Slayers

di Himenoshirotsuki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Act. 0 - Rain ***
Capitolo 2: *** Act. 1 - First Hunt ***
Capitolo 3: *** Act. 1 - Sweet Mayor ***
Capitolo 4: *** Act. 1 - Headache ***
Capitolo 5: *** Act. 1 - Justice, Abraham Justice ***
Capitolo 6: *** Act. 1 - Investigation ***
Capitolo 7: *** Act. 1 - Faith ***
Capitolo 8: *** Act. 1 - ###yman ***
Capitolo 9: *** Act. 1 - Sunday without God ***
Capitolo 10: *** Act. 1 - New Entry ***
Capitolo 11: *** Act. 2 - New Task ***
Capitolo 12: *** Act. 2 - Details ***
Capitolo 13: *** Act. 2 - Secrets ***
Capitolo 14: *** Act. 2 - Newbie's Luck ***
Capitolo 15: *** Act. 2 - Chasterm ***
Capitolo 16: *** Act. 2 - The Medium ***
Capitolo 17: *** Act. 2 - Past ***
Capitolo 18: *** Act. 2 - Fairyland ***
Capitolo 19: *** Act. 2 - Riddle ***
Capitolo 20: *** Act. 2 - Lehcar ***
Capitolo 21: *** Act. 2.1 - Old Friend ***
Capitolo 22: *** Act. 2.1 - The Druid's Heart ***
Capitolo 23: *** Act. 2.1 - Yule ***
Capitolo 24: *** Act. 3 - The Ancient ***
Capitolo 25: *** Act. 3 - Blood for Blood ***
Capitolo 26: *** Act. 3 - A Promise to Remember ***
Capitolo 27: *** Act.3 - Patriotic Games ***
Capitolo 28: *** Act. 3 - Choice ***
Capitolo 29: *** Act. 3 - Flight ***
Capitolo 30: *** Act. 3 - The Last Goodbye ***



Capitolo 1
*** Act. 0 - Rain ***


 

Slayers 
Act. 0 - Rain




Pioveva, ma in quella cittadina dimenticata da Dio non era un evento raro. Se eri fortunato, era una pioggia leggera, di quelle piacevoli che ti lavavano via di dosso il sudore e la stanchezza; nella peggiore delle ipotesi era un violento temporale, con gocce gelide e pungenti come spilli acuminati che ti si conficcavano nella carne. Quel giorno, però, pioveva e basta, né troppo forte né troppo piano, una cosa a metà, per questo ancora più fastidiosa.
Maxwell si strinse nel mantello zuppo e alzò lo sguardo verso il cielo, osservando la spessa coltre di nubi con aria scettica. I suoi sensi da lupo non funzionavano bene con la pioggia e ciò contribuiva a renderlo di cattivo umore. Si calò meglio il cappuccio sulla testa e riprese a camminare. 
Nell'aria riecheggiò il fragore di un tuono. Le poche persone che erano ancora in strada affrettarono il passo, rifugiandosi sotto le tettoie delle botteghe e delle case o direttamente dentro qualche taverna.
Non appena si avvide d'essere solo, Maxwell si accostò al muro di un palazzo per trovare riparo. Il freddo gli era ormai entrato nelle ossa, tanto che avrebbe desiderato andare a riscaldarsi in un luogo chiuso, possibilmente davanti a un bel fuoco, ma non poteva: il suo aspetto lo avrebbe fatto cacciare da qualsiasi osteria o salotto in meno di un secondo. Si abbassò il cappuccio e scrollò le orecchie pelose. Per un attimo ponderò l'idea di lasciar libera anche la coda, ma sapeva perfettamente che ciò avrebbe significato togliersi il soprabito e quindi rivelare a tutti la sua vera natura. E no, non voleva che qualcuno scoprisse che era un Lycan e gli piantasse una pallottola in fronte. Sospirò, sistemò l'ascia che portava sulle spalle e slacciò le cinghie che tenevano legata la balestra, per poi lasciarsi scivolare seduto a ridosso del muro. Non sapeva quanto sarebbe dovuto rimanere lì, quindi era meglio mettersi comodi. Non che stare seduti su quell'acciottolato fangoso corrispondesse esattamente alla sua idea di comodità, ma non aveva intenzione di bagnarsi ulteriormente. Sperava di riuscire a compiere la sua missione prima del calare della sera, così da rimettersi in marcia il giorno stesso, ma a giudicare dalle condizioni atmosferiche probabilmente sarebbe stato costretto a soggiornare lì più a lungo del previsto. Sospirò nuovamente e cercò di ricordare quante monete si fosse portato dietro. Forse ne aveva a sufficienza per almeno una notte. Dopo la missione ne avrebbe ricevute altre cinquecento. 
Quando la Dogma gli aveva affidato quell'incarico, non aveva potuto fare a meno di storcere il naso. In teoria era una missione facile, non prevedeva la caccia di nessun mostro, ma il semplice recupero di “un membro importante per la nostra organizzazione”. Il problema consisteva nel “dove” doveva recuperarlo, una città con un clima di merda un giorno sì e l'altro pure. Maxwell aveva tentato in tutti i modi di fare cambio con qualche altro Slayer, ma stranamente sembravano tutti impegnati quella settimana. Non se n'era stupito più di tanto, ma lo infastidiva enormemente che fosse stato scelto proprio lui per andare a Hambleden. Avere per buona parte l'aspetto di un lupo poteva avere i suoi vantaggi durante la caccia, ma per qualunque incarico che esentasse da questo ambito lui non era particolarmente idoneo. D'altronde i piani alti della Dogma erano famosi per il loro umorismo, alquanto discutibile per molti dei dipendenti.
Schioccò la lingua e si accese una sigaretta. L'odore del tabacco gli penetrò nelle narici e gli invase il petto, tranquillizzandolo. Come ogni volta, rimase immobile ad osservare il fumo che si trasformava in morbide spirali, per poi disperdersi senza lasciare traccia.
Intorno a lui regnava un silenzio tombale. Sul ciglio della strada, più avanti, c'era qualche puttana che si guardava intorno annoiata, consapevole che la sua attesa non sarebbe stata ripagata. Ogni tanto il rumore dello scoppio di un motore sovrastava lo scrosciare della pioggia e una macchina attraversava la via appestando l'aria del puzzo di combustibile. Non che Hambleden e tutte le città della contea di Merthindam fossero particolarmente popolose. 
Guardò distrattamente il riflesso dei palazzi fatiscenti nelle pozzanghere che si erano formate in mezzo alla strada e sputò fuori un'altra nuvola di fumo.
Circa cinquant'anni prima tutto il mondo era stato investito da una rivoluzione industriale che lo aveva completamente cambiato. I boschi e le sterminate foreste erano state abbattute per far posto a grandi metropoli, dove si ammassavano case e fabbriche d'ogni tipo, mentre i vecchi sentieri erano stati soppiantati da chilometri e chilometri di rotaie, su cui viaggiavano i treni che collegavano le città più lontane. L'industrializzazione aveva invaso il presente, catapultando il mondo in un'era dove i cieli erano sorvolati da aeronavi e grigi dirigibili, costruiti grazie alla fusione delle nuove tecnologie con la magia. Quasi tutte le contee avevano accettato quel nuovo, prodigioso cambiamento, tutte salvo Longlesh, Corkia e Merthindam.
Appellandosi ai movimenti anti-industriali, i sindaci avevano limitato, se non addirittura proibito, qualunque forma di tecnologia sul loro territorio. Perciò le città che avevano rifiutato l'avanzare del progresso erano accomunate dal degrado e dalla povertà, quasi totalmente escluse dai commerci e lontane dalla civiltà. La popolazione viveva di stenti, nella costante paura dei mostri che abitavano le foreste nei dintorni, e la tecnologia era un bene costoso ed elitario, che solo pochi potevano permettersi. Non era strano, quindi, che la maggior parte delle richieste d'aiuto che arrivavano alla Dogma giungessero proprio da una di quelle contee arretrate. Per non parlare della "famosa" gratitudine dei loro abitanti. 
Maxwell si ricordò la fine ingloriosa che aveva fatto uno degli ultimi Slayer che era stato spedito lì in missione, morto ammazzato dagli stessi cittadini che gli avevano chiesto aiuto.
“Io non ho intenzione di crepare e non saranno certo un branco di umani puzzolenti ad uccidermi.”
Fece vagare lo sguardo qua e là per assicurarsi che nessuno lo stesse osservando e con molta attenzione tirò fuori dalla tasca interna del mantello una mappa sgualcita. Studiò la planimetria della città per l'ultima volta e, dopo essersi calato di nuovo il cappuccio sul capo, si alzò. Riprese a camminare per la strada principale, tenendo sempre i sensi vigili per evitare di venire derubato. Superò rapidamente una bottega con il vetro bagnato e sporco di fango e un bordello dall'aria triste che, stando al suo fiuto, ospitava all'interno quattro, forse cinque uomini avvinghiati ai corpi delle loro “intrattenitrici”. Passò di fronte alla finestra, resa opaca dalla condensa e dal divario di temperatura tra fuori e dentro. Lanciò un'occhiata distratta e gli parve di riconoscere il viso di una ragazza che aveva incrociato al suo arrivo. Lei, come se avesse percepito la sua presenza, alzò lo sguardo e per qualche istante i loro occhi rimasero incatenati. Lo Slayer ebbe l'impressione di scorgervi una tacita preghiera di aiuto, poi una mano da uomo artigliò una spalla ossuta della giovane prostituta e la trascinò nella penombra. Maxwell rizzò le orecchie e rimase in ascolto, forse per assicurarsi che non le venisse fatto del male, ma in ogni caso non avrebbe mai ammesso di essersi preoccupato per un'umana. Udì una sequela di gemiti e lamenti, così distolse bruscamente l'attenzione. Ciononostante, non poté fare a meno di avvertire qualcosa muoversi nel suo petto, un fastidio acuto e immotivato. Scrollò la testa con veemenza e si allontanò. Dopo un po' si fermò appoggiato a un palo e attese che quella strana sensazione passasse. Strinse i pugni più volte, prendendo dei respiri profondi e cercando di regolare il battito cardiaco, accelerato per la rabbia. Irritato, sputò per terra e chiuse gli occhi. Lui era uno Slayer, un cacciatore di mostri, non certo l'eroe delle puttane o di poveri contadini. Non aveva alcun obbligo verso gli esseri umani, anzi, preferiva evitare qualunque contatto. Se quella donna avesse potuto pagarlo, forse l'avrebbe aiutata, ma nemmeno vendendo i suoi stessi organi avrebbe potuto permettersi i servigi di uno come lui.
Erano passati più di sei anni da quando aveva terminato l'addestramento sul monte Mohor e aveva bevuto l'Essenza dell'Anima, eppure spesso si sorprendeva ancora a provare emozioni umane. Quell'intruglio che gli avevano somministrato, un misto di farmaci e sangue di creature mostruose, le stesse che aveva il compito di sterminare, avrebbe dovuto renderlo una fredda macchina da guerra. Tuttavia, qualche residuo della sua parte umana aveva resistito e tornava a pungolarlo nelle situazioni più inopportune, specialmente mentre stava lavorando, e la cosa lo imbestialiva come non mai. Fosse stato per lui, si sarebbe fatto sostituire tutti gli organi con quelli di un Lycan, compreso il cervello e il cuore, ma era ben conscio delle terribili conseguenze a cui sarebbe andato incontro se avesse ceduto. Rabbrividì e si esibì in una smorfia disgustata.
Arrivò alla piazza principale e si fermò davanti alla sua destinazione; una chiesa, corrosa per buona parte dall'usura del tempo e delle piogge, si stagliava contro il cielo in una silenziosa sfida a Dio. Dei pilastri che scandivano la facciata ne rimanevano in piedi soltanto due, simili a dita scheletriche di cadaveri putrefatti. L'acqua scorreva tra i contrafforti coronati da guglie marmoree e sui resti di tre enormi finestre con nervature sinuose ed eleganti.
Al centro, le gocce di pioggia correvano sulle schegge colorate di un antico rosone, mentre una croce solitaria si ergeva sulla cupola centrale. Maxwell rimase incantato a contemplarla per alcuni istanti, poi si avvicinò al portone di legno marcio e bussò. Il suono cavo prodotto dalle sue nocche riecheggiò in maniera inquietante e per cinque minuti abbondanti non udì nulla a parte lo scrosciare della pioggia. Poi il silenzio fu spezzato da passi concitati e sulla soglia apparve una donna avvolta in una pesante tunica nera e la testa coperta da un velo bianco.
- Desidera? - 
- Sono qui per quella cosa. - rispose vago, ma la suora afferrò subito il sottinteso.
Lanciò un'occhiata in tralice alla spilla che Maxwell portava sugli abiti al di sotto del mantello, un oggetto con sopra inciso un grifone, simbolo della Dogma, ma non si scompose.
- Mi è concesso vedere il suo volto? -
- Non le bastano i miei occhi? -
Evidentemente le era stato ordinato di non far entrare nessuno a parte colui che stavano aspettando.
Maxwell sospirò e tirò giù il cappuccio. Si passò le mani tra i capelli neri, liberando le orecchie da lupo, poi sorrise mostrando una chiostra di denti acuminati. Si compiacque del pallore che adesso la donna sfoggiava sul viso. Farle vedere le zanne in realtà non era necessario, sarebbe bastato piantarle addosso le iridi gialle, ma provava un insano piacere a scorgere la paura negli occhi di quegli sciocchi umani.
- C'è altro? - ghignò.
La donna scosse in fretta la testa e arretrò, dandogli il permesso di entrare. 
- Pr-prego... - balbettò.
Senza premurarsi di rimettersi il cappuccio, Maxwell fece il suo ingresso nella chiesa.

A Hambleden lo scorrere dei secondi, dei minuti e delle ore non aveva la stessa importanza che in qualunque altro luogo. Gli abitanti, le case, persino l'aria stantia di quella cittadina sembravano non risentire dell'effetto del tempo. Si aveva come l'impressione che tutto fosse immobile, soggetto ad un'eterna stasi che sapeva di morte.
Quando Maxwell uscì dalla chiesa non seppe quantificare quanto fosse rimasto dentro. La pioggia continuava a cadere imperterrita come quando era entrato e per le strade non c'era anima viva. Il freddo gli penetrò di nuovo sotto il mantello e si maledì per non essersi portato dietro nemmeno un panno per asciugarsi. Irritato più di prima, strinse con fermezza il fagotto che aveva tra le braccia. Aveva portato a termine la missione e recuperato il bambino, ma ora doveva trovare un modo per tornare alla Dogma in fretta. Il pensiero delle leghe che avrebbe dovuto percorrere accrebbe il suo fastidio, tanto che si ritrovò a sbuffare scocciato ogni due passi. Il fagotto si dimenò e una manina rosea sbucò da quell'involto di panni luridi. Il cacciatore rivolse un'occhiata distratta al piccolo: aveva un paio di occhi di un verde intenso e un accenno di capelli rossi che gli conferivano un'aria birichina. Qualcosa gli suggerì che quell'esserino non gli avrebbe reso la vita facile, ma non lo avrebbe abbandonato. Non sapeva perché la Dogma fosse interessata ad un neonato e in quel momento, per la prima volta, si pentì di non averlo domandato.
- Ti conviene non metterti a frignare durante il tragitto, altrimenti Dio solo sa a che belva ti darò in pasto. -
Il bambino socchiuse appena le palpebre ed emise un vagito. Maxwell inclinò la testa e, senza rendersene conto, l'ombra di un sorriso si dipinse sulle sue labbra.

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Capitolo 2
*** Act. 1 - First Hunt ***


Slayers
Act. 1 - First Hunt




I riflessi sanguigni del sole inondavano la pianura e alcuni timidi steli d'erba, scampati alla gabbia della neve, si ondeggiavano mossi dal gelido vento invernale. Mai, in vent'anni di vita, Alan aveva visto un cielo così azzurro in quella regione inospitale e fredda. Lasciò vagare lo sguardo su quella distesa bianca punteggiata da vivide macchie verdi. L'inverno era ormai alle porte, ma la natura quest'anno non sembrava intenzionata a lasciare il passo al ghiaccio e alle tormente, nonostante la nevicata della sera prima avesse già imbiancato il paesaggio. 
Tirò le briglie e condusse il cavallo attraverso l'entrata Nord della città. Le due guardie poste ai lati delle enormi colonne di pietra lo squadrarono da capo a piedi, ma Alan sapeva che a Westmoth gli stranieri non erano visti di buon occhio e non ci dette peso. Si strinse il mantello nero attorno alle spalle e passò oltre gli sguardi ostili dei due soldati. Non appena si fu allontanato abbastanza, si guardò intorno, cercando di capire dove doveva andare. 
Nonostante fosse tardo pomeriggio, la città era stranamente silenziosa. Le poche persone che incrociò lo ignorarono continuando a camminare a testa bassa. Alcuni garzoni erano intenti a sgomberare le strade dai tendoni e dalle bancarelle del mercato. Il malinconico miagolio di un gatto gli giunse alle orecchie, poi il silenzio avvolse nuovamente le vie di Westmoth. Alan rimase qualche minuto ad osservare l'operato dei ragazzi, godendosi quella calma assoluta dal sapore così familiare. Accarezzò la criniera del suo cavallo, riflettendo su quanto poco il tempo avesse influito sulla città che l'aveva visto crescere, quasi che quell'ammasso di case fatiscenti fosse immune a qualsivoglia cambiamento. Scosse la testa e scacciò quei pensieri troppo filosofici dalla sua mente.
Quando l'ultimo barile di vino venne caricato sui carri, Alan tirò le briglie di nuovo e si diresse verso un vicolo alla sua destra. Il giorno aveva già ceduto il passo alla notte e la luce spettrale della luna illuminava appena le strade della città. Le guardie si affannarono ad accendere le torce, ma l'oscurità in alcuni punti era più densa dell'inchiostro. Mentre procedeva sull'acciottolato, Alan alzò gli occhi al cielo, osservando le stelle. La luce di un lampione solitario si rifletté sui suoi capelli, donando alle ciocche rosse e argentee dei riflessi aranciati, simili a quello dei cavi di rame. 
Si fermò davanti all'insegna di una locanda, la “Dama di Corte”, e ascoltò il brusio delle voci al suo interno. Come ben ricordava, a quell'ora era sempre gremita di gente, tra soldati, mercanti e cittadini, tutti riuniti lì a discutere e rilassarsi dopo una giornata di duro lavoro. Sentì la voce di Mama Yaga, la proprietaria, che sbraitava ordini ai camerieri sovrastando di almeno tre ottave quel vociare allegro, condito dallo scalpiccio dei piedi degli uomini alle sue dipendenze e dalle battute scurrili del vecchio marinaio Elker. Alan si sporse dalla sella per sbirciare oltre il vetro opaco della finestra, cercando con lo sguardo quel vecchio consumato da una vita trascorsa in mare, dalla pelle color cuoio e i denti marci. Si vantava di aver ucciso un kraken quando era giovane e raccontava che era stato proprio quel mostro a portargli via la gamba sinistra. Era la storia che Alan gli chiedeva sempre di narrare quando era un bambino ingenuo e curioso, anche se non aveva mai creduto all'esistenza di quell'essere leggendario. Un sorriso amaro gli arricciò le labbra.
- Andiamo, Brunilde. Siamo quasi arrivati. - 
La cavalla nitrì e riprese a battere gli zoccoli sul selciato.
Proseguirono fino alla fine della strada, dove si trovava una taverna più piccola e meno accogliente, dal nome “L'aquila fiera”. L'insegna, divorata dalle piogge e dalla ruggine, cigolava mossa dal vento. Le luci all'interno erano soffuse e, a parte lo squittio di qualche topo, non si udiva nessun altro rumore. Ma, d'altronde, con la pessima fama che aveva, era più che normale che fosse vuota. Dopo aver legato il cavallo alla staccionata, Alan entrò. 
Quando la porta si aprì, il suono di una campanella invase l'aria. Il locandiere, un uomo anziano e dalla pancia prominente, alzò lo sguardo dalla pinta che stava pulendo e squadrò il cliente. Aveva un paio di occhi porcini color fanghiglia e la faccia butterata. Alan scommise che l'odore di rancido e merda che inondava il locale non era dovuto solo allo sporco incrostato dei tavoli. Avanzò fino al banco e si sedette sullo sgabello che gli sembrava più pulito.
- Desidera qualcosa? - chiese l'uomo, senza distogliere lo sguardo dalla spada e dalla balestra che Alan portava sulla schiena. 
Un lampo di avidità brillò nei suoi occhi.
- Una birra. -
L'oste sorrise, mettendo in bella mostra i suoi denti guasti. Poi, senza indugio, riempì la pinta che aveva appena finito di asciugare. 
Alan la sorseggiò con calma. Sapeva di piscio.
- Le serve altro? - la voce dell'uomo era diventata melliflua, quasi gentile.
- No, grazie. -
Da fuori, un'ombra coprì la luna e il rumore delle ventole di una mongolfiera si diffuse nella notte. Alan si girò distrattamente e studiò di sottecchi gli altri tre clienti della locanda, che sedevano in silenzio intenti a trangugiare birra dai rispettivi boccali. Aveva avvertito i loro sguardi addosso fin da quando era entrato e non gli era sfuggita l'attenzione che avevano dedicato alle sue armi, così come aveva fatto l'oste.
- Che cosa ci fa uno straniero in questa città sperduta? - continuò l'uomo. 
L'aria all'interno si fece altrettanto gelida quanto lo era all'esterno.
- Lavoro. - 
- Che genere di lavoro può portare un baldo giovane a Westmoth? Uno come lei dovrebbe andare a Buckingamshire o nella contea di Derbyshire. Di certo non qui, un agglomerato di case che non è nemmeno segnato sulle carte. -
- Sono venuto per pulire la città dalla spazzatura. - rispose secco.
Percepì un movimento alle sue spalle, ma non si voltò. Socchiuse appena le palpebre e continuò a bere.
L'oste aggrottò le sopracciglia. 
- Beh, allora avrai molto lavoro da fare. Questa città è piena di merda fino ai tetti. - scoppiò in una grassa risata e prese a lavare un boccale scheggiato.
- Potrei cominciare da questa locanda. - sibilò. 
Fissò i suoi occhi in quelli dell'altro, mentre un sorriso sgradevole gli stirava le labbra. Poi si girò di scatto e afferrò il pugno di uno dei tre clienti, avvicinatosi di soppiatto alle sue spalle. Rapido, Alan gli sferrò un calcio in pieno stomaco, mandandolo a terra. Gli altri due e il locandiere rimasero di stucco, straniti dai riflessi fulminei di quello straniero. Poi, lentamente, i loro corpi si iniziarono a trasformarsi, la pelle si tese e si spaccò, lasciando uscire quattro braccia scarnificate. Uno di loro ruggì, mostrando una chiostra di denti affilati. Un secondo più tardi, Alan sentì distintamente il fiato fetido dell'oste sul collo, ma non si scompose.
- Stupito, Slayer? - gli sussurrò. 
Il tanfo di putrefazione gli fece storcere il naso. Un rivolo di bava della creatura gocciolò sul mantello, imbrattandogli anche il farsetto bianco. Gli altri mostri sghignazzarono e gli si avvicinarono.
- Per caso lo Slayer ha paura? - lo schernì uno dei mostri, - Guardate, non parla più! -
- Quelli della Dogma devono essere davvero disperati. - continuò un altro, umettandosi le labbra famelico, - Mandare un giovane così inesperto... devono essere davvero agli sgoccioli. Sta' tranquillo, ti mangeremo in fretta. -
Tutti scoppiarono a ridere.
- Finalmente un po' di carne fresc... -
L'ultima parola venne troncata a metà. La spada del giovane stridette nel fodero e la luce fioca delle candele balenò sulla lama. La creatura alle spalle di Alan aprì la bocca, ma dalle sue labbra non uscì alcun suono. Improvvisamente la testa del locandiere cadde come una palla sul bancone e rotolò giù, ai piedi dell'umano. Le altre creature trattennero il respiro, colte di sorpresa, ma pochi istanti più tardi, in un impeto di rabbia, gli si scagliarono addosso. Alan scartò di lato e descrisse un ampio arco con la spada. La lama fendette l'aria e aprì uno squarcio dalla gola fino alla fronte del secondo mostro. Il sangue zampillò fuori, imbrattando il pavimento sudicio. Il terzo balzò in aria, le fauci spalancate e gli artigli protesi verso di lui, e il quarto lo caricò a testa bassa come un toro inferocito. Alan indietreggiò e scartò di lato. Il colpo del mostro si infranse contro il bancone e il legno esplose in migliaia di schegge, poi la spada d'argento del cacciatore si abbatté sul suo collo, lacerando pelle, carne e ossa con disarmante facilità, e il sangue esplose in una cascata scarlatta. Allora Alan arretrò, frapponendo una distanza di sicurezza tra sé e l'ultimo rimasto. La creatura si voltò verso di lui, furiosa, il volto sporco di perle vermiglie, ma indietreggiò scrutandolo con estrema attenzione, consapevole che sottovalutare quello Slayer avrebbe potuto rivelarsi fatale.
- Bastardo! -
Snudò le zanne e ripartì all'attacco. Alan attese finché non fu a meno di un metro. In seguito, con un gesto fluido e letale, si abbassò e menò un ampio fendente. Le ossa del torace del mostro cedettero di schianto e un urlo inumano riecheggiò tra le mura della locanda.
- Figlio di puttana! Schifoso umano! - ringhiò, - Ti ucciderò! Ti ucciderò! -
L'essere si dimenò, si contorse, allungò minacciosamente le sue quattro braccia verso di lui, mentre la pozza scura sul pavimento si allargava sempre di più. Alan lo fissò per alcuni istanti, poi con un unico colpo affondò la spada fino all'elsa. La estrasse dopo un paio di secondi con una torsione brusca del polso e in tutta calma la rinfoderò, senza mai distogliere lo sguardo dal cadavere riverso ai suoi piedi. Non che temesse chissà cosa, ma voleva evitare spiacevoli sorprese. Infine raccolse la testa dell'oste, la infilò nel sacco di iuta che portava appeso alla cintola e uscì.
La campanella della porta lo salutò e nella locanda calò un silenzio di tomba.
 
***

Il sindaco della città di Weastmoth fissò terrorizzato il sacco che Alan aveva delicatamente riposto sul suo bellissimo tavolo di legno di ciliegio. Il sangue rappreso aveva lordato la superficie e adesso sgocciolava con un ticchettio attutito sul suo elegante e costosissimo tappeto. Quando le guardie avevano annunciato che lo Slayer era tornato, aveva strabuzzato gli occhi, completamente spiazzato, visto che non ci avrebbe scommesso nemmeno un raie che quel ragazzo sarebbe ricomparso sano e salvo. E con la testa di un mostro attaccata alla cintola, per giunta.
- To-togli immediatamente quella... quella cosa dalla mia vista! - sbraitò isterico. 
Il doppio mento ballonzolò, dandogli un aspetto ancor più ridicolo e spaventato. 
- Guardie! Sbarazzatevene immediatamente! -
Una delle guardie corse al tavolo e, cercando di non far caso al suo contenuto, portò via il sacco.
- E... e tu? - biascicò poi il sindaco con voce tremante all'indirizzo del cacciatore, - Cosa ci fai ancora qui? Sparisci! -
Alan scrollò le spalle e sospirò. Adesso non aveva più né il cappuccio a coprirgli il volto né le sue armi appese ai foderi sulla schiena, dal momento che i soldati gli avevano proibito di portarle con sé davanti a quell'uomo.
Con noncuranza tirò fuori una pergamena sgualcita dal farsetto e gliela porse dicendo: - Qui dice che promettevate trecento raie a colui che avesse eliminato gli Sventratori. -
Il sindaco strinse con le dita i bordi del tavolo, talmente forte da far sbiancare le nocche. Un leggero tremore continuava a scuoterlo, ma adesso sembrava essersi calmato, almeno un po'.
- Quindi sei qui per riscuotere la ricompensa, eh? -
Alan tacque, ma continuò a sostenere il suo sguardo senza timore. Le sue iridi verdi non tradivano alcuna emozione. 
- Voi, schifosi, patetici Slayer. Non fate mai niente se non dietro compenso. -
- Nella vita non si fa niente per niente, no? - gli rispose per le rime.
L'altro grugnì e balbettò qualche insulto a mezza voce. Poi si alzò e, barcollando sulle gambette grassocce, si diresse verso l'immensa libreria alle sue spalle. Scrutò con attenzione i tomi sugli scaffali, ne estrasse alcuni e scoprì una cassaforte incassata nel muro. Allungò la mano e girò la rotella nelle giuste combinazioni, finché la pesante porticina di metallo non si aprì. Tirò fuori un pesante sacchetto blu scuro e, dopo essere tornato al suo posto, cominciò a contare le monete ivi contenute.
- Allora, sono duecentocinquanta raie, giusto? -
- Trecento. - lo corresse Alan.
Il sindaco ghignò: - Ricordo perfettamente di aver scritto che avrei pagato trecento raie solo se avessi ucciso gli Sventratori e riportato indietro la gente che avevano rapito. Non ti meriti tutti questi soldi. -
Negli occhi dello Slayer brillò una luce ferale, un baluginio crudele che gli fece accapponare la pelle.
- Non ho salvato nessuno perché non c'era nessuno da salvare, vostra Eminenza. - replicò serio, poi si accostò di più alla scrivania e piegò il busto verso quell'ometto sgradevole, - Ma, se vuole, posso portarvi con me a scoprire che fine hanno fatto tutte le loro vittime... giusto per accertarsi che quello che dice questo miserabile Slayer sia la verità. -
A quelle parole, il sindaco trattenne il fiato, mentre un gocciolina di sudore scendeva ad imperlargli la fronte. Il panciotto, che a malapena conteneva la sua strabordante pancia, si tirò ancora di più, tanto da dare l'impressione che presto i bottoni sarebbero saltati via dalle asole.
- Allora? Desiderate venire a controllare? - insisté.
- No! No, no, no, no! - esclamò e quasi gli gettò addosso il sacchetto delle monete, - Tieni! Prendi i tuoi soldi e vattene! -
Alan fece un leggero cenno di saluto col capo e poi uscì dal municipio. Non appena mise piede sulla strada maestra, respirò a pieni polmoni l'aria fredda del tardo mattino e sbadigliò. La sera addietro la caccia era stata proficua, ma aveva preso alloggio alla locanda di Mama Yaga molto tardi e aveva dormito poco. Non che avesse bisogno di molte ore di sonno, ma avrebbe voluto godersi quelle poche che aveva a disposizione. Invece era stato costretto a sorbirsi le urla e i gemiti della coppia nella camera adiacente. In tutti quegli anni trascorsi a girovagare per il mondo si era dimenticato quanto fossero sottili le pareti della “Dama di Corte”. Inoltre, aveva dovuto lasciare lì Brunilde, visto che nel luogo dove era diretto ci si muoveva meglio a piedi. Piu tardi sarebbe andato a recuperarla e avrebbe ringraziato Mama Yaga della sua gentillezza con qualche moneta in più.
Passeggiando per le vie, notò che rispetto al giorno prima la città pareva più popolata. I contadini camminavano trascinandosi dietro dei muli, che a loro volta trainavano carri carichi del frutto del lavoro nei campi, mentre i mercanti si prodigavano per mettere in mostra i prodotti che speravano di vendere. Ogni tanto lo scoppiettante rumore del motore di qualche auto si mescolava al vociare delle persone e alle risate dei bambini, oppure l'ombra di grandi mongolfiere oscurava il cielo, strappando ad alcuni passanti un sorriso e uno sguardo sognante. A Weastmoth tutti covavano il desiderio di andarsene, lasciandosi alle spalle l'arretrata contea di Corkia, che per qualche motivo ignoto si ostinava a non accettare le nuove tecnologie. 
Alan sorrise al ricordo di quando anche lui immaginava la propria vita al di fuori di quel buco. Si era ripromesso di non rimetterci piede mai più, nemmeno se la Dogma gli avesse detto che un'orda di mostri stava per falciare via tutti i suoi abitanti. Era quasi comico ora pensare che aveva deciso di tornarci di sua spontanea volontà. 
Proseguì fino alla fine della strada e imboccò un viottolo secondaria, che procedeva in salita e terminava con una rampa di scale scolpita direttamente nella pietra. Salì rapidamente e si immise in un'altra via, dove l'acciottolato era molto più curato e soprattutto molto meno sporco. Le case dipinte di bianco, con graziosi portoni di pesante legno di frassino e quercia, parevano appartenere a un altro mondo. Stonavano se messe a confronto con gli edifici diroccati e cadenti del resto della città, o forse sarebbe stato meglio pensarla al contrario. Ogni tanto, dalle finestre decorate a festa o dai giardini innevati, qualcuno lo fissava con palese disprezzo, soffermandosi ad osservare i suoi stivali sporchi di fango e i suoi abiti logori. Poi, però, quando scorgevano l'effige del grifone sulla spilla del mantello, distoglievano velocemente lo sguardo: a nessuno piaceva avere a che fare con gli Slayer.
Dopo dieci minuti di cammino Alan giunse innanzi alla villa che gli interessava. Salì in fretta i quattro scalini e bussò, facendo sbattere tre volte il pesante battente in ottone. Il fragore si riversò all'interno dell'abitazione e il cacciatore rimase in attesa, le orecchie tese a captare anche il più lieve rumore. Dopo un paio di minuti udì dei passi decisi avvicinarsi, seguiti da un leggero frusciare, e la porta si aprì. Sulla soglia apparve una donna dai lunghi capelli biondi raccolti in un'acconciatura elaborata e il viso affilato dai tratti aristocratici. Aveva il corpo fasciato da un aderente abito orientale e mani e polsi adornati con anelli e bracciali preziosi.
Non appena lo vide, storse il naso e aggrottò le sopracciglia, come se cercasse di ricordare qualcosa d'importante.
- Tu sei...? - balbettò incerta.
- Buongiorno, Frejie. -
A quelle parole, il suo viso si illuminò e schioccò le dita contenta: - Oh, ma guarda, quasi non ti riconoscevo! Finalmente! Ci hai messo un secolo. Stavo per darti per disperso. -
Alan scrollò le spalle e si limitò ad annuire.
- Ma entra! Meglio che i vicini non sentano i fatti nostri. - si voltò e gli intimò in silenzio di seguirla. 
Nel momento in cui lo Slayer varcò la soglia, due guardie chiusero il portone con un assordante cigolio di cardini. 
La villa era avvolta dalla luce soffusa di candele e candelabri ed era difficile distinguere i contorni dei mobili e degli oggetti nelle zone che rimanevano in ombra. Mentre seguiva la donna attraverso il corridoio, Alan scorse due alte librerie alla sua sinistra e almeno una decina di quadri appesi sulle altre pareti, più che altro volti di uomini e donne dei tempi che furono. Si domandò che bisogno ci fosse di tenere i ritratti dei propri antenati in casa, visto che occupavano spazio utile, ma tenne i suoi pensieri per sé. In fin dei conti, non era giunto lì per sindacare sui gusti della padrona di casa.
- Allora, Alan, a cosa devo la tua visita? - 
La donna spalancò una porta alla fine del corridoio ed entrò in quello che lo Slayer ricordava essere il suo studio. Era una stanza molto ampia, con una pesante scrivania al centro colma di alambicchi, pergamene e decine di vecchi tomi impilati gli uni sugli altri. I candelabri posti ai quattro punti cardinali illuminavano la stanza, gettando dei bagliori aranciati sul grande pentacolo disegnato sul pavimento e sui dorsi dei libri consunti. Si sedette su una poltrona di pelle dietro il tavolo da lavoro e lo invitò ad accomodarsi di fronte a lei.
- Lo sappiamo entrambi che non sei tornato solo per salutare. - ammiccò.
Si mise a giocherellare con una ciocca ribelle e accavallò le gambe, fissandolo con uno sguardo divertito. 
- Innanzitutto, ti ringrazio per avermi ricevuto, Frejie. Per quanto riguarda il motivo della mia presenza qui, dovresti già esserne al corrente. Cerco delle informazioni. -
- E da quando mi chiami per nome? - lo interrogò infastidita.
- Da quando mi avete confessato di odiare il vostro titolo nobiliare, se non sbaglio. -
Frejie afferrò una pergamena e fece finta di leggere le rune ivi vergate con una calligrafia elegante. 
- Erano altri tempi, Alan, ora ho imparato ad accettare il mio rango e le responsabilità che da esso derivano. - gli lanciò un'occhiata tagliente, - Perciò, gradirei mi chiedessi prima come voglio essere chiamata. -
Lo Slayer annuì. Era inutile discutere, ci avrebbe solo rimediato un paio di ossa rotte e molte contusioni.
- Bene. - la donna sorrise soddisfatta e si stiracchiò, - Ricominciamo. Perché sei tornato? -
- Cerco delle informazioni... - prese un respiro profondo, - Contessa Frejie Lucisla Barazethai. -
- Oh, ma non ti scomodare. - mosse la mano come per scacciare una mosca fastidiosa, - Chiamami semplicemente Frejie. -
Alan fissò la sua attenzione sulla sfera di cristallo davanti a sé, cercando di controllare il moto d'irritazione che lo aveva pervaso. Parlare con lei a volte era un logorante esercizio di pazienza.
- Comunque, cosa ti dice che io le abbia? -
- Voi maghi non vedete tutto con le vostre palle di cristallo? -
Frejie storse le labbra e incassò in silenzio, poi poggiò il viso sulle mani e si protese verso di lui. 
- Prima fammi vedere l'emblema degli Slayer, ho sempre desiderato guardarne uno da vicino. Dopo vedremo se avrò ancora voglia di aiutarti. - 
Alan sbuffò. Si tolse il mantello e le porse la spilla dorata con sopra inciso un grifone. Frejie se lo rigirò tra le dita, studiandolo con attenzione.
- Sai, non avrei mai detto che alla fine saresti diventato un cacciatore di mostri. Con il fisico gracile che avevi e quel viso smunto non mi sembravi per niente adatto a quel lavoro. -
- Sono contento di avervi sorpresa. -
Un'espressione contrita le si dipinse sul viso e con malagrazia gli restituì l'emblema.
- Ci avrei visto meglio Eluaise in questo ruolo. Tra voi due era quella più portata. A proposito, come sta? Da quando se n'è andata non ho più avuto sue notizie. - 
Prese un calice e si versò del vino. Un intenso profumo fruttato si librò nell'aria.
Alan fissò i movimenti eleganti della maga. Osservò le labbra carnose appoggiate al bordo argenteo del calice, le iridi violacee, le sopracciglia leggermente più scure dei capelli, distese e rilassate, e il collo sottile adornato da preziosi monili. Lui e Frejie erano stati amanti prima di andarsene da Weastwoth e il ricordo di quei giorni lontani era rimasto impresso nella sua memoria. Si chiese distrattamente cosa ne sarebbe stato di loro, se il suo cuore non fosse appartenuto ad Eluaise già a quel tempo, ma ritenne saggio tacere e accantonare quelle domande in un angolo del cervello. Non voleva rivangare il passato.
- Vorrei sapere anch'io che fine ha fatto. - sussurrò a mezza voce.
La maga depose il calice su un vecchio libro ed esitò, come se stesse soppesando le parole da dire. 
- Cosa vuol dire? Non vi siete rincontrati a Earthshire? -
- No. - rispose secco.
- Ma come? Mastro Liam disse che lui ed Eluaise si sarebbero stabiliti lì e che ti avrebbero atteso... - improvvisamente portò una mano a coprirsi la bocca, - Aspetta, ad Earthshire... -
- Già. - Alan si slacciò la cinghia sul petto e depose spada e balestra ai suoi piedi, - Earthshire non esiste più. -
Entrambi rimasero in silenzio per alcuni istanti. Frejie si rannicchiò appena sulla poltrona, cercando di placare i brividi che le scuotevano le membra. 
- Non l'hanno trovata né tra i cadaveri né tra i superstiti. - continuò lo Slayer, impassibile. 
Si appoggiò allo schienale e intrecciò le dita sull'addome, lasciando vagare lo sguardo nella stanza. Parlare di quell'episodio gli faceva ancora male. 
- Magari se n'è andata prima che i mostri attaccassero la città. - ipotizzò, ma il giovane ospite poteva scorgere chiaramente l'ombra della paura e dell'incertezza nei suoi occhi color antracite.
Un mezzo sorriso si formò agli angoli della bocca, un sorriso stanco, amaro. Forse l'unico sentimento rimastogli era proprio il rimorso per non essere stato lì quel giorno.
- No, altrimenti sarebbe tornata qui. - mormorò osservando le pesanti tende di broccato alle spalle di Frejie, quelle che tante volte le aveva visto chiudere per celare a sguardi indiscreti le sue doti d'incantatrice, - Io ho un'altra teoria. -
- Ovvero? -
- Penso che non sia stata un'orda di mostri a distruggere Earthshire, ma un unico, potente mostro. -
La donna sbiancò e si irrigidì: - Quale... quale essere sarebbe capace di fare una cosa del genere con le sue sole forze? Era una città protetta, Alan, non un villaggio di contadini. Quello che dici è assurdo! -
- Assurdo o no, Earthshire non esiste più. - alzò la testa e incatenò i loro sguardi, - Ho bisogno dei tuoi poteri per rintracciare Eluaise. -
Frejie inarcò un sopracciglio e lo squadrò: - Ancora a prendermi per i fondelli? Non sono una cartomante o una strega da strada. -
Alan mise le mani avanti come per fermare il fiume di parole che stava per travolgerlo. 
- Lo so che che non sei una veggente e non sono qui per offenderti. Ma so che voi maghi sapete sfruttare a vostro vantaggio le forze del cosmo. -
Lei lo scrutò sospettosa, poi si afflosciò sullo schienale della poltrona rilasciando un sospiro esasperato. 
- Per fare ciò che dici ho bisogno di qualcosa che le appartiene. -
- Va bene una collana o un suo vecchio vestito? -
- No, ci vuole qualcosa che sia intimamente connesso a lei, per intenderci. Capelli, pezzi d'unghia, anche un lembo di pelle andrebbe bene. Il sangue sarebbe ottimo. -
- Capisco. - prese la spilla con l'emblema del grifone e l'aprì, srotolando una lunga ciocca rossa. 
La maga sbarrò gli occhi sorpresa, ma non fece domande.
- Questa è l'unica cosa sua che posseggo. Spero ti possa aiutare. - gliela porse delicatamente, - La potrò riavere indietro quando avrai finito? -
Frejie annuì: - Farò il possibile per ridartela intatta. - 
La strinse tra le dita e gli lanciò un'occhiata penetrante, ma prima che potesse aggiungere altro lo Slayer si alzò.
- Devo andare, ora. -
Si rimise le armi in spalla e con ampie falcate raggiunse la porta dello studio.
- Alan! -
Egli si bloccò sul posto. Aveva già indossato il mantello e lo sguardo era celato del cappuccio, ma Frejie conosceva quegli occhi gelidi meglio di chiunque altro.
- C'è qualcosa che non mi hai detto. - il tono interrogativo che aveva pensato di dare alle proprie parole sfumò in quello deciso di un'affermazione. 
La donna si maledì per la propria morbosa curiosità, ma c'era stato qualcosa nei suoi gesti e nel tono di voce monocorde che non l'aveva convinta.
- Ci vediamo, Frejie. - rispose atono lo Slayer, per poi scomparire nel corridoio buio.
 

 

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Capitolo 3
*** Act. 1 - Sweet Mayor ***


Slayers
Act. 1 - Sweet Mayor




Nei giorni seguenti, Alan vagò per i paesi vicini in cerca di qualche altro incarico. Aveva redatto il rapporto sull'eliminazione degli Sventratori e l'aveva spedito alla Dogma il pomeriggio stesso dopo il colloquio con Frejie. Quindi aveva deciso di verificare se ai crocicchi era stata appesa qualche richiesta d'aiuto ben retribuita e, nell'intento di scovare qualche lavoretto con cui tenersi occupato e non consumarsi nell'attesa di una risposta da parte della maga, visitò pure Serdica e Redstat, passando per alcuni villaggi che nemmeno ricordava, senza però alcun successo. Al tramonto del terzo giorno giunse ad una città di frontiera, Iadera. 
Assieme alla sua fedele Brunilde, si trascinò fino alla prima locanda in cui si imbatté per trascorrervi la notte. Il proprietario, un uomo smilzo col naso adunco e la testa pelata, lo squadrò con diffidenza, ma non si spinse al di là delle domande che il suo lavoro gli imponeva di fare ad ogni nuovo ospite, desiderato o meno che fosse. Gli venne assegnata una camera dall'aspetto rustico, con le pareti bianche scrostate in più punti e il soffitto tappezzato di macchie d'umidità. Inoltre, le lenzuola polverose e l'aria viziata indicavano che erano passati molti giorni, forse mesi, dall'ultima volta che qualcuno ci aveva messo piede. Ma in fin dei conti non gli importava, tanto vi avrebbe soggiornato solamente poche ore.
Si sdraiò sul materasso con un sospiro stanco, ma il sonno tardò ad arrivare. Si mise supino e fissò la piccola finestrella incassata nel muro. Fuori aveva cominciato a piovere e le gocce d'acqua picchiettavano insistentemente contro il vetro, scivolando sulla sua superficie in rivoli trasparenti. Mentre osservava il cielo plumbeo, ripensò a quando aveva attraversato quelle stesse cittadine insieme ad Eluaise e a suo padre. Allora erano tempi diversi. Lui era diverso.
Gli era sempre piaciuto incantarsi ad ascoltare il rumore della pioggia. Per anni aveva creduto che quelle gocce gelide avessero il potere di lavare i peccati e ogni volta che scorgeva delle nubi temporalesche all'orizzonte, trascinava Eluaise nel giardino di fronte casa e la obbligava a restare immobile fino a quando il cervello si svuotava da ogni pensiero. Non aveva mai perso quella strana abitudine, ma senza Eluaise non era la stessa cosa. Da quando si erano separati, il mondo che lo circondava aveva perduto i suoi colori, trasformandosi in un'accozzaglia di grigi, e la pioggia non aveva più quei connotati catartici e purificatori che tanto amava. Le città erano diventate agglomerati urbani dalle tinte fosche, solcate da strade fangose che conducevano ovunque e da nessuna parte, e persino l'odore che saturava l'aria era cambiato, sporcato dai disgustosi e soffocanti miasmi che scaturivano dalle fogne. Forse erano stati gli anni d'addestramento a disincantarlo, a sbattergli in faccia le miserie di una realtà che fino ad allora aveva sempre ignorato. Maestro Lovuin era solito dirgli sempre che se fossero sopravvissuti si sarebbero abituati a tutto e che, una volta bevuta l'Essenza dell'Anima, i sentimenti li avrebbero per sempre abbandonati. Però da quando aveva lasciato la Rocca di Mohor come Slayer, ormai quasi due anni prima, aveva capito quanto il suo maestro si sbagliasse: né quell'intruglio di erbe né la carne di demone che avevano impiantato nel suo corpo erano bastati a cancellare la sua parte umana. 
Un lampo illuminò la stanza, gettando ombre lugubri sullo scarso mobilio. La luce del piccolo lampadario tremolò, per poi spegnersi senza preavviso. Dal piano di sotto Alan udì l'urlo di una donna e le grasse risate degli altri commensali, raccolti nella sala comune. Scrollò la testa e sospirò. Infine si tolse gli stivali, tornò sdraiato e rilassò i muscoli, lasciando che il buio calasse sulla sua mente.
A strapparlo dal sonno furono le campane della chiesa di Iadera e il fastidioso vociare della gente. Il sole era già alto nel cielo e i suoi raggi avevano invaso prepotentemente la stanza. Si schermò subito gli occhi con la mano, maledicendosi per non aver calato la persiana la notte precedente. In alternativa avrebbe potuto ridurre le pupille a fessure verticali, come quelle dei felini, per proteggersi dalla luce, ma gli era ancora difficile sopprimere l'istinto umano di pararsi la vista, persino dopo due lunghi anni. 
Si alzò di scatto, scocciato, e si vestì in fretta. Sentiva addosso una certa inquietudine, una sensazione che aveva imparato a riconoscere come una specie di campanello d'allarme, e spesso e volentieri il suo sesto senso non sbagliava. Scese velocemente le scale, attraversò la sala comune senza fermarsi a fare colazione e si diresse verso l'uscita della locanda. Una folla consistente si era radunata sulla strada maestra e al di là di quel muro di teste Alan sentì distintamente dei singhiozzi. 
- Cosa succede? - chiese a una contadina.
La donna strabuzzò gli occhi non appena vide la spilla con grifone che gli adornava il mantello. Arretrò di qualche passo, le mani strette al petto e lo sguardo terrorizzato di chi aveva appena visto un fantasma.
- Io... - balbettò, - Io non lo so, signore... dovrebbe chiedere al Guardiano... -
- Capisco. Dove posso trovarlo? -
- Lì. - la voce sprezzante dell'oste, alle sue spalle, gli graffiò le orecchie. 
L'uomo gli indicò con precisione un punto in mezzo alla calca. Con estrema calma, Alan si fece largo e presto raggiunse la meta. D'un tratto piombò uno strano silenzio, così denso da fare riecheggiare anche il più flebile respiro. Quando ebbe superato l'ultima fila di curiosi, capì a cosa era dovuto l'orrore negli occhi degli astanti: una donna giaceva in ginocchio in mezzo alla strada, gli stivali sporchi di terra e il viso macchiato di sangue e fango. Tra le braccia stringeva la testa mozzata di un giovane uomo. 
Le si accostò con circospezione per non spaventarla e si inginocchiò di fronte a lei.
- Tu chi saresti? Avevo espressamente ordinato di non far avvicinare nessuno. - 
Una voce ringhiante alla sua sinistra lo costrinse a voltarsi. Un uomo con una barba incolta lo fissava con aria truce, le braccia incrociate al petto e una spilla con la stella a cinque punte, simbolo dei Guardiani, in bella mostra sulla casacca. Un fucile gli pendeva sulla schiena tramite fibbie di cuoio legate strette intorno alle spalle. 
- Se sei uno di quei dannati giornalisti succhiasangue, abbi almeno la decenza di attendere. -
- Le sembro un giornalista? - risposte Alan pacato.
- E io che ne so? - sputò, - Voi seguite le mode. Siete sempre a caccia di notizie e fareste di tutto per trovarle, per poi sputtanarci in pubblico. Già li vedo i titoli dei giornali... -
- Penso che dovrebbe cominciare col fare una visita oculistica, signor Guardiano. - 
Si alzò e picchettò un dito sulla spilla che indicava la sua appartenenza alla Dogma. L'uomo corrugò le sopracciglia e contrasse la mascella, visibilmente infastidito.
- Ah, allora sei uno Slayer. - schioccò la lingua e si sistemò meglio il cappello sulla testa, - Beh, qui non c'è niente da cacciare. E' stato un orso. -
Alan aggrottò le sopracciglia: - Ah, sì? E dove sono i segni dei morsi o degli artigli? -
Il Guardiano contrasse la mascella, mentre intorno a loro la gente continuava ad osservarli e ad ascoltare incuriosita. 
- Sparisci, prima che decida di spararti in testa. -
- No. -
L'uomo digrignò i denti e imbracciò il fucile: - Hai capito cosa ti ho detto? Ti faccio saltare le cervella se non ti levi dal cazzo. -
Alan lo fissò con sussiego, scoccandogli un'occhiata di sufficienza.
- Ci provi, vediamo se è più veloce la sua pallottola o la mia mano. - lo sfidò. 
Il Guardiano prese la mira. Era sul punto di premere il grilletto, quando alle loro spalle risuonò un applauso. 
I due si girarono di scatto e videro un uomo avvicinarsi dal fondo della strada. Indossava un cappello a cilindro, un elegante frac nero a coda di rondine e camminava appoggiandosi a un bastone di legno. Le scarpe erano lucide e dall'aspetto costoso. 
Alan, irritato da quell'interruzione inaspettata, squadrò l'intruso dalla testa ai piedi, chiedendosi cosa ci facesse un tipo così in quella topaia di frontiera.
L'uomo avanzò fino ad arrivare proprio di fronte a lui. Stirò le labbra in un sorriso cordiale, che insieme ai baffetti neri e le sopracciglia curate gli conferivano un'aria stravagante. Però c'era qualcosa di sinistro in quegli occhi scuri, un riflesso scarlatto che fece impallidire il Guardiano.
- Signori, vi sembra il caso di litigare? Signor Dumbar, mi meraviglio di lei! - 
Si tolse il cappello e lo spolverò con un sospiro sconsolato.
- Dottor Mercer... mi-mi scusi... ma vede...- balbettò l'interpellato, abbassando la canna del fucile e facendosi piccolo piccolo.
“Dottore? In questa contea esistono i dottori?” 
Alan rivolse uno sguardo scettico al nuovo arrivato, ma non commentò. 
- Lasci stare, signor Dumbar. - sorrise di nuovo, scoprendo una sfilza di denti bianchissimi, - Sappiamo tutti benissimo quanta fatica, impegno e ardore lei riversi nel suo lavoro. - 
Dopodiché distolse l'attenzione dal Guardiano, si inginocchiò e accarezzò la testa della donna, la quale sussultò al contatto, ma non si ritrasse. Le sfiorò i capelli con la punta delle dita macchiate di tabacco.
- Immagino come si sia sentito, signor Dumbar, quando questo giovane cacciatore ha cercato di mettersi tra lei e il suo dovere. Ridicolizzato davanti a degli stimati cittadini. -
Il Guardiano deglutì e una gocciolina di sudore gli corse lungo la fronte, ma qualcosa suggerì ad Alan che il fenomeno non fosse dovuto all'afa di quella mattina.
- Tuttavia, le sembra il caso di usare un linguaggio così scurrile? Per di più davanti alla nostra Angelika, che ha appena subito una grave perdita. Sappiamo che i ragazzi d'oggi sono impulsivi e passionali, così come sappiamo che alla Dogma sono rimasti soltanto inesperti cacciatori. Signor Dumbar, io l'ho sempre ritenuta un grande uomo, perciò sicuramente non si metterà allo stesso livello di questo straniero, dico bene? - 
Dumbar, ancora livido di rabbia, rivolse allo Slayer un'occhiata truce e poi grugnì qualcosa. 
Alan invece affondò le mani nelle tasche del cappotto e non riuscì a trattenere un sorriso sghembo: lo smacco all'orgoglio di quell'idiota lo compiaceva non poco, anche se era la seconda volta in pochi giorni che qualcuno gli dava dello sbarbatello. Non era propriamente una bella situazione, ma un lato positivo doveva pur trovarlo. Inoltre non voleva mettersi a litigare con quell'uomo viscido, il dottor Mercer. Un Guardiano incazzato dal grilletto facile era più che sufficiente.
- Vedo che ci siamo capiti. Adesso, se questo gentile e disponibile Slayer avesse voglia di esprimere un suo parere sull'accaduto, tutta la nostra comunità gliene sarebbe immensamente grata. - 
Abbracciò Angelika e la cullò, ma in quelle carezze non c'era la dolcezza. Anzi, Alan scorse un subdolo desiderio agitarsi in fondo agli occhi torbidi di quell'uomo dai modi affettati. Non che la cosa gli interessasse, ma provava un naturale ribrezzo per quel genere di persone.
- Allora, signor Slayer? - lo incalzò Mercer, sfoderando l'ennesimo sorriso a trentadue denti, - Ci faccia partecipi della sua ipotesi. Chi ha compiuto questo atto barbarico? -
- Difficile a dirsi così su due piedi, dottore. - rispose caustico.
- Mi sta dicendo che non lo sa? -
Un timido brusio si alzò dalla folla che, se possibile, era aumentata.
- E' stata la Morte.-
- Sì, l'ho vista, l'ho vista, è stata la Morte.-
- Ha preso di mira il nostro villaggio! Ci ucciderà tutti!-

Alan sospirò e si trattenne dal mandarli tutti a farsi fottere, loro e le loro stupide superstizioni.
- No, non ho detto questo. Intendevo che senza aver udito prima la testimonianza della vittima non posso avanzare nessuna teoria. -
- Oh, capisco. Allora porterò Angelika al Municipio e mi premurerò di darle tutto il sostegno possibile fino a quando non se la sentirà di parlare con lei. -
Alan rivolse un'occhiata di sottecchi alla ragazza. Tremava come una foglia, pigolando qualcosa di incomprensibile a bassa voce. Per tutta la durata della loro conversazione non aveva mai lasciato andare la testa mozzata, che continuava ad imbrattare le sue vesti di sangue. Lentamente alzò lo sguardo dal terreno e un secondo più tardi incrociò le iridi verdi del cacciatore. Quegli occhi così puri sembravano chiedergli aiuto. 
- Forse è meglio che qualcuno la riporti a casa, dottore. E' sotto shock. -
- Non si preoccupi, ci penso io. - 
Tentò di tirarla su delicatamente, ma quella si divincolò per liberarsi dalla presa. Mercer la trafisse con un'occhiata tagliente e serrò le dita sul suo braccio. L'esagerata pressione che esercitò tradì la rabbia che lo aveva pervaso e la giovane guaì di dolore.
- Non credo voglia venire con lei. - si intromise Alan.
- Deve venire. E' per il suo bene. - 
La strattonò di nuovo, conficcandole le unghie nella pelle, ma Angelika gemette più forte.
Esasperato, Alan si parò davanti al dottore. Osservò quell'uomo viscido da vicino, i suoi lineamenti aguzzi e gli occhi da furetto, e una sensazione di gelo gli annodò le viscere. Lui era uno Slayer, cacciava mostri e non si impicciava delle faccende degli uomini.
- Con l'autorità conferitami dalla Dogma, reclamo il testimone sotto la mia giurisdizione. - sibilò, poi fece cenno ad Angelika di alzarsi. 
Lei scattò in piedi e si nascose dietro la sua schiena.
- Giovanotto, lei non può... -
- Certo che posso. - scandì, piegandosi su di lui fino ad arrivargli a un palmo di naso. 
Una raffica di vento gli scompigliò i capelli, facendo risplendere le ciocche rosse e argentee come lingue di fuoco. In seguito, le pupille di Alan divennero verticali e le iridi rifulsero di una luce sinistra. I raggi del sole gli ferirono gli occhi sensibili, ma non ci fece caso: voleva far tremare di paura quel damerino.
Mercer rimase immobile, incapace di distogliere lo sguardo da quello del cacciatore. Questi si era avvicinato con la fluidità di un predatore e ora incombeva su di lui alla stregua di una belva pronta a scattare. Il sangue gli defluì dal viso e il respiro gli si mozzò in gola.
- E... e sia. - le parole gli uscirono strozzate, mentre una patina di sudore gli bagnava la fronte.
Un sorriso sgradevole si dipinse sulle labbra dello Slayer. Sbatté le palpebre una sola volta e le pupille tornarono normali.
- Bene, vedo che ci siamo accordati. - fece un passo indietro e si rivolse ad Angelika, - Andiamo. -
Lei annuì, si aggrappò ad un lembo del suo cappotto, la testa mozzata ben stretta al seno, e lo seguì a testa bassa. La folla si aprì al loro passaggio e le persone li osservarono bisbigliando, ma nessuno dei due diede peso ai loro pettegolezzi.
Da qualche parte, forse al di là di qualche arrugginito cancello di ferro, si levò il latrato di un cane.
 

