Broken souls

di reby
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Retrogusto amaro. ***
Capitolo 2: *** Rocce ***
Capitolo 3: *** Candeline ***
Capitolo 4: *** Sole ***



Capitolo 1
*** Retrogusto amaro. ***







Ho un debole per le persone che hanno cicatrici nascoste dietro un sorriso,
per chi apre le braccia al futuro pur avendo conti in sospeso con il passato,
per chi avrebbe il diritto di urlare contro e invece sussurra serenità.
Ho un debole per gli animi rotti ma portatori sani di positività.”
Michelangelo Da Pisa








Sospirò.
Ricordi veloci si rincorrevano nella mente.
Si tenevano per mano, sfiorando i tempi passati.
Un enorme circolo vizioso, i ricordi.
La mente degli uomini è masochista. Cerchi di non pensare a qualcosa ed ecco che essa te la ripropone più vivida che mai, più dirompente e colorata.
Non puoi far altro che assecondarla, in certi casi.
A volte riesci a frenarla, riesci a distrarti e ad inghiottire la nostalgia: poi basta un attimo, un profumo, uno sguardo, una canzone e tutto si ripresenta lì, davanti a te.
Sora Takenouchi non aveva più lacrime da spendere per quei ricordi: erano logori, così come la sua mente, già da tanto tempo.
Il cuore chiuso in una gabbia più dura del diamante, parti di sé stessa da seppellire sotto strati e strati di giorni confusi.
Richiuse il cofanetto blu che aveva tra le mani con un peso che non poteva ignorare sul petto. Fece girare la piccola chiave nella minuscola serratura e lo ripose lì dove doveva essere: sotto il suo letto, lontano dalla quotidianità. Lontano da lei.
Perché l’aveva aperto?
Sorrise, mesta.
Quella canzone l’aveva stregata. Niente lacrime, oh no.
Il digimedaglione con la sua digipietra riposavano in quella scatola assieme a cose letali almeno quanto loro: fotografie. Lisce, piccole ed eterne fotografie.
Il periodo più bello della sua vita risalente a circa l’anno prima chiuso in uno stupido cofanetto. Le sembrava lontano anni luce ormai.
La vibrazione silenziosa del suo cellulare la fece riscuotere dai suoi pensieri.
- Pronto? -
- Tesoro!Ti sto chiamando da mezz’ora, è tutto apposto? -
- Oh si… scusami avevo tolto la suoneria -.
Silenzio dall’altro capo. - Ti sento strana -.
Non era una domanda.
- No tranquilla. E’ tutto apposto -. Finzione, a fin di bene.
Mimi Tachikawa fece finta di crederci.- D’accordo. Allora noi saremo lì tra dieci minuti, sei pronta vero? -
Sora sgranò gli occhi, controllando l’orologio da polso.
Cazzo. - A tra poco -.
Click.
Chiamata terminata.
Mimi sospirò ed il suo ragazzo la guardò interrogativo.- Problemi? -
La ragazza alzò le spalle, fasciate da una camicetta rosa pallido.- E’ una delle sue sere -.
Yamato Ishida annuì, senza dire una parola. Tirò l’ultima boccata di nicotina dalla sigaretta e la gettò a terra, spegnendola con il tacco delle scarpe sportive che indossava.
La notte di Tokyo era il loro sfondo, sul quel muretto basso che avevano usato come improvvisata panchina.
- Vieni qui - le disse vedendola improvvisamente triste.
Mimi si avvicinò e lui la circondò con le braccia muscolose.- Vedrai che tra poco starà meglio…- mormorò al suo orecchio, carezzandole lievemente i capelli.
La sentì sospirare prima di alzarsi sulle punte e posargli un casto bacio sulle labbra.- Lo spero -.




Erano usciti da circa un’ora.
Avevano preso da bere nel loro bar preferito ad Odaiba e guardavano la moltitudine di gente camminare, osservare le bancarelle, immersa tra le mille diverse luci della festa del quartiere.
- Secondo me, non lo passerò mai -.
Stava dicendo Izzy, sorseggiando il suo cocktail.
I tavolini di legno erano quasi magici sotto quelle lucette, che sembravano stelle scese più in basso nell’atmosfera solo per loro. Le chiacchiere dei passanti e degli altri avventori non disturbavano, ma accrescevano la felicità tipica delle serate estive.
- Se non lo passi tu, bocciano tutto il corso – rispose Joe, facendoli ridere.
- Quando hai l’esame? - chiese Sora, muovendo con la cannuccia il ghiaccio rimasto nel suo bicchiere ormai vuoto.
-Tra due giorni. E’ una programmazione difficile, bisogna combinare due… - cominciò imperterrito l’informatico.
- Ehi, ehi frena - lo fermò la ragazza con un sorriso,- più di così noi non ti seguiamo -.
Risero.
Erano cambiati tutti.
I tempi che li avevano visti digiprescelti e bambini insieme erano passati, esperienze mai dimenticate ma già molto lontane.
I lineamenti dei visi più marcati, più adulti.
Ma erano come la frutta maturata precocemente: all’apparenza, come tutti si aspettano, liscia, succosa, perfetta. Ma dentro.. dentro lo zucchero, la vita non aveva fatto il suo naturale corso, lasciando un retrogusto amaro troppo forte per sembrare normale.
- Dite che il mio progetto passerà? - domandò Mimi, con una mano sotto il mento ed una smorfia sulle labbra.- Ne ho visti di bellissimi, a confronto il mio è uno straccio -.
Sora sorrise, davanti all’insicurezza della sua migliore nonché unica amica.
Era incredibile. Proprio nel campo dov’era realmente bravissima, la moda, era sempre insicura.
-Tesoro, è l’abito migliore che tu abbia mai disegnato- le rispose, prendendole la mano e sorridendole incoraggiante,- passerà sicuramente.-
Matt le diede un buffetto sul capo. - Non capisco perché mai tu ti faccia venire sempre paranoie. Eppure di solito sei così arrogant… ahi!- esclamò poi, quando la sua ragazza gli tirò un pizzicotto sul braccio.
-Così impari!- rispose Mimi, facendogli una linguaccia.
Già, apparentemente erano sempre gli stessi. Ma anche solo guardandoli ci si accorgeva del contrario. I grandi assenti premevano su tutti e quattro.
Izzy si guardava intorno mentre gli altri continuavano a battibeccare scherzosi. Passava in rassegna i visi della gente distrattamente, senza soffermarsi realmente su qualcuno.
Quando…
Assottigliò gli occhi dietro le lenti dovute dalla miopia, fissando due ragazzi che stavano proprio venendo verso il bar.
Il cuore cominciò a battergli furiosamente nel petto e la mente vorticava veloce in cerca di qualche idea. Si voltò di scatto verso Sora che fortunatamente non si era accorta di nulla.
E adesso cosa cazzo devo fare?
- Ehm, ragazzi… che dite di fare un giro?- propose titubante.
Ma Izzy non era famoso per la sua sicurezza, né tantomeno per la capacità di nascondere le cose, pregio che a volte però, era meglio non possedere.
Matt e Joe capirono subito che qualcosa non andava, seguirono con lo sguardo il punto in cui gli occhi del ragazzo si fermavano involontariamente ed entrambi spalancarono gli occhi.
- Si dai, andiamo via…- fece per alzarsi ma Mimi gli strattonò il braccio costringendolo a risedersi.
Era troppo tardi.
Sora fissava Taichi che si faceva largo tra la folla con le mani in tasca ed una sigaretta penzoloni tra le labbra.
Lui guardava altrove.
Lei invece, lo fissava immobile.
Riabbassò lo sguardo.- Andiamo ragazzi? -
Senza dire niente, gli altri si alzarono e sparirono presto tra la folla.

