì.


 
***


«Ci sta sfuggendo qualcosa, Jordan. Ne sono sicuro. Manca qualcosa».
Stiles si muoveva frenetico avanti e indietro nell'ufficio dello Sceriffo, di fronte a un Jordan che faticava a seguire i suoi ragionamenti contorti. E Stiles si sentì improvvisamente ragazzo in quel momento, nel ricordare quando erano gli occhi di suo padre a guardarlo in quel modo, da dietro quella stessa scrivania.
Ma non era più un ragazzo. Ora aveva il potere che la sua carica gli conferiva e l'esperienza di oltre un decennio a gravargli sulle spalle.
E per quanto strane fossero le congetture di Stiles, Jordan non ne dubitava mai.
Lo Sceriffo rilesse il passo che riguardava la Morrigan sul libro che gli aveva portato Stiles e chiese: «Oltre le cose ovvie, intendi?».
Stiles gli rivolse un'occhiata esasperata. «Sì!» esclamò, incredulo davanti a una domanda del genere.
«Qui c'è qualcosa di strano, Jordan. Il primo omicidio è stato quello di Meagan Lavery, ma i cadaveri… » non finì la frase perché il suo cellulare iniziò a squillare.
Era Malia. Stiles aggrottò la fronte guardando l'ora: ormai era notte inoltrata, si era trattenuto alla Stazione di Polizia più di quanto avrebbe voluto, ma Malia non era solita preoccuparsi per cose del genere.
Rispose con il cuore in gola. «Che succede, Mal?».
«Lydia ha visto qualcosa» disse e dal suo tono capì subito che non si trattava di nulla di buono «L'ho lasciata che dormiva sul divano insieme ad Allie e quando sono tornata in salone, dopo aver messo a dormire Jamie, l'ho trovata che singhiozzava in una specie di dormiveglia…»,
«Come un terrore notturno?» le venne incontro Stiles.
Jordan si avvicinò a lui con espressione interrogativa, capendo che si trattava di Lydia.
«Okay, Mal. Dimmi solo cos'ha detto Lydia»,
«È iniziato con un urlo e finirà in grida»,
«Nient'altro?» chiese senza riuscire a mascherare la delusione.
«No. Ora si è calmata ma non riesco a svegliarla, Stiles».
«Arrivo. Io e Jordan arriviamo subito» promise e riattaccò.
Jordan aveva già preso la giacca e le chiavi della macchina, aspettando che anche il collega si muovesse.
«È iniziato con un urlo e finirà in grida» ripeté Stiles fissando lo sguardo sullo schermo del telefono spento.
«Andiamo, Stiles. Ci penserai dopo» sbottò lo Sceriffo.
«Aspetta solo un attimo» ribatté Stiles, torturandosi la cute con foga.
Jordan fece un verso scettico «Se si trattasse di Malia ti fermeresti ad aspettare solo un attimo?».
Stiles arricciò le labbra e non rispose.
«Quello che voglio dire è che non è iniziato in un grido» masticò a denti stretti.
Parrish aggrottò la fronte.
«Ma cosa stai dicendo?».
«Lydia ha detto che è iniziato in un grido. C'è stato un altro omicidio prima di quello di Meagan Lavery. Forse un corpo non ancora rinvenuto. Torniamo nella foresta» spiegò Stiles e Parrish lo guardò come se fosse improvvisamente impazzito.
Scosse la testa e provò a farlo ragionare: «La squadra di ricerca ne ha già scandagliato ogni centimetro per cercare prove. Non c'è nulla, Stiles. Se ci fosse un cadavere nascosto tra gli alberi a quest'ora anche il branco di Brett se ne sarebbe reso conto».
Stiles chinò il capo, sconfortato. In qualche modo sapeva di avere ragione.
Parrish stava per raggiungere la porta dell'ufficio, stufo di perdere altro tempo, quando si bloccò di colpo con la mano già sulla maniglia della porta e si voltò verso il collega come se d'un tratto avesse avuto una rivelazione.
«Un mese fa è stato ritrovato nei boschi il cadavere di una donna. Stava sul confine della contea e per questo il caso era andato alla polizia di Gammon Allen dato che i loro agenti erano arrivati sul posto prima di noi».
Stiles batté il pugno sulla scrivania «È lei!» esclamò, «Mi ci gioco la carriera, Jordan. È lei la prima vittima, non Meagan Lavery. I cadaveri sono tre».
Parrish annuì convinto «Chiama Scott e digli di avvisare anche Brett Talbot. È il momento di far visita allo Sceriffo della contea di Gammon Allen».


 
***


«Chi è?».
Scott guardava il display del proprio smartphone con cipiglio scuro.
A quella domanda si riscosse: Kira si stava infilando nel letto sotto le coperte accanto a lui e non aveva affatto l'aria di chi era pronto a godersi una notte di riposo.
Guardava il marito con sospetto, accomodando meglio la schiena sui cuscini.
Scott spense il cellulare e lo posò sul proprio comodino.
«Stiles», disse. «Lui e Parrish hanno trovato qualcosa. Domani mattina ce ne occuperemo».
«E il lavoro?» chiese Kira, «Continui ad usare giorni di malattia. Finirai nei guai, prima o poi».
Scott sorrise divertito: «Non è la stessa cosa che facevamo al liceo? Saltare le lezioni e indagare su mostri assassini. Sono riuscito a laurearmi, no? È tutto sotto controllo»
Kira sbuffò: «Non scherzare!».
Scott le prese una mano e se la portò alle labbra per baciarne il dorso, poi il palmo e il polso.
«E tu non preoccuparti» soffiò, poco prima di allungarsi per raggiungere le labbra della donna.
Scostò le lenzuola per muoversi più liberamente. Non se ne era accorto prima, ma adesso che l'aveva scoperta notò subito la lingerie che indossava sua moglie.
«è nuova questa?» chiese con una risata inequivocabile.
Kira gli rivolse un'occhiata innocente «Oggi sono andata a fare shopping con le ragazze. Ho pensato che ci avrebbe fatto bene passare un po' di tempo per conto nostro» rispose Kira in modo allusivo.
Scott le sorrise, carezzandole con calma le cosce nude, sollevando di poco la sottoveste di seta grigio perla, che si posava morbida sul corpo snello di Kira, mettendone in risalto i punti giusti.
Non era un caso se non erano più riusciti ad avere momenti di intimità. Poco c'entravano il Darach e gli omicidi. Kira era sfuggente in quei giorni; quando Scott le si accostava, all'improvviso uscivano fuori cose come lavatrici da dover mettere, cene da preparare, il bagnetto di Matty, i compiti di Adam o la merenda per Caleb, il quale si trovava in un periodo in cui rifiutava qualsiasi tipo di cibo.
Ma il problema non erano le faccende quotidiane, quelle non erano mai state un impedimento. Il problema era Scott. Scott e le sue frasi dette senza alcun peso. Quell'accenno al quarto McCall la ossessionava tanto da tormentarla per gran parte del giorno.
«Parlane con lui» le aveva detto Malia, quando Kira aveva trovato il coraggio di confidarsi con l'amica. Scott era bravo ad ascoltare. Se il branco aveva un problema lui era quello che lo risolveva. Il branco veniva prima di tutto. Eppure l'unica persona che si sentiva esclusa dalla sua considerazione era proprio sua moglie, la dolce consorte che aveva scelto per condividere gioie e dolori. E Kira era stanca di mostrargli sorrisi solo per renderlo felice.
La bocca di Scott era sul suo collo e le mani erano giunte a stuzzicarle il piccolo seno sodo.
«Non voglio altri figli, Scott» sbottò Kira di punto in bianco, spingendolo via proprio mentre provava a slacciarle il reggiseno. Il pensiero di un quarto figlio si era fatto martellante nella sua testa, tanto da lasciarla priva di fiato.
Scott dapprima la guardò senza capire, ancora annebbiato dalla passione. I suoi occhi scuri erano spalancati, la bocca semiaperta in un'espressione sconcertata per essere stato allontanato con tale foga.
«Pensi che in questo momento io stia pensando a mettere al mondo un altro bambino quando già quelli che abbiamo potrebbero essere in pericolo?».
Kira lo guardò spaventata: aveva lanciato la bomba e tanto valeva arrivare fino in fondo.
«Non voglio altri figli. Mai più. Ne abbiamo tre. Tre, Scott. Vanno bene, sono anche troppi».
«Ma che stai dicendo?».
Scott si tirò su a sedere e la guardò con più attenzione. Kira appariva fuori di sé, spaventata e stanca. I suoi occhi a mandorla si muovevano veloci a individuare ogni singola sfumatura d'espressione sul volto di Scott.
L'Alpha non era abituato a guardare il giovane viso di Kira e trovarlo privo della morbida curva del suo dolce sorriso. Così tornò a sdraiarsi accanto a lei, incrociò le dita alle sue e disse: «Ricordi il giorno in cui ti chiesi di sposarmi?»
«Cosa c'entra?» sbuffò Kira, provando a tirarsi indietro, ma lui non glielo permise. La sua stretta era salda attorno ai fianchi sottili della donna.
«Sshh, ascoltami. Adam aveva già due anni ma a stento sapevamo fare i genitori. E tu quel giorno mi dissi che eri di nuovo incinta. Che avremmo avuto Caleb. E allora mi sono reso conto di quanto la nostra vita stesse correndo veloce senza sapere neppure verso quale traguardo. Quel giorno mi sono fermato e ho visto quello che mi stavo perdendo. È per questo che te l'ho chiesto in quel momento, perché avevo capito di dover fare le cose con calma, iniziando da quella più importante. Sei tu il mio traguardo, Kira. Tu e i bambini. Noi, insieme, felici e contenti. È il finale felice più vecchio della storia».
«Basta, Scott. Non è questo…».
Scott si alzò su a sedere, serrò gli occhi e indurì la mascella.
«Vuoi lasciarmi?»,
«No!» esclamò subito lei, mettendosi a sedere a sua volta. «Sì… Non lo so».
«Scott, io ti amo, ma…»,
«Ti ho aspettata. Quando hai scelto di unirti alle Skinwalker ti ho aspettata per anni» la sua voce suonò ferita nel profondo.
«Ho difficoltà a controllarmi, Scott. Sono tornata prima solo per te, ma non ero ancora pronta! Devo tornare nel deserto».
«Non puoi nasconderti dietro la Volpe per sempre, Kira!»
«Ti rendi minimamente conto quanto sia difficile per me? Ho trentacinque anni ma sembro a malapena maggiorenne!»
«È per questo? Per il tuo aspetto?».
Scott non riusciva a seguirla, continuava a saltare da una scusa all'altra, mascherando quel che davvero la devastasse.
Kira perse definitivamente la pazienza: «Questo non è il mio finale felice! Perché tu un giorno morirai!» gridò, saltando in piedi, «Adam, Caleb e Matty moriranno e io resterò qui, da sola, con l'aspetto di una ventenne e con il solo desiderio di seguirvi» singhiozzò, arpionandosi con le unghie alla sua stessa carne del petto.
«E di questo a te non importa. Non ci pensi e continui a chiedere sempre più da me, ma io non ho più nulla da darti!».
«Tu pensi che io sia distratto, che non mi accorga di ciò che provi o di come ti senti» mormorò Scott, «ma io lo vedo che non riesci ad essere più felice da molto tempo. Mi sono accorto di quanto la Volpe ti stia logorando e…» sospirò.
«E?» lo indusse a continuare Kira, incredula che dalle labbra di suo marito stessero uscendo davvero quelle parole.
«Niente, è sciocco».
«Dillo, Scott. Per favore».
Scott strinse le labbra, poi la accontentò: «Ho soltanto pensato che se fosse nata una bambina… una Kitsune… allora tu avresti avuto qualcuno. Avresti avuto un motivo per essere felice anche dopo» biascicò, imbarazzato.
«La quarta McCall?» chiese Kira in un filo di voce, tornando a poggiarsi sul letto, di fronte a Scott.
Lui annuì, guardandola con una rinnovata speranza «La quarta McCall».
Kira sorrise tra le lacrime e gli accarezzò il volto scuotendo appena la testa «Non basterebbe, Scott».





Angolo Autrice: Innanzi tutto chiedo scusa per la lunga attesa, ma tra vacanze e poca ispirazione, non ho proprio saputo fare di meglio. In ogni caso spero che il capitolo valga l'attesa e che vi abbia lasciato soddisfatti!
Finalmente la nebbia attorno al mistero degli omicidi inizia districarsi e il branco si avvicina sempre più a capire le vere intenzioni del Darach.
Vi ringrazio di cuore per tutte le vostre meravigliose recensioni, al prossimo capitolo!^^

E ricordate: è iniziato con un urlo e finirà in grida .

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Capitolo 9
*** Capitolo Nono ***


 
Nono Capitolo










 
La luce della cella sfarfallava ininterrottamente.
Faceva freddo, in quel cubicolo spoglio. Vi era solo una brandina addossata contro il muro, su cui una bambina stava rannicchiata, avvolta in una spessa coperta di pile dal forte odore di muffa.
La bambina tremava, dondolandosi sul materasso logoro, contando i secondi.
Raramente restava sveglia tanto a lungo e quando accadeva arrivava a rimpiangere le siringhe e i sedativi che la facevano cadere in un oblio tanto profondo da cancellare l'incubo di quella realtà spaventosa. Non c'era il freddo quando dormiva, non c'erano la paura, i morsi della fame o il ronzio continuo della luce al neon. Non c'era neppure la cella dai muri di vetro e le facce mostruose che da fuori la fissavano.
C'era solo buio e pace. Alle volte, quando l'effetto dei sedativi stava svanendo, riusciva persino a sognare sua madre, il suo sorriso e i lunghi capelli che odoravano di lavanda.
Sentì un rumore: il suono metallico delle porte automatiche, passi pesanti che si avvicinavano.
Nascose la testa sotto la coperta. Non succedeva mai nulla di buono quando lasciavano che restasse sveglia per così tanto tempo.
Il sangue, le grida, e le corse folli erano una costante nei suoi labili ricordi.
Due uomini si fermarono davanti alle pareti della sua cella e la aprirono. Indossavano una divisa verde e una mascherina bianca a celargli una parte del viso.
«Au secours» piagnucolò la piccola prigioniera, non appena i due furono entrati.
«Nessuno verrà ad aiutarti, bambina» rispose uno degli uomini con una risata secca, avvicinandosi alla brandina sopra cui si nascondeva.
Lei non capì ciò che le disse e continuò a ripetere in un lamento: «Au secours. S'il vous plaît».
«Odio quando inizia a piagnucolare in questo modo» sbottò l'altro, tirando la bambina per un braccio. La piccola finì a terra carponi, mentre la coperta rimase aggrovigliata sul lettino. A coprirla adesso era rimasta solo una lunga veste bianca di cotone.
«Attento, Gale. Non far arrabbiare il piccolo mostriciattolo… te ne potresti pentire», disse il primo, prendendo la bambina per le spalle con più gentilezza.
«Vieni, tesoro, è arrivato il momento di divertirci».
 
***


«Malia, la mia camicia?» chiese Stiles dal bagno. Si affacciò nella camera, non ricevendo risposta. «Malia?».
Stava seduta alla specchiera della camera. Era stata di Claudia Stilinski quella specchiera, suo padre gliel'aveva regalata quando avevano deciso di sposarsi. Malia ci si sedeva raramente, non era una donna che spendeva molto tempo nell'acconciarsi i capelli o truccarsi. Possedeva pochi gioielli e indossava sempre e solo gli stessi: l'anello di fidanzamento e la fede nuziale.
«Cosa?» chiese lei con voce distante.
«La mia camicia. Quella del lavoro, Mal. È tardi, Jordan e Scott mi staranno già aspettando» rispose Stiles, impaziente.
«L'ho lavata» disse allora, con tono titubante.
Stiles si fiondò in lavanderia e ne riemerse con la cesta dei panni sporchi.
«Quand'è l'ultima volta che hai fatto il bucato?», si informò arricciando le labbra e la fronte aggrottata di sua moglie fu una risposta sufficiente. «Okay, fa niente. Andrà bene anche una di queste…».
Prese l'unica che – pur essendo macchiata – odorava ancora di buono e se la infilò.
«Sto andando, penso che tornerò per cena» la informò e Malia annuì.
«A Gammon Allen?».
Le si accostò alla schiena e pose le mani sulle sue spalle. Un libro era aperto sul piano della specchiera e Malia lo chiuse e lo fece scivolare sulle proprie gambe non appena sentì la presenza di suo marito dietro di sé.
E, sebbene la curiosità lo divorasse, Stiles gliene fu grato. Ogni volta che la trovava a leggere testi antichi o a fare strane ricerche su Internet il timore che Malia stesse continuando a cercare un metodo per interrompere il passaggio di poteri tra lei e Claudia si faceva vivo in lui, come una paranoia costante; per questo preferiva volgere lo sguardo altrove e fingere disinteresse, perché averne la certezza l'avrebbe fatto star male più di ogni altra cosa.
Odiava restare nel dubbio, ma quando si trattava di Malia riusciva ad accettare anche quello.
Perciò preferì affondare il viso nell'incavo del suo collo e lasciarle una scia di baci umidi e di morsi tutt'altro che gentili.
«Hai intenzione di mangiarmi, per caso?» rise lei, cercano di fuggire da tutte quelle attenzioni improvvise.
«Sì» soffiò lui, contro la sua guancia, stringendola più forte al petto.
Stiles cercava un contatto nei modi più strani e frustrati. La sentiva distante, forse perché era sempre più distratta in quei giorni, con la testa tra le nuvole, nonostante l'intimità tra di loro non mancasse.
Qualcosa era cambiato da quando Malia aveva avuto quelle perdite di sangue nel bosco, la prima volta che si erano trovati faccia a faccia con il Darach.
Stiles aveva paura di farle male, adesso. Ai suoi occhi la vita di sua figlia era costantemente a repentaglio, mentre Malia non era più la donna forte e indistruttibile che era abituato a vedere.
Eppure la sera, nel letto, non poteva fare a meno di cercarla. Le accarezzava l'intero corpo, come se volesse memorizzarne ogni curva. La lambiva con le labbra, fino a cedere e lasciarle caldi baci in mezzo alle gambe.
Malia allora ricambiava con le stesse accurate attenzioni, senza potergli concedere di più; ma a Stiles sembrava non bastare mai.
Non era facile dover sopportare quella – seppur sottile – distanza, per due come loro abituati ad amarsi in modo semplice ogni qual volta ne sentissero il bisogno.
Malia si allungò per raggiungere le labbra di suo marito, dimenticandosi del libro che aveva ancora sulle gambe e che cadde sul pavimento rivelando un foglio spiegazzato.
«Che cos'hai lì?» volle sapere Stiles, a cui non era sfuggito nonostante lei si fosse sbrigata a raccoglierlo da terra.
«Niente di importante» rispose Malia, nascondendo ciò che aveva tra le mani alla sua vista.
Stiles rise «Dai, fammi vedere» insisté, sporgendosi verso di lei e prendendo ciò che cercava di nascondere.
Si ritrovò con in mano una lettera che recava il timbro di Eichen House.
L'espressione di Stiles si fece subito seria.
«Cosa vuol dire?»
Malia si riappropriò della lettera «Nulla. Riguarda Corinne. Per il funerale… sono l'unica parente prossima che hanno tra i contatti e mi hanno chiesto se volessi…»
«No» la interruppe Stiles. Il suo tono fu categorico.
«Ma…», provò a ribattere.
«Malia, ha tentato di ucciderti. Per la seconda volta. Non si merita nulla da te, men che meno una commemorazione».
«Ci ha dato la chiave per capire cosa vuole il Darach. La sua ultima parola è stata per aiutarci. Senza di lei non avremmo scoperto chi fosse la Grande Regina così facilmente».
Ma Stiles non sembrava toccato dalla cosa, perciò aggiunse: «Non so… ho sempre creduto che se non fosse stata costretta a dividere i suoi poteri con me, forse mi avrebbe in qualche modo amata come sua figlia. Lo so, è stupido…»,
«No. Non è stupido», la fermò subito Stiles, incredulo davanti a tali parole.
Malia sospirò, poggiandosi una mano sulla fronte con aria sconfortata.
Stiles si accovacciò per avere gli occhi alla stessa altezza della donna «Non è stupido, tesoro» ripeté, prendendole una mano tra le sue, senza riuscire a fare a meno di considerare quanto l'essere diventata madre l'avesse cambiata. La Malia ragazza che non faceva avvicinare nessuno, che a malapena aveva fatto avvicinare lui, non avrebbe mai ammesso un sentimento del genere.
Malia abbozzò un sorriso e disse: «Tutti meritano di riposare in pace, Stiles».
Lui si tirò di nuovo su, sbuffando. «A malapena riusciamo ad arrivare a fine mese, Mal. Non possiamo permettercelo», tagliò corto. Seppure lei era riuscita ad intenerirlo, Stiles non sarebbe mai stato capace di concedere a Corinne niente di più che del disprezzo.
Malia arricciò il naso e gli rivolse uno sguardo acuto.
«Non dovrai pensare a nulla e i soldi non saranno un problema» disse e Stiles ebbe la certezza che sua moglie avesse già qualcosa in mente. Qualcosa che lui di certo non avrebbe approvato.
L'uomo chiuse gli occhi e sospirò «Ci penseremo al mio ritorno, okay?».
Malia arcuò le sopracciglia, ma non rispose.
«Stai attento» disse, invece, mordendosi il labbro inferiore. Sarebbe voluta andare con lui, questo era più che evidente.
Stiles cercò di metter su un'espressione rassicurante e le rispose: «Starò con un Alpha davvero molto apprensivo ed arrabbiato. Sono in una botte di ferro, credimi».
L'angolo della bocca della donna si piegò in una smorfia.
Stiles guardò l'orologio da polso e poi sospirò: «Cosa c'è, Mal?».
Lei tentennò prima di rispondere: «Solo… potrebbe non accorgersi del pericolo in tempo».
L'uomo alzò gli occhi al cielo. Malia gli aveva parlato della sua teoria a cui era giunta insieme a Lydia; del fatto che il Darach poteva aver bloccato le visioni della Banshee e “manomesso” i sensi da mannaro suoi e di Scott, ma Stiles si era dimostrato scettico a tale ipotesi, come lo era stato quando Malia gli aveva raccontato di aver visto Deaton al cimitero.
«Da quel che mi risulta sei ancora un Coyote Mannaro e non una Banshee. Lascia che dei morti se ne occupi Lydia» le aveva detto il giorno stesso per poi doversi rimangiare quelle parole quando avevano scoperto che Morrigan non era altri che la Grande Regina presagita proprio dal defunto Deaton.
«In tal caso ho nella manica anche un Mastino Infernale e una Banshee pronta a esplodere» le disse e Malia annuì, rassegnata. Non poteva farci nulla, Stiles non l'avrebbe mai fatta andare con loro.
Era un disco rotto di preoccupazioni e premure che esasperavano Malia. Forse in un'altra situazione le avrebbe trovate dolci e le avrebbe persino adorate; ma non era il momento per simili attenzioni, quello.
Se davvero i cadaveri erano già tre, forse non sarebbero riusciti ad evitare il pericolo prima della catastrofe.
 
***


A Stiles non era mai piaciuto lo Sceriffo di Gammon Allen. Lo Sceriffo Ortiz era un uomo tarchiato, con una grossa faccia ovale e due baffi da tricheco sempre unti. Aveva la stessa età di suo padre, ma privo della sua capacità di capire quando arrivava il momento di accettare la pensione e lasciare la poltrona a chi avrebbe saputo svolgere il lavoro meglio di lui.
Stiles l'aveva visto una sola volta, ma se lo ricordava ancora bene. Al tempo suo padre era lo Sceriffo e Ortiz solo un agente che aspirava alla carica di Vice. Era riuscito a raggiungere la vetta con tale difficoltà che l'avrebbero dovuto scaraventare giù a pedate per fargliela abbandonare.
Era solo un bambino quando lo vide per la prima volta e a malapena si ricordava di quale caso si trattasse. Il rapimento di un bambino, forse? Sapeva solo che avevano rischiato di non riuscire a risolvere il caso per colpa di Ortiz e alla sua leggerezza nell'ignorare prove evidenti.
«Stilinski!» proruppe quando vide entrare il quadretto nel suo ufficio.
Scott, Jordan e Lydia si voltarono a guardare Stiles, il quale drizzò la schiena, sorpreso.
«Buongiorno, Sceriffo» disse e Ortiz esplose in una grassa risata.
«Vieni, vieni qui ragazzo mio. Sarò sincero» grugnì mettendo in bocca l'ultima fetta di beacon rimasta sul piatto della sua colazione per poi pulirsi le dita sui baffi, «mi aspettavo di ricevere tuo padre. Ma ho capito subito che lo Stilinski in questione eri tu. Sei identico a tua madre»
«Si ricorda di mia madre?»
«Una donna molto graziosa con una mente brillante. Non ho mai capito cosa ci trovasse in tuo padre» rise sguaiatamente. «Ma dimmi, come sta il vecchio? Dicono che la pensione butti a terra lo spirito di un uomo».
«Se la cava piuttosto bene» masticò Stiles in risposta.
«Siamo qui per una questione urgente, Sceriffo» li interruppe Jordan con voce tesa, tirando fuori il documento ufficiale.
«E tu saresti?»,
«Sceriffo Parrish, Signore» rispose Jordan, posando il foglio sulla scrivania e indicando il distintivo sulla sua camicia.
«Il tribunale di Beacon Hills chiede il fascicolo su Ignota 2141 come materiale d'indagine sul caso di Meagan Lavery e Thomas Murray. Si sospetta di un killer seriale».
«Lavery e Murray? Certo, certo… ne ho sentito parlare. Poveri ragazzi, che disgrazia» disse Ortiz aggrottando le sopracciglia.
Poi distese nuovamente la fronte come se si fosse ricordato d'un tratto la discussione principale e disse: «Ignota 2141?» ripeté Ortiz prendendo in mano il foglio che Parrish gli stava ancora tendendo, «Quella poveretta trovata nei boschi settimane fa? Il caso è stato archiviato come morte naturale. La donna era anziana, senza fissa dimora, nessuno ha reclamato mai il suo corpo e la sua identità è un mistero. Non c'entra nulla con il vostro caso».
«Voglio il fascicolo, Sceriffo. Ogni prova, ogni indizio che avete raccolto e il referto del cadavere fatto dal vostro medico legale».
Ortiz alzò le spalle e lasciò ricadere il foglio sulla scrivania, le sopracciglia arcuate in un'espressione tracotante volta a sbeffeggiare i toni ufficiosi che stava usando lo Sceriffo Parrish.
«Se insistete» disse, alzandosi dalla poltrona.


«Il corpo è stato donato alla scienza» raccontò il Vice di Ortiz, facendo loro strada verso l'archivio, al fianco del suo capo.
Il Vicesceriffo di Gammon Allen era un giovane uomo sulla trentina, dal viso pulito e dai tratti armoniosi, con biondi capelli riccioluti che lo facevano assomigliare a un putto.
«Il caso è stato archiviato come morte naturale», ribadì, confermando ciò che aveva detto anche Ortiz, «Quella povera donna ha trovato una fine miserevole tra i boschi. Il freddo di quella notte l'ha strappata alla vita e gli animali hanno fatto scempio del suo corpo».
«Di sicuro qualche coyote. Da queste parti è pieno. Bestie immonde i coyote» sputò Ortiz, aprendo la porta dell'archivio.
«Io trovo che siano animali eleganti, in realtà» scattò subito Stiles sentendosi punto nel vivo. «Sono silenziosi, protettivi e quando ululano sembrano intonare un canto».
«Lo terrò a mente per il prossimo cadavere che troverò maciullato nei boschi» brontolò Ortiz.
«Sapevate che sono animali esclusivamente monogami?» Scott mise una mano sulla spalla di Stiles per indurlo al silenzio, ma lui continuò imperterrito: «Quando scelgono un compagno gli restano fedeli per tutta la vita».
«Non mi interessa» sbottò Ortiz.
«Anche dopo la morte» insisté Stiles, con un'espressione soddisfatta stampata sul viso.
«Il mio collega ha… un'accesa passione per questo particolare animale», provò a scusarlo Parrish, mentre lo Sceriffo di Gammon Allen si scambiava un'occhiata perplessa con il proprio Vice.
«Vogliamo procedere?» masticò Ortiz, visibilmente stufo di dover intrattenere ancora per molto gli ospiti di Beacon Hills.
«Sì» acconsentì subito Parrish ponendosi al fianco di Ortiz, prima che Stiles potesse aggiungere alcunché.
 
***


Non lo vedeva ormai da anni, ma le era bastato mettere piede in quell'edificio per ricordare l'esatta sensazione che le dava stare insieme a lui.
Malia sentì nel petto l'agitazione crescere e le mani formicolare, mentre saliva le scale, piano dopo piano, fermandosi solo un paio di volte per poter riprendere fiato. Quel giorno i piccoli crampi al bassoventre non le davano tregua.
Inconsciamente aveva iniziato ad associare quelle fastidiose contrazioni ad un segnale di pericolo: piuttosto frustrante quando esso si aggirava in mezzo a loro privo di volto, odore o intento.
Peter Hale la stava aspettando sulla soglia del loft: piedi nudi, jeans e maglietta dall'immancabile scollo a v. Malia non si aspettava altrimenti; d'altronde nessuno poteva entrare nell'edificio senza che lui lo venisse a sapere.
La scrutò in silenzio, finché Malia non gli fu finalmente difronte.
«Sei incinta» constatò. Una strana luce gli brillò in fondo agli occhi chiari.
«Hai una vista davvero sviluppata. Incredibile» ironizzò Malia e Peter arricciò le labbra.
Se perché lo trovò divertente o offensivo, Malia non seppe dirlo. In fondo, Peter, aveva sempre la stessa espressione impassibile.
La fece entrare e insisté perché si sedesse e accettasse qualcosa da bere.
Così Malia, con un bicchiere d'acqua in mano a freddarle le dita, gli raccontò brevemente ciò che era successo a Corinne dentro Eichen House. Non sembrava propensa a trascorrere nel loft più dello stretto necessario, parlava in fretta senza lasciar spazio a domande o esclamazioni sorprese.
Poi gli porse la lettera inviatale dalla casa di cura: «Penso che sia giusto celebrarle un funerale. Una cerimonia semplice».
Peter guardò il foglio con fronte aggrottata, senza neppure vederlo realmente.
«Hai detto che è stata uccisa da un Druido con una veste rossa e una maschera di legno?» ripeté quasi sillabando ogni parola.
Malia lo scrutò dall'alto al basso. «Sì. È un adoratore della dea Morrigan. Ti suona familiare, per caso?», Peter non sembrò gradire quel suo tono inquisitore, ma la sua espressione era – come di consueto – impenetrabile e subito un sorriso furbo corse sulle sue labbra a cancellare ogni titubanza.
«Perché dovrebbe interessarmi pagare a mie spese il funerale di una pazza assassina il cui unico scopo nella vita è stato quello di uccidere mia figlia?».
Una leggera fitta attraversò il petto di Malia nel sentirsi chiamare da lui in quel modo, che mascherò subito con una smorfia.
«Ci sarà pur stato qualcosa tra di voi, no?» chiese, agitando distrattamente la mano nella sua direzione come a voler supporre chissà cosa.
Peter inarcò le sopracciglia «Probabilmente solo una notte troppo movimentata», rispose, provocando in Malia un'espressione di disgusto.
«Da quel che sono riuscito a scoprire, al tempo lei era interessata al branco degli Hale e alla nostra Alpha: mia sorella. Il nostro incontro non è dovuto ad altro che a questo e – senza alcun dubbio – al mio irresistibile charme».
Malia alzò gli occhi al cielo.
Peter si concesse un breve sorriso davanti a quella reazione. Si sedette sul divano davanti al suo e a Malia bastò seguire dove puntava lo sguardo per capire ciò che stava per dire.
Prese fiato e poi disse: «Allora, è una femmina?».
Sul viso di Malia si allargò un sorriso spontaneo, «Sì».
«So che ne hai avuto anche un altro», tentennò.
«Un maschio, sì. Ha due anni, adesso. Tre ad Aprile», confermò, torturandosi le dita delle mani.
«Immagino sia un'esperienza meravigliosa».
Si versò da bere uno Scotch
«Terrificante, a dirla tutta», rise lei per la prima volta «Ma Jamie è una bambino dolcissimo. Ha appena imparato a contare fino a dieci», gli occhi le brillarono e Peter catturò ogni particolare di quel breve momento, deciso a non dimenticarne neppure un istante.
Peter si alzò dal divano con sguardo scuro e Malia ritornò seria, ricordandosi che era con Peter Hale che stava parlando.
L'uomo si posizionò davanti alle vetrate del loft che davano sul centro di Beacon Hills, voltandole le spalle.
Diede una sorsata al whisky e poi disse con amarezza: «Sai, non ho desiderato altro se non avere un figlio, da quando ho scoperto la tua esistenza».
«Di tempo ne hai avuto e le donne non ti mancano», rispose Malia, cercando di mantenere una tono di voce leggero.
«Non volevo una soltanto una figlia, Malia. Volevo te», si voltò di nuovo a guardarla.
Malia lo stava sfidando con lo sguardo, come faceva ogni qual volta provava ad azzardare un simile discorso.
Vedeva il fuoco degli Hale bruciare in fondo ai suoi occhi scuri e lo trovava incredibile, in particolar modo ora che davanti a sé aveva una donna adulta, una madre, e non più una ragazzina.
Per tutto questo tempo Peter non aveva provato nient'altro che rimorso e se lo era portato dietro, alimentandolo con false speranze, occasioni sprecate e decisioni sbagliate.
Se ne fosse stato capace, forse avrebbe persino pianto nel constatare quanto ancora si stava perdendo.
«Ti restituirò tutti i soldi quando potrò» disse Malia ritornando al discorso originale, come se Peter non avesse aperto bocca. «Voglio soltanto che Corinne non venga seppellita nel cimitero di quell'orribile posto».
Peter annuì «Hai ragione, si troverebbe molto meglio accanto alla tomba dei tuoi genitori adottivi. Assassina e vittime, fianco a fianco, a condividere il riposo eterno».
Gli occhi di Malia si fecero all'istante di un blu intenso, scattò in piedi e strappò di mano a Peter la lettera di Eichen House.
«Lascia perdere» sbottò a denti stretti, pronta ad andarsene.
«Aspetta» la fermò l'uomo, visibilmente divertito dalla sua reazione e Malia non poté far altro che restare ad ascoltare cos'altro aveva da dire.
«Corinne non era nulla per me, ma pagherò per una funzione in suo onore se questo è ciò che vuoi» le promise e Malia attese che continuasse, per scoprire dove si trovasse l'imbroglio. Peter non faceva mai nulla senza ottenere un tornaconto personale.
Difatti, aggiunse: «In cambio tu dovrai fare una cosa per me».
Malia sospirò: niente era mai facile quando si trattava dei suoi genitori biologici.
«Ovvero?» chiese.
«Voglio un diario. Il diario di mia sorella Talia, datato 1999. Si trova nella cripta degli Hale e, come ben sai – dato che già una volta hai provato a derubarmi – solamente un Hale può accedervi».
Malia gli rivolse un'occhiata scettica e un po' scontrosa: «E perché diavolo non vai a prendertelo da solo?».
Peter schioccò la lingua sul palato, con fare di finta innocenza «Vedi, come dire… io e mia sorella non andavamo molto d'accordo. Ha sempre avuto questa tendenza a nascondere ciò che la riguardava. Mi riteneva ingiustamente poco… affidabile» si limitò a dire, con un sorriso felino.
Malia sospirò, scuotendo leggermente la testa «Bene», rispose «se si tratta solamente di questo, noi due abbiamo un patto».
 
***


Lydia stava analizzando i dati del referto e le foto del cadavere da più di un'ora ormai.
Parrish, invece, era intento a convincere lo Sceriffo Ortiz a rilasciargli il materiale per le indagini.
«Posso concedervi solo di consultare i documenti. Niente esce da questo archivio» ribadì, masticando annoiato una ciambella ricoperta di zucchero a velo.
«Jordan», lo chiamò d'un tratto Lydia. Lui l'affianco, seguendo con attenzione tutto quello che gli riferì in un bisbiglio.
Seguì il suo dito, che si spostava sicuro sulle foto indicando particolari che a un occhio esperto non sarebbero potuti sfuggire.
Parrish annuì risoluto e si rivolse nuovamente allo Sceriffo di Gammon Allen: «Se possibile, vorrei parlare con il vostro medico legale».
«Il dottor Wolkin?» chiese Ortiz.
«Il dottor Collins» lo corresse Lydia, leggendo un nome differente sui dati del referto.
Ortiz esplose in una risata: «Buona fortuna, allora. Collins – pace all'anima sua – è morto non più di tre settimane fa. Quello che vedete è l'ultimo referto di cui si è occupato».
Lydia e Jordan si scambiarono un'occhiata d'intesa.
«Sceriffo, non si tratta di morte naturale», disse Lydia «questo taglio alla gola non è opera di un animale, né tanto meno i piccoli fori sull'addome».
Ortiz fece una smorfia e guardò i punti che la donna gli stava mostrando «Vedo solo un ammasso di carne sanguinolento sbudellato dai coyote», sputò.
Lydia stava per ribattere ma Jordan la fermò: «Abbiamo quello che vogliamo. Andiamocene».