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Capitolo 4
*** Act. 1 - Headache ***


Slayers
Act. 1 - Headache




- Quindi mi sta dicendo che questo non è il primo omicidio qui in città? -
- No, purtroppo no. -
Alan osservò attentamente Griffon Clerk per cercare di capire se stesse mentendo o meno. Era un uomo che avrebbe potuto avere tra i trenta e i cinquant'anni, ma la barba incolta, accompagnata dalle pelle color cuoio, non lo aiutava a stabilirne l'età esatta. Non che la cosa gli importasse granché. A giudicare dal tono dimesso e dagli occhi pieni di timore, non sembrava stesse cercando di ingannarlo. Ad ogni modo, quel Griffon era l'unico che conosceva i fatti e si era reso disponibile per parlare con lui, visto che, dopo lo spettacolino con il dottor Mercer, tutte le persone coinvolte avevano preso a scansarlo come un appestato, sottraendosi agitati ai suoi approcci per ottenere qualche informazione in più su Angelika e sulla testa che proteggeva ossessivamente.
- Si spieghi meglio. - lo invitò.
Griffon abbassò lo sguardo e rimase per alcuni istanti in silenzio, mordendosi il labbro inferiore e tormentandosi le mani.
- Sa, io sono solo un povero contadino. Non sono un uomo dotto, ma sono un gran lavoratore e, quando ne ho avuto l'occasione, sono venuto a vivere qui per fare un po' di fortuna. Iadera è sempre stata una cittadina tranquilla e il dottor Mercer ha sempre amministrato la giustizia come solo un uomo di legge del suo livello può fare. -
Alan inarcò un sopracciglio, ma non commentò. Il suo sguardo corse alle spalle di Griffon, sulla panca dove stava seduta Angelika, con ancora stretta al petto la testa mozzata che ormai cominciava a puzzare. Mentre si dirigevano lì, aveva notato che zoppicava vistosamente.
- Immagino quanto sia ligio al dovere il vostro sindaco. -
Griffon osservò di sottecchi la ragazza con una smorfia disgustata: - Ma lei è una straniera. Il suo è stato un trattamento di favore in confronto a quello che il dottore ha riservato ai Sangue Sporco come lei. Sono sicuro che se l'avessimo bruciata prima, non sarebbe accaduto nulla. -
Lo Slayer tacque e l'uomo lo prese come un invito a continuare. Aveva una chiostra di denti marci e un alito che sapeva di vino acido insozzava l'aria.
- E' arrivata un giorno, sbucata dal nulla, vestita con solo una tunica leggera e un mantello di puro cotone, ma noi abbiamo subito capito che non era umana. Insomma, con quegli occhi da cerbiatta e quei capelli quasi bianchi era chiaro come il sole che era la figlia bastarda di una qualche driade, che siano maledette! Quegli esseri aprono le gambe a chiunque e poi mollano i loro figli mezzo sangue a noi. Io l'ho sempre detto che dovremmo incendiare la foresta, ma tutti tremano e voltano le spalle al problema. -
- Credo abbiano cara la vita, signor Griffon. -
- Cara la vita, le mie palle! - sbottò, - E' tutta colpa di questi esseri qui! Se non esistessero, il nostro mondo sarebbe sicuramente più sicuro e i boscaioli potrebbero andare a fare il loro lavoro in santa pace, ma nessuno fa nulla e voi cacciatori continuate ad arricchirvi a spese di noi povera gente. - vomitò astioso.
Aprì nuovamente la bocca per aggiungere altro, ma quando si rese conto di aver alzato un po' troppo la voce, tossicchiò e inspirò profondamente. Alan lo fissava impassibile, sempre in completo silenzio.
- Comunque... quella lì è sempre stata una ritardata. Si vede che suo padre era uno senza cervello. Quindi, non potendo mandarla a lavorare nel bordello, l'hanno affidata a me. Ero a corto di braccia, perciò l'ho messa a pascolare il bestiame, ovviamente dopo averle rotto in anticipo una gamba per non farla scappare. Ci ha provato una volta, ma l'ho acciuffata prima che fosse troppo lontana. Sa, il dottor Mercer mi ha chiesto di assicurarmi che non le saltasse più in mente di dileguarsi e io ho fatto del mio meglio. L'abbiamo trattata come una proprietà comune qui, anche se quando il nostro gentile sindaco chiede di lei ci adoperiamo per fargliela trovare libera. -
- Capisco. -
- Andava tutto a meraviglia. Angelika si è sempre occupata del bestiame, gli animali le obbediscono senza problemi grazie al suo sangue da selvaggia e il sindaco e noi altri potevamo usufruire delle sue grazie quanto volte volevamo. Poi, però, è rimasta incinta. Non eravamo sicuri di chi fosse il figlio, ma Angelika ha indicato Peter, il figlio del mugnaio. Ora, io non so come abbia fatto quello squattrinato anche solo ad avvicinarsi a lei, ma fatto sta che lei ha insistito a dire fosse suo e lui non l'ha negato, anzi, si è messo a dire qualcosa sul fatto che non potevamo trattarla così, che era una persona. Si è addirittura spinto a dire che l'amava. Insomma, era completamente uscito di senno. Il dottor Mercer è rimasto scandalizzato da queste parole tanto quanto me e mi sono stupito che non abbia provato a fare qualcosa. Non è intervenuto perché tutti sanno che costringere una col sangue di driade a interrompere la gravidanza porta solo sciagura. Alla fine, questa qui ha tenuto il marmocchio, però poi quando ha partorito è nato morto. Credevamo che ci saremmo dovuti tenere un altro Sangue Sporco, ma la natura ha impedito un simile abominio. -
- E quando sono cominciati gli omicidi? - lo interrogò Alan.
- Ecco, è proprio qui che volevo arrivare. - si sfregò le mani e occhieggiò la ragazza alle sue spalle, per poi allungarsi verso di lui, - Gli uomini del villaggio hanno iniziato a morire esattamente il giorno dopo che abbiamo lanciato nel fiume il cadavere del marmocchio. Me lo ricordo perfettamente. Erano i primi di settembre. Da quel momento, sono morti uno dietro l'altro e fino ad oggi abbiamo scavato più di dieci fosse nel cimitero cittadino. Peter è solo l'ultimo di una lunga serie. Sono deceduti tutti in modo orribile, mi creda. Quando li ritrovavamo, c'era sempre un sacco di sangue. All'inizio pensavamo fosse stata lei, ma il dottore ci ha rassicurato, non era opera di quella Sangue Sporco. So anche che il nostro amato sindaco ha mandato la richiesta alla Dogma per un intervento tempestivo, ma ad oggi sei l'unico Slayer che abbia mai visto. -
Alan disegnò il profilo del bicchiere con aria meditabonda. La luce del sole di mezzogiorno si rifletteva sul vetro sporco, evidenziando le macchie di latte e i rimasugli di foglie essiccate attaccate sul fondo. Sì, a Iadera la pulizia era un bene raro.
- Perché il dottor Mercer mi ha detto che secondo lui era stato un orso? -
- Il sindaco è una persona rispettabilissima, ma è troppo attaccato alla logica, secondo me. Per lui tutto è spiegabile, ogni domanda può trovare una sua risposta nella scienza, ma non ha ancora capito che in questi territori di confine i mostri ci sono ancora. Angelika è una Sangue Sporco, eppure lui non crede abbia alcun potere, sebbene sia risaputo che le driadi possono influenzare la mente delle bestie. -
Alan osservò nuovamente la ragazza che, in quel momento, stava accarezzando i capelli incrostati di fango e sporcizia di Peter. Aveva ancora gli occhi arrossati per il pianto e tutto il suo corpo non riusciva a smettere di tremare, forse per la paura, o forse per la rabbia o la disperazione. Un singulto le scosse il petto e un attimo dopo strinse la testa, affondando il giovane viso in quella zazzera sporca.
- Penso sia stata la Morte in persona. - concluse Griffon, con un leggero tremolio nella voce che ad Alan non sfuggì.
Il cacciatore rimase perplesso ad osservare il viso smunto del contadino. Si ricordò del vociare che aveva udito in piazza quella mattina e si rese conto che quell'ometto viscido e insignificante non era l'unico ad essersi convinto che gli omicidi non fossero stati opera di un semplice orso. Si appoggiò allo schienale e lo fissò intensamente.
- Signor Griffon, ammetto di non essere ai livelli più alti della Dogma, ma posso assicurarle che entità come la Morte non esistono, è un'invenzione puramente umana. -
- State forse dicendo che a portarci all'altro mondo non è la falce della Dama Nera? -
- Devo dire che ha una mente acuta. - un sorriso sgradevole gli arricciò le labbra, - La Morte, con mani scheletriche e ammantata da una veste nera, non esiste. Come le divinità nascono quando l'uomo ha fede, così la figura della Morte nasce per dare significato alla paura. E' l'incarnazione della paura stessa. Se ci pensa, la Vedova delle Ossa non è altro che un capro espiatorio per convogliare tutti i timori dell'umanità. -
Il contadino rimase con gli occhi spalancati per alcuni istanti, ma subito scosse la testa e gli rivolse un'occhiata sprezzante: - Voi Slayers non sapete di cosa parlate. -
- Immagino dovrò prendere lezioni da lei, un giorno. - lo sbeffeggiò sarcastico Alan, alzandosi. 
Ma evidentemente il signor Griffon non percepì il tono beffardo nella sua voce, perché aggiunse: - Sarebbe anche ora che vi cominciaste ad ascoltarci, cacciatori. I nostri insegnamenti, che vi ostinate a scambiare per stupida superstizione, potrebbero salvarvi la pelle. -
Alan fece spallucce e con noncuranza si rimise addosso il logoro soprabito. 
- La ragazza viene con me, comunque. -
- Cosa?! No, Angelika deve rimanere qui a far pascolare le mie mandrie e... -
- Credo che le sue mucche dovranno aspettare, signor Griffon. Ho bisogno di lei per le indagini e voi volete che il colpevole venga trovato, giusto? - sibilò e ridusse le pupille a fessure verticali. 
Il contadino si mise a tremare e indietreggiò fino a quando non andò a sbattere contro il tavolo. Il bicchiere cadde a terra, rompendosi in mille pezzi, ma non parve nemmeno accorgersene. Il baluginio ferale in fondo a quelle iridi verdi gli aveva gelato il sangue e lo faceva sentire inerme, indifeso come un animale braccato. Alan sentiva il tanfo della sua paura trasudare da ogni poro.
- V-va... va bene. - balbettò, deglutendo sonoramente.
- Sapevo che sarebbe stato ragionevole. - gli occhi tornarono normali e un sorriso beffardo gli arcuò le labbra. 
Poi si caricò in spalla la spada e la balestra e, con un piede già oltre la soglia della piccola dimora, fece cenno ad Angelika di seguirlo. Lei ubbidì docilmente, la testa sempre al riparo tra le sue braccia magre. Quando uscirono, il solito triste paesaggio li accolse, lo stesso che li aveva accompagnati durante il tragitto verso la casa, con i suoi campi appena arati e i prati dove pascolavano mucche ossute e dal muso smunto. Osservò la ragazza con la coda dell'occhio e vide che gli sorrideva con uno sguardo pieno di gratitudine. Alan sospirò esasperato e si avviò sulla stradina di terra battuta che conduceva a Iadera. 
“In che razza di situazione mi sono andato ad infilare...” 
Angelika gli saltellò vicino e la puzza di putrefazione che ormai tutta la sua figura emanava gli provocò un conato di vomito. 
- Ascolta... - inghiottì l'acido della bile e cercò di mantenere un tono di voce pacato, - Non so cosa fosse per te quel ragazzo di cui ti ostini a portarti dietro la testa, ma non può rimanere così. Le cose sono due: o la seppellisci da qualche parte, opzione che ti consiglio caldamente... -
La ragazza scosse il capo con veemenza e poggiò il naso contro la fronte di Peter, con gli occhi già velati di lacrime.
- ...oppure andiamo a farlo imbalsamare. - concluse lo Slayer. 
Dall'espressione di gioia di Angelika, capì cosa avesse scelto. Alzò gli occhi al cielo e sbuffò, maledicendosi di nuovo per essersi fermato in quella cittadina di merda.
Camminarono per circa una buona mezz'ora in perfetto silenzio e, quando videro le prime case all'orizzonte, affrettarono il passo. A quell'ora non c'erano molte persone in giro, probabilmente alcuni si erano rintanati in casa per sfuggire al caldo, ma Alan sapeva dove si erano recati i più. Percorsero la via principale del paese, per poi imboccare le labirintiche e claustrofobiche viuzze laterali. Poco a poco le stradine cominciarono a ripopolarsi e l'aria si colmò di voci, odori e schiocchi metallici. Alan camminava spedito, stando bene attento a passare inosservato, zigzagando tra la folla col cappuccio calcato sulla testa, mentre Angelika si guardava intorno con la bocca socchiusa e un'espressione sorpresa. Guardava le bancarelle addossate alle pareti dei vecchi edifici, incantandosi ad ammirare le componenti meccaniche, le armi a lungo e corto raggio e le protesi in rame e ferro ossidato che i mercanti esponevano sotto le tende sudice dei banchi. Più di una volta Alan dovette tornare indietro a recuperarla, ma la ragazza sembrava in un altro mondo, meravigliata da quella parte della cittadina così piena di vita e ignara delle occhiate che la gente le rivolgeva. Per lui, invece, l'unica cosa che trovava sopportabile di quel posto era la varietà di spade che i venditori offrivano a prezzi stracciati. In fin dei conti, erano pochi quelli che ancora le usavano.
Sperava di cavarsela in fretta, ma evidentemente la sua compagna non era della sua stessa idea. Così, quando Angelika si fermò per l'ennesima a volta a contemplare il motore a scoppio di una macchina, Alan perse definitivamente la pazienza. Le artigliò il braccio in modo sgarbato e la trascinò via, nonostante i suoi mormorii di protesta. Si infilarono in un vicolo alla loro sinistra, dove i raggi obliqui del sole illuminavano le figure riverse a terra dei tossici storditi dall'Akosmia. L'odore dolciastro della droga aleggiava nell'aria, impregnava i muri di mattoni e trasudava dal terreno come un miasma putrido. Angelika, alla vista dei corpi, sussultò appena, ma Alan procedette a passo sicuro, incurante dei lamenti indistinti che a volte gli giungevano all'orecchio: era uno Slayer, non un medico di buon cuore. Infine entrarono in un palazzo semidistrutto e subito vennero accolti da una cacofonia di urla, odori e colori. 
Angelika lo fissò, stralunata e confusa. Alan allentò la presa attorno al suo braccio e le fece cenno di seguirlo.
- Questo è il mercato nero di Iadera. - spiegò, per poi cominciare a girare per le bancarelle guardando con interesse critico le merci esposte.
In quel posto, inondato dalle urla dei venditori e gremito di cittadini e forestieri, si poteva trovare qualsiasi cosa. D'altronde, quella città di frontiera dimenticata da Dio era il cuore pulsante del contrabbando, il punto nevralgico di una fitta rete di mercanti di tecnologia rubata o, più spesso, proibita. Chi non poteva permettersi di comprare fucili o cercava nuovi prototipi si recava lì, nella speranza di scovare ciò che cercava. Tuttavia, non era raro che tra i fumi di quel vecchio palazzo senza soffitto si vedessero camminare anche uomini di alto lignaggio e nobildonne travestiti da contadini, col cappuccio calato sulla fronte, che procedevano a testa bassa fino alla tenda rossa del trafficante di schiavi. Spesso Alan era passato lì davanti, osservando i volti di uomini, donne e bambini in catene, mentre Bohr, il grasso e flaccido mercante della contea di Morristan, ne elogiava i pregi ai clienti. Più volte aveva avuto la tentazione di intervenire, ma poi la rabbia e l'indignazione venivano immediatamente placate dalla consapevolezza che, anche se avesse provato ad opporsi, nessuno lo avrebbe aiutato: la schiavitù, soprattutto quella dei mezzi sangue e dei bambini, fruttava molto e, in quelle città dove quasi ogni settimana veniva scavata una buca nel cimitero, era stata accettata come un fatto normale, necessario.
“La fame divora anche gli ideali dell'uomo più retto.”
Sospirò e si avvicinò alla bancarella che gli interessava, non più di un pezzo di legno dove erano state disordinatamente appoggiati cavi di rame, accumulatori e arti meccanici nuovi di zecca. Con aria annoiata si rigirò tra le mani un occhio con circuito neuronale impiantabile, nell'attesa che l'ometto stempiato dietro il bancone di accorgesse di lui. Però, a giudicare dall'intensità con cui fissava il metronomo che stringeva tra le dita, Alan capì che avrebbe dovuto attendere molto più tempo di quello che aveva preventivato, dato che il vecchio Bacht diventava isterico se qualcuno lo interrompeva mentre aggiustava qualcosa. Stava già per andarsene, quando udì un urletto di gioia alle sue spalle e voltandosi scorse il cacciavite nella cassetta degli attrezzi ai suoi piedi.
- Sì, l'ho aggiustato! Non mi hai fatto dormire per giorni, ma sapevo che eri recuperabile. - il mercante sfoggiò un sorriso vittorioso e saltò giù dallo sgabello, - Ero sicuro! Ti hanno trattato male, vero, piccolo? Chissà chi era il tuo vecchio proprietario... -
- Ciao, Bacht. -
L'ometto sussultò e solo in quel momento sembrò accorgersi di lui. Lo squadrò per alcuni secondi, mentre la lente cristallina dell'occhio destro si rimpiccioliva per mettere a fuoco la sua figura. 
- Ah, Alan, sei tu! - 
- Sì, sono io. - confermò con tono vagamente irritato.
- Oh, che bella sorpresa averti qui! - gli rivolse un sorriso gentile e, zoppicando sulla gamba meccanica, tornò ad accomodarsi sulla solita sedia vicino al bancone. 
Dalle piccole canne di rame ai lati della protesi fuoriuscirono sbuffi di vapore.
- Allora? Come mai qui? -
- Nulla di che. Sono capitato qui per caso. -
- Mai che tu venga a farmi una visita. - borbottò fintamente offeso, - Sempre in giro per il mondo e poi ricompari come un fungo dal nulla. Mi fai preoccupare, sai? Non ho più l'età. -
- Risparmiami la paternale, Bacht. L'unico motivo della tua angoscia è collegato ai soldi che ti entrano ogni volta che ci vediamo. -
- Sempre a vedere il pelo nell'uovo. - sghignazzò e nell'occhio cieco brillò un baluginio opalescente, - Ma dimmi, se non è la gioia di rivedere un vecchio amico cosa ti porta a Iadera? Per di più in compagnia di una dolce fanciulla. - chiocciò insinuante.
Alan si girò appena e intravide il viso di Angelika tra quelli delle clienti ammassate al banco delle stoffe. Le donne attorno la fissavano con una faccia inorridita, ma lei non sembrava nemmeno rendersene conto. 
Sospirò e tornò a rivolgere l'attenzione al commerciante: - Ho un lavoro da commissionarti, in più devo chiederti delle informazioni. -
A quelle parole, Bacht si sfregò le mani eccitato, sentendo già profumo di soldi, e si allungò verso di lui: - Dimmi, dimmi, sono tutto orecchie. -
Alan fece un cenno ad Angelika e la ragazza trotterellò da lui. Non appena il mercante vide la testa mozzata strabuzzò gli occhi, più per la sorpresa che per la paura.
- Oh... inquietante. -
- Puoi imbalsamarla? Anche se non sembra, non è stata staccata da troppo tempo. - indagò lo Slayer, per nulla turbato.
- Immagino sia il caldo a farla puzzare così tanto. - commentò l'altro. 
Osservò l'oggetto della discussione con espressione critica mentre si lisciava i baffetti, affatto infastidito dal fetore che la testa emanava.
- Che dici? - tornò alla carica Alan.
- Sì, non è poi tanto più difficile che imbalsamare quella di uno Sventratore o di un grifone. Più che altro... non credevo fossi anche un mercenario. Da quello che so, voi Slayer cacciate solo mostri, non uomini. -
- E' una storia lunga. -
- E immagino non si possa raccontare davanti a tutti. -
Alan annuì. Bacht lo fissò, poi si alzò in piedi e accennò col capo verso l'interno del tendone. Un attimo dopo un ragazzo sporco di grasso, con il viso spruzzato di lentiggini e i capelli rossi tirati all'indietro da un paio di occhiali da aviatore, uscì allo scoperto.
- Kyle, tieni d'occhio la merce mentre faccio questo lavoro. -
Il giovane annuì, ma non appena vide Alan, Angelika e la testa fare il giro e avvicinarsi alla tenda, si affrettò a prendere posto sullo sgabello di Bacht. Alla vista della sua espressione disgustata, lo Slayer non riuscì a trattenere un ghigno divertito. 
L'interno non era altro che un piccolo spazio angusto dove regnava il caos più assoluto. Sul tavolo mangiato dai tarli erano sparpagliate cianfrusaglie di vario genere, assieme a pergamene e libri dalle pagine ingiallite. Nell'angolo, ricoperti da una leggera patina di polvere, languivano eliche, motori e fili silicici di vario spessore.
- Scusate il casino, ma, da quando mia moglie è passata a miglior vita, non c'è più nessuno che mi aiuta a tenere pulito questo posto. Il ragazzino qui fuori ci mette del suo. - tossicchiò, togliendo una pila di volumi da una sedia e poggiandoli direttamente a terra, - Mi dispiace soprattutto che una signorina debba vedere tutto ciò. -
Alan inarcò un sopracciglio e lanciò un'occhiata ad Angelika, che sembrava molto più interessata alle viti nella cassetta degli attrezzi piuttosto che alle scuse di Bacht. Il mercante rimase interdetto da quel silenzio, poi incuriosito seguì il suo sguardo e sorrise. Zoppicando le si fece vicino e, non appena le porse una vite, la ragazza l'afferrò senza esitare, gli occhi che brillavano di meraviglia. L'uomo le accarezzò la testa intenerito.
- Che bambina... sembra una piccola driade. Dove l'hai trovata? Per stare con uno come te deve avere pazienza da vendere. - scherzò.
- Non stiamo insieme. - lo freddò, ignorando la frecciatina.
- Sicuramente. -
- Bacht. -
- Sì? -
- No. -
Il mercante sbuffò scocciato e borbottò qualcosa che Alan preferì non ascoltare. Subito dopo si sedette e, dopo aver tirato fuori unguenti e arnesi del mestiere da una piccola scatola di legno, cominciò a imbalsamare la testa. L'aria stantia della tenda si riempì del forte odore di arsenico e battericidi.
I tre rimasero in silenzio per alcuni minuti, tutti immersi nei propri pensieri a parte Angelika, che non smetteva di rigirarsi tra le dita la piccola vite argentea.
- Allora... - cominciò Bacht, tanto per spezzare la tensione, - di chi è la testa di questo povero figliolo? -
Alan si sedette per terra a gambe incrociate e appoggiò la schiena all'enorme motore alla sue spalle.
- Di un certo Peter, un contadino del posto. -
- Ah, capisco. C'è stato un po' di trambusto anche qui, ma non ci ho fatto molto caso. Credevo fossero i soliti quattro idioti mentecatti che si ostinano a vedere nella morte di una mucca l'approssimarsi dell'Apocalisse. Che brutta fine, porca miseria. -
- Già. Lo conoscevi? - sfoderò la spada e osservò la lama fregiata di rune sovrappensiero, annotandosi mentalmente di dover andare al più presto da un fabbro.
- No, non l'ho mai visto qui. Anche se a Iadera vengono anche persone da fuori, non mi pare di aver mai scorto il suo viso. Non che sia una faccia che attiri l'attenzione, si intende. E poi, se era un contadino come dici, non avrebbe avuto alcun motivo per venire a un mercato come questo. -
- Beh, da quello che so era l'amante squattrinato di Angelika, nonché padre di suo figlio. -
Bacht fischiò: - Non ricordavo che i giovani fossero così... promiscui. -
- La ragazza è una Sangue Sporco. Nelle sue vene scorre il sangue delle driadi. -
- Ah, adesso è tutto chiaro. Quando gli abitanti di questa città si sono accorti delle sue origini, le avranno impedito di fuggire e poi se la saranno ripassata per bene, tanto a nessuno importa nulla dei bastardi come lei. Se fosse stata una mezza drago, probabilmente l'avrebbero impiccata ancor prima che arrivasse alle porte della città. -
Alan annuì e, per un attimo, il suo sguardo si adombrò.
- Meno male, credevo ti fossi dato alla caccia di uomini. - esalò sollevato e gli rivolse un sorriso quasi sincero.
Quasi.
“Se potessi, avrei infilato la spada nella pancia di figli di puttana come te e Griffon molto tempo fa.”
Lo Slayer ricambiò con una smorfia sgradevole e un'occhiata ancor più sprezzante. I due si misurarono con lo sguardo e la tensione nell'aria divenne quasi palpabile. Bacht tentò di rimanere impassibile, ma gli occhi di brace di Alan lo mettevano a disagio, facendogli tremare le dita in modo incontrollato, e questo il cacciatore lo sapeva, traendone un insano godimento. Alan strinse la spada e ne percorse il filo con i polpastrelli senza smettere di scrutare il mercante, mentre un ghigno si allargava sul suo viso. Quando Bacht tornò a concentrarsi sul suo lavoro, schioccò appena la lingua, compiaciuto della paura che sapeva incutere negli altri. Ci prendeva sempre gusto a vederli pisciarsi sotto.
- Comunque... - riprese Bacht, schiarendosi la voce, - Non credo tu sia venuto qui per discutere della morale della gente di questo paese. -
- No, infatti. Volevo sapere se eri a conoscenza di qualche dettaglio a proposito delle morti che hanno avuto luogo a Iadera. Griffon mi ha riferito che Peter, il proprietario della testa, è solo l'ultimo di una lunga serie. -
- Uhm... è da un po' che non vengo qui. Ho trovato un'ottima clientela nella contea di Phantomshire, quindi manco da un paio di mesi, ma ora che mi ci fai pensare durante la strada ho sentito alcune voci. -
- Ho parlato col sindaco e con uno degli abitanti e mi hanno riferito che il Dottor Mercer crede siano dovuti all'attacco di orsi. -
- Ma tu non ne sei convinto. - concluse l'ometto.
- No, per niente, non ha minimamente senso. Per quanto gli Orifax siano feroci, la foresta di Brunne dista più di tre miglia. Nessuno di quegli orsi troppo cresciuti si avventurerebbe fino a un villaggio umano, nemmeno per cacciare. Le vittime, da quello che so, sono state tutte uccise in modo piuttosto violento, ma non reputo credibile accusare gli Orifax delle loro le morti. -
- In effetti hai ragione. Anche perché gli Orifax sono dotati di denti e artigli. -
Vedendo la faccia accigliata di Alan, Bacht gli fece cenno di avvicinarsi.
- Vedi qui? - gli indicò la pelle lacerata del collo, - E' un taglio troppo regolare, sembra inferto da una lama. In che stato è il resto del corpo? -
- Non lo so, non so nemmeno dove si trovi e se ci sia un resto. - 
Bacht alzò un sopracciglio e lo fissò con aria critica: - Sei davvero un pessimo investigatore. Ora capisco perché sei uno Slayer di classe B. -
Alan fece spallucce: - Dopo che avrai finito, mi farò portare da Angelika sul luogo del delitto. La ragazza ha lasciato una copiosa scia di sangue venendo qui, sono sicuro che il signor Dumbar e i suoi uomini saranno riusciti a trovare il cadavere. -
A sentir pronunciare quel nome, il mercante sputò per terra, un'espressione disgustata tirata sulle labbra sottili: - Quell'uomo... che la morte se lo porti nella tomba! Sempre a mettere il naso dappertutto e a rompere il cazzo alla brava gente, mai che riesca a fare il suo dovere senza aprire quella fogna. -
- Amici per la pelle, eh? -
- Nessuno può avere simpatia per quel leccaculo di Dumbar. Quell'uomo, anzi, mezz'uomo, da quando ha ricevuto la stella da Guardiano, crede di essere chissà chi. Bei tempi quando c'era ancora Jacob e noi poveri mercanti potevamo esercitare senza problemi. E diavolo, puzza peggio di un porco! -
- Non che gli altri profumino di acqua di rose. -
- Sì, ma lui di più. Sembra che abbia mangiato un cadavere. -
- Oh, beh, dovresti esserci abituato ormai. Comunque, quanto tempo pensi di metterci? -
- Credo almeno altre due o tre ore. Purtroppo imbalsamare una testa non rientrava nelle mie specialità nemmeno quando esercitavo come medico legale. -
- Giusto, giocavi al piccolo sarto richiudendo i cadaveri dopo aver rubato loro gli organi. - rispose caustico.
- Dettagli, dettagli. - borbottò e cosparse il viso di Peter con un altro po' di arsenico, - Puoi aspettare qui, basta che non tocchi nulla. -
Alan si girò a guardare Angelika e vide che aveva lasciato perdere la vite per giocare con dei cavi di rame e, giudicare dall'attenzione che vi stava dedicando, non sembrava intenzionata a muoversi di lì. Lo Slayer sospirò rassegnato, prese uno dei libri dall'enorme pila e fece per andarsi a sedere, quando dall'esterno della tenda udì un gran trambusto. Senza perdere tempo compì qualche passo verso l'uscita e da dietro il bancone vide un omone che sbraitava contro una bambina, minacciandola a gran voce. La piccola, vestita con un abito lacero e due scarpe diverse ai piedi, tremava come una fogliolina, scongiurandolo di perdonarla. 
- La prego, signore, io... io... -
- Signore un cazzo! Mi hai fatto cadere tutta la roba, hai idea di quanto ho speso? Ma adesso mi occuperò io di te. -
Sotto gli occhi indifferenti dei presenti alzò un braccio per tirare un pugno alla bambina. Alan scattò verso di loro, ma prima che riuscisse a intervenire una voce alta e imperiosa vibrò nell'aria.
- Fermo. -
Dalla folla avanzò una figura a dir poco bizzarra. Era un uomo alto, tanto che Alan calcolò che lo superasse di almeno due teste, e indossava un frac interamente nero, con una tuba lucida calcata in testa dalla quale spuntavano delle sparute ciocche bianche. Camminava con tranquillità, osservando gli astanti con sufficienza, appoggiandosi a un bastone lucido laccato di rosso. Sul naso sottile portava un paio di semplici occhiali dalla montatura argentata. Dire che un'eleganza del genere in quella città era fuori luogo era un eufemismo.
- E tu chi cazzo sei? - sbraitò l'omaccione che stava per colpire la bambina.
Tutti gli occhi dei presenti erano fissi su di lui. Il nuovo arrivato sorrise appena e sul viso affilato emerse una piccola ragnatela di rughe, specialmente sulla fronte e agli angoli della bocca.
- Sono la Giustizia. A sua disposizione, messere. - rispose teatrale.

 

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Capitolo 5
*** Act. 1 - Justice, Abraham Justice ***


Slayers
Act. 1 - Justice, Abraham Justice



- Giustizia? Ma che razza di nome è? -
Il vecchio che si era presentato con tale nome avanzò di un altro passo.
- Non vedo il problema, messere, inoltre non reputo di alcuna rilevanza che il mio nome debba essere oggetto di discussione, dal momento che non fui io a sceglierlo, ma la madre mia e il padre mio. - 
Si aggiustò gli occhiali sul naso e con grazia si frappose tra l'uomo e la bambina, che non aveva mai smesso di tremare.
- Orbene, a cosa è dovuta questa disputa? Lei, che mi sembra un gran signore, perché ha alzato la voce in tal modo? Nei confronti di una dolce fanciulla, per giunta. -
- Come perché? Quella mocciosa mi ha... -
- Fanciulla, messere. Fanciulla. - lo corresse.
- Quel diavolo che è! Mi ha fatto cadere tutta la merce che avevo comprato: l'oculare, il metronomo e quei gingilli strani mi sono costati più di novanta raie. Ora guardi come sono ridotte! - sputò irato e indicò gli oggetti impolverati ai suoi piedi, - I soldi di mesi di duro lavoro buttati per colpa di questa str... -
- Fanciulla. - scandì nuovamente, l'indice alzato come un maestro che impartisce una lezione ad un allievo particolarmente duro di comprendonio.
- Quello che è! - sbraitò esasperato, - Ora si sposti, le devo insegnare come camminare per strada. -
La bambina pigolò qualcosa a fior di labbra, gli occhi sgranati per la paura, abbassò la testa e si strinse nelle spalle, pronta a ricevere la punizione. Alan mise mano alla spada, ma in quel momento lo strano vecchio girò appena il capo verso di lui. La luce che brillò in fondo alle iridi grigie fermò lo Slayer dal compiere qualsiasi azione, alla stregua di un cane che obbedisce al comando del padrone. Tuttavia, non osò ribellarsi.
- Uhm... osservando i suoi acquisti, posso supporre con ragione che il mercante che le ha venduto questi aggeggi tecnologici si sia fatto beffe di lei. - si chinò e raccolse uno dei libri, - Si dà il caso che questo tomo sia un saggio su messer Chatér Cambreshir, il più grande cuoco di tutti i tempi, maestro nell'arte della cucina elfica. -
- Ma che...? Tu che ne sai, eh? Ti credi un damerino di alta classe, un so-tutto-io dalla lingua troppo lunga per i miei gusti. - sibilò rabbioso, abbandonando i convenevoli.
- Le sto solo facendo notare che è stato imbrogliato. - spiegò senza scomporsi.
- Oh, immagino che il signore qui se ne intenda più di me. Un uomo di mondo che offre il suo sapere a dei poveri buzzurri come me. - replicò sarcastico e ridusse gli occhi a fessure. 
Alan notò che aveva stretto le mani a pugno fino a far sbiancare le nocche.
- Credo non abbia capito il senso del mio discorso. - disse con voce pacata.
- No, invece, ho capito perfettamente! Ti ho già detto di levarti di torno, ma evidentemente hai le orecchie foderate di sterco. -
Sollevò il pugno per colpirlo. Il vecchio alzò gli occhi al cielo e sospirò con fare teatrale, poi agguantò la bambina per un braccio e rapido si spostò a sinistra per fare uno sgambetto all'uomo. Costui, com'era prevedibile, perse l'equilibrio e cadde lungo disteso nella polvere con un tonfo e un grugnito sorpreso. 
- Avremmo potuto evitare questo inutile tafferuglio, se lei si fosse dimostrato un pochino più ragionevole. - commentò il vecchio con aria mortificata, poi lasciò la presa sul braccio della piccola e le accarezzò gentilmente i capelli sporchi. 
Alan era sicuro che, nonostante l'espressione dispiaciuta, si stesse divertendo tanto e forse anche più della gente radunata in cerchio attorno a loro.
Il padrone della bambina, però, sembrava non volerne sapere di fermarsi a ragionare, e magari realizzare la figura ridicola che stava facendo. Si tirò su e sbuffò come un toro impazzito, prima di caricare l'anziano damerino nuovamente, ma stavolta quest'ultimo non si mosse. Attese che fosse abbastanza vicino, dopodiché gli afferrò una spalla e lo scaraventò contro il banco del mercante di stoffe, dietro di sé. La folla si aprì e il commerciante fece in tempo a saltare di lato, prima che il corpo massiccio dell'uomo si schiantasse contro il piccolo palchetto di legno, mandando all'aria ogni cosa. Una donna lanciò un urlo isterico, seguito da quello di un'altra ragazza, che corse a rintanarsi dietro un carro, sparendo alla vista.
L'uomo si rialzò, gli occhi sgranati, iniettati di sangue per la rabbia, e le labbra macchiate di rosso. Il vecchio lo fissò impassibile e, ancora una volta, attese che il suo avversario gli arrivasse addosso. Poi, con la fluidità di un felino, scattò indietro e con un gioco di polso afferrò il bastone dalla parte della punta. L'altro esplose in una risata e sibilò qualcosa tra i denti, ma prima che potesse anche solo fiatare, il pomello d'argento del bastone si abbatté con violenza contro la sua guancia, rompendogli qualche dente. Uno scricchiolio agghiacciante risuonò tra gli astanti e l'uomo precipitò a terra con un tonfo, privo di sensi.
Alan fischiò, fintamente impressionato. Fece per tornare nella tenda, quando una mano gli si posò sulla spalla: una stretta educata, ma terribilmente salda. 
- Buon giovanotto, vorrei conversare con lei in privato. Sarebbe disponibile? -
- Dipende da chi mi cerca. -
Lo Slayer si voltò, ritrovandosi faccia a faccia col sorriso a trentadue denti del vecchio. Quel sorriso era inquietante. Una sensazione simile all'angoscia gli artigliò le viscere. 
- La mia persona si sarebbe già presentata poc'anzi. -
- Dubito seriamente che dei genitori possano dare un nome così strano al proprio figlio, a meno che non lo odino. - Alan gli spostò la mano e fece un passo indietro, - Se mi fa la grazia di dirmi il suo vero nome, prometto che rifletterò sulla sua proposta, signore. -
Ora che lo osservava più da vicino, non sembrava così vecchio come gli era sembrato. Prima che facesse volare un uomo di almeno dieci chili in più di lui, s'intende. 
Sulle labbra sottili di quello strano individuo comparve un mezzo sorriso: - Ha ragione. Effettivamente, le ho mancato di rispetto non presentandomi come si deve. - 
Si tolse la tuba e si inchinò leggermente, ma uno sferragliare concitato lo costrinse a voltarsi. Tre guardie, con addosso delle pesanti cotte di maglia e il fucile già imbracciato, stavano marciando verso di loro. Un mercante li additò, bisbigliando qualcosa all'orecchio del capo, e i tre si diressero nella loro direzione.
- Ehi, voi due! Che diavolo avete combinato? - 
Il vecchio inarcò un sopracciglio, visibilmente irritato dall'interruzione, ma non si scompose.
- Signori, sono solo venuto a trovare un collega e, mentre girovagavo, ho avuto un piccolo screzio con uno dei vostri rispettabili cittadini. - illustrò affettato, mentre esaminava con occhio critico la minuscola macchia di fango che era andata a finire sulla tuba, visibile solo all'occhio mutante di Alan o alla lente di un microscopio.
La seconda guardia, dopo aver occhieggiato l'uomo svenuto ai suoi piedi, probabilmente la vittima della colluttazione, serrò ancora di più la presa sul fucile.
- Jasper, vai a chiamare i rinforzi, qui serve la cavalleria pesante. -
Lo Slayer si passò una mano sul viso, cercando di nascondere un sorriso divertito. 
- Tu, cacciatore, cosa hai da ridere? Ti faccio saltare il cervello, se non la pianti subito! - ringhiò il soldato, mentre sollevava il fucile e glielo puntava contro.
Ad Alan non sfuggì il lieve tremore delle sue mani e si chiese distrattamente se quell'idiota sarebbe riuscito a premere il grilletto o persino a prendere la mira senza pisciarsi addosso.
- Che giornata fortunata. Anche un'altra persona ha minacciato di spararmi in testa. - rispose in tono piatto.
- Se non chiudi quella fogna... -
- Calma, signori, calma. - li blandì il vecchio, aprì la giubba e dalla tasca interna tirò fuori lo stemma con l'effige del grifone, - Il mio nome è Justice, Abraham Justice, e sono lo Slayer che avete richiesto alla Dogma. -
Le tre guardie si lanciarono degli sguardi confusi.
- E allora perché non si è presentato prima, eh? Inoltre abbiamo già lui! - rispose uno e indicò Alan con la canna del fucile.
- Credevo che essermi annunciato pubblicamente sarebbe bastato. Insomma, chi se non gli Slayers possono vantarsi di essere i paladini della giustizia? Chi se non uomini abili, nati dalle mani della Dogma solo per difendere i deboli e gli oppressi, possono portare la punizione della legge in queste terre selvagge? - gli fece notare alzando la voce.
Alan avrebbe voluto sottolineare che lui era tutto tranne che un paladino della giustizia, ma il suo compagno sembrava troppo esaltato per osare contraddirlo, e se gli sguardi avessero potuto uccidere, quello delle guardie e di tutti i cittadini raccolti intorno a loro sarebbero stati a dir poco mortali. Con eleganza felina si tolse dalla linea di tiro, giusto per essere sicuro che una pallottola volante non gli facesse un bel buco nel cervello, visto l'andazzo delle ultime ore.
- Comunque, se i messeri non mi credono, posso dar loro una dimostrazione. -
Fece ruotare il bastone e in un attimo disarmò le guardie, che indietreggiarono immediatamente. Un colpo partì dalla canna di uno dei fucili caduti e un vaso di ceramica esplose alle spalle di Alan. Un bambino urlò spaventato e la gente arretrò.
- Bene, ora che lor signori si sono sincerati della mia identità, possano tornare ad occuparsi di faccende più importanti. - li invitò con voce apparentemente calma, ma ad Alan non sfuggì il tono sprezzante con cui pronunciò quelle parole.
I soldati si guardarono con aria incerta, ma un'ultima occhiata gelida del vecchio fugò ogni reticenza. Raccolsero le armi e se la diedero a gambe senza voltarsi indietro.
- Devo dire che sa essere molto convincente quando vuole, Abraham. - commentò il giovane cacciatore, esibendo un sorriso divertito.
- Oh, dammi pure del tu. In fin dei conti, siamo pur sempre colleghi, Alan. - prese un fazzoletto dai pantaloni e si pulì gli occhiali con aria soddisfatta.
Lo Slayer stava per chiedere come facesse a conoscere il suo nome, quando sentì una mano delicata stringergli il braccio e l'ormai familiare odore di putrefazione gli penetrò nelle narici.
- Oh, non immaginavo fossi in dolce compagnia. - un sorriso sornione si dipinse sulle labbra sottili di Abraham, - Se vuoi, possiamo parlare più tardi. -
Quello sguardo carico di sottintesi, accompagnato dall'atteggiamento spavaldo da uomo vissuto, ad Alan suscitò non poco fastidio, ma non lo diede a vedere, mentre Angelika si limitò a stringersi ancor di più a lui. In quel momento, si ritrovò a ringraziare le lunghe ed esasperanti discussioni con Frejie, durante le quali si era allenato a costruire una perfetta faccia di bronzo per mascherare la noia o la furia omicida.
- Non ti preoccupare, non abbiamo molto da fare. Ho chiesto un favore a un amico, ma non credo si sbrigherà presto, e questa ragazza non ci disturberà. - rispose neutro.
- Oh, va bene. La compagnia di una gentil donzella non può che essere gradita. - sorrise affabile all'indirizzo di Angelika.
Si sistemò il colletto e si rimise la tuba in testa. Poi, dalla tasca interna della giacca, tirò fuori un paio di monete d'oro e le lasciò cadere sui resti del banco distrutto con assoluta indifferenza. Quei due pezzi di metallo corrispondevano a duecento raie, una somma che Alan guadagnava forse con l'uccisione di una Wraith, faticando e sudando sette camice, per non parlare del concreto rischio di morte. La cosa lo indispettì.
Il mercante offeso osservò le monete con occhi avidi, ma non ebbe il coraggio di andarle a raccogliere fino a quando Abraham non si fu allontanato. Allora, con le gambe tremanti e lo sguardo che saettava a destra e a sinistra simile a quello di una gazza ladra, si gettò a terra, impadronendosi con gesti febbrili del risarcimento fin troppo generoso del cacciatore.
- Su, fammi strada. É quasi l'una e ho proprio voglia un bel tè caldo. - esordì il vecchio.
Alan assentì piano e, con Angelika attaccata al braccio e Abraham che li seguiva a breve distanza, si fece strada verso l'uscita. Quando passarono in mezzo alla folla, le persone si voltarono dall'altra parte come se nulla fosse successo, sebbene il timore fosse ben visibile sui loro volti.

                                                                            *
- Per Dio, questo tè è... -
- Ti avevo detto di prendere qualcos'altro. - sbuffò Alan con una scrollata di spalle.
- Non è un'opzione accettabile: il tè dopo pranzo è un obbligo, nonché un piacere che ogni gentiluomo, quale io sono, dovrebbe regalarsi. Anche se, devo ammetterlo, questo è proprio... - fece un gesto vago, per la prima volta senza parole, ma la sua espressione ne valeva mille.
Alan sospirò e affogò i borbottii con un altro sorso di birra. Il sapore del malto gli pizzicò fastidiosamente il palato, ma l'arsura che regnava all'esterno rendeva decisamente piacevole alle sue papille gustative quella bevanda di qualità scadente. 
Si erano recati in una topaia di periferia dopo aver camminato sotto il sole cocente delle due del pomeriggio, solo e soltanto perché Abraham voleva bere quello stramaledetto tè. Peccato che, da quando erano arrivati, cioè all'incirca un'ora prima, non aveva fatto altro che lamentarsi, cosa che aveva seriamente messo a dura prova la già inesistente pazienza di Alan. L'unica che non sembrava vicina a una crisi di nervi era Angelika, che invece aveva mangiato di gran gusto anche buona parte delle porzioni dei due cacciatori. 
- La signorina aveva fame, vedo. - scherzò Abraham, esibendo un sincero sorriso divertito, forse l'unico che Alan gli avesse visto fino a quel momento.
- E' un peccato che non siate una coppia. Ti darebbe un molta soddisfazione in cucina. -
- Non ci so fare ai fornelli. -
- Per tutti i numi, che dici? Il cibo è uno dei leganti dell'amore! Chatér Cambreshir... -
Alan optò per sedarlo prima che ricominciasse a stordirlo di chiacchiere su cose di cui non gli importava un accidente.
- Sì, sì, molto interessante, ma ti assicuro che non siamo niente di più che sconosciuti finiti nei casini assieme. -
Il vecchio ridacchiò, scosse la testa e riprese a sorseggiare il tè in perfetto silenzio.
“Ma guarda questo...” 
Lo Slayer si sistemò sulla sedia e lanciò un'occhiata annoiata ad Angelika. Mentre divorava anche la sua parte di tacchino, aveva avuto modo di studiarla e aveva dovuto ammettere con se stesso che era veramente bella: gli occhi verdi e i capelli color cenere, lunghi fino alla vita, le donavano un'aria selvaggia e allo stesso tempo innocente. Il modo meravigliato con cui sbatteva le ciglia, poi, addolciva ancora di più il suo aspetto, rendendolo fanciullesco. Eppure c'era qualcosa che stonava. Angelika l'aveva guardato e Alan si era reso conto di quanto fosse grande la veste che copriva quel corpo esile e quelle spalle magre e ossute. 
Il tintinnio della tazzina sul piatto di ceramica lo ridestò bruscamente dai suoi pensieri. 
- Ordunque, ti ho invitato qui, esimio collega, per discutere di un tema ben preciso. - l'espressione di Abraham si incupì e le labbra si serrarono in una linea dura e sottile.
Alan lo invitò a continuare con un cenno del capo, ma nella sua mente si era già profilato il motivo che li aveva condotti in quell'osteria.
- Suppongo tu sia a conoscenza degli orrori che hanno turbato la quiete Iadera. Da quello che ho avuto modo di capire, ti sei già assunto l'incarico di far luce su questo mistero. -
- Diciamo di sì. - confermò Alan.
- Bene, ma purtroppo sono io il cacciatore assegnato a questo caso dalla Dogma. Dovresti sapere che rubare la missione di un tuo collega non è tollerato. -
A quelle parole, il giovane dovette reprimere una risata. Tutti gli Slayer di grado basso passavano il loro tempo a far fuori i loro compagni per sottrar loro i soldi e le carte bollate dell'organizzazione e, fino ad allora, nessuno dei piani alti si era degnato di risolvere il problema. Non che la cosa gli importasse, già da quando si addestrava alla Rocca di Mohor aveva fatto sua la filosofia di vita intrinseca alla Dogma stessa: cacciare o essere cacciato. Celando una smorfia infastidita, si sistemò meglio sulla sedia.
- Non lo sapevo. A essere proprio sinceri, sono capitato qui per sbaglio. Ho saputo degli omicidi soltanto stamani. -
- Davvero? - domandò Abraham, fingendo stupore.
- Non ho motivo di mentire. Se non è strettamente necessario, cerco di non mettermi contro la gente sbagliata. -
- Ah, si? E cosa ti fa credere che io sia la persona sbagliata? - ghignò il vecchio e una scintilla sinistra brillò nelle sue iridi grigie.
Alan lanciò un'occhiata distratta alla sua sinistra, osservando per un istante la sala vuota e polverosa dell'osteria. Poi tornò a fissarlo e sostenne il suo sguardo penetrante senza timore.
- Non ci vuole molto, Abraham. Sei vestito con abiti eleganti e osservi il mondo che ti circonda con lo stesso disinteresse di un bambino che si è stufato del proprio giocattolo. Per mia fortuna, non ho incontrato molti Slayer di classe SS, ma un comportamento come il tuo se lo possono permettere solo i più forti o quelli che credono di esserlo. -
- E io in quale di queste due categorie rientrerei? - 
Lo scrutò intensamente e Alan si sentì nudo sotto quegli occhi gelidi. Per la prima volta dall'inizio di quella conversazione percepì un brivido freddo scivolargli lungo la spina dorsale.
- Non lo so e non sono sicuro di volerlo scoprire. -
Tra di loro calò un pesante silenzio, interrotto soltanto dai mugugni di Angelika che mangiava. Da fuori, un fievole venticello portò con sé il leggero parlottio degli abitanti di Iadera, ma lo Slayer sapeva di poterle sentire solo grazie al suo udito fino e che in realtà lì, su quella strada nascosta dalle ombre dei palazzi in rovina, c'erano solo loro tre e il proprietario della bettola. Se Abraham avesse voluto ucciderlo, sarebbe morto ancor prima di sfoderare la spada. Si maledì per non aver pensato prima a quell'eventualità e, istintivamente, mise la mano sull'elsa.
Con un mezzo sorriso, il vecchio pulì con un fazzoletto di stoffa il pomo del bastone. Ancora una volta, Alan si stupì di quanto la sua eleganza facesse a pugni con il sudiciume che lo circondava.
- Sei molto acuto per essere così giovane. Anche tuo padre aveva capito di che pasta ero fatto già al nostro primo incontro. Gli somigli molto. E questo è un complimento. -
Alan non si sorprese più di tanto. Tutti conoscevano Vincent, ma ben pochi potevano ricondurre il suo aspetto a quello del cacciatore che cinquant'anni prima aveva ucciso il mostro più forte che la Dogma avesse mai conosciuto: Hannabeth di Corvia, la prima Lilith, sua madre.
Si spostò con malagrazia una ciocca rossa dal viso, senza proferire parola.
- Non devi preoccuparti delle possibili ripercussioni delle tue avventate azioni, comunque. Posso immaginare che nel tuo profondo volessi solo porre fine alle orrende atrocità che lordano le strade di questa piccola e proba cittadina, perciò non farò rapporto alla Dogma. - accavallò le gambe e intrecciò le dita sul tavolo, assumendo una posa rilassata. 
Alan notò che aveva ripreso a parlare nel suo solito modo fastidiosamente artificioso.
“Beh, almeno non mi ha tagliato la testa.” 
- Mentre mi avviavo qui, mi sono prodigato a cercare informazioni sul caso, a differenza dei giovani d'oggi, che si perdono nelle loro fantasticherie amorose. - disse allusivo, elargendo un'occhiata pregna di significato ad un'ignara Angelika, che ruminava sul suo piatto.
- Fantasticherie amorose che vedi solo tu. - borbottò esasperato.
Abraham scrollò le spalle e cambiò argomento: - Sei andato a controllare la scena del delitto? -
- No. -
- L'abitazione della vittima? -
- No. -
- Hai analizzato il corpo? -
- Non credo ci sia un corpo. -
- Non credi, appunto. Per essere dei buoni paladini della giustizia, bisogna disporre di diverse caratteristiche, tra le quali il grande Emrad di Karden annovera la capacità di pianificare con meticolosità le proprie strategie. Affinché il nostro operato esprima il volere della legge... -
- Sì, ho capito, risparmiami la lezioncina. - tagliò corto Alan, - Comunque, cosa hai scoperto? Ho parlato col sindaco e mi ha riferito che sono stati gli orsi. A mio parere è improbabile. -
Abraham schioccò le dita verso l'oste, facendogli cenno di portare il conto: - L'egregio Dottor Mercer, primo cittadino e detentore dell'ordine, per quanto grande e rispettabile non conosce i mostri che vivono qui, come al contrario ho avuto modo di apprendere dai pellegrini incontrati lungo la strada. -
- Nella richiesta d'aiuto, invece? Non c'è scritto nulla riguardo gli altri casi? -
- Non è mai arrivata nessuna richiesta di aiuto alla Dogma da Iadera. - rispose pacato, mentre con lo sguardo seguiva i movimenti impacciati dell'oste.
Alan sospirò, ma non commentò. Guardò in tralice Angelika, che si era appisolata con la testa sul tavolo, poi rivolse nuovamente l'attenzione sul collega.
- Non mi sembri sorpreso. - commentò Abraham, che adesso scrutava accigliato il foglietto stropicciato del conto.
- Non c'è da stupirsi che mi abbia mentito. Non mi aspettavo altrimenti da un uomo così. -
- Non siamo qui per discutere sulla moralità del Dottor Mercer, non ci compete. Ora, da quello che ho udito durante il mio lungo girovagare fino a qui, gli omicidi negli ultimi sei mesi sono cresciuti esponenzialmente, con un incremento del duecento per cento negli ultimi tre. Alcuni di quelli che ho avuto il piacere di incontrare mi hanno riferito che si pensava fossero stati gli Orifax, ma noi sappiamo che gli Orifax non si spingono così vicino agli insediamenti umani da più di trent'anni. -
Posò le monete sul tavolo e sbuffò corrucciato.
Alan fece un lieve cenno di assenso, che Abraham interpretò come un'esortazione a continuare.
- Di solito tendo a non dare troppo credito a ciò che il vile e ignorante popolino sussurra, ma quando ho sentito che addirittura qualcuno ha visto la Dama Nera in persona, sono quasi rimasto senza parole. All'inizio pensavo fossero i vaneggiamenti di qualche povero pazzo, ma poi la voce è diventata sempre più insistente e... beh, si potrebbe dire che quando un bisbiglio si tramuta in un coro, forse non sono tutte menzogne. -
- Non ti facevo così superstizioso. - ghignò.
- Non lo sono, infatti. Però ritengo che sia da sciocchi escludere delle possibilità sulla base delle nostre certezze, che talvolta possono rivelarsi confutabili e prive di una base solida. In questo mondo non credevamo fattibili tante cose e ora guarda dove siamo arrivati: macchine a vapore, armi capaci di bruciare la distanza di una freccia in un battito di ciglia, protesi che permettono a soldati mutilati di tornare a camminare. Cent'anni fa tutto ciò sarebbe stato additato come la visione allucinata di un folle, invece oggi è accettato dai più come normale. -
- Dove vuoi arrivare? -
- Io? - si alzò e rimise a posto la sedia, - Da nessuna parte, Alan. A volte mi piace perdermi in discorsi senza né capo né coda. Sai, noi cacciatori antiquati amiamo filosofeggiare sui bei tempi andati, ci fa sentire come dei sopravvissuti, eroi di un'epoca che non tornerà mai più. Le donne lo trovano affascinante. - ammiccò.
Alan assicurò la spada alla cintola e si mise la balestra in spalla. Scosse appena Angelika per svegliarla e la ragazza socchiuse lentamente le palpebre, fissandolo con gli occhi ancora appannati dal sonno.
- Ad ogni modo, considera il caso tuo. Agli anziani come me non servono molte raie per condurre una vita dignitosa. - continuò pacatamente Abraham, - Inoltre, sono convinto che questo lavoro ti regalerà la notorietà che cerchi. Tutti i giovanotti come te smaniano affinché qualcuno dia loro l'occasione di distinguersi ed ergersi al di sopra degli altri e io te la sto offrendo. Vediamo di cosa sei capace. -
Si mise il capello in testa e un sorriso sghembo e inquietante si dipinse sulle labbra sottili. Alan avvertì ancora quel brivido freddo serpeggiargli lungo la schiena, ma mantenne gli occhi fissi in quelle fangose pozze grigiastre.
- Allora arrivederci, mio caro Alan. Alza la spada verso il cielo e lascia che la voce della Giustizia ti guidi lungo la strada della purificazione. - recitò solenne.
Infine, Abraham Justice gli diede le spalle e pochi istanti dopo la campanella posta sopra la porta del locale trillò, salutando il vecchio cacciatore.
Lo Slayer rimase immobile, pietrificato, incapace di dare un nome all'irritante sensazione di disagio che quegli occhi gli avevano suscitato dentro. Mai aveva conosciuto qualcuno in grado di annichilire una persona con la sola forza dello sguardo, facendolo sentire inferiore, una formichina al cospetto di un lupo feroce. Percepì le dita di Angelika stringersi attorno al suo braccio, ma quel tocco delicato non riuscì a placare l'agitazione provocata dal ghigno sgradevole del vecchio. 
In quel momento Alan realizzò che ciò che provava, quel senso di oppressione misto a un forte turbamento, si chiamava "paura".

 
 

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Capitolo 6
*** Act. 1 - Investigation ***


Slayers
Act. 1 - Investigation



Alan gettò un'occhiata intorno a sé, osservando con attenzione l'area in cui Angelika l'aveva condotto per cominciare le indagini. Era una striscia di terra vicina ad una macchia di ontani, dove spesso i contadini portavano a pascolare il bestiame. Un bel posto dove schiacciare un pisolino, se non fosse stato per il corpo senza testa che giaceva supino accanto alla sponda di un laghetto poco lontano. 
Non appena erano giunti lì, Angelika si era bloccata di colpo, per poi iniziare a tremare, scoppiando in un pianto disperato che l'aveva costretta in ginocchio. Alan l'aveva fermata in tempo quando l'aveva vista in procinto di precipitarsi a stringere il corpo di Peter, che aveva conservato a malapena i vestiti. Le ossa spezzate spuntavano fuori dalle carni lacerate, mentre le interiora erano state attaccate dai vermi, che stavano ancora banchettando. 
Lo Slayer strinse le spalle della ragazza e attese che si calmasse in completo silenzio. Angelika si dimenò, nel vano tentativo di liberarsi, ma la presa di Alan si rinsaldò sempre di più, provocandole dolore. Era troppo debole e malnutrita per sfuggirgli. Così rimase immobile accanto a lei, in attesa che smettesse di dibattersi, gli occhi fissi davanti a sé.
Quando il respiro della ragazza si regolarizzò, si decise a parlare: - Ascoltami, ora vado ad analizzare il corpo. Tu non ti devi avvicinare per nessuna ragione, chiaro? -
Angelika tremò leggermente e un altro singhiozzo le squassò il petto. Assentì piano, gli occhi verdi arrossati dal pianto e i denti che affondavano nelle labbra. Alan la scrutò con attenzione per sincerarsi che avesse davvero capito, poi, con un movimento fluido, si tolse il soprabito e glielo adagiò delicatamente sulle spalle: nonostante il sole non fosse ancora tramontato, l'umidità e il freddo avevano già cominciato ad avvolgere quel luogo.
Quando si avvicinò al corpo, la prima cosa che notò fu l'enorme quantità di sangue che lo circondava. Il liquido cremisi era schizzato ovunque, descrivendo dei macabri disegni scarlatti sulle rocce e sull'erba, per non parlare dello squarcio che si estendeva dal torace al basso ventre. Pareva che lo avessero letteralmente aperto in due. Alan valutò che servisse un'enorme forza per ridurre in quel modo un uomo. Portò il braccio del cadavere vicino al viso e studiò le tracce di fango rappreso sotto le unghie. In seguito, rivolse l'attenzione ai solchi nel terreno, che partivano dal confine col bosco fino ad arrivare al laghetto, lì dove era riverso Peter. Con delicatezza lo girò e, proprio in mezzo alle costole, vide un piccolo foro perfettamente circolare.
“Non è stato ucciso qui." 
A quanto sembrava, era stato colpito alle spalle da un quadrello che gli aveva trafitto la vena polmonare. Poi, nonostante l'emorragia che lo rendeva sempre più debole, era scappato nella speranza di trovare aiuto, ma l'assassino doveva averlo raggiunto, per poi trascinarlo sin lì. Aveva lasciato il cadavere sotto il cielo, esposto, come se desiderasse che qualcuno lo trovasse. 
Alan annusò i tagli che correvano su tutto l'avambraccio. 
“Sono più freschi delle altre ferite.”
Sospirò e passò ad esaminare il collo che, forse, era l'unica parte di Peter ad avere ancora qualche pezzo di carne intatto. Come aveva detto Bacht, l'incisione che aveva staccato la testa dal corpo era fin troppo regolare per essere stata operata da un Orifax incazzato. 
“Quindi, questa è la prova che mi serviva per escluderli dal caso, a meno che non abbiano improvvisamente acquisito la capacità di imbracciare una balestra.” 
Ghignò divertito quando nella sua mente si affacciò l'immagine di uno di quegli orsi giganteschi armato di arco e frecce.
Ignorando, non senza fatica, il forte odore di putrefazione, voltò nuovamente il cadavere e riprese ad esaminare i vestiti. A giudicare da quello che ne rimaneva, originariamente Peter non doveva aver preventivato di uscire. Non poteva esserne certo, ma di sicuro non era usanza locale uscire a fare una passeggiata con i pantaloni del “pigiama”. Forse era stato aggredito nella sua abitazione ed era scappato in fretta e furia. Forse aveva aperto al suo assassino e solo dopo averlo fatto entrare in casa si era accorto dell'errore. In ogni caso, Alan aveva prove sufficienti per affermare che gli Orifax non erano coinvolti. Con quello che aveva in mano, gli veniva da pensare che magari poteva essere stato qualche essere umanoide, ma che ricordasse, a parte ghoul, wraith e necrofagi minori, in quella zona non c'erano creature capaci di fare... quello. Sospirò e osservò nuovamente i tagli sulle braccia.
“Un vampiro? No, quei cosi non amano sprecare il sangue del loro 'bestiame'. E poi perché avvalersi di un'arma a distanza, se puoi fare facilmente a pezzi un uomo? Forse voleva compiere un lavoro pulito, ma per qualche ragione ha perso il controllo, combinando tutto 'sto casino. Oppure...”
Una mano tremante si posò sulla sua spalla, distogliendolo dai suoi pensieri. 
- Non ti avevo detto di aspettare lì, Angelika? -
Girò appena la testa e subito nel suo campo visivo entrò la figura inginocchiata della ragazza. Lo fissava con gli occhi arrossati e i capelli le si erano incollati alla fronte e alle guance, ma per il momento sembrava essere stata scongiurata la nuova crisi di pianto. 
- Ti avevo detto di non seguirmi. - ripeté paziente.
La sua fastidiosa compagna si strinse nel soprabito e abbassò lo sguardo, intimorita.
- Non voglio farti del male, tranquilla, ma gradirei che, quando ti dico una cosa, tu mi dessi retta. -
Lei annuì mesta e, se possibile, incassò ancor di più il collo nelle spalle, senza però allontanarsi da lui. Alan inarcò un sopracciglio, ma alla fine decise di non indagare su quello strano comportamento: aveva ben altro a cui pensare e ormai gli era chiaro che Angelika non aveva tutte le rotelle a posto. Sempre che gliene fosse rimasta qualcuna, ovviamente.
Il cacciatore si alzò e le fece segno di seguirlo. La ragazza esitò un attimo, poi zoppicò fino all'ontano alle sue spalle. Quando furono abbastanza lontani dal tanfo che il corpo emanava, Alan prese un bastoncino da terra e glielo porse. In cambio, ricevette un'occhiata confusa.
- Prima di procedere oltre, devo farti delle domande. Non so se sei capace di parlare, ma ti pregherei di fare gesti con la testa o disegnare sul terriccio se sei in grado di scrivere, basta che tu risponda a tutte le mie domande. -
Titubante, Angelika prese il rametto e assentì con un lieve cenno della testa.
- Bene. Quando è stato l'ultima volta che hai visto Peter? -
La ragazza corrugò le sopracciglia e inclinò la testa con un'espressione ancor più confusa di prima.
- Intendo dire da vivo. -
Lei scrisse con una grafia tremolante e a dir poco illeggibile “ieri”.
- In che momento della giornata? -
Sul terreno venne disegnato un piccolo sole sbilenco, con vicino quello che Alan giudicò essere un gallo.
- Ti aveva detto che doveva vedere qualcuno? -
Angelika scosse la testa.
- Sai se c'era qualcuno che lo odiava? -
Di nuovo ricette una risposta negativa.
- Ne sei certa? Prova a rifletterci meglio. -
La ragazza si mordicchiò il labbro e si strinse tra le braccia, ma la sua risposta non cambiò. 
- Hai trovato la testa quando hai fatto pascolare il bestiame di Griffon fin qui? -
Con estrema fatica, Angelika annuì, gli occhi di nuovo velati dalle lacrime. Alan si augurò che non piangesse ancora: non aveva né il tempo né la pazienza per sopportare ulteriori lagne.
- Dove hai trovato la testa? -
Angelika si voltò e indicò un punto vicino all'acqua, a meno di cinque piedi da dove si trovava il corpo.
- E poi sei corsa subito in città, giusto? -
Alan interpretò il silenzio che seguì come un “sì”. 
- Ottimo, grazie. Ora possiamo andare a recuperare la testa e... -
Il labbro di Angelika cominciò a tremare e con esso tutto il suo corpo.
- Cosa ho detto ora di sbagliato? - sbottò il cacciatore esasperato.
La incenerì con lo sguardo e stava per riversarle addosso tutta una serie di improperi ben poco gentili, quando la ragazza pigolò qualcosa.
- Peter... portare a casa. -
Alan rimase interdetto per alcuni istanti e il silenzio, interrotto solo dal frinire delle cicale, calò sulla radura. 
- Tu... tu sai parlare? - domandò incredulo.
- S-sì. - balbettò Angelika, stringendo in modo convulso le mani al petto e tenendo gli occhi a terra.
Lo Slayer sospirò stancamente e si stropicciò gli occhi: tutto si sarebbe immaginato, tranne che la ragazza fosse capace di emettere un suono diverso da mugugni e singulti. A saperlo prima, si sarebbe evitato un paio di incazzature, però non poteva biasimarla, non dopo essere stato messo al corrente di quello che le avevano fatto. Era strano che Griffon non le avesse tagliato la lingua per evitare “grida inopportune”, ma qualcosa gli suggeriva che l'avesse risparmiata non certo per bontà d'animo.
Inspirò ed espirò ancora una volta, recuperando lentamente la calma.
- Va bene, va bene. Quindi vuoi che porti Peter a casa? - la interrogò.
Il sorriso che le si dipinse sul viso non lasciò adito ad alcun dubbio.
Alan guardò il corpo al di là delle spalle della ragazza e con un'espressione disgustata poggiò ai piedi di un ontano le sue armi. Poi, cercando di non far caso alla puzza, si avvicinò e si caricò il cadavere in spalla.
“Giuro che questa è l'ultima volta che accetto un incarico non ufficiale dalla Dogma. Giuro, davvero.”
- Gra-grazie. - farfugliò Angelika con la voce ancora incerta.
Alan si sistemò meglio il corpo sulla schiena, in modo da non vedere penzolare la mano cianotica di Peter davanti al naso. 
- Se davvero vuoi mostrarmi un po' di gratitudine, prendi le mie armi. -
Angelika annuì e rapida afferrò la spada e la balestra dello Slayer, che si chiese se sarebbe riuscita ad arrivare viva a destinazione senza infilzarsi. Infine si rimisero in marcia, percorrendo a ritroso il sentiero da dove erano arrivati, mentre Angelika faceva strada.