A pochi metri di distanza, Taichi Kamiya non aveva perso un solo istante di tutto quel teatrino.
Rivederla, anche se pure da lontano, era sempre una grande prova da superare.
Vederla ma senza toccarla.
Gli tornavano alla mente i loro respiri affannati e i loro corpi sudati mentre facevano l'amore tentando di non farsi scoprire dai suoi nella stanza accanto, oppure quando Sora diceva a sua madre che andava a studiare da lui ed invece poi la meta era il campo di calcio.
Il problema era proprio quello.
Ricordava tutto e tutto faceva dannatamente male.







SPAZIO AUTRICE:
E si parte, io vi avevo avvertiti.
Come avrete notato, la storia ha decisamente un tono diverso da “Le cronache di Osaka” e si avvicina molto più alle mie prime due long. Ebbene si, proprio non riesco a non far passare a questi poveri digiprescelti le pene dell’Inferno con tanto di gironi.
Questo capitolo era fermo sul mio portatile da almeno un anno e solo ultimamente ho avuto il coraggio di riprendere il tutto in mano. Perché? Perché è inutile nasconderlo, il mio modo di scrivere in un modo o nell’altro, finisce sempre nel drammatico ed io ci sguazzo allegramente! Ho già il secondo ed il terzo capitolo pronti –e si, sono più lunghi di questo-, quindi in teoria  almeno per un po’ non dovrei farvi aspettare molto(esami permettendo). In ogni caso, vi consiglio di consultare la mia pagina FB per eventuali news.
Ultime due cose: il rating è arancione, avete visto bene e, aggiungo a malincuore, c’è un serio ma serio rischio di OOC specialmente per quanto riguarda un personaggio centrale(qui già s’intuisce alla grande, forse). Insomma, solo altri due avvertimenti per voi.
Bene, questo mappazzone finale si può chiudere qui. Come sempre aspetto le vostre opinioni e le vostre congetture, sono pronta al linciaggio!
A presto (spero),
Sabrina









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Capitolo 2
*** Rocce ***





“Pesano come rocce i ricordi che amo”.
 Charles Baudelaire






Forse fa parte del destino di alcuni di noi, perdere qualcuno ancora prima di averlo.
Sedeva nel bar di una delle più grandi librerie di Tokyo, con lo sguardo perso verso un punto indefinito e un bicchiere di the freddo davanti ancora completamente pieno.
Il ghiaccio si stava sciogliendo lentamente, mischiandosi al liquido rossastro alla pesca e diluendolo in uno più incolore ed insapore.
A volte è proprio ciò che succede alla vita, il venir diluita da freddi ricordi di ghiaccio che la rendono a poco a poco insipida.
Si vergognava di sé stessa, ma spesso si ritrovava a pensare che forse era meglio non vivere affatto momenti indimenticabili perché, essendo tali, continueranno a scavare dentro di te fin quando non avranno corroso anche l’osso più resistente.
Forse fa parte del destino di alcuni di noi, perdere qualcuno ancora prima di averlo.
Perché forse non l’aveva mai avuto, forse non era mai stato suo.
La vita l’aveva strattonato lontano da lei e lui si era lasciato trasportare senza porre alcun freno. Era stato sospinto via dalla marea degli eventi, ma a quanto pare sapeva nuotare.
Lei, invece, in quella marea ci stava affogando.


Mimi Tachikawa osservava la sua migliore amica da lontano con il cuore contratto.
Era in ritardo di qualche minuto al loro appuntamento ma quando l’aveva vista con quella espressione sul viso, ebbe ancora una volta la certezza di quello che nessuno aveva il coraggio di dire ad alta voce: Sora Takenouchi stava sopravvivendo e basta.
Facendosi coraggio –perché Mimi non poteva permettersi altrimenti davanti a lei,- le si avvicinò sfoderando uno dei suoi sorrisi.
- Ehilà, scusa il ritardo. Il prof mi ha trattenuta un po’ di più, - esordì schioccandole un sonoro bacio sulla guancia.
Vide che il velo opaco sui suoi occhi si dissipava ed anche Sora le sorrise. – Quindi il progetto è passato? – chiese poi.
Mimi sospirò contenta. – Con il massimo dei voti! – esclamò, ed allora l’altra si sporse verso di lei, abbracciandola.
Sora le stava raccontando la sua giornata in Facoltà, e la Tachikawa l’ascoltava attenta, ma non poteva non pensare con un misto di struggimento a quello sguardo che poco prima del suo arrivo aveva dipinto in viso.
Lo sguardo di chi vive nel passato.