Jordan uscì dalla centrale di polizia scombussolato. Scott e Stiles lo stavano aspettando lì fuori: Brett li aveva raggiunti, voleva una risposta, conoscere se e quando sarebbe stato necessario preparare il branco a una guerra.
«Quando ne avrai discusso con il tuo branco, sai dove trovarci» stava dicendo Scott.
«Non ho bisogno di discutere con nessuno» ribatté Brett.
«Non vuoi avvertirli?» si mise in mezzo Stiles, con tono sorpreso.
«Io sono l'Alpha. Le decisioni spetta a me prenderle».
Scott aggrottò la fronte «Non vuoi mettere al corrente neppure tua moglie o tua sorella?».
Brett arcuò le sopracciglia, visibilmente infastidito da tutte quelle domande.
«No» sillabò.
Scott e Stiles si lanciarono un'occhiata d'intesa.
«Niente ringhi spaventosi» disse Stiles.
«Niente minacce con la katana» fece Scott.
«Amico, ci siamo proprio complicati la vita con le nostre stesse mani» sospirò Stiles, annuendo con convinzione.
Scott tornò a rivolgersi a Brett «Appena avremo avvisato anche Malia e Kira ti faremo sapere come vogliamo procedere».
Brett roteò gli occhi «Ne ho abbastanza di voi due sfigati».
Jordan li raggiunse e, senza troppi complimenti, prese Stiles per una manica e lo trascinò da una parte.
«Era una Banshee».
«Cosa?» chiese lui, confuso.
«L'anziana. Il cadavere. Il primo cadavere» sibilò Jordan «era una Banshee. E tu l'avevi capito, non è vero?»
Stiles si grattò la nuca, «Lydia ha detto che è iniziato con un urlo. L'urlo della Banshee. Ma Meagan era un Licantropo, per questo doveva esserci un altro corpo prima del suo», spiegò, come se quel ragionamento fosse la cosa più banale del mondo.
Jordan si strofinò una mano sul viso «Maledizione», imprecò, agitandosi sul posto.
«Dov'è Lydia?» chiese allora Stiles, non vedendola ancora uscire.
«Ha insistito per rimanere e controllare le prove che hanno raccolto nel bosco. Non sono molte ma penso che abbia trovato qualcosa».
Quasi non fece in tempo a concludere la frase che la donna uscì, camminando a passo svelto. Più che altro sembrava cercare di non dare a vedere che stava a tutti gli effetti fuggendo dalla Centrale di polizia.
«Penso che tu debba andare a prendere la macchina» disse Stiles, cogliendo l'espressione tesa sul volto di Lydia, a un Jordan totalmente incredulo.


Parrish guidava a tutta velocità sulla strada principale verso Beacon Hills.
Lydia, accanto a lui, stava spiegando tutto ciò che era riuscita a scoprire studiando il referto.
«Non so quanto sia attendibile il documento redatto dal dottor Collins, ma tutto coincide con quello che ha detto lo Sceriffo e il suo Vice. Ma nulla di quello che è stato scritto coincide con la realtà: quella povera donna è stata uccisa nello stesso identico modo di Meagan e Thomas, ma il corpo era abbastanza rovinato da non destare sospetti. Così il dottor Collins l'ha spacciata come morte naturale e – dalla fine che fatto anche lui – non mi sorprende affatto»
«Il Darach non era ancora pronto ad uscire alla luce del sole» ringhiò Jordan, pigiando il piede sull'acceleratore.
Lydia lo guardò di sottecchi: sapeva a cosa stava pensando. Appena si allontanava da lei, Jordan non faceva che pensare ad Allie. Anche quando la lasciavano con Kira – come quel giorno – o con Malia; non importava quanto potesse essere al sicuro, a Jordan mancava il respiro quando non poteva stringerla tra le sue braccia.
E poi c'era Scott, dal volto sempre scuro e dagli scoppi d'ira improvvisi da quando gli aveva parlato della sua visione su Adam. Lo vedeva affannarsi a catturare qualcosa di inafferrabile, e ci provava con tutto se stesso come aveva sempre fatto, ma questa volta era diverso; questa volta appariva stanco, già sconfitto prima della battaglia.
E Stiles che, nonostante tutto, sorrideva ancora perché era il primo ad essersi reso conto che qualcosa nel suo migliore amico poteva essersi rotta in modo irreparabile. Stiles, a cui aveva mentito, a cui stava nascondendo l'orribile visione su Malia. Una delle prime e una delle più ricorrenti; la visione alle volte cambiava ma l'esito restava lo stesso: Malia immobile, immersa in una pozza di sangue.
Rabbrividì, tornando alla realtà: erano di nuovo dentro i confini della Contea di Beacon Hills e si stavano avvicinando alla città.
Lydia infilò una mano nella tasca della giacca e tirò fuori un foglio spiegazzato.
«Inoltre ho trovato questo» disse, attirando di nuovo l'attenzione dei tre uomini su di sé.
Per poco Jordan non uscì fuori strada.
«Lydia, hai rubato una prova?» esclamò Stiles strabuzzando gli occhi.
La donna arrossì e fece spallucce «Non credo che se ne accorgeranno tanto presto. E non guardarmi in quel modo, Jordan! Non sono stupida, l'ho sostituito con un altro foglio!».
Stiles spalancò la bocca, poi abbassò il capo poggiandolo contro il sedile davanti «Ci degraderanno, ci toglieranno il distintivo e verremo arrestati tutti».
«Smettila» ringhiò Lydia, «e fammi finire».
«Dicevo: secondo la deposizione la vittima stringeva questo foglio in una mano. Per il dottor Collins sono i vaneggiamenti di una mente instabile. Ma quella donna era una Banshee e penso… anzi no, sono sicura che sia un messaggio. Non ho potuto ancora confrontarlo con nessun testo ma credo che si tratti di uno scritto in lingua celtica».
Scott saltò sul posto «Pensi che sia…?»,
«Sì», rispose subito Lydia «L'anziana Banshee ci ha lasciato la Profezia della Morrigan».




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Capitolo 10
*** Capitolo Decimo ***


Decimo Capitolo










 
Guardava l'oggetto dinanzi a sé con un trionfo misto a un sospetto sempre più crescente.
Malia l'aveva trovato dopo ore di ricerche, durante le quali aveva rivoltato la cripta degli Hale senza curarsi troppo di cosa si sarebbe potuto rompere o meno.
Ancora non era certa che l'oggetto trovato era quel che davvero stava cercando ma, d'altronde, aveva sempre avuto un certo fiuto per queste cose.
La scatola di legno levigato, sul piano di marmo davanti a lei, restava ermetica e inaccessibile. La superficie era liscia, priva di alcun spiraglio che suggerisse un'apertura. Solo la faccia superiore presentava un'intarsiatura a spirale, uguale a quella che aveva visto tatuata sul corpo di Derek Hale.
Un brivido le corse lungo la spina dorsale nello sfiorare la scatola: era una Hale, per quanto volesse essere una Tate. Il sangue non mentiva e, se aveva capito qualcosa nella propria vita era che non si poteva scappare, né nascondersi dalla propria natura.
Con il polpastrello dell'indice iniziò a tracciare il percorso concavo della spirale e, quando ne raggiunse il centro esatto, una piccola punta d'ago scattò in alto, pungendola.
Malia ritrasse la mano, più spaventata che ferita, e guardò il suo sangue vorticare velocemente nei solchi della spirale fino a raggiungerne la fine. Poi la scatola si aprì.
Trepidante, tolse il coperchio, svelando una decina di piccoli volumi rilegati in pelle nera. Sul dorso ognuno aveva stampato la data dell'anno in cui si collocava.
Ne prese uno a caso e prese a sfogliarlo: la calligrafia minuta ed elegante di Talia riempiva alla perfezione ogni pagina, senza lasciare alcun spazio bianco.
Tirò fuori i piccoli volumi uno ad uno, alla ricerca di quello che Peter voleva: il diario del 1999.
Non fu difficile trovarlo, nonostante fosse l'unico su cui non era riportata la data.
Malia scorse velocemente le pagine, decisa a scoprire il motivo per cui Peter ne era così interessato prima di concederglielo con tanta facilità. Con sorpresa scoprì che il suo nome compariva ripetutamente, il più delle volte accanto a quello di sua madre, altre a quello di Corinne, così come quello di Peter.
Continuò, quasi ipnotizzata, finché non arrivò su per giù a metà diario, quando le si gelò il sangue nel trovarsi faccia a faccia con un nome che conosceva fin troppo bene. Chiuse di scatto il volume: un rumore l'aveva allertata.
Si voltò, cercando di vedere nella penombra della cripta, ma sembrava come sempre deserta, solo ben più caotica del solito.
Fece scivolare il diario nella borsa ed ecco che un'altra volta il suono tornò strisciante alle sue orecchie. Un rumore raggelante, di unghie che raschiavano il muro.
Tirò fuori gli artigli, pronta a un eventuale scontro, nonostante cercasse di mantenere calmo il respiro, ripetendosi che quella era la cripta degli Hale e solo un Hale poteva accedervi.
Deglutì, tentando di riacquistare la calma mentre si dirigeva a passo svelto verso l'uscita quando, poco prima che potesse riaprire il passaggio, una mano si arpionò al suo braccio, bloccandola.
Si voltò ringhiando, ritrovandosi faccia a faccia con Peter Hale.
Non parve stupita di trovarlo lì, infatti la sua espressione non accennò a rilassarsi in una meno minacciosa.
«Perché mi hai seguito?» abbaiò, i luminosi occhi blu che lanciavano lampi.
Peter, del tutto a suo agio, si concesse un breve sorriso sbieco prima di risponderle: «Proteggo i miei interessi».
«Non ho alcun bisogno della tua protezione» sbottò Malia, strattonando via il braccio dalla sua stretta, risentita da quel che Peter stava insinuando.
«Sì, invece» disse inclinando di poco il capo e anche gli occhi dell'uomo si accesero di un blu brillante. «Soprattutto quando non ti rendi neppure conto di essere seguita».
«Sapevi dov'ero diretta, non mi sembra proprio un difficile inseguimento» ribatté Malia, uscendo a grandi passi dalla cripta, prima che Peter potesse continuare a sbeffeggiarla.
E di nuovo il suo udito fu allertato da quel suono inquietante e il suo sguardo catturato da una sagoma acquattata nell'ombra, che le fu addosso ancor prima che potesse capire cosa quella creatura fosse.
L'istinto fu più veloce della ragione e si ritrasse di scatto, eppure non abbastanza in fretta da evitare che i lunghi artigli nemici le lacerassero la manica della camicia e la carne del braccio.
Serrò gli occhi nel sentire il dolore pungente bruciarla, mentre si scontrava contro il muro di cemento, lasciandosi scivolare poi a terra.
La paura la fece pensare irragionevolmente alla Lupa del Deserto e poi – riacquistando lucidità – al Darach.
Malia non si preoccupò di tornare in fretta sulle proprie gambe e prepararsi ad affrontare uno scontro: Peter non aveva perso tempo.
Il ringhio feroce del Licantropo non era tardato ad arrivare. Pronto, Peter si era gettato in soccorso della figlia senza curarsi di chi avesse di fronte.
Malia non seguì l'azione, che durò solo pochi secondi. Difatti quando si volse a fatica verso Peter, lo trovò a terra, in ginocchio con il volto chino e il braccio e la mano premuta contro l'addome chiaramente ferito. L'ombra nemica si era già volatilizzata, lasciando dietro dietro di sé un puzzo di sangue e marciume. Un odore che lei già aveva addosso, di cui non si era resa conto ma che non era sfuggito a Peter Hale.
 
***


Finché non si trovò davanti casa Stilinski, Lydia era certa che Jordan si stesse dirigendo a tutta velocità verso la Centrale di Polizia. E invece lasciarono Stiles a casa e poi – con la stessa urgenza – raggiunsero casa McCall per prendere Allie.
Kira aprì loro la porta con la piccola dei Parrish in braccio, nel tentativo di cullarla e consolarla dalla mancanza dei genitori.
La bambina si gettò senza alcuna remora tra le braccia del padre, già pronte a prenderla. Lydia, subito dietro al marito, si allungò a lasciarle dolci baci sul piccolo viso paffutello.
Adam e Caleb, sentendo voci all'ingresso si precipitarono ad accogliere Scott, tra urla, saltelli e strattoni.
Lo trascinarono in salone per costringerlo a giocare insieme a loro. Jordan li seguì, stringendo tra le braccia Allie, inconsolabile per l'essere stata abbandonata quelle poche ore.
Lydia, a cui non era sfuggito il fatto che Scott – entrando – non aveva rivolto neppure uno sguardo alla moglie, disse a Kira: «Ti va di offrirmi una tisana calda? Abbiamo novità...».
Kira le mostrò un sorriso piuttosto tiepido, che non aveva nulla a che fare con i soliti carichi di gioia che era solita esibire e le fece strada verso la cucina.


«Una donna senza identità, che se ne va in giro per i boschi di notte come se stesse scappando da qualcosa… Sai a cosa mi fa pensare tutto questo?» chiese Jordan, arricciando distrattamente con le dita i piccoli boccoli rossi di Allie.
«Mh?» fece Scott, che in realtà stava prestando più attenzione a quel che sentiva dire da Kira e Lydia dalla cucina che alle parole dell'amico. Dopo che Lydia aveva terminato di aggiornarla sulle ultime novità, Kira aveva iniziato a raccontarle la discussione che lei e Scott avevano avuto la scorsa sera.
«Eichen House» rispose Jordan.
Scott, sebbene con il cuore in gola, lasciò perdere i discorsi delle due donne e si voltò verso Parrish.
«Era una Banshee, Scott», insisté lo Sceriffo.
«Pensi che fosse rinchiusa lì dentro?», tossicchiò Scott, provando a dissimulare la sua distrazione.
«Potrebbe essere un'ipotesi» annuì Parrish. «In ogni caso serve una riunione del branco il prima possibile».
Scott sospirò «Va sempre tutto a rotoli quando c'è di mezzo quel posto».
«Siamo ancora tutti vivi, nonostante questo»,
«Non lo dire, ti prego».


«Dov'è finito l'Alpha che non si tira mai indietro difronte a qualsiasi pericolo?».
Jordan vedeva la riluttanza sempre più evidente sul volto dell'amico e si sentì impotente, incapace di portare uno spiraglio di luce laddove vedevano soltanto tenebre.
Scott guardò i suoi figli rincorrersi e rotolare a terra attorno a lui come cuccioli festosi e non seppe rispondergli.
 
***


Il sole stava ormai calando quando Malia rincasò.
Sentì subito l'immancabile odore di suo marito accoglierla, un miscuglio di emozioni sempre differenti tra cui prevalevano l'ansia, la frustrazione e una leggera punta di felicità.
Comprese il motivo di quest'ultima solo quando si affacciò nel salone e trovò Stiles addormentato sul tappeto in mezzo a tutti i giochi di Jamie. Il bambino dormiva sdraiato sul suo petto, la manina arpionata alla barba del padre e la testa che si alzava e si abbassava a ritmo del respiro di Stiles.
Stava per accostarsi a loro, quando sentì un rumore alle sue spalle. Si voltò allarmata, con i nervi già tesi, quando si ritrovò davanti suo suocero.
Sospirò, portandosi una mano sul cuore. «Noah… mi hai spaventata».
Il signor Stilinski le fece cenno di seguirlo in cucina per non svegliarli. Ultimamente Stiles chiedeva più spesso a suo padre di badare a Jamie e la maggior parte delle volte adduceva la scusa al dover far riposare Malia.
Perciò lei non si sorprese affatto quando, con fronte corrucciata, il signor Stilinski le chiese: «Dove sei stata fino a quest'ora?».
Malia si sedette al tavolo. Dagli odori della cucina capì che l'uomo aveva preparato la cena e un sentimento di gratitudine le scaldò il cuore.
«Neppure Stiles sapeva dove fossi, quando è rincasato» aggiunse, dato che Malia non gli rispondeva.
«Con Kira» mentì, senza pensarci troppo. «Cercavamo informazioni riguardo al rituale “Controllo della Luna”».
Gli anni avevano reso candidi i radi capelli di Stilinski. Aveva grigie sopracciglia cespugliose e una fronte sempre aggrottata che si spianava solo alla vista del nipotino.
Con quella sua abituale espressione accigliata mise su il bollitore dell'acqua.
«Kira ha chiamato una mezz'ora fa. Se vuoi mentirgli dovrai trovare una scusa differente» brontolò.
Malia arricciò le labbra, dispiaciuta «Ha tanti pensieri per la testa. Non voglio essere l'ennesimo», provò a giustificarsi.
Stilinski scuoté la testa, come se avesse appena sentito la sciocchezza più assurda di tutta la sua vita.
Allora la donna si alzò e si avvicinò all'uomo, poggiando le proprie mani sulle sue spalle.
«Lo terrò al sicuro, nonno», da quando era nato Jamie spesso si divertiva a chiamarlo così, soprattutto quando voleva rabbonirlo. «Sia lui che Jamie. Come ho sempre fatto. Non stare a sentire quello che dice Stiles… lo sai che lui si preoccupa sempre troppo».
«Non mi preoccupo per Stiles!» sbottò con una smorfia «Se c'è una cosa che ho imparato in tutti questi anni è che mio figlio sa cavarsela benissimo anche da solo».
Malia fece cadere le braccia lungo i fianchi, sorpresa. Era la prima volta che Stilinski alzava la voce con lei.
«Non lasci mai che lui si occupi di te. Non lo lasci fare a nessuno» la accusò, mordendo le parole.
Malia lo guardò senza capire «Stiles si occupa sempre di me. Anche troppo» lo contraddì, ignara di dove volesse andare a parare.
Stilinski scosse velocemente la testa e si batté il pugno sul petto. Sembrava affaticato e persino le sue parole uscirono a stento: «Sei come una figlia per me. Ti ho vista crescere, sei parte della mia famiglia. E non ce ne sarebbe una senza di te.»
Malia lo trascinò verso una sedia e lo costrinse a sedersi, preoccupata da quell'improvvisa agitazione. L'uomo spostava nervosamente lo sguardo dal viso della donna al suo ventre.
«Si vede dai tuoi occhi, Malia. Saresti pronta a morire e questo fa paura. Fa paura persino a me»
Il discorso la stava spaventando. Loro scherzavano insieme, non parlavano di queste cose.
«Ve la cavereste comunque senza di me» mormorò provando a sdrammatizzare. Non aveva idea di cosa fare per calmarlo.
Stilinski le pose una mano sul viso.
«No, invece. Nessuno dei due se la caverebbe. Né Jamie, né tanto meno Stiles. Lasciatelo dire da un uomo che non ha mai perdonato sua moglie per averlo lasciato da solo a crescere un figlio. Non permettere che viva con il ricordo di un fantasma per il resto della sua vita».
«Basta, Noah» disse Malia in un lamento, angosciata dal discorso. «Stai diventando vecchio e sentimentale».
Stilinski fece un gesto spazientito con la mano.
«Giuralo. Giurami che resterai fuori da questa faccenda; che questa volta lascerai che se ne occupino gli altri»,
«No» il tono della donna fu categorico «Non lascerò che Stiles si prenda tutta la responsabilità di questa nuova minaccia».
«E a Claudia non pensi? Sei tu l'unica reale minaccia per tua figlia in questo momento! Se continui ad agire in questo modo, senza un minimo di discernimento, finirai per farti ammazzare. E io non sono pronto a perdere una figlia».
Malia strinse le labbra e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Era la prima volta che Noah la vedeva piangere.
«Non è una gravidanza che giungerà al termine, questa» mormorò lei e Stilinski poté vedere dentro ai suoi occhi scuri tutta la dolorosa consapevolezza che quella frase comportava e tutto il peso che le gravava sul cuore in quelle ultime settimane.
Per quanto volesse, Noah non seppe ribattere. Mancavano ancora alcuni mesi e sapeva quanto si presentassero frequentemente le minacce di aborto.
«Non sto rinunciando a lei» assicurò con una vocetta tremula e umida che fece tanta tenerezza a Stilinski. «Ma non posso permettermi di metterla avanti a Jamie».
«Lui non è in pericolo» gracchiò Noah, la voce rotta dall'aver compreso che nulla di quello che le avrebbe detto sarebbe stato capace di allontanare Malia dal vivo dell'azione finché in mezzo ci sarebbe stato anche Stiles.
«È mio figlio. È un cucciolo del branco di Scott. Sarà in pericolo per tutta la sua vita».


Si chinò a baciarlo per farlo svegliare.
Stiles aprì un occhio e sorrise nel trovare le labbra di Malia sulle sue.
«Ehi» mormorò in uno sbadiglio, quando lei si allontanò «Sei tornata adesso?»
Malia annuì «Da qualche minuto».
Stiles aggrottò la fronte «Dove sei stata?»
Malia abbassò lo sguardo, si morse il labbro inferiore e poi rispose: «Da Peter Hale. Ti ricordi questa mattina quando ti ho detto che avrei trovato un modo per celebrare il funerale di Corinne senza spendere soldi? Lui è disposto a darci una mano».
Stiles assottigliò le labbra e Malia pensò che fosse pronto ad esplodere. Nnostante la rabbia ribollisse evidente in lui poggiò Jamie sul tappetino morbido con una delicatezza esagerata, coprendolo poi con un lenzuolino.
«In cambio di…?» soffiò, tornando a guardare Malia.
Lei gli sorrise, titubante: «Ha una vita intera da farsi perdonare, Stiles. Non vuole nulla» gli assicurò e l'uomo sembrò già più sollevato.
«Oh… bene» mormorò, accennando un sorriso incerto.
«Voi siete riusciti a scoprire qualcosa di importante?», fece lei, speranzosa.
Stiles raggiunse il mobiletto in cui erano rinchiusi gli alcolici e si versò un bicchiere di whisky.
«La prima vittima era una Banshee», rispose, ingollando il liquore in un solo sorso. «Lydia pensa che ci abbia lasciato la profezia della Morrigan. Probabilmente questo è stato decisivo per designarla come prima vittima sacrificale».
«Solo per calmare i nervi» si giustificò poi, riponendo la bottiglia sotto l'occhiata di disapprovazione di sua moglie.
Malia strinse le labbra e i suoi occhi si fecero tormentati «È come ti abbiamo detto io e Lydia, Stiles! Due Licantropi: un maschio e una femmina, per offuscare i sensi dei Mannari. E una Banshee perché Lydia non potesse avere visioni al riguardo».
«Ma Lydia le ha avute delle visioni» la contraddì Stiles con una smorfia.
«Sai benissimo che sono differenti da tutte quelle che ha sempre avuto!», sbottò Malia. «Fa solo strani sogni su corvi che la chiamano e sui nostri visi avvolti in un silenzio ovattato, ma nulla di concreto riguardo al nemico! Questo è strano Stiles, lo sai benissimo anche tu. Lo ha ammesso persino Lydia stessa! Perché non vuoi ascoltarmi?»
Stiles si passò una mano in mezzo ai capelli, torturandosi la cute con le unghie «Malia, in questo momento non riesco a pensare che tu possa essere più vulnerabile di quanto già stai diventando», la sua voce rimase bassa e rauca, quasi sofferente.
Aveva l'espressione contrita e accennò un passo verso Malia, quando i suoi occhi si sgranarono. Arricciò le labbra, senza dire nulla: aveva visto gli strappi sulla camicia che Malia si era dimenticata di cambiare. Le ferite si erano ormai rimarginate, ma il tessuto tagliato e sporco di sangue secco era ancora lì, evidenti.
Non le chiese nulla, le rivolse solo una lunga occhiata rabbiosa, poi afferrò il giaccone e uscì, sbattendo dietro di sé il portone di casa.


 
***


Malia si risvegliò di soprassalto, confusa e indolenzita. Si guardò attorno come se non riconoscesse il luogo in cui si trovava, ma fu solo un momento. Si era addormentata nella cameretta di Jamie, accanto al suo lettino, sulla sedia a dondolo.
Aveva atteso per tutta la notte che Stiles tornasse a casa e nel frattempo aveva vegliato suo figlio finché le prime luci dell'alba non avevano fatto timidamente capolino tra le tendine azzurre della finestra e il sonno l'aveva catturata come una preda indifesa.
Si umettò le labbra secche e – come d'abitudine – massaggiò la base della pancia, come a fare una carezza sul volto della figlia non ancora nata.
Fu allora che si rese conto che Jamie non era più nel lettino e che si era svegliata per un motivo, un suono che l'aveva allertata.
Era stata la voce di Jamie. Un grido. Per un attimo il terrore la congelò sulla sedia, finché non ne udì un altro. Eppure ascoltarlo un'altra volta non fu così terribile come si aspettava. Riconobbe subito quel suono: erano gli urletti che emetteva Jamie quando giocava con Stiles.
Il petto le si scaldò al pensiero che suo marito era tornato a casa, nonostante fosse stato fuori tutta la notte. Ma a Malia non serviva sapere dove fosse: l'ossessione di Stiles era risolvere i casi e non si sarebbe mai dato pace, non adesso, non quando sentiva tutto così stranamente in bilico.
Aveva sempre avuto un ottimo sesto senso per queste cose, lui. Riusciva a scorgere la tempesta da chilometri di distanza. Non aveva poteri da mannaro, ma questo era un po' il suo personale superpotere.
Malia scese le scale e trovò Stiles in salone con indosso una maglia sportiva, che rincorreva Jamie con in mano un'altra uguale, ma più piccola.
Allora Malia si ricordò della partita di Lacrosse che si sarebbe disputata quel giorno, la partita che Stiles e Scott aspettavano da mesi e di cui avevano già comprato i biglietti.
«Hai davvero intenzione di portarlo alla partita con te?», chiese con cipiglio preoccupato pur sorridendo alla scena.
Stiles saltò sul posto spaventato: non l'aveva sentita arrivare.
Abbozzò un sorriso nervoso: «Perché no?»
«Forse è troppo piccolo, Stiles. Potrebbe annoiarsi».
«Non la pensavi così quando con Scott abbiamo comprato i biglietti», la rimbeccò in uno sbuffo.
Malia sospirò, per nulla convinta e allora Stiles aggiunse: «Ho bisogno di staccare, Mal. Sto tutto il giorno a lavoro e sto trascurando mio figlio. Questa mattina l'ho preso in braccio e non riuscivo a ricordare quale fosse l'ultima volta che mi ero svegliato sul nostro letto con il nostro bambino sul petto. Voglio solo un giorno di normalità da trascorrere insieme a lui e sai benissimo che anche Jamie ne ha bisogno. Sarà ancora piccolo ma lo sente anche lui che c'è qualcosa che non va».
Malia non replicò, anzi, quelle parole riuscirono a trasmetterle un moto di felicità dentro al cuore.
«Guardalo» le disse Stiles, rivolgendo un'occhiata orgogliosa a Jamie «è adorabile».
Gli aveva infilato la maglietta nera e arancione dei Roller Beacon con il numero 24.
«Certo che lo è» concordò Malia, intenerita. Raggiunse il figlio e lo prese in braccio per riempirgli il viso di baci.
Quando la donna sollevò gli occhi verso il marito e trovò uno sguardo tenero a ricambiarla. Così si tirò su e disse: «Per quanto riguarda la scorsa sera»,
«Non voglio sapere nulla, Mal» la bloccò Stiles sul nascere.
Se c'era una cosa che aveva imparato in quegli anni era di certo lasciar correre. Malia faceva in continuazione cose che lo irritavano o che lo imbestialivano, ma non poteva farci nulla. Non poteva controllarla, non poteva chiederle di comportarsi diversamente della propria natura.
Aveva imparato ad accettare e ad amare ogni sfaccettatura di quel carattere energico e impulsivo, sia nel bene che nel male.
Malia sembrò dispiaciuta di quella risposta secca.
«Ne parleremo quando torno, va bene?» cercò di riprendersi, per non ferirla ulteriormente, soprattutto non dopo aver passato un'intera notte fuori.
Un lungo suono di clacson fece comprendere a entrambi che Scott li stava aspettando sul vialetto di casa e che erano già in ritardo.
Stiles prese in braccio il figlio e, uscendo dalla porta di casa esclamò: «Forza Roller Beacon!». Jamie lo imitò subito con la sua vocina acuta e i piccoli pugni lanciati in alto.


Arrivati al campo si precipitarono a prendere posto sugli spalti già gremiti di tifosi.
Scott appariva piuttosto nervoso e scuro in viso, non faceva altro che abbaiare ordini ad un Adam tanto entusiasta che – nonostante i rimproveri – faticava a stare fermo.
«Stammi vicino. Non devi allontanarti, è pericoloso!» ringhiava Scott, lanciando occhiate oblique alla gente tutt'intorno.
«Se non fate quello che vi dico ce ne torniamo immediatamente a casa».
Caleb li seguiva passo passo, trascinando i piedi, il capo chino e l'espressione imbronciata di chi sa di essere rimproverato senza motivo.
La partita era incominciata da poco più di dieci minuti, Jamie lanciava urletti entusiasti, imitando i versi da tifoso di Adam, ma si capiva che era preso più dalle bandierine dei tifosi, dalle patatine e dolciumi che suo padre gli aveva comprato, che dalla partita in sé. Stiles stava per prenderlo sulle proprie spalle, per permettergli di vedere meglio, quando gli squillò il cellulare.
Il suo pensiero corse subito a Malia ma quando vide che si trattava di Parrish rimandò indietro la chiamata. Era riuscito a ricavare una giornata da solo insieme a suo figlio dopo settimane e ci teneva che per lui fosse speciale.
Ignorò le prime due chiamate, alla terza capì che era successo qualcosa di grave.
Fissò il display ancora indeciso se rispondere o ignorare ancora, quando Scott gli strappò il telefono dalle mani e rispose al posto suo.
La sua espressione già seria si fece ancora più dura. Si alzò in piedi, guardandosi attorno; poi attaccò dopo un secco: «Arriviamo».
A Stiles non servì chiedere per capire che questa volta si trattava di qualcosa di ben più grave di un omicidio.




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Capitolo 11
*** Capitolo Undicesimo ***


Undicesimo Capitolo










 
Un'altra notte era trascorsa, lenta, scandita dal ticchettare fastidioso dell'orologio. Stava seduta al tavolo della cucina, dove aveva trascorso anche le notti precedenti. Lydia non dormiva più, non da quando avevano trovato la Profezia della Morrigan – se non si consideravano i sporadici sonnellini a cui si abbandonava su uno dei tanti libri celtici che Jordan le aveva recuperato dalla Biblioteca della città.
Non dormiva più, non nel suo letto, non accanto a suo marito. Appena si sdraiava gli occhi le si spalancavano come due tazzine da caffè.
Aveva paura, non sopportava più quei strani sogni silenziosi coperti di sangue che la venivano a trovare ogni volta che le palpebre le cedevano.
Almeno, tra le pagine di quei libri dalla lingua sconosciuta, riusciva a trovare una sorta di pace. Non riusciva ad avere visioni, ma almeno stava agendo, stava per decifrare l'indizio forse più importante che avevano tra le mani. Finalmente aveva trovato uno scopo e questo riusciva ad espiare il senso di colpa che la divorava, anche se per un tempo troppo breve, ma sufficiente per farle recuperare una sorta di tranquillità fittizia.
Allora si armava di una caraffa di caffè bollente e della tazza che Allie aveva dipinto per lei alla festa della mamma. Prendeva posto al tavolo della cucina, circondata da tutti i libri, e incominciava la disperata ricerca di ogni parola di quella strana profezia.
Per ora era riuscita a tradurre solo la prima frase e mai traguardo le sembrò tanto distante.
Spesso, come anche quella notte, Allie si accucciava accanto a lei. Avvicinava una sedia a quella di Lydia e ci si rannicchiava sopra a mo' di gatto, abbandonando la testa sulle gambe della madre e alle sue coccole.
Lydia era certa che la piccola stesse tremendamente scomoda, ma non aveva il coraggio di spostarla quando si addormentava con i pugni chiusi aggrappati alla sua maglietta.
Allie era cambiata molto e sapere che a tre anni sua figlia non era più la bambina solare e spiritosa che era sempre stata, distruggeva Lydia più di qualsiasi altra cosa.
Di tutti i cuccioli del branco, Allie era quella che sembrava pagare più le conseguenze di quella nuova minaccia.
Aveva iniziato a soffrire di terrori notturni, era spaventata all'idea di uscire fuori di casa e ogni volta che i suoi genitori uscivano lasciandola con la nonna le prendevano attacchi di panico difficili da gestire.
In quei giorni Allie era diventata l'ombra di Lydia: se faceva un passo lei la seguiva e si aggrappava a una sua gamba finché non si fermava o si sedeva da qualche parte.
Lydia accarezzò i morbidi capelli biondo fragola di sua figlia con le lacrime agli occhi, come ogni mattina le capitava di fare.
La notte aveva ceduto posto all'alba già da molto e in un battito di ciglia il sole era sorto rivelando una luminosa e calda mattinata.
Eppure in casa Parrish le tapparelle erano ancora tutte abbassate e le tende tirate. Viveva ancora la notte dentro la loro cucina.
Persino Jordan era già uscito per andare a lavoro, segnando l'inizio ozioso di una nuova giornata.
Ma era bello restare intrappolati nell'incanto della notte finché Allie non si svegliava.
Lydia restava a guardarla ammaliata e ad accarezzarle i boccoli, arrovellandosi il cervello con quell'unica frase che per ora aveva a disposizione.
"Vedo un mondo che non mi sarà caro".
Fin quando la bambina non apriva gli occhi, se li stropicciava e si lasciava andare a un lungo e tenero sbadiglio.
 
***


La katana disegnava archi precisi ed eleganti. Kira, i muscoli tesi, la mente in sintonia con la Volpe, sembrava una macchina di guerra priva di imperfezioni.
Si stava allenando da circa un paio d'ore, senza sosta. Matty giocava dentro al box, ogni tanto piagnucolava per cercare attenzioni, ma Kira era totalmente assorta: esisteva solo la katana e la Volpe.
Scott era uscito con Adam e Caleb per la partita di inizio stagione di Lacrosse.
Scott. Il pensiero di suo marito strisciò fin dentro le profondità della sua mente.
La katana calò, Kira si mosse, si spostò di lato incrociando con grazia i piedi e poi eseguì un affondo.
Sentì la Volpe dentro di sé agitarsi quando i suoi pensieri chiamarono nuovamente alla mente il volto di suo marito.
Si mosse ancora, per tornare in posizione di attacco ma perse l'equilibrio ed inciampò.
Riuscì a rimanere in piedi ma lo stato di trance che trovava durante ogni allenamento si spezzò.
Posò la katana e si chinò poggiandosi con le palme delle mani sulle ginocchia, con il fiatone.
"Tornatene nel deserto allora! Vattene! Che diavolo ci fai ancora qui se non sei felice?".
Scott aveva urlato quella mattina, aveva tirato e rotto oggetti, rabbioso come lo era stato anche nei giorni precedenti.
"Adam, nostro figlio, potrebbe essere la prossima vittima ma tu pensi solo a riunirti alle Skinwalker!"
"Ci penso proprio per il bene dei nostri figli, Scott"
"No tu vuoi scappare! Sei così terrorizzata dal rimanere sola, dal provare il dolore straziante della perdita di un figlio, che saresti capace di abbandonarli e voltare la testa pur di non vedere!".
La lite di quella mattina era stata una delle più spaventose che Kira avesse mai affrontato con Scott.
Lui oramai la vedeva come una codarda egoista e nulla poteva più dissuaderlo da tale sospetto.
Kira sentiva le mani formicolare, i nervi ancora tesi pronti a scattare. Si sentiva sopraffatta dall'angoscia. Stare ferma lì, ad allenarsi, alla continua attesa del ritorno di Scott, giorno dopo giorno, dopo giorno ancora, la stava lentamente divorando.
Matty piagnucolò ancora, tirando i pupazzi contro la rete del box. Allora Kira si rese conto di quanto tempo era stata lontana con la mente, così lontana che neppure le richieste di attenzione di suo figlio erano riuscite a raggiungerla.
Eppure questo insistente sentimento di agire, di muoversi, di scappare si era ormai annidato dentro al suo cuore, martellando incessantemente.
Ogni battito era un invito a reagire, ad andarsene.
Il suo cellulare, abbandonato per terra non molto lontano da lei, prese a squillare. Era Scott.
Kira ebbe l'impressione che suo marito sapesse quel che le stava passando per la testa in quel preciso istante.
Si tirò su e raggiunse il box, prese Matty in braccio, cullandolo appena per farlo calmare. Ignorò il telefono che continuava a suonare, accusatorio. Poi salì al piano terra e, senza prendere né borsa e né cambiandosi i vestiti, uscì di casa.
 
***


La dottoressa Redwell guardava Malia con cipiglio accusatorio, mentre passava la sonda dell'ecografo sul suo ventre.
Non c'era più traccia del livido sul suo viso e persino la ferita alla spalla era ormai guarita, ma la dottoressa non sembrava essere meno sospettosa.
Dopo quell'incidente, infatti, la Redwell aveva deciso si fare più controlli e visite ravvicinate.
«Va tutto bene?» chiese Malia, dato che il silenzio la stava esasperando.
La dottoressa tirò fuori la siringa con il solito liquido bianco e le fece due iniezioni, poi prese a palparle il ventre. Le sue dita erano calde e delicate sulla pelle, ma i suoi gesti decisi. Premeva punti precisi, eseguendo manovre sconosciute.
Poi, dopo un profondo sospiro, disse: «Non le mentirò, signora Stilinski: voglio che si lasci ricoverare. Non è un suggerimento, né un invito. È un ordine».
Malia pensò a Jamie e a Stiles e le mancò subito l'aria: «Questo è fuori discussione» sbottò.
Alla dottoressa non piacque quella risposta.
«Non penso che lei si renda conto della situazione. Le ho detto di restare a riposo e lei non l'ha fatto, ora il feto è in sofferenza. Questo vuol dire che rischia di perdere sua figlia. Era una delle migliori gravidanze con placenta previa che abbia seguito e adesso...»,
«Non posso ricoverarmi. Ho un figlio che non posso lasciare da solo».
«Ne ha due, adesso» le fece notare la dottoressa, con sguardo inequivocabile.
Malia strinse le labbra.
«Senta», disse la dottoressa Redwell «non è una bella situazione, questa. Sono quasi certa che procederemo con un cesareo entro un paio di giorni».
Malia portò le mani a coprire il grembo «Un paio di giorni?» balbettò, «Come? No. È troppo presto», protestò.
Il panico si diramò in lei e per un attimo si sentì persa senza Stiles accanto a tenerle la mano.
Quella possibilità la investì con tale forza da lasciarla lì impalata, inebetita e con gli occhi sgranati, incapace di dire altro.
Si immaginò quella neonata che negli ultimi mesi aveva visitato i suoi sogni, piccola e rosea stretta tra le sue braccia e un brivido la colse impreparata.
Se Claudia fosse nata sarebbe divenuta finalmente reale, concreta. Non sarebbe più stata una parte del suo corpo, quel qualcosa che viveva dentro di lei, con cui era un tutt'uno, che sentiva di poter proteggere da tutto.
Avrebbe voluto dire avere davvero un altro figlio, dopo mesi in cui si era ripetuta che probabilmente non l'avrebbe mai vista nascere viva.
Era ancora un sogno, per lei, un sogno dalla consistenza di fumo e dal sapore agrodolce.
La suoneria del suo cellulare la riscosse. Lo tirò fuori dalla tasca dei jeans e controllò il display: Stiles. Stiles aveva bisogno di lei.
Il suo cuore iniziò a galoppare imbizzarrito e quasi il fiato le mancò in gola. L'irrefrenabile istinto di protezione d'un tratto mise tutto il resto in secondo piano. Doveva raggiungerli, assicurarsi che stessero bene e proteggerli.
Scivolò giù dal lettino, dicendo: «Mi scusi, ma ora devo proprio andare».
«Uscendo da quella porta sta condannando sua figlia» fu la pacata risposta della dottoressa, che Malia – con un groppo in gola – ignorò.
 