 

*


La casa di Peter era una dimora che non si distingueva in niente rispetto al resto del paesaggio, se non per il tetto spiovente e il muro di rampicanti che ne avevano invaso la facciata. Se Alan fosse passato su quella strada sterrata in groppa a Brunilde, probabilmente non si sarebbe nemmeno accorto che in tutto quel verde sconfinato c'era un segno di civiltà umana.
- Siamo arrivati? - chiese il cacciatore leggermente affannato.
Angelika sorrise e fece una piroetta un po' incerta sulla gamba sana: - Sì! Ecco casa, Peter! -
Alan alzò gli occhi al cielo e si avviò stancamente verso la porta. Camminare per più di due miglia con un cadavere sulle spalle non era esattamente una passeggiata di salute. Se non avesse avuto quella zavorra dietro, avrebbe di gran lunga preferito tagliare per le strade battute, ma era ben conscio che, qualora avessero incontrato qualche viandante, avrebbero provocato il panico. Allora si sarebbero di nuovo ritrovati con quelle guardie da quattro soldi alle calcagna, con un ringhiante Dumbar "grilletto-facile" imbufalito che avrebbe provato per la seconda volta a fargli saltare il cervello. Immaginando come si sarebbe risolta la situazione, alla fine Alan aveva optato per non tentare la sorte e aveva chiesto ad Angelika di condurlo attraverso i sentieri sconosciuti dei boschi. Contro ogni sua previsione, non si erano persi: la ragazza non solo sembrava perfettamente a suo agio, ma riusciva persino ad essere estremamente agile, nonostante l'osso mal saldato della gamba e il terreno brullo e scivoloso che caratterizzava quella zona della contea. Certo, più volte Alan aveva temuto cadesse e gli perdesse la spada in qualche fossato, ma erano stati dei piccoli momenti di tensione che per fortuna non avevano portato a nulla. Inoltre, per una parte del tragitto avevano camminato a poca distanza dalla scia di sangue che Peter si era lasciato dietro durante la sua corsa disperata e il cacciatore aveva avuto modo di osservare la forma delle tracce del suo inseguitore: erano impronte di scarpe.
Con uno sbuffo spazientito, aprì la porta accostata ed entrò, seguito da Angelika. Vennero accolti in un salotto dalle pareti di un beige scolorito, con al centro un piccolo tavolino impolverato di legno scuro, vicino al quale languiva un vecchio materasso a due piazze cosparso di macchie. Il lenzuolo, che un tempo doveva essere stato bianco, giaceva abbandonato sul pavimento e, a meno di due braccia, il focolare stretto del camino ospitava ancora i residui dell'ultimo fuoco. Il lucore lunare entrava dalla piccola finestrella sul muro rivolto a est.
Senza curarsi troppo di non calpestare gli oggetti sparpagliati in giro, Alan avanzò fino a quella sottospecie di letto e vi depose il corpo di Peter. 
- Quanto diavolo è pesante... e pensare che gli manca la testa. - 
Imprecò tra i denti, massaggiandosi le spalle con un'espressione stanca dipinta sul viso. Non che la camminata lo avesse realmente affaticato, ma dopo tutto quello che era successo nell'arco delle ultime ventiquattro ore si domandò come avesse fatto a sopravvivere fino a quel momento. Al contrario, Angelika sembrava fresca come una rosa appena sbocciata. Se ne stava lì, inginocchiata al capezzale dell'amato, massaggiandogli la mano con la delicatezza di una donna innamorata. Più volte la vide arricciare le labbra in un sorriso quasi infantile e tendere l'orecchio verso il moncone del collo, come se quel pezzo di carne marcescente avesse davvero qualcosa da dirle.
“Peccato che il corpo sia qui e la testa tra le mani di Bacht. A proposito, a quest'ora mi avrà dato per disperso e chissà cosa ne avrà fatto. Non l'ho ancora pagato, quindi dubito che la faccia sparire, ma non devo tirare troppo la corda con quel vecchio bastardo. Domani tornerò in città a saldare il mio debito.”
Esalò un sospiro esausto e, dopo essersi annotato mentalmente il da farsi, tornò a concentrarsi sulla compagna, che adesso si era addirittura stesa vicino al cadavere e lo abbracciava. Per l'ennesima volta, Alan constatò quanto il concetto di “pazzia” fosse riduttivo per descrivere il comportamento di quella ragazza.
- Angelika, non ho intenzione di dormire vicino ad un cadavere. -
Lei gli lanciò un'occhiata implorante.
- No, smettila di guardarmi così, non esiste. Già devo dormire nella casa di un morto e non ci tengo proprio a "profumarmi" stando vicino a questo coso! -
Angelika mise il broncio. Alan scrollò il capo, sconfitto. 
- Vado a perlustrare la casa. Tu... - compì un gesto vago con la mano, - Beh, goditi la compagnia del tuo fidanzato. - 
Si diresse verso quella che doveva essere la cucina, ma che di fatto era più simile a un vecchio stanzino. Si guardò intorno e aprì le ante dei pensili, ma all'interno non vi trovò altro che briciole e macchie di muffa.
“Abbastanza strano. Per quanto sia uscito di casa in fretta, non credo si sia portato tutte le scorte di cibo che aveva in casa.”
- Angelika? - 
Un mugugno di assenso gli fece capire che lo aveva sentito.
- Peter doveva andare da qualche parte? Che so, da un parente? -
- No. Lui solo, famiglia morta tempo fa. -
Passò la mano sul legno umido della dispensa e notò un leggerissimo strato di polvere. Non gli parve una cosa strana, viste le condizioni igieniche in cui viveva la gente di Iadera. Eppure si distinguevano ancora perfettamente le forme delle scatole e dei sacchetti di farina. Lanciò una rapida occhiata ai fornelli ancora incrostati, dopodiché tornò in salotto e camminò verso la parte opposta, dove c'era una porta. L'aprì e scorse una lunga scala a chiocciola che scendeva giù, nel seminterrato. Accese la piccola lampadina che penzolava sopra la sua testa e seguì gli scalini fino a una stanzetta angusta, illuminata appena dalla luce elettrica alle sue spalle. Ridusse le pupille a fessure verticali e pian piano il buio perse consistenza, mentre i contorni degli oggetti diventavano più definiti: alle pareti erano addossati svariati mobili in pessime condizioni, con qualche bottiglia vuota e libro ammuffito lasciato a prendere polvere. Scrutò nella penombra, muovendosi con circospezione, l'orecchio teso a captare ogni singolo scricchiolio. A un certo punto, poco vicino a una panca di legno scuro, Alan scorse qualcosa. Si inginocchiò, tastò le assi di legno con i polpastrelli e ne percorse la forma, finché non trovò un piccolo foro, appena più largo rispetto a quelli scavati dai tarli. Fece forza e l'asse si sollevò, scoprendo una buca poco profonda scavata nella terra, all'interno della quale c'erano tre sacchi di iuta. Quando aprì il primo, sotto i suoi occhi brillarono un mucchio di monete d'oro. A occhio e croce, dovevano essere almeno più di centocinquanta raie, forse di più. Sbuffò divertito.
“Non avevi in programma di partire, eh? Sì, come no.” 
Sciolse il nodo degli altri due e vi trovò dei vestiti e provviste di ogni genere, ma la cosa che più lo fece pensare era il numero: sia gli abiti che il cibo erano fin troppi per una sola persona. Soprattutto, dubitava che la gonna lunga e la camicetta di cotone che toccò fossero destinati a Peter. In completo silenzio, prese la sacca con i soldi e due foglietti che sporgevano da quella coi vestiti e, dopo aver rimesso tutto a posto, si chiuse la porta alle spalle. 
Non appena fece capolino nel salotto, Angelika sollevò la testa dal petto del cadavere, fissando prima lui e poi il pesante fagotto che stringeva in mano con un'espressione confusa. Alan si limitò a posare il tutto sul tavolo senza dire una parola.
Tacquero entrambi, ognuno assorto nei propri pensieri, anche se Alan non era propriamente certo che la ragazza sapesse cosa il defunto Peter avesse in mente per lei. Non che gli importasse. Comunque non aveva la minima intenzione di lasciare tutto quel denaro a marcire in quello squallido seminterrato e, se Angelika avesse provato a fargli cambiare idea, l'avrebbe abbandonata in quella casa senza pensarci due volte. Era uno Slayer, non faceva beneficenza. Inoltre, per quelli come lui era periodo di magra, sempre sottopagati e sfruttati. Dovevano sopravvivere come potevano.
Angelika si avvicinò per chiedere delucidazioni, ma il cacciatore l'anticipò.
- Sì. - disse laconico, senza guardarla.
L'altra non disse nulla, ma Alan se la immaginò mentre si tormentava il labbro inferiore nel tentativo di mantenere la calma.
- Era... per noi? -
Le mostrò i due foglietti: erano due biglietti di sola andata per la contea di Wexford. Sulla sinistra c'erano i nomi degli intestatari: Peter Cliffard e Angelika Cliffard.
- Il treno sarebbe dovuto partire domani. - soggiunse.
Un singulto proruppe fuori dalle labbra di Angelika e il suo respiro si spezzò. Alan la sentì allontanarsi e poi udì un leggero fruscio, ma non si girò per scoprire cosa stava facendo. Ascoltò il pianto della ragazza a lungo, senza dire nulla. Solo quando calò di nuovo il silenzio, lo Slayer le andò vicino. Angelika respirava piano, avvolta in quel lenzuolo lurido, con i capelli biondi incollati alla fronte e le labbra secche, disidratate. Tra le ciglia umide si nascondevano ancora delle lacrime.
- Devo seppellirlo, Angelika. - soffiò cauto.
Non capiva perché si stesse comportando con tutto quel tatto, non era da lui, e il senso di tenerezza che provava nei confronti di quella ragazza lo infastidiva.
Angelika emise un singhiozzo.
- Non può restare qui, lo sai anche tu. - insisté pacato.
Silenzio. 
Alan sospirò e fece per allontanarsi, quando un mormorio inarticolato gli giunse all'orecchio.
- Cosa... cosa fare...? -
- Mi sembra ovvio. - si stiracchiò e si tolse il cappotto, - Benedirò il cadavere affinché non diventi un necromorfo e poi lo seppellirò, come si fa di solito. -
- E' proprio necessario...? -
- Sì, Angelika, direi addirittura che è strettamente necessario. - rispose caustico, - Ora dimmi dove si trovano gli attrezzi del mestiere di Peter. -

 

*


Quella sera, la costellazione dei Tre Re sfavillava allegra nella volta celeste, inondando le cime degli alberi con la sua luce argentea. In confronto, i bagliori aranciati di Iadera sembravano pallide fiammelle tremolanti in procinto di spegnersi. Stralci di nebbia avevano ammantato il paesaggio e, assieme all'ululato del gelido vento invernale, creavano un'atmosfera a dir poco spettrale. 
Alan si terse il sudore dalla fronte con un panno umido e gettò un'ultima occhiata al cielo, prima di riprendere a scavare con la pala. 
Un tempo, quando ancora si allenava al monte Mohor, il vecchio maestro Wylzmej gli aveva detto che sua madre era nata proprio il giorno in cui la costellazione di Orione era più visibile.
Sua madre... la prima Lilith.
Sbuffò e spalò via un'altra zolla di terra. Era da almeno un'ora che stava cercando di scavare una fossa decente, ma a causa del freddo il suolo era diventato una lastra nera, densa come il piombo. Però la cosa davvero assurda era che stava tentando di dare una degna sepoltura a un tizio che nemmeno conosceva, avvalendosi solo dell'aiuto di una pala mezza arrugginita. Se il cadavere non avesse puzzato così tanto, avrebbe volentieri rimandato quella pratica infame all'indomani. 
- Volere molto? - chiese Angelika con tono lamentoso.
Si era seduta sull'erba per osservarlo lavorare, avvolta in uno scialle sudicio che le copriva a malapena le spalle. Dopo un'ora passata a piangere, si era finalmente ripresa e aveva trovato la forza di alzarsi, anche se aveva ancora gli occhi e il viso arrossato. Alan le aveva chiesto di tornare in casa, ma lei sembrava intenzionata a continuare a sorvegliarlo fino alla fine. 
“Peggio di un avvoltoio.”
- No, tranquilla. Ancora qualche minuto e ho finito. - ansimò, mentre l'ennesima gocciolina di sudore gli bagnava le labbra.
- Detto anche ore fa. - commentò l'altra.
- Sì, lo so, ma in queste condizioni non è facile. - sibilò secco.
- Fare domani. -
Alan le lanciò un'occhiata tagliente che la fece rabbrividire e la zittì all'istante. 
- Vai in camera, guarda nella tasca interna del cappotto, quella all'altezza del cuore, e prendi le fiala con il liquido trasparente. - le ordinò e, prima ancora che potesse rimettersi all'opera, Angelika era schizzata via.
Un paio di minuti dopo, il cacciatore percepì il suo passo strascicato alle spalle e non riuscì a trattenere un sorriso compiaciuto: una delle poche cose che sua madre gli aveva lasciato in eredità era l'udito sviluppato, capace di percepire anche il più debole fruscio, e in più di un'occasione si era rivelato utile, se non di vitale importanza. A parte l'abilità di vedere al buio e l'immunità al veleno dei mostri, forse quella dell'udito fine era l'unica che gli aveva permesso di sopravvivere fino a quel momento.
Il suo maestro alla Dogma gli aveva spesso raccontato che era il figlio dello Slayer più forte mai esistito e della prima Lilith, una sorta di scherzo della natura, con un enorme potenziale. Poteva essere destinato a grandi cose. Eppure se l'era quasi fatta sotto al cospetto di Abraham Justice. Non aveva mai provato paura o emozioni simili in ventidue anni di vita. Ricacciò nei meandri della sua mente l'inquietante sorriso del cacciatore, cercando di ignorare il brivido freddo che gli serpeggiò tra le ossa al solo ricordo. 
Depose la pala sul bordo della fossa e con un balzo uscì fuori, avvicinandosi ad Angelika, che lo attendeva con un rotolo di pelle stretto tra le mani. Lo prese e lo aprì. All'interno, legate con delle piccole cinghie, c'erano sei boccette di vetro, ognuna contenente un liquido di colore diverso. Con attenzione, il cacciatore sfilò quella che gli interessava e, prima che la ragazza potesse allungare la mano per toccarla curiosa, la fulminò con un'occhiata gelida. 
- Non muoverti e non parlare, chiaro? Senza questa non posso benedire il tuo Peter. -
Angelika mosse il capo su e giù con veemenza e si sedette per terra, rigida come un tronco. Alan, invece, indugiò ancora qualche istante per assicurarsi che avesse capito, poi attraversò il giardino fino all'albero sotto il quale aveva adagiato il corpo. Sogghignò mentre svuotava l'intero contenuto della boccetta sul cadavere. Il rituale della benedizioni, in realtà, non aveva bisogno di niente di particolare al di là dell'acqua benedetta e, volendo, avrebbe potuto svolgerlo anche nella piazza centrale di Iadera nel bel mezzo di una festa di paese. Ma questo Angelika non lo poteva sapere. Attese qualche minuto, poi, dopo aver afferrato Peter da sotto le ascelle e averlo gettato nella buca, cominciò a ricoprirlo con la mente sgombra da qualunque pensiero. 
Improvvisamente, un fuoco blu si accese a qualche metro da lui. Il grido della ragazza lo fece scattare, ma quando portò la mano alla schiena le sue dita artigliarono il vuoto: le sue armi erano rimaste in casa. Imprecò a denti stretti e indietreggiò verso l'abitazione.
- Stai indietro. - le ordinò, senza distogliere lo sguardo da quello che stava accadendo di fronte a sé.
Lentamente la fiamma si ingrossò, per poi allargarsi e compattarsi, formando la superficie azzurra di uno specchio, nel quale dopo pochi istanti si delineò la sagoma di una donna dai lunghi capelli biondi e lo sguardo austero.
Alan batté le palpebre un paio di volte, rilassandosi subito nel vedere quel viso conosciuto.
- Frejie, quanto tempo. - la salutò in tono neutro.
La maga si aggiustò la chioma e si pulì il rossetto sbavato all'angolo della bocca. Nonostante fossero pressappoco le tre del mattino, Frejie non avrebbe mai rinunciato alla sua usuale eleganza. Indossava un abito da sera, rigorosamente abbottonato fino al collo, che faceva da contrasto con lo sfavillio dei gioielli.
- Buonasera, Alan. Si può sapere che fine hai fatto e perché sei ricoperto di terra dalla testa ai piedi? -
- Oh, nulla. Ho dovuto sbrigare un lavoro qui a Iadera. -
- Ah, ecco perché ho fatto fatica a localizzarti. Per gli dei, l'influsso di quella maledetta foresta... -
- Sì, immagino. -
- Immagini un corno! - sbottò inviperita, - Sai quanto tempo ci ho messo a trovarti? Pensavo ti fosse successo qualcosa! -
Alan sfoderò un sorriso beffardo: - Eri preoccupata per me? Allora ce l'hai un cuore! -
La maga lo incenerì con un'occhiata infastidita, ma riprese immediatamente il controllo delle sue emozioni con un leggero colpo di tosse.
- Come mai sei a Iadera? La somma che hai ricevuto dal sindaco non era sufficiente a placare la tua sete di avventure per un po'? -
- Lo sai che la Dogma trattiene più del sessantacinque percento della pagamento per la caccia. E poi qui intorno c'è sempre bisogno di uno Slayer. -
- Capisco. -
Per un attimo, la superficie dello specchio si annebbiò e la fiamma blu tremolò, come se stesse per spegnersi.
- Dannazione, ma proprio vicino a Brugge dovevi andare a caccia? Queste interferenze mi fanno venire il mal di testa! -
- Io vado dove sono richiesto, lamentati con chi ha appeso l'annuncio. -
Frejie sospirò e scosse la testa: - Tra quanto tornerai qui? -
- Appena avrò terminato il lavoro. -
- Quantifica. -
Il cacciatore gettò un'occhiata alle sue spalle, incrociando lo sguardo sconvolto di Angelika. Si domandò come mai Frejie non gli avesse ancora chiesto nulla sulla sua compagna, ma lo imputò al disturbo magico generato dalla foresta delle driadi. Non che la cosa gli creasse qualche problema, visto che in quel momento non avrebbe avuto le capacità di sopportare un eventuale interrogatorio della maga. Un sorriso malignamente compiaciuto gli increspò le labbra.
- Alan? Alan, ci sei ancora? -
- Sì, ci sono. Comunque non lo so, il tempo di mettere le cose a posto. Cercherò di fare il più in fretta possibile, promesso. -
- Ho trovato qualcosa, ma dobbiamo parlarne di persona. -
Alan assentì e, anche se avrebbe voluto saperne di più, non chiese spiegazioni ulteriori, sarebbe stato inutile.
- C'è altro? - 
- Quando torni esigo che tu mi dica chi è la ragazza cenciosa che si dondola alle tue spalle. - lo guardò da sotto le ciglia abbassate con un'espressione impassibile, le labbra serrate in un'unica linea dura.
A quelle parole, ogni traccia di ironia svanì dal viso del cacciatore.
- Alan, Brugge disturberà anche il segnale magico, ma non il mio intuito di donna. - spiegò con un ghigno.
Alan si strofinò le mani, fece un passo indietro e sulla superficie dello specchio si delinearono gli scaffali stracolmi di libri dello studio di Frejie.
- Bene, dopo questa piacevole conversazione ti saluto, Slayer. A presto. - cinguettò.
“Bene, levati dalle palle.” 
- Giusto, mi stavo quasi dimenticando... - aggiunse subito.
“Merda.”
- Non provare a mettere piede in casa mia senza esserti fatto almeno tre docce. Ah, e già che ci sei, portami dei cupcakes con pralina al cioccolato fondente e vaniglia Thaiti. Sono gli unici dolci che mi piacciono, e la pasticceria Bazyli è l'unica che vende proprio la varietà che adoro. -
- Come vuoi. - borbottò scocciato.
- Ottimo. E assicurati che siano esattamente quelli che ti ho chiesto, altrimenti potrei decidere che non sei più degno della mia presenza. - concluse altezzosa.
Infine la maga compì dei gesti con le mani e scandì una formula magica. Le fiamme avvolsero lo specchio, per poi collassare su loro stesse, svanendo così com'erano apparse.
Il cacciatore rimase a fissare il nulla per alcuni istanti, prima di scrollare le spalle e ricominciare a coprire la buca. Percepiva gli occhi di Angelika puntati sulla schiena e supponeva volesse domandargli cosa fosse esattamente successo, ma decise di rimandare al giorno dopo la lezione accelerata di “Magia e comunicazione”. Non che ne sapesse molto neanche lui, ma grazie alla relazione avuta con la maga era riuscito a capire qualcosa di più sull'arte arcana, rispetto a ciò che gli aveva spiegato il vecchio Wylzmej. Ad ogni modo, era sempre stato negato nella magia. 
"Non sono mai stato bravo come lei."
Nella sua mente riemerse il viso di Eluaise, con i capelli mossi che le incorniciavano gli zigomi sporgenti, le labbra sempre arcuate in un sorriso sensuale e gli occhi chiari e penetranti, capaci di scorgere cosa si celava nell'anima di una persona.
- Alan? -
La voce di Angelika lo distolse dai suoi pensieri.
- Uhm? -
- Grazie. -
Il cacciatore si bloccò con la pala a mezz'aria.
- Di nulla. - disse. 
Il suo tono fu meno gelido di quello che sarebbe potuto sembrare, ma solo un udito particolarmente fino avrebbe potuto accorgersi di quella minuscola sfumatura gentile. Peccato che lì non ci fosse nessun altro a parte loro due.

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Capitolo 7
*** Act. 1 - Faith ***


Slayers
Act. 1 - Faith



- Alan. -
Strappato dal sonno, il cacciatore sollevò la testa e schiuse appena gli occhi. La luce del sole filtrava attraverso l'unica finestra della stanza, illuminando le pareti con timidi raggi lattiginosi, quasi evanescenti nella penombra creata dalle persiane ancora abbassate. A giudicare dall'inclinazione dei suddetti raggi, l'alba era passata da poco. Si issò sui gomiti e si portò in posizione seduta sul materasso, riempiendo il silenzio di sbuffi scocciati, poi osservò con aria assente e le palpebre ridotte a fessure uno scarafaggio che, tutto tranquillo, faceva colazione con una briciola di pane sul pavimento. Sentiva i muscoli indolenziti a causa dello sforzo compiuto la sera prima e l'idea di abbandonare il giaciglio che lo aveva ospitato durante le ultime ore gli parve impossibile da mettere in pratica.
A un tratto si chiese cosa lo avesse destato: gli era parso di udire una voce.
- Io... svegliato tardi? - indagò esitante Angelika.
Alan non si degnò di rispondere. Non tanto perché infastidito dall'essere stato disturbato mentre dormiva così bene, quanto perché, francamente, non ne aveva le forze. Però riuscì ad emettere un grugnito e spostò con un gesto brusco una ciocca rossa che gli solleticava il naso. Sbuffò di nuovo.
- Tu stanco? -
"Ma dai? Quanto sei acuta."
- Mh. -
Caracollò giù dal materasso, si alzò e raccolse da terra il soprabito, che aveva ceduto alla compagna prima di coricarsi. La notte era stata gelida, ma, nonostante tutto, dormendo fianco a fianco avevano fatto in modo di non disperdere troppo il calore. Angelika si era avvolta nello scialle e nel soprabito di Alan, mentre quest'ultimo si era accontentato delle lenzuola al bordo del materasso. Ricordava che un momento prima di chiudere gli occhi aveva ringraziato di essere immune alla maggior parte delle malattie conosciute. D'altronde, su quel dannato letto c'era stato un cadavere, seppur per poco tempo.
- Oggi andare da Bacht? - tornò alla carica la ragazza.
- Sì, oggi andiamo a prendere la testa di Peter. - confermò funereo.
Chissà perché, ma il pensiero di doversi portare appresso una ritardata con una fissa per la testa mozzata del suo defunto fidanzato non lo esaltava per niente. Angelika batté le mani contenta e sorrise. Alan la fissò in tralice, poi scrollò il capo arreso e andò a tirare su le persiane. Gli venne da pensare che tra lei ed Eluaise c'era una somiglianza. Non sapeva esattamente in cosa, ma per un attimo gli era parso di vederla proprio lì, accanto a lui, con il viso sepolto nel vecchio scialle di sua madre, quello che profumava di lillà. Un istante più tardi, però, il sole aveva illuminato il viso cencioso di Angelika e la visione era svanita. 
- Dopo aver ripreso la testa... -
- Peter. - lo corresse subito Angelika.
Lo Slayer emise un verso esasperato: - Dopo aver ripreso Peter, andrò al cimitero cittadino. -
- Solo? -
- Sì, da solo. -
- Ma... ma... - balbettò persa, le ciglia già umide di lacrime.
- Prometto di tornare a prenderti quando ho finito. - aggiunse.
- Promesso...? - pigolò con voce rotta.
- Sì, giuro che ti vengo a prendere. - ripeté serio, voltato di spalle per nascondere il ghigno, - Ma tu devi restare con Bacht e non fare danni fino al mio ritorno, chiaro? -
Angelika annuì e si appoggiò al muro con un'espressione più serena sul viso. Alan si sarebbe quasi sentito in colpa per averle mentito, se solo avesse avuto una coscienza.
- Dai, muoviamoci. -
- Io saluta Peter. -
- Va bene, basta che fai in fretta. -
La ragazza assentì e si trascinò verso il giardino, al centro del quale aveva deposto dei fiori raccolti nelle vicinanze. In realtà, aveva anche tentato di creare una croce con dei rami secchi, ma dopo l'ennesimo tentativo fallito si era rassegnata a lasciargli solo un mazzo di pratoline. Nei dieci minuti che Alan rimase ad attenderla, più volte sperò di non vedersela più comparire davanti agli occhi, quasi pregò che decidesse di andarsene per la sua strada lasciandolo in pace, ma le sue aspettative vennero prontamente disilluse. Con un gesto infastidito prese la sacca coi soldi e aprì la porta. Prima di lasciarsi la casa di Peter alle spalle, diede un ultimo sguardo a quella dimora fatiscente, poi intimò ad Angelika di seguirlo.
Percorsero il sentiero che collegava la casa alla via maestra in silenzio, circondati solo dal frusciare del vento tra le fronde dei pioppi e degli ontani che, nonostante il freddo, conservavano ancora l'allegro colore verde dorato delle foglie. Evidentemente, l'effetto magico della foresta di Brugge arrivava fino a lì.
“Adesso capisco perché Frejie aveva tutti quei problemi.” 
Alzò lo sguardo verso il cielo e la sua attenzione venne attirata da un falco, che volteggiava lassù, cavalcando le raffiche di vento e descrivendo lenti cerchi. Improvvisamente scese giù in picchiata e con gli artigli ghermì una lepre dal manto grigio. Il rapace batté le ali e riprese subito quota, la preda ancora viva che si dibatteva debolmente nella sua morsa d'acciaio. Alan lo osservò a lungo, fino a quando non lo vide diventare un puntino minuscolo e sparire al di là delle cime degli alberi. 
- Cosa pensa? -
- Uhm? No, nulla di particolare. -
Angelika inclinò la testa come per osservarlo da una prospettiva diversa: - Sicuro? Tu... tu fissa falco con interesse. -
- Riflettevo su chi fosse la preda e chi il cacciatore. -
La ragazza si grattò una guancia, confusa: - Tu Slayer. Tu cacciare mostri cattivi! -
Alan si passò una mano sulla faccia stanca e sbuffò: - Se tu non me lo avessi detto, non ci sarei mai arrivato, grazie tante. -
- Prego! - 
Angelika saltellò sulla gamba sana con un sorriso a dir poco entusiasta dipinto sulle labbra. Evidentemente, oltre ad avere qualche rotella fuori posto, non sapeva nemmeno cosa fosse il sarcasmo. Non che Alan avesse mai avuto dubbi a riguardo. Sbuffò ancora spazientito e accelerò il passo. Giunsero in città circa un'ora dopo. 
Iadera appariva esattamente come l'avevano lasciata il giorno prima, a differenza del fatto che le strade erano pressoché deserte, eccetto per qualche bottegaio o lavandaia che voleva approfittare del poco via vai per svolgere in pace il proprio lavoro. Dal momento che era una cittadina di confine situata in mezzo al nulla, ed evitata dalla maggior parte dei forestieri, i commercianti non avevano alcuna fretta di aprire presto e molto spesso se la prendevano comoda fino a tarda mattinata. L'unico luogo che spalancava i battenti puntualmente, sempre poco dopo l'alba, era il mercato nero. 
Zigzagarono per le vie a passo svelto, tenendo la testa bassa per non farsi notare e cambiando percorso ogniqualvolta percepivano l'odore dolciastro dell'Akosmia nell'aria. Solo quando infilarono la via che portava al palazzo sventrato, furono costretti a procedere più lentamente, attenti a non calpestare gli uomini riversi a terra, storditi dagli effetti della droga. I corvi, disturbati dal loro incedere, volarono via gracchiando, liberando il cadavere di una donna con cui stavano banchettando. Indossava una pelliccia di ermellino, con sotto un abito rosa pallido che lasciava esposte le braccia scorticate fino all'osso. Le mancava buona parte della pelle del viso, e anche del polpaccio.
Alan afferrò il polso di Angelika e la trascinò via senza premurarsi di mostrare gentilezza, arrivando quasi di corsa al banco di Bacht, che stava aggiustando con dei cacciaviti un circuito elettrico in miniatura e, di tanto in tanto, segnava qualcosa a matita su un blocco che aveva appoggiato alla sua destra, sopra il tavolo da lavoro. Questa volta lo Slayer non dovette aspettare che l'altro gli rivolgesse la parola: non appena giunse davanti al mercante, questi alzò subito lo sguardo, quasi lo stesse aspettando. Anzi, sicuramente era così.
- Oh, Alan! Ti vedo affannato, hai corso? - lo salutò fingendosi sorpreso e gli elargì un sorriso di circostanza.
- No. Cosa te lo fa pensare? -
Bacht inarcò un sopracciglio e lo fissò con una faccia che diceva "mi credi cieco?", ma si astenne dal commentare, vista l'espressione tetra del suo giovane cliente.
- Sono qui... -
- Sei qui per la testa, lo so. - 
L'uomo salutò Angelika con un sorriso sornione, ma la ragazza sembrava completamente assente, persa in chissà quali riflessioni. Solo allora Alan si rese conto di starle tenendo ancora la mano. 
- Che hai? - le domandò Bacht.
- Là fuori. Puzzo. - rispose titubante.
Il mercante dapprima parve non capire, poi scosse la testa e si mise comodo sulla sedia: - Brutta cosa, sì. Prima c'era solo l'Akosmia, ma ora che il prezzo è salito quei figli di cagna si sono inventati questa nuova merda. Cose dell'altro mondo. -
- Cosa sarebbe? -
- Non lo so con esattezza, non sono un chimico. Gli effetti li hai visti, però. - sbuffò e tirò fuori un sigaro dalla tasca dei pantaloni sporchi di olio motore, - Spero solo che quel demente di Dumbar si sbrighi a mandare i suoi tirapiedi a togliere i corpi dalla strada. Appestano l'aria e attirano mosche e corvi, allontanando i clienti. Prima si trovavano in periferia, vicino alla casa di Bertha, la sarta pazza che dice di vedere gli spiriti, poi ieri, sul tardi, sono apparsi qui. -
- Ah, ecco. Infatti non li avevo notati. -
- O forse avevi sotto il naso l'odore di una testa semi putrefatta e non ci hai fatto caso. - scherzò.
- Anche questo non è da escludersi. - annuì serio Alan.
Gettò un'ultima occhiata ad Angelika, poi le liberò la mano. Percepì le dita della ragazza opporre una leggera resistenza, ma alla fine lo lasciò andare senza dire nulla.
Il vecchio mercante si lisciò i baffetti con una smorfia divertita. Quindi si alzò e zoppicando sulla gamba meccanica entrò nella tenda, facendo loro segno di seguirlo. All'interno, come al solito, regnava il caos assoluto.
- Ordunque... ho imbalsamato la testa per la nostra Angelika, ma non ho potuto fare granché. - posò il sigaro su un posacenere stracolmo e da un angolo recuperò una sacca di iuta chiusa con una corda.
- Cosa intendi? -
Bacht non rispose. Le piccole cannule di rame della gamba cigolarono e soffiarono piccoli turbini di fumo quando il proprietario si accomodò sullo sgabello. Armeggiò col nodo, mentre la lente del monocolo si rimpiccioliva per mettere meglio a fuoco. Nella penombra il cristallo neuronale brillava di un riflesso sanguigno, simile all'occhio di un predatore. Quando tirò fuori la testa, l'odore dell'arsenico saturò l'aria e Alan vide subito che mancavano entrambe le orecchie e l'occhio destro.
- Come puoi vedere, sono riuscito a imbalsamarla più o meno tutta, ma alcune parti erano irrecuperabili e mi sono visto costretto a dover amputare o rimuovere per arrestare la decomposizione dei tessuti. Però è quasi intera. - ridacchiò e gliela porse.
Prima che Alan potesse fare qualsiasi cosa, Angelika scattò e afferrò la testa, stringendola al petto e cullandola. Il mercante rimase un attimo sorpreso a quella reazione, ma si limitò a sorridere.
- Allora, quanto ti devo? - tagliò corto lo Slayer.
- Uhm... direi che trecento sia il minimo. Ti sto facendo lo sconto, dato che siamo amici. - ghignò.
- Stai scherzando. - la voce di Alan era neutra e la sua non voleva essere una domanda.
- Ti sembro uno che si mette a scherzare quando si parla di soldi? - lo rimbeccò offeso, poi afferrò di nuovo il sigaro e fece un altro tiro.
- Ascolta, con quella somma mi faccio costruire un'arma nuova su misura e compro anche gli ingredienti per il Darkar. Per non parlare del fatto che la testa non è neanche intera. -
- Ascoltami tu, zotico di uno Slayer. - sbottò, - Io, e sottolineo "io", faccio il mio lavoro come si deve, non ti permetto di mettere in dubbio la mia professionalità. Se fosse stata tenuta sotto ghiaccio e non sbandierata a destra e a manca per chissà quanto... -
- Sì, perché secondo te la prima cosa che ha pensato Angelika quando ha trovato il corpo decapitato del suo fidanzato è stata come preservarne la testa. - rispose caustico, gli occhi ridotti a fessure.
- Quello che è successo prima di venire da me non è un mio problema. Gli affari non si fanno né con i “se” né con i “ma”, ricordatelo. - ribatté secco.
Alan provò l'impulso di prenderlo a pugni, ma poi riuscì ad imporsi di rimanere tranquillo. Slacciò il sacco che aveva trovato a casa di Peter, assicurato alla cintura, e lo gettò ai piedi del mercante. All'impatto col suolo, le monete tintinnarono.
Bacht le fissò con aria critica per alcuni istanti, ne morse una per verificarne l'autenticità e soppesò il sacco con una mano: - Non sono abbastanza. Ne mancano almeno un centinaio.-
- E' tutto quello che ho. - ringhiò il cacciatore.
Calò un silenzio sgradevole, pesante come il piombo, tant'è che persino Angelika parve accorgersene. Smise di cullare la testa e fece saettare lo sguardo dallo Slayer al mercante, preoccupata e confusa. Dall'esterno della tenda giungevano le voci concitate degli altri mercanti e i passi dei primi clienti.
Alan trafisse con un'occhiata terribile il vecchio, un'occhiata che significava "potrei ucciderti qui e adesso e non me ne importerebbe un fico secco".
- Va bene, va bene. - Bacht sollevò le mani in segno di resa.
Raccolse il sacco e lo poggiò sulle proprie ginocchia, proteggendolo con le braccia, come se avesse paura che qualcuno glielo portasse via. Alan seguì i suoi movimenti con attenzione, attendendo che tornasse a parlare: glielo leggeva nello sguardo che aveva ancora qualcosa da dirgli.
- Comunque, ho scoperto qualcosa che potrebbe interessarti. -
- Sentiamo. -
- Ad una condizione. - specificò.
- Ovvero? - gli elargì ancora un'occhiata omicida e avanzò di un passo, minaccioso.
Già normalmente Alan era più alto del mercante di varie spanne, ma adesso che Bacht era seduto lo sovrastava completamente. Il vecchio si asciugò il sudore sulla fronte con un gesto infastidito, cercando di dissimulare il disagio.
- Voglio almeno il dieci percento del compenso che riceverai dopo aver risolto il caso. - espose con un leggero tremolio nella voce.
Alan ci pensò un po' su: anche se gli pesava ammetterlo, aveva bisogno di saperne di più su ciò che era accaduto a Iadera e, finché non avesse ottenuto da Frejie ulteriori informazioni su Eluaise, se ne sarebbe occupato per ammazzare il tempo. La certezza che non fossero stati gli Orifax lo aiutava, ma al momento era ad un punto morto. Alla fine, seccato, fece un lieve cenno d'assenso.
- Sapevo che saresti stato ragionevole. - si strofinò le mani sudate sulla stoffa lisa del gilé e si sistemò più comodo sulla sedia.
A volte il cacciatore si domandava come facesse quell'uomo ad essere sopravvissuto così tanto in quell'ambiente. O come mai gli avesse permesso di respirare fino a quel giorno. 
- In ogni caso, andrò a dare una controllata al cimitero. C'è qualcuno che si occupa della sepoltura dei cadaveri? -
- Sì, i confratelli del Sole Rosso. -
Alan corrugò un attimo le sopracciglia, confuso, e con un cenno del capo lo invitò a rispondere alla domanda silenziosa che aleggiava nell'aria.
- Sono uno degli ordini mendicanti della Chiesa di Shamar. Vivono nel convento fuori città e il cimitero è praticamente attaccato alle loro mura. - gli spiegò Bacht paziente, - Se hai bisogno di qualcosa, chiedi di Padre Izydor, sarà felice di aiutarti. - 
- Va bene. Ah, Angelika rimarrà qui con te. -
Per poco al mercante non cadde la mascella. 
- Cosa? No, no, no, fermo. - protese una mano in avanti e scosse la testa categorico, - Lo sai che non voglio seccature intorno mentre lavoro. Questa te la porti dietro, non sono una balia. - si oppose, additando l'interpellata.
- Vuoi i tuoi soldi? - lo interrogò Alan con una faccia impassibile.
- Certo. -
- E allora fammi svolgere il mio lavoro in santa pace. "Questa" resta qui e la questione è chiusa. -
Bacht grugnì qualcosa a denti stretti, ma non si azzardò a ribattere. Angelika sorrise timida e rinsaldò la presa sulla testa mozzata.
- Sempre il solito sfruttatore. -
- Senti chi parla. -
Il vecchio ignorò la frecciatina e si mise comodo sulla sedia: - Comunque, quando sei sparito assieme a quel tizio inquietante, io sono rimasto qui al mercato tutto il giorno e, sapendo che tu, mio caro amico... -
- Taglia corto. -
- Sapendo che avevi bisogno di certe informazioni, ho tenuto le orecchie ben aperte e ho sentito un paio di cose interessanti. Per esempio, gli omicidi si sono intensificati negli ultimi mesi, in particolare da quando Mercer ha assunto quel lecca culo di Dumbar. Ora, io sono una persona onesta, ma in tempi di crisi bisogna fare quel che si può. Quando sono stato radiato dalla società dei mercanti, la prima città in cui ho allestito il primo banco è stata Iadera. Ecco, a quel tempo ad amministrare la città c'era Jacob “Occhio di lince”, un tipo magro e ossuto, con il naso sempre rosso. Te lo ricordi? -
Alan negò.
- Oh, va beh, non è importante. Insomma, era lui a gestire tutto e diciamo che non si viveva poi malaccio qui. Potevamo smerciare in santa pace e qualche volta procuravo a Jacob un rhum di prima qualità che... -
- Arriva al punto. - lo interruppe, cercando di tenere a bada il tic nervoso che gli era venuto all'occhio sinistro.
- Non mettermi fretta, dannazione, o mi dimentico le cose! -
“Sì, ma dei soldi che ti devo te lo ricordi sempre, eh?”
- Dicevo... ah, sì. Beh, dopo circa sei o sette anni che mi ero stabilito nei pressi di Iadera, un'estate Mercer si ammalò, e con lui pure Jacob, cosa abbastanza strana visto che verso giugno il mercurio sale anche oltre i trentacinque gradi. Però, in quel periodo, aveva ripreso a girare il morbo di Korch e, soprattutto in zone arretrate come queste, faceva molte vittime. All'inizio si diffuse il panico, ma poi non ci preoccupammo più di tanto, anzi, ringraziammo che entrambi si fossero rintanati nel Municipio per non appestare i cittadini. Se poi avessimo sentito odore di putrefazione, avremmo chiamato qualcuno per togliere i corpi. Avevamo tutti scommesso che a salvarsi, al limite, sarebbe stato Jacob, data l'età piuttosto avanzata del nostro caro e venerabile sindaco. Insomma, te la faccio breve: dopo una settimana dovetti dare ben cinquanta raie e quel figlio di cagna di Elmure, perché a uscire invece fu Mercer, smunto e pallido come un cencio. -
- E Jacob? -
- Ecco, era proprio qui che volevo arrivare. Di Jacob non c'era neanche l'ombra, era come sparito nel nulla. Sappiamo entrambi che se hai le conoscenze far sparire un cadavere è un gioco da ragazzi, ma ti posso assicurare che nessuno sano di mente sarebbe entrato in Municipio, col rischio di venire contagiato. Anche volendo, c'erano delle guardie ad ogni entrata e non penso che Mercer o Jacob potessero avere le forze di avventurarsi all'esterno con i polmoni collassati e le piaghe infette. Comunque, Mercer ci disse che Jacob era morto e che lui, con le poche energie rimaste, lo aveva seppellito nel cortile. -
- Una spiegazione a dir poco inverosimile. - sogghignò Alan.
- E' quello che pensai anche io quando me lo riferirono, ma Jacob non aveva famiglia e nessuno lo compianse più di tanto. Inoltre, le guardie affermarono di aver visto la sua tomba con i loro occhi, anche se sono sicuro che una mazzetta da cento raie abbia fatto loro vedere anche il viso sconvolto dalle lacrime di Mercer. Te lo immagini? Che visione agghiacciante. - rise e sbatté la mano sul tavolo, - Pochissimo tempo dopo, comparve in città quella testa di cazzo di Dumbar, quel figlio di... -
- Bacht. -
- Lo so, ma quando parlo di lui mi sale l'acidità di stomaco. Mercer disse che era un parente venuto da molto lontano a trovarlo e il giorno dopo annunciò che sarebbe diventato il sostituto di Jacob. Ecco, da quel momento è stato un casino. -
Lo Slayer alzò un sopracciglio: - Cioè? -
- Lasciando perdere gli scontri che abbiamo avuto, circa un mese dopo venne scoperto un nuovo cadavere, in condizioni ancor più pietose rispetto agli altri. Certo, non è strano che un mostro attacchi un uomo da queste parti, ma in fondo Iadera e i suoi dintorni sono relativamente tranquilli. Basta non uscire dopo il tramonto e non avvicinarsi alla foresta di Brugge e non ti succede nulla. Comunque, Elmure, il mercante di stoffe, raccontò che quel disgraziato era davvero ridotto male, tant'è che nessuno riuscì a riconoscerlo. Ipotizzarono che fosse un viandante che aveva avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Alla fine, lo seppellirono al cimitero cittadino e non se ne parlò più. -
- Quindi le indagini non sono state portate avanti? -
Bacht gli scoccò un'occhiata basita: - Me lo stai chiedendo sul serio? -
Il cacciatore schioccò la lingua e tacque.
- Poi sono andato via per un po' e non so cosa sia esattamente successo, ma circolano non poche teorie, una più assurda dell'altra. -
- Dimmene qualcuna. -
Un sorriso storto increspò le labbra del mercante. Si appoggiò con i gomiti sulle ginocchia, la lente ridotta a una fessura rossa e la mano meccanica che si stropicciava la barba. 
- Direi che sia ora di cominciare a darti le vere informazioni per cui hai pagato. -
Lo Slayer rimase impassibile e, di nuovo, si domandò come avesse fatto quell'uomo a rimanere vivo fino a quel momento. 

 

*


- E anche questo è fuori. -
- Signor Slayer, se lo desidera potrei procurarle una pala migliore. -
- Non si preoccupi, padre, questa va bene. Tanto ho finito. - 
Afferrò con attenzione il corpo mezzo decomposto, facendo l'ennesima smorfia disgustata per via del tanfo, e lo allineò assieme agli altri sei che aveva già dissotterrato. Padre Izydor distolse lo sguardo e arricciò il naso. 
- Ha portato anche la documentazione che le ho chiesto? - domandò Alan.
L'altro batté la mano su un plico di cartelle ingiallite che reggeva sotto braccio, dalle quali spuntavano alcuni fogli fittamente scritti.
- Sa, sono felice che i casi siano stati riaperti: la conclusione a cui il sindaco e il signor Dumbar sono giunti non mi ha mai convinto. -
- E come mai? -
- Vivo qui da più di cinquant'anni e mi sono sempre occupato di dare una degna sepoltura ai morti. Diciamo che mi sono fatto l'occhio. - rispose con una debole scrollata di spalle.
Il cacciatore alzò gli occhi e li fissò in quelli azzurri dell'uomo. Nonostante l'età avanzata, non dimostrava gli anni che diceva di avere: una barba ben curata gli incorniciava il volto e, assieme ai baffi, contribuiva a dargli un'espressione seria e allo stesso tempo calorosa, gentile. I capelli argentei, stretti in una coda sulla nuca, ricadevano sul saio rosso, su cui spiccava una spilla dorata con una croce inclusa in un doppio triangolo: il simbolo del dio Sharas. Sarebbe potuto passare per un semplice umano, ma ad Alan non erano sfuggite le orecchie a punta e la corporatura insolitamente slanciata per un uomo così anziano. Sembrava non gli importasse granché che qualcuno scoprisse il suo retaggio elfico, visto il luogo isolato in cui era situato il convento e il cimitero cittadino.
- Ho qualcosa in faccia? - chiese Izydor, tastandosi il volto.
Il cacciatore sbatté le palpebre e tornò a osservare i corpi: - No, niente. - 
Si stiracchiò, prese in consegna le cartelle e cominciò a sfogliarle, ma, non appena gettò un'occhiata ai fogli, si accigliò e gli venne quasi spontaneo domandarsi se fosse stato un pollo a riempire quelle schede analitiche.
- Non capite la mia scrittura? -
A quella domanda, Alan dovette fare appello a tutta la sua forza d'animo per non scoccargli occhiate significative. Padre Izydor, però, parve leggergli nel pensiero. Senza perdere il sorriso, si riappropriò delle cartelle e si mise seduto su una lapide.
- Lo so, lo so, ho una calligrafia incomprensibile, ma dovete capire che tra tutti i miei fratelli sono l'unico a cui non tremano le mani e con la vista buona. - 
- Lo immagino. Comunque, se potesse farmi un resoconto veloce e dettagliato su quello che si è scoperto durante le autopsie, risparmierei tempo. -
- Non c'è molto da dire. Prima di Dumbar era Jacob a dirigere le indagini ed eravamo d'accordo nell'affermare che le ultime vittime non erano state assalite dagli Orifax. - gli mostrò una foto sgranata e gli indicò quello che il cacciatore intuì essere un cadavere, - La macchina che ha scattato le foto non era di certo delle migliori, ma posso assicurarle che ho visto coi miei stessi occhi quello che sto per raccontarle. -
Alan si appoggiò a sua volta ad una lapide di pietra e gli fece cenno di continuare.
Padre Izydor sospirò e rimase in silenzio qualche secondo, come se cercasse di raccogliere le idee. 
- Vede, signor Slayer, sono qui da cinquant'anni e di cadaveri ne ho visti davvero molti, purtroppo. In generale, Iadera è un posto tranquillo, ma se qualcuno si avventura nelle macchie verdi o nei campi dopo una certa ora è difficile sperare di ritrovarlo vivo il mattino seguente. É una cosa risaputa e nessuno qui ha un animo particolarmente coraggioso. Tuttavia, a volte è capitato di trovare qualche pover'uomo divorato dagli Orifax. Sono casi rari, delle disgrazie che, grazie a Sharas, non capitano spesso. Negli ultimi mesi, però, sono stati rinvenuti molti più cadaveri del normale, tutti ridotti in uno stato a dir poco pietoso. Ammetto che, la prima volta che ne ho visto uno, anche io ho pensato immediatamente che fossero stati loro, ma poi il dottor Mercer ci ha fatto notare che c'erano alcune ferite che non potevano essere state causate da degli artigli. -
- Si spieghi meglio. - chiese Alan interessato.
- Beh, lei conosce questi mostri meglio di me, è impossibile che lascino dei semplici graffi. -
Il cacciatore annuì.
- In questi casi, invece, c'erano molti tagli di origine ignota. Solo dopo un'attenta analisi, il dottor Mercer capì che erano tutte mutilazioni post-mortem, oppure erano ferite inflitte per torturare la vittima ancora viva e prolungare la sua agonia. Le basti solo pensare alla donna nella foto di poco fa: anche se non si vede, sulle braccia c'erano alcuni segni di bruciature e sulle spalle notammo dei segni di morsi non compatibili con la dentatura di un Orifax. -
Proprio come Peter.
- Quindi? -
Padre Izydor si alzò e cominciò a sistemare le cartelle, anche se al cacciatore non pareva ci fosse nulla da mettere a posto. Osservando meglio i suoi movimenti, si accorse che erano rigidi, nervosi, come anche l'espressione che ora gli adombrava il viso.
- All'inizio abbiamo pensato fosse opera di uno dei cittadini, ma ci pareva impossibile. A Iadera vivono meno di seicento anime e, per quanto nessuno sia senza peccato, sono sicuro che il colpevole non è tra di loro. Solo dopo il sesto omicidio, riuscii a convincere Mercer a mandare una lettera di aiuto alla Dogma: avremmo dovuto aumentare le tasse per permetterci anche solo uno di voi, ma non potevamo continuare a chiudere gli occhi davanti alle violenze e agli orrori che stavano accadendo. - il suo sguardo si fece improvvisamente cupo, - Fu in quel periodo che il sindaco e Jacob furono colpiti dal morbo di Korch. Purtroppo l'unico che si poteva considerare un medico era, per l'appunto, Mercer, perciò decidemmo di rimandare la vostra chiamata e attendere che la malattia facesse il suo corso. Sarebbe dovuto guarire in poco tempo, grazie ai nuovi medicinali che circolano adesso. -
- Sì, un mio conoscente me lo ha raccontato. -
- Allora saprete anche di come sia cambiato il nostro venerabile sindaco dopo la convalescenza? -
“Ah, quindi non è sempre stato così viscido?” 
- No, di questo non so nulla. -
Padre Izydor scosse la testa: - E' diventato un'altra persona. Come le ho detto prima, in questa città nessuno può dirsi immacolato, e men che meno il dottor Mercer, ma le assicuro che da quando è guarito non è più stato lo stesso. Ha cominciato a dire che no, non era opera di un essere umano, era stata colpa degli Orifax, non era necessario chiamare uno Slayer, e se fossimo stati più attenti, nessuno si sarebbe più fatto del male. Poi ha assunto Dumbar come Guardiano e da allora non si è più nemmeno degnato di venire alle funzioni, anche se molti dei cittadini erano suoi stimati sostenitori. -
- Che persona d'onore. - commentò caustico Alan, per poi tornare ad osservare i cadaveri.
Si inginocchiò di fianco a un corpo piccolo, con le ossa molto più sottili rispetto agli altri. Probabilmente apparteneva a un bambino.
- Io so che le persone cambiano quando percepiscono il respiro della Dama Nera sul collo. - soggiunse padre Izydor con voce dimessa, - So anche che possono cambiare in peggio, perdere la fede e la fiducia nel mondo, ma mai mi sarei aspettato che il dottore sarebbe diventato così. Quando gli hanno portato quel corpo, - indicò l'ultimo che Alan aveva dissotterrato, - è rimasto completamente impassibile e le posso assicurare che quando l'ho visto mi sono sentito mancare. Ho percepito una morsa gelida sotto la pelle. -
Il cacciatore posò lo sguardo sui resti indicatigli, che, effettivamente, versava in condizioni più pietose degli altri. Era stato rivestito con lo stesso saio rosso dei credenti di Sharas e creava delle piccole conche nei punti in cui mancavano delle costole e le clavicole. Sul massiccio facciale gli zigomi e il setto nasale erano assenti, rimanevano solo frammenti spigolosi. Anche i canini e gli incisivi non c'erano più.
- E' questo il corpo del viandante senza nome? -
- Sì. Gli era stato asportato buona parte dello stomaco, dell'intestino crasso e dell'ileo. Il viso era una maschera di sangue, era stato sfigurato con una tale violenza e crudeltà che non sono riuscito a identificarlo. Mercer e Dumbar, dopo meno di tre giorni, hanno concluso che probabilmente era solo un poveraccio che si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato e che quella era stata una semplice disgrazia. -
Con delicatezza, Alan prese ad esaminare il cadavere: - E lei, invece? Cosa ne pensa? -
Nell'aria si udiva solo il gracchiare dei corpi e il canto dei frati all'interno del convento. Il cacciatore studiò le lesioni, le comparò mentalmente alle altre che aveva visto e confermò che combaciavano.
- Non lo so, signor Slayer. Quello che pensa uno come me non è importante e, forse, sono solo le fantasie di un uomo che ha paura delle ombre. -
- Quindi anche uomini come lei temono la Dama Nera? -
Padre Izydor sorrise mesto, ma abilmente rilanciò: - E lei crede in Sharas? -
- No, non credo in nessun dio. Gli dei non aiutano gli uomini. -
Izydor strinse tra le dita la croce racchiusa nei due triangoli e assottigliò le labbra.
- Nemmeno io credevo all'inizio. Ho scoperto tardi la fede, ma non pretendo che altri, come lei, capiscano. La fede è una questione soggettiva, non bisognerebbe imporla né ai bambini né agli adulti. Affinché sia vera, è necessario che siano loro stessi ad abbracciarla, volontariamente. Tra tutte le cose che ho imparato vivendo qui, isolato dal mondo e dalle tentazioni terrene, è che la realtà, nella sua essenza più profonda, è molto più semplice di quello che si immagina. Le azioni degli uomini, i loro pensieri, il carattere e le ragioni che dettano il modo di agire sono meno complesse di quanto possano sembrare. -
Alan schioccò la lingua, ma non commentò. Stranamente, i discorsi di quel mezzelfo non gli davano fastidio.
Prendendo il suo silenzio come un esortazione a continuare, Izydor disse: - Non la voglio annoiare con prediche sulla fede e teorie filosofiche che non le interessano. Penso soltanto che anche la verità, celata dietro eventi che ci risultano incomprensibili, è assai meno complicata di quella che ci eravamo figurati e, a volte, era proprio quella che avevamo scartato per prima, proprio perché fin troppo semplice. -
Fu in quel momento che Alan scorse uno strano luccichio all'interno della bocca del cadavere. Aprì la mandibola con accortezza, cercando di non metterci troppa forza. Il cranio scricchiolò in maniera sinistra. Il cacciatore rimase sorpreso nell'accorgersi che ad aver attirato la sua attenzione era stato un dente d'oro. 
- Non ve ne eravate accorti? - chiese e l'altro gli fu subito vicino.
- No, non l'ho proprio visto. Con tutte le ferite che gli costellavano il corpo, ho tralasciato di controllargli la bocca. Potrebbe essere un indizio importante? - 
Lo Slayer non rispose. Infilò le dita con cautela e il dente venne via con estrema facilità. Se lo rigirò tra le dita e sullo smalto dorato vide una piccola, quasi invisibile, incisione. Un ghigno divertito si dipinse sulle sue labbra. 
- Interessante. - 

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Capitolo 8
*** Act. 1 - ###yman ***


Slayers
Act. 1 - ###yman



Il Municipio era l'edificio più alto di Iadera e, forse, l'unico che Alan era certo essere stato progettato da un architetto esperto. Era una costruzione di mattoni e pietra, sormontata da un alto tetto e una facciata riccamente traforata, con ben quattro livelli di aperture. Sarebbe stato veramente il vanto della città, se le piogge acide non avessero eroso buona parte dei pinnacoli e delle decorazioni sulle torrette attorno al battifredo. Non che la bellezza di una qualsivoglia opera d'arte potesse migliorare il suo umore.
Con il vento che lo sospingeva verso l'entrata e gli gonfiava il soprabito, fu costretto ad aumentare il passo. Un tuono esplose proprio sopra di lui e, ancor prima che riuscisse a raggiungere l'arcata principale, una pioggerellina leggera cominciò a tamburellargli sulle spalle, ma prima di infradiciarsi completamente riuscì a ripararsi sotto la tettoia. Come si aspettava, il portone del Municipio era chiuso. La prassi voleva che per essere ricevuti dal sindaco, il cittadino dovesse prendere prima appuntamento con la sua segretaria e poi presentarsi all'orario stabilito nella sala delle udienze al primo piano. Ma lui non era un individuo qualsiasi.
Fece un profondo respiro e colpì il portone con l'enorme battimano in ottone ossidato. Dopo un paio di minuti, una donna dal viso incartapecorito e i capelli crespi fece capolino sulla soglia e lo fissò accigliata. 
- E lei chi è? - gracchiò inacidita.
- Sono lo Slayer che è stato chiamato in città, signora. Devo parlare con Mercer. -
Non appena le rivelò la sua identità, la vecchia rabbrividì.
- A quest'ora di... di sera il dottore... non so se è nella sala... -
- Non si preoccupi, faremo in fretta. - spiegò pacato.
- Ma io non so se... -
- Non si preoccupi. - ripeté con una punta di irritazione, - Ho poco tempo e questa è davvero una questione urgente. -
Dopo un momento di esitazione, la donna si spostò e, cercando di non darlo a vedere, trasse un sospiro di sollievo. Il cacciatore entrò senza ulteriori indugi e percorse il corridoio di pietra fino alle scale che conducevano al piano superiore.
All'esterno era già calato il buio. La stanza in cui venne ricevuto era illuminata dalle candele del lampadario appeso al soffitto, che gettavano ombre tremolanti e sinistre sui muri. La pioggia scivolava in scie cristalline sulle grandi finestre e il ticchettio delle gocce sul vetro era l'unico suono che faceva da sottofondo.
Con calma e incurante del fango sotto gli anfibi, Alan avanzò. Nel suo campo visivo entrarono sedie, poste ai due capi di un lungo tavolo di legno. Su quella a capo del tavolo c'era dottor Mercer, il quale si voltò e sgranò impercettibilmente gli occhi per lo stupore.
- Salve, Slayer. Qual buon vento la porta qui? -
Alan accorciò le distanze e si arrestò a ridosso del tavolo, dalla parte opposta.
- Credo di aver risolto il caso. - esordì.
- Oh... beh, ottimo! - lanciò un'occhiata all'orologio a pendolo alla sua destra, - Di norma non ricevo quest'ora, ma vista la gravità della situazione farò un'eccezione. Ma prego, si sieda. - lo invitò con un cenno garbato della mano a prendere posto di fronte a sé.
- Preferisco stare in piedi. -
- Lei è uno Slayer che è venuto in aiuto della nostra città, sarebbe una scortesia da parte mia non trattarla con i dovuti riguardi. Si sieda, coraggio. - 
Alan si limitò ad aggirare il tavolo, portandosi davanti al sindaco, ma rifiutò di accomodarsi. I lembi del soprabito sgocciolavano sul pavimento di pietra grigia.
- Va bene, va bene. - senza perdere il sorriso, Mercer alzò le mani in segno di resa, - Allora, mi dica pure cosa ha scoperto. Oh, e si serva pure di quello che più desidera. Sono certo che gradirà il nostro brandy, è il migliore di tutta la contea, e contro questo freddo è la miglior cura. -
Il cacciatore dubitava che quel liquido nel bicchiere del sindaco fosse potabile, ma decise comunque di accettare l'offerta. Prese la bottiglia dal carrello alla sua sinistra, afferrò un bicchierino e bevve in un sorso. L'alcool gli accarezzò il palato e la gola, per poi scendere ancora più giù, incendiandogli lo stomaco. Si esibì in una smorfia compiaciuta e osservò con occhio critico l'etichetta sulla bottiglia, deciso a memorizzarla per poterla comperare una volta fuori di lì. Quindi la posò di nuovo sul carrello insieme al bicchiere e si girò a fronteggiare il dottor Mercer.
- Ho analizzato la scena del crimine e posso affermare con assoluta certezza che è da escludere il coinvolgimento degli Orifax. -
- Ah, sì? E su quali basi? - domandò l'altro interessato.
- Fino a prova contraria, sono dei mostri che appartengono all'ordine degli Ursidi e nessuno di loro possiede i pollici opponibili. -
Una smorfia contrariata incrinò il sorriso del sindaco: - Mi state prendendo in giro? -
- Non oserei mai. - ghignò, le iridi accese da una luce sardonica, - Un mio conoscente, un medico ormai in pensione, ha analizzato la testa rinvenuta e mi ha detto che il taglio è stato operato da una lama lineare, forse quella di un coltello o di una spada. -
- E' sicuro del parere di questo... dottore? Da che mi ricordi, a parte me non c'è nessun altro che possa vantare un simile titolo a Iadera. -
- Ripongo in lui enorme fiducia. - mentì tranquillamente Alan. 
A Bacht non avrebbe affidato nemmeno il suo soprabito, ma non era necessario che Mercer lo sapesse.
- Perciò ne è proprio certo. -
Alan annuì e il sindaco parve irrigidirsi. Strinse le mani a pugno e si stese contro lo schienale della poltrona in pelle, ma il pallore che gli aveva scolorato le guance non passò inosservato.
- Inoltre, nel bosco, ho trovato delle impronte di piedi e sul cadavere di Peter c'erano svariati segni di mutilazioni post-mortem. La causa del decesso è stata l'emorragia per perforazione polmonare e l'arma usata per ucciderlo era una balestra. -
- U-una balestra? - deglutì Mercer, - Quindi è stato un essere umano? Da quello che mi sta dicendo, devo dedurre che le strade di Iadera non sono più sicure e che tra di noi si cela un assassino. -
Il cacciatore posò lo sguardo su di lui. Uno sguardo freddo, tagliente, intenso.
- No, dottore. Nessun uomo sarebbe in grado di squarciare il petto di un altro uomo a mani nude. -
- Per tutti i numi... - si passò un fazzoletto sulla fronte.
Nella stanza c'era la stessa temperatura che regnava all'esterno, eppure sul cotone lavorato rimase una macchia scura di sudore.
- E' terribile, davvero terribile. - intrecciò le dita davanti a sé, affondandole nella pelle bianca.
Il quel momento, la porta alle loro spalle sbatté e nella stanza entrò Dumbar. Con il fucile e tracolla e una smorfia di disprezzo sul viso, si avvicinò al sindaco con ampie falcate.
- Non dia ascolto a questo mostro, dottore. - esordì, fulminando con un'occhiata Alan, - Mi scusi, stavo facendo la ronda e ho per sbaglio udito la vostra conversazione. Non so perché stia dando credito a questo ragazzino, ma Peter era un poco di buono. Nell'ultimo periodo, poi, si era fatto svariati nemici qui inf città. Si era messo a farneticare che voleva andare via con quella Sangue Sporco, di sposarla e partire. Non sarebbe stata un'enorme perdita. -
- Senz'altro, signor Dumbar. - sogghignò Alan, - E mi dica, saprebbe indicarmi questi... "nemici"? -
- Il signor Griffon per esempio. Quando Angelika e Peter hanno cominciato ad andare a letto, ha perso un sacco di entrate. Lei sapeva di merda dopo che quello se l'era sbattuta, vero, dottor Mercer? -
Il sindaco prontamente annuì: - Ora che mi ci fai pensare, Dumbar, hai ragione. Per quanto quella ragazza fosse un vero e proprio fiorellino, ultimamente non aveva propriamente un buon profumo, ma non sapevo che avesse una relazione con il nostro povero Peter. -
- Già, nemmeno io. - ringhiò il Guardiano.
Alan notò che aveva stretto le mani attorno al calcio del fucile fino a far sbiancare le nocche. Le vene pulsavano violente sotto la pelle tesa.
- In ogni caso, non c'è nessun mostro in città e se proprio volete cercare un colpevole, sono certo che si nasconda in quel palazzo in rovina. - soggiunse, la voce che a stento celava la rabbia, - Direi che il qui presente signor Slayer è sollevato dall'incarico. -
Il cacciatore rimase impassibile: - Non credo proprio, signor Guardiano. -
- Osi contraddire la mia autorità? -
- Esatto. - si intromise il sindaco, - Finora il signor Dumbar ha sempre trovato il modo per garantire la sicurezza della nostra città. Anche se la morte di Peter non è imputabile agli Orifax, gli altri omicidi... -
- Ho analizzato anche gli altri corpi, se è questo che volete sapere. - Alan gli lanciò un'occhiata gelida, mettendolo a tacere. 
Il viso del Guardiano divenne livido di rabbia.
- Sapete, per caso oggi pomeriggio mi sono ritrovato a fare un giro nel cimitero. Mi ero già fatto un'idea su chi potesse essere stato il colpevole, così ho colto l'occasione e ho chiesto a padre Izydor di mostrarmi le loro tombe. Visto che i cadaveri non erano “freschi”, ho dovuto disseppellirli. Sapete com'è: quando un caso viene riaperto, bisogna riprendere le indagini da dove si erano interrotte. -
- Tu... lurido cane sacrilego... - ringhiò a denti stretti Dumbar.
Alan lo guardò appena, ignorando l'insulto.
- Osservando gli scheletri, mi sono accorto che uno di loro aveva qualcosa di strano, che poi ho capito essere un dente d'oro. Non mi sarebbe sembrato poi tanto strano, se quel cadavere non fosse appartenuto al vagabondo senza nome che avete messo sotto terra qualche mese fa. All'interno del dente, sullo smalto dorato, ho trovato inciso “Mercer Joakim Nepomucen”. - puntò gli occhi in quelli del sindaco con un sorriso sgradevole sulle labbra, - Quindi, a questo punto mi domando: chi o che cosa sei tu? -
Un silenzio pesante cadde nella stanza. I tre si fronteggiarono con lo sguardo, poi Dumbar e il dottore scoppiarono a ridere, un suono gutturale, sguaiato e stridente. Lentamente i loro corpi si trasfigurarono, perdendo qualunque fattezza umana. 
- Non credevo che un ragazzino come te avrebbe capito. - ansimò il Guardiano fra le risate.
- Direi che ti manca il quadro completo della situazione, ma ti sei avvicinato alla verità. - 
L'essere che si era fino ad allora spacciato come il dottor Mercer si alzò. Aveva una maschera senza volto al posto della faccia. Alan tacque e attese paziente, seppur vigile e con i muscoli pronti a scattare.
- Ripeto, ti mancano vari pezzi del mosaico. D'altronde, le ossa non possono parlare. -
La creatura che si faceva chiamare Dumbar ghignò, mostrando una chiostra di denti acuminati, gli occhi che risplendevano nell'oscurità come tizzoni ardenti.
“Un doppelganger e un Necromorfo. Fantastico.”
- Già, peccato che non avrai il tempo di chiedere spiegazioni a nessuno. -
Si liberò del fucile e sfoderò gli artigli. All'improvviso entrambi gli si scagliarono contro. Alan schivò l'attacco con uno scatto fulmineo, Dumbar lo sfiorò appena e si lanciò di lato, mentre Mercer gli si gettava addosso, il viso aperto in una bocca adornata da fauci affilate. Il cacciatore sfoderò la spada, arretrò e calciò il carrello col brandy contro di loro. Il Necromorfo si spostò all'ultimo istante, ma l'altro non ebbe i riflessi pronti. Le varie bottiglie si infransero al suolo in un fragore assordante e un odore pungente di alcool si diffuse nell'aria. 
- Figlio di cagna. - sibilò Dumbar, accucciandosi sulle zampe. 
Osservò il suo compagno riverso a terra vicino al muro, in mezzo ai frammenti di vetro, uggiolando come un cane. Cominciò a girargli intorno, digrignando le zanne, lasciando dietro di sé una scia di bava disgustosa. Alan fece lo stesso, descrivendo un cerchio attorno al suo avversario con passi misurati, senza mai staccare gli occhi da quelle iridi rosse. Solo quando il doppelganger si fu rialzato, il Necromorfo saltò. Alan attese che fosse abbastanza vicino, poi mulinò la spada e la lama si abbatté con violenza sulla spalla del mostro. La carne a contatto con le rune magiche sfrigolò e Dumbar lanciò un urlo tremendo, che rimbombò contro le mura in pietra della stanza. Con abile movimento del polso, il cacciatore ritrasse l'arma, quando un fruscio lo costrinse a girarsi. Scattò indietro appena in tempo e le zanne del doppelganger ghermirono il vuoto a un pollice del suo petto, ma nonostante la prontezza di riflessi l'essere gli fu subito addosso. Balzò di lato e poi nella direzione opposta per disorientarlo, tuttavia gli occhi di Alan non faticarono a seguire i suoi movimenti. Un grido di frustrazione eruppe da quella non-faccia e Mercer lo caricò a testa bassa. Senza perdere la calma, lo Slayer si ritrasse e nel farlo gli sferrò un pugno, colpendolo dritto sulla mandibola. Uno scricchiolio sinistro vibrò nell'aria e il doppelganger volò disteso a terra. Si risollevò con un grugnito e tentò di fuggire, lasciando dietro di sé una scia rossa e vischiosa, ma non andò lontano: brandendo la spada a due mani, Alan lo raggiunse e calò un fendente dall'alto verso il basso. Il sangue schizzò dallo squarcio che ora sfregiava la schiena della creatura, scoprendo le ossa della spina dorsale.
Il Necromorfo guardò il suo compagno afflosciarsi a terra privo di vita e ruggì. Con la spalla che a malapena lo sosteneva, si issò sulle zampe posteriori e snudò le zanne, la ferita maleodorante che rigettava una sostanza densa e nera come il petrolio.
- Allora non sei debole come credevo... - sputò.
Alan si mise sulla difensiva, seguendo con gli occhi i movimenti di Dumbar.
- Perché tutto questo? -
Il suo avversario fece schioccare la lunga lingua bluastra: - Come perché, cacciatore? Non lo capisci? - 
Si trascinò ancor più vicino. Era ormai a meno di venti passi da lui.
- Prima che arrivassi tu, questa era la mia terra. Potevo mangiare tutto quello che volevo, senza perdere tempo in inutili ed estenuanti battute di caccia. Certo, io e quel molliccio faticavamo a trovare qualcosa da mettere sotto i denti, ma ci divertivamo a... giocare con il cibo. Sai, in altre città se sparisce una puttana, un vagabondo o anche un contadino c'è sempre qualcuno pronto a cercare di capire cosa sia accaduto o a chiamare uno di voi cani per farlo. Ma qui no, a nessuno importa finché non tocca proprio a loro. - ridacchiò, - Fino a quando non strappiamo le loro budella, non gliene importa nulla. -
Alan lo osservò bene. Le rune non avevano rilasciato una potenza magica sufficiente a corrodere i tessuti più interni, ma non si aspettava che fosse ancora in grado di reggersi in piedi. Era resistente, il bastardo.
- Da quando voi esseri umani vi siete impossessati di gran parte delle nostre terre, per noi mostri la vita non è stata più tanto semplice. All'inizio anche noi due avevamo dei problemi, persino vivere in queste macchie verdi poteva diventare difficile se fossimo stati visti. Però in queste città di confine vige sempre la legge del più forte e nessuno tra voi esseri umani può sconfiggerci. - un sorriso insanguinato gli arcuò le labbra cianotiche, - Abbiamo ucciso per sfamarci e poi, quando ci siamo accorti che nessuno Slayer sarebbe mai arrivato, ci siamo liberati del vecchio Guardiano e del sindaco. Erano entrambi così malati quando ci siamo intrufolati qui che non avevano nemmeno la forza di gemere mentre li mangiavamo. Non puoi immaginare il piacere che mi ha provocato affondare la bocca nelle loro carni ancora calde, i loro visi terrorizzati quando hanno capito che non erano stati gli Orifax gli autori di tutti quegli omicidi nei mesi precedenti. -
Alan serrò le dita attorno all'elsa: - E Peter? Era solo una delle tue tante vittime? -
Il Necromorfo biascicò qualcosa, il viso abbassato, il sangue che sgocciolava in una densa pozza scarlatta ai suoi piedi. Trascorse forse il tempo di un battito di ciglia quando alzò nuovamente lo sguardo e, in quegli occhi iniettati di sangue, brillò un baluginio ferale.
- Credo non avremo tempo per scoprirlo. -
Spiccò un balzo verso la finestra, che esplose in mille frammenti di vetro. Lo Slayer imprecò e, rinfoderata la spada, corse giù dalle scale. Fuori la pioggia mescolata alla grandine batteva sull'acciottolato coprendo ogni rumore, ma l'udito acuto di Alan riusciva a percepire lo scalpiccio delle zampe del mostro allontanarsi in una via secondaria. Non perse tempo e si gettò all'inseguimento, gli anfibi che appena toccavano l'asfalto, il cuore che batteva violento contro la cassa toracica. Zigzagò nei vicoli, seguendo quel suono che si perdeva nei fruscii della notte per le vie di Iadera. Talvolta gettava uno sguardo a terra per incontrare la scia nera che il Necromorfo lasciava al suo passaggio, ma l'acqua lavava via rapidamente le tracce. Alan non smarrì la preda solo grazie al disgustoso effluvio di carne marcescente che pervadeva l'aria. Dumbar era trenta passi avanti a lui. 
A un certo punto, si infilò in una galleria buia e poco ci mancò che Alan non lo perdesse di vista. Imboccò anche lui la galleria, ma in un istante il Necromorfo gli piombò addosso dall'alto. Affondò gli artigli nella spalla del cacciatore e graffiandogli il giubbetto di cuoio. Alan si dimenò, gli afferrò la testa con la mano destra per tenerlo fermo, mentre con l'altra lo tempestava di pugni, ma la creatura resisté e le sue fauci affondarono ancor più in profondità, fin quasi a sfiorare l'osso. Con la vista annebbiata, lo Slayer cinse il collo del mostro con un braccio e, prima che quello potesse capire cosa stava per fare, riuscì a ribaltarlo, facendogli sbattere con violenza la schiena sull'acciottolato bagnato.
Con il fiato in gola e la rabbia che gli scorreva nelle vene come adrenalina, il cacciatore si inarcò, fece una capriola e tornò in piedi, in tempo per sferrare un calcio al Necromorfo, che stava cercando di alzarsi. Quello grugnì, il sangue nero che sgorgava copioso dalle ferite. 
- Sei duro a morire. - sputò un grumo di sangue per terra e lo fissò truce, - Dimmi, cosa c'entrava Peter in tutto questo? Perché hai infierito così tanto e così a lungo sul suo corpo? -
- Perché lui mi ha portato via Angelika! la mia piccola, dolce Angelika. - ringhiò Dumbar, trattenendo a stento la rabbia.
Alan sguainò la spada e descrisse un ampio semicerchio con la lama. La spalla gli doleva terribilmente e gli spediva fitte lancinanti al cervello. Digrignò i denti e scrollò il capo per restare lucido. 
- Lei era mia, era la mia donna, la donna che avrebbe dovuto partorire mio figlio. Capisci? Mio figlio, non quello di quel pezzente! La voleva portare via da me e stava già mettendo da parte i soldi per partire, ma io gliel'ho impedito. Oh, sì che gliel'ho impedito. I miei sgherri mi hanno riferito dei suoi piani e io la sera sono andato a casa sua. All'inizio gli volevo sparare e basta per farla finita in fretta, ma poi mi sono detto “perché non fargliela pagare come si deve?”. E così mi sono ricordato dei giochi che facevo con Molliccio prima di diventare Dumbar. - ridacchiò e un rivolo di bava si allungò dalla sua bocca, - Sono andato a casa sua e mi sono trasformato davanti ai suoi occhi. Lui ha tentato di scappare e io l'ho inseguito fino a quando non mi sono stufato e gli ho sparato con la balestra. Un colpo preciso, dritto nelle costole, abbastanza per farlo crepare alla velocità che desideravo. Poi lo ammetto, mi sono lasciato prendere un po' la mano, Molliccio si è arrabbiato molto quando l'ha scoperto, ma tu non sai quanto è stato eccitante... -
Alan rimaneva immobile con l'arma pronta a scattare. A un tratto saltò, facendo roteare la spada sopra la testa. Il Necromorfo si rannicchiò fulmineo, schivò l'affondo e fuggì. Il cacciatore imprecò di nuovo e riprese l'inseguimento. 
Uscirono dalla galleria e sbucarono in una via stretta dall'acciottolato irregolare e pieno di buche. La pioggia scrosciava sopra di loro, coprendo ogni rumore. Alan si sentiva stanco, ma non poteva fermarsi in quel momento, non ora che lo aveva in pugno. Improvvisamente, giunto in prossimità di un incrocio, il mostro si fermò. Girò la testa alla sua sinistra e si immobilizzò, il corpo scosso da un tremito incontrollato.
Lo Slayer rallentò la corsa fino a camminare. Percepì una sensazione di angoscia opprimergli il petto, mentre un brivido freddo gli avviluppava le viscere. Solo in quel momento si accorse che intorno a loro regnava un silenzio assoluto. Persino la pioggia, quando cadeva nelle pozze o sulla pietra, non produceva più alcun suono.
In quel preciso istante una cantilena sommessa giunse alle sue orecchie.