Dall’altro lato di Tokyo, sull’isola di Odaiba, un ragazzo si era appena svegliato.
L’orologio segnava quasi le due del pomeriggio.
Aveva i capelli castani in uno stato ribelle e alcune ciocche gli ricadevano sul viso infastidendo le sue iridi dello stesso colore della folta chioma.
La testa gli pulsava in modo ininterrotto e scendendo dal letto barcollò pericolosamente verso il pavimento. Inciampò in alcune bottiglie di vetro vuote sparse per la stanza e, con non poche difficoltà, raggiunse finalmente il bagno.
Afferrò il pacchetto di sigarette logoro che giaceva abbandonato a terra e si ficcò una sigaretta in bocca. Si tastò le tasche dei jeans che non si era tolto per dormire e prese l’accendino.
Aspirò la prima boccata di nicotina; poi, finalmente, alzò lo sguardo.
Lo specchio di fronte a lui era rotto in un angolo e riverberi simili a esili rami partivano da quel punto, diramandosi come vene su tutta la liscia superficie, restituendogli un’immagine del suo viso distorta.
Anzi no, a pezzi.
Proprio come era in realtà.
Taichi Yagami era uno specchio rotto, un giradischi datato che graffiava i vinili invece di accarezzarli dolcemente: era un’anima rotta.
Fumò la sua sigaretta velocemente e poi si sciacquò la faccia.
Rimase con le mani poggiate sui bordi del lavandino e lo sguardo basso. Gocce d’acqua cadevano tintinnando ma lui rimaneva immobile.
I raggi del sole d’estate entravano prepotenti dalla finestra in fondo del suo bagno, toccando i mobili,le piastrelle azzurre e alcuni vestiti sparsi sul pavimento.
Taichi Yagami era diverso.
Taichi Yagami era cambiato.
Ma se c’era lei.
L’unica che riusciva a farlo sentire ancora inesorabilmente, completamente vivo.


Giardino zen di Ryoan-ji, Kyoto
Hikari Yagami sedeva indossando un tradizionale kimono giapponese su uno dei numerosi futon presenti nel Shisen-do*
Il silenzio sovrastava ogni cosa in quel luogo. Aveva tra le mani minute una tazza di the verde bollente che sorseggiava piano.
Di fronte lei, uno dei maestri del tempio la osservava.
Si recava in quel luogo ogni giorno da ormai qualche mese. Si era offerta per dare una mano nella sua gestione ed il maestro aveva accettato subito: quella ragazza era piena di dolore e lì avrebbe potuto imparare a conviverci.
Quando andava via, sull’uscio l’aspettava sempre un ragazzo con una zazzera di capelli biondo cenere e degli occhi azzurro cristallo.
Le dava un bacio sulla fronte e le prendeva teneramente la mano, guidandola giù per le scale.
Parlava poco, Hikari.
Continuava a bere con il capo basso ed il maestro distolse lo sguardo da lei per poggiarlo fuori, sul giardino. Quella mattina le aveva dato per la prima volta il compito di comporlo lei stessa, disponendo la ghiaia e le rocce come credeva.
Non si stupì del disegno che aveva creato.
- Hikari -.
La ragazza alzò immediatamente lo sguardo su di lui. – Maestro?-
Lui si alzò, le mani congiunte dietro la schiena arcuata dal peso degli anni. – Le rocce, Hikari. Sono una sull’altra -.
Nel silenzio totale il sospiro della giovane Yagami si perse nell’aria. – Si -.
Sapeva bene quello che in realtà il maestro voleva dirle. Le rocce, infondo, erano il simbolo del cuore e della mente.
- Devi imparare a convivere con il tuo spirito. Cuore e mente sono parte di noi, crescono su un equilibrio fragile. Se, come le rocce che tu stessa hai disposto, sono messi uno sull’altro, sai cosa può succedere?-
Hikari posò la tazza a terra e si alzò, raggiungendo il maestro in piedi davanti al giardino.- Possono crollare-.
Lo vide annuire, in silenzio. – A domani, giovane Hikari -.
Si salutarono con il tradizionale inchino ed il maestro si ritirò.
La ragazza mise via la sua tazza ormai vuota, indossò dei pantaloni decisamente più comodi del kimono e si avviò verso l’uscita. Puntuale come ogni giorno, Takeru l’aspettava.
Stavano insieme da quasi due anni ormai, ma ugualmente non riusciva ad impedire alle sue guance d’imporporarsi ogni volta che lui la fissava.
Le posò un bacio tra i capelli ed uno lievissimo sulle labbra.
Hikari sorrise, poggiandosi a lui e lasciandosi abbracciare.
Quella giornata era stata piena.
- Come stai oggi? – le chiese il ragazzo mentre la stringeva tra le braccia.
Takeru la sentì quasi trattenere il respiro a quella domanda. Poco dopo espirò, e alzò il viso sul suo. – Ora meglio-.
Si avviarono giù, dove avrebbero preso la motocicletta del ragazzo che li avrebbe portati nel vecchio appartamento della madre di lui.
Mentre sfrecciavano per le strade di Kyoto –braccia esili di Hikari totalmente a circondare il torace del biondo compagno-, il vento d’estate le sferzava i capelli e la Yagami chiuse gli occhi.
Dietro le palpebre rivide sé stessa l’anno prima a cavallo di una moto più grande e alla  sua guida…
Ogni volta pensarlo era una sofferenza troppo grande ed insieme infinita vergogna.
Aumentò la presa delle braccia e sentì Takeru decelerare un poco ma senza fermarsi.
Alla guida di quella moto l’anno prima c’era suo fratello Taichi che rideva delle sue espressioni impaurite vista la velocità con la quale fendevano le strade notturne di Tokyo.
Non era riuscita a salvarlo, pensò Hikari. Non ci era riuscita e lui alla fine l’aveva cacciata via dalla sua vita, un po’ come aveva fatto con tutti gli altri, decidendo di convivere col suo senso di colpa e nient’altro.
Lavorare al tempio la calmava, stare con Takeru era l’unica cosa che le impediva di sprofondare completamente.
Ma i ricordi non si arginano né poteva cancellare l’immagine di suo fratello ubriaco, drogato o chissà cosa che rientrava a casa la mattina con gli zigomi viola.
E solo. Inesorabilmente solo.
Quelle rocce una sull’altra presero posto nei suoi pensieri ed Hikari le avvertì una ad una, indistintamente e ruvide, sulle sue spalle.