***


Lo spettacolo che Scott e Stiles si trovarono davanti quando arrivarono sulla scena del crimine fu raccapricciante.
Il terreno era intriso di sangue e persino l'erba aveva assunto un'inquietante colore nero.
Dai rami di tre alberi pendevano arti e teste mozzate, come frutti marci di un albero demoniaco.
I corpi martoriati – o quel che ne rimaneva, ovvero solo i busti – erano ammassati contro i tronchi su cui spiccavano netti e profondi graffi.
Formavano un triangolo, un macabro spettacolo di precisione.
Scott e Stiles si guardavano attorno, nessuno dei due emise un fiato.
La scientifica stava ancora fotografando tutti i dettagli, registrando ogni particolare di quello spietato eccidio.
Avevano lasciato i bambini chiusi nella volante dello Sceriffo Parrish, con due agenti per ogni lato a sorvegliarli, ma dinanzi a quella scena entrambi i genitori ebbero il desiderio viscerale di tornare indietro a prenderli e portarli a casa, per non lasciarli più di vista.
«Chi si accanirebbe su delle persone in questo modo?» mormorò Stiles, ancora sotto shock.
«Non ne ho idea, ma di certo non si tratta del nostro Darach» rispose Scott, «Sembra qualcosa di assolutamente fuori controllo» boccheggiò.
Stiles ammutolì per qualche secondo, percorrendo con gli occhi l'intera scena del crimine da quella distanza.
«No, hai ragione. Non si tratta del solito assassino. Guarda i solchi sul terreno» disse percorrendoli con l'indice «i corpi sono stati spostati più volte».
Fu piuttosto complicato individuare Lydia in mezzo al resto degli uomini della scientifica. Tutti indossavano tute bianche, spessi occhialoni di plastica e mascherine a celargli il volto.
Uno di loro si allontanò dalla scena del crimine per andare verso Scott e Stiles. Si tolse il cappuccio della tuta e appena i due intravidero i capelli rossi capirono subito che si trattava di Lydia.
Non sembrava sconvolta, eppure ai due amici parve pallida in modo preoccupante e le sue labbra tremavano ormai d'abitudine, come un fastidioso tic.
Lo sguardo della Banshee era rivolto unicamente a Scott, il loro Alpha. I suoi occhi erano grandi più del normale, spaventati, in una disperata ricerca di qualcosa che gli avrebbe potuti rassicurare.
«Cos'è successo, Lyds?» chiese Scott, con voce ben più rassicurante di quanto usasse con lei nell'ultimo periodo.
Lydia ci mese un po' prima di rispondere. I suoi occhi vagavano da Scott a Stiles in cerca di rassicurazione, annunciando allo stesso tempo quanto stava degenerando tutto quanto.
«Erano dei tifosi» mormorò, la voce rauca. «Umani», scandì con tono ancor più basso.
«Abbiamo ritrovato dei brandelli di magliette sportive sui corpi. Pare che siano dei tifosi dei Beacon Rollers. Con ogni probabilità si erano riuniti qui nel bosco, vicino al campo sportivo, per far baldoria prima della partita che si sarebbe disputata il giorno seguente e... questa è la fine che hanno fatto».
«Darach?» chiese Stiles, senza mezzi termini. Il sangue gli ribolliva nelle vene, arrivandogli al cervello. Vedeva tutto rosso in quel momento, ma era curioso di sapere cosa ne pensasse Lydia, nonostante sapesse che i suoi sospetti fossero esatti.
«C'è qualcosa di strano qui» bisbigliò la ragazza, come se qualcuno la stesse ascoltando.
«È diverso. È tutto diverso. Il modo in cui sono stati uccisi, la brutalità dell'atto... sembra opera di una belva priva di controllo e non del nemico che ci siamo ritrovati davanti fino ad ora. Lui è controllato, sa esattamente cosa fare e perché farlo. Ha uno scopo. Mentre questo... è soltanto un macello».
Stiles annuì. Non poteva che essere più d'accordo.
Vide avvicinarsi a passetti rapidi la sua collega, l'agente Jonas. Si distaccò dai due, per impedire che continuassero il discorso e attese che la ragazza lo raggiungesse.
Di bassa statura, in una divisa che la faceva sembrare ancora più piccola, Martha Jonas sembrava una bambolina. Teneva i capelli biondi raccolti in una crocchia severa e l'espressione seria e concentrata che aveva in quel momento riusciva solo a suscitare tenerezza.
Per questo Stiles non era solito trattarla come gli altri agenti. Come poteva fidarsi di una ragazzina all'apparenza così delicata e affidarle la propria vita e quella dei suoi uomini?
Ma d'altronde non gli sarebbe dispiaciuto scoprire che Jonas non fosse capace solo a portargli il caffè la mattina e a girargli intorno prendendo appunti senza dimostrare neppure un briciolo di iniziativa.
Il fatto era che a lui quel tipo di donna proprio non piaceva ed era sicuro – sin dal primo momento in cui Martha Jonas era stata affidata sotto la sua ala protettiva – che la giovane aveva di certo sbagliato lavoro. Bisognava avere la pelle dura, lo stomaco forte e il cuore di pietra per sopravvivere a quel lavoro.
«La stavo aspettando, capo! Tutti chiedono di lei» squittì la giovane agente, porgendo i guanti in lattice a Stilinski.
«Andiamo, allora» rispose Stiles, tirando fuori dalla tasca un fazzoletto per potersi coprire il naso da quel lezzo nauseante.
Lydia si calò su il cappuccio e li seguì, mentre Scott rimase più in disparte.


L'Alpha continuava a guardarsi attorno, girandosi più e più volte in direzione della macchina dove avevano lasciato i bambini. Si sentiva agitato, con la forte sensazione di dover andarsene da lì, di dover essere in un altro posto in quel momento.
"Non aveva il volto. Era un bambino senza volto, Scott! Un bambino senza occhi, né bocca. Un bambino morto". Quella frase lo ossessionava giorno e notte, ripresentandosi anche nei momenti meno opportuni, senza che lui la riportasse alla mente. La sentiva come se ci fosse di nuovo Lydia davanti a lui a urlargliela in faccia, con l'esatta intonazione graffiante e tragica. Il suo cuore iniziò a palpitare veloce. Stava perdendo il controllo.
A niente serviva pensare che quell'ansia era dovuta al luogo in cui si trovava o al fatto che Kira non rispondeva al telefono da quando era uscito di casa senza salutarla.
Prese a ripetersi che i bambini stavano bene, che Adam era al sicuro. Non sarebbe diventato quel bambino senza volto che aveva visto Lydia. Tornò a osservare Lydia e Stiles muoversi tra i resti, guardandoli come se stessero seguendo le linee di un disegno, di qualcosa di più grande. Indicavano i corpi e gli arti sparsi e ne commentavano la posizione e ogni taglio.
Anche Scott era rimasto catturato dai tre alberi. Ancora la triade che si ripeteva; ma questa volta aveva un non so che di stucchevole, di scialbo, improvvisato.
«Sembra come se un essere fuori controllo abbia fatto tutto questo e il Darach ne abbia nascosto le tracce, per quanto possibile» stava dicendo Stiles. Scott lo riusciva ad udire a fatica, nonostante i suoi sensi fossero allerta per captare ogni singolo rumore attorno a loro. Un malessere lo colse alla bocca dello stomaco. Un sapore amaro gli invase la bocca e in un attimo centinaia di immagini gli affollarono la testa: il Darach, silenzioso, acquattato tra gli alberi, che aspettava solo che loro si allontanassero dai bambini per agire. Il Darach, misterioso e forte che metteva a terra le guardie. Il Darach che apriva la macchina e metteva finalmente le mani sui bambini. E sangue, sparso sui sedili, su tutta la macchina. Piccoli arti lanciati ovunque, le teste recise dai corpi, allineate sul tettuccio della volante e parti di interiora spalmati sui finestrini.
Un conato di vomito gli risalì dalla gola e Scott non riuscì più a star fermo lì, guardando i due cercare informazioni nascoste sotto quello scempio.
Tornò indietro, quasi correndo, diretto alla volante dello Sceriffo.
I quattro agenti erano ancora attorno alla macchina e Scott rallentò il passo.
Caleb se ne stava affacciato al finestrino, bussando tristemente con il piccolo pugno contro il vetro, il viso speranzoso nell'aver individuato il padre arrivare.
Scott gli rivolse un sorriso tirato. Il cuore sollevato nell'aver trovato tutto come lo avevano lasciato. La scena che si era lasciato alle spalle lo aveva solo condizionato più del dovuto.
Aprì lo sportello e Caleb si gettò tra le sue braccia.
Scott gli accarezzò i capelli sentendolo piagnucolare contro il suo petto.
«Tranquillo, campione. Ora papà vi riporta tutti a casa, okay?» lo rassicurò, ma il piccolo prese a scuotere veloce la testa.
«No, papà» mugugnò «Adam è andato via e io non voglio tornare a casa senza Adam».
Per un lungo istante Scott non comprese le parole del bambino, ne capì perché nella macchina c'erano solo Caleb e il piccolo Jamie.
Poi, con suo figlio stretto ancora tra le sue braccia, si tirò in piedi tremando dal panico, guardò il cielo e ululò.
Un grido di dolore, di rabbia e disperazione. Adam non se ne era andato, l'avevano preso.
E allora il suo viso e il suo corpo iniziarono a mutare, i peli crebbero coprendo ogni superficie, finché accanto a Caleb non ci fu più l'uomo ma il lupo.




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Capitolo 12
*** Capitolo Dodicesimo ***


Dodicesimo Capitolo










 

"Vedo un mondo che non mi sarà caro".
Correva a perdifiato tra i tronchi degli alberi, evitando – con un'agilità che non pensava più di possedere – rami, arbusti e cespugli.
L'odore fresco e pungente della terra umida, di erba e muschio impregnava ogni suo senso.
Sentiva la gola secca, la bocca asciutta nonostante continuasse ad ingoiare saliva ad ogni salto.
I muscoli delle gambe le bruciavano, come se le potessero cedere da un momento all'altro, ma Lydia non aveva intenzione di arrendersi.
"Vedo un mondo che non mi sarà caro".
Le prime parole della Profezia le continuavano a rimbombare nella testa mentre la paura la inghiottiva in un vortice senza fondo.
«ADAM!» gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, correndo verso chissà dove.
Aveva lasciato il sentiero già da molto e si stava inoltrando nel bosco più di quanto avesse mai fatto da sola. Ma questo non importava, l'unica cosa a cui riusciva a pensare era Adam. Trovarlo, portarlo al sicuro, difenderlo.
Per la prima volta la scena dei corpi squartati le fece salire un conato di vomito al pensiero che potesse toccare anche ad Adam. Quel bambino che aveva visto nascere e crescere e che sentiva anche un po' il suo, che era stato il primo del branco e da subito viziato e coccolato.
Gli occhi le pizzicavano ma le lacrime erano già asciutte sulle sue guance.
"Vedo un mondo che non mi sarà caro".
Pensò a un mondo che non le sarebbe potuto essere caro. Un mondo senza Allie. Un mondo senza i loro cuccioli.
"Non avrei mai immaginato quanto Allie avrebbe inciso così profondamente sulle mie abitudini, su di me" ricordava di aver confidato a Stiles quelle parole quando avevano parlato dopo il ritrovamento del primo cadavere, poco prima che le cose tra tutti diventarono improvvisamente strane.
Allie era tutto il suo mondo.
In lontananza poteva sentire la voce di Stiles che, come lei, chiamava a squarciagola il nome del bambino; da un altro punto del bosco, ancora più distante, la voce di Jordan.
Era come se il bosco stesso reclamasse, infuriato, Adam McCall.
Nella corsa frenetica, Lydia non vide la radice di un albero e cadde carponi, graffiandosi le palme delle mani.
Le gocce di sudore cadevano come rugiada dalla sua fronte. Respirava a fatica, ogni boccata d'aria era una stilettata ai suoi polmoni. Seppure esausta, sapeva che non poteva permettersi di fermarsi. La tempestività era tutto: meno tempo passava più possibilità c'erano di ritrovare Adam.
Stava per rialzarsi quando, sopra la sua testa udì un placido gracchiare.
Il cuore le balzò nel petto e un senso di forte nausea le offuscò la vista nell'alzare lo sguardo. Sui rami dell'albero su cui era caduta stava un corvo, rosso come rubino, che la fissava con i suoi freddi occhi d'ossidiana.
Gracchiò ancora e Lydia iniziò a tremare come se si trovasse all'interno di uno dei suoi peggiori incubi.
Veloce, si alzò in piedi, ma non fece in tempo a fare un passo che una figura mistica si parò dinanzi a lei.
Il volto celato da una maschera di legno, il corpo nascosto da un manto rosso sangue. Tra le braccia cullava un fagotto. Lydia urlò tra le lacrime. Ma non era l'urlo della Banshee, solo il grido di una donna spaventata.
Il Darach si muoveva lentamente, come se il tempo avesse improvvisamente rallentato il suo corso.
Lydia crollò nuovamente sulle proprie ginocchia, il Darach continuava a dondolarsi davanti a lei e mentre si muoveva sembrava dividersi in un'altro corpo e poi in un altro ancora, i quali si muovevano all'unisono come se fossero un solo corpo. Tre corpi, la triade in uno unico.
Pioggia le iniziò a cadere sulla testa, sul volto e sul corpo di Lydia. Gocce di sangue che la imbrattavano e le oscuravano la vista.
Poi tre voci le parlarono: "Vivrete in un mondo che non vi sarà caro".
Il Darach si avvicinò a lei, dal fagotto che teneva tra le braccia caddero piume rosse. Le posò una mano sulla fronte e Lydia svenne.
 

Estate senza fiori,
mucche senza latte,
donne senza pudore,
uomini senza valore,
conquiste senza un re...
Boschi senza alberi
mari senza frutti...
Madri senza figli,
orfani senza nome...


***



Le ricerche erano state disperate quanto vane. Adam McCall era scomparso nel nulla.
A niente era servito interrogare Caleb. Avevano impiegato tutta la loro pazienza con il bambino, ma ne avevano ricavato solo un racconto fantasioso.
Secondo il piccolo la portiera della macchina si era aperta da sola e Adam era uscito dall'auto per poi volatilizzarsi nel nulla. Caleb aveva provato a seguirlo ma la macchina si era subito richiusa.
Neppure di Scott c'era più traccia. Dopo aver assunto le forme di un enorme lupo nero, Stiles l'aveva visto sparire tra gli alberi per non tornare. Stiles sapeva che non avrebbe smesso di cercare Adam finché non lo avesse ritrovato.
Ora tutte le forze di polizia della cittadina erano impiegate a cercare il piccolo per ordine dello Sceriffo. Persino l'omicidio di massa era passato temporaneamente in secondo piano.
Ma fin da subito sembrò una ricerca senza speranza. Non c'erano tracce, indizi. Non esisteva neppure un movente. Perché prendere Adam se le vittime da sacrificare erano solo tre? Per un attimo in Stiles crebbe il dubbio che avessero sbagliato strada fin dall'inizio. Proprio quando sembrava che stavano per avvicinarsi ad una soluzione ecco che tutto si capovolgeva e andava in frantumi.
Ripensò alla corsa folle in mezzo al bosco, la gola ancora gli bruciava per quante volte aveva urlato il nome di Adam. Dopo un'ora avevano ritrovato anche Lydia, priva di sensi. Quando si era risvegliata aveva detto di aver visto il Darach, ma non sapeva dire se fosse stata la realtà o solo una visione. L'unica cosa che ricordava è di aver avuto davanti qualcosa di maestoso e intangibile. Una potenza che era al di là del mondo soprannaturale.
Stiles si voltò a guardare Malia, seduta sul divano con in braccio Jamie. Il volto turbato, l'espressione distante. Aveva invitato a stare da loro quella sera anche Melissa, cosicché non avrebbe dovuto badare da sola a Caleb, dato che anche Kira sembrava scomparsa e Scott era perduto nel limbo di una perdita che non avrebbe mai accettato. Adesso erano tutti lì a casa loro. Lydia riposava, il capo poggiato sulla spalla di Malia. Allie a terra disegnava, ignara di quel che stava accadendo come se tutta quella agitazione da parte del branco non la disturbava affatto. C'era anche suo padre, che di tanto in tanto gli lasciava un'affettuosa pacca sulla spalla a mo' di sostegno e rassicurazione. Erano tutti lì perché insieme erano più forti e dovevano tenere al sicuro i bambini a tutti i costi, ma la mancanza del suo migliore amico si faceva sentire. Lui doveva stare con Malia e Jamie, d'altronde c'era già Jordan con lui e tutti i poliziotti di cui disponeva lo Sceriffo. Eppure il senso di colpa lo stava divorando. Doveva esserci anche lui là fuori a cercare Adam. Lo aveva amato come un figlio quel bambino, finché non aveva capito cosa si provava ad averne uno suo. Era il figlio di Scott, della persona che aveva scelto come fratello.
La sua attenzione si soffermò sulla Banshee, seduta accanto a Malia e, d'improvviso, cogliendo alla sprovvista tutti i presenti sbottò: «Dobbiamo scoprire cosa c'è scritto in quella maledetta Profezia, Lydia!».
La donna assottigliò le labbra e si prese un momento prima di rispondergli con sguardo gelido: «Te l'ho detto, Stiles... sono riuscita a tradurre solo la prima frase. Sai anche tu che non ho avuto molto tempo a disposizione. Sto facendo quel che posso».
Stiles scosse il capo, come se non accettava avere a disposizione nulla che potesse farli uscire da quella situazione.
«Lo so questo, ma...», provò a dire ma Lydia lo interruppe subito.
«La traduzione deve essere precisa, Stiles! Non ci possiamo permettere errori. Non ora» urlò Lydia. Per la prima volta sembrava realmente fuori di sé. Poi, rendendosi conto di quell'esplosione esagerata, cercò di darsi un contegno e disse: «Ho provato a cercare, a mettere insieme le poche parole comprensibili, ma è tutto confuso».
«Cosa pensi che possano significare il poco che sei riuscita a capire?» chiese Stiles più calmo, tentando anche lui di alleviare i toni.
«La profezia ruota attorno a malattie, mali e vendette e tutto questo accade a causa del Controllo della Luna. Sembra che esso sia possibile solo attraverso... chiavi».
«Chiavi?» ripeterono Malia e Stiles all'unisono.
«Sì» confermò Lydia «è il termine che nella nostra lingua si avvicina di più, credo. Ci sono tre chiavi e ognuna di essa è unica. Viene descritto come se questi tre oggetti aprissero letteralmente una parte di luna, come se si trattasse di banali serrature».
«Quello che stai dicendo è incomprensibile» sbottò infine Stiles. Il suo cervello andava a mille, cercava di trovare indizi persino dalle parole che uscivano insicure dalle labbra di Lydia, ma si ritrovava a non capire neppure una parola e questo non faceva che irritarlo ancora di più. Sentiva la pressione addosso e tale sensazione non sarebbe passata finché non avrebbero riportato a casa Adam sano e salvo.
«Lo so benissimo anche io!» sbottò Lydia di rimando «è proprio per questo che dobbiamo avere una traduzione completa».
«No» disse d'improvviso Malia «Le tre chiavi della Profezia potrebbero stare ad indicare tre Mannari in particolare». Stava fissando la luna, fuori dalla finestra e, rivolgendo poi lo sguardo di nuovo sul gruppo aggiunse: «C'è la luna piena questa notte. Una chiave per ogni luna piena».
Stiles ammutolì «Perché il figlio di Scott...» mormorò poi.
«Non lo so» ammise Malia. «Forse si concentra su chi è debole. In fondo le prime vittime sono stati due giovani Beta senza controllo e un'anziana Banshee impazzita».
Lydia si sedette sul divano «Quelle tre vittime potrebbero non far parte del rituale del Controllo della Luna, ma non possono essere stati omicidi immotivati... forse è davvero come aveva supposto Malia: un ragazzo e una ragazza per illudere i sensi di tutti i Mannari e una Banshee per bloccare le mie visioni. Il Darach si stava solo preparando per il rituale vero e proprio, assicurandosi che noi non gli saremmo stati d'intralcio. Ci ha messo fuori gioco fin dall'inizio».
«Non possiamo mettere la vita di Adam in mano a delle supposizioni» si lamentò Stiles, incerto. Aveva riso davanti all'idea di Malia, quando lei gliel'aveva esposta, ma ora acquistava sempre più senso, nonostante avesse la terribile certezza che stavano ignorando qualcosa di palese davanti ai loro occhi.
«Non abbiamo altro, Stiles».
Stiles annuì, ormai rassegnato.
«Se è così come dite... le tre vittime che deve sacrificare, queste tre chiavi... non saranno scelte a caso e verranno prese ad ogni luna piena. Dobbiamo capire perché Adam».
«Le tre chiavi sono uniche nel loro genere. Perché mai il Darach dovrebbe considerare un bambino di appena cinque anni unico?».
Stiles scrollò le spalle e rispose con semplicità: «È il figlio di un Vero Alpha».
«E di una Kitsune del Tuono», aggiunse Lydia, «Non dev'essere una cosa che si vede tutti i giorni».
Malia ammutolì per un attimo e a Stiles non sembrò un buon segno.
«Stiles» pronunciò la donna con voce instabile, le pupille dilatate e il viso terreo, «I figli di Scott sono tre».
 

***



Lydia si massaggiò la tempia indolenzita. Il discorso tra lei, Malia e Stiles le risuonava nella testa, mentre i suoi pensieri la riconducevano ostinatamente a rivedere quel che era avvenuto nella foresta. Il Darach aveva tra le mani un fagotto... che avesse preso anche Matty? Forse per questo non riuscivano a contattate Kira.
Però perché non prendere anche Caleb?
Serrò gli occhi, sospirando. Nulla sembrava avere senso.
Aveva bisogno di una pausa da quel rimuginare, ma non era sicura che Adam potesse permettersi che lei chiudesse gli occhi per riposare la testa. In uno strano, straziante modo, lo sentiva già perduto.
Allora sollevò lo sguardo su Malia e notò il modo in cui lei guardava Stiles, come se le fosse chiaro come quell'attesa stesse uccidendo suo marito. Stiles se ne stava in silenzio, seduto al tavolo con in mano un bicchiere di bourbon e l'aria assente.
Lydia ripensò a quando erano ragazzi, al modo in cui Stiles si poneva dinanzi alla lavagna degli indizi, con l'aria sicura di chi sapeva che presto avrebbe risolto anche quell'enigma.
Ora, l'unica cosa di cui si stava rendendo conto era di come Stiles non riuscisse neppure a pensare lucidamente.
Malia si accostò a Stiles: in una mano la giacca dell'uomo, nell'altra la fondina con la pistola di ordinanza dentro. Gettò entrambi sul tavolo e gli strappò il bicchiere d'alcool dalle mani.
Stiles le rivolse un'occhiata stranita.
«Non ti lascio da sola», biascicò, la voce già impastata.
Malia gli prese il volto tra le mani «Kira non c'è e Scott ha bisogno di te. Ha bisogno di essere trovato, di ritornare lucido. E soprattutto ha bisogno di te per trovate anche Adam».
 

***



Ritornare sul luogo del delitto fu per Stiles cercare di svegliarsi dentro ad uno dei suoi incubi. Si sentiva accaldato e l'intera foresta sembrava ingigantirsi davanti ai suoi occhi, diventare una giungla oscura piena di terrori. Si asciugò la fronte madida di sudore, maledicendo tutti quei bicchieri di bourbon. L'aria fredda della sera lo teneva vigile, nonostante i sensi ovattati.
Le volanti della polizia erano ancora tutte lì, Parrish avrebbe portato avanti le ricerche fino allo stremo dei suoi uomini, su questo non avrebbe mai dubitato.
Stiles si addentrò nel folto della foresta, la notte era ormai calata ma a lui non importava.
Nel cuore della notte aveva affrontato demoni ben peggiori.
Puntò la torcia a terra, nella speranza di distinguere qualche traccia di Scott dalle tante orme lasciate dalla squadra di ricerca.
Il cuore gli batteva all'impazzata e solo allora si rese conto quanto restare chiuso in casa lo stava uccidendo lentamente. Per fortuna queste cose Malia le capiva sempre prima di lui.
Lì fuori almeno sapeva di contare qualcosa, di poter fare la differenza.
Capì di essere nella direzione sbagliata quando iniziò a udire un ronzare di voci. Si stava avvicinando alla squadra di ricerca, non a Scott. Allora allungò il passo, dirigendosi verso il folto del bosco, pregando che l'istinto lo portasse a ricongiungersi con il suo migliore amico.
D'improvviso un'immagine si focalizzò nella sua mente, senza che lui l'avesse richiamata nei propri pensieri: il Nemeton. Lo vide, come se lo avesse davanti ai propri occhi in quell'esatto istante. Vedeva il tronco mozzato e le radici possenti che lo circondavano tutt'attorno per poi scomparire dentro alla terra umida, raggiungendo chissà quale distanza... forse fino a raggiungere i confini della foresta stessa.
Il Nemeton poteva essere un buon punto di partenza, pensò. In fondo ancora ricordava come arrivarci ed era sicuramente meglio che girare sperando in un colpo di fortuna.
Si orientò con straordinaria facilità tra la coltre di alberi tutti uguali e, quando mancavano ormai non più di pochi metri, individuò in lontananza – tra i rami intrecciati – una luce calda e guizzante farsi avanti.
Il cuore di Stiles perse un battito, incredulo. Assottigliò lo sguardo e attese, ma quella luce non era affatto frutto della sua immaginazione. Sembrava danzare, allargarsi e rimpicciolire ad ogni suo passo, come fiamme di fuoco.
Col cuore in gola accelerò il passo e in pochi secondi si ritrovò nella radura nel cui mezzo troneggiava il Nemeton.
Ma Stiles non era solo.
Seduto sul tronco mozzato un'altra figura attendeva, china, stringendo tra le braccia quello che sembrava un piccolo corpo privo di sensi.
Stiles lo riconobbe subito: era Jordan Parrish. Ma, allo stesso tempo, non era affatto lui.
I suoi vestiti avevano preso fuoco ed ora erano brandelli e cenere attorno a lui, la sua pelle bruciava, coperta di fiamme vive, e il suo volto era deformato e assente: il Mastino Infernale aveva preso il suo posto.
Ai confini della radura, tra i cespugli un'ombra nera fece capolino, ringhiando cupamente. Stiles lo poté scorgere, illuminato dal fuoco che divampava sul corpo di Parrish. Un grosso lupo, dal pelo folto e nero. Scott, pensò Stiles e, senza ragionare si mosse verso di lui. Ma non appena Stiles si mosse, Cerbero si alzò muovendosi verso la sua direzione. Eppure non era verso di lui che si stava dirigendo. In realtà Stiles era sicuro che neppure si fosse accorto della sua presenza.
Stiles lo fissò, il respiro sospeso. Il cuore sembrò ricominciare a battere solo quando riuscì a scorgere il volto di chi teneva tra le braccia. Non si era permesso di abbandonarsi alla speranza fino a quel momento, ma era proprio lui.
Il piccolo corpo che dondolava mollemente sulle braccia salde del Mastino Infernale era di Adam McCall.
 





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Capitolo 13
*** Capitolo Tredicesimo ***


Tredicesimo Capitolo










 

Aveva seguito il Mastino Infernale fino al limitare della foresta, senza mai staccare gli occhi dalle gambe di Adam, che ciondolavano, incapace di fissare altri particolari; troppo spaventato all’idea di avvicinarsi più di quanto aveva fatto, ignorando quale reazione avrebbe provocato in Parrish.
Dietro di loro, Scott li seguiva tenendosi a distanza, perso ancora all’interno del corpo del lupo e nella sua rabbia; formando una triste processione.
Quel cammino gli era sembrato che fosse durato ore, adesso che si trovava nella stanza di ospedale in cui avevano ricoverato Adam.
Stiles gli stringeva la piccola mano fredda, mentre l’altra era intrecciata a quella di Malia.
La notte era trascorsa, Adam era stato ritrovato. Eppure in Stiles ribolliva una rabbia silenziosa.
Adam si meritava di avere lì i suoi genitori, non loro due. Avrebbe dovuto essere circondato prima di tutto dal caldo amore della sua famiglia e poi da quello del branco.
Eppure l’importante era di averlo trovato vivo, si ripeteva Stiles. Era stato rigenerante sentir dire dal medico che i battiti e il respiro erano regolari; ma nulla di tutto quello riusciva a togliergli la brutta sensazione che gli dava non vedere Scott e Kira al capezzale del loro primogenito.
C’era qualcosa di profondamente sbagliato in quell’assenza. Un fremito scosse il corpo di Stiles.
Il Darach li aveva spezzati prima ancora che potessero mettersi in gioco; aveva spezzato tutti loro. Erano stati spaventati alla possibilità di dover tornare a combattere ora che avevano figli da proteggere, ancora troppo piccoli per poterli avvicinare ad un pericolo; e poi, quando il pericolo aveva puntato proprio dritto verso di loro il branco si era distrutto, andato in pezzi e crollato su se stesso.
Guardava il filo della flebo attaccato al corpo di Adam e il monitor che indicava i segni vitali del piccolo, con disgusto, come se ne sopportasse appena la vista.
«Dovremmo tornare a casa. Da Jamie» disse Malia, d’un tratto.
Stiles la guardò con la coda dell’occhio per poi tornare a concentrarsi sul corpo incosciente di Adam.
«E lasciare lui da solo?» chiese, atono.
«No. Certo che no. Ho parlato senza pensare, non farci caso» si affrettò a spiegare Malia. «È solo che...», aggiunse, bloccando sul nascere la frase.
«Lo so», tagliò corto Stiles.
Lasciò la presa sulla mano del piccolo e prese posto sull’unica poltroncina disponibile accanto al letto.
«Dobbiamo trovare Scott. Dobbiamo mettere fine a questa storia una volta per tutte» affermò Malia, voltandosi verso il marito per cercare i suoi occhi. Ma Stiles teneva lo sguardo basso.
«C’era anche lui nella foresta» rispose con tono abbattuto, «Scott ha trovato Parrish prima ancora che arrivassi io, ma si teneva a distanza. Penso che una parte di lui sappia che abbiamo ritrovato suo figlio e sa anche che in lui qualcosa non va».
«Credo che sia bloccato nel corpo del lupo. Ha allontanato la sua coscienza umana più di quanto abbia mai fatto prima d’ora», ragionò Malia e Stiles sapeva che parlava nella speranza che potesse allontanare da lui l’oscurità che vedeva crescere sul suo volto.
Malia si mosse verso di lui, forse per abbracciarlo o carezzargli la testa. Stiles non lo avrebbe mai saputo, visto che si bloccò all’entrata dei due dottori che stavano seguendo il caso di Adam McCall.
Il primo dottore, dai capelli candidi e dal volto stanco, rivolse ai coniugi uno sguardo preoccupato.
«Ancora non è arrivato il dottor McCall?» chiese, le folte sopracciglia aggrottate.
Malia e Stiles si scambiano un’occhiata stralunata, poi il Vicesceriffo prese la parola.
«Data l’emergenza, Scott si sta recando da sua moglie per tornare qui insieme. La signora McCall era andata a trovare sua madre per qualche giorno...»
«A Gammon Allen» aggiunse Malia.
«Sì. Gammon Allen» confermò Stiles. «Arriveranno a momenti. Ma nel frattempo potete riferire a noi. Sono il padrino del piccolo...».
Stiles sembrava supplicare con gli occhi i due dottori.
«Vogliamo solo sapere se sta bene» si unì a lui Malia.
Alla fine, il secondo dottore, aggiustandosi gli occhiali sul naso adunco, cedette: «Il bambino non riporta alcun danno. Secondo tutte le analisi a cui lo abbiamo sottoposto, è sano».
Stiles e Malia si lasciarono scappare un sospiro di sollievo e si scambiarono un sorriso, seppur tiepido.
Il dottore più anziano rivolse loro uno sguardo dolce, eppure rammaricato.
«Questo non spiega il motivo per cui si trova in un coma da cui sembra impossibile risvegliarlo» disse, difatti.
«Continueremo a monitorare i suoi segni vitali fino all’arrivo dei genitori. Poi prenderemo una decisione», disse l’altro dottore, togliendosi gli occhiali per pulirli con l’orlo del camice.
«E cosa riguarderebbero tali decisioni?» provò a chiedere Stiles, ma i due — con un sorriso di circostanza — uscirono dalla stanza senza rispondere.


***


Lydia, seduta in ginocchio, davanti a Jordan, parlava, cercando di spiegare le conclusioni a cui erano giunti provando a far combaciare le prove che avevano a disposizione.
Parrish, dopo aver lasciato il corpo inerte di Adam fuori dalla foresta, aveva tirato dritto verso casa, ancora intrappolato nella trance che gli annebbiava i sensi. O, almeno, questo era quello che le aveva comunicato Stiles al telefono.
Lydia non si era permessa di lasciarsi andare ad un pianto liberatorio finché Jordan non era davvero tornato a casa da lei e da Allie.
Ricoperto dalle fiamme, Jordan si era messo seduto a gambe incrociate in mezzo al salone e non si era più mosso da lì. Non importava cosa dicesse Lydia, sembrava completamente assente. Poi, senza un apparente motivo, si era risvegliato e, con sguardo colpevole, le aveva chiesto di raccontargli cosa era successo. E Lydia non aveva perso tempo, perché tutto sembrava sempre più fugace e inafferrabile.
«Hai ritrovato Adam» fu la prima cosa che Lydia, tra le lacrime, riuscì a dirgli.
Ma Jordan non si mostrò sollevato a quella notizia. L’uomo ricordava fin troppo bene tutti i corpi senza vita che aveva portato al cospetto del Nemeton e sapeva, con altrettanta chiarezza, che se il Mastino Infernale aveva potuto trovare Adam, qualcosa di orribile era accaduto.
«Dov’è adesso?» chiese, con l’espressione apprensiva che solo un genitore sapeva usare.
«Si trova in ospedale. Malia e Stiles sono con lui. I dottori dicono che sta bene, anche se...»,
«Anche se?» gli fece subito da eco l’uomo.
Lydia si alzò da terra, lisciando le pieghe dei pantaloni.
Lo guardò dall’alto, con espressione rammaricata come se sapesse che quello che stava per dire avrebbe fatto sentire Jordan in colpa, come se la condizione di Adam dipendesse da lui e dai poteri del Mastino Infernale e non da quello che il Darach aveva fatto al piccolo.
«Dicono che è in un coma da cui non riesce a risvegliarsi» rispose Lydia, addolcendo il più possibile il tono della voce.
«Quindi è possibile che qualcosa lo tenga ancorato nell’incoscienza? Come in un sonno profondo?»,
«Qualcosa o qualcuno» assentì Lydia, «Da quello che ha saputo dirmi Stiles penso che si tratti di una letargia profonda indotta da una compromissione del sistema nervoso centrale».
Jordan la guardò con occhi persi, senza capire quello che Lydia intendeva.
«Ma non è così che agisce il Darach» Jordan sbatté i pugni a terra, colto da una frustrazione improvvisa, «Prima quel massacro nel bosco… poi Adam»
«Io e Malia pensiamo che Adam sia proprio il fine ultimo del Darach» lo informò Lydia, «La Profezia che sto traducendo parla della luna e di poterla controllare attraverso chiavi. Tre, per la precisione. Tre come i figli di Scott, Jordan».
Parrish scosse la testa, contrariato, «Non è possibile. Se così fosse avrebbe preso anche Caleb».
«L’ho pensato anche io», concordò Lydia, «Ma guarda cosa ha fatto ad Adam: l’ha indotto in una specie di letargia di cui non conosciamo l’origine e tanto meno la maniera con la quale liberarlo. Penso che si tratti di una fase iniziale, una preparazione a quello che avverrà quando il Darach sarà in possesso di tutti e tre i bambini. Ieri notte nel cielo brillava la luna piena: non è stato un caso. La prima parte di luna è stata aperta, Jordan, e il Darach ci ha completamente in pugno».
Parrish si alzò in piedi, posò entrambe le mani sulle spalle della moglie e guardò dritta negli occhi.
Una nuova luce bruciava in fondo ai suoi occhi verdi.
«Allora dobbiamo impedire che prenda anche Caleb e Matty. Se il rituale ha già avuto inizio ieri notte, faremo in modo di interromperlo. Non può proseguire senza ciò che gli serve. E una volta interrotto anche Adam sarà salvo».
Per un attimo Lydia si crogiolò nelle parole sicure di suo marito. Lo guardò e il sollievo di trovarlo pronto a combattere anche questa terribile guerra le invase il corpo. E allora decise di annuire, accettare di combattere al suo fianco con il vigore e la grinta che Jordan stava finalmente tirando fuori, nonostante si sentisse già terribilmente stanca.
«Chiama Melissa. Dille che, fino a quando sarà necessario, lei e Caleb resteranno da noi», decise Jordan, sentendo di voler avere il più possibile il controllo della situazione.
Lydia annuì, d’accordo col marito.
«Kira…?» provò a chiedere l’uomo ma Lydia scosse la testa con aria afflitta.
«Ho provato a rintracciarla ma è scomparsa nel nulla. Sono andata a casa loro e all’interno non ho trovato segni di colluttazione. Sembra semplicemente uscita di casa portando con sé Matty, senza vestiti, cellulare e chiavi», Lydia sbuffò, colta dallo sconforto.
«I vicini?» provò a chiedere Jordan, ma ad attenderlo non ci fu alcuna risposta positiva.
«Le famiglie che mi hanno aperto per parlarmi non hanno saputo dirmi nulla. Ho provato ad essere quanto più discreta possibile, ma credo che in città si stia già spargendo la voce che sia accaduto qualcosa di brutto a casa dei McCall. Mi auguro solo che non ci vada di mezzo il nome di Scott».
Jordan curvò le spalle, abbattuto.
«Lui non è ancora tornato, vero?».
«No ma, conoscendo Stiles, non appena ne avrà modo, tornerà di nuovo lì fuori a cercarlo. Lo riporterà indietro, Jordan. Ne sono sicura. E allora saremo di nuovo uniti e forti», lo rassicurò Lydia.
Jordan annuì, seppure i suoi occhi erano ancora tormentati.
Con la morte nel cuore Lydia gli sorrise e gli disse: «Scopriremo chi si cela sotto la maschera del Darach, terremo Caleb al sicuro e vinceremo anche questa volta».
«I bambini saranno al sicuro» le promise Jordan, cingendole i fianchi per avvicinarla al suo corpo, «Nessuno farà più del male ai cuccioli del branco».