Trallero, trallallà...
e l'infante dove sta?

Grida, urla la sua mamma
e la gente già s' affanna
a cercare quel piccino
che ormai già è in cammino.

Si è perso? Dove è andato?
Chi lo ha visto? Va cercato!
E nel buio più totale 
lo sa solo un animale.

Che animale sarà stato?
Forse un orso od un alato.
No, è un uomo, proprio vero
che si chiama uomo nero. 


- No... no ti prego, no... - uggiolò il Necromorfo, indietreggiando terrorizzato.
Dal nulla un bagliore metallico squarciò l'oscurità e dai denti serrati della creatura uscì un grido roco. Alan si pietrificò mentre l'osservava cadere a terra come una marionetta rotta. Con i brividi che gli correvano sulla pelle e il cuore in gola continuò a camminare, fino ad arrivare vicino al cadavere di Dumbar, che giaceva immobile, senza alcuna ferita visibile se non quelle che si era procurato durante lo scontro con lui.
Guardò a destra e a sinistra, agitato, ma non notò nulla di strano.

Se nel buio è tutto nero
sta arrivando l'uomo nero.
E se il buio ancora dura
puoi solo aver paura!


Non fece in tempo ad alzare lo sguardo, che la lama di una falce gli passò sul collo e si ritrovò faccia a faccia con un essere che da quel momento in poi avrebbe abitato per sempre nei suoi peggiori incubi. Fissò un viso senza fattezze, un'essenza immateriale fumosa che si dimenava sotto il cappuccio, e avvertì l'urgente bisogno di fuggire, poiché da sotto quel mantello stracciato sentiva pulsare una volontà malvagia che gli penetrava fin nel cervello. Ma, stretto tra il filo freddo dell'acciaio e il corpo di quell'essere, il cacciatore non poté muovere un solo muscolo. Incapace di respirare, di urlare, spaventato da un sentimento sconosciuto tanto da provare quasi un dolore fisico, attese inerme il suo destino.
A un certo punto, gli parve che il proprio cuore cessasse di battere. 
Nascosto sotto quel cappuccio sudicio, Alan non vedeva più fumo inconsistente, ma il volto sfregiato di Eluiase, con il sorriso divorato dai vermi e le orbite vuote.
Infine il mondo piombò in una torbida oscurità. 

N.d.a
La canzoncina dell'uomo nero non è mia, ma è presa dal sito poesieracconti

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Capitolo 9
*** Act. 1 - Sunday without God ***


Slayers
Act. 1 - Sunday without God



Stava albeggiando quando Alan riprese conoscenza. La prima cosa che percepì non appena aprì gli occhi fu l'odore della pietra bagnata e i vestiti fradici a diretto contatto con la pelle. Si domandò come mai si trovasse lì, al crocevia di una stradina deserta, ma i suoi ricordi erano confusi e cercare di riordinarli sembrava un'impresa impossibile con quel ronzio fastidioso nelle orecchie. Era sicuro di essere andato al Municipio e, se la memoria non lo ingannava, aveva ucciso Mercer e in seguito Dumbar. Da quel momento in poi erano solo un susseguirsi di immagini caotiche e sfocate. Girò di poco la testa, ma nel farlo non riuscì a trattenere una smorfia di dolore: la testa gli pulsava e ogni muscolo del corpo gemeva al minimo movimento, lasciandolo completamente senza fiato. Persino respirare era faticoso. Strinse i denti, già pronto a provare di nuovo ad alzarsi, quando una faccia conosciuta fece capolino sopra di lui. Sussultò per lo spavento e dovette trattenersi dall'imprecare.
- Tu sta bene? - chiese con tranquillità Angelika. 
Teneva la testa di Peter stretta al petto e lo fissava con un'espressione a metà tra il preoccupato e il divertito. Cosa ci fosse di divertente lo sapeva solo lei.
- Potrebbe andare meglio. - grugnì.
La ragazza tirò un sospiro di sollievo: - Appena capito che tu era in pericolo, io corsa qui e curato! - 
Il cacciatore corrugò le sopracciglia, senza capire a cosa si stesse riferendo. 
- Ah... - rispose con un tono leggermente scettico, - Mi daresti una mano? Sono a pezzi. -
Con un sorriso entusiasta, Angelika depose la testa di Peter al suo fianco e aiutò Alan, issandolo da sotto le ascelle. In realtà, lo sforzo maggiore lo fece il cacciatore, che non fu in grado di reprimere in tempo un gemito sofferente. Una volta seduto, ebbe modo di studiare i danni riportati e si rese conto che riusciva a muovere perfettamente la spalla. In più non avvertiva alcun dolore nel punto in cui i denti del Necromorfo erano affondati: a parte un profondo strappo nei vestiti, c'era solo una leggera linea rossa e dentellata incisa sulla pelle. Osservò Angelika in tralice e lei ricambiò con un sorriso soddisfatto stampato in faccia. Alan sospirò, alzando gli occhi al cielo: sì, decisamente doveva aver preso una brutta botta in testa.
- Perché non sei rimasta da Bacht? Ti avevo detto che dovevi aspettarmi da lui. -
- Ma tu era in pericolo! - protestò imbronciata, - Io salvato te con i miei poteri. -
- Tu... hai dei poteri? - domandò incredulo.
- Sì! Io capace di curare, anche se tu non avere molto bisogno. - gli indicò lo squarcio sulla spalla, - Quando arrivata, già cominciato a chiudere. Tu magico! -
- Sì, sono un folletto, Angelika. -
- Davvero? - afferrò la testa di Peter con un'espressione diffidente, - Però tu non essere verde. -
Alan inspirò profondamente, dicendosi di mantenere la calma. Parlare con Frejie era un esercizio di pazienza non da poco, ma avere a che fare con Angelika era peggio che tentare di instaurare un dialogo pacifico con un ghoul.
- Comunque, non riuscita a curare completamente. La linfa delle margherite aiutato a pulire, ma... -
- Hai usato delle margherite? - la interruppe basito, indeciso se ridere o prendere a testate qualche muro.
Da quel poco che sapeva di botanica, quei fiori non avevano alcuna utilità in campo medico, ma tra i due era l'unico a pensarla a quel modo vista l'occhiata seria che gli rivolse Angelika.
- Piante capaci di molte cose. - affermò lei, con lo stesso tono di una maestra che si rivolge a un bambino testardo.
Alan si limitò a scrollare le spalle. Anche se razionalmente sapeva che la ragazza possedeva sangue di driade nelle vene e che non era così strano che sapesse usare le qualità delle piante in modi insoliti, il solo fatto che fosse capace di qualcos'altro all'infuori di piangere gli era difficile da credere. Chiuse gli occhi per un momento, poi con un balzo si tirò su e recuperò la spada da terra. Non ricordava che gli fosse caduta. L'unica cosa che gli era rimasta impressa era il viso nascosto sotto il cappuccio nero della creatura che aveva ucciso Dumbar, un viso che lo aveva ghiacciato sin nelle ossa. Nonostante avesse sentito il freddo dell'acciaio sul collo, non era stato capace di muoversi, annichilito dalla visione di quegli occhi deturparti dai vermi e dalle beccate dei corvi. Rabbrividì, respingendo quasi con rabbia quell'immagine: era stata un'allucinazione, doveva esserlo, era la sola spiegazione che in quel momento era disposto ad accettare.
Con un sospiro angosciato tornò a rivolgere la sua attenzione ad Angelika.
- Sta bene...? Tu bianco. - l'espressione preoccupata della ragazza gli provocò un moto di fastidio.
- Sì, sto bene. - rispose sbrigativo, - Come mi hai trovato? -
Angelika incassò la testa nelle spalle e abbassò lo sguardo, puntandolo sulla nuca di Peter. Il cacciatore notò che era scossa da un leggero tremolio.
- Difficile... - borbottò.
- Provaci. - incrociò le braccia al petto, spazientito.
L'altra attorcigliò nervosamente una ciocca di capelli attorno al dito, ma non disse nulla.
- Parliamoci chiaro, Angelika. Non ho intenzione di portarti con me, per quel che mi riguarda puoi rimanere il giocattolino del signor Griffon, oppure andare a Brugge, anche se non ti assicuro che ci arriverai viva. - 
La trafisse con uno sguardo gelido e la ragazza gemette, stringendo ancora di più la testa tra le esili braccia, ma Alan non si fece impietosire.
- Non mi importa nulla di quello che sarà di te, finora ti sei rivelata solo un peso inutile e io, sinceramente, sono stufo di te e dei tuoi piagnistei. Il caso è risolto, ho fatto luce sulla morte di Peter ed eliminato i mostri. Non ci lega più niente, adesso, e io ho altre cose da fare. - concluse e rinfoderò la spada.
- I-io... no, non lasciare me sola... - la voce le si ruppe, ma si sforzò di articolare bene le parole, le lacrime che già le solcavano le guance.
- Convincimi, allora. Convincimi che non mi sarai d'intralcio. -
- Co... come? - lo fissò con aria persa.
- Te lo richiederò un'altra volta: come mi hai trovato? -
La ragazza tacque. Alan si chiese se fosse solo ostinata oppure dannatamente stupida. Sospirò e, senza pensarci due volte, le diede le spalle, imboccando la strada che sapeva lo avrebbe condotto fino alla locanda dove aveva lasciato Brunilde. Il vento si alzò, gonfiandogli il soprabito ancora pregno d'acqua e sospingendolo lungo l'acciottolato, ma dopo pochi passi udì un bisbiglio. Si fermò appena prima di girare l'angolo. Il sole era ormai sorto e i suoi raggi si riflettevano sulle pozzanghere, creando specchi accecanti.
- Io... - cominciò Angelika, - Io sentito dove tu era. -
- L'hai sentito? - interessato, Alan si voltò, - Cosa intendi? -
La ragazza deglutì: - Era come un filo, un filo rosso luminoso che tu aveva attaccato alla schiena. Quello guidato fino a te. -
Il cacciatore alzò un sopracciglio: - Lo vedi sempre questo... filo? -
- No, solo tu e Peter. -
- Ed erano entrambi dello stesso colore? -
- No, tu rosso, Peter blu. -
- E ci sono sempre stati, fin da quando ci hai incontrati? -
- N-no. - esitò e si mise a tormentare il lobo dell'unico orecchio del suo amato, - A te comparso dopo, perché io aveva paura che tu lasciare qui me. -
Lo Slayer contrasse la mascella, ma mantenne lo stesso tono di voce gelidamente neutro: - Ed è per questo che sapevi dove trovare il corpo di Peter. -
- No! Io pascolare lì, poi trovare per caso filo. -
- Quante sorprese... prima scopro che sai parlare e ora che sai usare la magia. Non sei poi così inutile. - 
Si passò una mano nei capelli argentati, costatando che erano incrostati di fango, sangue e chissà cos'altro. Ormai le guardie avrebbero dovuto trovare il cadavere di Mercer, specialmente per l'odore di putrefazione che appestava l'aria, impossibile da ignorare. Inoltre, non poteva di certo presentarsi da Frejie in quello stato: se già puzzava in quella maniera, non voleva immaginare in che stato sarebbe arrivato dopo tre giorni di viaggio.
Angelika lo guardava speranzosa, con gli verdi occhi spalancati pieni di paura e le mani strette a pugno nel tentativo di arginare le lacrime, anche se quelle non accennavano a fermarsi. Poteva udire i battiti accelerati del suo cuore fin da lì.
- Va bene, verrai con me da Frejie. Di persone in grado di utilizzare la magia ce ne sono poche in giro, sarebbe uno spreco lasciarti in questo buco di città. - capitolò.
Gli occhi della ragazza si illuminarono e un sorriso di sollievo le curvò le labbra: - Tu buono. -
- No, non sono buono. - dichiarò lapidario e si staccò una ciocca rossa dalla fronte, visibilmente scocciato.
- Sì, tu grande cuore gentile. -
Il cacciatore la trapassò con un'occhiata truce: - Un'altra parola e potrei cambiare idea. -
Angelika aprì la bocca per parlare, ma la richiuse immediatamente, mugugnando qualcosa che Alan non capì, ma nemmeno quell'ultima minaccia bastò a farle passare la nuova espressione felice. Le fece cenno di seguirlo e si diressero in fretta al mercato nero. 
Dall'entrata erano stati tolti i corpi dei drogati e, nonostante il via vai continuo di gente, riuscirono ad arrivare al banco di Bacht abbastanza in fretta. Inaspettatamente, però, davanti al tendone non c'era solo il mercante. Seduto proprio vicino a lui c'era padre Izydor, intento a guardare una brillante gemma di potere. Bacht gli stava mostrando i cavi di rame che si attorcigliavano attorno alla pietra e descriveva infervorato tutti gli utilizzi che poteva avere. L'altro ascoltava con attenzione, annuendo e facendo qualche commento di tanto in tanto, anche se Alan non era certo che ci stesse davvero capendo qualcosa.
Dopo aver preso un bel respiro si avvicinò, seguito da Angelika, che continuava a far guizzare lo sguardo dal mezzelfo alla pietra, indecisa su quale dei due fosse più interessante. 
- Sasso colorato! - esclamò infine entusiasta, saltellando eccitata sulla gamba sana.
Alan scosse la testa sconsolato, ma, prima di poterla redarguire come si deve, Bacht lo precedette: - Non è un sasso, è una pietra molto potente che i maghi usano per i loro incantesimi. -
- Sì, e da quello che so sono anche molto difficili da trovare. - aggiunse Izydor, - Sono stati condotti alcuni scavi nella contea di Cork e... -
- Possiamo rimandare la lezione di gemmologia a dopo? - lo interruppe bruscamente lo Slayer.
Bacht lo guardò in cagnesco, mentre Izydor gli sorrise, facendogli cenno di avvicinarsi. Ovviamente il cacciatore non se lo fece ripetere. Non voleva ammetterlo, ma era curioso di sapere cosa ci facesse il religioso in quel posto così degradato.
- Le informazioni che mi hai dato mi sono tornate molto utili. - esordì allora rivolto a Bacht.
Il mercante si sfregò le mani con un sorriso sornione: - Avevi dubbi? Io ho fiuto per gli affari, so sempre come soddisfare i miei clienti. -
- Se hai un tuo tornaconto personale, sicuro. - commentò sbuffando.
- Sempre a pensare male. - borbottò Bacht indispettito.
- Tuttavia, c'è un problema: non ci sarà alcuna ricompensa per questa caccia. -
L'uomo lo fissò confuso, poi contrasse la mascella, mentre l'iride rossa dell'occhio meccanico si ridusse a una fessura. La faccia gli divenne rossa per la rabbia a stento trattenuta.
- Mi hai preso per il culo, quindi. -
- No, semplicemente mi ero dimenticato che Mercer non aveva mandato la richiesta alla Dogma... - 
- Ah, perciò adesso cosa facciamo? Mi pagherai vendendo il tuo corpo in giro?! - sbottò.
- Sei fuori di testa. -
- E tu sei un truffatore. - sibilò collerico, sbattendo il pugno sul banco.
Alan stava per rispondergli a tono, quando la voce pacata di padre Izydor richiamò la sua attenzione.
- Signor Slayer, signor Bacht, vi prego di calmarvi, siamo in un luogo pubblico. - 
Posò lo sguardo prima sul cacciatore e poi sul mercante. Alla vista di quell'espressione severa, nessuno dei due ebbe il coraggio di replicare. Prese la pietra e la diede ad Angelika, che, incurante del litigio in corso, fino ad allora non aveva fatto altro che fissarla. Le elargì un sorriso gentile e, dopo averle raccomandato di non farla cadere, la ragazza prese a giocare coi cavi di rame, rigirandosela tra le mani sotto gli occhi attoniti dei due.
- Per la ricompensa non c'è alcun problema. - proseguì tranquillo.
Alan inclinò la testa, perplesso quasi quanto Bacht, così il religioso si affrettò a spiegare.
- Visto che il signor Mercer rifiutava l'aiuto della Dogma, dopo aver a lungo riflettuto ho reputato necessario mandare uno dei miei fratelli alla città più vicina per affiggere la richiesta alla bacheca della filiale della gilda. -
- Padre, mi sta dicendo che lei ha... - balbettò sconvolto il mercante.
- Non siamo tutti come te, che non fai mai niente per niente. - lo rimbeccò Alan.
Izydor sedò sul nascere il loro litigio con un gesto imperioso della mano e Bacht dovette soffocare la sua risposta in un borbottio indistinto.
- Quanto le devo, signor Slayer? Io avevo posto una ricompensa di duecento raie, ma sa, non so quanto sia la sua parcella. - 
- Direi che duecento sono più che sufficienti. - 
- Alan! Non vorrai davvero chiedere dei soldi a un uomo di chiesa?! - lo rimproverò il mercante.
Padre Izydor gli posò una mano sulla spalla, intimandogli di calmarsi: - Ha rischiato la sua vita, mi sembra più che giusto che esiga una ricompensa. - 
Prese un borsello che aveva appeso alla cintura e lo posò sul banco senza indugio. 
- Le chiedo solo di raccontarci la verità. Sappiamo da voci che è stato trovato il corpo di un mostro. -
- Uno? -
Il cacciatore si appropriò lesto del borsello, ignorando lo sguardo di biasimo di Bacht. Le cannule di rame della protesi sbuffarono in sincrono coi movimenti scattanti del loro proprietario.
- Sì, le guardie dicono che stamattina hanno fatto irruzione nella sala grande del Municipio e hanno trovato un essere senza faccia. -
- Un doppelganger, aveva preso il posto del dottor Mercer. Non hanno trovato nient'altro? Nemmeno nelle strade? -
- No. - Izydor guardò Bacht, che scosse la testa.
Alan fece per aggiungere altro, ma un pensiero lo gelò: nemmeno quando si era svegliato aveva visto il corpo di Dumbar. Afferrò Angelika per il braccio, costringendola ad alzare il capo dalla gemma di potere.
- Tu non hai visto nulla? - 
- Cosa? -
- Stamattina, quando mi hai trovato... -
- Ah, alla fine sei riuscito a scovarlo davvero! - si intromise Bacht, guadagnandosi un'occhiata truce da parte del cacciatore. 
- Sì! Trovato io... -
- Non ti ho chiesto questo. - la voce di Alan celava a stento l'esasperazione.
Erano giorni che non dormiva in un letto decente, aveva i nervi a fior di pelle e ora c'era di nuovo quella sensazione di angoscia che sembrava corrodergli le viscere dall'interno. Anche se non voleva darlo a vedere, ciò che aveva visto sotto il cappuccio di quella creatura lo aveva terrorizzato. 
Angelika dovette intuire il suo stato d'animo, perché scosse la testa sussurrando un semplice “no”, con una voce così fievole che persino le orecchie dello Slayer faticarono a coglierlo. Sospirò, cercando di mantenere una parvenza di calma, e rifletté in fretta sulla risposta da dare. Sentiva gli occhi di padre Izydor e Bacht addosso, ma non poteva di certo raccontare tutta la verità sulla sera prima: dopotutto, nemmeno lui sapeva cosa fosse realmente successo.
- Anche Dumbar era un mostro. - rivelò esitante.
- Mostro, stronzo, quale vuoi sia la differenza? - scherzò il mercante.
- Bacht. -
- Va bene, va bene. - si sedette composto e si accese un sigaro senza aggiungere altro.
- Dicevo... era un Necromorfo, un mostro che può prendere l'aspetto della creatura che ha precedentemente divorato. Ieri, quando si sono visti scoperti, mi hanno attaccato, ma l'unico che sono riuscito a uccidere subito è stato il doppelganger, mentre Dumbar è scappato per le strade di Iadera. -
- Significa che è ancora in circolazione? -
La preoccupazione si fece strada sul viso del religioso: le labbra si tirarono in un'unica linea e le dita intrecciate si strinsero in un modo quasi impercettibile, ma Alan lo intercettò con la coda dell'occhio. 
- No, sono riuscito a stanarlo e a ucciderlo prima che prendesse l'aspetto di un'altra persona. - mentì e si sistemò nervoso la spada sulla schiena, - Purtroppo, per la grande perdita di sangue, sono svenuto e non ho le prove della sua morte. In ogni caso, anche se gli avessi tagliato la testa, sarebbe diventata polvere nel giro di poche ore. -
Padre Izydor rimase in silenzio, come se stesse soppesando le sue parole. Alan sostenne il suo sguardo senza timore, cercando di non far trasparire alcuna emozione. In fondo, non aveva mentito completamente, e poi, se l'essere fatto di fumo nero era davvero ciò che pensava, probabilmente Dumbar era stato divorato. Mangiato o polverizzato, che differenza poteva fare? Il nemico era stato smascherato e sconfitto, tanto bastava.
- Sia ringraziato Shamar. - Izydor tirò un sospiro di sollievo e gli sorrise, - Grazie di averci aiutato, signor Slayer. Posso sapere il suo nome? -
- Alan. -
- Alan come, di grazia? -
Rilassato, il cacciatore posò sul banco le cento raie mancanti per saldare il conto con Bacht, che questi arraffò subito.
- Solo Alan. -
- Bene, Alan, la ringrazio a nome di tutta Iadera e dei Confratelli del Sole. - 
Inaspettatamente gli strinse la mano, una stretta forte, decisa. Il cacciatore rimase per un secondo stupito di quella dimostrazione di gratitudine, poi si sforzò di ricambiare il sorriso.
- Spero di incontrarla di nuovo, signor Slayer, magari in circostanze meno macabre. -
Alan chinò leggermente il capo in segno di rispetto. Poi si girò verso Angelika, che aveva perso interesse per la pietra e ora si stava trastullando con un cacciavite arrugginito, sussurrando qualcosa di tanto in tanto all'orecchio di Peter.
- Con lei cosa farai? - Bacht richiamò la sua attenzione.
- Davvero ti interessa? -
Il mercante spense il sigaro nel posacenere stracolmo e se ne accese un altro.
- Sai, dopo quello che le è capitato, non credo voglia rimanere qui a Iadera. -
- Quanto sei dolce. - un ghigno sgradevole gli arcuò le labbra, ma Bacht non si fece impressionare, o almeno cercò di non darlo a vedere, - Verrà con me. Credo abbia delle capacità magiche che potrebbero tornarci utili. -
L'uomo fischiò e squadrò Angelika di sottecchi: - Non l'avrei mai detto. -
- Nemmeno io. -
- Forse è un'incantatrice spontanea. -
Si girarono entrambi verso Padre Izydor, che alzò prontamente le mani.
- Oh, scusate, non volevo essere invadente. -
- Non si preoccupi, qui in fatto di magia siamo ignoranti. - rispose Bacht con tono affettato.
“Parla per te.”
Alan lo guardò in cagnesco, ma ingoiò la bile senza commentare.
- Lei invece sembra saperne qualcosa. - 
- In realtà so proprio il minimo indispensabile. Sapete... - si toccò le leggere orecchie a punta, - Sono un mezzo sangue anche io e nel mondo elfico la magia è un dono naturale. Tra Elfi del Giorno ed Elfi del Crepuscolo non c'è una grande divergenza per quel che riguarda le abilità magiche, ma ovviamente c'è anche chi non è molto portato. -
Alan ricordò le lezioni di maestro Wylzmej alla Rocca di Mohor e la totale incapacità di risvegliare il suo circuito magico, a differenza di Eluaise. 
- Beh, so che per diventare maghi bisogna studiare, no? -
- La sua domanda è logica, signor Bacht, ma l'affermazione che contiene è vera per metà. - prese la gemma di potere e ne sfiorò la superficie con la punta delle dita, - Ci sono persone che necessitano di anni di studio prima di riuscire anche solo ad accendere un piccolo fuocherello, altre invece manifestano fin da subito una predisposizione naturale. -
Alan incrociò lo sguardo confuso di Angelika. Per quanto ci provasse, gli sembrava impossibile che potesse diventare una maga, però, per fortuna, non stava a lui deciderlo.
- Bene, noi dobbiamo andare. -
Fece un cenno alla ragazza e, dopo aver salutato di nuovo Bacht e padre Izydor, si avviarono verso l'uscita del mercato. Camminarono fino alla locanda e Alan pagò l'oste per avergli tenuto il cavallo nella stalla. Dopo aver fatto salire in sella Angelika, si ripromise di non mettere mai più piede in quella maledetta città, dove persino le scuderie erano più sporche di un letamaio. Non che dopo tutto quel tempo trascorso con il lezzo di una testa mozzata sotto il naso, il fetore di sterco gli creasse grossi problemi.
“Avrei bisogno di un bagno, ma almeno il puzzo terrà lontana la gente.” 
Sospirò e tirò Brunilde per le redini, imboccando la via maestra.
Quando nel suo campo visivo entrò l'immensa prateria al di fuori di Iadera, vide che Angelika si agitava. L'aveva costretta a infilare la testa di Peter in una borsa che pendeva dalla sella e, in un primo momento, non dette peso al suo comportamento. Tuttavia, quando si rese conto che non si calmava e stava facendo innervosire Brunilde, si fermò. Erano su un sentiero in terra battuta e intorno a loro c'erano campi a perdita d'occhio. A Sud svettavano orgogliosi gli alberi sempreverdi della foresta di Brugge.
- Cosa c'è? - sputò scocciato.
- Andare da signora nello specchio? -
- Sì, te l'ho già detto prima. -
“Meno male che tra poco mi libererò di te.”
- Noi non porta dolcetti? -
- Dolcetti? Di che dolcetti stai parlando? -
Prima che Angelika potesse rispondere, Alan capì a cosa si riferiva e ricordò le parole di Frejie quando gli aveva “gentilmente” chiesto di comprarglieli. Imprecò e maledì tutti gli dei che conosceva, per poi fare marcia indietro e riavviarsi di nuovo verso Iadera.
“Dannato me e il giorno in cui ho deciso di aiutare 'sta città. Riuscirò mai ad andarmene?”

 

*


Arrivarono a Westmoth quattro giorni dopo, di domenica pomeriggio. Angelika camminava avanti, saltellando come un cucciolo spensierato, mentre Alan procedeva in groppa a Brunilde con un'espressione fintamente calma. Il tempo non era stato misericordioso e, quando i tetti di Iadera erano scomparsi alla vista, non aveva fatto altro che piovere e il terreno era diventato una poltiglia fangosa che li aveva drasticamente rallentati. Di giorno non era poi così difficile avanzare, anche se il sole scaldava appena e la visibilità era ridotta, ma già al crepuscolo erano costretti a fermarsi, sia che si trovassero in mezzo a un bosco, sia che fossero in prossimità di una cittadina. Angelika crollava non appena si avvolgeva nel suo soprabito e così il cacciatore doveva fare tutti i turni di guardia al freddo. In nessun caso si sarebbe fidato di dormire e lasciare la ragazza a fare la ronda, ma quei ritmi serrati l'avevano sfiancato. Quelle poche volte che avevano avuto la fortuna di riposare in una taverna, il volto sfregiato di Eluaise era tornato puntuale a tormentarlo, strappandolo al sonno.
Sospirò stancamente e incitò Brunilde schioccando la lingua, tenendo in bilico il vassoio di cupcakes sull'arcione. Quando entrarono in città, il profumo dell'anatra e del pudding appena sfornato gli fece brontolare la pancia, ricordandogli che erano giorni che non consumava un pranzo decente. Si augurò che anche Frejie fosse di festa. Smontò, optando per procedere a piedi fino a Westmoth alta. Angelika zoppicava al suo fianco, guardandosi intorno con un'espressione a metà tra il disorientato e il meravigliato, ma Alan non si premurò di spiegarle nulla: ci avrebbe pensato Frejie se e quando avesse voluto. Da lontano, nella parte meridionale della città, si alzava un coro di voci che inneggiavano alla gloria di Shamar.
Salirono le numerose rampe di scale per raggiungere i quartieri dei ricchi e percorsero tutto il viale con le case bianche, i prati tagliati con cura e le porte colorate, senza incontrare nessuno. La neve si era sciolta, lasciando in vista delle macchie di un verde intenso, quasi innaturale. Un giovane giardiniere stava potando i rami secchi di un alto melo e, quando passarono, li squadrò con disprezzo. 
Dieci minuti più tardi, Alan bussò alla villa della maga. Immediatamente un maggiordomo ingessato in un frac nero venne ad aprirgli. Il papillon era ben stretto attorno alla gola e aveva una verruca a dir poco vistosa sulla guancia. Rivolse loro un'occhiata di sufficienza, magari pensando di aver a che fare con dei poveracci che si erano persi. Il cacciatore avvertì l'irresistibile tentazione di sfogare tutto il nervosismo su di lui, ma si impose di non reagire.
- Buongiorno. Lei è...? - chiese il maggiordomo ad Alan.
- Mi chiamo Alan. Sono qui per vedere Frejie. -
L'uomo inarcò un sopracciglio, arricciò il naso con palese disgusto e lo scrutò con sussiego. Poi i suoi lineamenti tornarono neutri e abbozzò un inchino.
- La contessa Barazethai la attende nel suo studio. - 
- Bene. - 
Soddisfatto, Alan fece cenno ad Angelika di avvicinarsi.
- La signorina non mi pare sia stata annunciata. - obiettò però il maggiordomo, che si portò rapidamente una mano al naso simulando un colpo di tosse. 
Lo Slayer non biasimò quell'uomo per il suo comportamento poco rispettoso nei confronti di un ospite, infatti Angelika puzzava quanto e forse più di lui. Non c'era bisogno di fingere. Recuperò il pacchetto dei cupcakes dalla sella e scrollò le spalle.
- Frejie sa già tutto. Mandi qualcuno a occuparsi del mio cavallo, per favore. - 
Lo superò senza tante cerimonie e ghignò all'udire il brontolio scocciato proveniente dalla soglia. Passò davanti ai quadri di discutibile bellezza degli antenati della maga, che catturarono immediatamente l'interesse della sua compagna, la quale si soffermò spesso a contemplarli ammirata, e proseguì verso il suo studio. Quando entrarono, trovarono Frejie seduta sulla sua poltrona, con le gambe accavallate sul tavolo stracolmo di libri. Li fissava con un sorriso imperscrutabile, le labbra sottili dipinte di un rosso acceso e i capelli biondi legati in una morbida treccia laterale. I monili d'oro e d'argento, intarsiati di pietre preziose e gemme di potere, brillavano alla luce soffusa delle candele.
- Finalmente ti degni di farti vedere. - esordì con finto tono lamentoso, poi mise giù le gambe e l'abito color vinaccia scivolò, accarezzando le caviglie nude.
- Ci ho messo più tempo del dovuto a finire il lavoro. - sospirò Alan, sedendosi sulla prima sedia che vide, mentre Angelika si accucciò sul tappeto. 
Con ancora in mano il vassoio dei dolci e senza sapere cosa farci, lo posò su un carrello sotto uno specchio ovale. La maga alzò un sopracciglio, ma non commentò, andandosi a sistemare sulla poltrona di pelle dietro il tavolo da lavoro.
- Allora, chi sarebbe questa fanciulla? -
- E' una lunga storia. -
- Oh, abbiamo tempo. - ammiccò con uno sguardo che non prometteva nulla di buono.
- A stomaco pieno credo riuscirei a raccontare meglio. -
Frejie sbuffò e suonò una campanella. Quattro giovani camerieri entrarono all'istante, come se fossero stati appostati là fuori tutto il tempo in attesa del segnale, portando quattro vassoi pieni di cibo. Li posarono sul carrello sotto lo specchio, per poi uscire di nuovo, chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle. Senza nemmeno attendere, Angelika si buttò sulle pietanze, ingozzandosi di tutto quello che le capitava a tiro. Alan e Frejie furono più tranquilli e, cercando di non far caso ai versi della ragazza, si servirono su dei piatti d'argento, anche se il cacciatore avrebbe voluto agguantare una coscia di anatra e mangiarla a morsi. Purtroppo sapeva che la maga non gli avrebbe perdonato una tale mancanza di educazione al suo cospetto.
- Allora? Sono tutta orecchie. - 
Frejie si portò alle labbra un acino d'uva, senza distogliere gli occhi da quelli del suo ospite. Gustandosi ogni singolo boccone di quella tenera carne affogata nel succo d'arancia, Alan le raccontò gli avvenimenti degli ultimi giorni, senza tralasciare nulla. Prestò attenzione all'espressione della maga, che, man mano che la storia proseguiva, si ammorbidiva. Se prima guardava Angelika quasi con disgusto, adesso la osservava con un'espressione compassionevole e triste. Quando lo Slayer terminò, lei restò in silenzio, gli occhi fissi sulla ragazza, che adesso stava piluccando il caviale come se fosse la cosa più buona del mondo.
- Che bestie... mi chiedo come faccia quella gente a dormire sonni tranquilli. -
Alan sospirò e si portò alle labbra una fetta di torta alle fragole. Il sapore dolce della pasta sfoglia e della marmellata gli esplose in bocca.
- Mi hai portato i cupcakes che ti ho chiesto? - c'era una nota di divertimento nella voce di Frejie, come se sperasse di prenderlo in fallo. 
Con un sorriso soddisfatto, lo Slayer si alzò e le porse il vassoio dei dolci. La carta era un po' stropicciata, ma il logo dorato della famosa pasticceria Bazyli si vedeva ancora. Ancora si chiedeva come potesse esserci un posto tanto raffinato in quel buco di città. Frejie scartò il pacchetto e addentò uno dei dolci. A giudicare dal mugolio sognante che emise, dovevano piacerle molto.
- Davvero ottimi, da leccarsi i baffi. -
“Con quello che mi sono costati...”
- Sono contento. -
- Vuoi favorire? -
Alan scosse la testa: - Sono pieno, grazie. -
- Meglio, così posso finirli io. - 
Diede un altro morso e due gocce di cioccolato le caddero nel décolleté generoso, ma in quel momento l'incolumità del vestito sembrava un problema minore. Il cacciatore lanciò un'occhiata distratta alla scollatura, mentre attendeva che lei finisse di mangiare. Sì, era decisamente bella, lo era sempre stata, sia prima sia dopo aver usato la magia su di sé, anche se Alan non aveva mai capito perché avesse deciso di cambiare così drasticamente il suo aspetto.
- Parlando di cose importanti. - si pulì le mani laccate di rosso su un tovagliolo, - Cosa vuoi che faccia con lei? - fece un leggero cenno del capo in direzione di Angelika, che ora se ne stava raggomitolata a dormire vicino al camino acceso.
- Pensavo di lasciarla a te. Come ti dicevo, ha delle doti che solo con un buon addestramento potrebbe sviluppare. -
La maga schioccò la lingua: - Vedo che leggere tutti quei manuali di magia ti è servito a qualcosa. Pensi che vorrà rimanere? -
- Non credo si opporrà adesso che sa quanto cibo circola in questa casa. -
A quella battuta, Frejie non riuscì a trattenere una risata: - Sì, potrebbe farle davvero bene. Non ho mai avuto un'allieva, sarà divertente saggiare le sue abilità. -
- Cerca di non essere troppo dura. -
- Da quando ti preoccupi per qualcuno all'infuori di te stesso? - lo stuzzicò, mentre si versava un bicchiere di vino rosso e gli lanciava un'occhiata carica di ironia. 
Alan la ignorò, bevve un sorso di birra e lasciò che il sapore del malto gli scivolasse in gola. Socchiuse le palpebre e lasciò vagare lo sguardo nella stanza, senza fissare la sua attenzione su nulla. Solo quando si sentì pronto parlò.
- Hai scoperto qualcosa di Eluaise? -
- Sì e no. -
- Cioè? -
Frejie fece ondeggiare la coppa e si bagnò le labbra col vino. Da dietro le ciglia chiare, Alan scorse uno sguardo assente. Poi la maga si avvicinò ad un mobile, aprì un cassetto ed estrasse la ciocca di capelli che lui le aveva consegnato.
- Diciamo che con quello che mi hai lasciato non ho potuto fare molto. Purtroppo la geomanzia richiede qualcosa di più per identificare la posizione dell'individuo desiderato. Con questi sono riuscita a delineare una zona dove adesso potrebbe trovarsi, che è ampia quasi più di cento miglia. -
- Mi prendi in giro? -
- Ti sembra che stia scherzando? - lo fulminò con un'occhiata tagliente, - Ci ho lavorato un bel po', ma più di questo non posso fare. O meglio, potrei, ma con qualcosa di più che una ciocca di capelli. -
Alan chiuse gli occhi e sospirò: - Dove. -
- Dalla contea di Fermanagh, passando per Cork, fino ad Antrim sud. Waterford e Crowne prima del fiume Nemil. -
- Tutta la New England meridionale, in pratica. Sul serio non sei riuscita a fare di meglio? -
- No, va bene?! - sbottò irritata, - C'è anche qualcosa che scherma la mia magia. -
- Una barriera? -
- Credo che Eluaise sia diventata dannatamente furba. Non so per quale motivo, ma ha preso tutte le precauzioni per non farsi localizzare. E deve essere qualcosa di davvero potente, perché ogniqualvolta cerco di visualizzarla, il mio potere rimbalza contro uno spesso muro di nebbia. -
- C'è la possibilità di capire da chi o da cosa sta scappando? -
- Difficile. L'oggetto che ha addosso ha una schermatura molto ampia. Potrei provare, ma sarebbero delle informazioni estremamente imprecise. -
Alan si passò le mani sul viso, frustrato e impotente. La visione della faccia putrefatta della ragazza gli faceva meno paura adesso che aveva la certezza che Eluaise era viva, ma sapeva di non avere in mano praticamente nulla. Se fosse stata in pericolo, non sarebbe riuscito a soccorrerla in tempo e sarebbe stato come ad Eartshire, quando era arrivato e aveva trovato solo lapidi e rovine fatiscenti. Il ricordo gli strappò il respiro e all'improvviso sentì la stanchezza di quei giorni gravargli sulle spalle più di prima.
La maga si morse le labbra, ma si trattenne dal prendergli la mano e stringergliela.
- In compenso ho parlato con un mio conoscente alla Dogma e gli ho chiesto di fare una ricerca su quello che è accaduto ad Eartshire. - aggiunse pacata.
Attese qualche istante, ma quando capì che il cacciatore non aveva intenzione di parlare, si convinse ad andare avanti, cercando di non tradire troppe emozioni.
- Non c'è nulla di certo, le fonti ufficiali dicono che è stata un'orda di mostri a distruggere la contea, ma secondo voci indiscrete è solo una copertura per nascondere che, in realtà, è stata opera di uno solo, come dicevi tu. Purtroppo non ci sono abbastanza prove. Da quel poco che hanno rinvenuto, pensano si tratti di un Antico. -
A quella parola, Alan alzò di scatto la testa: - Un Antico? -
- Sì. E' molto probabile che sia stato un Antico, ma non sanno altro. -
- Cazzo. - sbuffò e si massaggiò le tempie, esibendosi in una smorfia esasperata, - Però, in effetti, è l'unica teoria che abbia senso. I soli dotati di una forza tale da compiere un simile disastro sono proprio gli Antichi. -
- Non ti preoccupare, Alan: se l'Antico in questione si è appena svegliato, non sarà nel pieno delle forze. Ed Eluaise sa badare a se stessa. - tentò di consolarlo Frejie, ma anche lei sapeva quando potessero essere feroci quegli esseri. 
Nonostante tutto, Alan riuscì ad annuire.
- E la creatura che mi ha attaccato a Iadera? -
- Sì, probabilmente è il Boogeyman. - rise, cercando di alleggerire l'atmosfera, - Non ti preoccupare, non era la Dama Nera in persona. Sei stato veramente fortunato, in pochi possono vantarsi di essere sopravvissuti ad un incontro così ravvicinato. In tutta onestà, non so perché ti abbia risparmiato, non è nella sua indole mostrare misericordia. Comunque, meglio non sfidare il Boogeyman, è una delle creature più potenti che abbia mai calcato queste terre. - 
- Sì, certo, va bene. -
- Sai dire soltanto questo? Non hai avuto paura di morire? -
- Ovvio che l'ho avuta, ma l'unica cosa che posso sperare è di non imbattermi in lui una seconda volta. -
Frejie fece per aggiungere altro, tuttavia si accorse che il cacciatore si era irrigidito e i muscoli si erano inspiegabilmente tesi come quelli di un animale braccato: non era semplice timore, ma profondo e radicato terrore. 
- Deve essere stato orribile... - 
- Già. - rispose laconico, - Ora devo andare. -
- Parti subito? -
- E' meglio che non sprechi tempo prezioso, lei potrebbe essere in pericolo. - spiegò con aria cupa.
Frejie gli fu subito accanto e gli strinse debolmente il braccio. L'espressione era dura, ma sotto le ciglia dorate Alan intravide una profonda tristezza e una preoccupazione che mai fino a quel giorno aveva mostrato. Quando parlò, però, dalla sua voce non trasparì niente della tempesta che le imperversava dentro.
- Non puoi, non ora almeno. -
- Perché? Devo aiutarla. -
La mano sul braccio scivolò fino a quella dell'altro e la maga intrecciò le loro dita, lo sguardo incatenato al suo. Un silenzio saturo di tensione riempì l'aria e una strana forza magnetica li attirò l'uno verso l'altra, avvinghiandoli in un abbraccio soffocante, quasi doloroso. In quell'abbraccio c'erano parole non dette, sentimenti inespressi, incertezze e sogni infranti, che appartenevano ad un lontano passato; ma, come il passato, anche essi a volte tornavano e, quando lo facevano, era come essere investiti da una frana. Fingere di essere invincibili era un gioco che conoscevano bene, ma alla lunga stancava. 
Tacquero entrambi per interminabili minuti, senza trovare il coraggio di parlare, di dare un nome alla bufera che era esplosa nei loro animi. I capelli della maga sapevano di rose e incenso, ma al di sotto di quel profumo Alan riuscì a fiutare l'odore della sua pelle, che ormai conosceva a memoria. Un odore dolciastro ma non sgradevole, che lo aveva consolato per un lungo periodo della sua vita; un odore malinconico e nostalgico, che riesumava ricordi sopiti.
- Frejie... - 
Lei gli posò delicatamente un dito sulle labbra per intimargli il silenzio e gli accarezzò la guancia con un sorriso triste, incurante della polvere che le sporcava i polpastrelli.
- Non dire niente. - sussurrò, poi la mano si mosse e si infilò nella chioma argentata, giocando con una ciocca rossa.
Alan non disse nulla, non si allontanò né la respinse, abbandonandosi al tepore che quei tocchi delicati gli trasmettevano. C'era stato un tempo in cui si era immerso anima e corpo in quel calore, un tempo in cui lui e Frejie erano stati una cosa sola, un tempo in cui aveva creduto di amarla più di se stesso, più di Eluaise. Ma lui non poteva amare nessun altro più di Eluaise e la maga l'aveva sempre saputo.
Il riflesso che le iridi violette della donna gli rimandarono fu quello di uno Slayer, un cacciatore di mostri freddo e implacabile. Doveva riprendere il controllo, aveva permesso alla luce che albergava in lui di prendere il sopravvento con troppa facilità e questo non era ammissibile, non più. L'oscurità era la sua compagna ormai e le sarebbe stato fedele e devoto fino alla fine. Si irrigidì.
- Scusami... - soffiò la maga, sussultando come scottata.
Distolse lo sguardo e fece un rapido passo indietro, riacquistando in un battito di ciglia la postura rilassata e l'espressione altera.
- Puoi rimanere qui stasera. Ti faccio preparare una stanza e un bel bagno. Anche per la tua amica. - proseguì, la voce priva di qualsiasi inflessione. 
Alan annuì e Frejie uscì a passo veloce dalla stanza, senza voltarsi indietro.
Da fuori si alzò un'ultima nota di pianoforte, il coro della chiesa di Shamar tacque e la stanza piombò ancora nel silenzio, interrotto solo dal quieto respirare di Angelika e dal crepitio del fuoco nel camino.

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Capitolo 10
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Slayers
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Il vento faceva sbattere un'imposta e smuoveva le tende della finestra. Nell'oscurità illuminata solo dai tenui raggi di luna, Alan si girò supino a fissare il soffitto. Finalmente dopo giorni a dormire all'addiaccio poteva riposare su un letto decente, ma il sonno tardava ad arrivare o, forse, era il cacciatore stesso a tenerlo lontano, poiché non faceva che riflettere da ore su quello che Frejie gli aveva riferito. Buttò il cuscino a terra e si sistemò sul fianco destro, lo sguardo rivolto verso la porta, i sensi tesi a captare qualunque suono, anche se sapeva che lì nessun mostro lo avrebbe attaccato. Sbuffò sconsolato: ormai nemmeno quando era al sicuro il suo corpo e la sua mente cessavano di restare in allerta. Era una delle tante cose che maestro Lovuin gli aveva insegnato quando era un ragazzino e da anni era diventata parte integrante di lui. Agli Slayer, se volevano sopravvivere abbastanza a lungo, non era permesso abbassare la guardia in nessun frangente, neanche mentre dormivano. 
Anche Eluaise era stata addestrata a quello stile di vita. Quelle poche volte all'anno in cui gli era concesso di tornare a casa, Alan le spiegava cosa aveva appreso. All'inizio, era stato un gioco, un modo per ingannare il tempo quando mastro Liam e sua moglie andavano a lavorare e loro due rimanevano da soli a casa, poi gli allenamenti erano diventati sempre più seri fino a diventare quasi delle vere e proprie sessioni di addestramento. Per lei non era stato facile, ma lui le era sempre rimasto vicino, perchè, nonostante glielo promettesse ogni volta, non poteva avere mai la certezza di tornare. Il mondo all'interno della rocca era un luogo inospitale, dove i futuri cacciatori venivano costretti a mettere da parte compassione e umanità a vantaggio della spietatezza che caratterizzava gli Slayer. E un giorno sarebbero divenuti mostri anche loro. Mostri che cacciano altri mostri. Non c'era tempo per l'affetto, l'insulsa solidarietà o l'amicizia. L'unico momento in cui ad Alan era concesso di abbassare la guardia era quando tornava in quella casa, in quella catapecchia ad Eartshire dove poteva sentirsi amato, un posto in cui poter gettare la maschera ed essere se stesso. 
Poi, quando il circuito magico di Eluaise si era risvegliato, lui le aveva insegnato come sopravvivere anche senza l'ausilio della magia, perché non si poteva mai sapere: era preoccupato che l'amica diventasse troppo dipendente da un'arte poco affidabile. Alla rocca c'erano alcuni bambini come lei che avevano mostrato una naturale predisposizione e di tanto in tanto capitava che maestro Wylzmej spiegasse qualche nozione anche a chi non aveva quelle capacità. Era proprio grazie a quelle poche lezioni e ai libri che Alan aveva appreso non solo i fondamenti della magia, ma anche quanto fosse in realtà facile da bloccare. Era un'arma a doppio taglio e voleva evitare che Eluaise venisse tradita proprio nel momento del bisogno. All'epoca, pure Frejie li aveva aiutati, sovraintendendo agli esercizi con la stessa severità dei maestri della rocca, anche mettendoci un po' del suo, ed Eluaise si era presto dimostrata un'allieva modello, provvista di talento, capacità di discernimento e sete di sapere. 
La consapevolezza che fosse in grado di difendersi l'aveva sempre fatto stare tranquillo, ma adesso che sapeva cosa la stava inseguendo non riusciva a darsi pace: un Antico. Solo una volta aveva avuto a che fare con una creatura del genere e sperava vivamente di non imbattercisi più, non fosse altro che in quello scontro stava per crepare. Erano i "primi mostri", i progenitori che conservavano intatto il potere del brodo primordiale che li aveva generati. Di solito rimanevano dormienti a lungo, a volte per secoli, ma quando si risvegliavano non bastava uno Slayer come lui per fronteggiarlo. La cosa migliore sarebbe stata andare a parlare con i piani alti della Dogma, ma il suo istinto gli suggeriva di evitare. E se Eluaise si era procurata persino un oggetto per non farsi localizzare da fonti magiche, non era detto che l'Antico fosse la minaccia più pericolosa. 
Tuttavia, si domandò perché la ragazza non avesse provato a contattarlo. Anche se nel loro ultimo incontro avevano litigato, Eluaise avrebbe dovuto sapere che lui avrebbe fatto di tutto per aiutarla. Eppure era sparita senza dire nulla e senza lasciare tracce. Probabilmente, se non avesse chiesto aiuto a Frejie, l'avrebbe cercata invano per tutta la New England.
Imprecò a denti stretti, poi si alzò dal letto, si diresse verso la finestra e l'aprì. L'aria fredda della notte lo investì, accarezzandogli il petto nudo. Un brivido gli corse lungo la pelle, ma non era dovuto alla temperatura. Chiuse la mano a pugno e lasciò vagare lo sguardo sui tetti innevati delle case. 
- Perché non ti sei fidata di me? - ringhiò nel buio, frustrato e angosciato.
La domanda si condensò nell'aria in una nuvoletta di vapore che il vento disperse nella notte e l'unica risposta che ricevette fu l'ululato di un cane in lontananza. Sebbene non volesse ammetterlo, Alan sapeva perché l'altra non era venuto a cercarlo. Per un istante la rabbia lo accecò e colpì l'imposta con un pugno. Il legno scricchiolò e il dolore delle schegge conficcate nelle nocche si irradiò per tutto il braccio. Un rivolo di sangue colò lungo il suo polso, ma non se ne curò.
“Ti troverò, Eluaise, giuro che lo farò.”
Udì la porta della sua stanza aprirsi con un cigolio e si irrigidì immediatamente. Si voltò e incrociò lo sguardo preoccupato di Angelika, che esitò sulla soglia, gli occhi che guizzavano dalla finestra alla sua mano. Alan temette che stesse per avere l'ennesimo attacco di pianto, ma sorprendentemente Angelika riuscì a trattenersi. Stringendosi nella vestaglia da notte, si avvicinò a passi incerti, i lunghi capelli cinerei che frustavano l'aria.
- Tu... tu male. - gli indicò la mano ferita con un cenno del capo.
Il cacciatore scrollò le spalle: - E' solo un taglio, guarirà presto. -
Lei annuì, ma continuò a fissare le nocche insanguinate. Aveva le gambe scoperte, la vestaglia la copriva appena fino alle cosce, ma nonostante il freddo rimaneva lì, come se aspettasse che lui le dicesse qualcosa. Ora che si era fatta un bagno e lavata via la puzza degli ultimi giorni, Alan riusciva a sopportare la sua presenza, ma in quel momento la trovò particolarmente invadente. Avrebbe voluto stare da solo con i propri pensieri, rimuginare sul passato e crogiolarsi nel rimorso e nell'ansia, ne aveva bisogno, però Angelika pareva di tutt'altro avviso.
- Tuo filo trema. - disse mentre avanzava di qualche passo.
- Eh? - 
- Il filo... se trema tu non tranquillo. - spiegò lei balbettando.
“Oh, fantastico, adesso devo pure stare attento alle mie emozioni?”
- Sono solo un po' teso per il viaggio di domani, nulla di che. Ora sono stanco, vorrei dormire. - la liquidò sbrigativo, sperando di levarsela di torno entro i tre secondi successivi.
Si sedette sul letto e fece finta di sbadigliare, ma la ragazza lo ignorò. Si mise vicino a lui e gli prese la mano, osservandola con attenzione. A quel contatto così inaspettato, Alan dovette imporsi con tutto se stesso di non spingerla via.
- Io può guarire te. - sussurrò Angelika, poi lo spiò da sotto le lunghe ciglia bionde e gli sorrise con timidezza. 
- Non mi serve. - borbottò stizzito e la guardò con aria truce, allontanando la mano.
Attonita, Angelika fissò la sua attenzione sulle proprie ginocchia e ammutolì. 
All'esterno la neve cadeva a manciate, mentre nei corridoi e nelle stanze della villa di Frejie regnava il silenzio assoluto, interrotto solo da un lieve sferragliare proveniente dalle cucine, forse la caldaia.
La ragazza puntò l'attenzione sul camino. Il fuoco che il cameriere aveva acceso mentre gli preparava la camera si era estinto ore prima, ma le braci sonnecchiante emanavano ancora un leggero alone aranciato. 
- Domani tu parte? - 
- Sì. -
- E dove va? -
- Non ti deve interessare. -
Angelika incassò la testa nelle spalle e cominciò a tormentarsi una ciocca. 
- Io non vede mai mondo. - pigolò, - Io chiede solo che tu racconta come è... solo qualcosa. -
Alan sospirò e allungò le gambe sul letto, sbuffando. Le nocche gli dolevano e il sonno non arrivava, tanto valeva accontentarla. Almeno si sarebbe distratto.
- Basta che poi te ne vai. - 
Angelika batté le mani contenta e si mise a gambe incrociate sul materasso, facendo gemere le molle. Solo allora il cacciatore si rese conto che i suoi capelli erano talmente lunghi da coprire buona parte del letto. Al contrario, la corta vestaglia lasciava in bella mostra le mutandine di cotone.
- Copriti, per favore. - grugnì infastidito.
Angelika non capì subito a cosa si riferisse, poi si guardò tra le gambe e si affrettò a chiuderle, avvampando fino alle orecchie. Dopodiché impallidì e i suoi lineamenti si contrassero per la paura.
- I...io n-no... - 
Alan si raddrizzò. Non seppe perché, ma, vedendola così in agitata, sentì il bisogno di rassicurarla.
- Angelika, tranquilla. Non ho intenzione di farti nulla, puoi fidarti di me. -
Prima di riprendere a parlare, Alan attese che il respiro di Angelika si normalizzasse. 
- Allora, cosa vuoi sapere? -
- Racconta delle terre del Sud... -
- Le terre del Sud è un po' vago. -
La ragazza inclinò la testa, arricciò il naso e corrugò le sopracciglia: - Quelle con gli elfi! -
- Eh? Va bene, ferma, mettiamo in chiaro una cosa: non è vero che gli elfi abitano solo al Sud. Forse all'inizio era così, quando ancora non c'era stata la Rivoluzione industriale, ma ora ne trovi sia nelle grandi città sia nelle foreste. -
- Ah. No, perché Peter... -
- Lascia stare quello che diceva lui. - la interruppe, - Vuoi sapere com'è il mondo fuori da Iadera? -
Con un'espressione da tonta stampata in faccia, Angelika fece segno di sì con la testa. 
- Allora, ascoltami. Conosci la differenza tra gli Elfi del Crepuscolo e gli Elfi dell'Alba? -
- Sì! I primi sono neri e gli altri sono bianchi! - esclamò soddisfatta.
Alan la guardò con le palpebre a mezz'asta e l'aria sconfitta. Sospirò stancamente, ma si impose di avere pazienza.
Angelika si sporse per sbirciarlo e piegò la testa di lato, confusa e in attesa di una risposta.
- Beh, più o meno. - mugugnò Alan.
Si mise comodo sul materasso, sistemandosi il cuscino dietro la testa: improvvisamente contare le crepe sul soffitto non gli sembrò più così noioso.
- In ogni caso, le terre a cui ti riferisci tu sono le contee di Cork e Fermanagh a Sud, mentre a Nord ci sono Chart, Torner e infine la contea sovrana del Kyonin. A parte in quest'ultima, dove trovi solo ed esclusivamente Elfi dell'Alba, nelle altre vivono pacificamente anche umani, nani e i loro cugini del Crepuscolo. In generale non sono poi tanto diverse da tutte le altre contee. Sono forse quelle più industrializzate e tecnologicamente avanzate, ma nelle aree in cui risiedono soltanto gli elfi sopravvivono anche grosse macchie verdi. -
- Come Brugge? -
- Esatto, come Brugge. -
- E Kyonin? -
- Uhm... non proprio. -
Angelika si grattò la testa con espressione interrogativa.
- Ti posso dire poco, dato che non ci sono mai stato. -
- Perché? -
- Non ho mai ricevuto un incarico in quelle terre e comunque gli elfi non permettono a nessuno di entrare nelle loro preziose foreste. Ad esempio, la regina Malgalad siede sul trono di giada da innumerevoli ere e non ha mai aperto il suo regno alle altre razze. Comunque, le persone che hanno avuto modo di andarvi mi hanno riferito che è una pacchia. -
- Pacchia? -
- Nel senso che è bellissimo. -
- Sì! Nel verde e nei boschi stare sempre meglio che in città! - confermò solenne.
Alan la trovò solo buffa.
“Se quel bosco pullula di mostri feroci e pronti a succhiarti persino il midollo, non credo sia poi tanto meglio.”
La ragazza si stiracchiò e si alzò sbadigliando. La vestaglia si tese, disegnando il profilo del piccolo seno sotto la stoffa.
- Angelika non può dormire qui? - domandò imbronciata, - Sente sola in camera... -
- No. -
- Ma no proprio o solo no...? -
- No proprio. E ora vattene, sono esausto. -
Angelika non si mosse. Tenne gli occhi bassi e, quando li rialzò, Alan si accorse che erano lucidi. Un brivido freddo, non dovuto al clima nella stanza, lo raggelò.
- Non piangere, ti prego. -
- N-no... io non... - la voce venne rotta da un singhiozzo, - Questa ultima notte... poi tu parte. Io vuole stare con te. -
Alan imprecò esasperato, già arreso.
"Non ce la posso fare."
Si sdraiò supino e si spostò sul bordo, in un implicito invito a raggiungerlo.
- Non ti avvicinare, però. Mantieni la distanza di sicurezza e non invadere il mio spazio vitale. - ringhiò minaccioso.
Con un sorriso a dir poco radioso, Angelika sgusciò sotto le coperte e se le tirò fin sopra la testa, lasciando in vista solo alcune ciocche bionde.
- Buonanotte! - squittì felice.
Un grugnito irritato mise fine alla conversazione, ma non al buonumore della giovane. Poco dopo, un respiro quieto e regolare cullò il cacciatore, che non tardò a scivolare nel sonno con un mugugno soddisfatto.