SPAZIO AUTRICE:
* Esempio di Shinsen-do: http://gallery.photo.net/photo/14452433-lg.jpg (fonte Google)
Ecco a voi il secondo capitolo, come promesso ho aggiornato abbastanza in fretta.
Giusto due parole in croce e corro via.
Entrano in scena Hikari e Takeru e la trama si complica un po’, ma qualcosa si sta smuovendo. Come sempre spero di sentirvi, per il terzo capitolo ci sarà da pazientare un po’: è concluso ma ho l’ultimo esame a giorni e non posso proprio rifinirlo come vorrei.
Alla prossima,
Sabrina



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Capitolo 3
*** Candeline ***


 

 

 

You are the hole in my head

You are the space in my bed

You are the silence in between what I thought

And what I said

 

You are the night time fear

You are the morning

When it’s clear

When, it’s over you’ll start

 

You’re my head

You’re my heart

 

Florence and the machine – No light no light

 

 

Un solo sasso può dividere un intero specchio, renderlo di minuscole schegge che prima facevano parte di un’unica superficie liscia e che invece dopo quell’unico lancio, quell’unico forte impatto, era cambiata per sempre.

Non puoi tentare di rimetterne a posto i pezzi, non puoi fare proprio un bel niente.

La soluzione c’è, è una sola: comprare un nuovo specchio.

 

 

Era il finire del ventitreesimo giorno di luglio.

Un tramonto rosso sangue si perdeva dietro l’orizzonte del grande parco di Hikarigaoka, dal quale Sora lo stava osservando rapita.

Osservava i bambini giocare tra l’erba e le mamme chiacchierare tranquille. La vita nel suo vecchio quartiere scorreva come sempre.

Guardò l’orologio. Stava aspettando Joe che si era appositamente liberato prima dai soliti impegni universitari per aiutarla a rifinire le ultime cose per la sua festa.

Perché tra qualche ora Sora avrebbe compiuto ventitré anni.

L’idea della festa era stata di Mimi ovviamente. Lei non si era dimostrata né entusiasta né contraria, un po’ come faceva ultimamente. Accettava gli eventi così come la vita li proponeva al suo sguardo.

Vide Joe spuntare dal viale e agitare un braccio in segno di saluto. La sua tracolla trasbordava di libri mentre lui quasi cadeva in una rientranza del terreno.

- Scusa il ritardo, dannata metropolitana – esordì trafelato, gettandosi sulla panchina accanto a lei.

Sora gli sorrise. – Tu e la metro di Hikarigaoka non andate molto d’accordo*-.

Joe scosse il capo. –Direi proprio di no. Allora, dovrebbe essere tutto pronto e la torta arriverà alle 23.00 in punto. A te sta bene?-

La ragazza sospirò, tornando a guardare davanti a sé. Improvvisamente si era scurita e Joe si rese conto tardi del perché.

- Sora…- mormorò.

- Si Joe, è davvero perfetto. Anzi grazie per l’aiuto che mi stai dando, sul serio- si voltò a guardarlo e poggiò una mano sul suo ginocchio, stringendolo in segno di riconoscenza.

Ripresero a parlare, ma il ragazzo capì bene dove la mente della sua amica si trovasse in quel momento.

Era lontana di un anno, quando nella sua vita c’era ancora l’unica persona che avesse mai amato e che probabilmente avrebbe amato fino alla fine.

Scava come le onde del mare sugli scogli, man mano che avanza la terra si ritrae sempre più. Corrode, il passato, corrode fino in fondo in silenzio, avanza strisciando come la marea di notte.

 

 

Rewind

 

24 Luglio, un anno prima.

Ventidue candele accese davanti a lei le restituivano immagini in penombra dei suoi più cari amici pronti a festeggiarla.

“Il desiderio mi raccomando!” esclamò Mimi sovrastando le voci degli altri e facendola ridere.

Il suo sguardo era calamitato in quello di Taichi, proprio di fronte a lei, che la guardava con una scintilla – la solita, mai sopita scintilla- divertita negli occhi mista ad un senso di pienezza che solo lui le dava.

Mentre le ultime note dell’improvvisata canzoncina augurale finivano, la festeggiata pensò a quel pomeriggio, quando aveva fatto l’amore con lui in camera sua, in silenzio e sospirando.

Quel ti amo sempre impacciato nonostante quasi gli otto mesi di coppia fissa, era stato il regalo più bello.

Quando soffiò le candeline, Sora aveva solo una cosa da desiderare: che tutto quello non cambiasse mai.

 

 

Play

 

Non era stata accontentata.

Solitamente, dimenticava presto i desideri espressi al momento del soffio delle candeline ma quell’anno era diverso.

Quando tutto era crollato, si era sentita quel desiderio marchiato a fuoco sulla pelle come indelebile segno dell’egoismo del tempo.

A volte le mancava come manca il respiro sott’acqua.

Era una sensazione avvolgente, all’inizio: si sentiva intorpidita, intontita, inconsapevole della realtà. Poi tornava la mente, tornavano i sensi, tornava il dolore e l’asfissia.

Si aggrappava a ciò che le rimaneva con le unghie, se lo faceva bastare perché cazzo, aveva ancora chi le voleva bene.

L’aveva rivisto.

Non era quello il vero problema: i problemi venivano dopo. Si ripresentavano sottoforma di sensazioni che la facevano oscillare da stati di quieta sopravvivenza di giorno a lucida consapevolezza di notte.

Ne taceva gli aspetti crudi, andava avanti facendo leva su tutte le cose belle che le erano rimaste.

La crepa c’era, la crepa si allargava ma lei continuava a buttarci su l’argilla.

Un anno in più, tra qualche ora.