***


Era ormai sera quando Stiles e Malia uscirono dall’ospedale. Il tramonto stava riportando il buio su Beacon Hills.
«Il telefono di Kira è ancora staccato» disse Malia, provando a chiamare per l’ennesima volta.
«Tornerà» disse Stiles, prendendole la mano.
«Forse le è successo qualcosa di brutto», lo contraddisse Malia, «Forse dovremmo preoccuparci».
«Kira sa cavarsela, Mal. Per ora la cosa più importante è proteggere i bambini».
«Ma se davvero le tre chiavi sono i figli di Scott... troveranno anche Kira e prenderanno Matty. Gli faranno quello che hanno fatto ad Adam!».
Stiles sembrò spazientirsi, «E cosa avrebbero fatto ad Adam? Hai sentito anche tu i dottori: è vivo, sta bene».
Gli occhi di Malia si riempirono di lacrime e rispose con voce incrinata: «Stiles... sembra un vegetale. Sembra come se non ci fosse più nulla dentro Adam».
Stiles aggrottò la fronte, «Che vuoi dire?»
«Non c’è più Adam in quel corpo, è un guscio vuoto. Come aveva detto Lydia: un bambino senza volto, un bambino senza anima. Un bambino morto».
Stiles le cinse le spalle in silenzio, la vedeva fuori di sé più del normale e così le disse: «Tra poco saremo a casa. Abbiamo entrambi bisogno di riposarci».
Malia sembrò irritarsi, «Smettila di trattarmi in questo modo! Come se fossi una sciocca… o – peggio ancora – una pazza!», sbottò.
«Abbiamo sempre agito seguendo l’ipotesi peggiore. Perché adesso dovrebbe essere diverso?», gli occhi di Malia brillarono di sfida.
«Come puoi pensare di seguire l’ipotesi peggiore se in ballo c’è la vita dei nostri figli?» ringhiò Stiles in risposta.
«Perché è in questo modo che evitiamo le tragedie, Stiles! Ora più che mai dobbiamo fare il possibile. Adesso è il momento di dare il tutto per tutto. Proprio perché c’è in ballo la vita dei nostri figli dobbiamo pensare ad ogni singola evenienza!».
Stiles indurì la mascella, «Non lo dire».
«Anche la scomparsa di Adam si sarebbe potuta evitare se solo...».
«Se solo cosa? Dai, avanti, dillo!» gridò Stiles, «Dillo che è stata mia la colpa, che ho messo io in pericolo i bambini!»,
«Non volevo dire questo» mormorò Malia, in un fil di voce.
«Invece sì! Io ho sottovalutato fin dall’inizio la situazione. La colpa è mia», si batté con forza il pugno sul petto, gli occhi lucidi e arrossati, il viso tirato. Guardava Malia come se fosse spiritato.
Malia gli prese la mano, «Nessuno ha la colpa, Stiles. Se vuoi darla a qualcuno dalla all’intero branco, allora».
Stiles ammutolì, respirando forte e a fatica, come se si stesse controllando per non cedere ad un attacco di panico. Poi tirò dritto verso la macchina.

Quando varcarono l’ingresso della loro abitazione, Jamie fu il primo a raggiungerli. Saltò in braccio a Stiles, schiamazzando e legandogli strette le braccia attorno al collo.
Stiles lo strinse a sé, poi lo rimise a terra, nonostante il bambino lo pregava con gli occhi e le braccia allungate verso di lui per ritornare tra le sue braccia.
Al suono della porta e dei gridolini felici di Jamie, si affacciò all’ingresso anche suo padre. Aveva la fronte corrucciata e le sopracciglia cespugliose aggrottate.
«Papà» lo salutò Stiles, «Tutto bene?».
Noah annuì «Sì, stiamo entrambi bene, figliolo».
Padre e figlio si guardarono negli occhi come a voler scambiare parole segrete e rassicurazioni mute.
A Stiles non serviva parlare per sapere cosa voleva dire suo padre. E Noah non sembrava voler commentare l’agitazione visibile sul volto del figlio o quanto fosse chiaro che lui e Malia avessero discusso per l’ennesima volta. Si limitò a tacere e a mostrare un sorriso tirato ad entrambi.
Stiles si sedette a tavola, mangiò il cibo ad asporto che aveva ordinato suo padre, chiuso in sé stesso come non lo era stato mai. Quasi non si accorse di Malia e suo padre che provavano a parlare del più o del meno, o di Jamie che reclamava la sua attenzione e che si rifiutava di mangiare, facendo i capricci ad ogni parola della madre.
Stiles si sentiva perso nei propri pensieri, sconfitto. Guardava quello che accadeva attorno a sé come un semplice spettatore. In un batter d’occhio tutti avevano già finito di mangiare, Malia stava sparecchiando la tavola e suo padre se ne stava andando, proprio come in un film che andava avanti scorrendo veloce. A malapena percepì il bacio che gli lasciò sulla fronte.
Senza sapere neppure come si ritrovò con la bottiglia di rum davanti e un bicchiere stretto in mano.
Aveva le spalle basse e il capo chino come se l’intero mondo gli si fosse abbattuto addosso.
Malia si avvicinò a lui, stringendolo in un forte abbraccio silenzioso e il tempo tornò a scorrere normalmente. Stiles la sentì quella stretta, come gli arrivò chiaro il calore del corpo di sua moglie contro il suo.
Adorava quegli abbracci, anche nei momenti peggiori.
Abbandonò la testa contro il suo petto e ascoltò il battito forte e sicuro del suo cuore.
Era il posto che preferiva, quello attorno alle sue braccia. L'unico luogo in cui si poteva sentire davvero protetto, dove tutto andava ancora bene.
Per un attimo che non sembrò avere fine Stiles si crogiolò in quell’idea sognante, ma le braccia di Malia scivolarono via, alla fine, come tutto il resto.
Stiles girò il capo, quel tanto che bastava per seguire i suoi movimenti con la coda dell’occhio.
La vide raggiungere la radio e accendere la musica, prendere Jamie in braccio facendo accoccolare il piccolo sulla sua spalla.
Prese a muoversi sinuosa dondolando Jame al ritmo lento e trascinante della musica.
Jamie sorrise nell’incoscienza, ormai perso in un sonno pacifico, ma Malia non si fermò per portarlo a letto, al contrario lo strinse a sé camminando ancora in cerchio per il salotto, muovendo piano i fianchi.
Allora Stiles si alzò dal tavolo e la raggiunse per poterle cingere i fianchi da dietro, poggiò la fronte sulla spalla libera, quella che non occupava già Jamie. Iniziò a muoversi con lei, assecondando il lento movimento del bacino in quella loro danza che consisteva nel semplice dondolio da un piede all’altro.
Gli ricordò il movimento di una nave in balia delle onde nel bel mezzo di una tempesta a cui non aveva intenzione di soccombere. Si sentiva ancora forte accanto a lei, questo era fuori da alcun dubbio. Malia non lo avrebbe mai lasciato affondare; non da solo, per lo meno.



***


Il vento freddo gli sferzò il viso portando con sé l’odore di sabbia. Kira aprì gli occhi: era notte e attorno a lei si stendeva un deserto di oscurità.
Matty dormiva tra le sue braccia, al sicuro. Aveva camminato a lungo, si rese conto. Era arrivata a piedi fin là, senza sapere né come e né tantomeno dove si trovasse. Le sue braccia erano ormai pesanti e indolenzite e sopportavano a malapena il peso del bambino. La cosa di cui prese successivamente consapevolezza è che non aveva con sé neppure il telefono.
La Volpe, pensò, era stata la Volpe a portarla fin lì. Un moto di rabbia la colpì capendo che era stata sopraffatta dopo anni trascorsi nell’allenarsi per controllarla, per farla tacere. Una rabbia mista a vergogna e rimorso, perché – in fondo – quegli ultimi giorni aveva desiderato intensamente lasciarsi andare, allontanarsi dai problemi che le toglievano l’aria dai polmoni rendendole doloroso respirare. Abbandonarsi a quella forza dentro di lei che avrebbe tenuto al sicuro lei e i suoi bambini.
Scott, pensò mentre lacrime di sconforto le salirono spontanee agli occhi. Già pensava che fosse una codarda, adesso cosa pensava di lei ora che aveva rinunciato a lui e ai loro figli senza un apparente motivo?
Di sicuro la stava cercando, si rincuorò, cercando di allontanare dalla sua mente la possibilità che Scott fosse talmente irato e deluso da lei da lasciarla andare senza provare a riprenderla.
Kira camminò incerta sul terreno arido. Man mano che avanzava, iniziò a distinguere, in lontananza, una debole luce che danzava nel buio.
Proseguì in quella direzione, col cuore che le batteva nel petto come un tamburo. Ora sapeva dove si trovava e perché la Volpe l’aveva portata lì.
Si ritrovò dinanzi ad un grande falò che ardeva indisturbato in quella desolazione. Si sedette a distanza dal fuoco, abbastanza vicina perché il calore li riscaldasse ma non troppo da infastidirli, cullò Matty mentre attendeva.
Si guardò attorno, distinguendo nel buio la formazione rocciosa di Shiprock. Non che la forma di quelle rocce sabbiose le fosse rimasto impresso nella memoria, ma la Volpe dentro di lei era in fermento e quello era l’unico lungo desertico in cui l’avrebbe potuta condurre.
D’improvviso si alzò il vento e Kira strinse più forte a sé Matty, sapendo cosa stava per accadere. Una folata di sabbia vorticò davanti al fuoco e agli occhi di Kira. Quando il vento si placò, al posto della sabbia, era apparsa una donna davanti al fuoco.
Aveva il volto tinto di bianco e gli occhi macchiati di rosso. Sulla testa portava un copricapo di pelliccia di lupo.
Aveva preso forma dalla sabbia, come se essa stessa ne facesse parte. Assomiglia a una nativa americana, dimenticata nel tempo, vestita di pelle e collane di ossa, armata di una lunga lancia appuntita. L’ultima volta che Kira era giunta a Shiprock, insieme a sua madre, in tre le avevano dato il benvenuto. Adesso solo una Skinwalker si era presentata e Kira sapeva fin troppo bene che non si trattava di un buon segno.
Avvolse Matty nella sua giacca e lo posò con delicatezza sul terreno arido e sabbioso. Il bambino non parve accorgersi della differenza e – con sollievo di Kira – continuò a dormire lontano dal calore della madre.
Kira sguainò la katana e fronteggiò con fierezza la mutaforma Navajo.
La Skinwalker socchiuse gli occhi e sibilò rabbiosa: l’aveva riconosciuta.
«Sapevamo che saresti tornata… Volpe del Tuono».
«Non sono qui per combattere» precisò Kira, pur sapendo che entrambe si stavano apprestando a farlo.
«Oh, so perfettamente per quale motivo sei qui» sibilò la Skinwalker, la sua voce sembrava giungere direttamente dall’oltretomba.
«E so per quale motivo la Volpe è tornata da noi...» proseguì con voce lenta e graffiante, brandendo la lancia e puntandola verso Kira.
«Ho un bambino con me» mormorò Kira con un groppo in gola «So cosa stai per fare, ma io sono qui solo per parlare».
«Tu non sai proprio niente».


***



Stiles non era più il ragazzo magrolino che si lasciava andare all’abbraccio rassicurante di Malia durante la notte, era un uomo adesso, con spalle larghe e braccia forti con le quali la stringeva e mani grandi con le quali conteneva il grembo della donna.
Malia lo stava aspettando, sotto le coperte, spaventata dall’idea che potesse passare un’altra notte da sola.
Provava la necessità di averlo accanto per dormire, Stiles questo lo sapeva.
Si massaggiò il basso ventre, mentre i minuti trascorrevano lenti. Poi la porta della camera si aprì e Stiles entrò, fermandosi ai piedi del letto per guardarla. Malia non osò muovere neppure un muscolo. Provava a capire quali demoni si agitavano nel cuore di suo marito, ma lui sembrava sempre più irraggiungibile e Malia non capiva perché non sapeva più intuire i suoi pensieri potendo solo guardarlo negli occhi.
Quando Stiles si infilò sotto le coperte, accanto a lei, un brivido la colse impreparata.
Malia era sdraiata in posizione fetale e gli dava la schiena. Sperò con tutta se stessa che lui allungasse una mano a cercare il suo corpo, a cercare un contatto che però non avvenne.
I minuti passavano lenti. Stiles si continuava a girare e rigirare nel letto. Non riusciva a dormire e Malia non trovava il coraggio per provare a parlargli ancora.
Ma d’improvviso la mano di Stiles fu sulla sua schiena e un calore estraneo la avvolse. Non era abituata ad agognare questo tipo di attenzioni quando, per loro due, il contatto fisico era un qualcosa di tanto viscerale e semplice che non aveva mai dovuto reclamare.
La abbracciò tirandola a sé: un braccio tra il seno e la pancia e le gambe intrecciate in un groviglio. Un abbraccio scomodo, eppure completo.
Malia non riusciva a prendere sonno in quella posizione, ma era il contatto di cui sia lei che Stiles avevano bisogno, perciò non osava muovere neppure un muscolo.
Poi udì un singulto strozzato e i nervi di Malia si tesero; allora la stretta di Stiles si fece – se possibile – ancora più stretta; un lungo sospiro le solleticò la nuca e Stiles si mosse.
La sua mano abbandonò la postazione sicura attorno alla sua pancia e si spostò più giù ad accarezzare prima le cosce e poi i glutei, fino a infilarsi negli slip. Con le dita solleticò la sua intimità, soffermandosi sui punti che sapeva essere i più sensibili.
Malia rimase immobile, al contrario il suo cuore batteva a mille e il suo respiro si fece affannoso.
Quando Stiles iniziò a baciarle il collo Malia si girò verso di lui, sdraiandosi supina. Stiles si chinò a baciarle le labbra, la sua lingua che cercava, febbrile, quella di lei.
Con un gesto la spogliò dell'intimo e le fu sopra, improvvisamente bramoso.
Non era più il tipo d'amore che compivano quando aspettavano un bambino, non c'era né dolcezza né attenzioni particolari. Era più carnale, un desiderio e un’urgenza fisica dell'altro che fece perdere a Stiles la consapevolezza di ciò che stava facendo. Seguiva solo il suo istinto e ogni impulso di piacere che Malia, sotto di lui, gli restituiva.
Forse anche troppo intenso, perché Malia disse quello che a letto non gli aveva mai detto prima: «Piano, Stiles», soffiò, mordendosi con forza il labbro inferiore «Fai piano».
Ma Stiles si era perso in quella cacofonia di percezioni, annebbiato dal piacere, dalla passione e dall'alcol, concentrato solo a completare l'atto. Neppure la sentì, mentre continuava a spingere e a lasciarle piccoli morsi sul seno. La baciò un'ultima volta prima di raggiungere l'orgasmo e lei quindi lo spinse via con più impellenza di quanta ne volesse mostrare.
Solo allora Stiles si rese conto di essere stato troppo irruente.
Anche nella penombra della stanza Malia vide che il suo volto era pallido e tirato e i suoi occhi lucidi.
Stiles le abbracciò la testa, premendola tra il mento e l’incavo del suo collo. Era agitato, tremava e le accarezzava i capelli con dita insicure.
«Ti… Ti amo» singhiozzò lui, baciandole la fronte.
«Lo so...» mormorò Malia in risposta, provando ad circondare i fianchi sottili dell’uomo per rassicurarlo, per fargli intendere che non le aveva fatto davvero male e non era dispiaciuta di quello che era appena accaduto. Che comprendeva senza giudicarlo.
Ma Stiles si allontanò con gli stessi modi bruschi che ultimamente era solito usare con lei.
«Dove vai?» chiese Malia, sconcertata.
Stiles si stava già infilando i pantaloni e infilando la prima felpa disponibile.
«A cercare Scott» farfugliò come se fosse la prima scusa a cui avesse pensato. Poi il suo volto prese un’espressione risoluta e Stiles sembrò essersi convinto delle proprie parole.
Malia assottigliò le labbra, avrebbe voluto fermarlo, chiedergli di restare con lei, di non lasciarla sola un’altra volta. Ma, d’altronde, sapeva che Stiles stava facendo la cosa giusta a dispetto che lo facesse solo per fuggire da lei, era ciò che avrebbe dovuto fare fin dall’inizio.
Pensò ad Adam, solo in ospedale, a Caleb a casa della nonna che non capiva il motivo per cui né i suoi fratelli e neppure i suoi genitori erano insieme a lui. Pensò anche a Kira, mentre Stiles volava fuori dalla stanza e si precipitava giù per le scale. Malia era sicura che anche lei – ovunque fosse – aveva bisogno di Scott. Tutto il branco ne aveva bisogno.


***


Lydia aveva appena finito di sistemare la camera degli ospiti che Melissa entrò timidamente nella stanza con in braccio Caleb che, esausto dopo ore di lagne e pianti, era finalmente crollato tra le sue braccia.
Gli anni trascorsi e le preoccupazioni che aveva dovuto affrontare, non avevano sfiorito la bellezza di Melissa. Al contrario, portava quegli anni in più con vera eleganza. Teneva i capelli, ancora lunghi e ondulati, ma colorati da alcune ciocche candide, in una crocchia alta. Il suo viso appariva ancora fresco, segnato solo da poche rughe attorno agli occhi e alle labbra.
La mezza età le donava e la portava con vera classe.
«Grazie per averci ospitato» disse Melissa a bassa voce, lasciando un leggero bacio sulla fronte del piccolo.
Lydia sorrise «Non ti avremmo mai lasciata da sola. Scott tornerà presto, ma fino ad allora non abbiamo intenzione di perdere di vista Caleb» disse, decisa.
Gli occhi solitamente dolci e luminosi di Melissa si adombrarono e Lydia non dovette chiederle nulla per comprendere che i pensieri della donna si erano spostati nuovamente sul piccolo Adam.
Difatti Melissa disse: «Sono rimasta in ospedale finché me lo hanno permesso. Neppure Stiles e Malia lo hanno lasciato solo… anche quando ormai c’ero io al suo fianco» Melissa sembrava destabilizzata e parlava e si muoveva come se fosse confusa. Per lei era stato un forte shock vedere il nipote in quelle condizioni e non le era stato affatto d’aiuto sapere che né Scott e neppure Kira fossero presenti per intervenire, portando tutte le responsabilità a gravare sulle sue spalle stanche.
Lydia aggrottò la fronte nel vedere lo sguardo vacuo e umido di Melissa. Si era dimostrata una forza della natura nel proteggere Scott, nell’accettare tutti quei cambiamenti in suo figlio e i pericoli che da essi comportava. Ma Scott allora era un ragazzo e sapeva come difendersi, per quanto Melissa potesse preoccuparsi per lui era cosciente di quanto fosse forte suo figlio. Ma ora tutto era diverso, suo nipote era un bambino indifeso e lei non aveva idea di come proteggerlo, né tantomeno l’energia per farlo.
«Riposati, Melissa. Sarai sfinita...» provò a confortarla Lydia, «Anche se Scott non è qui, noi sì e troveremo un modo, te lo prometto. Non sei sola» le strinse la mano e Melissa le sorrise, le lacrime intrappolate tra le ciglia.
Lydia, nell’uscire, si richiuse la porta alle spalle e si augurò che la signora McCall potesse – se non dormire – quantomeno riposarsi.
Il cuore nel petto le pesava come un macigno e con urgenza trovò rifugio nella cameretta di Allie.
La piccola dormiva, abbracciata al suo peluche preferito, rannicchiata in un angolo del letto, proprio come l’aveva lasciata. Sapeva che di lì a poco si sarebbe nuovamente svegliata, rendendosi conto che Lydia non si trovava più al suo fianco.
Probabilmente già si era resa conto, nell’incoscienza del sonno, che mancava il calore del corpo di sua madre e, difatti, pur dormendo, aveva la fronte corrugata.
Sentendosi una sciocca, Lydia pose il palmo della mano a poca distanza dal naso della bambina, per sentire se respirava.
Le lasciò un bacio tra i capelli e, a quel contatto, la fronte della bambina tornò distesa.
Lydia sospirò: forse aveva ancora tempo prima di dover tornare a sdraiarsi accanto a lei per rassicurarla e convincerla a rimettersi a dormire.
Eppure, nessuno di quei particolari riusciva a restituirle la calma che stava cercando. Il magone che le comprimeva il petto era ancora lì, ad appesantirle il respiro senza darle tregua.
Chiuse gli occhi, sentendosi tremendamente sola.

Lydia entrò nello studio di Jordan e si richiuse in fretta la porta alle spalle.
Lui era seduto alla scrivania a leggere e rileggere i referti dei cadaveri e i pochi indizi che avevano a disposizione.
Al suono secco della porta che sbatteva alzò gli occhi giusto in tempo per vedere Lydia togliersi la maglietta e camminare spedita verso di lui.
«Allie si è addormentata» farfugliò a mo' di spiegazione, prima di sedersi sulle gambe di suo marito, legargli le braccia al collo e baciarlo con trasporto sempre più crescente.
Jordan non ebbe il tempo di dire alcunché, lasciò andare i fascicoli sulla scrivania e poggiò le mani sulla schiena di Lydia, lisciando la pelle nuda, entusiasta di quella incursione inattesa.
La donna si aggiustò sulle gambe dell’uomo, strusciando su punti sensibili.
Lydia era sempre stata un fuoco che divampava all’improvviso a cui Jordan si abbandonava senza alcuna lamentela.
Eppure, nonostante agognava da giorni un contatto simile con sua moglie, qualcosa lo tratteneva.
Interruppe i suoi baci, cercò i suoi occhi verdi, continuando a lasciarle dolci carezze dietro la schiena e provando ad ignorare che aveva a disposizione davanti al naso il suo seno prosperoso ancora imprigionato nel reggiseno a balconcino color pesca e merletto bianco.
«Cosa succede, Lydia?» mormorò con voce rauca, pregna di passione.
Lydia lo guardò dritto negli occhi, incredula di fronte a quella domanda o – ancor meglio – dinanzi alla sensibilità smisurata di suo marito.
Lydia si piegò  contro il petto di Jordan, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo.
«Ho bisogno di te» biascicò, a un soffio dalle lacrime, «Ho bisogno di sentire il tuo corpo contro il mio, delle tue braccia che mi stringono»
Jordan fu rapido ad accontentarla e senza indugio la strinse a sé, affondando il naso tra i suoi capelli profumati.
«Stringimi più forte» lo pregò lei e allora Jordan sospirò.
Provò ad allontanarla un poco per poterla guardare, ma Lydia non lo lasciava andare.
«Parlami, amore mio» chiese lui, in fine.
Lydia tremava appena tra le sue braccia e Jordan dovette pazientare alcuni minuti prima che la voce di Lydia uscì, tremola ed instabile.
«Oddio...» sussurrò, contro il suo collo, «Mi sento così sciocca… Ti sembrerò certamente una sciocca».
«No» scandì lui, con decisione.
«Non saprei cosa fare se tu non ci fossi, se mi lasciassi ad affrontare tutto questo da sola. Sei tutto per me, Jordan. Sei la metà di me che mi rende forte», singhiozzò Lydia, provò a prendere fiato e poi continuò, «Noi siamo la cosa più importante per te e me lo fai capire ogni giorno, anche quando non vuoi parlarmi. Perché se così non fosse allora non saresti così spaventato. Perché... perché non staresti neppure qui a voler parlare, ad assicurarti di come mi sento, quando potresti benissimo prendermi su questa scrivania e ignorare tutto il resto. Ma tu non sei così e io ti amo, ti amo da impazzire proprio per questo» gorgogliò tra le lacrime che Jordan cercava inutilmente di asciugare con i polpastrelli dei pollici.
Le accarezzava il viso, cercando inutilmente di calmarla, sfiorando di tanto in tanto le sue labbra con le proprie.
«E sono stata così egoista, Jordan. Ero arrabbiata con te perché per la prima volta mi avevi allontanata. E lo sapevo che volevi solo proteggermi, non è stato giusto addossarti tutta la colpa. Ma questo mi ha fatto capire quanto ancora ti amo dopo tutti questi anni, quanto ogni piccolo gesto di affetto che fai quotidianamente sia importante».
«Sshh, basta Lydia. Lo so, questo. Lo so».
Lei scosse la testa, insoddisfatta, perché a parole non riusciva a rendere quello che stava provando in quel momento.
Ma Jordan la capiva, lui la conosceva così a fondo che alle volte Lydia dimenticava che erano due essere a se stanti. Solo lui poteva scorgere dietro quei suoi atteggiamenti da donna risoluta ed indipendente, la fragilità di una ragazza che aveva dovuto lottare contro i mostri del proprio essere già ad una tenera età.
Jordan la faceva sentire protetta e Lydia lo accettava, perché anche lui sentiva la necessità di stare con lei per non perdere il controllo; nella stessa esatta misura quale il Mastino Infernale reclamava accanto a sé la Banshee.  Erano come un Uroboru, loro due: come un serpente che si mordeva la coda. Il potere che divora e rigenera se stesso, in un ciclo continuo ed interminabile.
«Io so che saresti una leonessa, implacabile e fiera, anche senza di me. Ma io non vado da nessuna parte, Lydia. Te lo prometto. Non permetterò neppure al diavolo in persona di allontanarmi da te e da Allie».
Le prese la mano sinistra e le baciò l’anulare dove brillava la fede d’oro.
«Penso ancora quello che dissi il giorno in cui ti ho sposata: neppure la morte potrà dividerci».
Le labbra di Lydia tremarono, commosse e in un batter d’occhio Jordan se le ritrovò sulle sue. La passione prese il sopravvento in un istante e quel bacio tenero d’affetto si fece d’improvviso carnale. Le loro lingue si incontrarono e si stuzzicarono e ben presto si persero in quella bolla di calore solamente loro. Come un fuoco che, attorno a loro, divampava e bruciava le loro carni: compatibili e complementari l’uno poteva sopportare l’urlo della Banshee e l’altra gestire il fuoco di Cerbero.
Jordan si sollevò, tirando su anche Lydia per farla poggiare sul piano della scrivania. Senza indugiare oltre, la Banshee gli slacciò i pantaloni e infilò la mano oltre i bordi dei boxer.


***


Stiles correva nella foresta chiamando Scott a gran voce. Non si diresse verso il Nemeton, dove lo aveva trovato l’ultima volta. Sapeva che lui non aveva più motivo per restare lì, ora che Adam era stato ritrovato.
Aveva considerato la possibilità che si stesse aggirando per Beacon Hills, nelle vicinanze dell’ospedale magari. Ma di certo qualcuno si sarebbe reso conto della presenza di un grosso lupo nero se così fosse stato.
Girò alla cieca tra gli alberi, cercando di farsi guidare da quel sesto senso che lo faceva ritrovare ogni volta col suo migliore amico.
Le fitte costanti alla milza lo stavano rallentando, ma non aveva intenzione di desistere.
Eppure essere lì, anziché a casa, non gli diede la stessa adrenalina che gli aveva dato la sera prima, né tantomeno quella che sentiva da ragazzo: non traeva energia nell’essere fuori nel bosco per l’ennesima volta, da solo, con nuovi problemi sempre più grandi e ingestibili da affrontare.
Prima era diverso. Prima avrebbe trascorso giornate intere nella foresta pur di risolvere gli enigmi che si celavano dietro a nuovi attacchi, per sconfiggere i nemici in tempo. Ma adesso era stanco e rimpiangeva l’oziosa routine che aveva con Malia prima dell’arrivo del Darach.
Quando si fermò per riprendere fiato e si guardò attorno con più calma, si rese conto che quella parte del bosco gli sembrava piuttosto familiare, nonostante col buio fosse facile confondersi. Ma quante volte da ragazzo era stato tra quegli alberi, camminando sul terriccio umido come se percorresse la strada di casa sua?
Puntò in alto la torcia e distinse qualcosa di diverso tra i rami. E allora capì dove si trovava: aveva raggiunto la casa diroccata degli Hale.
La costruzione in legno, per metà mangiata dalle fiamme e l’altra metà rovinata dal tempo e dalle intemperie, appariva come un volto spettrale e tetro e – dato quel che rappresentava per il branco e in particolare per lo stesso Stiles – infestato da oscuri demoni del passato.
Il cuore gli salì in gola mentre si avvicinava, gli sembrò persino di sentire lamenti lontani provenire all’interno di quell’abitazione dimenticata. Poi distinse con precisione il suono di unghie che grattavano il legno.
Agitò la torcia spostandola a destra e a sinistra alla ricerca della provenienza di quel rumore inquietante e per un lungo minuto la paura prese il sopravvento sulla ragione. Stiles si chiese se ad attenderlo ci fosse il Darach, se stesse provando a fare con lui un perverso gioco tra cacciatore e preda e se lui stesse ingenuamente abboccando alla sua trappola.
La mano di Stiles, quella libera, corse alla tasca della felpa per stringere con forza l’impugnatura della pistola. Forse non sarebbe bastata per fermare il Darach, ma avrebbe dato a Stiles una sicura possibilità di fuga.
Con passo incerto continuò a percorrere il perimetro della casa degli Hale. La luce della torcia tremolava nella sua mano, ma ogni senso di Stiles era concentrato a captare ogni più piccolo particolare dell’ambiente che lo circondava.
Il rumore di unghie perpetrava, fisso e sempre più definito. Si stava avvicinando.
Sorpassata l’ultima colonna del portico, si voltò: un’enorme ombra nera lo stava aspettando.
Imponente, fulva e con penetranti occhi iniettati di rosso.
Stiles si lasciò andare a un plateale sospiro di sollievo.
«Grazie al cielo! Scott...» soffiò, senza più fiato. Stiles si accucciò a terra, cercando di calmarsi dalla tensione accumulata che gli aveva reso le gambe molli.
Scott – o, per meglio dire, il lupo che aveva preso il suo posto – era intento a grattare con foga la parete di legno della casa, come se cercasse disperatamente di raggiungere qualcosa.
«Cosa cerchi, Scott?» chiese Stiles, con voce rassegnata, dato che il grosso lupo non gli aveva dato alcuna attenzione.
«Non c’è niente lì dentro. Questa casa è deserta da anni, lo sai benissimo» continuò, cercando ancora una volta di attirare il suo interesse.
«Scott… Scott!» insistette Stiles. Si sedette sul terriccio umido, incrociando le gambe. Il lupo uggiolò, ma senza smettere di lasciare grossi solchi sul legno.
«Dobbiamo tornare a casa. Dobbiamo tornare da Adam. Tu devi tornare...».
Stiles nascose il viso tra le mani.
«Amico… Tuo figlio ha bisogno di te, non del lupo, ma solo di suo padre. È da solo adesso e...» Stiles si interruppe quando sentì sul dorso delle mani qualcosa di umido.
Fece scivolare giù le mani dal viso e sollevò la testa ritrovandosi gli occhi rossi dell’Alpha a rispecchiarsi nei suoi.
Non aveva idea di quanto di quello che diceva arrivasse a Scott, ma era sicuro che all’interno degli occhi del lupo ci fosse il suo migliore amico. C’era Scott che provava a placare la sua furia, a riemergere dalla sua parte più animalesca. Una volta Malia aveva provato a spiegargli quanto fosse facile cedere alla propria metà mannara quando non si ha il completo controllo, gli aveva provato a descrivere quanto ci si senta al sicuro permettere alla parte più forte e furiosa di emergere per sopravvivere.
«Dobbiamo tornare a casa, amico. Tu da Adam e io da Malia», Stiles si grattò con foga la cute, mentre osservava il grosso lupo sedersi accanto a lui.
«Che diavolo dovrei fare?» chiese più a se stesso che a Scott. Pensò che avrebbe dovuto portare con sé Malia, forse i suoi modi diretti sarebbero stati ben più decisivi di tutte le parole persuasive che avrebbe potuto dire Stiles. Ma metterla ancora in pericolo era fuori discussione, dato che a questo ci pensava già da sola.
Stiles inghiottì un boccone amaro a questo pensiero.
Sospirò «Sta andando tutto a rotoli con lei. La amo… con tutto me stesso. Ma adesso c’è qualcosa che mi fa stare male. La voglio, sempre, ogni secondo. Sento il bisogno di toccarla o baciarla in continuazione come un povero disperato, ma lei sembra non rendersi conto di come mi faccia sentire il modo in cui lei insiste a voler proteggere me e Jamie. Non permette che io lo faccia al suo posto e questo mi fa nascere una rabbia dentro mai provata prima. Rabbia sia verso di lei che verso di me».
Il lupo si sdraiò a terra, nascondendo il muso sotto le zampe e abbassando le orecchie.
«Oh, non guardarmi così. Sai benissimo che non sto esagerando come al solito, questa volta. Solo… non voglio perderla, Scott… E sento che è esattamente quello che sta per accadere».
Il lupo guaì piano, inclinando la testa.
Stiles strizzò gli occhi e si massaggiò la base del naso.
«Scusa», disse, «Sì, Adam sta bene. Te lo prometto. Lui starà bene, Scott… Troveremo un modo. Come sempre».

***

Kira rispondeva colpo a colpo agli attacchi della Skinwalker.
«Non hai ancora domato la Volpe, non riesci a controllarla!»
La Skinwalker e Kira si stavano fronteggiando, lancia contro katana, scontrandosi, studiando l’una le mosse dell’altra.
Ogni tanto Kira lanciava una veloce occhiata a Matty; non voleva apparire più vulnerabile di quanto già si sentisse, ma non poteva fare a meno di accertarsi che lui ancora dormisse, che si sentisse ancora al sicuro.
La Skinwalker sembrava non voler sfruttare quelle piccole distrazioni da parte della donna in suo favore, almeno per ora.
«Non c’è un modo per controllarla!» sbottò Kira, furiosa. Dopo anni di tentativi era giunta a questa conclusione e si era arresa ad essa.
Forse Scott aveva ragione. Forse suo marito faceva bene a vederla come una codarda.
La Skinwalker rise «Tu hai paura. Di te stessa, della forza che è dentro di te. Per questo fallisci miseramente in qualsiasi cosa tu faccia. Fallisci come moglie, come madre, come guerriera».
La donna Navajo attaccò e ancora una volta la lancia e la katana si incrociarono, ma nessuna delle due era pronta a cedere.
Combattevano alla pari, Kira teneva testa alla Skinwalker senza fatica, tanto che quello scontro poteva non arrivare ad una conclusione.
La guerriera Navajo assottigliò lo sguardo. Kira non era più una ragazzina, si era allenata a lungo e senza sosta in quegli anni e non sarebbe stato semplice sopraffarla come era accaduto la prima volta.
«Sconfiggimi» la provocò la Skinwalker, «Sconfiggimi e sarai libera di andartene».
Kira digrignò i denti, gli occhi che mandavano lampi, «Non sapevo di essere tua prigioniera».
La Navajo si allontanò di qualche passo dal raggio d’azione di Kira, abbassò la lancia e l’oscurità si rifletté sul suo volto.
«Non lo sei, infatti. Sei libera di andare, non ti tratterrò» scandì con voce solenne.
Kira mantenne la posizione di attacco, certa che quella fosse una trappola.
Ricordava come le Skinwalker avevano fatto di tutto pur di trattenerla lì con loro.
La guerriera Navajo riprese a muoversi, sinuosa, la lancia ancora abbassata, posta in verticale di fianco al corpo.
«Ma tu non vuoi andartene, giusto? C’è un motivo per cui sei qui. Parlami».
Kira fece un verso sarcastico «Ora vorresti parlare?», asciugandosi col braccio la fronte madida di sudore.
«So che resterai finché non mi avrai sconfitta. Parlami, abbiamo tempo».
Gli occhi scuri di Kira si accesero come lampi nel buio: la Skinwalker aveva appena premuto un tasto dolente.
«È un fattore molto relativo, il tempo» soffiò Kira, «Non ne ho, a dirla tutta. Non ho tempo da sprecare con te, perché devo pensare alla mia famiglia, ai miei figli. Per loro di tempo non ne avrò mai abbastanza».
Tacque, stringendo le labbra in una linea dura. La Navajo si fece ancora una volta avanti: «Perché sei qui?».
Si tenevano a debita distanza, muovendosi in parallelo compiendo un cerchio perfetto.
«La Volpe...», provò a spiegare Kira, ma la Skinwalker non glielo permise.
«No», la bloccò sul nascere.
«Devo riuscire a controllarla» insistette Kira.
La Skinwalker ringhiò: non era questo che voleva sentire.
Kira iniziava ad accusare la stanchezza, ma non poteva abbassare la guardia, perciò mantenne i nervi tesi e i sensi all’erta, nonostante l’unica cosa che volesse fare era lasciarsi cadere a terra, abbandonare tutto e riposarsi.
«Perché sei qui?» abbaiò ancora la guerriera Navajo.
«Non lo so!» sbottò Kira. Poi si voltò verso Matty per assicurarsi che non l’avesse svegliato.
Quando tornò a guardare la Skinwalker, lei era più vicina. Kira mosse la Katana davanti a sé, movimenti lenti e controllati nei quali viveva eleganza, fierezza e potere.
«Tu stai soffocando» sibilò la sua rivale, guardandola dritta negli occhi come se da lì potesse raggiungerle l’anima.
Prese a far vorticare la lancia tra le sue dita, passandola da mano a mano.
«E, insieme a te, soffocano anche i tuoi figli».
La Skinwalker sollevò la lancia sopra la propria testa, pronta a scagliarla verso Kira.
«Sconfiggimi!» gridò la guerriera, attaccando.
Kira era un fascio di nervi, le mani strette spasmodicamente attorno all’elsa della katana, si vide arrivare la lama dell’arma dritta verso la propria faccia.
Allora lo fece e fu una liberazione. Si lasciò andare ed ebbe la stessa sensazione di pace che si prova sotto la doccia, quando l’acqua calda ti scivola addosso insieme a tutti i pensieri, alla stanchezza, allontanandoti – anche se per poco – dalla realtà e dal tempo.
Dopo quell’attimo di sollievo, arrivò l’energia: il corpo di Kira venne attraversato da una potente scarica di decine di migliaia di volt. La Volpe aveva preso il controllo e Kira poteva essere solo spettatrice di come la furia della Volpe si sprigionò, letale ed incontenibile.
Non seppe quanto restò assente, prigioniera nel proprio inconscio ma, d’improvviso, il mondo sembrò vorticare davanti ai suoi occhi, non c’era più nulla tranne che il cielo nero. Poi una forte botta dietro alla nuca la fece tornare cosciente.
Si trovava a terra, la Skinwalker la sovrastava e la sua lancia era conficcata proprio nel suo fianco destro.
Digrignò i denti, mentre il dolore la accecava.
«Sconfiggimi!» gridò ancora una volta la guerriera Navajo togliendo, con una secca mossa brutale, la lama dalla sua carne.
Kira provò a tirarsi su, furiosa.
«Mi hai fatto credere di combattere alla pari», ringhiò, «Invece sei più forte della Volpe!».
La Skinwalker restò impassibile.
«No» rispose, con calma glaciale, «Quando un corpo non è guidato dalla mente è semplice sopraffarlo. Il potere può distruggere ma non dominare».
Prese il bastone con entrambe le mani e lo pose orizzontalmente dinanzi a sé poi, con una mossa veloce colpì la fronte di Kira con l’asta della lancia.
Kira rovinò a terra nuovamente, boccheggiando per la fitta al fianco e il dolore alla testa.
«Non sei pronta, Volpe del Tuono» decretò la Skinwalker, tendendo la mano verso di lei, «Ma lo sarai...».
Kira la guardò dritta negli occhi e capì: «Devo restare».
Non era una domanda, ma la guerriera annuì.
«Resterete entrambi», la Skinwalker guardò dietro alle spalle di Kira, dove si trovava Matty, «Ma non insieme», decretò.
«No!» gridò Kira, ma una nube di sabbia l’avvolse.
Si guardò attorno, disperata, ma era bastato quel singolo istante perché tutto attorno a lei scomparisse: la Skinwalker, il grande fuoco che aveva regalato calore e luce… e Matty, persino.
Kira, nel bel mezzo del deserto del Messico, avvolta dall’oscurità e completamente sola, urlò.