 
*

La mattina seguente, quando Alan si svegliò si accorse che Angelika non era più nel letto con lui. Sospirò, decisamente sollevato, e si diresse nella sala al piano di sotto, dove lo attendeva Frejie per fare colazione. La maga, con addosso un semplice abito di satin rosso che lasciava ben poco alla fantasia e un diadema di perle sul capo, lo accolse con un sorriso affettato, invitandolo a mangiare con lei. 
“Ma non hanno pigiami normali in questa casa? Già che ci sono potrebbero anche girare nude.”
Parlarono del più e del meno, forse perché nessuno dei due aveva realmente voglia di intrattenere l'altro con una conversazione degna di questo nome. Non dopo quello che era successo la sera prima, almeno. Alla fine non ci fu più nulla di cui discutere e cadde un silenzio pesante. Di tanto in tanto, con la coda dell'occhio, Alan notava gli sguardi che la maga gli lanciava, ma solo quando ebbe finito la sua zuppa d'avena si decise a parlare.
- Andrò a Waterford e poi a sud, seguendo il fiume Nemil. -
- Potresti impiegarci molto tempo, mentre lei guadagnerà terreno. -
- Lo so. -
- Potresti prendere la ferrovia, è più veloce - gli suggerì, ma lo Slayer scosse la testa.
- Potrei perdermi delle tracce se non procedo con ordine. Inoltre, la prima stazione da Westmoth è troppo lontana. -
- E non puoi far viaggiare Brunilde nel tuo stesso vagone. - lo canzonò la maga, le labbra curvate in un sorriso divertito, - Brutta cosa non essere ricchi, vero? -
- Ci ho fatto il callo. -
Frejie roteò gli occhi esasperata e si passò una mano sul viso con fare teatrale: - Se non ci fossi io, andresti in giro con il culo rattoppato. Ti ho lasciato un sacchetto con centocinquanta raie sul tavolino all'ingresso. All'interno troverai anche un quarzo di localizzazione, così che io possa sempre sapere deve sei e contattarti in ogni momento. -
- Cos'è, mi controlli? -
- Voglio solo aiutarti a ritrovare Eluaise. Nonostante tutto, eravamo amiche. - disse asciutta, poi si alzò e gli fece segno di seguirla.
"Sì, certo, come no?"
Frejie gli rivolse un'occhiata tagliente: - So cosa stai pensando e ti consiglio di smetterla se non vuoi una delle tue frecce ben piantata in un posto di vitale importanza per restare in sella. -
Il cacciatore sbadigliò con noncuranza, sistemandosi la balestra sulla schiena e ignorando deliberatamente la minaccia.
- Sai per caso dove posso trovare un buon fabbro? La spada mi si è smussata e le rune si sono rovinate. -
- Non ti fidi di me? - riprese Frejie, continuando il discorso interrotto, - Sai benissimo quanto ci tenessi a lei. -
- Non l'ho mai messo in dubbio. -
- Non sei bravo a mentire, Alan. -
- Eh, non si può avere tutto dalla vita. Però ho altre qualità. -
- Mi stai prendendo in giro. -
- No. - fece spallucce e storse la bocca in una smorfia, - Sono consapevole di essere un uomo mediocre, Frejie, i miei pregi si possono contare sulla punta delle dita, ma con te ho sempre cercato di essere sincero. -
La spostò delicatamente e afferrò la maniglia della porta.
- Hai sempre detto la verità? -
- Fin quando ho potuto. -
- E quando hai smesso? -
Un leggero tremore attraversò le spalle del cacciatore: - A volte le bugie sono necessarie. - 
In passato, durante i mesi trascorsi assieme avevano fatto l'amore come pazzi, con un'avidità e una frenesia che non sembrava mai saziarli, eppure, nonostante quel desiderio furioso li avesse avvinghiati per intere notti, entrambi erano consci che non sarebbe durato per sempre. Si erano detti tante cose in quei momenti, molte ovvietà e tante belle bugie, che con l'andar del tempo erano diventate sempre più reali, tanto da confondersi con la verità.
- Ma non si può mentire in eterno. - soggiunse Alan.
- Purtroppo no. - concordò.
Quando lo Slayer aprì finalmente la porta, si girò a guardare la maga e le rivolse un sorriso amaro, così diverso da quelli che sapeva fare un volta. Frejie distolse lo sguardo, triste, poiché quei sorrisi non le erano mai appartenuti.
- Prenditi cura di Angelika. - si raccomandò per l'ennesima volta il cacciatore.
- Lo farò. -
Alan uscì dalla sala da pranzo, percorse il corridoio principale e si fermò davanti al cassettone vicino all'ingresso per prendere il sacchetto con le raie. Quindi scese i quattro scalini che lo separavano dal vialetto, in fondo al quale lo attendeva il maggiordomo con l'enorme verruca sulla guancia, a fianco di Brunilde. Infilò lo stivale nella staffa e si aggrappò all'arcione, ma prima che potesse darsi la spinta l'urlo disperato di Angelika si levò dalla villa. Il cavallo nitrì e sbatté gli zoccoli sul selciato, infastidito. Alan sussultò vistosamente, balzò indietro e si precipitò di nuovo dentro, seguendo la voce della ragazza. 
- Angelika! -
Non appena aprì le porte dello studio di Frejie, rimase di stucco e fissò la scena che si stava compiendo davanti a lui a bocca aperta per lo stupore e lo sconcerto. Angelika fluttuava a circa sei piedi d'altezza, la schiena inarcata innaturalmente all'indietro e gli occhi bianchi rivolti al soffitto, circondata da scie di luce verde. Stretta tra le dita c'era una lunga ciocca di capelli rossi.
- Toglile quella roba dalle mani! - sbraitò agitata Frejie, irrompendo in quel momento nella stanza, affannata per la corsa.
- Cosa sta succedendo? - indagò il cacciatore, avvicinandosi cauto ad Angelika.
- Non lo so, ma sembra in trance. Presto, strappale quella ciocca dalle dita. -
- Non avevi detto che le sue facoltà magiche erano ancora sopite? -
- Zitto e muoviti! - ribatté brusca. 
Ciò che fece scattare Alan non fu la risposta della maga, ma il gemito sommesso di Angelika, simile al guaito di un cane in agonia. Senza attendere oltre, bruciò lo spazio tra lui e la ragazza e l'afferrò per una spalla, ma non riuscì a tirarla a terra, perché un secondo più tardi qualcosa lo risucchiò nell'oscurità.

- Alan... Alan, fa male. - 
Eluaise si strinse il ginocchio sbucciato, le lacrime che già le rigavano il viso.
- Quando un mostro ti attaccherà, ti farà anche più di un semplice graffio. Non piangere per così poco! - 
- Ma ci stiamo solo allenando! -
- Perché un allenamento dia i suoi frutti, deve essere simile alla realtà. -
La bambina aprì la bocca, per poi richiuderla senza dire una parola. Tirò su col naso e si sistemò gli occhiali da aviatore sulla testa. Erano un regalo di suo padre e non se le toglieva mai, nemmeno quando Alan minacciava di romperglieli. Erano di semplice fattura, con i cerchi in ottone e le lenti rosse, ma molto utili dal momento che schermavano gli occhi dai raggi solari e li riparavano pure dal freddo. Eluaise recuperò la spada di legno e lo scrutò con un'espressione combattiva sul viso sporco di fango. 
- Fatti sotto! - lo provocò e Alan non si fece attendere.
La incalzò con stoccate rapide e precise, finché Eluaise non si scoprì finendo a gambe all'aria a causa di uno spintone.
- Non vale! -
- E chi lo dice? Tu hai tentato di tagliarmi la testa e io mi sono salvato la pelle buttandoti a terra. -
- Ma i Crociati della Stella Rossa ci hanno detto che bisogna... -
Alan alzò gli occhi al cielo: - Smettila di dar retta a quel branco di esaltati, scommetto che parlano parlano, ma poi quando sono davanti a un mostro farebbero di tutto per portare il culo a casa. -
- Non essere volgare. -
Il ragazzino sbuffò e si sedette vicino a lei. Rimasero alcuni minuti in silenzio ad osservare il giardino di casa. Era la fine dell'estate, ma faceva ancora caldo e le foglie del vecchio acero erano solo leggermente screziate d'arancio. Ad Eartshire, quell'anno, l'inverno era in ritardo.
- Alan? -
- Uhm? -
- Devi proprio tornare alla rocca così presto? -
Glielo chiedeva ogni volta e lui le dava sempre la stessa risposta. Doveva, anche se non voleva.
- Sì, devo riprendere gli allenamenti per diventare Slayer e voglio riuscirci in fretta per guadagnare qualche soldo. -
- Mio padre dice che non sei obbligato... -
“Tuo padre dice tante bugie.”
- A me piace. -
La bambina storse il naso e gli lanciò una lunga occhiata. Forse aveva capito che era inutile insistere o forse quel giorno non aveva voglia di discutere, comunque sia Alan si sentì sollevato per aver evitato l'ennesimo litigio.
- Sei triste? Hai paura che non torni più? - le domandò.
- N-no. -
- Eluaise... -
- Davvero! - 
Si portò le ginocchia al petto, imbronciata. I pantaloni si erano rotti in più punti e il gilè non era in condizioni migliori, ma a lei non importava granché. Da quando sua madre era morta due mesi prima, non sembrava che le importasse più di un sacco di cose.
Alan la fissò a lungo, poi le scompigliò i capelli e le regalò un mezzo sorriso. A quel gesto, Eluaise appoggiò la testa sulla sua spalla. Poi lui le prese la mano e intrecciò le loro dita.
- Tornerò sempre. - 
Eluaise alzò lo sguardo e solo allora Alan notò che aveva gli occhi lucidi. Una morsa dolorosa gli artigliò le viscere all'altezza dello stomaco.
- Dillo. - 
Senza distogliere la sua attenzione dal lento movimento dei rami, rinserrò la presa sulla mano dell'amica e lei fece altrettanto. 
- Te lo prometto. -

Correva tra le macerie, tra i corpi mutilati degli abitanti della piccola cittadina in cui aveva fatto sosta. Non poteva fermarsi, anche se la ferita alla gamba la rallentava. Scavalcò il cadavere sventrato di un bambino e imboccò un vicolo. Si appiattì contro il muro e, dopo essersi guardata attorno, fece un respiro profondo. 
Un grido mostruoso riecheggiò nell'aria e la finestra sopra di lei esplose. Eluaise si rannicchiò e si coprì la testa. Le schegge si infransero sullo scudo entropico, che tremolò, assorbì il colpo di alcuni detriti e si dissolse in un bagliore aranciato. Non aveva energie nemmeno per mantenere una magia così facile. Si rialzò, guardandosi intorno con aria febbrile, poi riprese la corsa. 
Il cielo si oscurò ancora di più e, un attimo dopo, ci fu un'altra esplosione. Un incendio divampò in un edificio, ma Eluaise non si voltò. 
Prima di svoltare l'angolo, una risata minacciosa rimbalzò per le stradine della città e il sibilo strisciante della voce della creatura la raggiunse.
- Non potrai scappare in eterno, Viandante, prima o poi ti prenderemo. -

La luce calda del mattino inondava una vasta pianura innevata. Col cappuccio calcato sulla testa, Eluaise, seduta su un carro, osservava il succedersi dei rami spogli sopra di sé. Si sistemò gli occhiali da aviatore sulla testa e si distese sulle pellicce accatastate sulle travi di legno.
Il proprietario del carro, un contadino tarchiato e dal viso butterato, non sembrava particolarmente felice di avere un ospite a bordo e bofonchiava parole indistinte masticando tabacco.
Eluaise stiracchiò le gambe e si avvolse nel mantello. Prima di cadere in un sonno profondo, l'insegna della contea di Crowne le passò davanti agli occhi.


- Alan!-
La voce della maga lo ridestò con violenza da quelle visioni. 
Con la vista ancora offuscata, Alan artigliò la spalla di Angelika e la tirò contro di sé, per poi strapparle la ciocca di Eluaise dalle mani. Il corpo della ragazza si irrigidì, serrò le palpebre e per un attimo protese le braccia in alto, verso le lingue d'energia verde che danzavano impazzite sul soffitto. Poi esse si dispersero e le mani ricaddero inerti lungo i fianchi.
Senza perdere tempo, Alan l'adagiò a terra. Frejie gli si fece subito vicino, estrasse da chissà dove un amuleto d'argento a forma di rombo e lo premette sulla fronte di Angelika. Il cacciatore vide l'oggetto farsi incandescente e le vene sotto la pelle della giovane ingrossarsi, pulsando come se volessero esplodere da un momento all'altro. Poi anche queste tornarono normali e nella stanza calò il silenzio.
- Cosa... cosa è successo? Perché Angelika era... -
- A mezz'aria e circondata da un quantitativo di energia magica esorbitante? Non lo so. O meglio, posso solo fare un'ipotesi. -
- Sentiamo. -
Spostarono Angelika sulla pelliccia di orso vicino al camino acceso e Frejie si sedette sulla sedia lì accanto, sconvolta quanto Alan.
- Penso che la nostra cara Angelika sia un Oracolo. - esordì dopo qualche secondo.
- Mi prendi in giro? -
- No, sai che su certe cose non scherzo. Hai visto qualcosa quando l'hai sfiorata, vero? -
- Sì. - 
- Dimmi cosa. - lo esortò Frejie, seria e incupita.
- Ricordi, credo, almeno la prima visione che ho avuto. -
- Oh, interessante. Le altre, invece? -
- Non lo so. -
- Non ne vuoi parlare? - 
Alan scosse debolmente la testa.
- Questo conferma solo quello che ho detto prima. Angelika è un Oracolo. Probabilmente i suoi poteri erano latenti e la ciocca li ha scatenati. Come sia finita nelle sue mani non ne ho idea. Probabilmente è dovuto al sangue di driade che le scorre nelle vene. Gli Oracoli, per giunta, sono molto rari. - disse, sforzandosi di mantenere un tono freddo e distaccato, anche se moriva dalla voglia di sapere cosa l'altro avesse visto.
Alan rifletté per alcuni istanti, poi si alzò e si massaggiò brevemente l'attaccatura del naso. Sospirò, fissando Angelika ancora frastornato, ma le era grato per la dritta che inconsapevolmente gli aveva dato.
- Andrò a Crowne. - dichiarò deciso.
- Hai cambiato itinerario? - sbuffò Frejie, intuendo subito il motivo di tale scelta.
- Se riesci a reperire qualche nuova informazione, fammelo sapere. Parto immediatamente. -
- Vuoi che le dica qualcosa quando si sveglia? -
- Ringraziala da parte mia. -
- Senz'altro. -
- Arrivederci, Frejie. -
La donna deglutì a fatica: - Arrivederci, Alan.- 
Ancora una volta i loro sguardi si incrociarono, indugiarono, ma, prima che uno dei due potesse aggiungere altro, lo Slayer scomparve oltre la porta dello studio.

 
*

Il viaggio dalla contea di Corkia a Crowne fu abbastanza veloce. In compagnia solo della sua fedele Brunilde, Alan poté muoversi in fretta e in poco più di una decina di giorni giunse al confine con Rivengard. Già dopo essersi lasciato alle spalle la triste città di Westmoth, il paesaggio aveva cominciato a cambiare, ma giunto nella nuova contea non riuscì ad ignorare la meraviglia che lo circondava. All'orizzonte non si stagliavano più foreste minacciose, soltanto infinite distese verdi attraversate dalle rotaie della Public Express, la compagnia di trasporti più grande di New England. I contadini giravano a cavallo o a piedi per le strade di terra battuta o, per chi se lo poteva permettere, anche su macchine più o meno nuove. Una in particolare attirò la sua attenzione e si chiese come potesse ancora funzionare: le ruote, sproporzionate rispetto alla carrozzeria, cigolavano e il fantasma di quello che una volta avrebbe dovuto essere un potente motore sbucava fuori dal cofano scrostato; solo uno dei fanali riusciva a fare luce, mentre i tubi di scappamento sputavano un denso fumo nero, segno che anche il serbatoio era in vita per miracolo. Insomma, un catorcio di cui però il suo proprietario, a giudicare dall'espressione soddisfatta che aveva stampata in faccia, andava molto fiero.
“Contento lui...”
Con un semplice colpetto dei talloni, spronò Brunilde a proseguire e tornò a godersi il panorama. Nei campi a maggese, lungo una linea che si estendeva a perdita d'occhio, svettavano contro il cielo serale i pali del telegrafo, mentre quelli della luce correvano lungo lo steccato fino alla città di Hargitay. 
Cavalcò fino all'entrata della città e, dopo aver mollato Brunilde allo stalliere della locanda “La signora del lago”, entrò. Ad accoglierlo fu il penetrante effluvio del malto e le risate sguaiate degli avventori. Nell'aria aleggiava il profumo di maiale arrosto, che gli fece venire l'acquolina in bocca. Dopo aver gettato una rapida occhiata in giro, si diresse verso l'unico tavolo libero in fondo alla sala. A metà del tragitto, però, la sua attenzione venne attirata da un assembramento vicino al bancone. Con disinvoltura afferrò un boccale ancora semipieno dalla mano di un uomo che russava su un divanetto e, assaporando il sapore della birra, si avvicinò a una donna che fissava con interesse la scena.
- Che sta succedendo? - la interrogò fingendo indifferenza.
Lei gli rivolse appena un'occhiata: - Il solito. Rachel sta stendendo tutti alla gara di bevute. -
- Ah, capisco. - si passò la lingua sulle labbra, pulendosi dalla schiuma.
- La volta scorsa ha persino steso il buon vecchio Nicholas! - si abbandonò ad una risata grassa, il sudore che le rendeva lucide le guance rubizze.
- Oh! -
"Come se sapessi chi è 'sto Nicholas..."
- E quella precedente ha dato una lezione a Garroth. Sono certa che dopo quella sbronza non toccherà più un bicchiere per molto tempo! -
- Immagino di sì. - 
- Per non parlare di quando ha spaccato il polso a un Cavaliere della Spada Nera! - 
La donna parlava da sola, tutta infervorata, e non sembrava essersi accorta che Alan non la stava nemmeno ascoltando, troppo occupato a domandarsi se in quella città avrebbe trovato lavoro.
- Certo che è proprio una tipa strana. Va in giro vestita a quel modo, con quel pupazzo con la faccia da teschio che le volteggia sempre intorno. Per Shamar, è così carina, ma è davvero inquietante, non trovi? -
Evidentemente, non aveva nemmeno capito che lui era appena arrivato.
- Già, concordo. -
- No, aspetta, non voglio essere maleducata. Direi che è stramba, sì, anzi no, meglio stravagante. Stravagante è più gentile e meno volgare. -
Mentre l'altra cercava di raccapezzarsi su quale aggettivo usare, Alan spostò la sua attenzione sulla folla, cercando di scorgere il viso della tanto decantata Rachel, ma non dovette impegnarsi molto. 
Udì un tonfo e gli uomini al bancone alzarono i pugni in segno di trionfo, per poi scatenarsi in un'ovazione vera e propria. In mezzo ai cappelli a cilindro e agli sbuffi e cigolii di bracci meccanici, due iridi di un azzurro ghiaccio si posarono su di lui e Alan, senza comprenderne la ragione, si sentì come un topo in trappola. 
In seguito, mentre la calca si disperdeva, Rachel gli si avvicinò. Era una ragazza molto carina, come aveva detto la donna, con i capelli biondi raccolti in due codini e un adorabile cerchietto nero decorato con fiori e nastrini rosa. Esattamente poco sopra la sua testa svolazzava un pupazzo a forma di pipistrello, senza zampe, con due pietre rosse al posto degli occhi e una verde in mezzo al petto. Il rumore meccanico che le minuscole alette producevano lo faceva sembrare un giocattolo a molla.
Alan rimase immobile fino a quando Rachel non l'ebbe raggiunto e fu allora che notò l'emblema del grifone attaccato al corpetto nero, poco sotto l'enorme fiocco di un rosa sgargiante che sfoggiava sul seno piatto. Nella  cintura di pelle nera stretta in vita, portava due pistole innaturalmente grandi.
La donna pettegola al suo fianco si portò le mani al viso, ma prima che potesse dire qualcosa Rachel la mise a tacere con un'occhiata talmente gelida da farla fuggire a gambe levate. 
Alan deglutì e per un attimo ebbe l'impressione di trovarsi al cospetto di una versione in miniatura e al femminile di Abraham Justice: c'era una scintilla sinistra nei suoi occhi di ghiaccio che gli ricordò il cacciatore e la sensazione che provava era la stessa, un misto di timore reverenziale e sana paura. Il suo aspetto giovane, quasi fanciullesco, traeva facilmente in inganno, ma non ci mise molto a realizzare che quella Rachel era pericolosa. Fu tentato di arretrare, tuttavia si costrinse a rimanere immobile per non farle credere di essere un cagasotto.
Quando la ragazza tornò a guardarlo, disse con voce atona: - Benvenuto, Alan, ti stavo aspettando. Io sono Rachel Ghestia, una Slayer di rango SS.

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Capitolo 11
*** Act. 2 - New Task ***


Slayers
Act. 2 - New Task



La locanda non accennava a svuotarsi, anzi sembrava che più trascorrevano le ore, più si riempisse. L'oste, un uomo dai capelli brizzolati e i lineamenti delicati tipici dei mezzosangue elfi, dava ordini a gran voce ai camerieri e al cuoco, che riusciva a stento a leggere una comanda che immediatamente ne arrivava un'altra. Gli ospiti della “Signora del lago” però non facevano caso al frenetico via vai, alcuni perché troppo ubriachi anche solo per ricordare dove fossero, altri, soprattutto i gentiluomini dell'alta borghesia, perché concentrati a lamentarsi di politica, del maltempo, della moglie frigida, dell'amante troppo pretenziosa o della nuova auto che, dannazione, non funzionava come volevano loro. Insomma, nessuno faceva caso al piccolo tavolo in fondo alla sala, dove sedevano due Slayers. 
Alan, nonostante il terzo boccale di birra, era più che sicuro di non essere ancora sbronzo, quindi il fatto di avere davanti una ragazzina di appena quattordici anni che si proclamava una cacciatrice di rango SS, vestita come una mocciosa di buona famiglia, non poteva essere un'allucinazione.
- Quindi riepiloghiamo. - esordì, - Ti chiami Rachel e sei stata mandata qui per dare la caccia a un Primigineo. -
- E' esattamente quello che la signorina ha detto. - rispose Sebastian, il pipistrello meccanico.
Alan alzò il sopracciglio e con la coda dell'occhio osservò Rachel. A parte quando si era presentata, non aveva più aperto bocca, lasciando la parola a quell'aggeggio rumoroso. 
- E' un Gemren? - chiese facendo un gesto in direzione di Sebastian, senza davvero aspettarsi una risposta. 
Rachel continuò a rimanere in silenzio, sfoggiando un'aria annoiata.
- Sì, anche se preferisco essere chiamato col nome che mi ha dato la signorina. - confermò il pipistrello al suo posto, per poi scrollarsi le alette.
- Oh, immagino. -
- Comunque, non siamo venuti qui per discutere su di me. La signorina non credeva che le avrebbero affidato un compagno come lei. -
Le labbra si Alan si storsero in un sorriso sgradevole: - Ovvero? -
- La signorina non è solita pronunciarsi prima di aver testato le capacità del partner, ma a giudicare dal suo equipaggiamento lei non sembra un cacciatore suo pari. -
- Non pensavo che le apparenze fossero così importanti. -
- Sono proprio le apparenze che muovono questo mondo, signor Alan. - le pietruzze in fondo agli occhi occhi di Sebastian rifulsero di un bagliore sanguigno, - Ci è permesso conoscere il suo grado? -
- B. -
Rachel batté le palpebre e ad Alan parve di vedere una scintilla sorpresa accendersi in fono a quelle iridi azzurre.
- B? -
- Sì, esatto, B. - confermò.
Alla sua affermazione seguì un lungo silenzio. Il pipistrello girò di scatto la testa verso la sua padrona, come per ascoltare ciò che aveva da dire, ma la ragazza rimase immobile a fissarlo con quel suo sguardo inespressivo. Ancora una volta, lo Slayer si domandò se fosse davvero viva, ma quell'impercettibile movimento del petto che si alzava e si abbassava ad ogni respiro non lasciava adito a dubbi.
- Allora pare che non ci sia alcun errore. - sospirò il pipistrello alla fine.
Il cacciatore scrollò le spalle: - Non ne ho idea. Io non ho ricevuto nessuna missiva dalla Dogma. Puoi provare a mandare una lettera per verificare? -
- Non c'è tempo. La signorina ha atteso per più di una settimana e adesso desidera entrare in azione, anche se ciò significa andare in missione con lei. -
Alan ignorò la frecciatina nemmeno tanto velata e mise su la sua migliore faccia da schiaffi.
- Lo prendo come un complimento. Dunque sarò il suo compagno, che lo voglia o meno. -
- Sì. -
- Dovrei sentirmi onorato? -
- Ovviamente. -
Alan inspirò profondamente e alzò gli occhi al cielo. 
- La cosa la disturba? -
- In che senso? -
- Non le aggrada di essere il compagno della signorina? -
- Di solito lavoro da solo, ma non sono così stupido da pensare di farcela con le mie misere forze contro un Primigineo. -
Sebastian annuì, o almeno così gli parve: - Lei ha buon senso, signor Alan. -
- Gli esseri inferiori come me ne hanno più di quanto si pensi. -
- Nella maggior parte dei casi, quello comunemente noto come buon senso la signorina lo definirebbe codardia. -
Il cacciatore non commentò, limitandosi a buttare giù l'ultimo sorso di birra. L'alcool lo aveva rilassato e messo di buon umore, tanto che non se la prese per l'ennesimo insulto che gli venne rivolto. Sentiva una piacevole sonnolenza pesargli sulle palpebre. Si guardò rapidamente intorno e giunse alla conclusione che la maggior parte degli avventori presenti non erano ospiti della locanda, poiché molti di loro erano vestiti fin troppo bene per essere solo dei mercanti facoltosi. Perciò si augurò di trovare almeno una stanza libera dove dormire.
- Comunque, vi avverto subito che non partiremo domani, prima devo fare delle ricerche. - 
Rachel storse appena le labbra, ma ovviamente a rispondere fu Sebastian.
- Perché mai? La signorina desidera... -
- Se la tua padrona desidera entrare subito in azione, che lo faccia. Io ho altre cose a cui pensare domani. -
- Ad esempio? Quali ricerche? -
- Niente che riguardi voi due. - 
Alan fece per alzarsi, quando notò che Rachel sorrideva. No, non era una sua impressione, stava sorridendo davvero. Ma fu questione di un istante e, quando il suo viso ritornò una maschera d'impassibilità, credette di esserselo immaginato.
- Assomigli molto a Vincent. -
A udire quel nome, lo Slayer si paralizzò: - Come fai a sapere che mi somiglia? -
Lei inclinò appena la testa di lato, ma non aggiunse altro. Con un sospiro stizzito, Alan si rimise a sedere.
Sebastian smise di svolazzare e con un sibilo acuto si posò sul tavolo, toccando con la testa la mano della sua padrona, che non sembrava intenzionata a scucirsi ulteriormente. Se ne stava lì a fissarlo con uno sguardo imperscrutabile e le spalle rilassate appoggiate allo schienale della sedia. 
Di nuovo restarono in silenzio, con solo le grasse risate dei commensali a condire quel lungo attimo di attesa, e il pensiero che si fosse addormentata ad occhi aperti sfiorò più volte la mente del cacciatore. Fu tentato di afferrarla e scuoterla, come quando un macchinario si inceppa e gli si dà una bottarella affinché ricominci a funzionare, ma il suo istinto di sopravvivenza gli suggerì che era una pessima idea. Lanciò una lunga occhiata in direzione delle Bladegun fissate alla sua cintura. Sì, se aveva quelle armi doveva essere una tipa pericolosa, forse anche più di Abraham.
- Ho lavorato con lui anni fa. Con Vincent. - rivelò infine Rachel, con una voce priva di qualunque inflessione.
- Anni? - Alan dovette trattenersi dallo scoppiare a riderle in faccia.
Rachel dimostrava sì e no quindici anni, mentre suo padre era morto quasi mezzo secolo prima. O lo stava pigliando per il culo, oppure...
- Quanti anni hai? -
- Quanti ne dimostro o quanti ne ho davvero. -
Alan ci mise qualche istante per capire che aveva risposto alla sua domanda con un'altra domanda. D'altronde, visto che non aveva cambiato tono, non era immediatamente intuibile.
- La seconda. -
Rachel prese a contare sulle dita: - Duecentocinquantasei anni, sei mesi, venticinque giorni e... -
- Va bene, va bene, ho capito, sei vecchia. - sbuffò incredulo.
- Per gli umani sono un'adolescente. -
- Solo perché loro non colgono i dettagli. - fece un gesto alla cameriera, ordinando un'altra pinta, - Cosa ti hanno impiantato? Carne di ghoul? Civitatea? Chiang-shi? -
- Ti sembra che puzzi di putrefazione? - 
Stavolta Alan non si fece cogliere impreparato: - No, stavo solo cercando di capire. -
- Non hai molta capacità deduttiva. -
Anche senza rifletterci, il cacciatore capì che quella era un'affermazione. Esasperato, afferrò il boccale di birra e ne buttò giù un lungo sorso.
- Allora, visto che da solo non ci arrivo, potresti rispondermi tu. -
- Potrei. - accavallò le gambe e intrecciò le mani davanti al viso, - Anche se ti basterebbe poco. Non sono informazioni segrete. Sono un vampiro, per buona parte. In realtà, dovrei avere la carne di un Primigineo dentro di me, ma non ne sono completamente certa e nemmeno mi interessa. Fino a quando mi permette di avere le armi runiche in lynium, la sua provenienza non mi importa. -
Alan lanciò una rapida occhiata alle armi della ragazza. A parte l'enorme lama che collegava l'impugnatura alla leva otturatore, la seconda cosa che aveva notato erano proprio i simboli magici che decoravano tutta la canna. Non erano una cosa che non avesse mai visto fino a quel momento, al mercato nero girava di tutto, ma non poteva di certo dire che fossero comuni. I tecnomanti, maghi che usavano l'arte arcana per incantare armi e armature, erano assai rari e, a quei pochi che c'erano in circolazione, lui non avrebbe potuto neanche pagare un proiettile fiamma, tanto meno una pistola in lynium. Ora che però sapeva che razza di mostro le avevano impiantato quelli della Dogma, tutto acquisiva un senso. 
Rachel inclinò appena la testa di lato e i codini biondi le frusciarono sulle spalle: - Ho risposto alle tue domande. -
- Già. -
- Non era un'affermazione. -
- Ah, scusa, non si era capito. - 
Tacque per un po', cercando di dare un ordine alle domande che gli affollavano la mente. Si maledì più volte per essere rimasto e per aver dato retta alla sua curiosità, che, oltre ad aver confermato i suoi sospetti sulla pericolosità di Rachel, gli aveva procurato un mal di testa bello forte. Ma forse la birra c'entrava qualcosa. Sospirò e si passò una mano sulla fronte.
- Non mi chiedi nulla di Vincent. -
- Non ora. - si alzò un po' incerto e si sistemò la spada e la balestra sulla schiena, - Vado a prendere una camera. -
L'ombra di un sorriso attraversò il viso della Slayer: - Troppo umano. -
Alan alzò il sopracciglio, ma non ribatté.
- Quanto pensi di metterci. -
- Hargitay non è molto grande. In massimo un giorno e mezzo dovrei aver trovato tutte le informazioni che mi servono. -
- Non abbiamo così tanto tempo. -
- Farò in fretta. -
- Non costringermi a romperti le gambe per trascinarti con me, Alan. - sfiorò la pietra verde sul petto di Sebastian e, subito dopo che si fu alzata, anche il pipistrello prese quota, - Sappi che non amo ripetermi. -
Alan scrollò le spalle, infastidito dal brivido freddo che gli era scivolato lungo la schiena e gli aveva irrigidito i muscoli. Non gli piaceva avere paura, per niente, ma la consapevolezza che quella minaccia sarebbe diventata realtà se non l'avesse accontentata, lo paralizzava.
- Farò quel che posso. -
- Speriamo che sia la scelta giusta. - 
Quindi Rachel indossò un cappotto col cappuccio in pelliccia e si avviò all'uscita della locanda, seguita dallo sbatacchiare metallico delle ali di Sebastian.

 

*
 

- No, signore, gliel'ho già spiegato, non so dov'è andata la ragazza. Anzi, non mi ricordo nemmeno la faccia di questa Elise. - ripeté l'uomo, finendo di caricare il suo carretto con le pellicce.
- Eluaise. - lo corresse Alan.
- Quello che è. -
Lo Slayer sbuffò e alzò gli occhi al cielo per l'ennesima volta dall'inizio della conversazione. 
Il signor Yrstil Cladenskji, altrimenti detto Porcaccio per il naso schiacciato e le guance rubizze, non sembrava intenzionato a collaborare e a lui stava per venire un esaurimento nervoso. Si passò una mano sul volto e ridusse le pupille a fessure verticali per schermarsi dalla luce di quella mattina particolarmente luminosa, ma il fastidio non accennava a diminuire. Era più che convinto che non sarebbe passato finché non avesse smaltito del tutto la sbornia della sera prima.
- Potrebbe fare uno sforzo, per cortesia? - insisté, appoggiandosi al carretto del vecchio.
La mula ragliò rumorosamente, facendogli capire che non gradiva la sua vicinanza, ma Alan la ignorò.
- Buona, Malfia. - la blandì il vecchio, - Cos'altro dovrei dirle? Ho già raccontato tutto quello che so, a lei e a quella banda di tagliagole. - 
Porcaccio afferrò un sacco di mele rosse e lo caricò sul retro. 
Il cacciatore inarcò un sopracciglio, ma decise che avrebbe chiesto dopo a chi fosse riferito quell'ultimo complimento. Prima, ne era più che certo, non aveva menzionato dei terzi con cui aveva parlato.
- Sì, gradirei che me lo ripetesse. Con calma. -
L'uomo borbottò qualcosa, palesemente scocciato, senza nemmeno degnarsi di girarsi verso di lui. Alan ne aveva sinceramente abbastanza dell'atteggiamento e dei brontolii di quello zotico, ma doveva portare pazienza. Trasse un respiro profondo, richiamando a sé tutto l'autocontrollo di cui disponeva, non molto in effetti.
- Allora, stavo partendo per andare a Crowne. A Gunash la tecnologia l'hanno solo i ricchi e noi poveri tutte quelle gingillerie ce le sogniamo. Così ho preso la mia Malfia e il mio fidato carretto con tutta l'intenzione di venire qui e far fortuna, ma prima che partissi è comparsa lei. All'inizio pensavo fosse una malintenzionata e quando mi ha chiesto se le davo un passaggio fino a qui ho rifiutato. Poi però mi ha detto che era disposta a pagarmi e mi ha gettato in mano un sacchetto con cinquanta raie. Lì per lì ho creduto che mi stesse prendendo in giro, ma poi quando ho morso una moneta e mi sono reso conto che era oro puro, ho accettato di portarla con me. Non le ho ancora spese, ma... - disse palpando il sacchetto che gli pesava dal cinturone con un sorriso ammiccante.
- E durante il viaggio non avete proprio parlato? -
- Non spesso. Non era molto estroversa. -
“Oppure si sarà stufata dei tuoi grugniti.”
- Una volta arrivati qui? -
- Nulla di particolare. É scesa dal carro ed è scomparsa in uno dei vicoli intorno alla piazza. Sa, un po' mi è dispiaciuto che se ne sia andata così in fretta. Mi ricordava moltissimo mia figlia Dorenne, che si è maritata quest'anno e... -
- Insomma, se ne è andata. - lo interruppe brusco.
Porcaccio sbuffò, si schiarì la gola e sputò per terra un grumo di saliva e tabacco, sistemandosi la sciarpa anche attorno alle orecchie. 
- Sì, esatto. - grugnì.
Prese l'ultima cassa e, dopo averla sistemata all'interno del vano, chiuse per bene la pesante tenda di feltro.
- Ha parlato anche di una banda di tagliagole. A chi si riferiva? -
Il vecchio corrugò le sopracciglia in un'espressione dubbiosa e, da sotto la pelle scura come la pelle conciata, emerse una profonda rete di rughe.
- I vostri colleghi, ovviamente. -
Il cacciatore ci mise un attimo a capire a chi si riferisse: - Sono venuti altri Slayer a parlare con lei? -
- Purtroppo. - scosse la testa e accarezzò il muso della mula, - Avere a che fare con voi è sempre un piacere immenso. - aggiunse in tono chiaramente ironico.
“Immagina quanto siamo contenti noi di avere a che fare con gente come te.”
- E cosa volevano? -
- Sempre chiedermi di questa Elise. -
- Eluaise. -
- Quel che è. Beh, insomma, volevano sapere più o meno quello che mi ha chiesto lei: dov'è, se avevo visto dove si è diretta e se mi aveva confidato quale sarebbe stata la sua prossima destinazione, ma non li ho potuti aiutare. Certo, quando mi hanno offerto trecento raie per quelle informazioni ho avuto la tentazione di rifilargli una balla, ma quelli erano proprio dei brutti ceffi, peggio degli usurai e dei banchieri. -
- E me li saprebbe descrivere? -
- Erano in cinque, quattro donne e uno che invece era un tipo con una faccia piena di squame e gli occhi da rettile. - si strofinò le mani e incassò la testa nelle spalle, ma ad Alan non sfuggì il rivolo di sudore che gli solcò la fronte, - Mi ha detto che in realtà sapevo dov'era andata la "Viandante", più volte l'ha chiamata così. Ci ho messo un po' a capire che si stava riferendo a Elise. Comunque ho negato, perché davvero non ne ho idea. Alla fine mi hanno lasciato in pace. -
“Viandante... ancora quel nome. Che significa?” 
Alan scrollò le spalle e si massaggiò le tempie doloranti. 
- Grazie per la sua collaborazione, sapevo che mi sarebbe stato molto utile. - disse al mercante.
Porcaccio salì sul carretto e si pulì il naso con la manica del cappotto: - Sperando di non rivederla più, addio. - 
Frustò la mula e questa, con un passo tutt'altro che celere, si avviò verso la piazza del mercato. 
Alan attese che il carretto svanisse nella nebbiolina, poi si strinse bene il cappotto e, con le mani affondate nelle tasche, prese a camminare in una direzione assolutamente casuale. Non aveva davvero freddo, ma voleva evitare di attirare l'attenzione, tanto più in quel momento che aveva la testa che gli scoppiava. Inoltre, sentiva il bisogno di schiarirsi le idee e godersi l'aria gelida portata da Anniklo, il vento del freddo nord. Gli sarebbe piaciuto farsi un goccino di acquavite, ma qualcosa gli suggeriva che non gli avrebbe giovato.
Erano le nove del mattino e a quell'ora i mercanti, tutti avvolti in pesanti abiti invernali, si accingevano a montare le loro più o meno sgangherate bancarelle e a mettere in mostra tutta la loro merce. A quella vista, Alan non poté non domandarsi se quella di cominciare a lavorare tardi fosse un'abitudine acquisita e accettata da tutte le contee del sud. Un pescivendolo stava sistemando le casse piene di ghiaccio stracolme di sardine, salmoni e tonni argentati vicino a quello che il cacciatore dedusse essere un fornaio, visto il delizioso profumino di pane appena sfornato che invase la piazza non appena aprì i sacchi sul bancone di quercia. Subito di fronte, due donne avevano allestito una bancarella di abiti e tessuti e, assieme a una bambina di forse dieci anni, erano impegnate a montare un manichino di legno scadente. Immediatamente alla loro sinistra, tre giovani con delle tute da lavoro macchiate d'olio di motore discutevano sul prezzo della riparazione di un Gemren dall'inquietante forma di gatto con una vecchia aristocratica. 
Man mano che si avvicinava, le stradine della città cominciavano a popolarsi e in pochi minuti nella piazza ci fu il solito via vai di clienti, mentre gli operai correvano in fretta verso gli altiforni e le fabbriche alla periferia della città per non arrivare in ritardo. Nell'aria, già prima gremita del profumo di vino speziato e frittura di pesce, risuonò una cacofonia di grida, tra le quali Alan riconobbe quelle che pubblicizzavano la merce, quelle che contrattavano sul prezzo e quelle dei truffatori e dei ciarlatani. 
Erano tutti così assorti nelle loro attività commerciali che nessuno fece caso a lui. Quando giunse al banco del pane, si concesse un lungo momento in cui ponderò più e più volte se accettare l'offerta della fornaia, una nana grassottella con una lunga treccia che le scendeva sul prosperoso petto, che gli proponeva di comprare tre dolcetti diversi all'imperdibile prezzo di un raie e cinquanta pounds.
- Il signore mi sembra magrolino, dovrebbe mangiare di più. Guardi, solo perché è lei le offro anche un muffin. Che poi non si dica che la vecchia Mariette non è buona, eh! - infilò il dolce in un sacchetto di carta senza dar tempo ad Alan di rifiutare, - Che poi, signore, se lo faccia dire, il parrucchiere che le ha fatto la tinta è davvero un incapace! Ci sono ancora una marea di ciocche rosse. Le stanno molto bene, però, insomma, se ha pagato per un servizio, questo deve essere fatto bene. Vede, lì in fondo c'è mister Pumpuin che... -
- Prendo una brioche alle fragole, una ai mirtilli e... penso prenderò una fetta di Red Velvet. - snocciolò sicuro, interrompendo i commenti indesiderati della nana circa la propria capigliatura.
- Uh, ottima scelta, figliolo. - mise il tutto nel sacchetto e glielo porse, - Comunque, davvero, faccia un giro da mister Pumpuin, non se ne pentirà. -
- Lo farò. - rispose per farla contenta, poi la pagò e si allontanò, andando a sedersi sugli scalini di una casa con la porta giallo canarino.
Il mal di testa si era placato e adesso, a parte la spossatezza per aver dormito meno di tre ore, si sentiva decisamente meglio. Mangiò con gusto il muffin ai lamponi e la Red Velvet, trovandoli squisiti. Mentre si preparava ad addentare anche la brioche, rifletté su quello che gli aveva detto Porcaccio. 
Sembrava che anche la Dogma stesse cercando Eluaise, ma non riusciva a comprenderne il motivo. Gli Slayers avrebbero dovuto dare la caccia all'Antico, non di certo a lei che, da quello che sapeva, non aveva alcun legame con l'organizzazione, avendo scelto la magia come Frejie. E poi rimaneva un'altra questione: i cacciatori l'avevano chiamata "Viandante", come la voce disumana della visione, eppure avrebbero dovuto già conoscere il suo vero nome.
“Per i piani alti nulla è impossibile. E se quelli vogliono Eluaise, faranno di tutto per catturarla, anche se questo volesse dire battere il New England miglio per miglio.”
Hargitay era una città di passaggio, dove ogni giorno andavano a venivano migliaia di visitatori, quante possibilità c'erano che qualcuno avesse fatto caso a una ragazza con un paio di occhiali da aviatore e i capelli rossi? Inoltre, oltre all'Antico, ora Eluaise aveva anche la Dogma alle calcagna. Le uniche cose su cui Alan poteva contare, a questo punto, erano le vaghe informazioni ricevute da Frejie prima di partire e le visioni di Angelika. 
Depose il sacchetto alla sua sinistra e con un gesto nervoso si sistemò una ciocca rossa dietro l'orecchio, lo sguardo fisso su una bancarella che vendeva decotti ed erbe medicinali. 
Un rumore metallico lo distrasse e nel suo campo visivo entrarono Sebastian e Rachel. La ragazza, nonostante il freddo di quella mattina, indossava una leggera giacca rossa a coda di rondine, aperta tra l'allacciatura alla gola e la cintura di nero traslucido sotto il seno piatto, per tentare di metterlo in evidenza. Il sole faceva risaltare l'oro dei lacci e delle rifiniture degli stivali di pelle trattata, accarezzando il nastro di velluto con una spilla di peridoti a forma di rosa, che le ornava i capelli stretti in una coda laterale. Le uniche due cose poco appariscenti in tutto l'abbigliamento erano il corpetto marrone scuro, in tinta con i pantaloni aderenti di fine cotone. Sarebbe potuta essere una ragazzina dell'alta aristocrazia, se non fosse stato per le evidenti fondine delle Bladegun legate alla vita.
Si lasciò cadere seduta vicino a lui e, senza chiedere nulla, gli rubò l'altra metà delle brioche. Alan la fissò per alcuni momenti, osservando con odio crescente il suo masticare tranquillo e svogliato.
- La signorina pensa che è davvero buona. - 
La voce metallica e ronzante di Sebastian gli procurò un moto di stizza, ma riuscì a nasconderlo dietro un sorriso di circostanza.
- Lo so. - accartocciò il sacchetto e poi lo lanciò nel cassonetto di fianco alla casa, - Anche se io ho preferito il muffin. -
- La prossima volta la signorina lo proverà. - il pipistrello, avvolto dai fumi delle cannule di rame, si posò sulla spalla di Rachel e continuò, - Allora, ha trovato ciò che cercava o stava oziando? -
- Sì e no. -
- Sì e no? -
- Esatto. - 
Non era dell'umore giusto per discutere, tanto meno con una ragazzina che non si degnava nemmeno di parlargli direttamente. La vide addentare l'ultimo pezzo di brioche e pulirsi le mani su un fazzoletto di lino bianchissimo. Lei lo guardò appena, per poi tornare a scrutare impassibile una zuffa tra piccioni in mezzo alla piazza.
- Non le importa granché in ogni caso. - soggiunse Sebastian, - L'importante è se ora lei è pronto a partire per la missione. -
- Sì, devo solo passare dal fabbro per affilare la spada e rinnovare le rune sulla lama. - prese la scarsella di Frejie e vi ripose il resto di quella mattina, - Poi vorrei conoscere i dettagli di questa missione. -
- Ti spiegherò tutto strada facendo. Muoviamoci, hai un colloquio con una persona importante. - rispose finalmente Rachel, facendogli cenno di seguirla.
Alan l'accompagnò alla stazione e salirono direttamente su un treno senza comprare i biglietti. 
"Uno dei pochissimi vantaggi di lavorare per la Dogma. Se aggiungessero alla lista anche i pasti gratis, sarebbe perfetto, ma sono dei taccagni."
Il viaggio fu breve e li condusse appena fuori città. Scesero dopo quattro fermate e camminarono per un po' su sentieri sterrati in mezzo a un'infinita distesa di prati. Quando giunsero alla residenza del loro misterioso mandante, il giovane non poté non rimanere impressionato. Già da lontano si era trovato a trattenere il fiato per la meraviglia. Rachel gli aveva rivelato che si trattava di un uomo appartenente all'alta aristocrazia, ma non pensava che esistessero persone con così tanti soldi da buttare.
Villa Malachite, la loro destinazione, si specchiava sul fiume Nemil e lo stile opulento e ricco della facciata verde pastello sottolineava già da subito lo status sociale del suo proprietario. Colonne di granito e malachite, disposte in file di due e decorate con pesanti capitelli, sostenevano architravi riccamente istoriati e sembravano incorniciare le finestre ogivali del primo piano e quelle a tutto sesto del secondo. I pilastri, che si alternavano tra una finestra e l'altra, erano interrotti da portici colonnati, mentre il portone del palazzo, realizzato con legno di quercia con intarsi in oro e bronzo, si apriva su un grande cortile interno. Ben protetta nell'angolo ad ovest era stata costruita una piccola serra, piena di fiori esotici dai colori sgargianti che Alan non credeva nemmeno esistessero. In mezzo agli archi a sesto acuto del porticato, circondato da una cornice in marmo bianco, era stato inciso il blasone della casata nobiliare, un leone rampante in campo verde.
A quella vista, il cacciatore fischiò: - Non mi avevi detto che il mandante era niente di meno che il duca di Sherborne. -
- Lo conosce? -
Ovviamente a parlare era stato Sebastian, Rachel non si era nemmeno degnata di voltarsi.
- Un po' difficile non conoscerlo, non è un tipo che tiene un basso profilo. -
- Come tutti i nobili. -
- Ma lui meno degli altri. -
In effetti, non si poteva dire che la modestia fosse una qualità del duca. Egli era un Elfo del Crepuscolo di più di quattrocento anni, che aveva saputo sfruttare al meglio le proprie ricchezze. Quando la tecnologia aveva preso il suo posto nel mondo, aveva venduto molte delle sue tenute e investito nella costruzione della Public Express. Dopodiché, quando ce n'era stata l'occasione, l'aveva comprata. Ora non solo possedeva la più grande azienda di trasporti del New England, ma grazie a tutta una serie di mosse attente e studiate era pure padrone di gran parte dei titoli azionari in borsa. Col denaro ricavato era riuscito a ricomprare le ville che aveva venduto e a garantire alle sue quattro figlie dei matrimoni vantaggiosi. Insomma, un uomo pragmatico.
Vennero accolti da un maggiordomo vestito di tutto punto, col volto ben rasato e i capelli impomatati, che disse loro che il duca li attendeva nello studio al primo piano.
Salirono la scalinata di marmo bianco con stucchi dorati e specchi, guardandosi intorno. Anzi, era Alan a muovere la testa a scatti da una parte e dall'altra, ammirando l'arredamento sontuoso, mentre Rachel fissava dritto davanti a sé senza tradire alcuna emozione, come al solito. Sebastian si era adagiato sulla sua spalla ossuta.
Attraversarono sale, corridoi, camere grandi quasi quanto l'atrio senza mai fermarsi, finché Alan non perse completamente il senso dell'orientamento. Rachel, al contrario, sembrava perfettamente a suo agio in tutto quello sfarzo e non faticava a star dietro alla loro guida. Qualcosa suggerì al cacciatore che la ragazza fosse già stata lì, ma evitò di fare domande. In fin dei conti, non gli interessava.
Dopo circa un quarto d'ora, giunsero davanti a una porta bianca con le maniglie laccate in oro zecchino. Il maggiordomo bussò delicatamente. La sala in cui misero piede non era meno sfarzosa delle altre, ma aveva una sobria eleganza che Alan apprezzò. Alle pareti, di un tenue verde pastello, c'erano quattro librerie alte fino al soffitto, stracolme di volumi disposti con un ordine quasi maniacale. I pesanti tendaggi blu facevano trapelare solo qualche timido raggio di sole, che illuminava il tappeto e la scrivania in mogano. Sul muro dietro di essa troneggiavano con una fierezza quasi feroce le teste impagliate di un leone e di un cervo, ai lati del blasone della casata Sherborne. Sulla destra, vicino al grosso telescopio di bronzo, seduto su uno scranno di legno, con le estremità dei braccioli scolpite come teste di lupo, c'era il duca.
- Benvenuti nella mia umile dimora. Oh, non vi disturbate a inchinarvi, i convenevoli lasciamoli a quando ci incontreremo fuori da questo studio. - li salutò cordiale il padrone di casa.
Era decisamente più affascinante di come lo mostravano le foto sui giornali, con gli occhi verdi come smeraldi e i capelli bianchi che gli accarezzavano il collo. Il cappotto grigio perla, chiuso sul doppiopetto del panciotto, metteva in risalto le spalle larghe e il fisico slanciato tipico della sua razza. Mentre camminava, Alan notò che i suoi piedi non producevano alcun rumore.
- Volete qualcosa? Del brandy, un bicchiere di vino? -
- Siamo a posto, vostra grazia. - rispose educatamente Rachel.
- Per favore, vi ho detto di abbandonare i formalismi, sapete che non li amo. - si versò un bicchiere di vino rosso e lo sorseggiò con aria da intenditore, - Costui sarebbe il vostro compagno? -
La ragazza annuì e il duca spostò la sua attenzione su Alan. Lo osservò a lungo, soffermandosi soprattutto sul suo viso, sulle ciocche rosse che spuntavano dalla chioma argentata e sugli occhi verdi. Nonostante il fastidio che quell'attento esame gli procurava, il cacciatore rimase fermo.
- Siete un tipo interessante, Slayer. In un certo senso assomigliate a lady Rachel, anche se mi sfugge il punto di contatto... -
Guardò i due ospiti, ma nessuno sembrava intenzionato a rispondere. Dopo un lungo silenzio, fu di nuovo lui a prendere la parola.
- Dicevamo, signor...? -
- Alan, solo Alan. -
- Alan, vi sono stati spiegati i dettagli della missione? -
- Sì, Rachel mi ha detto che avete dei sospetti sul barone Harwald, ma ha insistito perché le motivazioni le sentissi da voi. -
- Il mio nome è K'yorl. - buttò lì il duca e si appoggiò alla scrivania, contemplando l'ondeggiare del vino nella coppa che faceva oscillare.
"Lo so, grazie."
- Comunque, è sempre un bene che le informazioni utili vengano fornite dal mandante, lady Rachel è davvero una donna assennata. Sì, ho degli enormi sospetti su quell'uomo e, direi, anche a ragione. -
- Me li esponga, sono tutto orecchie. -
- Tanto per cominciare, da che lo conosco non l'ho mai visto uscire di casa di giorno, né lui né la moglie, quando ancora era in vita. Girano voci che il barone sia affetto da una malattia misteriosa che lo rende allergico al sole, ma nessuno ha mai visto un dottore entrare nella sua villa. Inoltre, quando decide di organizzare feste o banchetti, le persone che invita spesso e volentieri fanno una brutta fine. I dettagli non sono molti, purtroppo, ma pare che alcuni ospiti siano morti in circostanze misteriose. I più sono stati ritrovati nella loro dimora senza più nemmeno una goccia di sangue in corpo. -
- Questo sempre dopo le feste. -
- Esattamente. Inoltre, anche la mia sposa è stata aggredita di recente. -
- Mi dispiace. Adesso sta bene? -
- Sì, anche se quell'essere è riuscito comunque a fuggire. - sibilò a denti stretti.
- Lo avete visto in volto? -
- No, ero troppo spaventato dall'idea di perdere mia moglie, ma è accaduto la sera stessa in cui siamo andati alla festa del barone. Sapete, all'inizio non credevamo a queste dicerie, pensavamo si trattasse di sciocche superstizioni e falsi miti, ma quanto ci sbagliavamo... - scosse il capo e sospirò, - Non ho prove sulla sua colpevolezza, ma se le avessi non avrei contattato voi professionisti. -
- Quindi... dobbiamo indagare su questo barone e cercare di capire se e cosa nasconde. -
- Corretto. Sarete lautamente ricompensati, ve lo assicuro. Lady Rachel ve ne ha parlato? - prima ancora che Alan rispondesse, il duca abbozzò un sorrisetto che la sapeva lunga, - Tremila raie. -
Stavolta il cacciatore non riuscì a non trattenere lo stupore: erano le monete che lui guadagnava con tre incarichi e, anche tenendo conto che ne avrebbe conservate solo metà, considerando la percentuale che avrebbe dovuto mandare alla Dogma, erano veramente molte.
Il sorriso sul viso di K'yorl si allargò: - Ovviamente, verrete rimborsati delle spese del vitto e dell'alloggio a missione compiuta. -
Alan gettò una rapida occhiata a Rachel, ma la ragazza sedeva tranquilla su una sedia addossata alla parete, senza prestare il minimo interesse alla conversazione. O, almeno, così sembrava.
- Allora, siamo d'accordo, Alan? - allungò la mano verso di lui, - Posso contare sul vostro aiuto? -
Il cacciatore fece un lieve inchino e un passo indietro: - Sì, ci metteremo all'opera al più presto. -
Il duca inarcò un sopracciglio, rimanendo giusto un secondo col braccio teso. Poi schioccò la lingua e gli rivolse un sorriso a trentadue denti, simile in tutto e per tutto al ghigno di un lupo famelico.
- Mi aspetto grandi cose da voi. Fatemi avere vostre notizie appena possibile. - 
Quindi diede loro le spalle e, dopo uno schiocco di dita, le porte della stanza si aprirono. Il maggiordomo li attendeva fuori per riaccompagnarli all'uscita. 
Ripercorsero la stessa strada dell'andata, entrambi immersi nei propri pensieri, e solo quando oltrepassarono l'enorme portone di legno di quercia si concessero di parlare. Il cielo sopra di loro era di un azzurro terso e le nuvole si sfilacciavano all'orizzonte come vecchi stracci lisi.
- Rachel? -
- Sì, Alan. -
Stavolta, con grande sorpresa del cacciatore, a rispondere era stata proprio lei. Come al solito, la sua voce senza inflessione aveva trasformato la sua domanda in un'affermazione.
- A me quel tipo puzza. - confessò senza giri di parole.
Lei non commentò, ma, prima che si allontanasse, sulle sue labbra Alan vide balenare l'ombra di un sorriso divertito.