Un anno in più che l’avrebbe allontanata in modo simbolicamente definitivo da un’età che le aveva fatto solo male.

E’ da egoisti voler cancellare tutto? Da quando lei era diventata così? Preferire di non aver vissuto niente per non avere nostalgia di nulla.

Riemerse dai suoi pensieri e trovò Joe a fissarla in silenzio. Abbassò lo sguardo, sentendosi quasi colpevole.

-Non ti preoccupare- sentì mormorare l’amico, - non puoi controllarti sempre, Sora-.

Lei sospirò e Joe riprese a parlare. – Ho sempre avuto una mente razionale, e questo lo sapete tutti. In ogni situazione mi sforzavo sempre di pensare più al lato pratico che alle implicazioni sentimentali e simili, ma…- fece una pausa, quasi a soppesare le parole, consapevole del loro potere. – Ma quando vedevo quello che condividevate tu e Tai ho messo in discussione più di una volta il mio modo di pensare-, ammise alla fine.

Sora sollevò lo sguardo su di lui, sorpresa. Joe ricambiò la sua occhiata dietro le grandi lenti. Fece un piccolo sorriso. – Non fare quella faccia. Osservarvi per me era… speciale. Non so come, ma faceva sentire completo anche me, faceva sentire completi tutti perché tutti sapevamo che era giusto e…beh, bello-.

Sora allungò una mano sul suo braccio e lo strinse forte. Quelle parole le stavano facendo bene e male allo stesso tempo, ma sentirle da Joe, da una delle persone più sincere e genuine, era qualcosa di prezioso.

-Non so come tu faccia ad andare avanti, anche se il tuo andare avanti è spesso lento e pieno di crepe. Hai vissuto la pienezza e adesso stai attraversando il vuoto ma non ti sei arresa. Hai una grandissima forza dentro di te ed io volevo solo ricordartelo-.

Lo abbracciò di slancio senza pensarci due volte. Sulla sua spalla Joe aveva gli occhi lucidi ma finalmente era riuscito a dirglielo. Sentirsi mormorare nell’orecchio grazie fu la migliore prova di quanto le sue parole fossero riuscite ad arrivare al cuore dell’amica.

 

 

 

Quando Yamato bussò a quella porta, le nocche gli sembrarono roventi già al primo tocco.

Non si aspettava niente, in realtà. Mimi l’avrebbe ucciso se avesse saputo le sue intenzioni per quell’afoso pomeriggio e per questo aveva deciso di tenerla all’oscuro.

Sapeva di trovarlo in casa, a quell’ora non usciva mai, lui. Forse non si era ancora svegliato.

Attese paziente per una manciata di minuti ed infine sentì la chiave girare nella toppa dall’altro lato e la porta si aprì lentamente davanti a lui.

L’interno era buio, non riuscì a distinguere perfettamente i contorni della figura davanti a lui, ma poteva ripercorrerne i tratti ad occhi chiusi per quanto bene lo conosceva.

Conosceva, appunto. Il passato era d’obbligo perché del ragazzo che lo guardava senza battere ciglio non sapeva niente.

Spalancò di più la porta e gli voltò le spalle. Era il suo modo di invitarlo ad entrare.

L’ultima volta che Yamato aveva messo piede in casa Yagami era da poco finito il funerale.

Era tutto perfettamente in ordine, pulito ed incredibilmente immobile.

Tai era in abito formale, in silenzio come sempre in quei giorni, le stampelle vicino a lui e Sora gli carezzava la testa assorta.

Era l’ultima scena che aveva di quella casa, l’unica forse degna di essere ricordata.

Adesso era un posto completamente diverso. Tai aveva acceso la luce, visto che le tapparelle erano tutte serrate e non passava nemmeno un filo di luce e il puzzo di fumo era insopportabile. Lo vide mentre apriva una birra e cominciava a berla, senza nemmeno chiedergli se ne volesse una anche lui. A giudicare dalla quantità di bottiglie sparse sul pavimento, non doveva essere nemmeno la prima.

- Hai intenzione di parlare o sei venuto solo a contare le birre?-

Yamato lo ignorò. – Sai che giorno è oggi-.

Lo sentì ridacchiare. – E allora?-

-Non fare la parte dello strafottente, non freghi nessuno-, gli rispose il biondo puntando gli occhi nei suoi. – E allora potresti anche venire, stasera-.

Tai ricambiò il suo sguardo. – E hai fatto tutta questa strada per venire a dirmi questa stronzata?-

L’altro lo ignorò nuovamente.- Non mi frega se non vuoi farti vedere dagli altri, ma a lei lo devi. E da qualche parte in quello che ti rimane nel cervello, lo sai anche tu-.

Taichi sbatté la birra sul tavolo con violenza e si avvicinò a lui con grandi falcate. In un attimo gli fu addosso, le mani ad arpionargli il colletto della camicia bianca. –E tu chi cazzo sei per venire qui a dirmi cosa devo a chi, mh?-

Yamato ridacchiò sarcastico. Si era immaginato quella reazione, l’aveva vista e affrontata già troppe volte. – Sono lo stupido che crede ancora in te, coglione-.

Nonostante se l’aspettasse, la violenza con cui il pugno di Tai lo colpì sulla guancia lo lasciò tramortito. Non si fece pregare e gli restituì il favore un attimo dopo.

-Che cazzo stai facendo della tua vita, me lo dici?- gli urlava pugno dopo pugno. Tai, sicuramente reduce da una sbronza, sembrava non rispondere a dovere.- Quando la smetterai di accusarti?-, domandò ancora sbattendolo con la schiena contro il muro.

Tai si toccò la guancia e ritrasse subito le dita per il dolore.

Matt si sentiva la faccia scoppiare e le nocche ardere ancora di più. Rimasero fermi uno di fronte all’altro, ansimando, ascoltando solo i respiri della loro rabbia.

-Va via, Matt-.

Forse fu il modo in cui lo disse, sussurrandolo, che colpì Matt dritto al cuore.

Si girò verso la porta e mentre aveva la mano sulla maniglia si fermò, quasi in procinto di dire qualcosa. Avvertì lo sguardo di Taichi sulla sua nuca ma alla fine uscì senza più voltarsi indietro.