***


Il cielo si stava lentamente rischiarando. L’alba era prossima e Stiles era ancora convinto che parlando con Scott di tutto quello che gli stava passando per la testa in quel momento, sarebbe finalmente riuscito a farlo tornare nella sua forma umana.
L’unico risultato che finora aveva ottenuto era di aver insegnato a un lupo a tapparsi le orecchie.
Scott, sdraiato a terra, teneva un orecchio premuto sul terriccio morbido e la zampa alzata a chiudere l’altro orecchio rimasto libero.
«Sto diventando tutto ciò che ho sempre disprezzato», stava dicendo con voce strascicata, «mi rifugio nell’alcol, allontano mia moglie e mio figlio...».
Stiles si era portato una fiaschetta dietro e ciò non stava migliorando la situazione. Ogni tanto dava una sorsata, poi la riponeva nella tasca della felpa insieme alla pistola.
D’un tratto il lupo alzò la testa e aguzzò le orecchie.
Stiles seguì i cambiamenti in silenzio, seguendo ogni azione.
Scott ringhiò e tornò a grattare nel punto in cui Stiles lo aveva trovato.
«Che succede amico? È solo una vecchia casa abbandonata… Perché ci troviamo qui?» chiese, scocciato.
Stiles non era lucido. In quei giorni non lo era mai abbastanza.
Guardava le orecchie dritte e a punta del lupo, l’espressione furiosa e implacabile. Poi alzò lo sguardo sul rudere che Scott non dava segno di voler mollare.
Stiles si avvicinò al punto in cui il lupo stava scavando e con la fioca luce che gli regalava l’alba ormai prossima poté individuare un cedimento del terreno, come se in quel punto del muro si trovasse un’apertura poco al di sotto delle fondamenta.
Una cantina pensò Stiles, notando che le tavole su cui stava grattando Scott fossero differenti dal resto.
In quel punto, a livello col terreno, doveva esserci stata una piccola finestra che dava direttamente ad uno scantinato, la quale era stata opportunamente chiusa con tavole di legno poste a filo col resto del muro di legno per non destare sospetti.
E c’era solo un motivo per cui Scott fosse così deciso a rompere quelle tavole: qualcuno o qualcosa si nascondeva all’interno della casa degli Hale.
Il Darach, ragionò Stiles, raggelando. Nascondersi in una casa abbandonata da anni e ormai dimenticata, nel folto della foresta proprio dove sarebbero avvenuti tutti i suoi attacchi, non doveva essergli sembrata una brutta idea.
Stiles si chinò, piegandosi sulle ginocchia, per capire come poter aiutare l’amico. D’altronde era stufo di stare lì fuori a piangersi addosso e se raggiungere quell'obiettivo avrebbe aiutato Scott a tornare indietro, tanto meglio.
Stiles fece pressione con le dita e tentò di strappare con le unghie i punti già indeboliti dalle zampate di Scott.
Non appena le tavole saltarono, Scott si tuffò nell’apertura, ringhiando e guaendo.
Un urlo si levò dall’interno e il cuore di Stiles sembrò fermarsi: la voce di una bambina. Una bambina stava gridando con tutto il fiato che aveva in corpo.
Stiles infilò le gambe nella piccola finestra e, con qualche sforzo, si spinse all’interno. Cadde miracolosamente sulle proprie gambe instabili.
Non gli ci volle molto per abituarsi a quell’oscurità più fitta. D’altronde aveva appena trascorso l’intera notte nella foresta. Il suo istinto non aveva fallito: erano in uno scantinato apparentemente privo di alcun mobilio.
Puntò la torcia, assieme alla pistola, nella direzione in cui provenivano le urla.
Il grande lupo nero ringhiava, sovrastando il piccolo corpo di una bambina, la quale piangeva e singhiozzava incontrollata.
Stiles si avvicinò ai due. La bambina era lurida, sporca di terra, sudore e quello che sembrava sangue.
Non appena ella lo vide, tornò a gridare.
«Shh, tranquilla. Non urlare. Scott, spostati!».
Stiles mise via la pistola, agguantò l’intero corpo del lupo con le braccia e provò a tirarlo via dalla bambina.
Appena la piccola intuì che Stiles stava cercando di aiutarla, prese a strillare a gran voce: «Aide moi! Aide moi, s’il te plait!».
Stiles strabuzzò gli occhi, sbalordito, tanto che Scott gli sfuggì dalla presa e tornò a ringhiare addosso alla bambina.
Come ci era finita lì una bambina che non dimostrava più di otto anni, in una casa abbandonata nella foresta e, per di più, chiaramente straniera?
Stiles non riusciva a capacitarsene, la guardava come un’aliena, come se fosse piombata da un universo parallelo.
La piccola strillava e Stiles tornò ad occuparsi del lupo.
«Scott!», gridò, «Ora basta! Scott!».
La sua mente, dapprima annebbiata dall’alcol, tornò a lavorare velocemente.
La mente di Stiles traboccava di domande: cosa ci faceva lì quella bambina? Come ci era arrivata? E perché Scott cercava a tutti i costi di aggredirla?
Ancora non aveva risposte, ma di una cosa era certo: doveva portarla al più presto in centrare, trovare un traduttore e interrogarla.
«Scott!» strillò ancora. Adesso era faccia a faccia con il lupo e urlava guardandolo dritto negli occhi.
Non aveva mai compreso in che modo lui, un umano senza niente di speciale, potesse far parte di un branco di mannari. Però così era e più di una volta aveva provato una forza crescere dentro al petto al richiamo di Scott, al richiamo del suo Alpha.
Ma non aveva idea che, persino lui, Stiles, fosse in grado di far sentire la sua di voce. Nessuno di loro comprendeva ancora appieno il potere che gli restituiva far parte di un branco, si trattava di un legame antico, come gli aveva spiegato tempo fa Deaton, un legame che si fonda su istinti, fiducia, fedeltà e appartenenza.
Stiles non si era mai sentito parte del branco come in quel momento, come ora che gli occhi del lupo da rossi virarono velocemente a un color nocciola e tra le dita non sentì più il pelo morbido, ma pelle nuda.
Stiles ignorava cosa avesse esattamente fatto per riuscirci.
Forse era stata la supplica in fondo ai suoi occhi, la sua voce decisa o la necessità di avere il suo migliore amico accanto per poter andare avanti. Fatto sta che voleva solo calmare il lupo e invece aveva riportato indietro Scott.
Pensò che quella sarebbe stata proprio la tattica che avrebbe usato Malia sin dall’inizio se fosse stata lì con loro: ruggire, urlare, richiamare a gran voce Scott, come se fosse un ordine disperato.
Scott se ne stava a terra, accovacciato, guardando Stiles con occhi sbarrati e confusi come se non avesse alcuna idea del motivo per cui si trovasse nudo in uno scantinato davanti ad una bambina terrorizzata.
 





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Capitolo 14
*** Capitolo Quattordicesimo ***


Quattordicesimo Capitolo










 

Dalle tapparelle abbassate filtravano deboli raggi di luce. Una strana sensazione di serenità la avvolgeva quando l’inconfondibile trillo del telefono aveva spezzato il suo sonno, costringendo Lydia ad aprire gli occhi, controvoglia. Per una volta dormiva – e anche bene – nel suo letto accanto a Jordan, il quale la teneva stretta, imprigionata tra le sue braccia, solleticando, col suo respiro, l’incavo del collo.
Dall’altro lato, Allie, aveva conquistato la maggior parte del letto, sdraiata in diagonale, con la testa sul suo grembo e le mani aggrappate alla stoffa del suo pigiama.
Per prendere il telefono avrebbe dovuto scavalcarla e liberarsi dalla presa di Jordan. Entrambe cose che non aveva alcuna voglia di fare.
Alzò di poco la testa per scoprire chi fosse il disturbatore che l’aveva strappata ai suoi sogni e sul blocco schermo del telefono lesse il nome di Stiles. Per un attimo le sue mani tremarono. Una notte colma di tanta pace, quel lungo momento di serenità che lei e Jordan erano riusciti a conquistare, poteva essere solo che distrutto da un’altra orribile notizia.
Per questo non aprì subito il messaggio: ogni secondo di quella bolla di serenità era preziosa.
Poi allungò una mano, stando ben attenta a non svegliare suo marito e sua figlia, e lesse le brevi parole dell’amico. Si sdraiò nuovamente sul letto e sorrise.
“Scott è tornato”.

***

Stiles non poteva di certo affermare che quella mattina si sentisse in forma.
Stava seduto alla propria scrivania, quella del Vicesceriffo, e teneva il volto nascosto tra le mani chiedendosi se mai fosse stato meno produttivo prima o se avesse mai puzzato tanto.
Stentava a credere che un tanfo simile provenisse proprio dal suo corpo, ma non c’erano altre spiegazioni.
Aveva un cerchio alla testa che non lo lasciava in pace e, per il momento, interrompere quel maledetto mal di testa era la sua priorità.
Con nonchalance prese la tazza bianca con la scritta verde “Papà dell’anno” che gli aveva regalato Malia per la festa del papà e che usava come portapenne. La svuotò e ci passò la mano per pulirla alla meno peggio.
Poi tirò fuori dall’ultimo cassetto la bottiglia di scotch che gli aveva regalato suo padre il giorno in cui era diventato Vicesceriffo. Era ancora sigillata, con tanto di fiocco rosso.
La stappò, ne versò un goccio nella tazza e lo mandò giù in un sorso.
Dio quanto bruciava lo scotch di prima mattina.
Si strofinò gli occhi col dorso della mano e, quando li riaprì nel suo campo visivo era apparsa una ragazzetta bionda. L’agente Jonas.
Sorridente, solare ed estremamente fastidiosa, l’agente Jonas si apprestò a dare il buongiorno al suo superiore.
Stiles ricambiò con una smorfia e un gesto della mano.
L’agente Jonas inarcò le sopracciglia rendendosi conto delle condizioni del Vicesceriffo. Restò impalata a fissarlo con evidente imbarazzo.
«Hai qualcosa da dirmi, agente Jonas?» brontolò Stiles, infastidito.
La giovane agente saltò sul posto, arrossì e disse: «Lo Sceriffo Parrish mi ha assegnato a lei... signore», mormorò in un fil di voce, aggiungendo poi «sul caso dei tifosi dei Beacon Rollers. Quella gente fatta a pezzi, signore. Ricorda?».
«Certo che me lo ricordo» sbottò Stiles, facendo saltare un’altra volta la ragazza.
Il Vicesceriffo si massaggiava con energia le tempie, visibilmente scocciato.
«Adesso ho altro a cui pensare. Sto aspettando lo Sceriffo, dobbiamo interrogare una maledetta bambina straniera» grugnì.
«Una bambina?» gli occhi dell’agente Jonas si illuminarono di curiosità, «E dove si trova adesso?»
Stiles sbuffò e disse: «Ce ne occuperemo solo io e lo Sceriffo Parrish. Tu continua a lavorare sulla strage dei Beacon Rollers».
L’agente Jonas annuì, titubante, ma – dopo un saluto formale – si congedò.
Mentre Stiles la guardava andare via si chiese quando fosse diventato così irascibile e scontroso verso un collega. Eppure era piuttosto certo che solo la nuova agente gli rendesse l’umore tanto irritabile.
Sospirò: provare vergogna sembrava divenuta un’abitudine fissa delle sue giornate. Vergogna per come stava affrontando le cose con Malia, vergogna per come si lasciava andare al bere pur di avere momenti lontani dai problemi e vergogna anche per l’uomo che stava diventando sul lavoro.
Aveva sempre ammirato suo padre, da ragazzo. Come uomo, come Sceriffo e, soprattutto, come padre.
Lui non era riuscito a diventare neppure la metà di quello che era stato lo Sceriffo Stilinski.
Nonostante si fosse ritrovato da solo, privo dell’amore e del conforto di una moglie, era riuscito a mantenere in equilibrio quel castello di carte instabile che era divenuta la loro vita.
Al contrario, Stiles, se pensava ad una vita senza Malia vedeva solo nero, un buio che non sarebbe stato capace di dissipare neppure Jamie. Dover andare avanti per lui sarebbe stato insopportabile. Ma, d’altronde, se era abbastanza lucido da poter fare questi pensieri di certo poteva rimediare con altro scotch.

***

Jordan si stava preparando per il lavoro, Allie faceva i capricci per vestirsi e Lydia cercava insistentemente di mettersi in contatto con Malia.
«Preparati, Lyds. Stiles mi ha chiesto di arrivare il prima possibile in centrale e di portare anche te» la sollecitò Jordan, dato il disinteresse della donna a voler abbandonare le lenzuola calde del letto.
Continuava a pensare a Stiles che, per trovare Scott, aveva certamente trascorso la notte fuori casa e, di conseguenza, a Malia rimasta sola ad aspettarlo.
«Lyds?» Jordan richiamò l’attenzione della moglie un’altra volta.
«Malia non mi risponde» spiegò, la fronte corrucciata.
«Malia sta bene. Starà ancora dormendo, tutto qua».
Lydia annuì, poco convinta. Se c’era qualcosa che la preoccupava, non era mai una buona idea sottovalutare suo presentimento.
Scacciò dalla mente l’immagine di Malia stesa a terra, coperta di sangue. Proprio come nei sogni che faceva quando tutta quella storia aveva avuto inizio.
«Pensavo che avremmo potuto lascarle Allie» provò a spiegare Lydia, dissimulando la sua preoccupazione.
«Allie può venire con noi» decise Jordan, «Non c’è motivo per cui dobbiamo portarla da altri. Vedrai che si comporterà bene in Centrale».
Lydia scrollò le spalle, fingendo disinteresse, «Solo che si sarebbe divertita di più giocando insieme a Jamie. Tutto qua. Noi dobbiamo lavorare, Jordan, non potremo starle troppo dietro. Si annoierà» insistette Lydia.
Jordan prese in braccio la figlia e la sollevò in aria, facendola ridere, poi la strinse al petto e guardò la moglie.
«Noi siamo il posto più sicuro per lei».

Una nebbiolina leggera copriva le strade di Beacon Hills. Il sole giocava a nascondino con le nuvole, quella mattina, e quei lievi sprazzi di luce non riscaldavano abbastanza l’aria frizzante che si insinuava fin sotto ai vestiti.
Lydia accese i riscaldamenti e un piacevole tepore si propagò all’interno dell’abitacolo provocandole sonnolenza.
Guardò Jordan, gli occhi preoccupati ma concentrati sulla strada, poi si girò ai sedili posteriori dove Allie, sul seggiolino, abbracciata alla sua giraffa di peluche e col ciuccio in bocca, aveva preso sonno.
Le venne in mente l’ultima volta che erano partiti per andare in montagna, un fine settimana dell’inverno appena trascorso.
La neve aveva coperto tutte le strade e, man mano che salivano verso la baita, una fitta nebbia rendeva difficoltosa la visuale. Ma Lydia si era sentita in pace, col cuore gonfio e la mente libera. E al sicuro, perché accanto a lei c’era Jordan che guidava e le teneva la mano.
Solo dopo si era resa conto che quel senso di malinconica pace non era altro che felicità. Eppure anche ora si sentiva al sicuro, nonostante i problemi, e poteva ancora concedersi di essere felice, perché tutto ciò che la rendeva tale era lì con lei. Si aggrappò con forza a questo pensiero, mentre l’auto svoltava, immettendosi nel parcheggio della Centrale di Polizia.
Vide Stiles, che li attendeva davanti alle porte d’ingresso. Gettò il mozzicone di sigaretta a terra e venne loro incontro.

Stiles fece loro strada verso la stanza degli interrogatori.
Avevano lasciato Allie alle cure dell’agente Jonas che – dopo essere sbucata all’improvviso dal nulla – si era proposta, con estremo entusiasmo, di adempiere al compito di tata raccontando quanto lei amasse i bambini.
Lydia le aveva rivolto uno sguardo poco convinto ma dato che Jordan sembrava d’accordo e che, in ogni caso, sarebbero stati a portata di voce in ogni momento, non ebbe modo di opporsi e lasciò il seggiolino con dentro sua figlia alla giovane poliziotta.
D’altronde erano lì per lavorare e poi Allie ancora dormiva: l’agente Jonas non avrebbe avuto problemi.
La stanza era in penombra e Lydia intuì che qualcosa non quadrava ancor prima di mettervi piede.
Seduta oltre il tavolo posto nel mezzo, Lydia e Jordan trovarono ad attenderli una bambina, dall’aria terrorizzata e dall’aspetto a dir poco sudicio.
«Che diavolo succede, Stiles?» sbottò Jordan, spalancando gli occhi.
Anche Lydia si irrigidì, senza capire.
Stiles si mosse a disagio sul posto.
«L’ha trovata Scott quando vagava nel bosco in forma di lupo ma non si ricorda quasi nulla di quelle ore perciò...»,
«Perché è qui?» lo interruppe Jordan, irato.
Stiles lo guardò sorpreso, senza capire il motivo di tutto quello sconcerto.
«Perché non hai ancora chiamato i Servizi Sociali? Maledizione, Stiles! Hai arrestato una bambina senza motivo, senza neppure affiancarla ad un Assistente! Sei fuori di testa...» ringhiò lo Sceriffo.
«Jordan» lo riprese Lydia, con l’intenzione di fargli attenuare i toni.
«L’abbiamo trovata all’interno della casa abbandonata degli Hale» spiegò Stiles a denti stretti, «In uno scantinato che sembrava nascosto appositamente per non essere trovato».
Jordan inarcò le sopracciglia, non ritenendo rilevante tali dettagli per non seguire la procedura standard per il ritrovamento di un minore abbandonato.
«E sentite qua» riprese, rivolgendosi poi direttamente alla bambina «Parla!», esclamò gesticolando con la mano per cercare di farle comprendere quello che stava dicendo.
«Qu’est-ce?» mormorò la piccola, in un fil di voce.
«Sentito? Secondo voi cosa diavolo ci fa a Beacon Hills una bambina che parla.. non so, Spagnolo?»
«È Francese, Stiles» lo corresse subito Lydia, con sguardo scuro. «E per nostra fortuna lo parlo piuttosto bene… nonostante sia un po’ arrugginita».
«Comment tu t’appeles, petit?» provò Lydia, piegandosi sulle ginocchia per stare alla stessa altezza della piccola, «Je m’appelle Lydia»
La bambina si ritrasse quanto più possibile le consentisse la sedia, nascose il viso dietro le ginocchia.
«N’aie pas peur», provò a rassicurarla Lydia e la bambina alzò un poco la testa, per guardarla.
«Cosa le stai dicendo?» chiese Stiles, smanioso di risposte. La piccola tornò a nascondere il viso.
Lydia guardò l’amico in cagnesco.
«Fai silenzio, Stiles» lo rimproverò, «Sto cercando di instaurare con lei un legame di fiducia».
Lydia osservò la piccola raggomitolata su se stessa, tremante, e sospirò.
«Penso che avrò bisogno di più tempo e di restare da sola con lei...» disse la Banshee.
«Dobbiamo chiamare i Servizi Sociali, lo sai. Non possiamo tenere una bambina sotto custodia senza avvisare le autorità di competenza».
«Ma così non potremo interrogarla» ribadì il Vicesceriffo.
«Stiles, guardala!» sbottò Jordan, indicando la piccola prigioniera «è solo una bambina! Non sappiamo cosa le sia capitato! Potrebbe aver subito violenze e abusi, per l’amor del cielo!».
Stiles lo fronteggiò, fissando i suoi occhi dentro a quelli dello Sceriffo «Mi vuoi dire che una bambina che comprende solo la lingua francese viene ritrovata nei boschi di Beacon Hills all’interno della casa abbandonata di una famiglia di Lupi Mannari e tu non pensi che ci sia di mezzo il Darach?».
Jordan indurì la mascella, la sua espressione si fece scura e rispose: «I mostri non sono solo esseri soprannaturali, Stiles. Esistono mostri anche tra le persone comuni».

***

Scott era seduto sulla poltroncina di fianco al letto di ospedale su cui riposava suo figlio.
La schiena curva, le spalle basse, i gomiti delle braccia puntellati sulle gambe e le mani a sostenere il mento.
Teneva gli occhi fissi a terra, incapace di sopportare oltre la vista di suo figlio.
Sua madre stava arrivando. Quando l’aveva sentita per telefono, Melissa era scoppiata in un pianto ininterrotto e, tra le lacrime, gli aveva detto che sarebbe corsa in ospedale e avrebbe portato anche Caleb da lui.
Scott poteva soltanto immaginare quale peso sul cuore avesse dovuto sopportare sua madre per l’intera notte.
Al contrario cercava di allontanare i pensieri da Kira. Non aveva idea di dove si potesse trovare in quel momento né, tantomeno, conosceva il motivo che l’aveva portata ad allontanarsi da loro in un momento tanto delicato.
Kira sapeva che avevano preso Adam e non aveva retto ad una situazione tanto spaventosa? O il mostro che aveva messo le mani su Adam aveva sopraffatto anche sua moglie e il più piccino dei suoi figli?
Era arrabbiato con lei. Con Kira. Che la sua assenza dipendesse da lei oppure no poco importava: una rabbia primitiva lo divorava e l’unica a cui poteva rivolgere tale collera era sua moglie che lo aveva lasciato solo.
Dopo aver chiamato Melissa, Scott aveva cercato anche Noshiko, ma sua suocera non era stata capace di dargli risposte, così Scott cercava di allontanare ogni pensiero che lo faceva tremare.
L’istinto gli diceva che entrambi erano lontani, irraggiungibili. In pericolo o al sicuro, Kira e Matty non si trovavano più a Beacon Hills.
D’improvviso sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla sinistra.
Non gli servì voltarsi per vedere di chi si trattava, poteva riconoscerlo dall’odore: Brett Talbot.
«Mi dispiace per tuo figlio, Scott».
«È ancora vivo» gorgogliò l’Alpha, come se l’altro capobranco avesse provato ad insinuare il contrario.
Brett rimase in silenzio. Forse guardava Adam, il suo corpo inerte disteso sul letto, il volto innocente dall’espressione pacifica, come se stesso soltanto dormendo.
Scott non seppe dirlo perché Brett rimase alle sue spalle, come se volesse rimanere in disparte per rispettare gli spazi che chiedeva un padre col cuore a pezzi.
Scott attese che Brett parlasse: se si trovava lì non era di certo solo per mostrargli il suo sostegno.
L’Alpha si aspettava le solite frasi fiere di chi non è disposto ad arrendersi neppure dinanzi ad una catastrofe. Perché Brett era così: per ogni colpo incassato lui sfoderava con più ferocia le zanne e gli artigli e Scott era certo che Brett avrebbe utilizzato quel che era successo a suo figlio per incrementare la sua rabbia, ricordargli che avevano una guerra da combattere e che non c’era altro tempo da perdere con Profezie e ricerche.
Scott si aspettava di tutto, era pronto ad ascoltare la sua furia pronta ad esplodere poiché era la stessa che lui stesso cercava di soffocare. Sì, era pronto ad ogni parola, a parte la frase che uscì sofferta dalle labbra di Talbot.
«Ce ne andiamo, Scott» disse il Capobranco.
Per la prima volta da quando aveva fatto il suo ingresso nella stanza d’ospedale, Scott si voltò a guardarlo.
Brett aveva il volto tirato ed esangue e l’aspetto di chi non dorme da molte notti. Teneva le braccia incrociate strette al petto e – come aveva immaginato Scott – fissava Adam con occhi persi.
«Devo pensare al mio branco e ai Beta più giovani. Non combatterò questa guerra. Non quando nel bosco si sente l’odore della paura. Mille occhi ci fissano, sempre, e un fiato gelido ci alita sul collo. Non è più il nostro territorio… ora è il suo terreno di caccia e il mio branco non si sente più al sicuro».
Scott tornò a guardare a terra, il capo chino.
«Quindi scappate, abbandonate tutto senza neppure provare a lottare» sputò Scott.
«Ho già perso due dei miei ragazzi e so che il resto del branco è vivo solo perché il Darach non ha alcun interesse verso di loro. Per ora».
«E adesso che è il mio branco ad essere in pericolo sfrutti l’occasione per fuggire inosservati?».
Brett non rispose.
«Thomas e Meagan meritano giustizia», scandì, «E anche mio figlio» aggiunse con voce più incrinata.
«Non ci dovrebbe più essere il mio branco e il tuo, ma soltanto la nostra sicurezza» le parole uscirono tirate e stanche dalle labbra del Vero Alpha.
Brett, dal canto suo, lo guardava impassibile.
«Lascia perdere i discorsi, Scott. Niente di quello che dirai potrà farmi desistere da questa decisione. Ogni volta che ne hai avuto bisogno… che ne abbiamo avuto bisogno, ti sono stato accanto e abbiamo combattuto fianco a fianco, ma questa volta è diverso. Non posso restare».
«Tu sai qualcosa» intuì Scott, aggrottando la fronte. Si alzò in piedi e fronteggiò Brett, continuando: «Qualcosa che non vuoi dirmi. Lo hai visto, non è vero? Nei boschi…», mentre Scott parlava tutto gli si faceva più chiaro. Il motivo per cui Brett era lì, perché lo era venuto ad avvisare, del perché avesse quell’espressione terrorizzata.
«L’ultima volta che ci siamo incontrati, a Gammon Allen, avevamo deciso di unire i branchi e lottare… ma tu non ti sei mai dato pace, non è così? Volevi a tutti i costi affrontare il Darach senza sapere… Senza aspettare che fossimo riusciti a tradurre la Profezia. E alla fine il Darach si è mostrato a te».
Gli occhi di Brett si arrossarono. Scott non seppe dire se quella che mostrava fosse vergogna, rimorso o paura.
«È qualcosa di ultraterreno, Scott. I suoi poteri sono al di là della nostra capacità. Non ho mai affrontato niente del genere, prima».
«È stato il Darach a dirvi di andarvene, non è così? Allora perché sei qui?», Scott indurì la mascella, capendo che c’era qualcosa sotto di davvero importante, «Dimmelo».
«Mi ha mostrato il suo piano. Ho visto quello che è capace di fare. Avevate ragione: è guidato dal potere della Dea Morrigan».
«Dimmi quello che sai. Cosa ti ha mostrato?».
Scott lo afferrò per il colletto della maglietta. Gli occhi di Brett erano spalancati, persi in un modo ideale in cui Scott non poteva raggiungerlo. Sembravano gli occhi di un uomo esaltato.
«Il suo potere è immenso e grande è la sua forza. Porterà la luce nel mondo oscuro. Ci salverà tutti, Scott. Nessuno potrà sfuggire al Controllo della Luna. Sorridi alla Grande Regina».

***

Fuori dalla Centrale di Polizia Lydia fumava, respirando a grandi boccate il fumo per poi rigettarlo fuori in una nuvola opaca che si disperdeva nel vento proprio come accadeva ai suoi pensieri. Meditava sul da farsi, ma sentiva che qualcosa di importante le stava sfuggendo, qualcosa che – ogni qual volta era vicina al comprendere – si dissolveva davanti ai suoi occhi.
«Tu sei d’accordo con lui, non è vero?».
Lydia si aspettava che suo marito l’avrebbe seguita fuori per parlare, perciò  non si sorprese nell’udire quella domanda diretta arrivare da dietro le sue spalle.
Si voltò e gli rivolse un’occhiata obliqua, poi rispose: «Ammetti che è una situazione insolita...», in un sospiro.
Jordan le rivolse la peggiore delle espressioni lugubri e allora Lydia scattò: «Cosa vuoi che ti dica, Jordan? Potrebbe – che so – essere la figlia dispersa di turisti Francesi o chissà cosa! Esistono milioni di possibilità prima di cedere alla cieca conclusione che ci sia di mezzo lo zampino del Darach, ma sai anche tu che alla Centrale non è mai arrivata alcuna segnalazione di persona scomparsa e le casualità – per quanto tu voglia vederle o no – sono troppe per restare indifferenti e seguire un’altra volta la pista sbagliata».
Jordan strinse le labbra in una linea dura. Forse vedeva Allie in quella piccola orfana disgraziata.
«Interroghiamo chiunque abbia discendenze Francesi», insistette, «Ritiriamo fuori vecchie denunce di bambine scomparse. Potrebbe essere stata rapita da un giorno o forse da cinque anni, questo noi non lo sappiamo. Facciamo indagini, Lydia. Non ci riduciamo a torchiare una creaturina terrorizzata come lei».
Lydia gli parlò, guardandolo con tutto l’amore che provava per lui, «Tu sei un uomo meraviglioso, Jordan. Ma non abbiamo tempo per essere le persone d’onore che tu vorresti noi fossimo».
Jordan chiuse gli occhi. Sapeva che non aveva senso continuare a discutere se sia Lydia che Stiles concordavano sul da farsi.
«Hai mezz’ora».

Non fu semplice per Lydia rientrare nella stanza degli interrogatori. L’aria era pesante, quasi elettrica.
La bambina era ancora lì, rannicchiata sopra la sedia e sembrava che non avesse mosso nemmeno un muscolo neppure durante la loro assenza
Lydia prese una sedia libera e la avvicinò per sedersi accanto a lei.
Le sorrise, imprimendo quanta più dolcezza possibile nella sua espressione. Prese a parlare, con voce rassicurante, dicendole che loro la volevano aiutare, che con loro sarebbe stata al sicuro e nessuno le avrebbe mai più fatto del male.
Ma la piccola restava con i nervi tesi e allerta e ogni sforzo o parola dolce di Lydia risultava totalmente inutile.
Lydia cercava un contatto, un appiglio seppur remoto per far sì che si fidasse di lei, ma la piccola non aveva alcuna intenzione di collaborare.
E allora Lydia provò a chiederle del luogo in cui si era nascosta, se si ricordava della casa degli Hale e di come era finita in quello scantinato.
Al che la bambina alzò nuovamente la testa, gli occhi cerchiati di nero fecero crescere un magone nello stomaco di Lydia.
Le mostrò un sorriso sdentato: «J’ai aimé cet endroit».
Lydia aggrottò la fronte credendo di aver capito male o di non essere stata abbastanza chiara con la domanda, eppure la piccola confermò quanto detto: a lei piaceva quello scantinato, ci stava bene e avrebbe voluto restare lì a riposare. Era lei stessa che si era nascosta all’interno.
«Avez-vous fui quelqu’un?» chiese Lydia, dato che quel po’ che era riuscito a ricavare non aveva alcun senso.
L’unico motivo per cui una bambina potesse trovarsi bene all’interno di un’abitazione abbandonata e sentirsi anche al sicuro, era perché qualcuno di cui aveva paura la stava cercando.
Cercò di farla parlare ancora, ma il suo viso era tornato a nascondersi dietro le ginocchia sbucciate e sporche e Lydia, con un sospiro, decise che per quel giorno l’avevano tormentata abbastanza.
Non era come le altre bambine, questo era chiaro. E qualcosa di orribile le era successo.
Lydia si alzò dalla sedia ma, prima che potesse voltarsi per uscire dalla stanza degli interrogatori, la vocina nasale della piccola si fece udire ancora un’ultima volta.
«Monstres» sussurrò «au-delà des verre».
«Mostri oltre i vetri?» ripeté Lydia, poi notò dove erano rivolti gli occhi della bambina.
Guardava di sottecchi verso lo specchio a due vie oltre il quale Jordan e Stiles osservavano l’interrogatorio senza poter essere visti. Non da occhi umani, per lo meno.
Anche Lydia guardò il vetro nero, impallidendo: quella frase era la prova definitiva che stavano cercando.   

***

Il suo risveglio fu dentro una tenda composta di pelli e pellicce. Non c’era quando aveva preso sonno, tra le lacrime.
Eppure non era stata una sorpresa, per Kira. Già le era accaduto di ritrovarsi dentro quella stessa tenda senza neppure sapere come esserci finita.
Nonostante la disperazione per aver permesso alla Skinwalker di prendere suo figlio le attanagliava il petto, cercò di restare vigile e con i sensi allerta.
Anni fa, la prova che aveva dovuto affrontare per lasciare le Skinwalkers, era stato sconfiggere un Oni: i potenti demoni guerrieri giapponesi che – in passato – aveva tanto ostacolato il branco.
La temperatura stava mutando: il sole era ormai alto nel cielo e riscaldava la sabbia e tutta la desolazione che Kira aveva attorno.
Nonostante la tenda le facesse scudo dai raggi inclementi, la fronte di Kira era imperlata di sudore e il suo respiro smorzato dall’aria afosa.
Attendeva seduta a terra a gambe incrociate, la schiena dritta e i sensi allerta.
Doveva essere paziente, aspettare che la Skinwalker si mostrasse ancora a lei e sconfiggerla, riprendersi suo figlio e tornare a casa da Scott.
Lui aveva bisogno di lei e Kira si struggeva per essere al suo fianco in quel momento. Non sopportava le ore che passavano lente, perché ogni minuto nel quale Scott restava solo era un minuto in più che credeva di essere stato abbandonato da lei.
La sete oramai le attanagliava la gola ma era la rabbia che si accumulava nel petto a confondere i suoi pensieri.
Era stanca di aspettare, ma non poteva fare altro. Si sentiva impotente, prigioniera di una sorte che si divertiva con la sua vita.
Era in trappola, proprio come lo era stata tutti i giorni di quegli ultimi anni trascorsi a fare la mamma. Prigioniera del tempo che trascorreva inesorabile e il troppo amore a cui non poteva rinunciare. Non era mai riuscita a lasciarsi andare davvero, dopo tutto. La paura l’aveva sempre trattenuta dal buttarsi a capofitto in tutta quella felicità che temeva un giorno sarebbe svanita lasciandola sola e vuota come un guscio senz’anima.
Aveva sempre pensato che se ne sarebbe andata, prima o poi. Non sarebbe rimasta per assistere alla morte di suo marito e né tantomeno a quella dei suoi figli.
Non aveva idea di come né di quale forza avrebbe trovato per farlo, ma restare avrebbe significato morire. Andandosene, invece, non avrebbe dovuto dire loro addio, non sarebbero mai morti e lei avrebbe potuto vagare per il mondo come un fantasma finché la fine non sarebbe venuta a bussare anche alla sua porta.
Soltanto ora, che l’avevano strappata a Matty, si era resa conto di quanto si era privata davvero per tormentarsi di qualcosa che ancora doveva sopraggiungere. La sua vita era divenuta una stanza d’attesa dove aspettare che le sue paure più grandi fossero piombate a mettere fine a quella vita che non era riuscita a vivere.
Kira si dondolava, seduta a gambe incrociate. Restare da sola coi propri pensieri la stava facendo impazzire.
Era rimasta cosicché potesse essere in grado di affrontare il Darach e proteggere i suoi figli. Non avrebbe permesso a niente e a nessuno di toglierle il tempo che le era stato concesso con la sua famiglia.
Ma le ore che passavano lente ed inutili logoravano i nervi di Kira.
Stava soffocando, proprio come aveva detto la Skinwalker. Prese ad urlare, forse in cerca d’aria o forse per sfogare la frustrazione. Urlò pregando che la Skinwalker la sentisse, che potesse attirare la sua attenzione tanto da portarla lì con lei in quella tenda.
Urlava e piangeva, desiderando di poter fuggire, di non sentirsi – ancora una volta – incatenata.
Si placò solo dopo svariati minuti. Cedette sulle ginocchia e cercò di controllare il respiro, inalando profondamente.
Fu allora che li vide, aveva ancora gli occhi umidi così li asciugò, ma erano ancora lì, davanti a lei: due puntini luminosi avevano fatto capolino in un angolo buio della tenda.
Kira sguainò la katana e si avvicinò: la Skinwalker era lì che la osservava accovacciata a terra, con un sorriso gelido che rendeva la sua espressione terrificante.
«Dov’è Matty? Dove hai nascosto mio figlio?» gridò Kira a un passo dall’esaurimento nervoso.
«Al sicuro» sussurrò la mutaforma.
«Portalo qui. Ha bisogno di me!», continuò ad urlare Kira, colma d’ira ma seppur sollevata che potesse far esplodere la sua rabbia verso la diretta interessata.
«Non è a lui che devi pensare. Sei qui per un motivo. Dimmi qual è» la Skinwalker rimase gelida. La furia della Volpe del Tuono non la scalfiva affatto.
«Te l’ho già detto! Sono qui perché la Volpe mi ha condotto da te!».
La Skinwalker scattò in piedi e brandì la lancia e, con agilità, la scagliò addosso a Kira.
La Kitsune fu rapida a difendersi con la katana: non era un’ingenua e non si aspettava affatto un incontro pacifico con la mutaforma.
«Tu sei la Volpe!» ringhiò la Skinwalker, «Tu sei venuta da me».
La guerriera Navajo indicò a terra e Kira comprese che doveva mettersi seduta e obbedì in silenzio. La Skinwalker le girava attorno, recitando parole incomprensibili alle orecchie di Kira. Erano parole antiche della lingua dei pellerossa. Le sussurrava, ripetendole come un mantra.
Allora Kira chiuse gli occhi. Cercò di ricordare il momento esatto in cui aveva perso il controllo. Era a casa sua, Scott era uscito portando Adam e Caleb con sé. Era rimasto solo Matty insieme a lei, nel box dei giochi perché aveva altro da fare in quel momento. Si stava allenando con la katana.
Kira respirò a fondo, proprio come quando gestiva il respiro durante gli allenamenti giornalieri nella piccola palestra che Scott aveva costruito nel garage di casa loro appositamente per lei.
Eppure non ricordava nient’altro. Kira non aveva idea di cosa fosse accaduto di diverso rispetto agli altri giorni. Qualcosa era scattato in lei - di voluto oppure no, era comunque successo.
Aveva litigato con Scott, questo lo ricordava. Ma, nonostante tutte le parole che si erano urlati addosso l’avevano ferita, Kira era sicura che non era stato l’innesco decisivo a farla scattare. Piuttosto era stata una sensazione.
Aveva provato una paura viscerale che l’aveva avvolta, dapprima bloccandola sul posto, togliendole il respiro. Il terrore l’aveva immobilizzata come le spire del corpo di un serpente strette attorno al petto e alla gola, facendola sentire impotente e tremendamente debole, indifesa persino.
Ma quale pericolo poteva essere tanto imponente da far fuggire persino una Kitsune del Tuono?
No, si disse. Non era fuggita.
Kira, le lacrime agli occhi, non accettava tale debolezza.
Era successo qualcos’altro, qualcosa che non era riuscita a gestire. A sopportare.
«Devo proteggere i miei figli» balbettò senza pensarci troppo. Tornava sempre a loro. Solo i suoi figli erano capaci di far nascere dentro al suo cuore una disperazione simile.
«E per farlo devo poter controllare la Volpe».
La Skinwalker la guardava dall’alto, gli angoli della bocca abbassati in una smorfia di insuccesso. Scosse brevemente la testa poi alzò la lancia, fu un gesto veloce, tanto che Kira quasi non lo vide. Scoccò la base del bastone della lancia sulla tempia di Kira ed ella cadde a terra, nuovamente incosciente.