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Capitolo 12
*** Act. 2 - Details ***


Slayers
Act. 2 - Details




An gairdín na nymph milis.
“Il giardino della dolce ninfa", questo recitava l'insegna che ondeggiava sopra la piccola locanda di Hargitay che Alan e Rachel avevano scovato. Era un luogo accogliente, elegante e luminoso, dalle tende indaco impregnate di un fresco profumo di lavanda e i tavolini di cedro disposti vicino ai muri. Le cameriere, tutte Elfe del Giorno, quindi bellissime e aggraziate, portavano le bevande e i pasticcini agli avventori. Mentre camminavano, si aveva quasi l'impressione che i loro piedi sfiorassero appena il pavimento. 
Alan era venuto a sapere che, prima che Hargitay diventasse una grande città, "Il giardino della dolce ninfa" era una bettola gestita da un vecchio cieco da un occhio e dalla sua consorte, una nana arcigna. In seguito, alla voce che nelle contee del Nord si facevano soldi facili, i due avevano venduto il loro locale a un'elfa di nome Gweniew, che l'aveva ristrutturato, rendendo onore al nome. All'inizio non era stato facile. "La Dama" e "Il Cavalier Ronzinante" erano rivali da non sottovalutare, gestiti da due uomini che non avevano la benché minima intenzione di farsi rubare i clienti dal nuovo salotto. Tuttavia, non avevano fatto i conti con l'acume di Gweniew, che, sebbene dimostrasse appena trent'anni, in realtà aveva più di due secoli di vita ed esperienza alle spalle. Prima di tutto, aveva sfruttato la posizione del locale: lontano dalle strade affollate della cittadina, rappresentava un'alternativa per quei mercanti che, stanchi della ciociara notturna degli ubriachi, cercavano un luogo tranquillo dove rilassarsi completamente con un buon tè del Kyonin e il profumo delle terre elfiche. Inoltre, grazie alle sue sei figlie, tutte estremamente avvenenti, la propaganda e, in seguito, la fidelizzazione della clientela, Gweniew aveva ottenuto il successo senza alcun intoppo. D'altronde, nessun uomo riusciva a rimanere indifferente di fronte alla grazia di quelle cameriere così esotiche e belle. 
Eppure Alan in quel momento non riusciva ad ammirare cotanta bellezza come avrebbe dovuto, perché troppo intento a studiare accigliato il menù. Infatti, "Il giardino della dolce ninfa" non era rinomato solo per la gentilezza delle sue proprietarie e la squisitezza dei dolci, ma anche per i prezzi non esattamente alla portata di tutti. Lui, ovviamente, rientrava in quella fascia di clienti che al massimo si sarebbero potuti permettere un tè e una fettina di torta al limone. Fece un rapido calcolo di quanto gli fosse rimasto e, dopo aver riletto nuovamente quanto gli sarebbe costato un muffin ai mirtilli, chiuse il menù. Rachel sbatté appena le palpebre, ma non si premurò di fare domande, troppo occupata a fissare il pianoforte alle spalle di Alan e ad accarezzare il gatto che le si era posato in grembo.
- Non prende niente, signor Alan? - lo interrogò Sebastian.
- No, non ho fame. -
Il pipistrello inclinò la testa così tanto che il cacciatore pensò che da lì a poco si sarebbe ribaltato. Non se ne sarebbe stupito, era già un miracolo se riusciva a volare. Il tecnomante che aveva progettato quel Gemren doveva essere ubriaco.
- Ne è sicuro? La signorina potrebbe offrirle un dolcetto. -
- Non accetto che una bambina mi offra qualcosa. -
- La signorina le ricorda che ha più anni di tutti i suoi parenti messi assieme, signor Alan. -
- Ovvero uno, Vincent, morto alla venerabile età di trentacinque anni. - sorrise serafico.
Le due gemme rosse in fondo agli occhi del pipistrello rifulsero di un bagliore sanguigno e Sebastian ammutolì. 
Fanie, la figlia più giovane di Gweniew, arrivò al tavolo e posò di fronte a Rachel un piattino con una fetta di torta alla crema chantilly, una tazza di porcellana vuota e una teiera d'argento fumante.
- Lei non prende niente, signore? - domandò, rivolgendo un sorriso cordiale al cacciatore.
Aveva una dentatura perfetta, con i canini leggermente più corti di quelli di un uomo.
- No, grazie... -
- Lui vorrebbe dei biscotti alle mandorle con ciliegia candita e un dajeerling tea. - si intromise Rachel senza tante cerimonie.
L'elfa non parve farci caso, prese il blocchetto dalla tasca della divisa e scribacchiò l'ordine. 
- Spero che Rufio non vi stia dando problemi. E' un micio molto coccolone, quando trova qualcuno che gli dedica un po' di attenzione non se ne va più. -
- No, anzi è di compagnia. - replicò Rachel, affondando le dita nel folto pelo grigio del felino.
- Anche fin troppo a volte, però nessuno dei clienti si è mai lamentato. - ridacchiò divertita, per poi fissare la penna sul colletto della camicia e svanire nella cucina. 
Quando se ne fu andata, Rachel sistemò la forchetta d’argento vicino alla torta e, dopo essersi versata una tazza di tè, accavallò le gambe. Alan corrugò le sopracciglia e non poté non chiedersi per quale ragione non avesse ancora assaggiato quantomeno la crema, ma non diede voce ai suoi dubbi. Quella ragazza era stramba, ormai non si sarebbe dovuto più stranire di nulla.
- Alla signorina non sembra carino mangiare senza di lei. - precisò Sebastian, rispondendo alla domanda come se gli avesse letto nel pensiero.
“Io non mi sarei fatto nessun problema.”
- Allora Rachel è davvero una Slayer molto educata. - commentò, senza premurarsi di smorzare il sarcasmo nel suo tono di voce, - In ogni caso, dovremmo discutere della missione. - 
- La signorina non gradisce parlare di lavoro mentre si rilassa. -
Il cacciatore alzò gli occhi al cielo, ma, prima che riuscisse a ribattere, Fanie tornò con il suo ordine. Adagiò il piattino davanti al giovane e gli scoccò un lungo sorriso. Alan la ringraziò sbrigativo, ignaro dell'espressione delusa che si dipinse sul volto dell'elfa subito dopo, e addentò uno dei biscotti. Chiuse gli occhi, gustandosi il sapore delle mandorle e della ciliegia sulla lingua, mentre sentiva il nervosismo evaporare ad ogni morso. In effetti, erano davvero buoni.
- Le piacciono? - chiese Sebastian.
- Io amo qualunque dolce. -
- Anche la signorina. -
- Non l’avrei mai detto. - borbottò.
Sorseggiò il suo dajeerling, ricordando con un certo fastidio quando quella mattina Rachel gli aveva rubato l’altra metà della brioche. Ancora gli rodeva, non l'aveva digerito.
Rimasero per un po’ in silenzio, ascoltando il leggero chiacchiericcio degli altri avventori e i miagolii dei gatti che giocavano in un angolo del locale. Finora Alan ne aveva contati tre, ma non escludeva che ce ne fossero degli altri nascosti in cucina o al secondo piano, nella camera di Sylvanes, la veterinaria, nonché primogenita di Gweniew. Nessuno aveva idea di chi o dove fosse il marito di quest'ultima e Gweniew aveva sempre saputo come eludere le domande inopportune, sebbene tuttavia non si curasse di smentire le numerose ipotesi al riguardo: c'era chi diceva fosse morto e altri affermavano che l'elfa fosse divorziata. Solo voci, ma Alan era pressoché sicuro che Gweniew se ne servisse per aumentare il mistero sulla sua persona e attirare clienti.
- Comunque, la signorina è più che certa che ci sia qualcosa sotto, come anche lei ha fatto notare. -
- Non che ci volesse molto a capirlo, persino un bambino ci sarebbe arrivato. In ogni caso, cosa sappiamo dell’altro, il barone Harward? -
- In realtà, non molto. - le pietruzze rosse in fondo agli occhi di Sebastian si accesero, - Il barone Harward è un elfo poco più giovane del duca e ha una tenuta fuori città, a sud-ovest rispetto a Villa Malachite. Ci viveva con la moglie e le sue quattro figlie, ma dodici anni fa, quando queste si sono maritate e la sua consorte è morta, si è risposato con la marchesa Idrial Halling, adesso Idrial Harward. La sua dimora, Villa Ametista, rivaleggia con quella del conte in quanto a eleganza e… -
- Non sono qui per fare il turista. - lo sedò, scocciato.
- La signorina mi ha ordinato di fornirle tutte le informazioni. - 
- Non me ne frega nulla di come ha buttato i suoi soldi, dimmi qualcosa di importante. -
Il pipistrello sbatté le ali e, mentre si alzava in volo, l’esoscheletro di rame stridette e le cannule nelle ali sbuffarono nuvolette di vapore.
Un sorriso sarcastico arcuò le labbra di Alan: - Cos’è, si è offeso? -
- No, ma non è carino che lo tratti così. - 
La voce monocorde di Rachel non fece che allargare il suo ghigno divertito. Si allungò verso il piattino e prese l’ultimo biscotto rimasto.
- Odio perdere tempo. -
- Ti hanno mai detto che sei davvero insopportabile. -
- Spesso. - biascicò maleducato, - Ma non siamo qui per parlare di me. Andiamo avanti. -
La ragazza gli lanciò una lunga occhiata e, sotto quello sguardo di ghiaccio, Alan rabbrividì, ma non lo diede a vedere. L'intento omicida che vi scorse gli suggerì di non tirare troppo la corda.
- Il barone conduceva una sfrenata vita mondana con la sua precedente moglie e ora lo fa con la marchesa, anche se nessuno qui lo ho mai visto uscire dalla sua tenuta prima del tramonto. - continuò Rachel.
- Delle figlie e della nuova moglie cosa sappiamo? -
- Praticamente tutto, ma ti basti sapere che solo la sua prima moglie rimaneva in casa fino al tramonto. Lady Idrial, al contrario, sembra una normalissima nobildonna umana, come testimoniano i suoi numerosi amanti. -
- Alla faccia della fedeltà coniugale. - fischiò Alan.
Rachel non diede segno di aver sentito il suo commento e proseguì: - La sua vecchia sposa, comunque, si ha la sicurezza che non fosse un vampiro. Prima di venire qui ho fatto una ricerca sulla famiglia della defunta baronessa e ho scoperto che non fu la prima aver avere problemi di salute. Sua madre e sua nonna prima di lei erano albine e presentavano tutti i sintomi dello Xeroderma pigmentoso. -
- Ah, sì, ne ho sentito parlare: era la stessa malattia che aveva Dracula, se non ricordo male. -
- Sì, esatto, come anche tutti i bambini che vengono additati come vampiri. -
- Il barone non potrebbe averla trasformata? -
- Non direi. Stando al referto del medico legale, la donna è morta a causa di un tumore alla cornea. -
Alan sorseggiò l’ultimo goccio di tè con espressione meditabonda: - E considerando che i vampiri puri non si ammalano e non muoiono per cause naturali, direi proprio che lei era una semplice umana. Quindi, l’unico su cui possiamo indagare è il barone. -
- Sì. A tal proposito, ho chiesto a una mia conoscenza di controllare alcuni vecchi registri sulla vita del barone e ho scoperto che nella sua città natale ci sono state alcune sparizioni catalogate come “misteriose”. -
- Cioè? -
- Tutti coloro di cui si erano perse le tracce in quei giorni sono poi stati ritrovati dissanguati e con un morso sul collo, all’altezza della giugulare. -
Rufio, che nel frattempo si era svegliato, scese dalle ginocchia della cacciatrice e andò a strusciarsi contro la gamba di Alan. Lo Slayer gli elargì uno sguardo minaccioso, poi si abbassò e lo prese in braccio, cominciando ad accarezzargli la testa con un sorriso gongolante stampato sulle labbra. 
- Non abbiamo nessuna sicurezza che sia stato lui. - 
- Già, però c’è una buona percentuale che sia il barone il colpevole, visto che, da quando se ne è andato, non ci sono stati altri episodi di questo tipo. -
- Invece del duca cosa sappiamo? -
- Poco, tiene ben nascosti i suoi scheletri nell’armadio. -
- Furbo, il bastardo. -
- È un personaggio pubblico, deve coprire ciò che potrebbe metterlo in cattiva luce, ma non è riuscito a seppellire proprio tutto. - rivelò e gli fece cenno di allungarsi verso di lei.
Alan, a malincuore, dovette mettere a terra un Rufio recalcitrante ed estremamente infastidito per essere stato disturbato. Il felino gli lanciò un’occhiata accusatoria e, muovendo la coda a scatti, si allontanò stizzito verso un altro tavolo. Il cacciatore sospirò rassegnato e si sporse verso la compagna, che non gli aveva staccato gli occhi di dosso.
- Ti piacciono i gatti. -
- Quanto sei acuta. -
- Era una domanda. -
Per l’ennesima volta, Alan alzò gli occhi al cielo: - Non si era capito. Vai avanti. -
- Non ho scoperto molto, però ho notato che anche il duca non ha proprio l’anima linda. Negli archivi della Dogma ci sono alcuni casi di predazione avvenuti circa una decina di anni fa. Anche in questo caso, il modus operandi del mostro è lo stesso che ci si potrebbe aspettare da un vampiro: attacca di notte, morde la vittima, le succhia il sangue lasciandola in fin di vita e poi sparisce. -
- Quindi non uccide. Strano. -
- Sono stati davvero pochi i casi in cui sono stati trovati dei cadaveri. Maxwell, lo Slayer che indagava all’epoca, considerò quelle morti come degli incidenti causati da un attacco di follia, rabbia o dalla prolungata astinenza dal sangue. Considerando che, su trentatré vittime, solo quattro hanno perso la vita, mi vien da pensare che ci abbia visto giusto. -
A sentir pronunciare il nome di Maxwell, Alan si irrigidì, mentre il ricordo degli anni trascorsi con il vecchio cacciatore riemergevano dalla memoria. Rivide le immagini di quel giorno davanti agli occhi, quando per proteggerlo Maxwell aveva lasciato che la sua parte bestiale prendesse il sopravvento, trasformandosi in un licantropo. A nulla erano servite le Rune del comando o chiamarlo per farlo tornare in sé: Maxwell era sparito e al suo posto era apparso un mostro senza più nulla di umano. Era la sua prima caccia per Alan, la prova finale per diventare uno Slayer. A missione compiuta aveva portato ai suoi maestri la testa di un basilisco, mozzata non dalla sua spada, ma dalle zanne di Maxwell, prendendosi il merito di qualcosa che non aveva fatto.
Inspirò profondamente e si passò una mano sul viso. Non sentiva niente, nessuna emozione: l’Essenza dell’Anima almeno in questo aveva effetto. Tuttavia, le poche volte che ripensava a quell’episodio avvertiva come un retrogusto amaro che lo pungolava nell’orgoglio, sbeffeggiandolo per la sua miserabile fuga. 
Accavallò le gambe, intrecciò le dita dietro la nuca e si stese contro lo schienale della sedia, incurante dello sguardo che Rachel gli aveva piantato addosso. 
- Conoscevi Maxwell. -
Come al solito il tono era privo di inflessione, ma Alan non era sicuro se considerare quella frase una domanda o un’affermazione. Ci rifletté un istante e alla fine si risolse a rispondere con un lieve cenno d’assenso. 
Rachel lo scrutò in silenzio e il cacciatore ebbe la netta sensazione che volesse saperne di più. Gettò una rapida occhiata attorno a sé per prendere tempo, ma l'altra non pareva intenzionata a far cadere la conversazione. Giocherellava col fermaglio con la rosa di peridoti con aria distratta, ma qualcosa gli suggeriva che fosse un modo per mascherare la curiosità. Più che una temuta Slayer, in quel momento sembrava una bambina annoiata.
- Ti fai sempre i cavoli del tuo partner? - sbuffò.
- Sei un tipo interessante. -
- Te l’hanno mai detto che tu, invece, sei una mocciosetta saccente? -
Rachel fece spallucce: - Sì, soprattutto quando ho ragione. - 
Alan schioccò la lingua e incassò. Anche se gli bruciava ammetterlo, lavorare in squadra senza conoscere niente l’uno dell’altro poteva rivelarsi tutto fuorché produttivo.
- Allora, racconta. -
- Non c’è molto da dire, in realtà. - si mise composto e raccolse una briciola dal suo piattino, - Mia madre mi ha scaricato in una chiesa subito dopo il parto. Quando avevo sei mesi, Maxwell venne a prendermi e mi portò alla Dogma, come gli era stato ordinato. Fecero vari test su di me e alla fine, quando capirono che non ero niente di speciale, mi affibbiarono a lui. Però, siccome non aveva né tempo né voglia di occuparsi di un poppante, mi lasciò dalla famiglia Strauss, suoi conoscenti, che, anche se avevano già una figlia da sfamare, mi accolsero comunque sotto il loro tetto. Maxwell, sempre su ordine della Dogma, durante gli anni venne a farmi visita ogni tanto e qualche volta è anche capitato che mi prendesse da parte per insegnarmi a tirare di spada. Quando poi diventai abbastanza grande, gli chiesi di portarmi alla rocca di Mohor per cominciare l'addestramento ed ora eccomi qui. - sollevò le mani e mimò un saluto, con tanto di sorriso.
Rachel incrociò le braccia al petto e appoggiò la testa contro quella abnorme di Sebastian, appollaiato sulla sua spalla: - Hai scelto tu di diventare Slayer. -
- Sì. -
- Perché. -
- Quando avevo otto anni, Maxwell mi raccontò chi era mio padre. Non entrò nei particolari, ma ai miei occhi quell'uomo che aveva passato la sua vita a combattere i mostri era un eroe. Ero un ragazzino ed ero disposto a tutto pur di difendere la cosa per me più importante. Diventare uno Slayer, all'epoca, mi sembrava l'unico modo. -
- E adesso cosa pensi. -
Un sorriso amaro si dipinse sul viso del cacciatore. Appoggiò il mento sul pugno chiuso e osservò la via silenziosa fuori dalla finestra, lasciando Rachel in attesa di una risposta che non sarebbe mai arrivata. 
Dopo diversi minuti, lei gli fece cenno di alzarsi.
- Abbiamo parlato abbastanza per oggi. -
- Quindi non sarà l'ultima volta che mi farai l'interrogatorio? - buttò lì Alan, ma la ragazza evidentemente non colse l'ironia, perché si girò verso di lui e annuì decisa.
Scoraggiato e arreso all'inevitabile, il giovane scosse la testa e si avviò all'uscita, mentre Rachel pagava per entrambi: era stata lei a trascinarlo in quel locale per ricchi ed era sempre stata lei a ordinare al suo posto, quindi era più che giusto che fosse lei ad alleggerirsi il portafogli.
Una volta fuori, frugò nelle tasche nella speranza di trovare una sigaretta, ma l'ultimo pacchetto lo aveva fumato più di quattro anni prima, a letto, nudo, con Eluaise che dormiva al suo fianco. In quella giornata di fine inverno, con la luce opaca del sole morente che filtrava attraverso le tende tirate e il profumo di sesso che aleggiava nella sua stanza di Eartshire, aveva finito il pacchetto subito dopo aver promesso a Eluaise che sarebbe stato l'ultimo. 
Alzò lo sguardo e incrociò lo sguardo di un gheppio senza un occhio appollaiato sul cornicione di una casa. 
In quella giornata di fine inverno, con il caldo che scioglieva la neve nei campi e il sapore di mughetto e uva spina sulle labbra, aveva fumato la sua ultima sigaretta guardando fuori dalla finestra la schiena di Eluiase che scompariva tra la folla.
Si morse il labbro inferiore e grugnì, incrociando le braccia sul petto per cercare di tenere a bada il nervosismo e i ricordi, pentito di quella promessa.

*

Villa Ametista era la copia di Villa Malachite, con la sola differenza che tutte le decorazioni erano state fatte con la pietra da cui prendeva il nome. In effetti, considerando che avevano anche la stessa struttura, Alan non si sarebbe sorpreso se fossero state opera del medesimo architetto.
- Allora, qual è il piano? -
Rachel aggrottò leggermente le sopracciglia: - In che senso. -
- Mi stai dicendo che siamo venuti qui per fare solo qualche domanda? Sul serio? -
L'espressione di Rachel costituì una risposta di per sé, senza bisogno che si esprimesse a voce.
Sospirò e bussò. Il rumore del battiporta in ottone riecheggiò all'interno per un lungo minuto, prima che una cameriera venisse ad aprire. Con la spilla del grifone in bella mostra sul soprabito un po' logoro, Alan le rivolse un sorriso cordiale, cercando di non far caso al terrore dipinto sul suo viso.
- Buongiorno, siamo qui per parlare col barone Harward. -
- I-il padrone non è in casa. -
- Beh, ci sarà qualcun altro con cui parlare. - insisté, ridusse le pupille a due fessure verticali e ghignò minaccioso.
Il colorito della donna divenne cereo.
- Forse... forse la padrona potrà ricevervi. - farfugliò, arretrando lentamente.
- Non vogliamo causare problemi, ma stiamo indagando sull'increscioso attacco avvenuto a casa del duca. - si intromise Rachel.
Vedendo quella ragazzina dai capelli biondi e il viso di porcellana, la cameriera parve calmarsi un po', anche se non riusciva a smettere di tremare. Fece saettare lo sguardo da lei ad Alan e alla fine si decise a far loro strada. 
Anche questa volta percorsero svariati corridoi e stanze, che conservavano la stessa opulenza che avevano visto a Villa Malachite, con la sola differenza che erano tutte immerse nella penombra. Infatti, sebbene fosse mezzogiorno passato, la luce filtrava debolmente dalle pesanti tende di broccato e spesso i tre si ritrovarono a camminare al buio. Dal canto suo, Alan non aveva alcun problema ad orientarsi e, da quello che poté constatare, neppure Rachel: d'altronde, le era stata impiantata la carne di vampiro, perciò sarebbe parso strano il contrario.
La cameriera si fermò davanti a una porta e bussò due volte. Dall'interno, una voce di donna rispose con un “sì?”, che la convinse ad aprire e a far entrare i due ospiti.
Il centro della grande stanza, del tutto priva di finestre, era occupato da un elegante tavolino di quercia, con sopra un candeliere in ottone. Il ceppo nel caminetto emanava un'intensa luce rossastra e, assieme alle candele disseminate qua e là sui mobili, costituiva l'unica fonte d'illuminazione. La parete ad ovest era ricoperta di scudi, picche, partigiane, guisarmi, spade e sciabole scintillanti, tutte finemente lavorate. La maggior parte, Alan ne era più che sicuro, erano state forgiate dai migliori fabbri di New England, i pochi rimasti dopo l'industrializzazione. Sul muro di fronte a sé vide appesi molti trofei di caccia, per lo più cervi e orsi dagli occhi neri e tondi come biglie, mentre quella di destra era tappezzata di quadri antichi, ognuno con un soggetto diverso, senza nessuna soluzione di continuità tra quello precedente e quello successivo. Di certo una stanza che palesava il gusto eccentrico ed eclettico dell'arredatore, come se avesse voluto concentrare in quei pochi metri quadrati tutto ciò che gli piaceva. Alan aveva una mezza idea che fosse opera della marchesa, ma si astenne dall'esporre ad alta voce la sua ipotesi, dal momento che si trovava in territorio nemico e non voleva rischiare la pelle per una frase buttata lì a caso. 
Su uno dei quattro divanetti bianchi, disposti in linea con i quattro punti cardinali, sedeva una donna dai capelli corvini legati in una lunga treccia e il naso aquilino, che le conferiva un'aria autorevole e allo stesso tempo la faceva somigliare alla strega delle fiabe. Non appena entrarono in quella stanza bizzarra, la marchesa alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo e fece loro segno di avvicinarsi.
- Non aspettavo visite, tanto meno da degli Slayers. - esordì, spostando lo sguardo da Rachel ad Alan. 
Aveva gli occhi grigi, belli come il cielo invernale quando sta per nevicare.
- Chiediamo scusa per il disturbo, lady Harward, ma avremmo urgente bisogno di parlare con vostro marito. - 
La voce incolore della cacciatrice assunse un che di spettrale nella semioscurità, ma la padrona di casa non sembrò impressionata e prese un dolcetto dal piattino adagiato su un cuscino accanto a lei.
- Mio marito al momento non c'è, tornerà tra un paio di giorni. Se non ci saranno inconvenienti, tra tre notti sarà qui. - 
- Ci è stato riferito, ma non possiamo attendere tutto questo tempo. -
A quella risposta, la marchesa arricciò le labbra in una smorfia contrariata: - Posso sapere di cosa dovreste parlare con mio marito? -
- Questioni private. -
- Ah, capisco, certo, ma gradirei che mi riferiste l'oggetto della discussione. Io e il barone siamo sposati, tra di noi non ci sono segreti. -
“Immagino che quindi lui sappia di tutti i tuoi amanti, sebbene fatichi a comprendere cosa ci trovino in te, eccetto per gli occhi.” 
A giudicare dalla cura con cui si era truccata, la marchesa stava aspettando ben altre visite.
- Allora? - li incoraggiò.
- Sarebbe una questione molto delicata, ma anche parlare con voi potrebbe esserci utile. - convenne Alan, sorridendo cordiale. 
Senza attendere il permesso, si accomodò su un divanetto, sopra il quale capeggiava la testa di una lince, subito imitato da Rachel. Lady Harward li squadrò con sussiego, senza però commentare la loro mancanza di educazione. Sorseggiò con calma il suo tè, prendendosi tutto il tempo per osservare i suoi ospiti. Solo quando li ebbe studiati abbastanza si prese la briga di offrir loro gli unici due pasticcini rimasti. 
- Siamo stati chiamati per indagare su quello che è successo alla duchessa di Sherborne. Sarete sicuramente al corrente dei fatti. - cominciò Alan, ingoiando il pasticcino in un solo boccone.
La marchesa scosse la testa e sorrise sprezzante.
- Pensavo che la questione fosse risolta, ma evidentemente quei due non si danno ancora pace. -
- Cosa intendete? -
- E' da quando sono venuti qui che hanno da ridire su come si comporta mio marito. - si alzò e la veste frusciò mentre si avvicinava al camino, - Da che mi sono sposata, non hanno fatto altro che infangare il suo onore. Andrzej è un brav'uomo e tutte le cattiverie che sono state dette su di lui non sono altro che crudeli illazioni. -
- Si riferisce alle voci che dicono che sia un vampiro? -
- Esatto. - afferrò l'attizzatoio e girò il ceppo verso la parte meno bruciata, - Se lo fosse, io di certo non starei con lui. -
- Pare che non esca mai di casa... sbaglio? -
- Mio marito soffre di una rara malattia, signor Slayer. Non so esattamente come si chiami, ma ho potuto constatarne gli effetti con i miei occhi. Gli basta stare esposto per poche ore al sole e la sua pelle si riempie di bolle. Una volta è quasi morto. Ma non è vero che non esce mai, è una menzogna bella e buona! -
- Ed è per questo che indite feste solo di notte. - Rachel si intromise nel discorso con la sua solita voce piatta e monocorde. 
La marchesa aggrottò le sopracciglia e ci mise qualche secondo a capire che era una domanda.
- Proprio così. Sapete, noi amiamo la vita mondana e non vogliamo rinunciarvi, anche perché è l'unica distrazione che abbiamo. Serve a lui per non ripiegarsi troppo su se stesso e sulla malattia e serve a me per non impazzire. Inoltre, Andrzej è un uomo d'affari, è raro che rimanga per più di una settimana, è sempre in viaggio per lavoro. Quando è presente, adora indire feste e ricevimenti. Gli episodi spiacevoli che si sono verificati sono stati delle tragedie, ma vi assicuro che mio marito non è coinvolto in tutto questo. Se fosse quello che si dice, sarei stata la prima a chiamarvi. -
I due cacciatori si scambiarono uno sguardo d'intesa, ma nessuno dei due commentò quell'ultima frase.
- Vi dispiace se vado in bagno? - chiese Alan, ricevendo un'occhiata a dir poco gelida da parte della padrona di casa, che però gli accordò comunque il permesso di andare.
Uscito da quella stanza, cominciò a girare senza meta e, ogniqualvolta incontrava un servo o una cameriera, si limitava ad ignorarli sfoggiando un'espressione annoiata, che non si discostava poi granché dal suo attuale stato d'animo. La casa era tutta uguale, con salotti eleganti, sale lussuose e corridoi con pareti ricoperte di quadri, alcuni anche di dubbio gusto, come il ritratto di un grassone dalla faccia gonfia e il naso adunco come quello della marchesa. Che fosse suo padre?
Alla fine giunse davvero in uno dei bagni degli ospiti: era enorme, con una vasca in ottone sulla parete a nord e uno specchio circolare con una cornice dorata su quella opposta, sotto il quale era stato riposto il tavolino da toeletta della padrona di casa, compresa la testa di un manichino con una parrucca bionda abbandonata sopra. Di fianco c'era un mobiletto socchiuso. Con un certo interesse, Alan si avvicinò a quest'ultimo e lo aprì. All'interno, come sospettava, assieme a decine di ciprie, cold-cream e mascara, erano stati stipati unguenti che nulla avevano a che vedere con il trattamento di bellezza di una signora, a meno che la marchesa non avesse un concetto di cura del corpo sconosciuto agli esseri umani. 
Sogghignò mentre annusava il contenuto di un vasetto che sapeva di menta e biancospino. Da quel poco che gli avevano insegnato alla rocca, sapeva che quelle due erbe avevano un principio che combatteva l'insufficienza cardiaca e l'ipertensione arteriosa, eppure gli sembrava mancasse un ingrediente per renderlo l'unguento che pensava che fosse. Poi agguantò una fialetta piena di un denso olio azzurrognolo e chiuse gli occhi, concentrandosi sui costituenti del profumo.
“Borragine, ortica, meliloto... achillea.”
Lo rimise a posto e aprì altri quattro flaconcini, e per ognuno ebbe la netta sensazione che mancasse quell'ingrediente necessario affinché potessero venire usati come trattamenti per vari disturbi di salute. Tuttavia ignorava quale fosse il fantomatico elemento mancante, non era certo un dottore. L'unica cosa di cui era sicuro era il loro impiego e, secondo lui, non era lady Idrial ad avere problemi di fragilità capillare.
Senza attendere un minuto di più, tornò nel salotto, dove trovò Rachel e la padrona di casa a fissarsi in cagnesco. O meglio, la marchesa la stava fulminando con lo sguardo, mentre la cacciatrice non le prestava la benché minima attenzione. La tensione che si respirava nell'aria si poteva tagliare con un coltello.
- Scusatemi se ci ho messo molto, ma avete una dimora piuttosto grande e mi sono perso. -
- Spero che abbiate finito con le domande. - disse la nobildonna, palesemente seccata.
- Sì, stavamo giusto per andarcene. Grazie per il vostro tempo. - le diede corda Alan, desiderando togliersi dalla linea di tiro il più in fretta possibile.
- Di nulla. Se aveste di nuovo problemi, fra tre giorni potrete parlare tranquillamente con mio marito. -
- Speriamo non ce ne sia bisogno. -
- Lo spero anch'io. - sibilò, gli occhi accesi da una luce sinistra. 
Prima che Alan potesse ribattere, la porta si aprì e il viso della cameriera fece capolino. 
- Alina vi condurrà all'uscita. - annunciò la marchesa e tornò a sedersi sul divano, senza distogliere lo sguardo tagliente dalle figure dei suoi ospiti finché la porta non si fu richiusa alle loro spalle.
Appena misero piede all'esterno e furono lontani da occhi e orecchie indiscrete, Alan rilasciò tutto il nervosismo accumulato e si stiracchiò. 
Erano ormai le cinque del pomeriggio passate e il sole dipingeva il cielo di sfumature sanguigne, più marcate sulla linea dell'orizzonte. Alla stazione, sulle uniche due banchine c'erano solo un paio di operai, una madre con tre bambini emaciati raccolti intorno a lei e una ragazza col viso e le mani anneriti dalla fuliggine, tutti in attesa del treno che li avrebbe ricondotti alle loro case. Quando Alan e Rachel passarono loro davanti, quelli non li degnarono di uno sguardo. Persino i tre bambini sembravano spenti, vuoti, esausti nel corpo e nell'anima. A quella vista, Alan scosse mestamente il capo e li superò dando loro le spalle. 
- Allora? Ti ha detto qualcosa? - indagò rivolto a Rachel.
- Nulla di più rispetto a quello che già sappiamo. Tu hai trovato qualcosa. -
- Niente. Sembra una casa come tante altre. -
- Sappiamo entrambi che non è così. -
- Sì, ma non abbiamo prove. -
La cacciatrice annuì e calciò un sasso. La pietra colpì il muro sull'altra banchina, rimbalzò sui binari e ricadde nuovamente a terra.
- Non hai trovato nulla di strano. -
Alan non distolse lo sguardo dal cielo e, dopo un istante di silenzio, rispose: - Diciamo che non c'era nulla fuori dall'ordinario. Però... -
Rachel inclinò la testa e attese che continuasse, ma il cacciatore preferì rimanere in silenzio a fissare il lucore delle prime stelle. La luce dei lampioni e delle case inquinavano il viola crepuscolare del cielo e persino gli astri più luminosi sembravano dei puntini lontanissimi, minuscoli diamanti cuciti su un sobrio ed elegante abito di seta nera. 
- Devo prima parlare con una persona. Stasera la contatterò e domani mattina ti dirò cosa c'era di tanto anomalo in quella tenuta. -
Il treno fischiò in prossimità della stazione e le rotaie stridettero al passaggio dei vagoni. Quando si fermò, la cacciatrice prese Sebastian in braccio e salì, senza degnarsi di commentare l'ultima frase di Alan. Il treno ripartì due minuti più tardi con un assordante sferragliare e la banchina rimase deserta, immersa nell'oscurità e nel silenzio della notte. 

* 

Quando Alan tornò alla locanda dove alloggiava era già tarda notte e, a parte il respiro grosso degli ubriachi svenuti sui tavoli, non udiva alcun altro suono. Salì in camera seguito da Rachel e dalle occhiate indagatrici dell'oste, che nonostante l'ora era rimasto in piedi a sciacquare gli ultimi bicchieri. 
- Sicuro che possa salire. -
- Sì, non penso quel vecchiaccio voglia discutere. - 
- E se ti chiedessero chi sono. -
Alan ci pensò: - Dirò che sei mia sorella. -
Sebastian e Rachel inclinarono la testa in contemporanea.
- Non ci somigliamo per niente. - gli fecero notare.
Il cacciatore fece spallucce, inserì la chiave nella serratura e aprì la porta. La stanza era piccola e spoglia, quasi claustrofobica, con il letto ancora sfatto addossato alla finestra e un mobiletto di quercia con una lampada a goccia appoggiata sopra. 
Senza esitare, Alan accese la luce e tirò le tende, facendo piombare la camera nella semioscurità. Poi dalla sacca delle monete estrasse il quarzo di localizzazione che Frejie gli aveva dato, un prisma rosa pastello dalle facce perfettamente squadrate. Se lo rigirò un attimo tra le mani e sperò con tutto se stesso che la comunicazione non fosse unidirezionale: la maga gli aveva detto che grazie a quella pietruzza avrebbe potuto contattarlo, ma non aveva menzionato la possibilità che fosse il cacciatore a cercarla. D'altronde, in tutti quegli anni non era mai successo che fosse lui ad avere bisogno di lei.
- Sai usarla. - domandò Rachel, osservando il quarzo con un'espressione quasi curiosa.
- A essere sincero, no. Ho studiato il meccanismo alla base, ma non l'ho mai dovuto attivare io. -
- Quindi siamo venuti qui per nulla. -
Alan sospirò esasperato e fece appello a tutta la sua pazienza.
- Non ho detto questo. - 
Si sedette sul letto e portò il quarzo all'altezza degli occhi, cominciando a cercare l'incisione che forse gli avrebbe permesso di contattare Frejie. C'era su tutti i cristalli di localizzazione, doveva solo sperare che la donna fosse disponibile in quel momento. Quando finalmente sentì le rune sotto i polpastrelli, si morse l'indice, per poi lasciar cadere una goccia di sangue proprio su di esse. All'inizio non accadde nulla, ma quando il rivolo scarlatto coprì ogni simbolo una forte luce bianca avvolse il cristallo. Lentamente la pietra si levò in aria, si allargò e si aprì a ventaglio seguendo delle scanalature invisibili, fino a diventare uno specchio liquido e dagli opachi riflessi rosati. Alan l'osservò a lungo e per alcuni istanti temette che nessuno avrebbe risposto dall'altra parte. Infine la nebbia si dissipò e all'interno dello specchio si delineò una sagoma e un viso familiari.
- Oh, Alan, quanto tempo. - lo salutò Frejie, - A cosa devo l'onore di una tua chiamata? Volevi sapere come stavo? -
- No, so che stai sempre bene. -
- Non sempre, soprattutto quando il parrucchiere mi taglia i capelli più del dovuto. Figurati che insisto pure nel sottolineare che desidero solo una spuntatina, ma quello non capisce! - borbottò indispettita, toccandosi l'acconciatura impeccabile per vedere se qualche ciocca era sfuggita al fermaglio, - Comunque, vedo che non sei da solo. - notò con un certo disappunto.
- E' solo una mia collega. - si affrettò a spiegare, - Ci siamo trovati qui perché sono il suo compagno di caccia. -
- Ah. - 
Frejie scoccò a Rachel un'occhiata gelida e poi tornò su di lui. Sembrò volesse aggiungere altro, ma lasciò perdere, limitandosi a incrociare la braccia al petto e attendere delucidazioni. Indossava un abito blu scuro, impreziosito da piccole stelle di madreperla e stretta sotto il seno da una fusciacca turchese. Stranamente, a parte un ciondolo con una stella d'ossidiana, non portava altri gioielli.
- Beh, non hai risposto alla mia domanda. Perché mi hai chiamata? -
- Volevo una consulenza. - 
- A che proposito? -
- Alcuni unguenti. Borragine, ortica, meliloto e achillea servono a combattere problemi di natura circolatoria, giusto? -
- Sì, di solito sì, anche se questi ingredienti non sono sufficienti. - confermò confusa.
- E cosa manca? -
- Spesso si utilizzano degli estratti d'aglio per amalgamare il tutto. -
- Aglio. - Rachel finalmente parve mostrare un minimo di interesse per la conversazione.
Frejie la incenerì con uno sguardo di fuoco, terribilmente contrariata per essere stata interrotta. 
- Sì, ho detto proprio aglio. - sibilò. 
Prima che potesse cominciare a inveire, Alan si intromise.
- Se sicura che sia proprio l'aglio? -
- Per chi mi hai preso? Per una novellina?! - sbottò inviperita, - Se dico che manca l'aglio, manca l'aglio! -
- Va bene, va bene. - il cacciatore alzò le mani in segno di resa, - Scusami, non volevo dubitare delle tue capacità. -
La maga annuì senza nascondere la sua espressione infastidita.
- Anche la menta e il biancospino... insieme non sono capaci di lenire i problemi cardiovascolari, immagino. - proseguì.
- Esatto, serve sempre uno spicchio d'aglio. Ma perché tutte queste domande sugli unguenti? Vuoi lasciare la tua attività di Slayer per aprire un'erboristeria? -
- No, ci serviva una conferma per un caso su cui stiamo indagando. -
- Quindi non puoi darmi i dettagli. -
- No. - rispose secca Rachel, guadagnandosi l'ennesima occhiata ostile.
Frejie schioccò la lingua e inspirò profondamente per riprendere il controllo di sé: - C'è altro? -
- No, nulla. Grazie, Frejie. Salutami Angelika. -
- Sì, certo. E tu smettila di fare lo sciupafemmine. É increscioso che ogni volta che ci sentiamo tu stia con una donna diversa. -
“Ma se ha l'aspetto di una quattordicenne...”
- Va bene, ci proverò. -
- Ti conviene. - lo salutò con un lieve cenno del capo e batté le mani tre volte.
La nebbia ricoprì la superficie dello specchio e il cristallo si richiuse su se stesso. Il cacciatore riprese il quarzo e lo infilò in tasca, dando volutamente le spalle alla compagna. 
- Allora è lui il vampiro. - commentò Rachel.
- Mi sembra ovvio a questo punto. - 
Alan gettò il soprabito sul letto e si distese. Il materasso era tutt'altro che morbido, ma in quel momento gli sembrava ancor più scomodo.
Il silenzio si protrasse per un lungo minuto, senza che nessuno dei due si premurasse di continuare la conversazione. La ragazza si guardò attorno con espressione indifferente, mentre Sebastian sonnecchiava sulla sua spalla. Quando ne ebbe avuto abbastanza, si riscosse dall'immobilità e puntò le iridi azzurre su Alan.
- Vado a dormire. Ci troviamo domani mattina al “Giardino della ninfa”. -
- Va bene. -
- Buonanotte. -
Alan la salutò sbadigliando e si girò su un fianco. Tuttavia, appena Rachel se ne fu andata scattò a sedere e si passò una mano sul viso, teso come una corda di violino. Imprecò tra i denti e si diede dell'idiota. Aveva ragione Maxwell, quando da giovane gli assestava forti scappellotti e lo apostrofava con appellativi poco carini come "ritardato", "stolto", "testa di sughero", ma ne aveva coniati di peggiori, rimarcando il fatto che avesse davvero poco sale in zucca. Spesso Alan lo aveva udito borbottare cosa ci incastrasse lui con il grande e famoso Vincent, ma, dato che non aveva mai conosciuto suo padre, non l'aveva mai presa troppo sul personale. 
Il motivo dell'ansia che ora gli annodava lo stomaco risiedeva nell'aver realizzato la cosa più importante solo dopo aver chiuso la conversazione con Frejie, un particolare che lì per lì gli era sfuggito e che invece avrebbe dovuto essere cruciale: come faceva la Dogma a sapere che sarebbe passato per Hargitay? 
C'era un'unica risposta a quella domanda: Rachel era una spia.

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Capitolo 13
*** Act. 2 - Secrets ***


Slayers
Act. 2 - Secrets



Quindi il piano è deciso? -
Alan alzò la testa dal pezzo di torta al triplo cioccolato e noci caramellate a cui stava dedicando attenzione da quando erano arrivati. Quel giorno la colazione non l'avrebbe pagata Rachel, quindi voleva gustarsi quella piccola, costosa prelibatezza con calma.
- Sì, direi proprio di sì. -
- La mia padrona desidera sapere se ne è proprio sicuro. - insisté Sebastian.
A sentire di nuovo quella voce robotica, il cacciatore ebbe un moto di stizza, che però si costrinse a dissimulare con una scrollata di spalle. 
- Non amo ripetermi. -
Già svegliarsi presto dopo una notte insonne non aveva rappresentato un buon inizio di giornata, poi continuare una qualsivoglia conversazione con un Gemren sproporzionato e ronfante non contribuiva di certo a migliorargli l'umore. Sospirò, portò alla bocca un altro pezzo di torta e chiuse gli occhi, godendosi la morbidezza della glassa di pralina caramellata. 
A guardarla in quel momento, Rachel sembrava una ragazzina di buona famiglia, di quelle che vengono rapite dai briganti desiderosi di fare soldi facili. Vestiva con un vaporoso abito nero dalle larghe maniche a sbuffo, alti stivali di pelle conciata, un diadema di ossidiana e filigrana argentata attorno al collo, mentre i capelli, stranamente, erano raccolti in uno chignon fin troppo sobrio e anonimo per il suo stile. 
Nella sua vita, Alan poteva vantarsi di aver avuto a che fare con la parte più strana dell'umanità e, dopo aver dato la caccia a uno zombie profumato e impomatato come il più raffinato dei lord, si era ripromesso solennemente di non stupirsi più di nulla. Con Rachel non poteva di certo dire di essere mai realmente sorpreso di qualcosa, ma se alla fine avesse scoperto che i suoi sospetti erano fondati, probabilmente avrebbe dovuto rivedere la sua idea di spia, spionaggio e basso profilo.
- Vai da qualche parte? - domandò a Rachel in tono casuale.
Sebastian inclinò l'enorme testone: - La signorina domanda che attinenza abbia la sua domanda al caso. -
- Non si risponde a una domanda con un'altra domanda. - lo rimbeccò Alan.
La testa del Gemren si inclinò pericolosamente di lato, ma la sua padrona non sembrava propensa a suggerirgli come rispondere. Si limitava a fissarlo con sguardo assente, come se trovasse molto più interessante il vaso di fiori sull'altro tavolo.
Esasperato, Alan dovette ingoiare tutte le imprecazioni che aveva sulla punta della lingua.
- Nessuna attinenza, chiedevo per curiosità. - finì la torta e si alzò, seguito da Rachel, - Quindi ci troveremo alla stazione tra tre giorni? -
- Sì, esatto. - rispose Sebastian.
- E fino ad allora non ci vedremo perché tu hai da fare. -
- La signorina non capisce perché stia ripetendo quello che lei le ha detto meno di un minuto fa. -
- Niente, era solo per confermare. - 
Quindi tirò fuori nove raie dal borsello e le lasciò nel piattino di porcellana. Poi, senza attendere oltre, uscì con un obiettivo ben preciso in mente.

 

*


Come al solito, le cose non andarono come Alan aveva previsto. In verità, non si aspettava davvero di trovare qualche informazione rilevante su Rachel, ma la scarsa documentazione che si trovava sotto gli occhi lo lasciava a dir poco di stucco. Farsi dare il fascicolo non era stato difficile, nella lettera aveva usato come scusa il fatto che desiderava sapere qualcosa di più della sua compagna, e da Asie a Hargitay il messaggero ci aveva messo poco. Sbuffando, scorse nuovamente le pagine ingiallite.
Sul cognome e sull'età non gli aveva mentito, né tanto meno sulla carne di mostro che le avevano trapiantato. Era nata a Oefor, un piccolo paese localizzato nel sud della contea di Mertmindam, da una coppia giovane che l'aveva lasciata in una succursale della Dogma circa una settimana dopo il parto. In seguito alle analisi e al duro allenamento nella valle d'Unein, la bambina si era sottoposta al normale rito d'iniziazione, al trapianto della carne di vampiro ed era sopravvissuta senza alcun intoppo. Da lì, la sua era una storia noiosamente gloriosa: era diventata una Slayer, aveva portato a termine tutti gli incarichi e si era guadagnata il suo alto rango. Praticamente era nata per essere una cacciatrice. Era un curriculum perfetto, era innegabile, eppure c'erano alcune cose che non gli tornavano. Tanto per cominciare, non riusciva a spiegarsi perché la Dogma avrebbe dovuto accoppiarli per una caccia a un Primigineo. Erano i primi figli degli Antichi, degli esseri potenti quasi quanto i loro genitori. Per quanto la Dogma si disinteressasse del destino e della vita dei suoi cacciatori, non avrebbe mai messo assieme uno Slayer di classe SS e uno di classe B, non sarebbe stato economicamente utile, considerando quanto quelli fossero attaccati ai soldi.
Alan sollevò il foglio coi dati anagrafici e si soffermò nuovamente sul luogo di nascita, riflettendo sul perché avesse dovuto mentire su un'informazione così futile. Oefor era sì un paesino sperduto in mezzo ai campi, ma più di un secolo prima era stata una grande città, nonché una delle prime ad accettare la rivoluzione industriale e a portarla avanti. Per i più, la decadenza che adesso regnava a Oefor si poteva attribuire alla negligenza dei banchieri e al collasso della sua economia a seguito del forte flusso migratorio, che le aveva portato via gli imprenditori più intraprendenti, ma solo la Dogma e i cacciatori più anziani sapevano cosa l'avesse innescata.
A un tratto sentì bussare. Imprecando tra sé e sé, si alzò e andò ad aprire, convinto che fosse di nuovo l'oste che lo disturbava per chiedergli quando si sarebbe deciso a pagarlo. Quindi, quando si trovò davanti gli occhi rossi di un Sebastian e la sua padrona rimase a dir poco sorpreso.
- Buongiorno, signor Alan. - lo salutò il Gemren, - E' una bellissima giornata, non trova? -
Il cacciatore gettò una rapida occhiata alle sue spalle, sulla piccola finestra che aggettava sulla strada principale. 
- Se tra gli elementi che costituiscono una bella giornata conti dei nuvoli carichi di pioggia e una foschia da storia dell'orrore... -
- Almeno non piove, signor Alan. -
- Non ancora, vorrai dire. - lo corresse.
Il piccolo pipistrello mosse le alette per riprendere quota, ma l'unica cosa che riuscì a fare fu scompigliare i capelli di Rachel. Le cannule meccaniche emisero un sibilo e sputarono fuori fumo e nuvolette di vapore.
- Comunque, la signorina dice che andremo oggi a trovare il barone. -
- Manca ancora un giorno al suo ritorno. - obiettò, abbassando lo sguardo per incrociare quello di Rachel, ma la ragazza sembrava persa in un mondo tutto suo. 
Fortunatamente, Sebastian aveva già la risposta pronta.
- Ci è giunta notizia che è tornato prima. - si sporse verso di lui, con le gemme rosse che brillavano a intermittenza, - La signorina vi comunica che dobbiamo andare immediatamente. -
- Di' alla tua signorina che alle sei del mattino al massimo ci sguinzaglieranno dietro i cani. -
- L'altra volta che siete andati, non avete visto alcun cane, signor Alan. -
Il cacciatore si mise una mano sul viso. Alle volte si dimenticava con chi stava parlando.
- Era per dire che è troppo presto. - spiegò con calma. 
Sperava che, così facendo, il messaggio arrivasse, ma, a giudicare dell'espressione granitica della sua interlocutrice, era più che evidente che non avesse intenzione di cambiare idea. Oppure non lo stava ascoltando, dipendeva dai punti di vista.
- E va bene. - capitolò esasperato, - Ma prima devo passare in un posto. -
A quelle parole, una scintilla di interesse si accese negli occhi di Rachel.
- Dove devi andare. - chiese, mentre si toglieva Sebastian dalla testa.
Alan prese il cappotto che aveva appoggiato all'appendiabiti vicino alla porta, assieme alla spada e alla balestra.
- Vedrai. - si limitò a dire.
Fuori le nuvole si erano ammassare in cielo e tirava un vento freddo foriero di tempesta. Tempesta e guai.

 

*


Nella grande sala c'era qualcuno e questo sia Alan che Rachel lo sapevano ancor prima di avvinarsi alla porta socchiusa. C'era uno strano odore nell'aria, una profumo dolciastro che gli aveva fatto storcere il naso fin dal momento in cui aveva rimesso piede nella tenuta del barone.
La domestica, una vecchietta dal viso gentile e le mani raggrinzite, fece un rapido inchino e poi si dileguò, accompagnata dalla ragazza che li aveva accolti la prima volta e che non aveva fatto altro che camminare il più possibile lontano da loro, rigida più che mai.
I due cacciatori si scambiarono uno sguardo d'intesa e poi Alan spinse la porta. Vennero accolti nel solito salottino bizzarro che, come anche tutto il resto della casa, era rischiarato appena dalla luce di poche, consumate candele. A un essere umano normale la stanza sarebbe parsa buia.
- Benvenuti, cacciatori. - un uomo si alzò dalla poltroncina di pelle e alzò il calice colmo di vino in segno di saluto.
Aveva gli occhi rossi e incavati, che contrastavano con il sorriso cordiale che gli stirava le labbra esangui. 
Quando i due varcarono la soglia, tornò seduto con movimenti aggraziati e fece loro segno di prendere posto sul divano. Lanciò una lunga occhiata a Rachel e l'osservò attentamente, corrugando le sopracciglia come se stesse cercando un particolare che sfuggiva alla vista o alla sua memoria. Solo quando si accorse che di avere gli occhi di Alan addosso, distolse lo sguardo.
- Mi dispiace avere questo aspetto, ma spero capiate che sono tornato da un lungo viaggio e che non aspettavo la vostra visita così presto. -
- Non preoccupatevi, siamo abituati a ben peggio. - rispose la Slayer e, contro ogni previsione di Alan, il barone scoppiò a ridere.
- Non siete una signorina di buone maniere, vedo. -
La ragazza fece spallucce, mentre Sebastian si accoccolava sulle sue gambe.
- Ahhh, le generazioni d'oggi... - sospirò, sistemandosi i capelli bianchi in un corto codino, - Ai miei tempi, alle donne si insegnava a ricamare, a prendersi cura del proprio marito e dei propri figli. Adesso addirittura sono loro a portare i pantaloni al posto degli uomini. Gradite del vino o del cognac? -
Alan osservò in tralice Rachel e poi posò lo sguardo sulle due bottiglie che il barone stava loro mostrando.
- Prenderemmo volentieri il vino, ma solo se è di una buona annata. -
- Oh, ma allora siete un intenditore! Bene, bene, vi offrirò il Vermont che ho comprato a Londinuim. - 
Si diresse a una vetrina in un angolo della stanza ed esaminò l'etichetta col suo monocolo d'oro. Poi afferrò due calici e li servì.
- Bevete con calma, dovete gustarvi il sapore dolce di questo vino, le scorze di cannella e melograno lo rendono ancor più zuccherino. E sì, non è proprio possibile negarlo, le cantine dei nani rimangono sempre le migliori. -
- Avete proprio ragione, mio signore. - 
Alan resisté all'impulso di pulirsi la bocca col dorso della mano, non era in un'infima bettola a farsi una bevuta con un amico. 
- Ci dispiace avervi disturbato così presto, ma avevamo delle domande urgenti. - continuò.
Il barone scosse la testa e il sorriso amichevole che gli distese le labbra mise ancor più in risalto le rughe ai lati della bocca. Per essere un vampiro era vecchio, molto vecchio, e stanco, considerò il cacciatore.
- Non vi preoccupate. Ormai per me il giorno e la notte non sono altro che una scansione temporale che non mi porta più alcun giovamento. - posò il calice e intrecciò le dita sul petto, poco sotto la cravatta ascot di seta, - Vogliamo venire subito al sodo? -
- Sì, di grazia. - rispose Rachel in tono gelido, poi scostò il calice senza nemmeno averlo assaggiato.
- La vostra compagna è sempre così... glaciale? - domandò il barone ad Alan.
- Purtroppo sì. Però questa volta mi trovo a concordare con lei. -
- Avete così tanta fretta di uccidermi? -
- Può darsi. -
Il barone ammutolì. Li scrutò di sottecchi, si morse l'interno della guancia e si accarezzò il mento, assorto in chissà quali pensieri.
- Mmm... qualcosa mi dice che state bluffando. Se avevate davvero così tanta fretta, adesso avrei già un paletto di frassino nel cuore. - scoppiò a ridere, scoprendo i lunghi canini bianchi, - Volete delle risposte, anche se non penso di essere la persona giusta. -
- Questo lo dovremmo decidere noi, non credete? -
- Oh, certo, certo, siete voi gli esperti. - si tolse il monocolo e lo posò sul comodino alla sua sinistra senza perdere il sorriso, - Orsù, ditemi, cosa desiderate chiedere a questo vecchio vampiro? -
- Beh, tanto per cominciare, vorremmo sapere perché ha assalito la moglie del duca. -
- Non c'è un perché. - rispose di getto.
Alan scosse la testa, domandandosi se avesse sentito bene, ma prima che potesse aprir bocca il barone continuò.
- Per esserci un perché, innanzitutto dovrebbe esserci un crimine. Non avevo motivi di attaccare Eluna, né di ammazzare gli ospiti delle feste di K'yorl. Volevate chiedermi anche questo, giusto? Beh, anche se non siete molto espressivi, deduco di sì, altrimenti non stareste qui a perdere tempo con me. In ogni caso, non avevo motivi di farli fuori. Molti erano anche miei conoscenti, mi è dispiaciuto molto per la fine che hanno fatto. -
- Il duca sembra convinto del contrario. - gli fece notare Rachel, ma il barone non si scompose.
- Il duca è convinto di molte cose. - alzò il calice e, alla luce della candela, osservò il riflesso vermiglio della fiamma sulla superficie del vino, - E' da quando è giunto in questa città che cerca di screditarmi, come se potessi costituire una minaccia. E dire che sono un vampiro molto socievole, ho anche tentato di instaurare un rapporto di amicizia con lui, ma K'yorl ha sempre rifiutato. Poi, di punto in bianco, hanno cominciato a girare voci su di me e sulla mia povera moglie. Per carità, non che prima la gente di Hargitay non parlasse di noi, ma adesso quando Merinda va a fare la spesa quasi la compatiscono perché lavora per noi. -
- Però ha ucciso in gioventù. - considerò Alan e il barone annuì.
- Sì, non lo nego. Ma, sapete, ero appena stato morso da una vampira molto sensuale e... gli ormoni e l'istintività adolescenziali hanno fatto il resto. Credevo di essere invincibile, immortale... -
- Poi ha scoperto gli effetti collaterali, presumo. -
Il barone si mise a ridere, coprendosi la bocca con una mano: - Sì, esatto. Un giorno avevo appena succhiato il sangue di una giovane contadinella e, mentre me la stavo gustando, ecco sbucare un bruto con gli occhi più rossi dei miei con uno stocco nella destra e una pistola nella sinistra. Ho tentato di fuggire, ma quello mi ha tagliato la strada e poi mi ha fatto una ramanzina che non mi scorderò mai più. Se non fossi sicuro di essere già morto, direi che quel giorno ho avuto un infarto. Ho avuto davvero paura quella notte. Certo, avevo capito sulla mia pelle che la mia nuova condizione non mi avrebbe portato solo benefici, ma fino a quel momento non mi ero davvero reso conto di quanto fosse dissoluto e sfrenato il mio comportamento. Fu Lehcar a farmi cambiare idea. -
A sentir pronunciare quel nome, Rachel alzò la testa di scatto e incrociò lo sguardo del barone. Questi sorrise bonario, socchiudendo appena le palpebre con un'espressione mesta e malinconica assieme.
Alan fissò prima l'uno e poi l'altra, curioso di sapere che piega avrebbe preso la conversazione.
Seguì un lungo silenzio, un momento di stasi assoluta dove l'unico rumore presente era il crepitio dell'ultimo ciocco di legno nel caminetto e lo sferragliare del treno in lontananza, seguito dal fischio che precedeva l'arrivo e la partenza dalla stazione.
Fu dopo quei densi minuti di attesa che il barone parlò, rivolgendosi a Rachel: - Assomigli molto a lui, sai?-
Le dita di Rachel si strinsero a pugno, i muscoli sotto l'abito si tesero e le pupille si dilatarono, catturando il misero lucore delle candele in quelle due minacciose biglie nere. Ma il nobile non parve accorgersene o, forse, capì di aver toccato l'argomento sbagliato.
- In ogni caso, dopo quel colpo al cuore, mi sono messo tranquillo. Ho trovato una moglie, ho messo su famiglia, ho ereditato tutte le ricchezze di mio padre, mi sono fatto un nome nel campo imprenditoriale, ho trovato un buon partito per le mie figlie e, quando la mia cara moglie è passata a miglior vita, mi sono trasferito qui e risposato. Insomma, una vita noiosamente tranquilla. -
- Come facciamo ad essere sicuri che non state mentendo? - indagò Alan.
- Come vi dicevo prima, non ne ho alcun motivo. Non vedete? - si indicò, il viso contratto in una smorfia amara, - Ormai sono vecchio e consumato, ho già vissuto tutto quello che a un uomo è concesso vivere. O meglio, a un vampiro. Quando ero più giovane, pensavo di avere in mano il mondo e ho compiuto delle azioni di cui non mi vergogno, ma che di certo adesso non ripeterei. Ho imparato quando è il tempo di mentire, quando quello di non rispondere e quando quello di dire la verità, perché cercare di cambiare ciò che anche gli stupidi capiscono non mi porterebbe alcun giovamento. Conosco la ragione della vostra visita e, anche se non sapevo quanto foste esperti, ho capito che tentare di convincervi che il riflesso nello specchio non è un gioco di luce, ma la mia vera immagine sarebbe stato inutile. Ho avuto poi la mia conferma quando vi ho visto, così ho deciso di mostrarmi subito per quello che ero: se vi foste fermati a bere un po' di buon vino con me ne sarei stato felice, se mi aveste attaccato, anche a costo di apparire ridicolo, avrei combattuto. La morte prima o poi sopraggiungerà anche per me, sia essa una dipartita dolce, nel mio letto, o braccato dagli Slayer nei meandri di una foresta, non mi importa. Non più, ormai. Non penso serva sottolineare quanto preferisca la prima alla seconda, ma non posso prevedere il futuro. Certo, mi mancherà molto la marchesa, anche se non so io quanto mancherò a lei. Ho sempre amato la sua compagnia. - sbuffò divertito.
Come se fosse stata evocata, la porta si aprì e il naso aquilino di lady Idrial si affacciò nella stanza. Squadrò i due cacciatori con diffidenza e andò a sedersi sul bracciolo della poltroncina del marito. Indossava uno sgargiante abito verde tutto pizzi e merletti, con le maniche larghe ornate d'oro e una collana di smeraldi abbinata alla sottogonna color oliva.
- Sempre a origliare tutto, eh. - il barone le accarezzò la schiena, ma lei si ritrasse, incenerendolo con un'occhiata furiosa.
- E tu parli troppo, Andrzej. - lo rimproverò, per poi spostare lo sguardo sui due cacciatori, - Non potete accusare mio marito di qualcosa che non ha commesso. -
- Qui nessuno sta accusando nessuno, lady Idrial. - rispose pacato Alan. 
- Ah, no? Allora potete andarvene. Avete avuto le risposte che cercavate. -
- Non proprio. -
Sentendosi contraddire, la donna si innervosì ulteriormente: - E cosa vi mancherebbe di sapere, sentiamo. Sono tutta orecchie. -
- E' stato il duca a uccidere gli invitati? -
Il barone, che si stava versando dal vino, si immobilizzò con la bottiglia sopra il calice: - Sì. -
- Qual è il movente? -
- La sua immensa e incommensurabile cupidigia, ovviamente, nonché il desiderio di vedere il mio corpo in cenere. - ridacchiò e offrì il suo bicchiere alla moglie, - Il duca ha sempre ottenuto tutto quel che voleva, sempre. I suoi continui successi gli hanno dato alla testa, tanto che alla fine l'idea di perdere anche solo un centesimo del suo enorme patrimonio l'ha spinto ad eliminare i suoi avversari uno ad uno, assieme a tutte quelle persone che avevano in qualche modo un contatto con me. Si è davvero impegnato molto, quasi mi fa pena pensare a quanto deve aver speso per trovare tutte quelle persone disposte a mettere in giro maldicenze sul mio conto. Da lì, è stato facile far credere anche ai nostri conoscenti in comune che ero in qualche modo connesso agli omicidi. -
- L'attacco alla lady sua moglie quindi... -
- Era solo un espediente per chiamarvi. Si vede che contava sul fatto che mi avreste tagliato la testa senza fare domande. -
- Un elfo poco saggio. - sogghignò Alan.
- Un elfo stupido, arrogante e violento. - lo corresse lady Idrial, fissandolo dritto negli occhi, - Ma questo non serve che ve lo dica, giusto? -
Il cacciatore si limitò a fare spallucce e toccò di sfuggita il sacchetto che aveva in tasca.
- Cosa ne sarà di mio marito? -
- Lo uccideremo a lavoro ultimato. - rispose semplicemente Rachel, - Per quanto sia stato gentile, costituisce comunque un pericolo per la comunità. -
- Non penso, sai? - nell'alzarsi, Alan si stiracchiò le braccia, - Morirà tra poco tempo, non ne vale la pena. -
- Ribadisco, è un pericolo per gli umani di questa città. -
- Come fa a cibarsi quando ha fame? - s'informò con un sospiro esausto.
- A volte chiedo a un amico alchimista di prepararmi i suoi buonissimi e gustosissimi intrugli al sapore di sangue virginale. - rispose sincero il barone.
- Visto? É innocuo. -
- Solo un idiota crederebbe davvero a quello che sta dicendo.-
Il cacciatore la guardò truce: - Sempre gentile, eh... -
- Solo oggettiva. -
- Se mi risparmierete, vi darò quello che desiderate. - dichiarò allora il padrone di casa.
Aveva parlato al plurale, ma gli occhi erano fissi in quelli di Rachel. Era a lei che aveva rivolto l'offerta, a lei soltanto.
La ragazza strinse Sebastian al petto. Lo scricchiolio sinistro delle giunture in rame mise Alan in allerta. Le Bladegun erano ancora al loro posto, ma non voleva scoprire a sue spese quanto la sua compagna potesse essere rapida a estrarle.
- E cosa vorreste darmi. - domandò, la voce atona, gelida, tagliente.
- Lo sai... -
- No, non lo so, ditemelo voi, barone. -
- Il motivo per cui sei venuta qui, Rachel. -
- Sto cercando un Primigineo. -
- Lo so, Rachel, lo so. -
La cacciatrice guardò altrove. Stava fuggendo il confronto, questo Alan lo aveva capito, ma non riusciva a intuirne il motivo. In realtà, non riusciva nemmeno a comprendere fino in fondo quel discorso.
- Credimi... io so chi stai cercando, forse posso aiutarti. -
Sebastian svolazzò fino a posarsi sul divanetto, poi le mani di Rachel si chiusero attorno alle pistole. Le due armi vennero estratte e puntate nell'esatto momento in cui Alan sfoderò la spada.
- Come osi... - sibilò lady Idrial tra i denti, ma il barone le fece cenno di tacere.
Di nuovo, la stanza piombò nel silenzio. I due si scrutarono a lungo e il dialogo muto proseguì solo tra di loro, una guerra di sguardi senza esclusione di colpi.
- Come posso fidarmi. -
Il vampiro si incupì: - Perché ho conosciuto anche Seanna e so dove le nebbie nascondono il suo maniero. -
Rachel sbatté le palpebre e Alan ebbe la sicurezza che non gli avrebbe sparato, perché c'era stato qualcosa in quelle ultime parole che l'aveva scossa nel profondo. Infatti, la ragazza abbassò le pistole e si accostò alla porta.
- Stasera andremo dal conte. - disse, a nessuno in particolare.
- Quindi siamo d'accordo. - decretò Alan e il barone annuì.
Non ci fu bisogno di chiederlo alla sua compagna: era già sparita nel corridoio buio che conduceva all'uscita.
Quando la raggiunse, lei aveva già aperto un ombrello lillà tirato fuori da chissà dove.
- Rachel. - la chiamò, ma la ragazza non si voltò.
Fece un ulteriore passo verso di lei.
- A cosa si riferiva il barone? Chi è Lehcar? - insisté.
Nessuna risposta, nemmeno da Sebastian. Il vento le gonfiava il vestito e le scompigliava i capelli, ma non sembrava importargliene nulla.
- Rachel, mi hai detto tu che dovevamo conoscerci, che per cacciare assieme serve sincronia. Se continui ad avere dei segreti con me, come posso fidarmi? - sospirò frustrato.
Dopo un minuto, quando ormai si era convinto che non gli avrebbe più risposto, Rachel si voltò. Il pallore del suo viso spiccava in modo inquietante e gli occhi azzurri erano vitrei, come persi in ricordi lontani.
- Lehcar è... una persona importante. - rispose dosando le parole, quasi avesse paura di rivelare troppo.
- Perché lo stai cercando? -
- Mi deve delle risposte.- si asciugò le palpebre, spostando poi i capelli appiccicati alla fronte,- Anche tu non hai le Rune del Comando. -
Alan rimase interdetto e ci mise qualche istante a elaborare cosa gli avesse detto. 
- Questa è un'affermazione o una domanda, Rachel? -
- Tu sei come me, Alan. Anche tu sei un mostro, figlio di mostri, ecco perché la Dogma non ha bisogno di controllare la tua parte bestiale. Tu non puoi fare la stessa fine di Maxwell e di tutti gli altri Slayer.- fece una pausa, come se cercasse le parole giuste, - C'è un detto che recita “Le scelte di un cacciatore sono chiavi che non aprono nessuna porta”. Sai cosa significa. -
Alan annuì. Rachel portò la mano libera ai capelli e cominciò a togliersi le forcine.
- La vita degli Slayers è una strada con un'unica uscita. Vincent lo sapeva e ha camminato a testa alta fino alla sua fine. Ma c'è stato un uomo che è riuscito a ingannare e uccidere i carcerieri, prima che la Dama Nera lo prendesse per mano. -
- E tu speri che ti dica come liberarti? -
- No, la libertà non mi interessa, è un bene che esiste solo nella mente dei filosofi, dei maghi che millantano di aver capito tutto della Natura, pure quando sfugge il senso profondo delle cose. - 
Si voltò verso di lui e lo misurò con lo sguardo. Era la prima volta che Alan la sentiva parlare così tanto, ma ancora non riusciva a comprendere le parole della cacciatrice, sibilline, enigmatiche e senza un apparente scopo. Se non desiderava liberarsi dal giogo della Dogma, cosa voleva?
- Siamo tutti nati prigionieri, Alan, le nostre catene sono solo più visibili di quelle degli altri. Ciò che io voglio è solo capire perché i miei stessi genitori mi hanno messo le mani ai ceppi. -
- Lehcar quindi è... -
Il fragore di un tuono coprì la voce di Alan e l'ultima parola che pronunciò rimase sospesa nell'aria, carica del proprio significato e delle conseguenze portava con sé. Poi il vento la portò via, nascondendola alle orecchie dei cani, degli uccelli e di chi avrebbe potuto trarne profitto. Solo Rachel la udì. Gli diede le spalle e con passo aggraziato si allontanò verso la stazione, lasciando Alan indietro a inzupparsi di pioggia.