 

 

 

 

Si era defilata dalla sua stessa festa con la scusa di andare in bagno. Era andato tutto bene: le risate, la torta… quest’anno niente desiderio.

Il suo pensiero volava agli assenti, li vedeva negli occhi di tutti, quella sera.

La busta da lettera che aveva trovato nella cassetta quando era rientrata a casa pesava più di qualsiasi pietra e forse sarebbe riuscita a colmare la distanza di uno di loro. Recava l’indirizzo di Kyoto e sapeva che a Kyoto risiedevano solo due persone di sua conoscenza.

E lei non la sentiva da mesi.

Tk diceva che stava migliorando, la sua schiena era ormai quasi completamente guarita, nonostante qualche dolore che ogni tanto tornava a tormentarla. Il problema era il resto.

Si sedette sul bordo della vasca e con dita incerte aprì la busta.

Una foto uscì fuori e Sora la prese al volo prima che toccasse terra.

Sorrise.

Ritraeva lei e Hikari qualche anno prima, si abbracciavano sotto il viale dei sakura** fioriti.

Era un giorno qualunque, ricordava quel momento. Erano usciti tutti e tre a fare una lunga passeggiata, per inaugurare quella stagione così magica. Taichi si era fermato all’improvviso, aveva chiesto a sua sorella di passargli la sua macchinetta e click, aveva scattato. Era una foto così genuina e semplice e allo stesso racchiudeva una parte del suo cuore. Lei e Tai non stavano ancora insieme, in quel periodo. Avevano aspettato così tanto e adesso…

Sora sospirò. Girò la fotografia e riconobbe subito la scrittura di Kari.

 

“Buon compleanno, Sora.

Io sono lì, vicino a te, batto le mani mentre spegni le candeline ed esprimi il tuo desiderio.

Sorridi.

A presto,

Hikari”

 

 

Sorridi.

La sensibilità di Kari non smetteva mai di stupirla, anche a distanza.

Un lieve bussare alla porta la riportò alla realtà di colpo, ma non se ne dispiacque. –Arrivo-.

-Apri Sora-, mormorò Mimi e lei avvertì una nota di agitazione nella sua voce.

La padrona di casa infilò la busta nella tasca e si affrettò ad aprire.

La faccia di Mimi parlava da sola. –Cosa…-

-C’è Tai fuori-, sospirò. Vide la sua migliore amica spalancare gli occhi. – Ha un labbro spaccato e un livido enorme sulla guancia. Molto simile a quello che sta sfoggiando Matt stasera-, aggiunse assottigliando gli occhi.

-Vado… vado di là-, mormorò la festeggiata e Mimi annuì senza aggiungere altro.

Quando aveva visto Tai dietro la porta d’ingresso non credeva ai suoi occhi.

Il primo impulso era stato quello di spingerlo via e di piazzargli uno schiaffo. Solo dopo, quando lui aveva alzato la faccia, aveva notato lo zigomo gonfio.

-Non avvisare nessun altro. Mi mandi Sora? Aspetto qui,- aveva concluso guardandola senza espressione.

E per una volta Mimi Tachikawa restò senza parole.

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Note:

* Mi riferisco al noto incidente della metropolitana di Tokyo.

** I sakura sono ovviamente i bellissimi ciliegi giapponesi che fioriscono verso marzo/aprile.

 
SPAZIO AUTRICE:

Ebbene si, in punta di piedi ma sono tornata.

E’ passato più di un anno dall’ultimo aggiornamento, e dire che non era mia intenzione far passare così tanto tempo è superfluo ormai. In questo anno sono successe tante cose, eventi che mi hanno cambiata non so ancora se in bene o in male, altre cose per fortuna positive si che mi hanno aiutata a risollevarmi poco alla volta. Non voglio stare ad ammorbarvi, perciò io vi chiedo scusa per l’attesa e spero che in qualche modo sia riuscita a farmi perdonare con questo capitolo. Ho voluto dare una parte di rilievo a Joe perché ahimè, l’ho sempre bistrattato nelle mie storie e lo sapete. Lo so, è chiuso sul più bello ma non sono riuscita a trattenermi. La storia credo si concluderà prima del previsto, non voglio tirarla per le lunghe anche se non so dirvi ancora bene in quanti capitoli. Spero di ritrovare tutti voi che mi avete sempre seguita.

A presto!

Sabrina

 

 

 

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Capitolo 4
*** Sole ***






Questo capitolo è dedicato a tutti quelli che hanno avuto la pazienza e la forza di continuare ad aspettarlo.




“E ora sto per dirti una cosa, nel caso non la sapessi già: l’amore, quello vero, è sempre letale. Mi spiego meglio: il suo scopo non è la felicità, l’idillio fino a che morte non ci separi, le romantiche passeggiate mano nella mano, sotto i tigli in fiore, attraverso i quali s’intravede la fioca luce del lampione che illumina il portico, finché appare la casa che ti accoglie avvolgendoti con i suoi freschi effluvi… Questa è la vita, non è l’amore. L’amore è una fiamma più sinistra, più tragica. Un giorno si accende il desiderio di conoscere questa passione devastante. […] molti non conosceranno mai un simile sentimento… sono i prudenti: non li invidio”
Sandor Marai, La donna giusta




Una volta a scuola, forse in prima o seconda media, avevano portato la loro classe in gita al planetario di Shibuya. Stavano studiando le stelle e quindi la loro maestra era partita spiegando loro quella più vicina: il Sole.
Sora ricordava l’eccitazione di quel giorno, perché per la prima volta avrebbe osservato attraverso un telescopio. L’addetto che gli accolse, spiegò loro una cosa che Sora non dimenticò, paradossalmente fu la cosa che la colpì di più: non dovevano mai osservare il Sole senza adeguta protezione.
-Perché, anche se lontanissimo da noi, potrebbe quasi bruciarvi gli occhi! Infatti anche quando alziamo gli occhi al cielo ci viene spontaneo riparaci la vista con la mano-.
Sora lo stava ascoltando rapita. E poi Taichi l’aveva tirata per un braccio, mostrandole che la loro maestra aveva beccato di nuovo un loro compagno di classe intento a mangiare cioccolata. Avevano ridacchiato insieme.