***

Quella giornata si prospettava essere infinita.
Lydia non sopportava più trovarsi all’interno della Centrale di Polizia, nonostante si rendesse conto in quale fragile situazione si trovassero.
Jordan e Stiles non la finivano di discutere così decise di prendersi una pausa dai due uomini, considerando che aveva trascorso fin troppo tempo lontana da sua figlia.
Cercò l’agente Jonas e la trovò dove l’avevano lasciata: seduta alla propria scrivania con Allie in braccio.
«Si è svegliata pochi minuti fa» spiegò la giovane agente, «è stata buonissima tutto il tempo».
L’agente Jonas aveva un volto dolce e solare con cui guardava Allie con quell’affetto innato che si riserva ai bambini.
Eppure Allie aveva l’espressione imbronciata e gli occhi gonfi di chi stava per scoppiare in un pianto infinito.
Non appena vide Lydia allungò le braccia per farsi prendere.
«Non si sveglia mai bene se non trova me accanto», spiegò Lydia per giustificare il muso lungo di sua figlia.
L’agente annuì «Credo abbia avuto un incubo», disse con un sorriso di circostanza.
Lydia strinse le labbra in una linea dura e ribatté: «Avrei preferito che mi chiamassi non appena si fosse svegliata».
L’agente Jonas sembrò imbarazzarsi a quel rimprovero «Mi scusi, signora Parrish».
Lydia abbozzò un sorriso forzato, pensando di essere stata troppo dura con una ragazza che aveva cercato solo di dare una mano. Eppure, se si trattava di Allie, non poteva fare altrimenti che mostrarsi protettiva ben più di quanto servisse. Era indubbio che Lydia non prendesse con la stessa leggerezza di altre madri un incubo – pur innocuo – di sua figlia, dato che esso proveniva da un malessere che la piccola stava vivendo. Per Lydia ogni piccolo segnale era una pena in più che gravava sul suo cuore provato.
Baciò Allie sulla fronte, sorridendo davanti alla sua faccia chiaramente offesa, cercando negli occhi della piccola la complicità che le univa; poi controllò il telefono: Malia non aveva risposto a nessuno dei suoi messaggi. Si morse il labbro inferiore.
«Stiles...» lo chiamò, vedendolo uscire dall’ufficio dello Sceriffo e camminare verso la sua direzione, «Sei più tornato a casa durante la notte?».
Stiles aggrottò la fronte, non capendo il motivo di quella domanda.
Teneva tra le mani fascicoli da controllare e la sua testa sembrava presa da ben altri pensieri. Si sedette alla propria postazione e gettò le cartelle tra il caos generale che regnava sulla sua scrivania.
«Ho trovato Scott e questa strana bambina e sono venuto diretto qui alla Stazione di Polizia. Scott è voluto andare in ospedale e gli ho prestato la mia macchina. Ancora non aveva visto Adam… non nella sua forma umana, almeno», vagheggiò, aprendo il primo fascicolo.
Lydia annuì, «Sì, ma… hai sentito Malia? Le hai scritto?».
L’espressione di Stiles si fece un po’ più gelida.
«Cosa vorresti dire?», sbuffò, come se Lydia lo stesse accusando e passò subito sulla difensiva, «Non stiamo passando un bel periodo. è arrabbiata con me, penso. Non risponde alle chiamate e neppure ai messaggi. Mia moglie non mi vuole parlare, Lydia. Quindi no, non sono ancora riuscito a sentirla».
Qualcosa in Lydia scattò a quelle parole, ma si trattenne dal renderne Stiles partecipe.
Gli avrebbe voluto dire che non era così, perché Malia non rispondeva neppure a lei. Ma non avrebbe dato un allarme simile e spaventato Stiles per qualcosa che poteva non trattarsi di una vera emergenza.
Così si limitò a dire che andava a prendere il caffé per tutti. Al bar, perché quella giornata aveva bisogno di un caffé come si deve.
Mise, in tutta fretta, il giacchetto ad Allie e la legò al passeggino della macchina e mise in moto, fremente di arrivare a destinazione il prima possibile.
Nonostante il brutto presentimento, cercava di non andare nel panico davanti a sua figlia.
Parcheggiò sul vialetto di casa Stilinski, prese Allie in braccio e si piantò davanti alla porta dell’abitazione, bussando e suonando il campanello più e più volte, ma la casa sembrava deserta.
Aveva una chiave di riserva. Tutti l’avevano, ma era solo per le emergenze.
Lydia si tormentò le dita, incerta. Non voleva sembrare invadente ma, d’altronde, ogni indizio di pericolo non era forse una possibile emergenza?
Poi si decise e aprì la porta: non si potevano permettere altri riguardi, non ora che ognuno di loro poteva essere in pericolo in ogni istante.
«Permesso?» disse a gran voce per farsi sentire il più possibile, «Malia, ci sei? Sto entrando!».
Non ricevendo risposta varcò l’uscio e salì le scale diretta alla camera di Stiles e Malia.
Nella stanza le tapparelle erano ancora abbassate, Malia era nel letto e dormiva. Accanto a lei Jamie si rotolava tra le coperte, il viso imbronciato. Forse aveva provato a svegliare la madre senza successo.
Un sonoro sospiro di sollievo sfuggì dalle labbra di Lydia, lasciò a terra la piccola che si dibatteva per scendere dalle braccia della madre e raggiungere Jamie.
Anche Lydia si accostò al letto, sedendosi in un angolo.
«Mal, svegliati… Mal? Tutto ok?», la chiamò, scostando con gentilezza i capelli dal viso.
Malia aprì a stento gli occhi.
«Lydia...» mormorò, «Che ci fai qui?», chiese con aria confusa.
«Ho provato a chiamarti ma non rispondevi al telefono… Ero preoccupata».
«Ho sonno...»,
Lydia strinse le labbra «Ti porto al pronto soccorso» decise la Banshee.
Malia aggrottò le sopracciglia: non era mai facile convincerla a recarsi in ospedale.
«No… non serve» disse, infatti, «Non sto male… sono solo fiacca… senza forze, tutto qua. Ho bisogno di dormire», mormorò chiudendo nuovamente gli occhi. Lydia le accarezzò i capelli, cercando di tenerla sveglia.
«Si tratta della bambina, vero? Claudia sta assorbendo i tuoi poteri», chiese.
Malia annuì, «Credo di sì», rispose con affanno, «Ho già passato giorni difficili… ma non avevo idea che sarei arrivata a sentirmi così spossata».
Malia alzò lo sguardo per incontrare quello di Lydia «Non servirebbe a nulla andare in ospedale».
Lydia sospirò «Ti preparo una tisana», disse, alzandosi.
«Stiles?» volle sapere Malia, prima che l’amica lasciasse la stanza.
Lydia sorrise: «Ha trovato Scott. Lo ha riportato indietro».
Malia annuì, l’espressione serena di chi sapeva già che le cose sarebbero andate in quel modo.
«Ora è in centrale insieme a Jordan…» disse ma preferì omettere la parte della misteriosa ragazzina francese.
«Sono sicura che appena ne avrà l’occasione correrà qui a casa» aggiunse, immaginando che Malia avesse preferito trovare Stiles al suo risveglio e non lei.

Tenere gli occhi aperti, quella mattina, era la cosa più difficile che si imponeva a dover fare.
Malia aveva ancora la testa abbandonata sul cuscino e il bozzolo di coperte dentro cui si era arrotolata non le era mai sembrato tanto comodo.
Purtroppo, avere una Banshee preoccupata che girava per casa sua, non le dava poi molte opportunità di scelta.
Doveva reagire, allontanare la stanchezza, dimostrare la forza di sollevare quegli arti che pesavano come macigni e farsi vedere quanto più reattiva possibile se non voleva che Lydia allertasse l’intero branco.
Odiava essere vista così vulnerabile, quasi non si riconosceva così stesa sul letto priva di forze. Era una sconosciuta per se stessa, una donna fragile di cui gli altri dovevano preoccuparsi e prendersi cura.
Essere così ridotta le faceva pensare molto a sua madre. Alla Lupa del Deserto.
Chiudendo gli occhi rivedeva il modo orribile in cui era morta. E ricordava tutto ciò che le aveva sempre ripetuto: di quanto fosse in realtà debole e che l’amore l’aveva resa così.
Forse la Lupa del Deserto aveva ragione e lei era sempre stata troppo cieca per rendersene conto.
Stiles, Jamie e Claudia erano i suoi più grandi punti deboli, questo era certo. E nient’altro come saper loro in pericolo la terrorizzava a tal punto da non sentirsi sufficientemente forte.
Non era certa che dipendere da loro si potesse davvero chiamare debolezza, perché sapeva che neppure per se stessa sarebbe stata capace di combattere con tutta la furia che aveva in corpo. Soltanto per loro.
Corinne questo non l’aveva mai accettato, eppure – in punto di morte – le sue ultime parole erano state per lei. Per sua figlia.
Per questo si tirò su a sedere, nonostante le fitte al basso ventre la laceravano. Un dolore più acuto e profondo del solito la consumava.
Per questo non poteva fare a meno di ripensare alla notte prima. Ogni singolo particolare lo aveva impresso sulla pelle. Sentiva ancora le sue carezze, le dita strette ad afferrarle le braccia o i fianchi e tutti i mozzichi che le aveva lasciato sul collo e sul seno.
Era stato differente, un contatto per dare sfogo a quel che cercava di reprimere.
Stiles aveva perso ogni controllo e, per un lunghissimo istante, questa considerazione l’aveva fatta tremare.
Non era mai stato così, prima. Soprattutto non da quando aspettavano Claudia e ogni suo gesto – anche la carezza più delicata – era divenuto cauto e premuroso.
Eppure, se non fosse stata incinta con tutti quei dolori causati da quella gravidanza sfortunata, l’avrebbe fatta impazzire quello Stiles privo di discernimento.
Ma Stiles non era stato guidato dalla passione. Era stato un istinto, il suo. L’impulso disperato di afferrare qualcosa che gli sta sfuggendo per sempre dalle mani e tenerla vicino a sé il più possibile. Il più intimamente possibile.
Lei lo sapeva, glielo leggeva in fondo agli occhi ogni volta che lo guardava. Non sopportava essere vista così, non da lui. E cercava in tutti i modi di fargli capire che non era cambiato nulla, che lei era forte abbastanza da gestire anche quella situazione, ma così facendo lo allontanava soltanto ancora di più.
Lydia rientrò nella stanza; con un braccio teneva Jamie e con l’altra mano teneva in bilico un piccolo vassoio con su una tazza fumante. Allie le saltellava dietro aggrappata ai pantaloni della madre, ridendo e facendo facce buffe a Jamie, il quale strillava agitando le mani divertito.
Lydia si bloccò non appena la vide seduta sul letto, intenta ad infilarsi un paio di pantaloni della tuta e una felpa di Stiles.
«Che stai facendo?» chiese Lydia, confusa.
Ogni movimento, anche il più semplice, le costava fatica e di certo a Lydia non poteva essere sfuggito.
«Non devi alzarti, Mal. Stai a riposo, per favore. Ci penso io a Jamie» cercò di rassicurarla, posando il vassoio sul comodino e avvicinandosi a lei per sostenerla.
Malia scosse la testa «Non è per Jamie», provò a spiegare, «Devo andare da Peter Hale».
Lydia la guardò come se d’un tratto fosse completamente impazzita.
Malia prese un lungo respiro «Gli ho chiesto di provvedere alle spese del funerale di Corinne e lui ha accettato. La cerimonia dovrebbe iniziare tra poco».
Malia fissò gli occhi in quelli della Banshee, «Io ci devo essere, Lyds».

***

Mamma...
La tempia destra le pulsava, nel naso aveva l’odore ferroso del sangue. Il dolore alla testa fu tale da riportarla lucida.
Aprì a stento gli occhi, cercando di focalizzare la vista che risultava ancora appannata.
«Adam?» biascicò, ancora confusa.
Kira vide delle fiamme davanti a sé e capì che si trovava accanto a un fuoco. Tutto attorno a lei era buio e per un attimo temette che era scesa la notte. Poi comprese che si trovava ancora all’interno della tenda di pelli e che l’oscurità era parte di essa.
Non c’era più il deserto né il caldo soffocante, solo il buio, il rogo che ardeva e – dietro ad esso – la Skinwalker che la guardava famelica.
«Adam?» ripeté in un suono sordo. «Mi sembrava… di aver sentito la sua voce che mi chiamava» mormorò, guardandosi attorno e sentendosi una sciocca per come la Skinwalker continuava ad osservarla.
«Dimmi perché sei qui» fu l’unica cosa che disse la mutaforma.
Kira chiuse gli occhi e sospirò.
«Sono in pericolo...» biascicò Kira, consapevole che qualcosa di grande stava per sopraggiungere sulle loro teste. Ed era inutile ormai provare ad ignorare quella sensazione di morte e di fine che provava l’intero branco. C’era un motivo per cui tutti si erano sentiti capitolare sin dall’inizio.
«Morrigan» gracchiò la Skinwalker e la sua voce assunse l’inquietante suono del verso di un corvo.
Kira rabbrividì. Abbassò la katana e la infilzò a terra.
«Perché sei qui?»
«Basta! Per favore, basta!»
«Stai scappando»
«Non sono scappata! Sono qui per essere pronta a combattere»
«Stai fuggendo dai tuoi poteri. Da quello che sai già è accaduto. Da ciò che troverai al tuo ritorno»
Le lacrime scesero a bagnare il viso di Kira.
“Mamma” questo aveva sentito e non era stata un’allucinazione. No, era stato il motivo per cui durante l’allenamento la Volpe aveva preso il sopravvento. Il motivo determinante per cui l’aveva portata lì, nel bel mezzo del deserto del Messico.
«Il Darach ha preso mio figlio. Ha preso Adam» mormorò, ma la Skinwalker non diede conferma e neppure negò la sua deduzione.
«Ed io non ho potuto fermarlo».
Kira non aveva idea di come facesse a saperlo ma era certa che era quello che fosse accaduto: la Volpe sapeva che Adam era perduto, che lei non avrebbe potuto fare la differenza, per questo l’aveva condotta là invece che da suo figlio. Era nel posto in cui si trovava che avrebbe potuto far sì che il piano del Darach potesse fallire.
«Abbiamo un nemico comune, Kitsune del Tuono» confessò la Skinwalker guardando dall’alto Kira piangere.
«Il Corvo Rosso mi ha portato via le mie compagne. Lui ci sta guardando. Devi essere completa per affrontarlo o neppure la Volpe potrà sconfiggerlo».
«Non so come fare. Non sono abbastanza forte per affrontarlo e mio figlio...» la voce le morì in gola mentre si perdeva in singhiozzi silenziosi.
«Non devi controllarla, né la Volpe deve controllare te. è questo che hai sempre sbagliato. Non si tratta di dominarsi né di dominare. La Volpe è parte di te, tu devi essere la Volpe. Entra in simbiosi con la tua forza, siate un unico essere. Non è un gioco di potere, non lo è mai stato».

***

Malia sapeva che Lydia non poteva capire. Neppure Stiles ci riusciva, per quanto ci provasse. Ma essere lì, davanti alla bara di Corinne le era d’aiuto.
Lydia era al suo fianco, in religioso silenzio, nonostante sul viso le si leggeva tutto il suo disappunto.
La donna che l’aveva messa al mondo e che l’aveva odiata sin dal primo vagito.
Ora che si trovava nella stessa situazione di Corinne, comprendeva ciò che doveva aver provato. Lo capiva, ma seguitava a non lo condividerlo. Neppure ora che sentiva ogni singola forza abbandonare il suo corpo.
C’era l’istinto primordiale di contrastare tale sensazione ma l’odio per sua figlia in tutto questo non era contemplato.
Peter Hale indossava un completo nero per l’occasione.
Erano presenti in otto, compresi il parroco che celebrava la funzione e i due addetti al sotterrare la bara una volta che la cerimonia fosse conclusa.
Malia, Peter e Lydia non si guardarono in faccia neppure una volta.
Nessuno avrebbe pianto la morte di una donna che tutti i presenti avevano più volte disprezzato. Eppure in Malia non vi era più rabbia e neppure rancore verso la Lupa del Deserto. Se pensava a lei aveva il cuore libero e l’anima leggera.
Ogni ricordo doloroso o sentimento doloroso che vivevano in lei erano morti insieme a sua madre.
La cerimonia stava volgendo al termine quando la suoneria del telefono di Lydia disturbò la quiete del cimitero.
La Banshee si allontanò di poco per rispondere e Malia tese le orecchie per poter udire la conversazione, certa che a chiamarla fosse Stiles.
«Lydia? Ma dove diavolo sei finita?!».
«Sono… sono con Malia» rispose incerta, notando – dall’espressione dell’amica – che non avrebbe gradito far sapere al marito dove si trovasse.
Seguì un lungo minuto di silenzio poi, con voce incrinata, Stiles chiese: «Lei sta bene?».
Il cuore di Malia mancò un battito.
«Sì, certo Stiles» si affrettò a rispondere Lydia, «Certo che sta bene».
Ma Malia si perse le ultime frasi tra i due amici perché al suo fianco si avvicinò Peter Hale, deciso a sfruttare quel breve momento di lontananza da parte della Banshee.
«Malia».
«Peter» ricambiò il saluto.
Dato che Peter rimase in silenzio, Malia aggiunse: «Ti ringrazio per aver mantenuto la tua parola».
Il Lupo Mannaro strinse le labbra poi, con i suoi soliti modi da damerino, la affiancò mettendosi spalla a spalla con lei.
«Ricordi la nostra conversazione nel mio loft? Quando mi hai chiesto di organizzare questa commemorazione?».
Malia rimase in silenzio
«In particolare cosa dovrei ricordare?»
«Mi hai parlato del Darach e della Dea Morrigan. Non ho potuto rispondere alla tua domanda, quando mi hai chiesto se questo mi fosse familiare, ma ora sì. Ho letto il diario di Talia».
Dalla giacca tirò fuori il piccolo volume dalla copertina nera «E penso che dovresti leggerlo anche tu».
Non disse altro, seppure il suo sguardo vagava inequivocabile sul volto pallido di Malia e notava ogni singolo particolare di stanchezza e malessere.
«Riguardati» si limitò a dire, poi si voltò e scomparve tra le lapidi del cimitero di Beacon Hills.

***

Malia lasciò che Lydia la accompagnasse a casa.
La Banshee scappò nuovamente a lavoro, promettendole che Stiles sarebbe tornato presto a casa. Ma Malia non aveva bisogno di simili parole per stare tranquilla, sapeva dove Stiles avrebbe voluto essere. E se non tanto per lei, di certo per i suoi figli.
Perciò, decisa a combattere la stanchezza, Malia prese a rassettare casa, nonostante i suoi pensieri era rivolti sempre a lui, a Stiles ancora a lavoro. Una strana tristezza le gelò il cuore, ma fu solo per un attimo.
Aveva visto le chiamate e i messaggi che lui le aveva lasciato quella mattina: alcuni dolci, altri freddi e insipidi. Non aveva risposto a nessuno di questi, né lo aveva richiamato.
Cercò di scansare questi pensieri e si affacciò nella cameretta di Jamie dove il piccolo giocava indisturbato con le macchinine.
Sul pavimento erano rimasti sparsi i fogli su cui lui ed Allie avevano disegnato.
Malia si avvicinò per raccoglierli, ma Jamie non sembrò gradire l’intrusione. Si affrettò a togliere il foglio dalle sue mani e lo strinse al petto.
«Allie!» esclamò con espressione contrariata.
Malia abbozzò un sorriso nel vedere tale reazione. Forse Jamie aveva paura che li buttasse.
«Lo so che sono di Allie, amore. Mamma li mette a posto così non si rovinano, ok?» cercò di spiegargli e Jamie sembrò convincersi e le restituì il disegno.
Malia gli scompigliò i capelli con una carezza e prese il foglio, si chinò a raccogliere anche gli altri quando si accorse che su gran parte di essi vi erano lunghi solchi di matita nera e rossa.
Si bloccò a fissarli, imbambolata. Li allargò sul pavimento, per vederli meglio.
Davanti a lei, Jamie la osservava con la faccia colpevole, la stessa che gli spuntava fuori quando faceva qualcosa che sapeva benissimo di non dover fare.
«Jamie… Questi disegni li ha fatti tutti Allie?» boccheggiò Malia.
Poi sentì il familiare suono della chiave che entrava nella toppa della porta di casa e il tonfo secco che ne conseguiva.
Ma qualcosa non quadrava perché, assieme all’odore di suo marito, c’era uno strano lezzo che la mise in allarme.
Il rumore di passi che salivano le scale la fecero alzare da terra, stringendo i fogli tra le mani tremanti.
Si voltò, i sensi all’erta, pronta a difendere Jamie, in caso di pericolo.
Stiles era lì, impalato a fissarla con le labbra socchiuse e l’espressione preoccupata.
Accanto a lui una bambina che non dimostrava più di otto anni si guardava attorno con occhi spalancati.
«Mal… ti devo parlare» soffiò, girandosi verso la piccola sconosciuta che teneva per mano.
I fogli da disegno le scivolarono dalle dita tornando a spargersi sul pavimento della cameretta.
 





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Capitolo 15
*** Capitolo Quindicesimo ***


Quindicesimo Capitolo










 

Avevano una consuetudine, Malia, Kira e Lydia. Un’abitudine importante, ben radicata nella loro amicizia e a cui nessuna delle due doveva venir meno, per nessuna ragione. 
La colazione che facevano una volta a settimana, pensata apposta per far sì che non passasse mai troppo tempo senza vedersi quando gli impegni giornalieri rubavano loro tutto il tempo – cosa che non era da sottovalutare per un’amicizia decennale – non era un gioco e neppure uno sfizio: i mariti lo sapevano bene. 
Malia non ebbe bisogno di organizzarsi con Lydia per presentarsi a casa sua quella mattina. E a Lydia non era servito sapere dell'arrivo di Malia per far trovare caffè caldo e croissant.
L'assenza di Kira si percepiva chiara, come era chiaro anche che la colazione di quella mattina aveva un significato differente dal solito, per le due amiche.
Sentivano di dover restare unite, farsi forza a vicenda.
E poi ci stava quella strana bambina che Malia doveva portarsi dietro. Non poteva lasciarla da sola a casa e neppure poteva restare tutto il giorno all’interno delle mura domestiche per controllarla.
Stiles aveva dovuto calmare Malia e spiegarle nel dettaglio cosa ci faceva lì con lui quella ragazzina, per convincerla a farla restare a casa con loro.
Non era stato facile. Malia era diffidente verso la piccola ospite, seppure si era dimostrata fin da subito silenziosa e calma.
Malia le aveva preparato un bagno, aiutata a lavarsi e le aveva fatto indossare una delle sue maglie più strette, finché Stiles non le aveva portato dei vestiti adatti.
«Vorrei poterla legare e rinchiudere da qualche parte. Quella bambina mi mette i brividi» fu la prima cosa che Malia disse non appena Jamie ed Allie furono ad una distanza sufficiente, assieme alla loro nuova compagna di giochi.
«è innocua, Mal» sospirò Lydia, sospettando che il senso materno di Malia si fermava all’amore per i suoi figli e non fosse riuscito mai ad andare oltre.
«Non mi piace» insistette Malia, «Il modo in cui  mi fissa mi mette i brividi»
«Guarda tutti in quel modo stralunato, Mal» Lydia alzò gli occhi al cielo «Spero che almeno tu non le abbia ringhiato contro».
Malia sembrò pensarci su, mentre sorseggiava il suo caffé nero e rigorosamente amaro «No...» disse, infine, con voce poco convinta, «forse solo quando ha messo piede nella camera di Jamie, la prima volta».
Lydia rise «Ti assicuro che è solo una creaturina spaventata ed ha bisogno delle nostre cure e del nostro aiuto».
La fronte liscia di Malia si increspò e così ribatté: «Non lo so, Lyds. Il suo odore è strano. L’ho già sentito prima, nella cripta degli Hale».
Lydia inarcò le sopracciglia «Che cosa? Sei stata nella Cripta degli Hale? Quando? E perché mai?» il volto di Lydia era un miscuglio di stupore, confusione, dubbi e di una rabbia crescente che minacciava di esplodere.
Malia sapeva bene quanto Lydia fosse diventata apprensiva dopo il rischio corso dentro Eichen House. Difatti la Banshee la guardava risentita, uno sguardo ferito ed incredulo.
Malia sapeva che avrebbe ottenuto una reazione simile. L’aveva delusa, come aveva deluso anche Stiles. Ma non poteva nascondere le scelte che aveva fatto. Aveva deciso di entrare dentro Eichen House da sola, per cercare Corinne e aveva rischiato di non uscirne viva e nonostante questo si era recata da sola anche nella cripta degli Hale senza chiedere aiuto a nessuno e, se non fosse stato per Peter Hale, anche in quell’occasione avrebbe potuto farsi male davvero.
«Te l’ha chiesto Peter Hale, non è vero? In cambio del funerale di Corinne ti ha chiesto di fare qualcosa per lui» comprese Lydia, livida in volto.
Malia sembrò imbarazzata ma non negò; come poteva mentire a Lydia?
Pensò al diario di Talia, ancora nella sua borsa. Doveva ancora trovare il coraggio per sfogliarlo. Aveva letto un nome, prima di consegnare il volume alle mani del suo padre biologico, un nome che l’aveva scombussolata.
«Non è questo il punto» insistette Malia.
Lydia indurì la mascella «Io e Jordan sospettiamo che sia stata catturata dal Darach. Forse ti riferisci a quell’odore».
A Malia non convinceva quell’ipotesi, c’era qualcosa che non andava e sembravano sempre troppo distanti dal capire la verità.
Malia preferì far cadere il discorso e, con sguardo innocente, disse: «Jamie l’ha chiamata Mòn. Non ho idea di dove abbia sentito questo nome».
Lydia – con sollievo di Malia – sorrise «Sembra molto carino».
Malia annuì «Sì, a lei pare che piaccia».
«Stiles ha deciso di portarla a casa vostra ma posso parlarci… convincerlo a portare da noi Mòn. Potrebbe sentirsi più a suo agio potendo parlare con me».
Malia provò a sviare. Stiles le aveva spiegato il motivo per cui aveva deciso di portarla a casa loro e non lasciarla dai Parrish. Sia Lydia che Jordan avevano preso quella situazione troppo a cuore. Stiles temeva che, in una situazione di pericolo, non sarebbero riusciti a compiere la scelta giusta. Così aveva detto, anche se Malia non capiva di quale scelta stesse parlando, eppure si trovava d’accordo a mantenere la giusta distanza da una bimba che non conoscevano affatto e che, con ogni probabilità, possedeva anche lei capacità da mannaro.
Malia scrollò le spalle «In realtà sono qui per parlarti di un’altra cosa, Lyds».
La preoccupazione sul volto di Lydia lasciò spazio ad una curiosità attenta. Malia non aveva l’aria tranquilla e ciò non era un buon segno. Lydia aveva imparato che, quando una come Malia era in pensiero, si doveva trattare per forza di qualcosa di davvero grave.
«Ieri sera ho trovato questi in camera di Jamie» e così dicendo rovesciò il contenuto della borsa sul tavolo da pranzo di Lydia.
Una spessa risma di fogli da disegno si sparpagliò sulla superficie lucida.
«I disegni di Allie?» chiese Lydia, senza capire dove Malia volesse arrivare o quale problema dovesse esserci dietro ai disegni che aveva fatto sua figlia.
«Guarda» disse controllando una ventina di fogli prima di disporli sulla superficie, apparentemente a caso, fino a che anche Lydia cambiò espressione mentre l’immagine prese vita sotto agli occhi delle due donne.
I fogli creavano un unico grande disegno e già questo, di per sé, era inspiegabile per una bambina di soli tre anni. Ma questa non era l’unica cosa strana, perché il disegno che si andava a creare era perfetto, curato come poteva essere il dipinto creato da un adulto e – quel che era peggio – raffigurava l’esatta rappresentazione della maschera di legno del Darach che Lydia aveva raffigurato secondo le descrizioni di Malia e Stiles.
Lydia restò in silenzio, tremava colta da brividi, ma non ebbe la forza di dire alcunché.
«Non è il solo» continuò Malia in un fil di voce, attenta alle reazioni dell’amica.
Dispose altri fogli, un po’ sul tavolo, altri direttamente per terra.
Da una parte c’era un corvo rosso, dall’altra il volto di Adam, poi il Nemeton e – infine – il volto di Mòn, della bambina misteriosa.
«Non capisco» balbettò Lydia, «Come è possibile tutto questo? Non può essere stata Allie a disegnare queste cose».
Malia poggiò la mano su quella di Lydia, cercando i suoi occhi persi.
«Lyds… è tua figlia. Tua e di Jordan. Allie ha una Banshee e un Mastino Infernale come genitori, non penso che questo sia un caso»
«è solo una bambina» disse Lydia con voce rotta, «Non può essere».
«L’hai detto tu che è cambiata dalla comparsa del Darach. Forse questo ha innescato i suoi poteri. Allie potrebbe avere visioni di quello che sta per succedere» insistette Malia, lanciando un’occhiata ovvia ai disegni che componeva il volto di Mòn, «e le da una consistenza nell’unico modo con cui ha una sintonia: il disegno».
Lydia nascose il volto dietro le mani «Vorrei davvero che tu ti sbagliassi, Mal» disse con voce rotta.
Si asciugò gli occhi umidi e si ripulì dal trucco colato, poi sembrò pensarci su e disse: «Il Darach ha ucciso l’anziana Banshee per far sì che la Profezia morisse con lei e per usarla come sacrificio e bloccare i miei poteri insieme a quelli delle altre Banshee. Perché allora – se Allie avesse davvero questi poteri – può vedere tutto quello che a me è stato tolto?».
Malia ascoltò in silenzio il ragionamento dell’amica e annuì come a dire che anche lei era giunta a quella domanda.
«In lei scorrono anche i poteri del Mastino Infernale. Allie è diversa da te. È diversa da qualsiasi altro essere soprannaturale sia mai esistito».
Lydia abbozzò un sorriso «La genetica non funziona in questo modo, Mal»,
«La genetica forse no, ma qui stiamo parlando di Soprannaturale».

***

Affrontare quel genere di situazioni delicate, a Stiles, non era mai piaciuto.
Era nella stanza d’ospedale riservata ad Adam, Scott era seduto nella poltroncina accanto al letto e aveva tutta l’aria di qualcuno che avesse passato lì l’intera notte.
Stiles era agitato, non sapeva cosa dire né come tirare su di morale il suo migliore amico. Sapeva che doveva distrarlo eppure il solo pensiero di parlare a vanvera senza sapere se fosse davvero quello di cui Scott avesse bisogno, lo spaventava.
Era la prima volta che si trovava in una situazione simile, con lui. Era Scott quello che gli stava accanto. Era Scott che non lo aveva mai lasciato solo quando il Nogitsune si era impossessato di lui e non capiva cosa gli stava succedendo o quando suo padre aveva rischiato la vita.
Pensò a Jamie, a come si sarebbe sentito se su quel letto ci fosse stato suo figlio al posto di Adam.
Stiles pose una mano sulla spalla di Scott.
«Sono qui, amico».
Scott si voltò a guardarlo, con aria sorpresa e gli rivolse un sorriso tiepido.
Non si era reso conto del suo ingresso, si rese conto Stiles, ma non era difficile da notare che Scott fosse tutt’altro che presente.
«Stiamo interrogando quella bambina» disse Stiles per tenere aggiornato l’amico, «Sai, quella trovata nel bosco, quando...»,
«Sì» lo interruppe Scott, «mi ricordo di lei molto bene».
«Già… ehm… non è poi così facile, Lydia prova a comunicare con lei, ma risponde solo a quello che vuole».
Scott annuì, anche se non sembrava prestare molta attenzione a quello che stava dicendo l’amico.
«Stiles, tu sei il mio migliore amico» disse Scott, d’improvviso, facendo congelare Stiles sul posto, «Tu me lo puoi dire»
«Che cosa, Scott? Farei qualsiasi cosa per te, lo sai»
Scott annuì «Sono un pessimo padre?»
Stiles aggrottò la fronte «Ma che dici?»
«Stavo pensando a questo, quando sei arrivato. Tu me lo puoi dire, no? Mi conosci da una vita, puoi dirmelo cosa pensi davvero»,
«Non sei un pessimo padre, Scott. Non lo sei affatto»
«Ah no? Io sento di esserlo. Un pessimo padre e un marito orribile» ribadì, la voce spenta, priva di alcuna emozione. «Non avrei mai creduto che potesse accadere qualcosa del genere a uno dei miei figli… e non avere Kira al mio fianco».
«No, no, no» iniziò a ripetere Stiles, «Abbiamo quasi un mese, Scott. Prima che torni la luna piena. Abbiamo esattamente ventitre giorni per fermare il Darach. Non sono pochi, non sono pochi per niente. Possiamo farcela».
«Ho parlato con Brett. Lui è venuto da me. Penso sia soggiogato. Si è scontrato con il Darach ed è venuto a dirmi che lascia Beacon Hills. Lui e il suo branco se ne vanno. Non so se per paura o perché è stato il Darach ad ordinarglielo, fatto sta che siamo soli, Stiles. Siamo rimasti solo noi. E persino il nostro branco si sta sfaldando...».
«Ti riferisci a Kira? Pensi che se ne sia soltanto andata, ma può essere che non è così. Magari si sta nascondendo per tenere al sicuro Caleb. Senti, se il Darach ha davvero bisogno dei tuoi figli per compiere il rituale del Controllo della Luna, forse è un bene che Caleb si trovi lontano da qui».
«O forse sarà più facile per il Darach uccidere mia moglie e rapire mio figlio» replicò Scott, monotone.
Stiles sbuffò: «Kira non è una sciocca, okay? So che le cose fra voi due ultimamente non stavano andando bene, ma nonostante questo sono sicuro che non ti avrebbe lasciato a meno che non ne fosse stata costretta».
Stiles e Scott si guardarono negli occhi e alla fine Scott annuì, convinto delle parole dell’amico.
«Quella donna ti ama, ti ha sempre amato fin dal primo momento in cui ti ha visto. Non è qualcosa che finisce così, amico».
Gli occhi di Scott si arrossarono «Mi continuo a chiedere se sia stata colpa mia. Se io abbia sbagliato, compromesso la sicurezza della mia famiglia. Se mi fossi comportato in modo differente...»,
«Non esiste un manuale d’istruzioni. Va bene sbagliare, non te ne puoi fare una colpa se non sai sempre qual è il modo migliore di agire. Il matrimonio è difficile, essere genitori ancora peggio. Facciamo del nostro meglio e, se proprio vogliamo stilare una classifica di peggior padre di famiglia a Beacon Hills, mi dispiace ma detengo il primato assoluto».
«Eppure Malia non ti lascerebbe mai».
Quella frase sicura, pronunciata come un mero dato di fatto, colpì Stiles al petto. Scott invidiava il matrimonio che aveva con Malia ma, se solo sapesse…
Si vergognò all’istante di un pensiero simile. Malia sapeva essere testarda e fin troppo temeraria, ma Scott aveva ragione: non permetterebbe a niente e a nessuno di dividerli.
«Smettila, Scott. Non concludi niente facendo questi discorsi, peggiori solo le cose. Guardami, okay? Non è una sconfitta, questa. Lotteremo. Te lo prometto».