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Capitolo 14
*** Act. 2 - Newbie's Luck ***


Slayers
Act. 2 - Newbie's Luck



Alan stava percorrendo una strada sterrata immersa nel bosco, seguendo con lo sguardo le rotaie alla sua destra per evitare di perdersi. In mano stringeva una bottiglia di vino. Era decisamente una giornata no, una di quelle che preferiva passare in taverna a bere. Invece pescò da un piccolo sacchetto di pelle un'altra foglia di menta e iniziò a masticarla. Era forse la decima che si metteva in bocca da quella mattina e adesso, più che un uomo, si sentiva una mucca.
Sbuffò scontento e accelerò il passo, nervoso e all'erta. Calpestò un ramo, che si spezzò di schianto sotto la suola dello stivale, e all'improvviso da qualche parte risuonò il gracchiare di una cornacchia. Si girò allarmato, portando istintivamente la mano all’elsa della spada, ma udì solo il battito delle ali di uno stormo di corvi che si alzava in volo. Sospirò infastidito e borbottò l’ennesima imprecazione.
“Ma proprio oggi quella doveva darmi buca? In tal caso, spero che sappia che non le darò nemmeno un centesimo della ricompensa. Lavativa.”
Calciò un sassolino spedendolo giù nel burrone che stava costeggiando, ricoperto da un fitto intrico di rami e rovi. Nella sua discesa, oltre a rimbalzare sul terreno, la pietruzza colpì anche qualcos’altro, perché uno scoiattolo si precipitò spaventato fuori dal suo nascondiglio.
Alan grugnì, si accucciò, appoggiò la bottiglia di vino a terra e caricò un dardo sulla balestra. Non gli capitava molto spesso di usarla, ma in alcuni casi aveva dovuto ammettere che gli era tornata utile. L’arco era fatto di osso e le incisioni che lo percorrevano potevano rendere a comando i quadrelli infuocati. Era una manesca, un’arma abbastanza rudimentale, e sicuramente, appena avesse avuto l’occasione e i soldi, si sarebbe comprato uno schioppo o una pistola di piccolo calibro. Ma al momento doveva accontentarsi, anche perché, nonostante tutto, faceva il suo sporco lavoro con dignità. Da quello che Bacht gli aveva detto, quella balestra era stata fatta nella contea del Kyonin, nel lontano nord, dove si diceva ci fossero i migliori costruttori di archi. Alan però dubitava che il suo autore fosse originario di quelle terre, non tanto perché l’arma non avesse la tipica fattura elfica, quanto perché il mercante non gliel’avrebbe venduta a un prezzo così stracciato.
Sperava comunque di non incontrare nessun mostro sul suo cammino: per affrontare il duca doveva essere al massimo delle forze ed era noto che quella fitta macchia verde, una delle poche sopravvissute nelle aree più industrializzate, costituiva il nascondiglio ideale per folletti e fate poco amichevoli.
Raccolse la bottiglia, imbracciò la balestra e continuò ad avanzare nella fitta vegetazione.
Era già abbastanza seccante dover andare a Villa Malachite da solo dopo aver aspettato Rachel per quasi un’ora e il treno per altre due, perciò voleva evitare di vagabondare di notte tra gli alberi. L’esperienza gli aveva insegnato che i boschi erano brutti posti dove riposare, anche peggio delle necropoli e dei castelli infestati, soprattutto perché quando pioveva gli alberi non proteggevano sufficientemente bene la glassa delle ciambelle.
Era rimasto abbastanza sorpreso che Rachel non si fosse presentata all'appuntamento. La cacciatrice gli era sembrata piuttosto decisa a scoprire la verità su quel Lehcar, ma non a tal punto da mollarlo col culo per terra in quel modo, perché, anche se non ne poteva essere sicuro, il suo istinto gli suggeriva che probabilmente era tornata dal barone o era andata a cercare qualche altra informazione in giro. Purtroppo non poteva aiutarla, quel nome non gli diceva proprio niente. All’inizio aveva pensato che fosse un parente. Ad ogni modo, l’unica cosa chiara era che tra la ragazza e quel Lehcar c’era un legame, uno talmente profondo da risvegliare i suoi sentimenti e farla desistere dall’uccidere il barone.
Un’altra cosa che lo aveva stranito era stata l’affermazione di Rachel quando erano usciti da Villa Ametista: come faceva a sapere che non aveva le Rune del Comando? E, soprattutto, perché nemmeno lei le aveva?  C’era una sola possibile spiegazione alla mancanza del tatuaggio che la Dogma imponeva a tutti gli Slayers e di certo aveva qualcosa a che fare col tipo di sangue che le scorreva nelle vene. No, Rachel non poteva essere come lui, non poteva essere davvero un Sannan. Respinse quel pensiero in un angolo della sua mente, ci avrebbe riflettuto dopo la missione.
Trasse un profondo respiro, si stropicciò le palpebre e le sbatté più volte nel tentativo di scrollarsi di dosso il torpore che la notte insonne gli aveva lasciato addosso. Poi schioccò la lingua e aumentò l’andatura.
In lontananza riecheggiò il fragore di un tuono.
“Oh, fantastico, ci mancava pure l’acquazzone.”
Maledisse la sua cattiva stella, si coprì la testa col cappuccio e, infilando la bottiglia di vino nella tasca interna del soprabito, si mise a correre.
 
*
 
Alan giunse a destinazione fradicio dalla testa ai piedi. Il maggiordomo del duca non aveva battuto ciglio, per fortuna, e l’aveva scortato immediatamente nello studio del suo padrone, che si era fatto vivo circa una ventina di minuti più tardi. Si era fermato di fronte alla porta chiusa, parlando concitatamente con quella che Alan pensò essere la moglie. Discutevano a bassa voce e non riusciva a capire bene di cosa, ma nemmeno gli importava granché. Si era alitato sulle mani di nuovo, per essere ben sicuro di averlo profumato di menta. Poco dopo K’yorl era entrato nella stanza e lo aveva invitato a vedere la sua galleria di quadri, spiazzando non poco il suo ospite.
- Potrà sembrarvi strano, ma trovo soffocante stare chiuso in quella minuscola stanzetta, soprattutto quando si parla di faccende così importanti. - gli aveva spiegato mentre scendevano la seconda rampa di scale, diretti nei sotterranei di Villa Malachite.
Il cacciatore si era ritrovato chissà come a camminare fianco a fianco al duca in una lunga galleria a volta con il soffitto affrescato con episodi dell’Arin en Darn, il libro sacro degli shamariti. La luce, mantenuta accesa dalle Fiamme Inestinguibili che danzavano sui candelieri, creava un’atmosfera raccolta, suggestiva, accentuata ancor di più dal silenzio e dagli sguardi austeri, sofferenti e gioiosi dipinti nei quadri che tappezzavano i muri.
- Allora, Alan, come mai siete venuto solo? Dove avete lasciato lady Ghestia? Pensavo foste inseparabili. - disse ghignando, divertito dalla sua stessa battuta.
“Che simpatico.”
- Ha avuto da fare e purtroppo non ha potuto accompagnarmi. Sono qui per dirvi che il barone Harward non sarà più un problema. -
- Lo avete già eliminato? -
Alan annuì.
- Oh, che splendida notizia! - le labbra del duca di aprirono in un sorriso soddisfatto, - Devo dedurre che abbiate portato quella bottiglia per festeggiare. -
- Diciamo di sì. -
- Magnifico! Ho pure i bicchieri adatti a un brindisi nel mio salotto privato. Purtroppo non ci sono sedie, mi scuso per l’inconveniente. -
- Non fa nulla. -
- È ovvio che mi preoccupi per i miei ospiti, sia mai che andiate a dire che il duca di Sherbone non è un uomo ospitale! -
Ad un certo punto il duca aprì una porticina di legno incassata nel muro. Alan era convinto fosse una trappola e di ritrovarsi in una cella maleodorante e buia, invece si affacciò su una stanza accogliente, pur non essendo riccamente arredata. Non c'erano sedie né finestre. Un tavolo di legno era stato posto nel centro e due pareti erano coperte da mobili di ciliegio intarsiato, una vera opera d'arte. Uno pareva un semplice armadio, mentre l'altro aveva le ante a vetri, che esibivano alla vista bicchieri di cristallo e pregiati serviti da tè.
K'yorl prese in consegna la bottiglia che Alan gli stava porgendo e la stappò con i denti, senza curarsi di apparire rozzo.
- Chiedo venia, ma non ho proprio pensato a portare un cavatappi. - spiegò scusandosi.
Alan fece un gesto vago con la mano e accettò il calice che il duca gli allungò con un sorrisino tirato. Poi la sua attenzione venne attirata da un quadro che raffigurava un’elfa e un umano seduti su due scranni di marmo. L’uomo portava un lungo mantello di broccato rosso, una pelliccia d’ermellino e un’armatura istoriata d’oro cesellato e d’argento. La donna, invece, sfoggiava una veste di lino finissimo, decorata con una fascia a losanghe. Il mantello, di un intenso blu notte, le ricadeva sulle spalle nude e i capelli erano stati intrecciati con fili di perle e nastri sopra la nuca, lasciando scoperto il viso delicato dagli zigomi alti. Entrambi portavano una corona di alloro sulla testa, simbolo del potere imperiale.
- Sapete chi sono? - lo interrogò il duca, affiancandolo.
- Terrasen I e sua moglie Varisial di Brugge. - rispose prontamente.
- Siete preparato. Ho raccolto nella mia galleria quanti più quadri appartenenti all’Era del Fuoco. Sono un amante dell’arte e trovo ingiusto che la maggior parte di queste opere siano state distrutte quando l’impero è caduto e gli shamariti hanno preso il comando. -
- L’ignoranza alle volte fa fare delle scelte molto sciocche. - confermò grave.
- In ogni caso, se permettete la domanda, cosa ne avete fatto di lady Idrial? Avete ucciso anche lei? -
- No, non uccidiamo gli umani, lo dovreste sapere. -
- Beh, diciamo che le regole vi impongono di non farlo, ma talvolta… - lasciò la frase in sospeso e sorrise, lanciandogli uno sguardo d’intesa che Alan ignorò.
 - Non le importava granché del marito, sapeva di convivere con un mostro e, quando abbiamo fatto irruzione in casa, si è limitata ad attendere fino a quando non abbiamo finito. Ha detto che tornerà nella tenuta di famiglia e che manterrà il silenzio. -
- E cosa vi fa credere che lo farà? -
- Lady Idrial ha più amanti che gioielli, uno scandalo le rovinerebbe la reputazione e dovrebbe dire addio al lusso. Non le conviene. -
- Avete occhio per gli affari, mio caro cacciatore. Allora, vi devo pagare il vitto e l’alloggio alla locanda e poi tremila raie. Preferite che ve le dia in contanti o vi stacco un assegno? -
- Contanti, così sarà più facile dividerli con Rachel. -
- E sia. Dirò a Oswald di passare alla locanda il più presto possibile. - trangugiò il vino rimasto e posò il calice sul tavolo, - Dovete andare via subito? Volevo invitarvi a finire di vedere la mia galleria personale. -
- No, non ho fretta. Però dovrete istruirmi, non sono un uomo di cultura. -
- Oh, non potevate mettervi in mani migliori! Prego, seguitemi. -
Il duca gli fece strada fuori dal salottino e imboccò di nuovo il corridoio. Alan esitò e lanciò un'occhiata alla bottiglia ancora mezza piena. Si morse un labbro, dopodiché si affrettò a trotterellare dietro K'yorl.
Si fermarono davanti a un quadro che raffigurava un cielo stellato, dipinto con grosse pennellate nere e blu. Al centro, una luce lattiginosa illuminava il profilo degli otto pianeti allineati lungo un asse immaginario.
- Sapete cosa rappresenta? -
- L’Ireӓel Derinis, la Grande Eclissi. -
- Era una domanda facile. -
- È una specie di test per sondare le mie conoscenze? -
- Più o meno. Un gran bel dipinto, non trovate? -
- Abbastanza. -
- Non siate così prodigo di complimenti, potrei commuovermi. - lo prese in giro il duca, senza distogliere lo sguardo dalla tela, - Molti credono ancora che non sia un fatto realmente accaduto. -
- Alle persone piace negare l’evidenza, specialmente se essa non riflette i loro gusti. -
- Parole sante. Se non ci fosse stata questa Grande Eclissi, ora voi sareste un uomo normale e la Dogma non esisterebbe. -
- Non sono molto d’accordo, i mostri c’erano anche prima. -
- Ma non avrebbe tutta questa importanza. Insomma, parliamoci chiaro: se i pianeti non si fossero allineati e l’Impero non fosse caduto, sarebbero bastati gli eserciti regolari a tenere sotto controllo i quattro mostriciattoli che gironzolavano in questo mondo. Solo uno sciocco direbbe che quelle insulse, mediocri bestie siano state capaci di abbattere tutto quel potere e quel sapere centenario. Sappiamo entrambi che sotto c'era molto di più. - gli scoccò un’occhiata eloquente e accarezzò il seno di marmo della statua di una driade, posta su un piedistallo in una nicchia, riprendendo a camminare, - C’erano dei pidocchi che tramavano nell’ombra e, quando il leone ha subito la prima sconfitta, sono insorti, diffondendosi come parassiti. È stato per colpa loro che il filo della storia si è attorcigliato in una tragica, sanguinosa matassa e l’umanità si è vista strappare via ogni cosa: magia, tecnologia, cultura, arte e persino l’etica. - una smorfia sprezzante gli arricciò le labbra quando pronunciò quella parola, - L’Era dell’Oscurità ha distrutto soprattutto le leggi morali. Con l’avvento dello Shamarismo, il vecchio pantheon è stato dimenticato e la libertà culturale e individuale propria dell’Era del Fuoco è andata perduta, soppressa dalla nuova, inamovibile moralità di un dio padre e patrigno. I suoi adoratori hanno gioito della morte di centinaia di migliaia di persone, divorate e uccise dalle orde di mostri che la Grande Eclissi aveva portato in questo mondo, sostenendo che la loro fosse una morte giusta, che i dieci flagelli fossero il castigo per quegli uomini e donne sacrileghi, apostati, adoratori di falsi dei e di una falsa religione. In nome del loro presunto, vero dio hanno cercato, perseguitato e stanato i pochi maghi e streghe rimasti, li hanno umiliati, torturati e infine bruciati sul rogo, nelle piazze delle città e dei villaggi, mentre nei regni dell’antico Impero si consumava la guerra civile. -
Alan incrociò lo sguardo sofferente di una donna legata a un palo, il viso distorto in muto urlo di orrore.
- Sono stati intelligenti, hanno cavalcato l’onda nel momento giusto e adesso guardate come siete ridotti: da una parte c’è il Basnate, con il suo esercito e i suoi uomini fedeli, indottrinati fin da piccoli a combattere per lui e per i dettami di una religione che decanta la pietà e il rispetto verso il prossimo, senza preoccuparsi che siano i suoi stessi credenti a calpestare la pietà e il rispetto; dall’altra parte la Dogma, l’associazione che protegge gli uomini dai mostri, rastrellando le strade alla ricerca di orfani e di famiglie talmente disperate da vendere i propri figli in cambio di qualche moneta d’oro. Lo chiamano progresso e, per ogni morte, per ogni grido di dolore che echeggia nei loro laboratori, rispondono dicendo che questi sono i sacrifici che l’umanità esige per essere salvata. -
- Avete molto a cuore la sorte di noi Slayers. - commentò Alan.
- Sono un amante della verità. Soprattutto non sopporto chi, pur conoscendola, si ostina a considerarla una menzogna. Chi innalza una propria considerazione al di sopra della razionale e lampante verità non è uno sciocco, è un criminale. -
- Allora il mondo è pieno di criminali. -
- Esatto. -
- Come voi o peggio di voi? -
Il duca ghignò, mettendo in mostra due canini innaturalmente lunghi: - Quando lo avete capito? -
- Non avete fatto molto per nasconderlo. -
Il cacciatore sguainò la spada con un movimento fluido e controllato..
- Già pronto allo scontro? Pensavo voleste trascorrere ancora un po’ di tempo in mia compagnia. -
- A filosofeggiare? No, non sono un uomo fatto per pensare. Mi pagano per combattere, non per risolvere i problemi esistenziali di un vampiro. -
K’yorl ridacchiò e gli diede le spalle, forse perché si sentiva troppo sicuro di sé per temere la morte.
- Non vi comprendo. Vi portano via tutto per rendervi dei mostri e voi, nonostante abbiate la possibilità di ribellarvi, rimanete comunque al servizio della Dogma. Perché? -
Alan non rispose e il duca lo scrutò con sussiego.
- Avete una faccia da schiaffi, Alan. Ve la strapperei volentieri a morsi e la appenderei nella mia galleria. -
- Dovreste vedere la vostra.- ribattè caustico, - La prossima volta vi consiglio di scegliere delle spie più silenziose. -
- Non ci sarà una prossima volta, lo sapete meglio di me. Soltanto uno di noi uscirà vivo da qui. Forse. - si allentò il farsetto, si aggiustò i polsini e, dopo essersi avvicinato alla rastrelliera delle armi che adornava il muro, prese un bastone laccato d’oro, istoriato con preziose ed eleganti scritte runiche e lungo più di sei piedi, - Molto tempo fa ho preso qualche lezione di combattimento, giusto per non essere costretto a rivelare la mia natura durante qualche zuffa per strada. Direi che è arrivato il momento di vedere se sono ancora capace. Mi fareste questo onore, Alan? -
- Non rifiuterei mai un invito tanto gentile. - rispose arretrando di un passo, il corpo già irrigidito e pronto a colpire.
Dalla schiena del duca spuntarono un paio di ali, che stracciarono le vesti e si spalancarono occupando tutto lo spazio disponibile.
Gli si scagliò contro, impugnando il bastone a due mani. Alan si scansò bruscamente, evitando l'impatto per un soffio, ma, prima che potesse contrattaccare, il vampiro saltò e gli piombò addosso dall'alto. Il cacciatore balzò di lato, menando un fendente a vuoto.
K'yorl scoppiò in una grassa risata e tornò all’attacco. Il bastone si schiantò contro la spada e la forza del colpo si riversò sulla lama. La vibrazione si estese fino alle braccia di Alan, che dovette arretrare per non perdere la presa. Ma il duca non gli concesse di riprendere fiato e lo incalzò con una rapida serie di affondi, costringendolo a una danza di schivate e piroette. Più volte si scoprì e il cacciatore tentò di approfittarne, ma ogni stoccata si infranse su quel maledetto bastone, brandito con grande maestria.
Alan era consapevole di star facendo il suo gioco, eppure l’unica cosa che poteva fare era aspettare. Parò l’ennesimo colpo, ma si avvide troppo tardi della bastonata che lo raggiunse al fianco, scagliandolo contro la parete. Nello schianto perse la balestra, che scivolò sul pavimento lontana da lui. Annaspò e cercò di incamerare quanto più ossigeno poteva per rimettersi in piedi. Il dolore era così lancinante da annebbiargli la vista.
Non passò che un misero secondo e un altro colpo si abbatté vicino alla sua spalla. Il bastone si conficcò nel muro di pietra, ma solo perché Alan si era spostato all'ultimo. Rotolò a sinistra e ripristinò la distanza di sicurezza, stringendo le mani sull'elsa della spada fino a farsi sbiancare le nocche. Tentò un affondo, ma K’yorl lo intercettò e contrattaccò. Il bastone scivolò sulla lama, la fece abbassare e penetrò la sua difesa, abbattendosi sulla spalla. L’impatto fu talmente violento da scagliarlo contro la rastrelliera che cadde con un fragoroso rumore metallico. Senza più fiato, Alan provò a rimettersi in piedi, ma il duca gli balzò addosso e lo colpì sotto lo sterno, spaccandogli di netto due costole. Il dolore si riverberò in tutto il corpo, gli fece tremare le ginocchia, lo piegò in due, e allora ricevette un altro colpo alla testa che lo mandò a terra.
- Tutto qui? Mi aspettavo di meglio. - lo schernì il duca, torreggiando minaccioso sopra di lui.
Alan digrignò i denti e sbuffò. Fece leva sui gomiti per sollevarsi, la mano incollata alla spada, ma non aveva abbastanza forza per difendersi, o per parare la successiva bastonata, che si abbatté sul polso, rompendoglielo.
K'yorl ridacchiò, lo afferrò per il bavero del soprabito e lo tirò su, sino a portare il suo viso all'altezza del proprio. Lo osservò con un sorriso soddisfatto, prima di sbatterlo contro il muro con inaudita violenza. La pietra si riempì di crepe e alcuni detriti misti a polvere caddero giù dal soffitto. La presa sul collo si accentuò e ad Alan mancò l'aria. Scalciò di riflesso, ma sembrava un bambino inerme. Era ridicolo.
- E io che credevo di aver trovato un avversario degno di me. Siete una delusione, Slayer. -
Il duca gli afferrò i capelli, gli fece reclinare il capo indietro e senza esitare, affondò i canini nella sottile pelle della gola. Alan non lo trovò così doloroso come aveva immaginato, ma in un istante si sentì prosciugare di tutte le energie. Percepì il sangue defluire fuori dal suo corpo, e con esso il calore. Aveva freddo. Pian piano perse contatto con la realtà e i suoi sensi si annebbiarono. Gli parve di galleggiare, in bilico tra la vita e la morte, la luce e l'oblio.
Ad un tratto il vampiro si allontanò con una smorfia schifata, allentò la presa e barcollò, sputacchiando il sangue che aveva appena bevuto. Alan si accasciò sul pavimento come un fantoccio, incapace persino di muovere un dito.
- Disgustoso. Quasi quanto il vino all’aglio che mi avete offerto. - sibilò incattivito.
A quella considerazione ad Alan venne da ridere. Sorrise stanco, malignamente compiaciuto, mostrando i denti arrossati. Gli usciva il sangue dal naso e improvvisamente si piegò in due, vomitando sui suoi stessi vestiti.
- Oh, vi ho causato una commozione cerebrale, vedo. Da quanto tempo non mi capitava di pestare una persona fino a quasi spaccargli il cranio? Ah, bei tempi. Eppure pensavo che con quella ricompensa avreste eseguito un lavoro pulito senza crearmi problemi. Invece no, dovevate giocare a fare l’eroe. Come al solito sarò costretto a fare tutto da solo. -
Il duca ghignò sadico e abbatté il bastone sul ginocchio del cacciatore, fracassandogli la rotula. Alan urlò, le lacrime gli appannarono la vista e il dolore quasi lo fece svenire.
- Peccato non ci sia anche lady Ghestia, anche se non credo che farà una piega quando vedrà il vostro cervello spappolato sulle pareti. Non mi è sembrata una ragazza emotiva. - lo girò supino, gli premette un piede sul petto e alzò il bastone sopra la testa, - Addio, Alan. Non sentitevi svilito nell'orgoglio, in fin dei conti avete perso contro il migliore. -
Alan sorrise e il vampiro si convinse che ormai stesse delirando. La botta in testa doveva averlo proprio steso. Si preparò a sferrare l'attacco finale, ma l'altro rimase pacificamente in attesa di un colpo che sapeva non sarebbe mai arrivato: infatti sulla faccia di K’yorl si stava allargando una fitta rete di capillari neri.
Il duca si pietrificò all'improvviso, lasciò cadere il bastone a terra e si portò la mano attorno al collo boccheggiando, livido di rabbia.
- Cosa… cosa mi hai fatto…? -
Alan roteò gli occhi seccato. Si mise a sedere con immensa fatica e racimolò le forze che gli restavano per alzarsi in piedi. Gli occorsero almeno un paio di minuti, durante i quali il duca emise versi gutturali e agonizzanti e crollò definitivamente a terra scosso da spasmi.
- Se proprio volete saperlo, avevo sì mischiato un estratto d’aglio al vino e, com’era prevedibile, lo avete individuato quasi subito. Era poco, ma mi serviva semplicemente per vedere quanto fossero sviluppati i vostri sensi. - spiegò col respiro affannoso, - Ma mi sono premurato di mangiarne un po’ anche io prima di venire qui. Un intero sacchetto, per l’esattezza. Non avete idea di quanta menta ho dovuto masticare per coprire il mio alito. Ho sperato mi mordeste. -
Recuperò la balestra e un dardo che era rotolato fino a lì dalla rastrelliera del duca. Incrociò lo sguardo sofferente del vampiro e si esibì in un ghigno vittorioso. Incoccò e zoppicò fino a cinque passi da lui, giusto per essere sicuro di non mancare il bersaglio.
- Ride bene chi ride ultimo, vostra grazia. -
- No… no, ti prego, non mi uccidere! Ti riempirò d’oro, sarai l’uomo più ricco di tutta New England! Avrai tutto quello che hai sempre desiderato e non dovrai più essere uno Slayer! -
Alan lo fissò a lungo inespressivo. Il duca aveva le labbra esangui, le venule degli occhi gli erano scoppiate e il sangue gli aveva invaso la sclera, colorandola di nero.
- Siate gentile, Alan… - tastò il terreno fino ad afferrargli l’anfibio, - Sono un vampiro e un uomo molto potente. Nemmeno la Dogma potrà toccarvi. -
- Avevo sbagliato sul vostro conto.-
Il vampiro aprì la bocca per parlare, però dalle sue labbra non uscì altro che schiuma rossa.
- Non siete un criminale, ma solo uno sciocco. -
La corda della balestra venne rilasciata e K'yorl sussultò sorpreso, per poi accasciarsi esanime sul pavimento, con il dardo che gli trapassava il cranio da parte a parte.
Alan si concesse un solo sospiro di sollievo e in un secondo si affrettò a raccogliere la spada per concludere l'opera. Non stava messo bene e di sicuro non avrebbe retto un altro combattimento, perciò doveva sbrigarsi. Il suono di passi nervosi che si avvicinavano velocemente, riecheggiando sulle pareti della stretta galleria, lo allarmò e così, senza pensarci due volte, impugnò la spada con la mano sana e tagliò la testa al vampiro. Gli ci vollero più di quattro colpi e alla fine si sentì completamente esausto, ma era più che soddisfatto. Ridacchiò, lanciando uno sguardo feroce al corpo livido del vampiro.
- Non sentitevi svilito nell’orgoglio, K’yorl. Avete perso contro il migliore.-
Si lasciò ricadere pesantemente a terra, con i frammenti di ossa che affondavano sempre di più ad ogni movimento del ginocchio, il sangue che gli inzuppava la maglia e gli scorreva lungo il petto e un fastidiosissimo ronzio nelle orecchie. L’ultima cosa che udì prima di svenire fu un sbuffo e il rumore metallico di un battito d’ali.
 
*
 
- Signorina Rachel, il vostro compagno è…? -
- No, non è morto. Per poco, ma non è morto. -
- Posso fare qualcosa? -
- No, non serve. Si riprenderà. -
Rachel osservò a lungo il viso contratto di Alan e il lento e faticoso movimento del petto. Le ferite che il vampiro gli aveva arrecato erano gravi, ma non letali. Guardandolo ora, con Sebastian che svolazzava qua e là attorno alla sua testa, le risultava difficile associarlo a qualcosa di più che uno Slayer di basso livello. Nelle sue recenti ricerche aveva scoperto da chi discendeva Alan e quella rivelazione non l’aveva lasciata totalmente indifferente: a quanto pareva, Alan era un Sannan, un vero cacciatore, proprio come lei. Ma nonostante fosse figlio del celebre Vincent e della famigerata prima Lilith, fino ad allora non aveva dimostrato nemmeno un briciolo del talento del padre o del potere della madre, come si poteva capire dal rango in cui era stato relegato dalla Dogma.
Sospirò e senza troppa grazia lo afferrò per il polso sano, trascinandolo sul pavimento ricoperto di sangue e vomito della galleria e poi su per le scale. In cima l’attendeva la duchessa Heluna, moglie di K’yorl. Anzi, adesso vedova.
- Comunque, noi abbiamo terminato il lavoro. - annunciò atona.
- Grazie per quello che avete fatto. - rispose la dama e si chiuse un altro bottone del colletto, cercando di coprire il livido violaceo sulla clavicola, - In verità, non avrei mai creduto che il vostro collega avrebbe preso così a cuore il mio caso, sapete? -
Rachel non si scompose, ma quell’ultimo particolare aveva attirato la sua attenzione. Mentre non era occupata nelle sue ricerche, aveva tenuto d’occhio Alan e, a parte la visita all’erboristeria il giorno prima d’incontrare il barone, non le era parso che i due si fossero conosciuti.
- E come sarebbe avvenuto. Il vostro incontro, dico. -
- È stato un caso. Stavo andando da Milva per farmi dare una pomata per… - esitò, - per coprire i lividi, quando lui è entrato e mi si è affiancato. Mi ero scordata di sciogliere i capelli e ha visto i segni dei morsi e, dio, che vergogna. - si strinse nelle spalle, per poi passarsi una mano sulla bocca.
- Vi ha detto qualcosa. -
- N-no, cioè… mi ha solo guardata e poi mi ha posato una mano sulla spalla, come per rassicurarmi. Poi si è fatto dare un sacchetto con un estratto d’aglio ed è uscito. -
Rachel intercettò lo sguardo preoccupato che la donna elargì al cacciatore. Alan aveva il soprabito e la maglia lordi di vomito e del sangue gli usciva dalla ferita alla gola. Il polso destro e il ginocchio sinistro si erano gonfiati e, a giudicare dai mugugni soffocati, il dolore lo stava tormentando anche nel sonno.
- Deve essere curato… - insistette Heluna, ma Rachel si limitò a scrollare le spalle.
- Non è necessario, le sue cellule si staranno già rigenerando. Non state in apprensione per lui. -
- Ma abbiamo un ottimo medico, potrebbe aiutarlo a riprendersi se lo chiamassi ora. -
- Vi ripeto che non serve. Piuttosto, spero abbiate una buona scusa per giustificare la morte di un magnate come vostro marito. -
- Sì, sì, non abbiate timore. Mi occuperò personalmente di tenere a bada i giornalisti. Non vi causerò problemi. -
- Giusto a titolo informativo, mi sono occupata personalmente di eliminare quelle fastidiose spie che vostro marito ci aveva sguinzagliato alle calcagna. -
- Vi ringrazio. Vedrò di farvi avere una ricompensa più sostanziosa.- sospirò e il suo sguardo tornò a posarsi su Alan, - Permettetemi almeno di aiutarvi a portarlo di sopra. Farò chiamare una carrozza, così non dovrete fargli affrontare il viaggio in treno. - aggiunse.
La cacciatrice non disse nulla ed Heluna lo prese come un assenso. Salì rapidamente le scale e subito dopo tornò giù con tre camerieri ben piazzati. Dovevano essere gemelli, considerò Rachel, visto che avevano tutti gli stessi lineamenti. Uno prese Alan da sotto le ascelle, l’altro lo sostenne per i fianchi e l’ultimo si premurò di prendergli le gambe, appoggiandosi sulla spalla quella col ginocchio rotto. Rachel li seguì, camminando tranquilla dietro di loro con Sebastian tra le braccia. Una goccia di sangue le aveva sporcato un lembo della gonna, quella che aveva appena comprato. Schioccò la lingua e scosse la testa, ripromettendosi di acquistarne un’altra alla prima boutique di classe che avesse trovato.
I camerieri adagiarono attentamente Alan sul pavimento di marmo, mettendogli dei cuscini sotto la testa e la gamba offesa. Uno di loro, il più grosso e nerboruto, corse in una saletta sulla sinistra e Rachel lo sentì parlare con qualcuno. Probabilmente aveva telegrafato la richiesta di una carrozza.
- Signorina Rachel. -
La voce della padrona di casa la richiamò alla realtà.
- Cosa c'è. -
- Io credevo che voi Slayer foste estranei alle emozioni. - soffiò cauta Heluna, - Eppure ho avuto l’impressione di aver scorto una luce calda negli occhi del vostro compagno. -
Rachel tacque. D’altronde, non avendo mai provato nessun sentimento, non sapeva nemmeno cosa dirle. Un’altra domanda a cui lui avrebbe dovuto rispondere. Si sistemò una ciocca bionda dietro l’orecchio e, quando il cameriere aprì il portone, li aiutò a caricare il corpo di Alan sulla carrozza.
- Ringraziatelo da parte mia, quando si sveglierà. Ditegli che gli sono debitrice. - pregò la duchessa.
- Come desiderate. Addio. -
Rachel entrò nella carrozza, chiudendosi la porta alle spalle e ordinando al cocchiere di partire. L’uomo impugnò le redini e frustò i cavalli, che partirono al trotto.

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Capitolo 15
*** Act. 2 - Chasterm ***


Slayers
Act. 2 - Chasterm




- Perché non sei intervenuto? Per quale dannato motivo non hai fatto niente? Avevi la balestra, ma sarebbe bastata anche solo la tua presenza per metterli in fuga! - sbottò Eluaise.
Alan si sedette sul letto con un sospiro stanco. Era da quando erano arrivati che lei stava facendo il diavolo a quattro e lui non sapeva che dirle.
- Allora? Rispondi! -
Il cacciatore rimase in silenzio, prendendosi il tempo necessario per organizzare i pensieri. Non gli piaceva vederla arrabbiata, non gli era mai piaciuto, ma sapeva che qualunque giustificazione avesse imbastito l’avrebbe fatta infuriare ancor di più.
- Non avevo motivo di farlo. - spiegò semplicemente.
- Cosa… - Eluaise cadde seduta sulla poltrona, gli occhi sgranati fissi nei suoi, - Cosa significa che non avevi motivo di farlo? -
- Quello che ho detto, Elly: non avevo motivo di intervenire. -
- Avresti permesso a quei tre uomini di stuprare quella donna? -
- Sono intervenuto solo perché temevo per la tua vita. - illustrò conciso.
La ragazza lo fissò incredula. Aprì la bocca per ribattere, ma poi la richiuse senza sapere che dire, le labbra storte in un’espressione indignata, delusa. Non sapeva perché, ma vedere quella smorfia fu come una stilettata al cuore.
Trascorsero svariati minuti prima che Eluaise riprendesse la parola. I suoi occhi lo trafissero, freddi, taglienti come il gelo che aveva attanagliato Eartshire per tutto l’inverno. Sotto quello sguardo Alan si sentiva vulnerabile, esposto, disarmato. Avrebbe voluto dirle qualcosa, ma le parole rimanevano nella sua testa, mute e inespresse, specchio di sentimenti contrastanti che non riusciva più a comprendere.
- Cosa sei diventato, Alan? In cosa ti hanno trasformato? -
- Sono sempre stato così. L’Essenza dell’anima ha solo accelerato un processo già in atto. -
- Smettila. -
- Di fare cosa? -
- Di mentire! - gli afferrò il viso con entrambe le mani, fissandolo dritto negli occhi, - Non è vero che non provi niente, lo sai meglio di me. La vita di uno Slayer è dura, lo so… -
- No, non lo sai. - replicò secco Alan.
Si liberò dalla sua presa, andò allo scrittoio sotto la finestra e prese la bambolina di pezza con gli occhi di bottone, la preferita di Eluaise.
- Tu non sai di cosa stai parlando. -
- Allora parlamene tu. - la voce della ragazza si addolcì, - Parlami, Alan, apriti con me. Sei sempre lontano, scostante, sembra che tu abbia esaurito le cose da dirmi dal giorno in cui hai lasciato la rocca. Posso solo immaginare quanto possa essere difficile quello che fai, ma, ti ripeto, non sei obbligato a farlo. Sei libero di scegliere come vivere la tua vita, e se questo significa lasciare la Dogma… -
- No, è fuori discussione. -
- Ma perché? Spiegami cosa ti trattiene. Non dirmi che pensi ancora alle parole di quel tizio! -
Alan tacque ed Eluaise sospirò esasperata.
Il cacciatore credette che la discussione fosse morta lì, come ogni volta che tirava fuori quell’argomento. Stava già per prendere il pacchetto di sigarette, quando sentì il tocco delicato della compagna sulla guancia. Socchiuse le palpebre e per qualche secondo si godette quella carezza concentrandosi sul battito del suo cuore, quella melodia naturale che lo cullava nei sogni fin da quando erano bambini.
- Non possiamo continuare così. - gli sussurrò.
Non era la prima volta che glielo diceva, eppure questa volta, nella sua voce, Alan percepì una sfumatura malinconica che gli gelò il sangue. Ma, nonostante avesse il cuore pesante, decise di non ribattere. Si limitò a girarle il volto, ad asciugarle le lacrime che le avevano sciolto il trucco e ad abbracciarla, affondando il viso nei suoi capelli rossi, stringendola forte nel tentativo quasi disperato di placare i suoi singhiozzi. Poi la baciò e la spinse a sdriarsi sul materasso, facendo scricchiolare le molle arrugginite e le vecchie assi del pavimento.
Senza mai staccare gli occhi da quelli offuscati di lei, la spogliò con la stessa accuratezza che le riservava a ogni loro incontro, accarezzando ogni centimetro della sua pelle chiara, che alla sola vista gli faceva formicolare le dita. Lentamente l'aria divenne torrida, il silenzio si riempì dei loro gemiti e il tempo sussultò, si arrotolò su se stesso e cominciò a mangiarsi la coda, trasformando quei minuti in un frammento di eternità. Fecero l’amore, cercandosi, toccandosi con attenzione e senza fretta, finché ogni senso non venne appagato.
Quando si abbandonarono esausti tra le coperte, nessuno parlò, forse per non rovinare l'atmosfera, forse perché le parole erano troppo superficiali per dar voce a ciò che sentivano. Si presero il loro tempo e dormirono fianco a fianco per qualche ora, con le fronti appoggiate l’una all’altra con la scusa di schermarsi dalla luce opaca del sole che le tendine scolorite non trattenevano.
Fu solo quando Alan si accese una sigaretta che Eluaise trovò il coraggio di chiedergli se poteva prometterle di smettere di fumare. Il cacciatore inspirò profondamente e annuì piano, spiandola con discrezione mentre lei si rivestiva. Non appena si fu sistemata gli occhiali da aviatore a mo’ di fascia, Alan incrociò il suo sguardo, ma non le permise di leggergli nel pensiero. La ragazza scosse la testa e un sorriso amaro le increspò le labbra. Poi uscì e sparì in strada, inghiottita dal via vai di contadini e operai di ritorno dalle fabbriche.
Passò un’eternità prima che la realtà tornasse a permeare le pareti della piccola stanza e i secondi ripresero adagio e a fatica il loro lento scorrere. Alan guardò fuori dalla finestra a lungo e dopo un po' realizzò con rammarico e sgomento che Eluaise era andata via. Che lui, come un codardo, l’aveva lasciata andare. Rimase solo con quell’ultima sigaretta tra le dita e il sapore di mughetto e uva spina sulle labbra.
 
A svegliarlo fu un continuo e fastidioso sbuffo di un oggetto non identificato. All’inizio, mentre era ancora in quel tiepido dormiveglia, pensò che il calorifero della stanza si fosse rotto. Poi, però, il rumore non cessò e Alan schiuse le palpebre controvoglia, incrociando le pietre rosse che Sebastian aveva al posto degli occhi: il Gemren volava sopra la sua testa, talvolta perdeva improvvisamente quota, ma in un modo o nell’altro riusciva sempre a fermarsi e a tornare in aria prima di cadergli addosso.
- Alan. -
Il cacciatore sospirò e represse un gemito sofferente. Quindi raccolse le forze e si girò per appurare che la presenza che sentiva incombere alla sua sinistra fosse davvero Rachel. Non che avesse molti dubbi a riguardo, non era una voce che si potesse dimenticare tanto facilmente. Con la vista ancora offuscata, posò lo sguardo sulla forma indistinta di quello che ritenne essere il suo viso.
Le persiane alle sue spalle erano chiuse, ma la luce riusciva comunque a filtrare attraverso i listelli.
- Non è stata una grande idea. Sei quasi morto. - gli disse la cacciatrice, prima di alzarsi e andare a tirare le tendine.
Alan fece forza sui gomiti e tentò di tirarsi su, ma un dolore lancinante gli strappò il fiato ancor prima che riuscisse a mettere dritta la schiena. Represse appena un gemito quando Rachel sistemò i due cuscini su cui era stata stesa la sua gamba.
- Ricordi cosa è successo. -
Trasse un profondo respiro e attese che il ginocchio smettesse di pulsare. Ogni minimo movimento era una sofferenza e aveva come la sensazione che ogni filamento fosse stato tranciato di netto. Anche la testa gli faceva male e la fasciatura, assieme all’odore pungente dell’impiastro di cui era intrisa, gli dava il voltastomaco. Per miracolo riuscì a scuotere la testa.
- Immaginavo. Hai un trauma cranico, una frattura scomposta del ginocchio e le ossa del polso sono parzialmente incrinate. Non ho reputato necessario portarti ad Asie, le tue cellule sono in grado di sanarsi senza l’aiuto degli alchimisti. -
Alchimisti, così venivano chiamati i dottori che si occupavano di curare gli Slayers feriti gravemente. Perché chiamarli 'Scienziati nevrotici con manie sadiche' era troppo lungo.
- Vuoi che ti dia una mano a metterti seduto. Forse è scomodo parlare così. -
- No… no, ce la faccio. - esalò e, trattenendo le imprecazioni, raddrizzò la schiena.
Quando riuscì finalmente a sistemarsi, tornò a rivolgere la sua attenzione a Rachel.
- Mi devi delle spiegazioni. - grugnì imbronciato.
- Che cosa ti dovrei dire. -
Alan si sforzò di guardarla in cagnesco, ma anche corrugare le sopracciglia gli provocava delle fitte lancinanti alle tempie. Prima di continuare, dovette aspettare che il dolore si attenuasse.
- Perché non ti sei presentata al luogo dell’incontro? -
La ragazza scrollò le spalle con noncuranza: - Sapevo che ce la potevi fare tranquillamente da solo. Avevo ben altro a cui pensare, piuttosto di perdere tempo dietro a un vampiro di terza categoria. -
- Ti ricordo che ci ho quasi rimesso la pelle. - sibilò.
- Come in tutti le tue vecchie missioni. Sembra che giocare con la morte sia diventato un tuo vizio. -
Stizzito, il cacciatore incrociò le braccia al petto: - E sentiamo, che faccende avevi da sbrigare? -
- Cose. - rispose vaga.
- Che tipo di cose? -
- Cose che ti dirò solo se tu mi rivelerai perché sei andato a chiedere il mio fascicolo. -
Alan ci mise un po’ a fare mente locale, ma non appena lo sguardo si posò sulle carte sullo scrittoio capì a cosa la sua compagna si stesse riferendo e, con non poco fastidio, rammentò anche la notte insonne che quell’infruttuosa ricerca gli aveva portato.
- Cercavo delle informazioni su di te. - rispose asciutto.
- A giudicare dalla tua voce, non hai trovato quel che cercavi. -
- Su quei fascicoli riportano qualsiasi cosa, che ne sapevo che eri speciale? -
- Ma io non sono speciale. Non più di te, almeno. - accavallò le gambe, si appoggiò languida allo schienale della sedia e si mise a guardare il soffitto, - Hai già dei sospetti. -
- È una domanda o una constatazione? -
La ragazza non rispose, troppo impegnata a fissare il nulla. Alan cercò di rimanere tranquillo, di imporsi una stoica e gelida calma come quando doveva parlare con Frejie quando aveva il ciclo. E la maga rientrava in quella tipologia di donne insopportabili anche e soprattutto in quei giorni.
- Ho dei sospetti, ma sono, appunto, solo sospetti. Su quelle carte non c’era scritto nulla di realmente interessante. -
- E perché non sei venuto direttamente da me. -
- Tu andresti a fare un interrogatorio a uno sconosciuto? -
- Sì. -
Il cacciatore si mise una mano in faccia, chiedendosi perché si facesse ancora queste domande.
- E poi sarei io quello che non conosce l’educazione. -
- Qui non c’entra l’educazione. Se vado da qualcuno per sottoporlo ad un interrogatorio, vuol dire che è sospettato di qualcosa. Penso sia più che conveniente per entrambi che tu mi risponda senza fare troppe storie. - gli spiegò pacata, - Comunque, vorrei sapere cosa pensi. Sono quasi curiosa. -
Alan ridacchiò: - Wow, tu che provi qualcosa? Pensavo fossi un Gemren. -
Rachel si mise composta e lo guardò con quei suoi occhi impassibili da bambola, che non esprimevano niente.
- In che senso. -
Come al solito, non aveva capito l’ironia.
- Niente, lascia perdere. - si massaggiò le tempie e trasse un profondo respiro. - Prima, però, vorrei io una risposta: come facevi a sapere come e quando sarei arrivato in città? E come sapevi che sarei andato proprio in quella locanda dove ci siamo incontrati? -
- Io non sapevo dove trovarti. -
- Ma se hai detto che avevi ricevuto l’incarico della caccia del Primigineo! -
- Ah, sì, mi ricordo. - Rachel si grattò il mento, per poi inclinare la testa di scatto, - Ho mentito, ovviamente. -
Alan scosse il capo, confuso: - Che significa che hai mentito? Non c’era nessuna caccia? -
- No, quella c’era. Però non l’ho ricevuta dalla Dogma, l’ho trovata quando sono arrivata in città. -
- Quindi significa che non stavi aspettando nessun compagno. -
- Esatto. Se davvero avessi dovuto fare una caccia comune, avrei richiesto almeno un grado A. - infierì tranquilla, senza tenere in benché minima considerazione lo sguardo inferocito di Alan.
Si era fatto fregare come un babbeo. Altro che ritardato, se Maxwell fosse stato lì avrebbe coniato qualche nuovo nomignolo per l’occasione.
Strinse i pugni, facendo sbiancare le nocche, incurante della fitta dolorosa che il polso gli lanciò.
- Perché mi avresti coinvolto in una caccia di cui non ti interessava nulla? - chiese in un ringhio.
- Non ho mai detto che non mi interessasse. In realtà, ho guadagnato informazioni utili. -
Rachel si alzò e si mise a camminare su e giù per la stanza. Passeggiava lenta e talvolta, prima di posare l’altro piede, si soffermava a fare qualche passo di danza con Sebastian sempre stretto al petto. Con i boccoli biondi che volteggiavano con lei a ogni piroetta, sembra una bambina che si stesse preparando a qualche spettacolo. Ad Alan, guardarla faceva venire mal di testa.
- Allora, adesso che ho risposto alla tua domanda, rispondi alla mia. -
- All’inizio non sapevo che pensare. A un certo punto ho creduto tu fossi una spia che la Dogma mi aveva messo alle calcagna. -
- Perché la Dogma dovrebbe metterti una spia alle calcagna. -
- Rachel, ti prego, smettila di saltellare a destra e a sinistra. -
- Perché. -
- Perché mi dà fastidio! - sbottò.
- A te dà fastidio qualsiasi cosa. - lo rimbeccò lei, ma si sedette sul tavolino con le gambe a penzoloni.
- Dicevo… pensavo che fossi una spia della Dogma, anche se ignoro il motivo per cui mi stanno sorvegliando. - mentì.
Rachel lo fissò intensamente, come se stesse soppesando le sue parole.
- Ma alla fine hai cambiato idea. - concluse per lui.
- In realtà, no. Fino a un minuto fa ero convinto che lo fossi. -
- E non ti sei posto altre domande. -
- Sì, però è inutile che mi ponga ulteriori domande se tu non hai intenzione di rispondere a quelle precedenti. -
- Giusto. –
- Parlando di cose più importanti… ci ha pagato? -
La ragazza annuì e gli indicò un sacchetto sul comodino: - Tieni pure la mia parte, io non ne ho bisogno. Quattromila raie, più il vitto e l’alloggio già pagati. -
Lo Slayer fischiò. Erano molti più soldi di quelli che potesse sperare.
“Peccato che non mi paghino ad osso rotto.”
- Inoltre, Heluna ti ringrazia. -
Il cacciatore la fissò stranito da quelle parole. Nemmeno lui sapeva bene perché avesse deciso di aiutare quella donna, sapeva solo che quando aveva visto quei lividi, si era sentito montare una profonda rabbia dentro. Non avrebbe dovuto provare niente, era un’estranea per lui, eppure… Sospirò scuotendo la testa e fissò il soffitto per un po’. Il mal di testa non accennava a diminuire e le tempie gli pulsavano sempre più. Dovette sforzarsi per parlare.
- In ogni caso, penso che in realtà tu sia un Sannan. –  mormorò.
La ragazza annuì appena: - Corretto. Sono come te. -
- Cacciatrice figlia di cacciatori? -
- Non lo so. È quello che sto cercando di scoprire. -
Alan si sollevò un po’ di più: - Quindi non sai chi sia davvero Lehcar. -
- No, ma forse è l’unico che potrebbe darmi delle risposte. -
Rimasero in silenzio per un po’, ognuno immerso nei propri pensieri. Di tanto in tanto i loro sguardi si incrociavano, ma nessuno dei due sembrava intenzionato a continuare la conversazione. Il più svogliato sicuramente era Alan, mentre Rachel, avendo sempre la stessa faccia, non era sicuro che non si fosse semplicemente incantata a guardare un’altra crepa nel muro.
- Anche tu hai un obiettivo. - disse lei di punto in bianco.
- Sopravvivere. - disse scrollando debolmente le spalle.
- No, è qualcosa di più. È inutile che fai finta di niente, l’ho capito. -
Alan alzò gli occhi al cielo: - E da cosa lo avresti dedotto? -
- Dove sei diretto. - gli chiese, ignorando completamente la domanda del compagno.
- A sud. -
- A sud è un po’ vago. -
“Mocciosa ficcanaso.”
- Non ti deve interessare. -
- Non serve essere scorbutici. - si mordicchiò le labbra, facendo ciondolare con indolenza le gambe, - Io devo andare a Chasterm. -
A sentir pronunciare quel nome, Alan si fece pensieroso. Chasterm si trovava nella contea di Antrim sud, uno dei tanti luoghi dove Frejie gli aveva detto di cercare Eluaise. Da Hargitay erano cinque, o al massimo sei giorni di cammino, ma se avesse preso la ferrovia sarebbero stati lì la sera stessa. Non sarebbe stata una pessima idea provare ad andarci, anche perché era una delle città più avanzate tecnologicamente e dove gli oggetti magici di un certo valore erano facilmente reperibili. Insomma, la meta ideale per i tecnomanti come Eluaise. Inoltre, essendo la sede dei due Ordini più potenti degli shamariti, era molto improbabile che gli Slayers che le stavano dando la caccia si fossero spinti fino a lì: nessun cacciatore sano di mente si sarebbe buttato tra le fauci del lupo di sua spontanea volontà.
- Stai pensando se seguirmi o meno. - tirò a indovinare Rachel.
- Sto ponderando la cosa. - ammise, scivolando sul materasso.
La schiena scrocchiò sonoramente quando fu di nuovo completamente disteso.
- Hai tempo per pensarci. Domani mattina tornerò a vedere come stai. - disse mentre saltava giù dal tavolo.
- Rachel? -
La ragazza si voltò quando già aveva un piee fuori dalla soglia.
- Ti stai per caso preoccupando per me? - ghignò divertito.
- Non so cosa significhi preoccuparsi per qualcuno. Cercherò sul vocabolario e ti farò sapere. -
Prima che potesse chiederle altro, la porta si chiuse alle sue spalle. Ridacchiando, il cacciatore scosse la testa, sprimacciò il guanciale e, quando trovò che fosse diventato sufficientemente morbido, si abbandonò al sonno.
 
- Una casa? - ripeté Alan, allibito.
Eluaise annuì convinta: - Esatto. Quando saremo grandi, andremo a vivere in una casa tutta nostra. -
Alan, che nel frattempo si era avvolto nelle coperte, la guardò con gli occhi ancora socchiusi. Aveva sonno, si erano allenati tutto il giorno, ma quello stanco pareva essere solo lui, visto che Eluaise, fin dal primo momento in cui si erano messi a letto, non aveva fatto altro che parlare, pretendendo di essere ascoltata.
Girò la testa con un grugnito, già arreso alla chiacchierata. Appoggiò il mento sul cuscino così da poterla guardare mentre gli parlava.
- Una casa tuuuutta per noi. - continuò la ragazzina, allargando le braccia e abbracciando la stanza con sguardo sognante, - Io userò la magia per trasportare la legna e tu ti occuperai di darle forma. Tu poi potresti occuparti dei cavalli e delle pecorelle, mentre io mi darò da fare per tenere in ordine l’orto. - si interruppe e si mordicchiò le labbra perplessa, - Però io non so né cardare la lana né tanto meno filarla, quindi… uhm… beh, per quello c’è la magia. Sì, è geniale, potrei insegnare agli spilloni a tessere e a fare dei maglioni da vendere al mercato e… -
- Elly... -
- E coi soldi guadagnati potremmo comprare tutto quello che ci serve. -
- Elly. -
- Zitto, non mi interrompere, perdo il filo! -
- Elly, seriamente, sono le due di notte. Vuoi davvero discutere del nostro futuro adesso? -
- Beh, sennò quando dovremmo farlo? - incrociò le braccia con espressione imbronciata, - Tu non ci sei mai e papà dice che dovrei preoccuparmi dello studio piuttosto che di certe fantasticherie, come le definisce lui. -
- Ha ragione. -
A quella risposta, Eluaise lo guardò in cagnesco. Alan alzò le mani in segno di resa e si mise seduto. Ormai aveva perso il sonno.
- Comunque, dovresti deciderti. Prima dici che vuoi vivere in campagna, poi in città. - le fece notare, - Anzi sei la bambina più indecisa che conosca. -
- Non sono una bambina, ho quattordici anni! -
- Non li hai ancora, li farai tra un mese. E non ringhiare, non sei un cane. - sospirò e si stropicciò gli occhi, - Io penso sia meglio andare a vivere a Chasterm, soprattutto per te che stai studiando per diventare tecnomante. Lì c’è la gilda più grande e importante di tutta New England e, se riuscirai a farti notare, potresti cominciare a lavorare con loro su qualche prototipo magico. -
Eluaise incrociò le gambe e si massaggiò il mento, osservando distrattamente la neve che cadeva fuori dalla finestra con la bambolina stretta al petto. Il pigiama verde acqua gli arrivava a metà polpaccio, lasciando scoperte le caviglie e i piedi avvolti dalle pesanti calze di lana a righe nere e rosse. Ormai era diventato troppo piccolo per lei, ma mastro Liam non aveva abbastanza soldi per comprargliene uno nuovo. Sulle spalle portava lo scialle rosso di sua mamma, quello che profumava sempre di lillà.
- Hai ragione. In effetti sarebbe la scelta adatta. Ma gira voce che Chasterm sia piena di vampiri, che anzi la più grande comunità di vampiri risieda proprio lì. Si vocifera che lo sia addirittura il fondatore della gilda dei tecnomanti. -
- Uh, la piccola maghetta ha paura? - la prese in giro, scatenando una ritorsione a colpi di cuscino da parte dell'amica.
Lo colpì con tutte le sue forze, brandendo il cuscino come se fosse stato una spada affilata e mortale.
- Non ho paura! Sei tu il fifone. -
Stava già per tornare all’attacco, quando Alan cominciò a farle il solletico sui fianchi. Eluaise perse la presa sulla sua arma letale e rotolò di fianco a lui ridendo e dimenandosi come una pazza. Quando finalmente si ritenne soddisfatto, il ragazzo si lasciò cadere disteso con le braccia dietro la nuca.
- In ogni caso, ti proteggerò io. - mormorò sincero e con un piede afferrò le lenzuola che erano cadute sul pavimento, - Anche se noi Slayers saremmo sotto stretta sorveglianza in quella città, non permetterò a nessun vampiro di farti del male. -
- Me lo prometti? - chiese Eluaise gattonando vicino a lui e, ormai stanca, si accoccolò contro la sua spalla.
Alan le spostò una ciocca dagli occhi a le diede un leggero bacio sulla fronte, per poi stringerla forte a sé. Attese che si addormentasse, dopodiché cadde anche lui in un sonno pesante e agitato.
 
Il comandante del corpo di guardia si passò nuovamente le dita tra i radi capelli sudati, lo sguardo fisso sulle carte che Rachel gli aveva consegnato. Gli altri soldati, fermi ai lati della porta, lo osservavano sull’attenti, pronti a intervenire, con i fucili carichi stretti tra le mani. Alan era convinto che l’uomo avrebbe più che volentieri dato l’ordine di sparare, viste le occhiate truci che gli lanciava, ma purtroppo per lui quelle carte li autorizzavano ad entrare a Chasterm. Con un grugnito contrariato si spostò e fece cenno alle guardie di lasciarli passare.
Quando furono abbastanza lontani, il cacciatore riprese a respirare.
- Tu sei tutta matta. -
- Perché. - Rachel inclinò la testa e si grattò la guancia.
Indossava un paio di pantaloni di pelle nera aderenti e un corsetto marrone con cuciture dorate, che avrebbe avuto il compito di mettere in risalto il décolleté, purtroppo inesistente. Come al solito lo stava fissando con un’espressione impassibile, come se non si fosse minimamente accorta del rischio che avevano appena corso.
- E me lo chiedi pure? Se si fossero resi conto che i documenti per il passaggio erano falsi, saremmo stati in guai seri. Non so se hai presente, ma in questa città non siamo molto benvoluti. -
La ragazza alzò un sopracciglio: - I documenti non sono falsi. -
Alan la trascinò a ridosso del muro di un palazzo masticando un'imprecazione. Brunilde, che fino a quel momento era rimasta tranquilla, emise un nitrito irritato quando si sentì strattonare così all’improvviso. Puntò gli zoccoli e tirò le redini, guardando il suo padrone con aria di rimprovero, ma bastò un’occhiata tagliente del cacciatore ad ammansirla.
- Va bene, i documenti non sono falsi, ma avremmo comunque potuto evitare di entrare dalla porta principale. -
Rachel fece spallucce e si guardò intorno, osservando il caotico via vai sulla strada principale.
- Devo andare allo Starway. Vieni. -
- Perché adesso cominci a darmi ordini? -
- Era una domanda. -
Alan alzò gli occhi al cielo e le fece cenno di seguirlo. Era stato solo una volta a Chasterm, però si ricordava a grandi linee come orientarsi.
La città era molto grande e piena di vita, come ci si poteva aspettare dalla metropoli che si era guadagnata la nomea di “Nuova Dranlon”. Macchine vecchie e nuove sfrecciavano sulle strade asfaltate del centro, mentre sui marciapiedi camminavano uomini d’affari, donne con le più bizzarre capigliature, maghi con la barba lunga e gli occhi vispi contornati da profonde occhiaie e tecnomanti che parlottavano a bassa voce e discutevano delle nuove scoperte scientifiche.
Nei cortili dei palazzi dei bambini giocavano rincorrendo un Gemren con le fattezze di un cane. Lampioni a goccia spenti costeggiavano i viali, alternandosi coi pali della luce e del telegrafo che con i loro cavi formavano una fitta rete sopra le teste dei passanti.
Alan udì più volte il rumore dei motori delle aeronavi che solcavano il cielo e cavalcavano i venti, fingendo di fare a gara con le mongolfiere e i dirigibili, che con i loro palloni di stoffa ingrigita e le ali più simili a lische di pesce sembravano dei pigri salmoni in balia delle correnti.
Lasciarono Brunilde a una delle poche locande provviste di stalla nella periferia della città e poi si diressero verso nord, a Levenshulme, battezzato “Quartiere della Perversione” dagli shamariti. Più volte il cacciatore valutò l’idea di prendere la tramvia, ma preferì andare a piedi per godersi il panorama. D’altronde, visto che non c’era nessuna offerta che permettesse a Brunilde di viaggiare con loro, lui e Rachel erano stati costretti a salire su un treno merci per venire fino a lì e il pensiero di andare a infilarsi in un altro spazio chiuso non lo entusiasmava per niente.
Percorsero tutto il viale principale e al terzo incrocio svoltarono a destra, proseguendo su una strada che sembrava inoltrarsi nelle viscere della città. Non c’erano né posti di blocco né Cavalieri della Spada Nera in vista, ma Alan sapeva che quella zona della città era tenuta sotto stretta sorveglianza. Come dicevano le autorità, era per evitare un “ incidente diplomatico”, non certo perché non si fidassero dei loro bizzarri cittadini che, comunque, si erano integrati molto bene. Il quartiere, infatti, nonostante i suoi abitanti, era molto più tranquillo di molte altre zone della città, dove la malavita faceva da padrona, e, sebbene molti edifici fossero ancora in costruzione, i locali esclusivi e più eleganti si trovavano solo lì.
Alan si guardò intorno, incrociando lo sguardo di una prostituta annoiata seduta sugli scalini di un bar, all’ombra di un tendone. I capelli lunghi che erano sfuggiti al chignon dietro la nuca le incorniciavano il viso giovane e spigoloso, ingentilito da un trucco naturale, delicato. La gonna, più corta di quello che il pudore imponeva, lasciava scoperte le gambe lunghe, avvolte dalle parigine dal bordo di pizzo, che facevano coppia col reggiseno che la profonda scollatura dell’abito rosso lasciava intravedere. Lei alzò il mento e gli sorrise ammiccante, mostrando dei canini lunghi e affilati, innaturalmente bianchi. Se non fosse stato per quel dettaglio, sarebbe sembrata una normale umana. Fece cenno ad Alan di avvicinarsi, ma il cacciatore declinò l’invito con un gesto secco della testa e la superò. Nonostante fosse un vampiro, quella donna era decisamente fin troppo giovane per far quel lavoro, ma la prostituzione era un modo rapido e redditizio per far soldi, soprattutto perché i pochi che potevano permettersi quel genere di compagnia erano solo gli uomini più ricchi e facoltosi.
Abbandonarono la via principale e si inoltrarono in una deserta stradina laterale, chiusa da due schiere di edifici fatiscenti e logorati dalle piogge acide, scheletri di ferro arrugginito testimoni dell’incendio che aveva divorato Chasterm vent’anni prima. Alan si calcò meglio il cappuccio in testa e gettò una rapida occhiata alla sua compagna, che invece camminava tranquilla a testa alta.
- Dovresti coprirti. - le consigliò.
- Non piove. -
- I giardinieri grigi potrebbero darci problemi. -
- Non girano a quest’ora, è troppo presto. -
- Va bene, come vuoi. - sbuffò, affondò le mani nel soprabito e tirò dritto senza aggiungere altro, per poi girare l’angolo, consapevole di quello che si sarebbe trovato davanti.
Come ricordava, l’insegna dello Starway era illuminata anche durante il giorno e i cavi di lynium erano stati piegati in modo da dare l’impressione che la luce rossa fluisse come sangue all’interno di essi.
In cima ai sei scalini in pietra liscia, appoggiato allo stipite della porta chiusa, stava un vampiro dai corti capelli neri e gli occhi a mandorla di un azzurro slavato. Indossava una semplice camicia bianca smanicata con sopra una marsina nera, un paio di pantaloni in cotone e scarpe laccate in vernice. A giudicare dal colorito quasi roseo della pelle si doveva essere appena nutrito, anche se qualcosa suggerì ad Alan che si trattava di un umano che si era appena trasformato. D’altronde, se fosse stato un purosangue si sarebbe ricordato di fingere di respirare per sembrare vivo. Quel tizio era completamente immobile e decisamente inquietante.
Non appena li vide, il vampiro raddrizzò la schiena e contrasse la mascella, per nulla contento.
- Slayers, qual buon vento vi porta qui? Credevo che l’accesso alla città fosse interdetto a quelli come voi. - ringhiò scoprendo le zanne.
- Sei sempre così gentile coi clienti? - ribatté sarcastico, avvicinandosi, - Non siamo venuti per cercare guai, vogliamo solo parlare con il tuo capo. -
- Al momento non c’è. -
- Ascolta, non prenderci per il cu… -
- Chris, lasciaci passare. - si intromise Rachel e il vampiro sussultò, ritornando al suo solito colorito pallido.
Senza esitare, si spostò e fece loro segno di entrare, inchinandosi al passaggio della ragazza. Alan la seguì con un’espressione accigliata, appuntandosi nella mente un’altra cosa che le avrebbe dovuto chiedere.
Il buio aveva creato un’atmosfera raccolta e intima e i fumi degli incensi profumavano l’ambiente. Nella sala, piena di liquori e risate, ballavano, parlavano e si rilassavano vampiri di ogni età, tutti rigorosamente con il viso coperto da una maschera, mentre cameriere strette in corpetti di pregiata pelle nera passavano tra i tavoli. Dagli altoparlanti usciva una bassa musica sensuale, che faceva da sottofondo. Un gruppo di donne sedevano al bancone a forma di ingranaggio, il rullo che ne correva tutto il perimetro girava lentamente, quasi a scatti, dando così il tempo ai baristi di preparare i cocktail. Uno di loro attirò l’attenzione di Alan, ma prima che potesse fare alcunché Rachel si andò a sedere proprio davanti a lui.
- Signorina Ghestia, sei stata gentile a passare a farci visita. - la salutò con voce profonda, melodiosa, da baritono.
- Devo farti alcune domande, Qayin. -
Un mezzo sorriso arcuò le labbra dell’uomo e una luce fredda brillò in fondo a quelle iridi color del ghiaccio, così piccole da sembrare due perle turchesi incastonate a forza in quegli occhi da gatto.
- Mi sembrava strano che fossi venuta a divertirti. -
- E io non ricordavo servissi al banco. -
- Purtroppo Jeff e Gwen si sono presi un paio di settimane di ferie e io non ho ancora trovato qualcuno che li possa sostituire. - prese un bicchiere e lo osservò in controluce, per poi prendere a lucidarlo con un panno, - Sei per caso venuta per lavorare? Di solito accettiamo persone con un minimo di esperienza, ma per te possiamo fare un’eccezione. -
Ignorando la domanda, Rachel disse: - Capisco. Beh, le vostre clienti saranno più che soddisfatte. -
- Anche i nostri clienti. Posso offrire qualcosa a te o al tuo amico? -
- Dipende da quanto fate bene i cocktail. - si intromise prontamente Alan, che nel frattempo si era avvicinato.
- Siamo i migliori, ragazzo. - si girò e prese una bottiglia dallo scaffale alle sue spalle, - Hai qualche preferenza? -
- Solo che sia buono e che non ci siano peli. - ironizzò, indicando il boa d’ermellino che girava attorno alle spalle del vampiro.
Qayin sorrise di nuovo, scuotendo la testa divertito mentre tagliava un limone.
Non era un semplice vampiro, questo Alan lo aveva capito, eppure, nonostante l’aura di rispetto che lo circondava, il cacciatore faceva fatica a collegarlo al capo gilda dei tecnomanti. L’uomo che Eluaise gli aveva descritto aveva sempre un’aria assorta, modi di fare affettati e controllati, la divisa sempre perfettamente stirata e linda, così come il suo studio, dove trascorreva la maggior parte del tempo. Ora, invece, con i morbidi e lunghissimi capelli neri che ricadevano languidi sulle spalle, il farsetto aperto che lasciava intravedere il petto nudo e glabro sotto i bordi dorati delle asole e gli occhi truccati con una leggera linea nera, sembrava più un gigolò. Uno terribilmente sensuale, stando alle occhiate languide che il gruppo di donne gli aveva piantato addosso.
- Non hai mai visto un vampiro, ragazzo? Eppure mi sembri esperto. - scherzò Qayin, servendogli un bicchiere con limone, rum e ghiaccio.
Aveva parlato con un tono morbido e sensuale, calcando su quell’ultima parola con un’inflessione che l’aveva resa vagamente oscena.
- Diciamo che non avevo mai visto un vampiro vestito come una puttana. - rispose sincero e sorseggiò il suo cocktail con calma, fingendo di guardare altrove.
Qayin ridacchiò, ma un baluginio minaccioso brillò in fondo in quelle iridi glaciali. Si voltò, allungandosi per leggere il nuovo ordine. Erano appesi a un fil di ferro che passava sopra il primo ripiano degli alcolici e, grazie a dei bracci meccanici che penetravano nel legno, poteva girare attorno al mobile.
- Apprezzo il tuo senso dell’umorismo, cacciatore, ma evita di prenderti troppe confidenze con persone che non conosci. Non si sa mai come potrebbero reagire. - sibilò mellifluo stappando la bottiglia di cognac, i canini che brillavano dietro le labbra sottili.
Alan schioccò la lingua, sostenendo il suo sguardo con un sorriso sgradevole stampato in faccia, che irritò profondamente il vampiro.
- Dovresti portare rispetto. - aggiunse grave.
Ridusse le pupille a due fessure verticali e Alan vide in quelle iridi azzurre qualcosa di familiare, ma non era possibile perchè era la prima volta che lo vedeva. Così si limitò a scrollare le spalle e a seguire disinteressato il percorso del bicchiere, che scorse sul rullo fino alle dita di una donna dal rossetto sbavato e le ciglia incollate dal mascara sciolto. Lei lo guardò appena, per poi coprire lo scollo generoso del corpetto con le mani tremanti e una profonda vergogna negli occhi.
- Allora, cosa dovevate chiedermi? - sospirò Qayin, rivolgendosi direttamente a Rachel, che fino a quel momento era rimasta esclusa dalla conversazione.
- Siamo qui per chiederti delle informazioni su due persone. -
- Sai che le informazioni costano, vero? - assottigliò le palpebre e le lanciò un’occhiata eloquente, ma la cacciatrice non si scompose.
- Smettila di fare così, non sei quel genere di vampiro. -
Qayin assentì senza perdere il sorriso: - Va bene, va bene. Dimmi pure. -
- Vorrei mi raccontassi qualcosa sul Primigineo che regnava su questa città duecento anni fa. -
Il vampiro si immobilizzò. Asciugò il bicchiere e mantenne l'attenzione fissa sull’acqua che scorreva sulle stoviglie sporche nel lavabo, come se stesse riflettendo su ciò che poteva o non poteva dire. O che gli conveniva dire.
Alan aspettò in silenzio, senza perdersi neanche il più piccolo mutamento d'espressione. Avrebbe voluto domandargli se aveva visto Eluaise negli ultimi tempi, ma preferì attendere, soprattutto ora che le carte sul passato di Rachel cominciavano ad essere rivelate. Scrutò di sottecchi la sua compagna.
- Cosa ti interessa sapere di Seanna? -
- Cose personali. -
Qayin sospirò e scosse la testa: - Non vedo perché te ne dovrei parlare. Sono faccende private della comunità. -
Rachel ridusse le pupille a due fessure verticali e il suo corpo si irrigidì, tendendosi come per attaccare, una mano che già accarezzava il calcio della Bladegun.
- Rachel… -
- Ti conviene parlare, non farmi ripetere. - la sua voce non tradiva alcune emozione, così come il suo viso.
Un’ombra attraversò gli occhi del vampiro: - Mi stai minacciando? Qui, nel mio locale? -
La ragazza non rispose. Si misurarono con lo sguardo per alcuni, lunghissimi istanti, durante i quali tutti gli avventori ammutolirono e parvero trattenere il respiro. Gli altoparlanti continuarono a trasmettere una melodia di flauti e violini, ed essa divenne l’unico suono nella sala, mentre sotto gli occhi di tutti si svolgeva la muta conversazione tra la Slayer e il proprietario del locale.
Fu in quel momento che dal fondo della sala si alzò un gran fracasso e un ragazzo vestito con una maglietta stracciata e un paio di mocassini sbrindellati fece irruzione dalla porta. Barcollò tra i tavoli fino ad arrivare a meno di dieci passi da loro.
Alan lo squadrò dall’alto in basso, arricciando il naso disgustato: puzzava di pesce marcio.
- Tu! - urlò, puntando il dito contro Qayin, - Sì, dico a te. È inutile che ti nascondi dietro quel bancone, nessuno dei tuoi scagnozzi potrà più farmi tacere! Ti dichiaro in arresto per l’omicidio del fantasma della signora Maas! -
Qayin si passò una mano sul viso e trasse un profondo respiro. Alan dedusse che non fosse la prima volta che quel tipo veniva a dare fastidio. Poi il vampiro fece un gesto brusco verso i altri camerieri, sparpagliati nella sala. Quelli si avventarono prontamente sullo sconosciuto, che nel frattempo aveva preso a discutere animatamente con il vuoto alla sua sinistra, e lo immobilizzarono.
Lo Slayer si accigliò.
“Sono circondato da soggetti clinici.”