Erano passati tanti anni da quel giorno, eppure la questione “Sole” Sora l’aveva scolpita nella mente.
Non riusciva a guardarlo, ecco tutto. Si sentiva in pericolo, voleva una protezione per il suo sguardo, per quello che stava avvenendo dentro di lei
Poteva avvertirlo. Era un po’ come sentire il calore del Sole sulla pelle: sapevi da dove proveniva ma non lo osservavi direttamente. Adesso capiva lo zigomo gonfio di Yamato, lo sguardo preoccupato di Mimi e le sue affermazioni.
-Posso andarmene-.
Un tremito, nella sua voce. Aveva imparato a riconoscerne ogni sfumatura, ogni inflessione.
-Non pensavo che saresti venuto-, ammise.
Sentì un sospiro ironico. –Diciamoche sono stato invitato in maniera abbastanza convincente-.
Solo allora Sora alzò lo sguardo. E fu come guardare il Sole senza nessuna protezione.
Taichi stava guardando lei e lei soltanto e gli occhi profondi e caldi la fissavano dritta in faccia. Erano molto più freddi.
Ha senso?
Possono gli occhi sembrare più caldi o freddi realmente? Non lo sapeva con certezza, ma ciò che vide Sora Takenouchi negli occhi di Taichi Yagami, occhi che da tanto-troppo- tempo non vedeva in modo così diretto, era qualcosa che con il suo Tai c’entrava ben poco.
-Hai incontrato Yamato, vedo- mormorò Sorae davvero non voleva che la sua voce risultasse così bassa. Da quanto tempo non parlavano loro due soli?
Tai esibì un breve sorriso ironico e poi abbassò gli occhi. Frugò brevemente nelle tasche e ne tirò fuori una sigaretta. –Posso?- domandò retoricamente, quando se la ficcò tra le labbra.
Sora sospirò, aggrottando le sopracciglia. Taichi alzò le spalle e l’accese. Indossava una maglia a maniche corte di un bianco sbiadito e un paio di jeans che avevano sicuramente visto giorni migliori.
Ed incredibilmente era Sora a sentirsi a disagio con lui, nel suo vestito blu scuro che metteva in risalto quel poco di colore che aveva preso andando in piscina e i sandali con tacco alto.
Taichi continuava a fumare in silenzio fissando quasi con ostinazione la porta dietro di lei, da dove proveniva il vociare degli altri invitati.
-Dovresti rientrare-
-Ti va di venire di là?-
Si guardarono. Avevano parlato contemporaneamente e Sora, malgrado tutto, si ritrovò a sorridere. Vide Tai deglutire e per la prima volta da quando era entrata in quella stanza, sentì il suo sguardo percorrerla interamente. Si mosse sul posto un po’ imbarazzata.
Imbarazzata davanti a Tai, non essere sciocca, si ripeté mentalmente. Eppure si sentiva, sciocca. Voleva dirgli tante cose, ma le parole sembravano sparite da qualche parte e non riusciva a trovarle più.
-Lo sai che non posso-, le rispose Taichi. Finì la sigaretta e la pigiò nel posacenere lì vicino.
Aprì la bocca per ribattere, forse non sapeva nemmeno lei bene cosa, quando sentirono bussare cautamente alla porta.- Sora?-
Era Mimi. Sora si chiese quanto tempo fosse passato. A lei parevano ore.
-Va tutto bene, arrivo-, alzò un po’ la voce per farsi sentire e poi udì il rumore dei tacchi dell’amica allontanarsi. Non era entrata e per questo si ripromise di ringraziarla. Sicuramente le era costato molto, non aprire quella porta.
-Ti lascio tornare dagli altri, - disse infine il ragazzo.
Sora inspirò. Era come paralizzata, eppure aveva vissuto quel momento nella sua testa così tante volte… non riusciva a fare niente, ogni fibra del suo corpo voleva afferrare Taichi per le spalle e farlo tornare quello di sempre. Farlo tornare da lei. E da loro.
Ma quando vuoi una cosa per così tanto tempo, alla fine quel desiderio è talmente radicato in te che hai paura di muovere un solo passo per realizzarlo davvero.
Taichi le diede le spalle e prima di poggiare la mano sulla maniglia e andarsene lasciò sul tavolo un piccolo pacchetto. Si girò un solo attimo, un solo piccolo sorriso che però non arrivava agli occhi. –Buon compleanno, Sora-.