***

Malia era stufa di dover restare sempre a casa.
Lo aveva fatto presente a Stiles ma dubitava che a suo marito importasse dove lei volesse trovarsi se il luogo in questione non si trovasse lontano da ogni possibile pericolo.
«Bisognerebbe segnare i contorni della casa con del sorbo selvatico» le aveva detto quella mattina prima di uscire, «Non voglio che il Darach possa prenderci alla sprovvista».
A Malia non interessava essere protetta dal sorbo selvatico quando quella debole sicurezza costituiva anche la sua prigionia.
Eppure, dopo aver lasciato la casa dei Parrish si diresse nel vecchio ambulatorio veterinario che un tempo era appartenuto a Deaton e che ora – per volere di Scott – era rimasto abbandonato.
Malia era cosciente di quanto stesse mandando Stiles fuori di testa in quell’ultimo periodo, insistendo per fare sempre di testa sua e cacciandosi in guai spesso pericolosi. Per questo si era arresa all’idea che poteva sopportare le richieste di Stiles se questo l’avrebbe reso meno nevrotico.
Doveva combattere la stanchezza, si disse. Non avrebbe permesso permesso ad una semplice gravidanza di renderla tanto debole.
Decise di andare a piedi, Jamie nel passeggino e Mòn, dietro di lei, la seguiva mantenendo una distanza di un paio di passi.
Malia avrebbe potuto tenerla per mano – d’altronde, se le fosse sfuggita, avrebbe messo Stiles in seria difficoltà – ma c’era qualcosa in quella bambina che la ripugnava.
Dopo averle dato una ripulita, Stiles e Malia, avevano scoperto che sotto tutto quel sudiciume c’era una piccola bimba graziosa, dai capelli biondicci e le gote rosee.
Mòn, guardandosi allo specchio, pulita e profumata, aveva ridacchiato e fatto una giravolta su se stessa.
Per un attimo il cuore di Malia si era sciolto, nel guardarla. Eppure il suo istinto restava fermo: l’odore della bambina la metteva in allerta e non riusciva a far altro che trattarla con distacco. Non senza avvertire un gran senso di colpa.
Arrivati all’ambulatorio veterinario, Malia forzò la porta sul retro ed entrarono. Mòn guardò la scena, stralunata.
Erano passati anni, eppure l’assenza di Deaton si percepiva ancora all’interno del branco.
Malia prese un barattolo di polvere di sorbo, emettendo un lungo sospiro malinconico.
Si guardò attorno: il lettino al centro della stanza, gli scaffali colmi di roba e gli armadietti in acciaio con gli strumenti della professione. Ogni cosa appariva ferma, congelata in una bolla di tempo ormai andato. Lì, più di ogni altro luogo, si respirava la mancanza di un amico perduto per sempre.
Malia si riprese dai propri ricordi e portò i bambini fuori dal locale. Mòn appariva più pensierosa del solito, ma non provò a dire nulla, neppure con lo sguardo.
Forse perché, in quel momento, sentiva Deaton tanto presente o forse perché era troppo che ormai non visitava più i suoi cari, Malia decise di dirigersi verso il cimitero di Beacon Hills.
Quella, con ogni probabilità, era una delle scelte istintive che Stiles non avrebbe approvato. Ricordava alla perfezione quel che era accaduto l’ultima volta che si era ritrovata da sola nel cimitero, davanti alla tomba di Claudia Stilinski.
Con un brivido riportò alla mente la voce di Deaton che le parlava come se si trovasse proprio all’interno della sua testa e la certezza, inossidabile, di aver visto la sua figura in lontananza, come un monito su ciò che presto sarebbe avvenuto.
“Non lo guardare, il corvo rosso. Sorridi alla Grande Regina”.
Avevano capito chi fosse la Grande Regina, considerò Malia, eppure non si erano mai posti la domanda su quale mistero si celasse dietro al corvo rosso. Era solo un simbolo che si ricollegava alla Dea o c’era qualcosa di più?
L’avvertimento restava emblematico.
Malia accelerò il passo: doveva tornare a casa prima di Stiles.
Jamie era tranquillo nel passeggino, ogni tanto si girava a guardare Mòn e le mostrava un sorriso sdentato.
Mòn, accanto a loro, camminava a capo chino restando però più vicina al passeggino.
Se c’era qualcosa che piaceva a Malia di quella bambina era proprio questo: silenziosa, mai un capriccio o un lamento, la seguiva ovunque senza mai replicare.
Malia frugò nella borsa e tirò fuori due pezzi di pizza rossa, una la diede a Jamie e l’altra a Mòn. La piccola prese il cibo mostrando un largo sorriso.
Per la prima volta Malia, guardando quella bambina, pensò a come sarebbe stato avere tra le braccia la sua.
Si accarezzò la base alta del ventre. Claudia si muoveva di meno in quegli ultimi giorni e, nonostante la stanchezza, Malia ne risentiva un po’.
Andava meglio, pensò instillandosi coraggio. C’erano giorni in cui le sembrava impossibile anche solo muovere un passo e altri in cui passeggiare la invitava. Perciò si permise di partire con la fantasia, immaginare Claudia e Jamie giocare assieme o loro quattro a trascorrere pomeriggi oziosi. Jamie sarebbe stato un fratello maggiore geloso e protettivo, Malia non ne aveva dubbio.
Sorrise tra sé, trasognata, lasciando una veloce carezza sulla testa di Mòn. Non le sarebbe dispiaciuto avere una bambina buona come lei.
Senza neppure rendersene conto, arrivarono davanti alla tomba di Deaton, dove dinnanzi vi era una larga panca in marmo. Vi si sedettero mentre i bambini finivano la merenda.
Malia guardava davanti a sé, sulla lapide “D’fhear cogaidh comhalltar siochain”.
Scott le aveva spiegato il significato di quella frase La pace è garantita, ad un uomo preparato per la guerra. Era un detto celtico ed era stato Deaton stesso a pronunciarlo quando una sfida, durante l’ultima battaglia che avevano dovuto affrontare, sembrava sempre troppo grande da poter essere affrontata. Così era stato per ogni nuovo pericolo, pensò Malia, finché non andavano avanti e allora si presentava qualcosa di ancora peggiore, qualcosa che minacciava di strappargli via ancora di più. Come allora, anche adesso sarebbe servita la voce ferma e rassicurante di Deaton a guidarlo. Scott era perso, come lo erano tutti loro.
Malia prese coraggio e tirò fuori dalla borsa il diario di Talia Hale. Dapprima lo sfogliò, posando lo sguardo qua e là tra le pagine.
Talia – si rese conto Malia – non descriveva giorno per giorno ogni avvenimento, ma annotava solo i fatti più rilevanti, accompagnandoli ai suoi pensieri. Era una donna molto arguta e diligente, di questo Malia non aveva mai dubitato ma leggere le sue riflessioni più intime l’aveva messa di fronte alla certezza di quale grande donna e alpha fosse stata.
Poi Malia aprì alla prima pagina.
Il diario di Talia Hale del 1997 iniziava così “Ricordo ancora, come se fossero passati solo che pochi attimi, la frase che mi disse mia madre quando non ero che una bambina”.
Malia proseguì, con interesse crescente, cercando di ignorare l’imbarazzo per violare un qualcosa di tanto intimo di una persona che non avrebbe gradito una tale intrusione tra i suoi pensieri.
Come la prima volta che aveva dato una sbirciata tra quelle pagine di una memoria passata, ritrovò ancora una volta quel nome che, fin da subito, aveva catturato la sua attenzione.
Alcune volta nascosto da nervosi segni di penna, altre volte sottolineato o cerchiano, il nome di Claudia tornava a presentarsi più volte nei ricordi di Talia Hale.
Malia si sfiorò il ventre con la punta delle dita, la fronte corrucciata.
Che ruolo poteva mai avere avuto la madre di Stiles nella vita di una Hale?


***

Stiles odiava il lavoro da scribacchino. Purtroppo essere il Vicesceriffo comprendeva anche questo. Si trovava nell’ufficio dello Sceriffo Parrish per compilare i fascicoli sulla strage dei Rollers Beacon che, per la cronaca nera, erano diventati i The gutted Rollers (ndt. I Roller sbudellati). Eppure Stiles non aveva nessuna intenzione di perder tempo con simili affari burocratici quando aveva affari più importanti da sbrigare.
Insieme a lui, l’agente Jonas, dall’altra parte della scrivania dello Sceriffo faceva il grosso del lavoro compilando al computer i fascicoli a nome del Vicesceriffo Stilinski.
Dal canto suo, Stiles era occupato più a raccogliere informazioni sulle sparizioni di bambine da lì a dieci anni prima, comprendendo Beacon Hills e tutte le altre città nel raggio di trenta chilometri. Stiles era cosciente del fatto che così si sarebbe trasformata in una ricerca infinita, un lavoro enorme per una sola persona, eppure doveva tentare. Doveva sapere da dove proveniva quella bambina; chi lei fosse, se avesse genitori a cui restituirla alla fine di tutta quella storia. Se fosse riuscito a risalire almeno alla data della sua scomparsa forse sarebbe riuscito a snodare alcuni fili di quell’intricato mistero.
Martha Jonas lanciava occhiate curiose alla ricerca che aveva intrapreso il Vicesceriffo già da qualche ora.
«Dobbiamo finire il lavoro entro sta sera» la redarguì Stiles con un sospiro, massaggiando le palpebre stanche, «Il prima possibile, possibilmente».
Non era la prima volta che l’agente Jonas si occupava di redigere documenti che spettavano al Vicesceriffo, ma era brava e portata per questo genere di cose, Stiles era certo che avrebbe fatto un ottimo lavoro, come sempre.
Sorseggiò il caffé che la sua sottoposta gli aveva portato, mentre la guardava sorridere con quella sua solita aria da ragazza ingenua.
«Ha impegni questa sera, Vicesceriffo?» gli chiese.
Stiles inarcò le sopracciglia e rispose: «No. Ho il solo desiderio di tornare a casa da mia moglie e da mio figlio quanto prima».
«Ha davvero una bella famiglia» commentò l’agente Jonas.
Stiles le mostrò un’espressione ovvia, «Sì, ne sono al corrente. Ora finiamo il lavoro».
Martha arricciò il naso «Ha l’aria stanca, Vicesceriffo. Vuole un altro caffé?».
«No, grazie. Voglio solo...», ma Martha lo interruppe ancora.
«Oppure qualcosa per rilassare i nervi» ridacchiò la giovane facendo un veloce occhiolino, «Se ne ha bisogno lo sa, io rimarrò muta come un pesce».
Stiles strinse le labbra intuendo dove volesse andare a parare l’agente Jonas: «Se ti riferisci alla scorsa mattina, quando mi hai visto bere sul posto di lavoro - sì, lo ammetto ho bevuto in servizio, non mi nascondo - sei stata testimone della conclusione di un mese davvero pesante. Lo Sceriffo Parrish è al corrente dei miei errori, perciò gradirei che tenessi per te le tue insinuazioni».
«Ricevuto» sorrise la ragazza, mentre il gelo calava nell’ufficio dello Sceriffo. Stiles era a disagio, non solo per quello che lei le aveva appena detto, ma in particolare per l’atteggiamento vizioso che aveva assunto. L’agente Jonas non si era mai comportata così, prima. Si era sempre mostrata come una ragazza timida e rispettosa e quel repentino mutamento nei modi di fare mise Stiles in allarme.
Era chiaro come il sole che qualcosa non andava e Stiles si sentì d’un tratto confuso, assonnato persino e la realtà perse i suoi contorni definiti. Aveva una sensazione strana ma non riusciva a ragionare lucidamente.
Fissava Martha con cipiglio duro sentendosi, d’improvviso, il protagonista di un terribile incubo.
«Mi racconti di lei, Vicesceriffo» chiese Martha con voce suadente, sporgendosi un poco sulla scrivania.
Sembrava che volesse provocarlo, ma Stiles non ne capiva il motivo.
«Finiamo il lavoro, agente Jonas» disse e ancora quella sensazione di irreale lo colse e si sentì stordito.
Tutto attorno a lui si fece sfocato, il volto di Martha compreso.
«Mi parli della sua vita, Vicesceriffo. Come è arrivato fin qui?» mormorò l’agente, piano, in modo quasi sensuale.
L’unica cosa che riusciva a vedere con chiarezza erano le labbra della donna, piene e rosse e Stiles si chiese da quando la sua sottoposta avesse delle labbra del genere.
Faceva fatica a mantenere l’attenzione, i suoi occhi minacciavano di chiudersi, ma le labbra della donna continuavano a parlargli, perciò iniziò a rispondere.
«Come sono arrivato qui?» ripeté Stiles, smarrito.
«Doveva diventare un grande detective. Entrare nell’F.B.I., persino. E invece è finito qui, dove tutto il suo talento è buttato alle ortiche».
Stiles ridacchio «Il mio talento? L’F.B.I.?» un sorriso sornione si allargò sul volto dell’uomo.
«Storia vecchia» masticò, la voce impastata.
«Ma era il suo sogno. Sua moglie lo ha infranto?» chiese Martha, gli occhi luccicanti come a voler insinuare chissà che cosa.
Stiles rise, «Malia? Oh, no. Non direi.
«Sono riuscito a resistere solo due anni senza di lei, all’università. Al secondo anno ho iniziato a lavorare in un fast food e a mettere i soldi da parte per prendere un appartamento e lasciare gli alloggi studenteschi. Ho mangiato carne in scatola e sardine per tre mesi ma ci sono riuscito. Quando ho chiesto a Malia di raggiungermi lei è arrivata il giorno dopo, con uno zainetto in spalla e un solo paio di scarpe. Pensava che fosse temporaneo, invece la sera stessa le chiesi di venire a vivere con me. Quell’appartamento era una topaia, un buco in mezzo alla città, ma noi ci stavamo bene. Il mio piano era di finire gli studi, sposarla e andare a vivere insieme a San Francisco dove avrei iniziato la mia carriera nell’F.B.I. Era il mio sogno, come lo era anche Malia. Ma lei aveva sempre avuto il primato su tutto questo, anche quando ancora non me ne rendevo conto. Per questo non funzionò. Malia non sarebbe stata felice in una città come San Francisco. Lei aveva bisogno di Beacon Hills, delle sue foreste, dell’aria frizzante e dell’odore di terra umida e del verde che si respirava per le strade. Non era felice neppure nell’appartamento che condividevamo, seppure non lo fece mai dare a vedere. Lo aveva arredato con piante e fiori, ma non era sufficiente. Niente lo sarebbe stato.
Poi c’era il resto del branco. Eravamo tutti distanti, divisi. Scott aveva un futuro a Seattle, Parrish si sarebbe fatto trasferire in qualsiasi dipartimento di polizia della città in cui Lydia avesse voluto andare a concludere la specializzazione. Ma alla fine siamo rimasti tutti qua. Nessuno di noi ha rincorso i propri sogni. Malia aveva ragione: c’è qualcosa di più importante; il branco è più importante.
E questo va bene perché vuol dire che mia moglie mi conosce. Perché sa che, nonostante tutto, ho sempre voluto questo dalla vita. Non lasciare nessuno indietro. Neppure me stesso».
L’agente Jonas sogghignò come se non stesse aspettando altro che Stiles sciogliesse la lingua a quel modo.
«Quindi pensa di avere una moglie felice, Vicesceriffo?».

***

«Allie?» chiamò a gran voce Lydia dalla sala da pranzo per farsi udire da sua figlia. Mise via il libro di cultura celtica e guardò l’orologio da polso per rendersi conto se poteva continuare le sue ricerche o doveva iniziare a preparare la cena.
Da quando avevano ritrovato Adam, Lydia aveva compreso che continuare a tradurre la Profezia era divenuto oramai inutile. Al contrario, riteneva di importanza rilevante capire cosa avrebbe comportato il Controllo della Luna se il Darach fosse riuscito a raggiungere il suo obiettivo.
Da quel che Lydia aveva estrapolato dalla Profezia, aveva compreso che sarebbe servito il sacrificio di tre Chiavi per dare inizio al Controllo della Luna e che esso avrebbe portato distruzione, avrebbe reso il loro mondo diverso da quello che conoscevano ora.
Tutto sarebbe cambiato e Lydia non faticava a credere che lo avrebbe fatto in peggio.
«Allison?» la chiamò ancora Lydia, spostando la sua attenzione su un altro volume e percorrendo velocemente con gli occhi l’intero indice in cerca di qualcosa che le potesse tornare utile.
Stava diventando difficile staccare Allie dai suoi disegni, pensò Lydia. Aveva cercato di non interrompere mai il suo flusso creativo, di non riscuoterla mai come se fosse una sonnambula persa in uno dei suoi sogni. Aveva ragione Malia, quei disegni provenivano da un potere che spingeva per venir fuori, di fluire oltre gli argini come il fiume straripa oltre le proprie sponde.
Lydia si lasciò andare a un lungo sospiro, quando in cucina entrò Jordan con un largo sorriso rassicurante. Forse era sciocco ma si sentiva più tranquilla quando anche lui era a casa , al suo fianco.
«Prepariamo la cena, tesoro» chiese Jordan, arrotolandosi le maniche della camicia.
Lydia annuì distrattamente, concentrando l’attenzione sul titolo di un capitolo del libro: “La Luna nel mondo Celtico”.
Sfogliò le pagine, fino a raggiungere il paragrafo che la interessava.
«Potrei preparare i miei fantastici maccheroni al formaggio. Allie impazzirà, è da tanto che non li mangia», disse soddisfatto, per poi guardarsi attorno con aria smarrita, «ma dov’è Allie?».
«Di là», rispose Lydia, vaga, per poi fargli gesto con la mano di avvicinarsi: aveva trovato qualcosa.
«Leggi qui» mormorò in un soffio.
Jordan si sporse oltre la spalla della moglie per leggere e Lydia gli indicò il punto in questione, il quale riportava che erano tre le fasi lunari che i Druidi veneravano: la luna piena, la luna calante o crescente e la luna nuova.
«Tre fasi di luna» mormorò Lydia, la fronte aggrottata, prese a cercare tra i libri e i fogli sparsi per il tavolo.
«Ho bisogno di un calendario lunare», disse con voce trafelata.
«Cosa succede, Lyds?» chiese Jordan, senza comprendere cosa stesse mettendo tanta agitazione a sua moglie.
«Il Darach ha preso Adam quando c’era la luna piena» disse la Banshee.
Jordan annuì, senza però capire dove volesse andare a parare.
«Nella Profezia c’è scritto che le Tre Chiavi apriranno ognuna una parte di luna. Così abbiamo pensato che il Darach...»
«Avrebbe attaccato ad ogni luna piena» concluse Jordan per lei, mentre nei suoi occhi si faceva strada un senso di comprensione.
«Una parte di luna» ripeté insistentemente Lydia, portando davanti a sé un foglio di giornale su cui erano riportate le fasi lunari del mese «Devono essere queste le parti nominate nella Profezia, Jordan, quelle venerate dai Druidi: la luna piena, l’ultimo quarto di luna e la luna nuova. Le tre Chiavi aprono rispettivamente queste fasi lunari».
«Lydia» mormorò Jordan, portando il dito dove c’era l’immagine dell’ultimo quarto di luna, «è questa notte».
Per Lydia fu istintivo guardare fuori dalla finestra, dove una luna tagliata di netto a metà le restituiva uno sguardo malinconico.
«Caleb potrebbe essere in pericolo» si agitò la donna, saltando sul posto, «Prendi Allie. Io chiamo Scott. Andiamo all’ospedale, saranno di certo lì».
«Dov’è Allie?»
«In camera sua» rispose scocciata, come se Jordan non comprendesse il pericolo che stavano correndo se l’intuizione di Lydia fosse stata corretta.
«No», ringhiò l’uomo, mentre il colore dei suoi occhi si fece di un arancio infuocato.
«Che vuol dire? Sta in camera sua, sta disegnando» boccheggiò Lydia, aggrappandosi all’avambraccio del marito, «Che hai? Ma cosa ti succede? Mi stai spaventando».
Come un lampo che squarcia il cielo plumbeo, tutti i tasselli del puzzle trovarono un senso nella testa di Lydia.
Le tre fasi di Luna, le tre chiavi che le aprivano.
“Allie ha una Banshee e un Mastino Infernale come genitori, non penso che questo sia un caso”, così aveva detto Malia, quella mattina.
Le Chiavi sono qualcosa di unico, aveva più volte cercato di spiegare al branco.
“In lei scorrono anche i poteri del Mastino Infernale. Allie è diversa da te. È diversa da qualsiasi altro essere soprannaturale sia mai esistito”.
Ecco che la sua visione, la prima e la più ricorrente, le fu chiara: lei e Jordan, Scott e Kira, Malia e… Peter Hale. Non Stiles. No, perché Stiles era umano.
Loro avevano permesso che le Chiavi venissero alla luce.
“Non c’entra la genetica. Qui stiamo parlando di Soprannaturale”.
Le gambe di Lydia tremarono e minacciarono di cederle mentre si precipitava nella cameretta di sua figlia, vuota.
La finestra aperta, le tende rosa che si muovevano gonfiate dalla brezza notturna. Un grido strozzato sfuggì dalle labbra di Lydia che riecheggiò, disperato, per l’intera casa: «Allison!»

***

«Malia non ha mai voluto figli. Io sì. Io ho insistito così tanto...».
Stiles aveva la voce affaticata, si stropicciò gli occhi con aria assonnata.
«Perché ti sto dicendo tutto questo?» mormorò, socchiudendo le palpebre.
Faticava a mantenere l’attenzione, un forte mal di testa pulsava contro le sue tempie. Cercava di fissare lo sguardo sull’agente Jonas ma lei appariva sempre più distante e sfocata.
In un attimo di lucidità Stiles si rese conto di essere stato drogato.
«Cosa diavolo ci hai messo in questo caffé?» sbottò, digrignando i denti, seppur mantenendo gli occhi semichiusi.
«Nulla, Stiles» mormorò Martha, «Non c’è niente in quel caffé. è la mia voce che ti sta guidando»
«Mi trovo dentro ad incubo, per caso?»
Martha sorrise, maliziosa «Lei è davvero un grande detective». Non vi era sarcasmo nel tono della donna, anzi sembrava essere piuttosto soddisfatta.
«Quand’è che mi sono addormentato?» farfugliò Stiles, guardandosi attorno sulla scrivania.
Cercò il cellulare: voleva chiamare Malia, avvisare il branco. Si sentiva in pericolo. Ma non vedeva con chiarezza e seppure la sua mano vagava sulla superficie alla rinfusa, tastando fogli e penne, non riuscì a trovare quello che cercava.
«Sua moglie» Martha Jonas parlò ancora e l’attenzione di Stiles fu catturata un’altra volta dalle sue labbra piene e rosse.
Stiles annuì «Sì, mia moglie… Malia non voleva figli. Temeva di non essere in grado ad essere una mamma, che le mancasse quell’istinto necessario per amare incondizionatamente, come così era stato per sua madre. Non le ho mai detto nulla, ma ho sempre pensato che volersi privare di qualcosa di tanto importante come un figlio, per paura di non riuscire ad esserne all’altezza, sia già una grande dimostrazione d’amore. E, infatti, quando arrivò Jamie Malia, primi mesi, lo tenne sempre stretto al suo petto, giorno e notte in braccio. Lo guardava meravigliata come se non riuscisse a credere che lei avesse davvero compiuto un miracolo simile. E me lo chiedeva quasi ogni sera "Lo abbiamo fatto noi? è davvero nostro?"
E solo io potevo prenderlo in braccio, oltre lei. Non faceva avvicinare nessun altro».
«Tu sei il suo punto debole» disse l’agente.
Stiles annuì, in trance.
«Quel bambino è il punto debole della donna coyote».
La testa di Stiles si mosse ancora una volta e Martha Jonas sorrise ferina.
Allora si sporse oltre la scrivania, i suoi occhi verdi come veleno ad annebbiare la mente dell’’uomo.
«E lei, Vicesceriffo? Lei è felice accanto ad una donna del genere? Ad una donna che non le ha mai permesso di essere un eroe. L’ha resa una donzella in difficoltà, un uomo inutile senza sua moglie accanto per difenderlo».
Stiles sbatté le palpebre con una smorfia di rabbia sul viso.
«Sei tu… Il Darach sei tu...», mormorò, la voce sofferente per la fatica di restare lucido. Ma ragionare per lui non era mai stato così difficile, mentre cadere nei tranelli psichici della donna era semplice come respirare.
Martha gli rivolse un’espressione delusa.
«Il tuo Alpha. Parlami di Scott».
Le labbra di Martha erano rosee, piene e provocanti. Arrossate, proprio come diventavano quelle di Malia dopo che lui le aggrediva con lunghi baci appassionati.
Ed erano anche morbide come quelle di Malia.
Stiles non se ne era accorto, ma tra lui e l’agente Jonas non vi era più la scrivania a dividerli. Lei stava davanti a lui e le sue labbra erano poggiate sulle sue.
Eppure doveva per forza trattarsi di un incubo, perché soltanto in un contesto irreale poteva baciare qualcuno che non fosse Malia. 
Stiles non riusciva a muoversi e neppure spingere via la donna come avrebbe voluto fare. 
Cercò di tirare via la testa ma niente, il suo corpo non rispondeva ai comandi. Con gli occhi vagò per l’ufficio in cerca di qualche appiglio per liberarsi e fu allora che si rese conto che la porta dell’ufficio si stava aprendo.
«Stiles...».
Lì impalata a guardarli c’era Malia. Il volto incredulo e ferito lasciò subito il posto ad una maschera imperscrutabile.
L’interruzione fu efficace, la malia si spezzò e Stiles riacquistò il controllo del proprio corpo, allontanando subito l’agente Jonas con impeto.
«Malia» boccheggiò Stiles, percependo l’intero corpo formicolare, «Malia, io...».
Lo sguardo di Malia si spostava dall’agente Jonas a Stiles, lentamente, come se cercasse in tutti i modi di controllarsi. Il suo volto era esangue.
«Lei… è il Darach. è lei» tossicchiò Stiles, puntando il dito contro l’agente.
Martha Jonas, in un sibilo, mutò davanti ai loro occhi, la sua pelle si fece scura e priva di consistenza. Come un’ombra si dileguò passando dalla finestra dell’ufficio.
Stiles boccheggiò: «L’hai visto anche tu, vero?».
Ma Malia non parlava, era rigida sul posto e Stiles per un momento temette che si stava sentendo poco bene.
Si alzò dalla scrivania per andarle in contro e sorreggerla, se necessario.
«Ha preso il controllo della mia mente, Mal. Davvero, io… Non avrei mai fatto una cosa del genere, lo sai, non è vero?» supplicava.
Stiles vide la fine scurire gli occhi di sua moglie. Non gli credeva, era evidente che stava pensando che le stesse mentendo. L’aveva delusa, tradita.
Poi socchiuse gli occhi e disse: «Ti stavo cercando. Allie...» si interruppe.
Stiles provò ad avvicinarsi ma Malia non glielo permise.
«Dobbiamo andare nella foresta» cercò di spiegare, «Allie...».
«Fammi spiegare. Per favore. So quello che stai pensando, ma non è così. Se solo mi fai parlare...» la pregò Stiles, cercando di toccarla, poggiare le mani sulle sue spalle.
Malia lo fermò, afferrandogli i polsi.
«Allie» ripeté, decisa.
Lo guardò e Stiles comprese.
«Allie?» ripeté, sconcertato.
Malia si limitò ad annuire, poi si voltò


***

Il Beacon Hills Memorial Hospital non le era mai sembrato tanto silenzioso. La notte era calata e con lei anche il silenzio. Nel cielo una luna tagliata di netto a metà.
Kira entrò all’interno dell’ospedale ma nulla sembrava essere cambiato. Le infermiere erano sedute alla reception, pronte ad affrontare il turno di notte e dottori giravano per l’atrio, chi andando verso gli ascensori e chi pronto a lasciarsi la giornata di lavoro alle spalle.
Nulla era cambiato, a parte Kira. Era lei ad essere diversa.
Si diresse verso le scale, una giovane infermiera provò a fermarla avvertendola che l’orario di visita si era concluso da tempo, ma Kira la ignorò. Molti colleghi di suo marito l’avevano già riconosciuta. Nessuno provò più a fermarla.
Aveva una mezza idea di come doveva apparire a occhi esterni: era sporca di terra rossa, sudore e sangue, arrancava con difficoltà sulle proprie gambe esauste e le sue braccia reggevano ancora per miracolo Matty, il quale piagnucolava con occhi spalancati e tristi. Assomigliava a una sopravvissuta a una catastrofe.
Notava i dottori e le infermiere fermarsi a guardarla al suo passaggio, bisbigliando tra di loro con la mano davanti alla bocca.
Raggiunse il reparto di terapia intensiva ma non ebbe bisogno di chiedere in quale stanza dovesse entrare, l’istinto la stava guidando da Adam.
La camera era in penombra, l’unica fonte di luce - una lampada al neon che sfarfallava in continuazione - era troppo distante dal letto perché Kira potesse vedere il volto del bambino da quella distanza.
Non era presente nessun altro. Adam era solo, coperto dalle leggere lenzuola color carta da zucchero.
Allora Kira pensò a Scott, chiedendosi perché non fosse lì con lui.
Si sedette sulla sedia accanto a letto e sentì le ossa dolere e i muscoli tirare.
Il profilo incosciente di suo figlio fu l’ultimo particolare che la fece crollare. Pianse, singhiozzando e stringendo a sé Matty.
Adam aveva l’espressione serena ma non sembrava stesse dormendo. No, Adam non era così quando dormiva, Kira lo sapeva bene: non stava fermo un momento, si girava e rigirava, faceva espressioni buffe arricciando il nasino e digrignando i denti; sbuffava nel sonno e trovava le posizioni più assurde.
Kira aveva il cuore spezzato ma sapeva che non aveva tempo per piangere il suo dolore.
Passi frenetici giunsero dal corridoio, poi una donna entrò con impeto nella stanza.
«Mi ha chiamato l’Ospedale e sono corsa qui all’istante. Non potevo crederci, pensavo si fossero sbagliati e invece sei tu e stai bene» boccheggiò Melissa abbracciando Kira.
«Al telefono mi hanno detto che avevi bisogno di aiuto, che non sembravi stare bene» soffiò, scrutandola «Cosa ti è successo? Ti hanno fatto del male? Il Darach...»
«No» la bloccò Kira sul nascere «Il Darach non c’entra, questa volta»
«E allora cosa ti è successo? Dove sei stata?»
«Devo andare a cercarlo. Devo trovare il Darach, riportare indietro Adam»
«Adam è qui»
«No» singhiozzò Kira «Lui non c’è più»
«Devo… devo almeno provare. Posso combatterlo» dichiarò
«Kira...» Melissa cercò di scegliere le parole più adatte «c’è un motivo per cui Scott non è qui».
Kira trattenne il respiro pensando che gli fosse capitato qualcosa di brutto.
«Allie è scomparsa. Sono tutti nel bosco, adesso. La stanno cercando».
Kira alzò lo sguardo e oltre le spalle di Melissa vide, fuori dalla stanza, che Noah attendeva nel corridoio tenendo Jamie e Caleb.
Melissa allungò le braccia verso di lei e Kira le lasciò Matty. Poi corse via, fuori dall’ospedale, verso la foresta.

***

Scott sudava freddo, mentre pestava l’erba umida del sottobosco. Sentiva il lupo lottare per venire alla luce ancora una volta. Cercò di reprimerlo, ma la sua furia era al limite.
Si controllava o, almeno, provava a farlo per Lydia, aggrappata a lui.
Camminavano in silenzio, Malia avanti a loro, Stiles poco dietro.
Scott si voltò a guardare l’amico. Aveva il capo chino ma spesso lo colse a guardare Malia di sottecchi. Il suo cuore batteva forte e irregolare. Era successo qualcos’altro, intuì Scott, ma quello non era il momento adatto per parlare.
Tutti loro sapevano dove dirigersi: il Nemeton li attendeva.
Jordan li aveva preceduti. Il Mastino Infernale aveva preso il sopravvento e segnato loro la strada: il fuoco aveva incenerito laddove Cerbero era passato.
Arrivarono nello spiazzo e lei fu la prima che Scott vide: Kira, il corpo e il viso ferito, i vestiti sporchi, la katana sguainata con la punta poggiata a terra presagiva già la loro nuova sconfitta.
Si bloccò, il tempo di un secondo, si concesse solo quello perché Kira non lo guardava, bensì era rivolta verso quel che non potevano più cambiare.
Il Mastino Infernale era seduto sul tronco mozzato del Nemeton, le fiamme ardevano alte dal suo corpo. Jordan piangeva, rannicchiato su se stesso.
Poi si alzò e a tutti fu visibile che tra le braccia stringeva dolore. Il corpo di Allie pendeva inerte e vuoto.
 





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Capitolo 16
*** Capitolo Diciassettesimo ***




Diciassettesimo Capitolo



 



Kira rimase ferma sulla soglia per un tempo che parve infinito.
In disparte, un piede dentro e uno fuori dalla camera dove era ricoverato suo figlio. Da quella angolazione riusciva a scorgere solamente i capelli scuri di Adam.
Il piccolo però non era più solo: accanto al suo era stato aggiunto un altro letto per Allie. Scott aveva dovuto insistere ma alla fine la sua richiesta era stata accolta. Così potevano stare insieme, per lo meno.
Sentirsi uniti era l’unico sollievo rimasto.
Tutto era cambiato, come il rapporto tra lei e Scott. Gli anni trascorsi insieme, prima come fidanzati e poi come marito e moglie, erano scomparsi e a legarli era rimasto soltanto Adam, un filo prossimo a spezzarsi.
Sembrava non esistere altro che lui, come se non ci fosse mai stato nient’altro a parte loro figlio a tenerli insieme. Nei recessi della sua coscienza Kira era consapevole che questo non era vero ma ormai vivevano in una nuova realtà, dove lei e Scott si trattavano da sconosciuti ed ogni gioia si era ormai dissolta nel nulla.
Era divenuto difficile persino gestire Caleb e Matty, perché il tempo e i pensieri venivano risucchiati interamente da Adam.
Ogni giorno trascorreva veloce e nebuloso, scandito da attese pesanti e parole di conforto.
Avere Jordan, lì con loro, accentuava ogni margine negativo.
Lo Sceriffo Parrish aveva chiesto la sospensione ufficiale dalla sua carica e Stiles, adesso, era il capo ad interim.
Jordan passava la mattina ad accarezzare i capelli ad Allie, ad aggiustare la giraffa peluche accanto a lei o a stringerle la piccola mano paffuta.
Vedere lì Allie spezzava il cuore già provato di Kira. Cercava di tenere duro, lei. Di mostrarsi forte per tutti loro.
«È solo un sonno indotto», ripeteva a Scott nelle rare volte in cui lui decideva di sedersi accanto a lei, «Si sveglieranno».
Scott solitamente restava in silenzio, per poi spostarsi, uscire per prendere aria. Quella mattina, invece, rispose alle rassicurazioni vuote di Kira: «Il Darach li prenderà prima ancora che riusciremo a capire in che modo possiamo farli tornare coscienti».
Kira vacillò a quelle parole ma cercò di non darlo a vedere. In fondo sapeva che la frase di Scott non aveva il fine di ferirla. Per questo bastava l’indifferenza che usava nei suoi confronti.
Scott era esausto e il modo rassegnato con cui parlava ne era la prova più lampante. 
Kira si guardò attorno per vedere la reazione del resto del branco.
Si trovavano tutti lì, tranne Lydia. Lydia era una donna forte, più di quanto avesse dimostrato in adolescenza. Ma ora si era spenta, come una candela che aveva raggiunto l’alba dopo aver bruciato l’intera notte.
Jordan stava ancora in piedi. Crollare era facile, restare a sostenere i frammenti distrutti delle persone che ami è tutt’altro conto. Kira era certa che se lui resisteva ancora era solo per Lydia. D’altronde lei non aveva mollato quando lui aveva ceduto per primo.
Erano lì anche Stiles e Malia, nonostante la loro espressione impaurita di chi si sentiva fuori posto.
Ma chi poteva mai avercela con loro per non aver ancora perso loro figlio?
Jordan si avvicinò a Scott perché potesse parlare discretamente pur facendosi udire da tutti.
Aveva su un volto grave, fino ad ora avevano evitato il discorso, ma nulla di quello che avrebbero potuto dire avrebbe potuto aggiungere altra sofferenza.
Insieme ai reali intenti del Darach, erano venuti allo scoperto anche le loro paure più nascoste.
«È chiaro che il Darach sta puntando ai nostri figli per compiere il rituale» disse con voce tetra, «Lydia ha detto che nella Profezia si parla di tre chiavi, no? Mi sembra ovvio che si riferisse a loro»
«Perché loro» gracchiò Kira.
«Affonda sulle nostre più grandi debolezze» mormorò Scott in un basso ringhio.
«Non solo» lo contraddisse Stiles «Io e Malia abbiamo letto vecchie note e pensieri di Talia Hale e in questi si parla di Mescolanze... ma credo che non esista un vero e proprio termine per definirli. Sono l’insieme di due o più razze di mutaforma».
Kira parve turbata da questa descrizione.
«Vuoi dire come… le Chimere?»
«No. Le Chimere erano esperimenti dei Dottori del Terrore. Erano stati creati, i nostri figli sono nati così, lo hanno nei loro geni. Pensate a Malia: è un coyote mannaro ma ha anche la ferocia e la robustezza dei Lupi Mannari. Contiene l’uno senza escludere le attitudini dell’altro. Una selezione naturale della specie».
«Fantastico. Ma sapere questo come può aiutarci?» chiese Scott, scettico.
Jordan riprese la parola «Lydia ha continuato a tradurre la Profezia della Morrigan. Ora sappiamo che le Chiavi sono i cuccioli del branco e le parti di luna che essi aprono sono le tre fasi lunari sacre per i celti: la luna piena, la luna nuova e il quarto di luna».
Jordan guardò i suoi compagni uno ad uno soffermandosi, alla fine, su Scott.
«Questa volta possiamo prevedere la sua prossima mossa».
«La sua ultima mossa, vorrai dire» lo contraddisse proprio l’Alpha, «Dopodiché i nostri figli verranno sacrificati e con il Controllo della Luna alla dipendenza del Darach non saremo in grado neppure di vendicarci. Diverremo patetici  schiavi dell’assassino dei nostri figli!».
Jordan annuì, le labbra strette in una linea dura «Sì, è vero. Questa sarà l’unica occasione che avremo. Ma almeno ne abbiamo una».
Jordan guardò Scott con gli occhi colmi di speranza e di una supplica silenziosa. Il Mastino Infernale non si sarebbe fermato finché non avrebbe riportato a casa la sua piccola. La speranza era l’unica cosa che lo teneva in piedi e a tenersela stretta gliel’aveva insegnato solo Scott.
Quei giorni nel corpo del lupo lo avevano cambiato, l’assenza di Kira aveva inflitto altro sale sulle ferite aperte.
Il cuore dell’Alpha era costantemente in tumulto, oramai. In costante agitazione, paura, rimorso. Un cocktail di sensazioni che gli facevano tremare gli arti pur non volendo.
Jordan sapeva che quello che cercava ora Scott era lo scontro, perché era ciò che desiderava anche lui: battersi con il Darach, sfoderare artigli e fauci, ferire fino alla disfatta di uno o dell’altro.
Ma c’era troppo in ballo per lasciarsi andare alla foga, senza contare che il Darach non si sarebbe mai fatto trovare a meno che non lo volesse.
Scott sosteneva lo sguardo di Jordan e forse – come lo Sceriffo sperava – stava pensando proprio a quella sera in cui si era presentato nel suo studio per infondergli quella stessa speranza che ora lo teneva in piedi.
Scott annuì impercettibilmente.
«Non c’è nulla di più prezioso di avere almeno un’occasione… immagino» mormorò, girando il capo verso Kira.
Lei aveva lo sguardo basso e forse neppure si accorse di quegli occhi scuri che bruciavano su di lei.