Aveva appena chiuso la porta che dava sul retro. Solo allora, una volta poggiato al muro di mattoni della piccola villetta a schiera di Sora, Taichi si permise di chiudere gli occhi e liberare il battito accelerato del suo cuore.
Perché cazzo vederla faceva così male?
L’hai voluto tu, suggerì una voce dentro di lui. Era vero. Era dannatamente vero. Ma era anche giusto.
-Se stai pensando di fumarti una delle tue orribili sigarette, potresti offrirmene una-.
Taichi sobbalzò. Guardò alla sua sinistra e assottigliò gli occhi per vedere la sagoma di Yamato seduta nell’ombra con un bicchiere in mano.
Sbuffò, mentre lo vedeva avvicinarsi in silenzio. Si poggiò al muro accanto a lui, senza dire altro. Il castano gli allungò il pacchetto e Ishida ne prese una, avvicinando il volto alla fiamma che Tai gli porgeva, mentre a sua volta ne accendeva un’altra.
-Non mi abituerò mai a vederti fumare, Yagami- gli disse, mentre tirava il primo tiro storcendo la bocca. No, non gli piaceva proprio quella roba.
-Se è per quello, non fa proprio per te Ishida- ribatté l’altro.
-Hai dannatamente ragione. E mi fa anche schifo-.
-E allora perché me l’hai chiesta?- insisté Tai, guardando fisso davanti a sé.
Era strano, stare lì con quello che era stato il suo migliore amico per tutta la sua vita –ed infondo, molto infondo Tai sospettava che lo fosse ancora-. Era strano sì, ma strano in un modo giusto.
-Perché- cominciò Yamato- perché a volte si fanno stronzate, ma si può decidere di smettere.-
Taichi ridacchiò.- Sempre con queste frasi a metà, tu-.
A quel punto il biondo si voltò a guardarlo dritto in faccia. Lo zigomo viola lo fece quasi sorridere, déjà-vu. -E tu sempre sordo da non riuscire ad ascoltarle?-  
Il ghigno sul viso dell’altro si disperse immediatamente. Finirono in silenzio di fumare, i grilli cantavano placidi e le risate dentro proseguivano indisturbate.
-Come sta?- mormorò Tai.
-Potresti riferirti a più di una persona. Sii più specifico, - rispose Yamato lasciando andare la testa all’indietro. Sembrava un gesto così stanco.
Tai strinse le labbra in una linea sottile.- Lei l’ho appena vista. Lo sai a chi mi riferisco-.
Yamato gettò la sigaretta e si voltò a guardarlo per un’ultima volta prima d’imboccare il viale verso la porta. –Tua sorella sta meglio fisicamente. Ma sai che a volte questo non basta-.
-Non ho bisogno di un’altra lezione di morale da te,- rispose duro Taichi.
-Oh,- ridacchiò ironico l’altro. – Lo credo anche io. So che hai bisogno di tutti noi, so che hai bisogno di loro due. Quando deciderai di esserti punito abbastanza però potrebbe essere troppo tardi-.
Le ultime parole Yamato le pronunciò con un tono di voce più alto perché a quel punto Tai stava andando via con ampie falcate.
Scosse la testa e il rombo del motore della sua moto coprì il tonfo della porta che si chiuse con forza alle spalle.



Quando andarono via tutti quella sera, Sora si ritrovò a fissare il pacchetto che aveva lasciato sul suo comodino col cuore in gola.
Mimi e gli altri l’avevano aiutata a rassettare tutto. Avevano tentato di tenerle su il morale, per quanto possibile, proprio fino alla fine. Con la sua migliore amica non aveva ancora parlato. Quando era rientrata, Mimi le aveva lanciato uno sguardo carico d’apprensione ma lei aveva annuito, con un piccolo sorriso. Stava bene, -più o meno- poteva resistere ancora e l’indomani avrebbero parlato.
Sulla porta, l’avevano tutti stretta, e poi era successo: Matt l’aveva abbracciata. Era stata una cosa così strana che anche Mimi ne rimase sorpresa. In rare, rarissime occasioni  Yamato Ishida si lasciava andare a manifestazioni d’affetto così plateali davanti ad altre persone. Joe e Izzy si scambiarono un’occhiata, complici. Un’oretta prima l’avevano uscire fuori in giardino e l’avevano anche seguito con lo sguardo quando era rientrato tutt’altro che calmo. La ragione poteva essere una sola, anzi una sola poteva essere la persona ad avergli scatenato una reazione del genere.
Poco prima di sciogliere l’abbraccio, Yamato le aveva sussurrato qualcosa all’orecchio. Qualcosa che Sora sapeva costargli molto. –Resisti-, le aveva detto.
E Sora onorò quel consiglio, quando si fece forza e finalmente aprì il pacchetto improvvisato che le aveva portato Taichi.
Coraggio. Tai le aveva regalato il suo digimedaglione e la sua annessa digipietra. Era un regalo o una resa? La ragazza sperò nella prima ipotesi, ma dentro di lei sapeva che la vera ragione era la seconda. A Sora tremavano le mani quando lo prese tra le dita. Non brillava più, così come gli altri. Ma forse a causa della suggestione o forse perché il suo proprietario era cambiato così tanto, i colori di quello sembravano ancora più spenti. Chiuse gli occhi, portandoselo al petto.
Sì, forse Taichi non credeva più nel suo coraggio. Ma di certo c’erano altre sette persone disposte a farlo per lui.




A qualche chilometro di distanza, il ragazzo castano ballava sotto le luci stroboscopiche senza guardare realmente nessuno. Aveva bevuto e finalmente la testa aveva smesso di pulsargli. Una ragazza al bancone, di spalle a lui, lo fece bloccare un attimo. Ma poi si voltò e lui si maledisse. Sora probabilmente stava già dormendo. O forse aveva già lanciato contro il muro il suo fottuto digimedaglione. Si sentì tirare per un braccio ed una ragazza del suo nuovo gruppo gli sorrise, maliziosa.
Dopo di che, Taichi Yagami non pensò più a niente.





SPAZIO AUTRICE:

Sedici Settembre 2014 recita l’ultimo aggiornamento di questa storia e quando qualche giorno fa l’ho letto sono rimasta quasi shockata. Così tanto tempo? Ma dove sono finiti tutti i giorni in mezzo?Sono stati anni davvero assurdi, per me. Ma le mie beghe personali dubito v’interessino perciò passo oltre.
Bentornati a tutti -sempre se qualcuno avrà avuto il coraggio di arrivare fino alla fine di questo capitolo. Sinceramente, pubblicare un nuovo tassello di questa fan fiction mi trasmette ansia perché non scrivo di loro da così tanto tempo ed ho paura di averli allontanati da me, tutti quanti. Ma non riesco a lasciarli andare, per fortuna o sfortuna ancora non l’ho capito. Starà a voi giudicare, come sempre. Come avrete notato, per la prima volta(credo) in una delle mie storie la vera storia è parte integrante di essa. Non me la sono sentita di escludere Digiworld, stavolta anche se i riferimenti saranno sempre al passato, come un’esperienza della loro infanzia chiusa e finita ma che ovviamente li ha segnati tutti.
Spero di ritrovarvi perché, sarò sincera: mi siete mancati.
Alla prossima e mi auguro che il quinto capitolo giunga decisamente più in fretta.

Ps. Il titolo del capitolo, oltre che al chiaro riferimento dell’inizio con la lezione di astronomia, richiama anche la fine. Che simbolo c’è sulla digipietra di Taichi?
Pss. Un ringraziamento speciale va a eleCorti. Spero di aver onorato la tua pazienza.
Sabrina



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