***

Avere il corpo caldo di Malia contro il suo era sempre la sensazione più bella che potesse provare.
Stava facendo un bel sogno, Stiles, poco prima di aprire gli occhi e trovare sul viso i capelli scompigliati di Malia. Provò a restarvi aggrappato fino a che poté, ma scivolava via veloce e i sensi si erano già risvegliati.
Sentiva l’odore di Malia e il suo bacino circondato dal suo braccio.
Un moto di sollievo lo invase. La strinse forte. Mai era stato così vicino a perdere il suo affetto, di allontanarsi da lei tanto da non poter più fare marcia indietro.
Quel distacco, arrivato al culmine, lo aveva terrorizzato.
Ora svegliarsi accanto a Malia gli sembrava una benedizione.
Nel stringerla a sé l’aveva destata dal sonno, ma non gli importava.
«Stiles… puzzi» si lagnò lei, affondando il viso nel cuscino. Lui sorrise poggiando le labbra sul suo collo.
«Mi ami?» chiese Stiles, «Cioè… mi ami ancora?»
«Certo» rispose Malia, senza indugio, voltandosi verso di lui, «Perché me lo chiedi?».
«Perché mi sono svegliato bene questa mattina. E vorrei che questo non cambiasse mai. Che quello che c’è tra noi non cambiasse mai» mormorò piano Stiles in risposta, poggiando il mento sul capo della donna.
Malia si accomodò meglio contro il suo petto.
«Mi dispiace per come sono andate le cose, per come mi sono lasciato inghiottire dai problemi» continuò, accarezzando i capelli scuri di Malia, «Ti ho già chiesto scusa e continuerò a farlo finché non tornerai a guardarmi come prima».
Malia poggiò la mano sulla guancia di Stiles a mo’ di conforto «Non serve. Va tutto bene, davvero...».
«Stavo pensando che io – al tuo posto – avrei dato di matto se ti avessi visto baciare un altro uomo. Anche se contro la tua volontà» disse lui, tutto d’un fiato. Una confessione che gli imporporò le guance.
«Smettila» lo pregò Malia, con voce sofferta, «Non voglio ripensare a quella scena. Mai più».
Stiles gli rivolse un sorriso sardonico «Se può consolarti per me è stato come vivere uno dei miei peggiori incubi. E sai perfettamente quanto sia difficile battere ciò che mi ha fatto vivere il Nogitsune».
Anche Malia accennò ad un sorriso e per Stiles fu come ottenere la più dolce delle vittorie.
La mano di Stiles corse in automatico ad accarezzare la base della pancia di Malia, come un richiamo antico.
«Come sta la piccola?». 
Malia trattenne il respiro. Si tirò su a sedere guardando dall’alto Stiles, ancora sdraiato.
«Ti devo parlare», disse lei.
D’impulso Stiles le strinse la mano «Che succede?».
«Ho rifiutato il consiglio della dottoressa Redwell. Voleva ricoverarmi. Ha detto che se continuerò a sforzare in questo modo il mio corpo noi perderemo Claudia», spiegò con voce grave e lo sguardo basso.
Stiles annuì come a voler metabolizzare quell’informazione. Si voleva dimostrare comprensivo, soprattutto dopo quell’ultimo periodo in cui non lo era stato affatto.
Gli costò enorme fatica, eppure alla fine disse: «Hai dovuto fare una scelta molto difficile» soffiò Stiles, con voce incrinata, «E senza avere me accanto...».
«Difficile ma pur sempre sbagliata, non è così?» chiese Malia.
Stiles non rispose.

***

Stiles, il diario di Talia Hale stretto sotto il braccio, raggiunse – con lunghe falcate – il portoncino di casa Parrish, sotto una fitta pioggerella primaverile.
Il branco aveva già potuto mettere mano alle memorie di Talia, all’appello mancava solo Lydia la cui reclusione volontaria non era ancora giunta al termine.
Malia aveva preferito attendere in ospedale il ritorno di Stiles, per avere l’occasione di dare quel conforto in più che entrambi sapevano mancare.
Quell’oggi Stiles aveva indosso la divisa d’ordinanza, imbottita di morbido pelo dove era un piacere nascondere il mento sotto il bavero alto della giacca impermeabile, considerato quanto dovette aspettare prima aspettava che l’uscio si aprisse.
La casa era un disastro e il volto della sua amica ancora di più.
«Lyds, tutto bene?» tentennò Stiles, entrando.
«Sì… sono soltanto stanca, Stiles. Ho sonno… Devo riposare per poter stare insieme ad Allie. Jordan questo non lo capisce» biascicò Lydia.
Stiles annuì con espressione grave e disse: «So da lui che non hai più messo piede fuori casa da quando...» fece cadere la frase, pensando che non fosse una buona idea rammentare tanto palesemente la condizione di Allie.
Lydia annuì, aggrottando la fronte mentre i suoi occhi restarono a guardare il vuoto.
Appariva persa e indifesa tanto che un magone crebbe nello stomaco dell’uomo.
Stiles guardò i flaconi di antidepressivi e sonniferi sparsi sul piano della cucina arricciando le labbra.
«Perché non usciamo, andiamo a prendere una boccata d’aria, che ne dici?»
Lydia fece segno di no con la testa «Ho sonno. Voglio solo dormire, per favore».
Ciabattò verso la camera da letto, dando le spalle a Stiles. Era chiaro che per lei la presenza di Stiles non cambiava nulla: il sonno la stava reclamando con troppa forza per restare desta ancora a lungo. Non aveva interesse neppure del motivo per cui Stiles si era presentato a casa sua.
Forse Jordan l’amava troppo per riscuoterla da quella inerzia e trascinarla nella dura realtà ma Stiles non aveva di quei problemi.
Considerava puro egoismo lasciarsi andare così alla disperazione,
«Lydia, Allie ha bisogno di te» le ricordò Stiles, incrociando le braccia al petto e digrignando i denti, attendendo la reazione dell’amica.
«Questo lo so!» sbottò, difatti, Lydia «Ho solo bisogno di dormire qualche ora, non riesco a pensare, sono troppo stanca. Torna a casa, Stiles. Per favore. Lasciami dormire».
Stiles si protese verso di lei per stringere le mani della Banshee nelle sue.
«Lydia» disse, cercando di trovare nei suoi occhi la giusta forza per poter reagire «Forse so chi è il Darach».
Gli occhi di Lydia si sgranarono, divenendo lucidi di lacrime.
«Come».
«La notte in cui è scomparsa Allison è successo anche qualcos’altro. Mi trovavo nell’ufficio di Jordan con l’agente Jonas per… scartoffie, insomma. Ma qualcosa non andava… mi ha soggiogato».
«Che vuoi dire?» Lydia apparve allarmata, sembrava non capire appieno ma Stiles poteva già notare che quell’aria di fitta confusione si stava diradando dai suoi occhi verdi.
«Ha provato ad ammaliarmi» tentennò Stiles.
L’espressione di Lydia si fece di colpo più lucida. Arricciò le labbra e disse: «Non ci credo. Sei stato con un’altra e vorresti addurre la colpa al Darach?».
Stiles si fece paonazzo.
«Non l’ho baciata io, Lydia!» esclamò, confermando l’ipotesi della Banshee.
«Era evidente che qualcosa tra te e Malia non stava più funzionando...» lo rimbeccò lei «Ma dopo tutto quello che avete affrontato insieme non credevo ti sarebbe bastato tanto poco!».
«Ero in un incubo» la interruppe Stiles, bruscamente, «Vedevo Malia davanti a me, bella come la notte in cui le ho chiesto di sposarmi ma non era lei. Io la amo, il fatto che questa situazione stia logorando i nostri nervi non cambia i miei sentimenti, né mi porta a cercare altro», sbottò in un ruggito fiero.
Lydia ammiccò come se quell’espressione d’ardore l’avesse finalmente convinta.
«La dea Morrigan seduceva i guerrieri prima della battaglia e ai suoi amanti era assicurata la vittoria. Forse dovevi approfondire la conoscenza con Martha Jonas» considerò Lydia con una forte nota di sarcasmo.
«Oh, non darmi contro anche tu, adesso! Ci sto male per aver ferito Malia e – inoltre – non credo che l’intento di Martha Jonas fosse proprio quello di proteggermi» ribatté Stiles a denti stretti.
«Allora se fosse davvero lei il Darach perché dovrebbe fare questo? A quale scopo servirebbe sedurti?»
Stiles arrossì, imbarazzato «Non si tratta di questo. Mi ha indotto a parlare. Tanto, di tutto il branco. Soprattutto di Malia».
Lydia sgranò gli occhi, come se un pensiero le avesse appena attraversato la mente.
«Ti ho mentito» proruppe Lydia, d’improvviso.
Stiles la guardò senza capire.
«O meglio, vi ho tenuto nascoste delle cose. Cose che sa soltanto Scott. Pensavo di proteggervi, che saremmo riusciti a fermare il Darach in tempo… ma ora nessuno è più al sicuro. Vi ho detto che non ho mai avuto visioni, ma è stata una bugia. O almeno una mezza verità. Questa volta le visioni si sono manifestate in modo differente perché indotte… Il Darach si è preoccupato di sopire i poteri della Banshee, ma Allie è diversa, in lei scorre anche il potere del Mastino Infernale».
La voce di Lydia si incrinò e le lacrime presero a rigarle il volto stanco.
«Solo adesso ho capito che non erano miei, i sogni, ma di Allie. Vedevo ciò che vedeva lei» singhiozzò Lydia «Per questo erano diversi, frammentati e incomprensibili».
Stiles le cinse le spalle, avvicinandola al proprio petto per darle conforto.
«Cosa ha visto Allie?».
«Il branco. Tutti noi, insieme a Peter Hale. E Malia… a terra, circondata da una pozza di sangue».
Stiles si irrigidì ma non smise di accarezzare con gentilezza la schiena della donna.
«Il Darach del passato voleva Malia» mormorò Stiles.
«Ed ora prenderà suo figlio per concludere il rituale. Prima Adam, poi Allison… lo sai anche tu che il prossimo sarà Jamie. Noi abbiamo reso possibile che il rituale avvenga. Siamo noi che abbiamo messo al mondo le Chiavi».
In cuor suo, Stiles, già dalla notte del rapimento di Allie, aveva compreso che il prossimo ad essere preso sarebbe stato suo figlio ma non era mai stato capace di metabolizzare quel presentimento.
Ora un dubbio si era instillato nella sua mente: e se fosse invece Malia ad essere in pericolo?
«Dobbiamo solo aspettare il momento opportuno» gracchiò Stiles, con i pensieri già lontani dalla conversazione.
«E quando? Non possiamo aspettare che il Darach faccia la sua prossima mossa. Abbiamo provato di tutto ma ogni tentativo sembra inutile. Non si fa vedere se non è lui stesso che vuole mostrarsi. Non ha un covo, né un’identità. Brancoliamo nel buio aspettando di venire colpiti. Non è vita, questa» le labbra di Lydia tremarono e poco dopo le lacrime tornarono a rigarle le guance.
«Dopo tutto quello che abbiamo affrontato… come possiamo essere tanto inermi?» singhiozzò, soffocando le parole sotto la mano stretta a pugno.
Stiles si riscosse a quelle parole e ricordò il motivo per cui si era presentato a casa di Parrish.
«Ci sta un diario, Lyds. Malia lo ha preso dalla cripta della sua famiglia. Vi sono contenuti i ricordi di Talia Hale: il Darach è già stato a Beacon Hills, ha tentato il rituale senza però avere successo. Per questo siamo marionette nelle sue mani. Ci conosce, ci ha studiato e messi fuori gioco. Si è assicurato che nessuno potesse fermarlo, questa volta».
«Il diario di Talia?» mormorò Lydia, con occhi persi.
Stiles prese la sua giacca e dalla tasca interna tirò fuori un piccolo taccuino nero e lo porse a Lydia.

***

Stare a pensare troppo non era di certo ciò che Malia preferiva fare in quell’ultimo periodo.
A dirla tutta si sentiva stanca, la bambina che portava in grembo la indeboliva e la paura incessante la stava soffocando.
Le sembrava pressoché assurdo ma, nonostante lo stress che doveva sopportare, quando gli occhi le si chiudevano dalla stanchezza i suoi pensieri non vertevano su Jamie o Stiles e neppure su Claudia, menchemeno su Adam o Allison il cui capezzale non mancava mai di visitare. Appena le palpebre minacciavano di cederle piombava nuovamente nel cimitero di Beacon Hills, davanti alla tomba di Claudia Stilinski, dove vi era il Darach ad attenderla, a spiarla di nascosto tra le fronde degli alberi finché la voce gentile di Deaton non giungeva a rassicurarla.
“Non lo guardare, il corvo rosso”.
Anche dall’oltretomba Deaton dispensava consigli importanti. Importanti, certo, ma indecifrabili per Malia.
Era incomprensibile per lei essere attratta tanto dalla tomba di sua suocera da quando aveva appreso che ella era stata un Druido tanto potente da avere avuto la stima e la protezione della famiglia Hale.
Malia aveva l’impressione che persino Claudia cercasse di dirle qualcosa, sebbene ignorasse persino questo.
Kira le poggiò una mano sulla spalla «Vai a casa, Mal. Sei distrutta»
Malia sbatté più volte le ciglia prima di riuscire a vedere nitidamente il volto dell’amica.
Da quando era tornata un'aura mistica avvolgeva Kira come un mantello. In qualche modo era cambiata, appariva consapevole più di quanto lo era mai stata.
Consapevole di essere ormai donna e non più ragazzina come il suo aspetto lasciava credere, consapevole di essere una kitsune dal potere inarrestabile, di essere moglie e madre.
Era facile cadere nel tranello degli anni e degli avvenimenti che, imperturbabili, viaggiano veloci regalando poco tempo per comprendere davvero ogni cambiamento, anche il più importante.
Kira sembrava essere rimasta intrappolata come una mosca nella tela del ragno e più cercava di vivere appieno ogni istante più esso si rivelava inafferrabile.
Nonostante sul volto avesse preso posto stabile la preoccupazione, la paura era invece scomparsa.
«No, voglio stare con voi» biascicò a stento Malia, guardandosi attorno per individuare Jamie e Mòn e assicurarsi che entrambi si stessero comportando bene.
Il piccolo era in braccio a Mòn ed entrambi stavano giocando con il cellulare di Malia. Quest’ultima, inconsciamente, sorrise. L’idea di un altro figlio non le faceva più così tanta paura. 
«Stai dormendo in piedi, Mal» le fece notare Kira, con la sua solita dolcezza.
La Coyote non poteva darle torto così decise che era arrivata l’ora di tornare a casa.

Malia diede un bacio sulla fronte ad Adam e poi ad Allie.
Mentre si dirigeva a prendere l’ascensore, con Jamie aggrappato al suo collo e Mòn stretta al passeggino, Malia ripeteva tra sé «D’fhear cogaidh comhalltar siochain».
La pace è garantita ad un uomo preparato per la guerra.
Era divenuto come un tarlo che le rosicchiava all’interno dell’orecchio. Deaton era sempre stato preparato ad affrontare una nuova guerra. E allora perché il suo spirito sembrava non trovare pace?
Malia chiamò l’ascensore, il quale arrivò subito. Le porte si aprirono: era vuoto.
La mano di Malia corse sicura sul pulsante che l’avrebbe portata al piano terra, ma esitò. L’indice si spostò di poco in giù.
La mente di Malia stava ripercorrendo l’estate di sei anni prima quando al branco era giunta la notizia della morte di Deaton.
Sua sorella Marin si era occupata di riportare il suo corpo in America, a Beacon Hills, con l’aiuto di Braeden.
Kira aveva dato alla luce Adam da poche settimane.
Malia cercò di ricordare di più ma quei giorni erano confusi e intrisi di una profonda tristezza.
Era partito per aiutare un gruppo di Druidi minacciati da magia oscura. Scott si era offerto di raggiungerlo dopo la nascita di Adam.
Braeden si era limitata a dire loro che il rituale era finito male.
L’ascensore si riaprì affacciandosi su di un largo androne e una grossa porta antipanico su cui vi era un’unica targa: obitorio.
Il piano appariva deserto. Malia attese qualche istante prima di abbandonare la cabina.
Lasciò il passeggino in un angolo nascosto dal corridoio principale e prese Jamie in braccio e Mòn per mano.
«Fate silenzio, okay? Ci vorrà solo qualche secondo» disse più per infondere sicurezza a se stessa che per ammonire i bambini. D’altronde Mòn non era una gran chiacchierona e Jamie era un angioletto da quando aveva una nuova compagna di giochi tutta per sé.
Per fortuna Malia sapeva bene come muoversi per l’ospedale senza dare nell’occhio. In questo, Melissa McCall, era stata un’ottima insegnante.
Il corridoio era lungo e stretto con le pareti turchesi che, sotto le luci al neon, acquisivano uno strano effetto verdino. Solo una decina di metri divideva Malia dall’ufficio a cui mirava. Doveva entrare all’interno dell’obitorio e l’unica cosa a trattenerla erano i bambini che doveva portare con sé.
«Chiudi gli occhi» mormorò, rivolta a Mòn.
Lei le lanciò uno sguardo dubbioso e Malia mimò il gesto di coprirsi gli occhi con la mano.
Mòn ubbidì e Malia la guidò lungo gli ultimi passi prima di entrare nel reparto.
Ad attenderli vi erano due barelle occupate dalle salme accuratamente coperte dai teli.
Jamie muoveva la testa infastidito contro la spalla di Malia, mentre lei cercava di tenerlo fermo quanto possibile, pur di impedirgli di vedere chicchessia.
Attraversarono l’obitorio e Malia entrò nella stanza a cui mirava.
Si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo, poi si fiondò sull’unico computer nella stanza. Cercare tra i documenti digitalizzati era più rischioso ma ben più rapido e nella sala adiacente Malia aveva sentito con chiarezza il passaggio indaffarato di infermiere e specializzandi.
Raramente modificavano le password sui referti dei decessi e in men che non si dica Malia si ritrovò a scorrere tra i documenti del 2019 per trovare quello di Alan Deaton.
Aprì il documento in questione, mentre uno Jamie spazientito iniziava un basso lamentio che Malia sapeva bene si sarebbe trasformato in un pianto rumoroso.
Aprì il file e lesse rapita le informazioni che stava cercando.
Il corpo era stato recuperato dalla Croazia.
Erano agli sgoccioli, oramai, ma avrebbero potuto mandare Liam ad indagare. D’altronde era stato un incidente – come aveva detto Braeden, e lei non avrebbe avuto nessun motivo per mentire. Però non potevano sottovalutare nulla: qualsiasi informazione poteva portare ad un indizio.
Cancellò le tracce delle sue ricerche e tornò a cullare Jamie, tornando sui suoi passi, sussurrando una nenia all’orecchio del bambino per calmarlo.
Attraversarono nuovamente l’obitorio ma, non appena misero piede sul corridoio, una figura calò su di loro esclamando «Che cosa ci fate voi qua?».
L’infermiera, spaventata dalla loro intrusione, si teneva la mano destra poggiata sul cuore.
«Oh, finalmente!» sospirò Malia, mostrando un’espressione stravolta, «Questo posto è un vero labirinto!».
Malia continuò imperterrita guardandosi attorno, spaventata «Dio solo sa come siamo finiti qua sotto! Che sciocca sono! La stanchezza mi sta giocando brutti scherzi. Sa, la mia nipotina è stata ricoverata in terapia intensiva e le sono rimasta accanto finché i bambini» spiegò, dando una leggera pacca sulla testa a Mòn, «non hanno iniziato a lamentarsi per il sonno. Poverini, spero che non abbiano compreso in quale stanza siamo incappati per puro errore», concluse Malia, mordendosi il labbro con sentito rammarico.
L’infermiera annuì e, presa dalla empatia, cercò subito di venire in contro ad una madre spossata da una giornata difficile e indicò loro la strada verso l’ascensore.
Malia non perse tempo e si dileguò, prodigandosi in mille ringraziamenti sentiti.


***

Dopo qualche minuto Stiles si iniziò a chiedere se Lydia stesse realmente leggendo o se si fosse persa in quel fiume di parole indistinte trasportata via da altri pensieri.
I suoi dubbi furono dissipati quando, con voce malferma Lydia pronunciò «Beltane».
«Cosa?» domandò Stiles, incerto se avesse capito male.
«Beltane» ripeté Lydia con voce più ferma, «Qui, tua madre, dice: “Non hai atteso Beltane”».
Lydia indicò il punto in questione a Stiles ed egli annuì.
«Sai di chi si tratta?» si stupì, con ammirazione.
«Non di chi, ma di cosa. Non è una persona, Stiles. Beltane vuol dire “fuoco luminoso” ed è un giorno sacro ai celti. Il Darach sarà al pieno della sua forza» spiegò Lydia lanciandosi verso il tavolo della cucina, il quale era tuttora ricolmo di libri, ricerche e appunti raccolti dalla donna. Spostò a caso i vari testi, gettandoli di qua e di là finché non recuperò il calendario lunare.
«Cadrà il primo maggio in coincidenza con la luna nuova. L’ultima parte di luna verrà aperta quel giorno» la voce di Lydia uscì spezzata.
«Darà inizio al rituale e allora… tenterà di sacrificare le chiavi alla Dea Morrigan» comprese Stiles e un brivido incontrollato di terrore gli corse lungo la schiena.
Tolse il calendario dalle mani di Lydia, tenendolo a distanza come se non volesse realmente studiarlo.
«Beltane è tra due giorni» soffiò, sentendosi sopraffatto da quella constatazione «e sì, coincide proprio con la luna nuova».
«Dobbiamo tenere Jamie al sicuro. Trovare un nascondiglio sicuro per tutti i nostri bambini, Stiles. Non deve prenderli. Non deve prenderli mai più» Lydia si aggrappò alla divisa d’ordinanza dell’uomo, agitata, come se fosse in preda ad un attacco isterico.
Stiles si sentì in dovere di stringerla a sé per calmarla ma lui stesso era sopraffatto da quella nuova condanna.
Le mani di Stiles tremavano incontrollate e anche la sua voce era incerta quando disse: «Jamie potrebbe non essere l’unico in pericolo».
«Malia?» chiese Lydia, aggrottando la fronte.
«Malia è l’unica tra di noi ad essersi scontrata con il Darach. Temo che lui abbia una sorta di riguardo verso di lei. L’ha difesa dalla Lupa del Deserto. Perché dovrebbe prendere le difese di qualcuno che potrebbe ostacolare i suoi piani? Credo che abbia bisogno di lei», ragionò Stiles.
«Quindi… Martha Jonas? Pensi che sia lei a celarsi dietro la maschera del Darach?»
«Colpevole o no, Martha Jonas si è esposta come nostra nemica. Per tutto questo tempo avrebbe potuto alterare la scena del crimine e le prove raccolte, indirizzandoci nella via sbagliata. Ci aveva in pugno e ci ha manipolato sapendo che noi avevamo fiducia in lei!» decretò Stiles, pragmatico.
«Ma non posso dire con certezza che il Darach del passato e Martha Jonas siano la stessa persona»
Lydia strinse le labbra, incerta: «Perché avrebbe dovuto esporsi tanto? Martha Jonas, dalla descrizione che mi hai dato, potrebbe essere un Succubo e perciò anch’ella una pedina nelle mani del Darach».
«Io non lo so, Lydia!» sbottò Stiles. Respirava a fatica ma aggiunse, con più calma: «Non so proprio nulla, tranne che vendicherò mia madre. Non importa quanto siamo spacciati, non permetteremo che compia il rituale. Lo fermeremo, Lydia. Mi hai capito? Abbiamo quest’ultima opportunità a nostra disposizione e non permetterò che sia vana. Sembra poco, è vero, ma almeno abbiamo qualcosa».
Lydia annuì senza convinzione.
Stiles avrebbe voluto restare con lei per assicurarsi che si fosse realmente calmata e che non cadesse in un altro stato di agitazione ma l’idea che Malia fosse in serio pericolo si era fatta oramai pressante.
«Ora devo andare. Scusa, Lydia… riguardati, per favore» si congedò bruscamente, Stiles.
Lydia lo guardò smarrita ma annuì, accompagnandolo alla porta.
Una volta in macchina, Stiles provò a chiamare Malia e solo allora si accorse che il suo cellulare era del tutto scarico e che era trascorso più tempo di quanto aveva creduto di metterci. Si chiese per quale motivo continuasse a permettere agli eventi di dividerli.
Avrebbe dovuto essere al suo fianco giorno e notte, si disse.
Si stropicciò gli occhi stanchi e arrossati. Sapeva che avrebbe dovuto ma, delle volte, Malia gli rendeva così difficile starle accanto.
Si pentì subito di un pensiero simile. I suoi stessi errori avevano reso il rapporto con sua moglie complicato. Era ingiusto scaricare su di lei l’intera colpa.
Stiles fece due lunghi respiri, cercando di calmarsi. Malia lo avrebbe richiamato da un momento all’altro.
Ingranò la marcia e svoltò per tornare in ospedale. Lei era lì, non se ne sarebbe mai andata senza di lui.

***

Il telefono di Stiles era staccato.
Era passata quasi un’ora da quando Malia attendeva fiduciosa nell’atrio dell’ospedale ed era stufa marcia di aspettare.
Il dubbio che Stiles non fosse realmente andato da Lydia come aveva detto, le fece torcere le viscere. Chiuse gli occhi e fece un profondo respiro: non doveva farsi condizionare da una singola brutta esperienza, Stiles si meritava molta più fiducia di quella che Malia sapeva largire in quel momento.
Stiles le aveva detto che la sarebbe venuta a riprendere, per questo non le aveva lasciato la macchina. Ma Stiles non tornava e per Malia era facile cadere nella paura che gli fosse accaduto qualcosa.
Una volta a casa avrebbe potuto prendere la sua auto e uscire a cercarlo. Avrebbe avuto modo di muoversi più velocemente.

Camminava veloce tra le strade buie di Beacon Hills. L’ospedale era ancora visibile alle loro spalle ma presto avrebbero girato l’angolo.
Si era fatto tardi e i negozi avevano abbassato le saracinesche.
Avrebbe voluto essere insieme a Stiles, in quel momento, ma non sapeva se questo sarebbe bastato per toglierle di dosso quella sensazione  così spiacevole di pericolo imminente.
Jamie si era addormentato nel passeggino, Mòn camminava a testa bassa. Forse, persino lei, si era resa conto che qualcosa non andava, perché dopo altri pochi passi si arrestò facendo bloccare anche Malia.
«Maman...» mormorò Mòn. I grandi occhi azzurri, spalancati, si guardavano attorno.
Malia sorrise «Oh, piccola, non sono la tua mamma. Non affezionarti a me, per favore» la pregò pur sapendo che non poteva comprendere le sue parole.
«Maman...» ripeté Mòn con voce rotta.
Ormai non mancava molto per arrivare sulla via di casa e a Malia non andava di indugiare oltre, ma Mòn aveva puntato i piedi e non accennava a voler proseguire.
«Che hai?» le chiese Malia, chinandosi verso la piccola, «Sei stanca? Vuoi riposarti».
Mòn si rannicchiò a terra, nascondendo il volto dietro le gambe.
«Vieni» disse Malia allungando le braccia verso di lei «Vuoi venire in braccio? Ti porto io».
Mòn alzò lo sguardo e, vedendo le mani protese di Malia, iniziò a piangere. Ma non era il solito pianto dei bambini, Mòn piangeva in silenzio, senza emettere neppure un suono.
Malia iniziò ad agitarsi, si guardò attorno pensando che qualcosa avesse potuto spaventarla. Forse il Darach li stava seguendo, osservando i loro movimenti da lontano. Se Mòn si stava nascondendo davvero dal Darach, quando era stata trovata da Scott e Stiles, tale reazione poteva avere un senso.
«Torniamo a casa, Mòn» la pregò Malia, sentendo rizzare i capelli dietro la nuca, «Ti preparo il panino con marmellata e burro di arachidi che ti piace tanto. Ti va?».
Mòn scosse forte la testa e indicò il ventre gonfio di Malia.
«Mort! Doit mourir!» strillò all’improvviso, spaventandola.
«Non capisco cosa stai dicendo»
«Elle doit mourir pour nous sauver! S’il vous plait, maman!».
Malia si tirò su, toccandosi la pancia intimorita. Non capiva cosa stava dicendo Mòn, ma il messaggio era chiaramente rivolto alla figlia che portava in grembo.
Un forte rombo di motore e poi tre grosse automobili nere si fermarono inchiodando davanti a loro.
L’improvvisa crisi di Mòn passò velocemente in secondo piano e Malia afferrò la bambina per un braccio e la tirò dietro di sé, pronta a difenderla.
Dalla prima auto uscirono due uomini in giacca e cravatta. Seduta sui sedili posteriori Malia distinse una figura femminile che restò a guardare dall’interno dell’abitacolo.
«Signora Stilinski» il primo energumeno dal faccione squadrato spezzò il silenzio, «devo chiederle di restare calma. Non si deve spaventare. Siamo qui per la bambina».
«Mère» sussurrò la piccola, stretta alle gambe di Malia.
«Chi siete voi?» boccheggiò la donna quando le due guardie si fermarono a pochi metri da loro.
«Veniamo per conto di Eichen House. La bambina che è con lei era ricoverata nel nostro istituto ma è riuscita a sfuggire ai controlli. Si tratta di una questione delicata. La piccola deve restare sedata, è pericolosa, signora Stilinski. Pericolosa e aggressiva».
«Non sono d’accordo».
«La strage dei Beacon Rollers, ha presente?».
«I Rollers sbudellati» ghignò il collega più basso, dal volto di furetto e dai grossi denti gialli che rimanevano visibili, premuti sul labbro inferiore.
Malia ascoltava lo scambio di battute allibita, senza capire come Mòn potesse essere coinvolta in un caso di omicidio.
«La strage è avvenuta la sera stessa in cui la bambina è fuggita. Lei è una creatura assetata di sangue. Deve venire con noi, è sotto la nostra tutela».
Malia tremò, circondando con un braccio le spalle di Mòn, come se volesse proteggerla.
Quello che dicevano non sembrava combaciare con quello che Malia aveva potuto conoscere di quella bambina in quei giorni. O, per lo meno, non del tutto. C’era sempre stato qualcosa che a Malia disturbava di Mòn. Una sensazione profonda, legata al suo istinto. Un odore che la disturbava.
«Voglio vedere i documenti che attestano quanto stai dicendo» replicò, cercando di mantenere quanto più la voce ferma e autoritaria.
La portiera posteriore della prima macchina si aprì e la donna, che stava osservando la scena da dietro il finestrino oscurato, scese.
Era una signora alta, dalla vita sottile con indosso un vestito nero e alti tacchi a spillo. Il suo volto era pallido, circondato da gonfi capelli bianchi, candidi come la neve. I suoi occhi erano rossi e iniettati di sangue.
Malia la riconobbe subito: la direttrice di Eichen House, colei che si trovava al vertice della struttura. Stiles le aveva parlato di lei. L’aveva incontrata quando lui e Jordan dovettero patteggiare dopo la morte di Corinne.
«Ma mère» ripeté Mòn.
«Fille!» esclamò la direttrice, allargando le braccia.
Mòn sciolse l’abbraccio attorno alle gambe di Malia e, riluttante e a capo chino, si diresse verso la direttrice.
«Buonasera, signora Stilinski. Sono Eloïse Roux, la direttrice di Eichen House» si presentò, con forte accento francese.
«Buonasera» rispose Malia, riluttante. Guardava Mòn, sulle cui spalle erano artigliate le dita ossute della direttrice, senza comprendere il perché si fosse allontanata di sua spontanea volontà
«Vede, lei non ha alcuna voce in capitolo sulla bambina dato che - di fatto - è sotto la nostra tutela, non la sua. Vorrei evitare che la trattenga senza autorizzazione. In termini legali sarebbe pressappoco un sequestro di persona. Non pensa?» continuò la Roux, lasciando dei veloci buffetti sulle guance rosee di Mòn.
A Malia infastidiva quel contatto. Non voleva che la toccasse, era - in un certo modo - sbagliato. L’intera storia che le avevano propinato sembrava sbagliata.
«Mio marito è il Vicesceriffo di questa Contea» farfugliò Malia, senza sapere a cosa di preciso volesse mirare, «Vorrei aspettare il suo giudizio. Vi proibisco di portarla via così! La nostra famiglia ha preso in tutela questa bambina».
«Lei è, per caso, un Assistente Sociale, signora Stilinski?» chiese la direttrice Roux con sorriso felino.
«No».
«Credo che sia meglio, per il Vicesceriffo, lasciar da parte la legge. Al Sindaco potrebbero non piacere certi… sotterfugi».
«Nessun sotterfugio. Vogliamo solo proteggere questa bambina!».
La piccola Mòn girava la testa ad ogni scambio di battute, ascoltava in silenzio senza comprendere una sola parola. Ma non c’era bisogno di sapere quel che stavano dicendo per percepire l’astio nella voce delle due donne.
«Allora vi ringrazio, signora Stilinski, per aver adempiuto con tale passione alla cura della nostra piccola paziente» disse per poi rivolgersi a Mòn, «Ora torniamo a casa, ma fille».
Questo Mòn lo comprese fin troppo bene.
Con uno strattone si liberò dal braccio che la direttrice aveva posto attorno alle sue spalle e si rannicchiò su se stessa in un bozzolo spaventato. Nascose la testa tra le gambe e il suo piccolo corpicino prese a tremare convulso.
«Mòn!» esclamò Malia spaventata, provando a soccorrere la bambina, ma la Direttrice si frappose, impedendole di raggiungerla.
«No» disse, difatti, categorica, «Non le conviene avvicinarsi alla mia paziente»
«Una paziente che la chiama madre» ringhiò Malia, fronteggiando la Direttrice, «Che razza di persona tratta una bambina come una cavia? Cosa le avete fatto? Dove sono i suoi veri genitori?».
«Si calmi, signora Stilinski» disse Eloïse Roux e, alle sue spalle, le guardie di Eichen House si mossero per circondare Mòn, «Lo dico per la sua sicurezza»
Dalla prima auto scesero altri due uomini, uno aveva l’aspetto di un secondino, mentre l’altro era evidente fosse un dottore. Indossava un lungo camice bianco e i suoi occhi erano incorniciati da occhiali dalle lenti tonde, prive di montatura.
Il dottore in questione teneva sotto braccio una ventiquattrore nera.
La concentrazione di tutti i presenti era su di lui che, solerte, aprì la valigetta e frugò tra quelli che avevano tutto l’aspetto di siringhe e medicinali.
Era piuttosto ovvio, per Malia, comprendere quale fossero le loro intenzioni: sedare Mòn, interrompere la crisi convulsa prima che degenerasse in… che cosa, esattamente, poteva succedere ad una bambina con probabili poteri da mannaro, questo Malia lo ignorava.
Per quanto il dottore di Eichen House agisse con rapidità e sicurezza, ogni suo tentativo di tempestività fallì miseramente.
Finì di riempire la siringa sotto gli occhi sconcertati di Malia ma non poté fare altro.
L’esile corpicino di Mòn, il quale non aveva smesso di muoversi spasmodico fino a quel momento, mutò sotto ai loro occhi.
«C’est trop tard» mormorò la direttrice, guardando Malia con occhi colmi di paura «Presto, si allontani! Courir!» esclamò, arretrando verso le automobili.
Bastò un battito di ciglia e Mòn non c’era più, al suo posto vi era qualcosa di orripilante.
Un essere deforme dal corpo lungo e affusolato, la pelle squamosa, con quattro arti snodati e scheletrici provvisti di artigli simili a stiletti affilati di una lunghezza sbalorditiva, pari a non meno di mezzo metro.
Il cuore di Malia batteva all’impazzata, sentiva la bocca arida e la vista offuscata. Le gambe le stavano per cedere ma di certo non era il momento migliore per assecondare uno svenimento.
Jamie era proprio dietro di lei, nel passeggino e dormiva, indifeso e ignaro del pericolo dinanzi a loro.
La strana creatura che aveva preso il posto della dolce Mòn, grugniva sommessamente e quel tetro verso si interrompeva solo per emetterne uno più stridulo e lamentoso. Era ancora rannicchiata su se stessa e il volto restava celato alla vista, ma sulla sommità del capo erano già ben visibili due corna attorcigliate a spirale.
Malia udì distintamente le portiere chiudersi e le auto mettersi in moto. Era rimasta impalata lì, senza ben capire cosa davvero stesse accadendo.
Solo la direttrice Roux era rimasta fuori dal veicolo, ma non sembrava intenzionata a voler indugiare oltre.
«Non puoi più fare nulla per lei, ma chère» e così dicendo chiuse la portiera e le auto di Eichen House ripartirono.
Così la belva si destò, si innalzò sulle zampe posteriori – forse infastidita dal rombo improvviso dei fuggitivi. Il busto era tozzo, di un rosa pallido, il volto mostruoso simile a quello di un rettile.
Malia non ebbe tempo di notare altro, il mostro deforme individuò la sua unica preda rimasta e la attaccò.
Malia – ancora attonita – rimase inizialmente immobile. Percepiva il suo cuore battere a mille e gli arti pesanti, annichiliti.
Si riscosse quando la belva era ormai a un palmo dal suo viso. Allora si mosse, anche se in ritardo. Il mostro le cozzò addosso e, insieme, rotolarono a terra.
Gli artigli graffiavano ogni lembo di pelle disponibile. Malia non poteva far altro che arretrare, restando sulla difensiva finché i muscoli delle gambe avrebbero sopportato tale sforzo. Erano troppo lunghi per permetterle di difendersi in altro modo, men che meno di attaccare a sua volta. Presto l’avrebbe sopraffatta.
Tentò di allontanarsi il più possibile dal passeggino, attirando la bestia sulla strada.
Ben presto si accorse che Mòn puntava al ventre. Ogni zaffata era diretta al grembo di Malia e ciò la rendeva ancora più vulnerabile.
Quel mostro era instancabile, sembrava uscito dagli inferi. Neppure al pieno della sua forza Malia avrebbe potuto tenergli testa.
Malia cadde, atterrando sulla schiena e protendendo la mano davanti a sé.
La belva ringhiò, un urlo selvaggio, di vittoria. Sollevò la zampa adornata dai lunghi artigli, pronta a calare le sue lame mortali sul ventre di Malia.
La coyote boccheggiava, esausta. Vide gli artigli sopraggiungere e la fine ormai inevitabile.
I suoi pensieri corsero a Stiles. In quell’ultimo istante di terrore non vedeva altro che il volto di suo marito.
Socchiuse gli occhi, per poi riaprirli l’attimo dopo.
Non capì subito quel che era accaduto. La bestia era sospesa in aria e si agitava scomposto.
In un secondo momento Malia si accorse che dietro ad essa vi era una figura alta e possente, vestita  di un lungo mantello rosso e col volto celato da una maschera di legno.
Per la seconda volta, il Darach le aveva salvato la vita.
 


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