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Capitolo 16
*** Act. 2 - The Medium ***


Slayers
Act. 2 - The Medium



L’ufficio di Qayin era una normalissima stanza piena di scartoffie e libri contabili. Un quadro di una natura morta dipinta ad acquarello era stato appeso vicino allo scaffale che ospitava libri, quaderni e appunti, tutti rigorosamente disposti in ordine cronologico. Sulla scrivania dalle gambe in mogano intagliate a edera poggiava un modellino dettagliato di un’aeronave in scala. Gli infissi dell’enorme finestra circolare a ovest descrivevano dei cerchi concentrici che, assieme al vetro di una colorazione leggermente giallastra, ricordavano il quadrante di un orologio. La luce obliqua del sole filtrava attraverso le tende viola, illuminando appena le gambe di Alan e il viso inespressivo di Rachel. Con sbuffi e sibili, Sebastian svolazzava sulla testa della sua padrona, alternando lo sguardo da Qayin all’uomo sconosciuto, che, dal momento in cui si era accomodato sulla sedia di fronte al vampiro, non aveva smesso di squadrarlo. Il puzzo di pesce marcio aleggiava come una nube mefitica nella stanza.
Il cacciatore scoccò una rapida occhiata al loro “profumato” ospite. Aveva detto di chiamarsi Gabriel e di essere un ispettore di polizia in incognito mandato ad indagare dal capo dei Giardinieri Grigi in persona sui “traffici illegali di quel locale di vampiri dissennati”. E Alan gli avrebbe anche creduto, se non avesse avuto le guance scavate, il viso sporco e le unghie spaccate dal duro lavoro in fabbrica.
“Che pessima copertura.”
Qayin aprì la finestra, quella puzza era davvero insopportabile.
- Allora, mi spieghi bene di cosa sono accusato. - esordì il vampiro, intrecciando le dita davanti al viso e fissando i suoi occhi azzurri in quelli verdi di Gabriel, che però non si fece intimorire.
- Hai sentito benissimo di cosa sei accusato: hai ucciso il fantasma della signora Maas. -
- Va bene. - rispose accondiscendente, soprassedendo sulla mancanza di buone maniere del suo ospite, - E cosa le fa credere che sia stato proprio io a mandarla nell'aldilà? -
- Non l’hai mandata nell'aldilà, l’hai ammazzata, è ben diverso. Io lo so bene. -
La rabbia brillò negli occhi di Qayin solo un istante, per poi svanire in un battito di ciglia. Di certo possedeva un ottimo autocontrollo e una pazienza infinita, questo Alan doveva ammetterlo, anche se rimanere lì in mezzo a due fuochi non lo faceva stare molto tranquillo: non ci teneva a un altro incontro ravvicinato con un vampiro, non così presto.
Alan tossì, cercando di attirare l’attenzione di Qayin, ma il proprietario dello Starway lo ignorò. Rachel non sembrava per nulla interessata allo scontro di sguardi che si stava svolgendo sotto i suoi occhi, tutta concentrata com’era a fissare assorta il soffitto. Infastidito e profondamente scocciato, il cacciatore allungò le gambe e si mise comodo sulla sedia.
- Gabriel, mi ascolti. Io non so nemmeno chi sia questa signora Maas. -
- Ah, no? Non provare a mentirmi, io e Meredith sappiamo che sei stato tu a farle del male! -
- E la signorina Meredith sarebbe…? -
- La mia fidanzata, l’ho già detto. -
- Che può vedere solo lei perché è un fantasma. - completò il vampiro, - Mi ascolti, io non ho ucciso nessuno. Sono il capo della comunità, non ho né la voglia né il tempo di mettermi nei guai con la giustizia. Inoltre, gli Slayers qui presenti possono tranquillamente spiegarle che non bastano i miei poteri a mandare nell'aldilà… -
- Uccidere. -
Qayin trasse un profondo respiro e si sforzò di non saltargli alla gola: - A uccidere un fantasma, dico bene? -
Sentendosi tirato in causa e vedendo che la sua compagna non sembrava intenzionata a rispondere, Alan si affrettò a spiegare sommariamente come l’accusa di omicidio rivolta a Qayin fosse infondata. Non che non lo avesse già fatto mentre Chris, un cameriere, trascinava Gabriel nello studio del suo capo, ma evidentemente oltre ad avere aria nel cervello quel tipo era anche sordo. Davvero, non capiva perché il vampiro perdesse tempo a cercare di fargli capire le cose, quando avrebbe potuto sbatterlo fuori a calci. Lui lo avrebbe fatto.
Gabriel fece saettare lo sguardo dal cacciatore al vampiro, sospettoso. Probabilmente riteneva che corrugare le sopracciglia e parlare a bassa voce con il vuoto gli conferisse un’aura di mistero da uomo vissuto e brillante investigatore.
Dopo qualche minuto passato a discutere con l’aria, Gabriel accavallò le gambe e incrociò le braccia al petto, la mano sinistra posata sotto il mento come a sostenerlo.
- In effetti, mi sono lasciato prendere dalla foga. Meredith mi aveva detto che non eri tu il colpevole e che era più probabile che fosse riuscita a saldare i suoi conti in sospeso e a passare oltre. - fece una pausa a effetto e poi continuò, - Ho appena cominciato il mio lavoro di investigatore e mi sono lasciato prendere la mano. -
- Non si preoccupi, anche io quando avevo la sua età mi andavo sempre a ficcare nei guai. - commentò bonario Qayin, quindi si alzò e gli porse la mano, - Spero non capitino più degli episodi così sgradevoli. -
Gabriel fece lo stesso e ricambiò la stretta: - Non ti preoccupare, adesso che sappiamo che sei innocente, non ho motivo per continuare ad accusarti. D’altronde, sono un investigatore, il mio compito è assicurare i cattivi alla giustizia e, se ti avessi messo dentro per un crimine che non avevi commesso, il mio nome ne avrebbe risentito. -
Il vampiro assentì convinto e lo sospinse verso la porta con un sorriso falso.
- Chris la scorterà fuori. È stato un piacere. -
- Che c'è, non ti fidi? O pensi che un grande investigatore come me non sappia ritrovare la strada? -
Qayin si limitò ad assestargli una pacca amichevole sulla spalla e Alan dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per rimanere serio.
Il ragazzo scosse la testa e si girò tutto impettito con l’intenzione di andarsene, quando qualcosa attirò la sua attenzione. Si bloccò sul posto con un’espressione improvvisamente cupa e meditabonda, si allungò verso lo stipite della porta e rimase così, fermo, come in ascolto, grattandosi di tanto in tanto la zazzera riccioluta che aveva in testa.
- Qualcosa non va? - domandò Qayin.
Gabriel gli mise una mano sul petto e lo spostò appena, cercando con i suoi occhi da furetto qualcosa nella stanza.
All’inizio Alan pensò che stesse semplicemente prendendo tempo per non farsi sbattere fuori, come facevano i pazzi prima di essere trascinati di forza in manicomio, quindi non ci diede peso. Solo in un secondo momento, quando seguì la linea del suo sguardo, si accorse che stava fissando Rachel. Rimase così per un lungo momento, con le labbra schiuse in una smorfia stupita e la fronte aggrottata.
- Gabriel? - Qayin gli appoggiò una mano sulla spalla.
Gabriel snocciolò delle scuse a mezza voce e, senza più voltarsi, uscì dall'ufficio seguendo Chris.
Il vampiro inarcò un sopracciglio, poi scosse la testa e tornò a sedersi.
- Scusate il disturbo. Dicevamo? -
A quelle parole, Rachel si rianimò. Si sistemò dietro le orecchie due ciocche anarchiche che erano sfuggite dallo chignon e posò lo sguardo sul suo interlocutore. In quel movimento quasi annoiato degli occhi non c’era traccia della rabbia di prima.
- Stavamo parlando di Seanna. - gli ricordò.
- Ah, sì. -
Qayin congiunse le mani in grembo e si girò a guardare fuori dalla finestra. Il cielo si era scurito e adesso una fitta coltre di nuvole rovesciava sulla città l’acqua sporca che ormai chiunque vivesse a Chasterm conosceva. Le gocce grandi e pesanti come olio che si abbattevano sull'acciottolato con una violenza degna di un acquazzone estivo avevano svuotato le strade. Nel vicolo illuminato appena dall’insegna dello Starway e di qualche lampione sembrava che la notte fossa calata in anticipo.
Chris e un altro vampiro sostavano sotto il cornicione dell’edificio con un’espressione impassibile sul viso, incuranti del vento e dell’acqua che stava infradiciando i loro vestiti. Entrambi si limitarono a calcarsi meglio il cappuccio sulla testa e rimasero immobili e vigili.
Alan focalizzò l'attenzione su Qayin. Il vampiro non sembrava molto in vena di parlare. Fissava malinconico un punto imprecisato al di là del vetro, lasciando vagare lo sguardo su quel vicolo buio e deserto. Più volte si morse il labbro inferiore e cambiò posizione sulla sedia. Non era nervosismo, c’era qualcosa di più in quella sua reticenza nel parlare, come se riesumare quei ricordi gli facesse male. Quando alla fine si decise, un velo di lacrime annacquava l’azzurro di quelle iridi gelate.
- Cosa vuoi sapere di Seanna? -
- Tutto. Io… - Rachel esitò, - Io non so niente di lei. -
Qayin rimase in silenzio per alcuni istanti, studiando la cacciatrice con attenzione. Il viso di Rachel non esprimeva alcuna emozione e l’unico indizio che indicasse un minimo interesse era la luce che brillava in fondo agli occhi azzurri.
Alan non sapeva esattamente cosa il vampiro si aspettasse di vedere, d’altronde la manifestazione emotiva di poco prima era stato un avvenimento che aveva quasi stupito persino lui. Rachel incarnava il prototipo dello Slayer perfetto e, per quanto fosse un Sannan, nessuno alla Dogma si era mai premurato di far emergere quella parte umana che l’assunzione dell’Essenza dell’Anima doveva erodere. Uno Slayer che provava ancora dei sentimenti era un esperimento fallito, un cacciatore debole, incapace, carne da macello che la Dogma non sopprimeva soltanto perché sarebbe stato controproducente, viste le grandi perdite che la loro creazione comportava. Non sapeva se Qayin fosse consapevole di star aspettando una reazione che non sarebbe mai arrivata, ma quando udì lo schioccare infastidito della lingua contro il palato, capì che aveva afferrato l'antifona.
- La comunità di vampiri è stata una delle prime ad integrarsi tra gli umani. Certo, non è stato facile. Non eravamo puramente dei mostri venuti da un altro mondo per cibarci del loro sangue, ma col tempo si resero conto che eravamo molto più utili da vivi che da morti. La nostra esperienza millenaria era preziosa e le nostre conoscenze magiche costituivano un frutto troppo invitante per i maghi. - serrò le labbra in un sorriso amaro e scosse la testa, - Quasi tutte le gilde magiche contano ai loro vertici capi della nostra stirpe, siano essi Primiginei, Matrone o Sangue Sporco, persino i Giardinieri Grigi vantano tra le loro fila Dhampir di seconda o terza generazione. Come al solito, gli umani hanno risparmiato solo quei mostri che potevano essere utili alla loro causa e sterminato tutti quelli che consideravano una minaccia per la società. -
Qayin si alzò e si avvicinò a uno degli scaffali accanto alla scrivania, le dita intrecciate dietro la schiena.
- Tuttavia, trecento anni fa non era così. - aggiunse in un sussurro nostalgico.
- Rimpiangi l'era oscura, Qayin? Quelli in cui gli umani erano il vostro bestiame? - sputò sarcastico Alan, guadagnandosi un’occhiata tagliente.
- No, ma non nego che si stava molto meglio che adesso. In ogni caso, non ho intenzione di discutere di questo, l’argomento della conversazione è un altro. -
Rachel lo studiò di sottecchi. Sebastian continuava a svolazzare intorno a lei, sbattendo freneticamente le ali.
- Durante quegli anni, io ero un vampiro molto giovane. Non mi interessavo agli scontri di potere all’interno della comunità, che vedevano alternarsi una Matrona, poi un Primigineo e poi di nuovo una Matrona. Ci azzannavamo alla gola l’un l’altro come dei cani rabbiosi, questo perché c’era sempre qualcuno che voleva primeggiare, che voleva scalzare il capo di turno perché non riusciva ad accettare questa o quell’altra regola. Le solite cose, insomma, alla fine sono più o meno gli stessi problemi che hanno gli umani. Prima che io prendessi le redini, c’era una vampira, una Matrona, che era riuscita a conquistare il potere senza grandi spargimenti di sangue. Il suo vero nome sarebbe impronunciabile nella lingua umana, così i più la ricordano come Seanna. Non adottò mai un cognome, all’epoca erano pochi i vampiri che volevano uniformarsi ai costumi umani, ma tra tutti i capi è stata forse una delle più giuste. A onor del vero, nemmeno lei si interessò mai di come i suoi fratelli conducessero la loro esistenza, limitandosi a intervenire solo nei momenti più tesi. Non so se si possa definire una brava politica, ma sicuramente fu un’ottima guida. -
- Il suo castello era nelle paludi di Ferwal. - la voce atona di Rachel lo interruppe.
Qayin ponderò se aggiungere o meno un punto interrogativo alla frase della ragazza.
- Come fai a saperlo? -
La cacciatrice scrollò le spalle: - Era solo una domanda. -
Qayin piegò le labbra in un mezzo sorriso: - Sì, viveva nelle paludi di Ferwal, anche se non ti saprei dire esattamente dove. Girano molte leggende su di lei. Una di queste vuole che fosse capace di manipolare le nebbie e che anche dopo la sua morte esse abbiano continuato a nascondere il suo castello. Molti credevano che il suo maniero fosse stato costruito nel regno delle fate e quegli acquitrini pieni di mostri altro non erano se non un’immagine ingannatrice, che, assieme a quell’eterna foschia, fungeva da barriera magica creata dalle fate stesse. Comunque non è sopravvissuto nessuno per raccontarlo, né gli avventurieri del passato né gli alchimisti che hanno tentato di bonificare la zona sud di Ferwal. - trasse un profondo respiro e i suoi occhi, persi nei ricordi, si rabbuiarono, - Seanna viveva da sola, circondata solo dai pochi servitori che avevano deciso di loro spontanea volontà di restare quando lei aveva ucciso il vecchio proprietario. Di tanto in tanto veniva in città, ma con l’andare del tempo si fece vedere sempre meno, finché un giorno un gruppo di cacciatori non la trovò e la uccise. Ancora mi chiedo perché, visto che Seanna era sempre stata brava a far sembrare tutte le morti accidentali. -
- Non sai altro. -
- Deduco che anche questa sia una domanda. - sbuffò divertito.
La ragazza annuì e Qayin, ancora una volta, sospirò, scuotendo la testa.
- No, purtroppo non so altro. L’unica cosa che ricordo è che uno dei cacciatori si chiamava Lehcar. -
Alan lanciò un’occhiata alla sua compagna per vedere se quel nome aveva suscitato una qualche reazione in lei, ma incontrò la solita espressione granitica.
- Ti ricordi solo di lui. -
- Non so dirti altro. -
- Non puoi o non vuoi. -
- I muri hanno le orecchie, Rachel. - spostò lo sguardo sulla porta, - Occhi e orecchie. -
Rimasero tutti in silenzio, in ascolto. La pioggia ticchettava sulla finestra, scivolando in sparute, oziose gocce lungo lo spesso vetro. La risata di una donna arrivò alle loro orecchie, attutita e ovattata, come se provenisse da un altro mondo. Forse c’era davvero qualcuno che stava origliando la conversazione, d’altronde era il compito dei Giardinieri Grigi tenere sotto controllo i mostri.
Alan ebbe l'impressione che Qayin non avesse più la forza di parlare. Probabilmente sapeva molto di più di quello che aveva raccontato, ma erano informazioni che non aiutavano a completare il quadro della situazione, erano quel genere di dettagli che addolcivano la memoria di un lontano ricordo rendendolo ancora più atroce, ancor più vivido, ancor più sanguinante della vita passata che rievocava.
Con un movimento estremamente lento, il vampiro chiuse le tende, come se bastasse quel semplice gesto a tenere fuori il dolore, mentre la luce fredda dei lampioni proiettava sul suo viso l’ombra delle gocce come lacrime nere.
- Non ho altro da aggiungere. - sancì e nessuno ebbe niente da ridire.
Inaspettatamente, la prima ad alzarsi fu Rachel. Si sistemò i pantaloni e si legò i capelli in una banale coda laterale.
- Voglio chiederti solo un’ultima cosa: chi erano i servitori del castello. Mi basta solo un nome. - la sua voce tremò, - Per favore. –
A rispondere fu il lento scrosciare della pioggia lungo la grondaia. Con un sospiro arreso la ragazza gli diede le spalle e raggiunse Alan, che l’attendeva sulla soglia dell'ufficio.
- Meredith. - disse infine Qayin.
Rachel arrestò il passo.
- Meredith Greenword. Era una ragazzina di ventitré anni, non so che fine abbia fatto. -
La cacciatrice indugiò per qualche altro istante, dopodiché, realizzando che Qayin non avrebbe detto nient'altro, imboccò l'uscita.
La porta si richiuse senza emettere un cigolio, ma il proprietario dello Starway sapeva di non essere ancora solo.
- Ho detto che non ho altro da aggiungere. - ringhiò spazientito.
- Non è per questa Seanna che sono rimasto. - replicò Alan pacato, avanzando verso di lui, - Conosci una certa Eluaise Strauss? -
- Dovrei? - chiese, girandosi di tre quarti per osservare lo Slayer, vagamente incuriosito.
- Sì, è una delle tecnomanti della tua gilda. -
- Da quando voi Slayers vi interessate ai membri della mia gilda? -
- Rispondi semplicemente alla domanda. -
- Direi che prima dovresti rispondere tu. - Qayin incrociò le braccia al petto e piegò la testa di lato, riversando la sua attenzione sul modellino dell’aeronave, - Allora? Perché vuoi saperlo? -
Alan serrò la mascella e ingoiò un’imprecazione. Se non fosse stato l’unico a sapere qualcosa su Eluaise, lo avrebbe mandato a farsi fottere seduta stante.
- Oh, ma che faccia da cane rabbioso che hai. E dire che hai un così bel faccino… - sogghignò mentre si avvicinava e, afferrandogli con finta delicatezza il mento, lo costrinse a fissarlo, - Per essere uno Slayer, sei davvero carino, lo sai? - la sua voce era suadente e carezzevole quasi quanto il tocco leggero sul petto, - Se non fosse che hai un pessimo sapore, non mi farei problemi a scoparti. Mi piacciono i tipetti come te. –
Alan boccheggiò, colto alla sprovvista. Non avrebbe mai immaginato che Qayin fosse dell'altra sponda. A un tratto, la sensazione di aver già visto quegli occhi allungati, azzurri, glaciali tornò vivida e gli annodò lo stomaco. Un attimo più tardi si ridestò e digrignò i denti. Gli agguantò con forza il polso e lo allontanò con un violento strattone, senza però indietreggiare a sua volta, anche se avrebbe voluto mettere quanta più distanza possibile tra sé e quella sanguisuga.
- Non mi toccare. - sibilò, gli occhi ridotti a fessure e le dita strette nei palmi chiusi.
- Altrimenti che fai? Mi uccidi? Non penso che ti convenga, Alan, sono l’unico che può darti le informazioni che tanto desideri. Alla gilda nessuno parlerà, i nostri membri si proteggono l’un l’altro e sicuramente non apriranno mai bocca, tanto meno con te. -
“Troia.”
Alan lo spintonò e marciò fino alla porta, maledicendo se stesso per aver anche solo sperato di ricevere delle informazioni da una puttana.
Uno sbuffo spazientito lo bloccò quando stava abbassando la maniglia.
- Siete tutti così teatrali? E dire che siete stati creati per non provare sentimenti. - lo sbeffeggiò Qayin, appoggiando le terga alla scrivania e aggiustando il boa d’ermellino attorno al collo, - Comunque sì, la conosco, ma non sono autorizzato a parlarti di lei per via del… -
- Sì, lo so, il patto di segretezza. - sospirò frustrato, - Ascolta, mi serve solo sapere se l’hai vista in questi ultimi mesi e se hai qualche idea su dove possa essere ora. -
Qayin si mordicchiò le labbra assorto. Alan non avrebbe saputo dire se stesse davvero pensando a ciò che gli aveva chiesto oppure se si stesse crogiolando in una qualche fantasia sessuale con loro due come protagonisti. Nel secondo caso, lo avrebbe infilzato in mezzo alle gambe.
- L’ho vista un paio di settimane fa. Disse che era qui per salutare, ma era agitata. Da quando Eartshire è stata distrutta so che ha passato molto tempo lontana dalla gilda. Diceva che aveva bisogno di tenere la mente occupata. Però, quando l’ho incontrata, non mi sembrava nemmeno lei. Sembrava una fuggitiva e, soprattutto, puzzava di paura. Ho provato a parlarle, ma non mi ha detto niente a parte che non poteva fermarsi a lungo. È ripartita tre giorni dopo, proprio quando in città sono entrati degli Slayers con uno speciale mandato di cattura. -
Senza volerlo, Alan si irrigidì: - Non sai altro? -
- No. Ho anche provato a individuarla, ma credo sia in possesso di qualcosa che respinge la mia magia. -
“Come aveva detto Frejie.”
- Va bene, grazie, mi sei stato di grande aiuto. - rispose asciutto, nascondendo a fatica una smorfia.
- Uh, la tua freddezza non fa altro che accendere i miei bollenti spiriti, Alan. - gli sorrise ferino e tentò nuovamente di avvicinarsi, ma il cacciatore si era già defilato, sbattendo la porta alle sue spalle.
Ad attenderlo fuori, inaspettatamente, c’era Rachel, che si era rifugiata sotto la tettoia in attesa che cessasse di piovere. In realtà il temporale si era tramutato in una pioggerellina obliqua e fastidiosa, ma nessuno dei due aveva voglia di bagnarsi.
- Mi sembri arrabbiato. -
Alan le scoccò un'occhiata irritata e scrollò il capo: - Odio la pioggia, mi mette di cattivo umore. -
La ragazza lo scrutò con attenzione, come se stesse cercando di capire se gli stesse dicendo la verità o meno, ma alla fine non ribatté.
- Penso andrò a cercare quel tipo strano. - disse in tono neutro.
- Chi? Gabriel? -
- Ha detto che il fantasma che l’accompagnava si chiamava Meredith. -
- Sei proprio disperata, eh? -
- Da qualche parte bisogna pur iniziare. Tu cosa farai. -
- Perché ti interessa? -
- Non ho mai detto che mi interessasse. -
Alan ghignò e si spostò una ciocca argentea dietro l’orecchio: - Devo andare alla gilda dei tecnomanti. -
- Capisco. - socchiuse le palpebre e si scrocchiò le dita, - Ho delle conoscenze lì. -
- Perché vuoi aiutarmi? - indagò stranito, senza davvero aspettarsi una vera risposta.
Un grosso gatto bianco e nero sbucò da un vicolo laterale e corse a nascondersi dietro un sacco dell’immondizia. Sentendosi osservato, alzò di scatto la testa e squadrò con un’occhiata infastidita Alan. Questi ricambiò lo sguardo e il felino sgranò gli occhi giallo-verdi, scoprendo i canini bianchi e soffiando al suo indirizzo.
- L’hai fatto innervosire. -
- Lo so. Gli animali ci percepiscono come una minaccia. -
Rachel sembrò pensarci un attimo e annuì: - Tutti hanno paura di noi, anche se non siamo dei mostri. -
- Davvero pensi che non lo siamo? -
- Se lo fossimo, uccideremmo gli umani. -
Alan incrociò le braccia dietro la nuca e si appoggiò al muro, sempre sotto lo sguardo ostile del gatto.
- Lo sai meglio di me che prima o poi tutti gli Slayers lo diventano. -
- Noi no. Noi siamo Sannan. -
- Ma ancor prima di essere Sannan siamo Slayers. E le nostre scelte sono chiavi che non aprono nessuna porta. -
Il cielo si stava aprendo, permettendo così alla luce del sole di tornare a scaldare l’aria gelida prima del tramonto. Quando una striscia dorata illuminò il vicolo, il gatto si guardò indietro, osservando i sacchi dell’immondizia da cui era scappato. Infine sgusciò via, rintanandosi chissà dove.
Alan si staccò dal muro e affondò le mani nelle tasche del soprabito. Aveva le dita intorpidite e la pelle gli tirava dolorosamente sopra le ossa.
- Hai davvero delle conoscenze alla gilda? -
- Sì. -
- Allora andiamo. -
- Non prima di aver parlato con Gabriel. -
Rachel puntò lo sguardo in direzione del vicolo da cui era spuntato il gatto e fece un lieve gesto a Sebastian, che svolazzò in quella direzione.
Un’imprecazione seguita da una serie di urli sgomenti li raggiunse, mentre un Gabriel fradicio e impaurito schizzava fuori dall’ombra. A quella vista, Alan non riuscì a trattenere un sorriso maligno.
- Allora te ne eri accorta. -
- Il gatto mi è stato d’aiuto. -
- Però anche l’odore. -
- Sì, in effetti non ci sono ristoranti di pesce nella zona. -
Rachel fissò la scena con i suoi occhi inespressivi, poi chiuse le palpebre e chiuse la mano a pugno. Sebastian, che fino a quel momento non aveva fatto altro che rincorrere in cerchio un Gabriel spaventatissimo, si fermò e planò tra le braccia della sua padrona. Il ragazzo gli lanciò un paio di insulti molto coloriti, ma quando si rese conto chi fosse il proprietario di quel maledetto Gemren ammutolì, rimanendo impalato a fissare prima Rachel e poi Alan, evidentemente sorpreso di vederli. Solo quando i due lo intrappolarono contro il muro gli tornò l’uso della parola.
- Co… cosa volete da me? Non stavo facendo nulla! - balbettò in preda al panico.
- Vogliamo solo parlare. - disse la ragazza.
Alan lo tenne d’occhio per evitare che fuggisse. Non che ce ne fosse realmente bisogno, Gabriel tremava come una foglia, ma lo divertiva vederlo così teso e impaurito. Se non fosse stato per l’olezzo di pesce marcio che lo avvolgeva, se la sarebbe sicuramente goduta di più. Ringraziò di aver fatto una colazione leggera quella mattina.
- Se… se non mi lasciate andare chiamerò gli altri Giardinieri Grigi e… -
- Non vogliamo farti del male, ma se opporrai resistenza non mi farò problemi a spaccarti tutte le ossa. Per parlare basta che le ossa del cranio siano intatte. -
- Eh? Che stai dicen… -
- Zitto. - gli intimò Rachel.
Gabriel obbedì docile, ma non smise di tremare.
La cacciatrice, soddisfatta, ritirò la mano dalla Bladegun e si rilassò: - Per prima cosa, hai bisogno di un bagno caldo, poi risponderai alle mie domande. Su, sbrighiamoci, non si arriva a casa delle persone in ritardo, sia mai che siano già a tavola. -
Se possibile, il colorito del ragazzo divenne ancora più pallido, tant’è che Alan temette che stesse per svenire. Fortunatamente non lo fece. Deglutì e si accinse a seguire Rachel con la coda tra le gambe, mansueto come un agnellino.
Prima di allontanarsi, Alan gettò una rapida occhiata alle sue spalle, ma non vide nessuno, nemmeno i due buttafuori dello Starway. Quindi si calò il cappuccio sulla testa e si incamminò, scansando con grazia le pozze sull'acciottolato dissestato.

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Capitolo 17
*** Act. 2 - Past ***


Slayers
Act. 2 - Past



I rintocchi di una campana riempirono l'aria. Alan ne contò sette. L’insegna rovinata della Boulangerie attirò subito la sua attenzione. Affrettò il passo e si affiancò a Gabriel, che sostava lì davanti. Sperò che l’amico di Rachel non avesse venduto tutti i dolci della giornata e, considerando il vicolo in cui la pasticceria era imboscata, c’erano buone possibilità che il suo desiderio si realizzasse. Ora che guardava bene il negozio, dubitava seriamente che avesse dei clienti, visto che, più che un salottino di classe, ricordava la bottega di un meccanico.
Si avvicinò con lo stomaco brontolante, notando solo in un secondo momento che la sua compagna stava bussando alla piccola porta di ferro battuto.
Quasi immediatamente questa si aprì e sulla soglia comparve una ragazza che Alan non poté che definire stravagante. Nella sua lunga carriera di Slayer aveva avuto a che fare con druidi, streghe, maghi, ibridi e persino Oracoli e, anche se molti si erano adeguati alle mode dei tempi, altri, soprattutto quelli che vivevano in città più piccole, continuavano a mantenere l’aspetto che si sarebbe trovato in qualsiasi libro di fiabe. Quella giovane donna, invece, sembrava uscita direttamente da una fucina. Era alta, magra quasi da far spavento, con il seno appena accennato sotto la fascia verde militare, che era poi l’unico indumento che aveva addosso assieme alla gonna corta sporca d’olio e gli anfibi mezzi slacciati. I capelli bianchi tagliati corti sul lato destro erano tenuti fermi da degli occhiali multilenti, simili in tutto e per tutto a quelli di un orafo, stretti sotto il mento da una spessa cinghia, mentre le orecchie erano coperte da un paio di cuffie in rame e cuoio imbottito. L’occhio di vetro nell’orbita destra catturava la luce dei lampioni e brillava di un lucore lattiginoso. Nonostante tutto però, Alan dovette ammettere che aveva un certo fascino.
Mon amie, da quanto tempo che non ci vediamo? - esclamò la sconosciuta, abbassandosi per abbracciare Rachel, che si limitò soltanto a un semplice “ciao” appena sussurrato, - Oh, e loro chi sono? - si mise le mani sui fianchi e squadrò prima Alan e poi Gabriel, - Capisco che tu abbia qualche problema a socializzare, chérie, ma potresti evitare di portarmi a casa gente puzzolente. Pour Shamar, ma questo da quanto non si fa una doccia?! - 
- Samuelle, possiamo entrare. Gabriel ha bisogno di lavarsi. -
- Cosa? -
- Ha bisogno di lavarsi. - ripeté Rachel, paziente.
- Ma per chi mi hai presa? Per un bagno pubblico?! -
- Sebastian ha anche bisogno di manodopera. -
A quelle parole Samuelle si fece seria. Incrociò le braccia al petto, passandosi una mano in quei ciuffi ribelli e scrutando con una smorfia contrariata prima Rachel e poi Sebastian, che muoveva le ali a scatti tra le braccia della sua padrona. Alla fine, borbottando qualcosa tra i denti, fece loro segno di entrare.
Attraversarono una stanza ben poco illuminata, piena zeppa di tavoli stracolmi di fili, cavi, rotelle, Gemren mezzi smontati e tutti gli attrezzi che si sarebbero trovati in qualsiasi officina. Dopodiché uscirono sul retro della casa e sbucarono in un cortiletto melmoso, al centro del quale c'era quella che un tempo doveva essere stata una semplice rimessa, ma evidentemente qualcuno l'aveva ristrutturata e resa una vera e propria casa. Il catenaccio in lynium della pesante doppia porta penzolava mosso dalla brezza della sera, mentre le gemme viola che contornavano la serratura emettevano una luce cupa, opaca. Senza attendere oltre, Samuelle entrò, seguita dai suoi strambi ospiti.
Non appena Alan varcò la soglia, la porta si chiuse silenziosamente alle sue spalle. Nell’anticamera spoglia e ampia che lo accolse vide tutte le finestre aperte, ma scommise che non fosse per arieggiare l’ambiente. Gabriel si guardava intorno circospetto, mormorando di tanto in tanto qualcosa che il cacciatore non si premurò di ascoltare. Infastidito com’era, avrebbe voluto girare i tacchi e andarsi a cercare una vera Boulangerie, ma a quell’ora era ormai tutto chiuso. Imprecò di nuovo e con sguardo truce avanzò in quella che doveva essere la sala, ma sembrava più la cantina di una casa abbandonata, con i vestiti accatastati sulle poltrone, il pavimento ricoperto di fogli scarabocchiati e le finestre sporche munite di pesanti grate arrugginite.
“Ma che mi aspettavo? È amica di Rachel, è ovvio che sia stramba.”
Si lasciò cadere pesantemente sull’unica sedia libera. Dall’altro lato della stanza, su una poltrona imbottita dietro a un tavolo ingombro di libri, chiavi inglesi e chiodi di varie misure, si sedette Samuelle, mentre Rachel e Gabriel si appoggiarono alla parete.
Quando Sebastian planò sul tavolo, la ragazza lo rivoltò e con estrema attenzione cominciò ad allentare le varie viti dietro la testa. Il cacciatore la osservò armeggiare in silenzio, attratto dai movimenti sicuri delle sue mani, e immaginò il suo tocco delicato e attento sul corpo, le sue dita sottili sul suo petto, le sue unghie conficcate nella schiena. Si morse l'interno di una guancia e distolse lo sguardo, cercando di pensare ad altro, ma i suoi occhi inevitabilmente tornavano sempre su di lei, su quelle forme appena accennate che però sembravano stregarlo. Era da troppo tempo che non accarezzava una donna e d'un tratto si scoprì a provare un bisogno fisico quasi urgente. A fatica si costrinse a rilassarsi.
- Il bagno è lì. - con il cacciavite Samuelle indicò a Gabriel una porta sulla sinistra, - Prosegui fino alla fine del corridoio, non puoi sbagliare. Lo scaldabagno dovrebbe essere pieno, ma non ne sono sicura. Bon, in ogni caso fai in fretta e cerca di non sporcare, perché mia sorella ha pulito stamattina e potrebbe tentare di affogarti se vedesse qualche macchia. Ah, però aspetta, se non hai dei vestiti puliti puzzerai di nuovo. - si fermò un attimo e si mordicchiò le labbra riflettendo, - Credo di avere ancora da qualche parte i vestiti di mio fratello. Bah, li cercherò. Ora fila a lavarti, sennò vomito su Sebastian. -
Come se non avesse aspettato altro, Gabriel sparì nel corridoio semibuio.
Alan si chiese distrattamente se non avesse fatto meglio a sorvegliarlo per sventare una sua eventuale fuga, ma in fin dei conti non gli importava granché. Allungò le gambe e si mise comodo, conscio che avrebbe dovuto aspettare il ritorno di quel caso clinico per soddisfare la propria curiosità. Le due ragazze si misero a parlottare tra loro, incuranti della sua presenza. Gli parve che di tanto in tanto l’amica di Rachel gli lanciasse delle occhiate cariche di significati nascosti, ma non riuscì a capire di che natura fossero. Fatto sta che avvertì una cascata di brividi caldi attraversargli il corpo e dovette obbligarsi a concentrarsi su altro.
- Ho ricevuto la tua lettera. Allora è vero. - soffiò Samuelle, girando Sebastian ed estraendo con le pinze la pietra verde dal petto. -
La cacciatrice annuì: - Sì, forse lui potrà darmi delle risposte. -
L'amica aprì il cranio di Sebastian e cominciò a sfilare i fili di lynium, stando bene attenta a non staccarli dalle gemme rosse.
- Non pensi che sia ora di lasciarsi il passato alle spalle? Stai perdendo tempo e scoprire la verità non cambierà nulla. -
- Io voglio solo una spiegazione. - replicò con un tono di voce più alto del solito.
- Quella dei capi non ti è bastata? -
- Mentivano. Loro mentono sempre. -
Alan aggrottò le sopracciglia e drizzò le orecchie, fingendo di guardare fuori dalla finestra.
Samuelle alzò la testa e incrociò gli occhi inespressivi della ragazza: - Lo so benissimo, ma, ti ripeto, il passato è passato. Sono sei anni che lo cerchi e non hai mai trovato niente. Sappiamo entrambe quanto tu sia scrupolosa, non credo che ti sia sfuggito nulla. Forse dovresti rassegnarti all’idea che lui potrebbe essere morto. - le prese una ciocca e gliela mise dietro l’orecchio, la luce bianca della lampadina che si rifletteva nell’occhio di vetro, - Devi andare avanti. -
- La mia vita dipende da questo. -
- Perché tu vuoi che sia così. -
- No. - Rachel si ritrasse di scatto, - Tu non puoi capire. -
- Capisco molto più di ciò che pensi, chérie. - mormorò scuotendo la testa, per poi tornare a occuparsi di Sebastian.
Nella stanza calò un silenzio carico di parole non dette, interrotto soltanto dal rumore dell’acqua corrente e dalla voce stonata di Gabriel che cantava nel bagno. Stava intonando una canzone da taverna, una di quelle che Alan aveva sentito tanti anni prima in un paesino tormentato dagli attacchi di un grifone.
Con gli occhi socchiusi, il cacciatore scrutò il volto di Rachel, studiando la mimica del suo corpo, la rigidità delle spalle e gli occhi vuoti e privi di calore che fissavano un punto indefinito sopra la testa di Samuelle. Il corsetto lasciava scoperta la schiena e, anche se di scorcio, Alan poté vedere la pelle perfettamente intatta, senza cicatrici o rune incise a fuoco su ogni vertebra sporgente. I Sannan non ne avevano bisogno. Ciononostante, faticava ancora a vedere in quella ragazzina dall’aspetto di una quattordicenne una delle Slayers più temute. E poi quella fame di risposte era troppo umana per appartenere davvero a una come lei. Se non fosse stato nella sua stessa situazione, avrebbe pensato che fosse sintomo di follia, una sorta di infezione che stava risvegliando quella parte che un cacciatore avrebbe dovuto disprezzare, perché sinonimo di debolezza. A entrambi avevano iniettato virus che li avevano tenuti tra la vita e la morte per giorni, fino a quando non si erano svegliati per morire di nuovo e per sempre. Eppure adesso eccoli lì, alla ricerca della causa e la cura per quel morbo.
Si passò una mano sul viso, nascondendo un sorriso amaro dietro le ciocche argentee e rosse. Quando rialzò lo sguardo, incrociò quello di Samuelle. Per un attimo si rimase incantato a fissarla, mentre un familiare formicolio gli faceva accapponare la pelle e tendere i nervi, rendendolo impaziente.
In quel momento dei passi attirarono la sua attenzione e, voltandosi, vide un Gabriel sorridente e finalmente pulito che camminava verso di loro fischiettando. Ora che si era lavato, sembrava quasi una persona normale, anche se i capelli ricci avevano ancora l’aspetto di un nido di rondini. Alan si domandò anche dove avesse preso i vestiti puliti, visto che nessuno era andato a portargli un cambio. Non appena entrò nella stanza, Rachel gli fece cenno di avvicinarsi e, a discapito di quello che il cacciatore pensava, il ragazzo obbedì senza fare storie. Forse il bagno lo aveva fatto rinsavire.
Mentre la sua compagna lo attendeva con la sua solita faccia inespressiva, Samuelle non sembrava particolarmente felice di vederlo con addosso quegli abiti. Lo squadrò da capo a piedi con una smorfia e l'altro si pietrificò.
- Lo sai che non si entra nella camera delle signore senza chiedere il permesso? -
- Io… io, veramente... -
Samuelle afferrò un martello e lo fulminò con un’occhiata minacciosa: - E se ci fosse stata mia sorella nuda? E se io avessi deciso di andarmi a cambiare e mi avessi sorpresa senza vestiti? O se ci fosse stato il mio amante col pene all’aria? -
“Sì, e già che ci siamo anche un vampiro pervertito nell’armadio.”
- Io… davvero, mi avevi detto che... cioè, io… - balbettò Gabriel nel panico.
- Ti avevo detto che ti avrei portato io i vestiti, non che eri libero di frugare nell'armadio. - scandì ringhiando.
- Ma non potevo venire di qua senza niente! - provò a obiettare.
La ragazza si alzò e, con la penna del martello puntata al pomo d’Adamo, lo costrinse a indietreggiare.
- Ribadisco il concetto. Non entrare mai più nella mia stanza senza il mio permesso. Ti è chiaro? -
- Sissignora. -
- Vedo che ci siamo capiti. - sibilò e buttò giù i vestiti da una sedia, che spostò vicino a quella di Rachel, quindi si rimise al lavoro come se niente fosse.
“Un’altra donna bipolare… non ne posso più.”
Alan affondò le mani nelle tasche con un sospiro sconsolato. E dire che lui voleva solo mangiare una ciambella.
Dopo un attimo di silenzio, Rachel prese la parola e si rivolse a Gabriel.
- Bene, veniamo al sodo. Immagino tu ti stia chiedendo perché ti abbiamo portato qui. -
“Tu ce l’hai portato, non mi coinvolgere.”
Gabriel annuì e abbassò lo sguardo come un bambino in attesa della punizione. Un leggero tremore gli scuoteva le spalle e aveva intrecciato le dita talmente forte da far sbiancare le nocche.
- Voglio sapere chi è Meredith. -
Il ragazzo la guardò piuttosto sorpreso: - Perché ti interessa? -
- Rispondi alla domanda. -
A quelle parole seguì un lungo silenzio, durante il quale l’interrogato, sempre più nervoso, cominciò a tormentarsi le mani e a mordicchiarsi il labbro, occhieggiando la stanza in cerca di una via di fuga. Ma tutte le finestre erano sbarrate da delle pesanti grate e vicino all’anticamera si era seduto Alan. Dal canto suo, il cacciatore l’avrebbe pure lasciato fuggire, se non fosse stato conscio delle conseguenze che quel gesto avrebbe portato con sé. Così sfoderò il suo ghigno più feroce e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, trapassandolo con un’occhiata minacciosa. Come previsto, Gabriel distolse immediatamente lo sguardo.
- Meredith è… è la mia fidanzata. -
- È un fantasma. -
- S-sì. - rispose incerto, - Sì, è un fantasma. -
- Ottimo. Sai dirmi quando è morta. -
- È una domanda? -
- Ovvio che è una domanda. -
Alan dovette reprimere una risata.
- Beh, no, dovrei… dovrei parlare con lei. -
- Non puoi chiederle se può manifestarsi anche a noi. -
Gabriel tossì, più per prendere tempo che per reale bisogno. E anche per capire che tono dare alla frase della cacciatrice.
- Sì, potrei. - rispose dopo un momento, - Però non so se ha abbastanza forza. In alternativa potrei farmi possedere, così che… -
- Basta che mi fai parlare con lei. - lo interruppe Rachel.
Il ragazzo assentì. Socchiuse le palpebre, forse per ascoltare cosa aveva da dire il fantasma, e un secondo più tardi il suo corpo ebbe uno spasmo e si abbandonò contro la sedia con la testa rovesciata all’indietro. Lo fissarono tutti, stupiti e nervosi. Persino Samuelle depose Sebastian sulla scrivania per osservare la scena.
Passò un lungo e stancante minuto prima che si rialzasse e, quando finalmente si rimise dritto, Alan capì immediatamente che quello non era Gabriel. Non più, almeno.
- Sei Meredith. - esordì Rachel atona.
Samuelle indietreggiò spaventata, lo sguardo fisso in quegli occhi vitrei, con le iridi verdi talmente slavate da sembrare due macchie in mezzo al bianco della sclera.
Gabriel, o Meredith, sorrise. Si prese il suo tempo per studiare Rachel, come se volesse imprimersi nella memoria ogni singolo dettaglio del suo viso.
- Sì, sono io. Sono Meredith. - rispose infine con voce flautata.
- Perché mi stavi guardando. -
- Pensavo a quanto le somigli. -
- Quindi tu mi conosci. - chiese.
- No, ma conoscevo chi ti ha messa al mondo. - sorrise di nuovo e le accarezzò la guancia.
Rachel si ritrasse di scatto, ma Meredith non sembrò offendersi. Ritirò il braccio e congiunse le mani in grembo, senza distogliere lo sguardo da lei.
- Tu… tu conoscevi… - esalò esitante la cacciatrice.
- Seanna. Come ti ha detto Qayin, vivevo al castello con lei. Ero la sua cameriera, una delle poche umane che aveva deciso di servirla. Anzi, oserei dire l’unica, visto che l’altra, Gwenna, era un fantasma. - si coprì la bocca, soffocando una risata, - In effetti, a parte me, nessuno della servitù era umano. -
- Perché hai deciso di servirla. -
- Erano tempi difficili e qui, ad Antrim sud, la carestia aveva sterminato la mia famiglia. Ero troppo piccola per andare in fabbrica e troppo magra e debole per lavorare nelle miniere di carbone. All’epoca non c’era nessuna legge che regolava il lavoro minorile, quindi i disperati erano costretti a impiegare i loro figli nella valle carbonifera vicino alle paludi di Ferwal, per poi vederli morire dopo un mese per difterite, poliomielite o soffocati sotto una frana. Cercai un’occupazione a lungo, ma nessuno voleva un’orfana ossuta e sporca nel suo negozio. Persino quando parlai con l’uomo che poi mi mise in mano un piccone dovetti pregarlo per farmi assumere. - storse le labbra e scosse il capo, - La paga era irrisoria, le razioni scarse e non potevo mai fermarmi per non scatenare l’ira dei controllori, ma almeno potevo mangiare e, se risparmiavo, riuscivo anche a comprarmi qualche dolcetto. Andò avanti così per un paio di mesi, finché un giorno non fui mandata a lavorare in una delle gallerie più instabili. Era un luogo freddo e umido e il legno delle protezioni reggeva appena il peso della terra, ma ovviamente non potevo rifiutarmi. Così, assieme ad altri sei bambini e una decina di uomini, andai a scavare lì, consapevole che non ne sarei più uscita. Quando la terra tremò, mi ero ormai avventurata fin troppo in profondità perché riuscissi a scappare. Il legno cedette e i massi seppellirono i miei compagni, mentre gli altri, gli adulti, furono abbastanza veloci da fuggire al crollo. Non so per quanto tempo rimasi svenuta. In realtà, non so nemmeno come abbia fatto a salvarmi. Quando mi risvegliai ero sola, al buio, con una torcia nella tasca dei pantaloni. Camminai a lungo con quell'unica luce a farmi da guida, dapprima imboccando tunnel a caso, poi mi concentrai per distinguere un qualsiasi segno di vita. Una leggenda che girava in miniera raccontava che una galleria portasse fuori dalla valle e che chi fosse riuscito a percorrerla tutta senza perdersi sarebbe entrato nel mondo delle fate. E io ci credevo, volli crederci, in fin dei conti era l’unica speranza che mi rimaneva. -
Pardon, che hai detto? Fate? - la interrogò Samuelle, protesa in avanti sul tavolo con gli occhi ridotti a fessure.
- Sì, fate. -
- E ci sei arrivata? - chiese ancora, rinserrando la presa sul martello con cui aveva minacciato Gabriel, ma non appena incrociò quello sguardo così profondamente triste il braccio cadde arreso lungo il fianco.
- No. Sono svenuta prima di arrivare alla fine della galleria. Ero sopravvissuta per un paio di giorni mangiando il pane raffermo che avevo in tasca e bevendo dalle fiasche che avevo rubato ai miei compagni morti, ma non era bastato. Ero troppo stanca per continuare. Ricordo di aver sperato che le fate mi portassero in salvo e così è stato. - riportò l'attenzione su Rachel, - Fu tua madre, Seanna, a salvarmi. -
Alan scoccò un'occhiata alla sua compagna, che ora sedeva rigida sulla sedia, con gli occhi azzurri pieni di sgomento.
- Ha fiutato il mio odore e mi ha portata nel suo castello. - proseguì Meredith, - Durante i primi tempi ebbi paura di lei, ma poi capii che lì ero al sicuro e che lei non mi avrebbe mai fatto del male. Decisi di servirla per gratitudine. -
- E poi cosa è successo. -
Meredith sorrise di nuovo, ma non c’era calore in quello stiramento di labbra.
- Purtroppo sono morta in modo violento e i miei ricordi, quelli abbastanza vividi, sono pochi. - allungò la mano e le alzò con delicatezza il mento, - Tu e Seanna avete gli stessi occhi. Erano azzurri come i tuoi, un po’ allungati come quelli di un gatto. Ad essere sincera, sei la sua esatta copia. -
- Di mio padre cosa ricordi. -
Fece un sospiro stanco e si abbandonò contro lo schienale: - Di lui ricordo poco, solo che era molto gentile con me. Seanna lo prendeva in giro perché aveva un cattivo sapore. -
- Fai uno sforzo, ti prego. - insisté Rachel, la trattenne per una mano e la strinse forte, ma le dita di Gabriel scivolarono via e il braccio cadde inerte lungo il fianco, mentre pian piano gli occhi si chiudevano.
- Mi dispiace… ho… ho molto sonno… -
- No, per favore, non ora... - la voce le tremò e si incrinò, per poi spezzarsi in un gemito di frustrazione.
Sotto lo sguardo attonito di Alan e Samuelle, la cacciatrice scosse il corpo di Gabriel, all’inizio senza metterci troppa forza, poi affondò le unghie nelle spalle e lo scrollò con vigore. Se non fosse stato per l’intervento tempestivo di Alan, avrebbe continuato fino a fargli perdere i sensi. Quando riuscì a staccarla da lui, Rachel parve trasformarsi in una bambola senza vita. Continuò a fissare Gabriel a lungo, con gli occhi sbarrati, mentre nelle pupille dilatate, nascoste da un velo di lacrime, si agitava una tempesta di sentimenti che mai Alan si sarebbe aspettato di vedere.
La trascinò di peso sulla sedia dall’altra parte della stanza e la costrinse a sedersi, ma Rachel non oppose nessuna resistenza. Se ne stava lì, immobile, contemplando con aria vacua la poltrona dove ora Samuelle aveva fatto accomodare Gabriel. Alan la osservò indeciso, cercando di interpretare tutto il ventaglio di emozioni che lentamente si stavano inabissando di nuovo dietro lo sguardo inespressivo della cacciatrice: rabbia, diffidenza, preoccupazione, angoscia e, infine, sollievo. C’era anche altro, ma, prima che lo Slayer potesse capire di cosa si trattasse, un mormorio sommesso attirò la sua attenzione.
Gabriel si era alzato e aveva appoggiato le mani sul tavolo da lavoro di Samuelle. Era esausto, lo si poteva notare dal tremore del corpo e dal pallore sul suo viso. La possessione doveva averlo sfinito, eppure in fondo a quelle iridi verdi brillava una fredda determinazione.
- Ha… ha detto che ti porterà. - disse con un fil di voce.
Rachel non rispose, forse aspettando che Gabriel si spiegasse.
- Meredith ha detto che ti porterà al castello di Seanna. - concluse, poi si accasciò al suolo, svenuto.
 

*

 
Dopo che un Gemren a forma di usignolo le ebbe consegnato il messaggio della sorella, che le annunciava che non sarebbe tornata, la padrona di casa diede a Rachel la propria camera e si fece aiutare da Alan a sistemare Gabriel nel divano-letto in quella della sorella.
Anche Samuelle avrebbe voluto riposare, ma c’erano mille e più pensieri che le vorticavano nel cervello, così decise di rintanarsi nel suo studio e mettersi a lavorare su un prototipo di braccio meccanico che le avevano commissionato pochi giorni addietro. Prima però si recò in cucina, afferrò due birre da un rudimentale frigorifero e ne offrì una ad Alan, invitandolo ad accomodarsi dove più gradiva. Quindi prese di nuovo posto alla scrivania e si impose di non far caso al suo ospite, che si era seduto su una sedia vicino alla porta della stanza. Di tanto in tanto lo osservava, ammaliata dallo strano colore dei capelli del cacciatore. Non era strano vederne uno con i capelli argentati, poiché, in base a quello che le aveva raccontato Rachel, era una mutazione che si riscontrava spesso in coloro a cui era stata impiantata la carne di un necrumanoide, però quelle ciocche rosse erano un dettaglio strano. Aveva pensato fossero tinte, ma poi, a un esame più approfondito, si era resa conto che erano naturali. O, quantomeno, così sembrava, visto e considerato che era una tecnomante, non una parrucchiera.
- Qualcosa non va? -
- Come? -
Samuelle sussultò e si accorse che Alan la stava fissando. Arrossì e si aggiustò gli occhiali multilenti, dissimulando l’imbarazzo con uno sbadiglio.
Alan ripeté la domanda e la ragazza scrollò le spalle.
- No, no. Sono stanca e mi sono incantata a guardare i tuoi capelli. Spero di non averti infastidito. - si scrocchiò le dita e si grattò il collo.
- Solo un po’, ma ormai ci ho fatto l’abitudine. -
Samuelle sospirò. Doveva aspettarsi una risposta simile, in fin dei conti quel tipo era uno Slayer come Rachel, anche se gli sembrava meno impassibile della sua amica. E di certo più affascinante.
Bevve un altro goccio di birra e si passò la lingua sulle labbra, gustandosi i residui di schiuma. Anche il cacciatore sorseggiò la sua, spostando pigramente lo sguardo da una parte all'altra dello studio, soffermandosi giusto qualche secondo su alcuni oggetti sparpagliati qua e là.
- Hai qualcosa di più forte? - le chiese.
Samuelle gli indicò la cucina con un cenno. Alan si alzò e dopo qualche istante tornò con una bottiglia di vodka e due bicchierini.
- È quasi l'una. Non vuoi andare a dormire? - domandò Samuelle, un sorriso appena accennato ad arricciarle gli angoli della bocca.
- Vorrei, ma la sedia non è un buon posto dove riposare. - ridacchiò, mentre le versava da bere.
- Sì, in effetti hai ragione, non ci avevo pensato. Mi dispiace, ma Rachel non mi aveva detto che sarebbe venuta con qualcuno, sennò mi sarei organizzata. -
- Non ti preoccupare. Sono abituato a dormire anche all’addiaccio, non morirò. - sbuffò, buttò giù la vodka in un sorso e si lasciò cadere di nuovo sulla sedia, - Tu e Rachel siete amiche da molto? -
- Sì, diciamo di sì. In realtà, non so se lei mi consideri veramente un'amica, però sì, la conosco da un bel po’ di tempo. -
- Capisco. -
- Per me è come una sorella, le voglio molto bene e senza di lei non sarei qui. - indicò l’occhio di vetro ridacchiando, - È stato grazie a lei se me la sono cavata solo con un occhio e un orecchio in meno. -
- Sei una delle sopravvissute all’incendio di vent’anni fa? -
- Sì. -
- Magia? - indagò, versandosi un altro bicchierino.
- Anche chirurgia, nonostante debba dire che senza le cure di quella buon’anima di Ludwik non penso sarei nemmeno sopravvissuta alla prima notte. E poi c’è Rachel, che mi ha tirata fuori da quell’inferno. - prese la bottiglia e si riempì a sua volta il bicchiere, - Tu, invece? Che mi dici di quel colore di capelli così bizzarro? -
Alan fece spallucce: - Diciamo che sono un tipo originale. -
- “Strano” penso sia il termine più adeguato. -
- Touché. -
Il sorriso sulle labbra di Samuelle si allargò. Non aveva spesso occasione di parlare con un uomo: in generale le persone avevano paura di lei, soprattutto quando si toglieva gli occhiali multilenti e vedevano i segni delle bruciature. Istintivamente li sfiorò per essere certa di averli ancora. L’ultima volta che era stata con un uomo e li aveva tolti, quello era scappato a gambe levate. Da quel momento aveva preso l’abitudine di indossarli sempre, in qualsiasi circostanza.
- Quindi domani andrete alle paludi? -
Alan, che si stava servendo altra vodka, si immobilizzò con la bottiglia inclinata sopra il bicchiere.
- Sì. -
- Non sembri particolarmente felice. -
- Io aiuto Rachel, lei aiuta me. Mi sembra uno scambio equo. -
- Più che giusto. - convenne, mentre spegneva la luce e accendeva una candela, - Se posso sapere, cosa stai cercando di preciso? -
Alan tacque un istante, come se stesse valutando se fidarsi o meno. La luce incerta della candela proiettava delle ombre danzanti sul suo viso e Samuelle ebbe la sensazione che la fiammella sparisse in quegli occhi, inghiottita dalle iridi verdi che ricordavano quelle di un felino. Avvertì il bisogno di baciarli, ma lo represse serrando i pugni.
- Sto cercando una persona, una ragazza che faceva parte della gilda dei tecnomanti. Rachel mi ha detto che conosce qualcuno lì che potrebbe darmi delle informazioni. -
- Non mi stupisce. Un po’ di tempo fa facevo parte della gilda dei tecnomanti anche io, ma dopo l’incidente mi sono ritirata a vita privata e ho aperto un negozio mio. - si appoggiò allo schienale della sedia e accavallò le gambe, senza prendersi affatto la briga di coprirsi le cosce che la gonna lasciava scoperte, - Magari, se in questi giorni andate, prova anche alla gilda degli alchimisti. -
Il cacciatore la scrutò con espressione enigmatica, accarezzando con gli occhi la pelle nuda delle gambe, fin dove le ombre si insinuavano in zone più nascoste.
- Si sono unite qualche anno fa, mi pare. - commentò distratto.
- Sì, esattamente tre anni fa. Quando vai, chiedi di mia sorella Temarie: sicuramente avrà scorto la tua amica, magari saprà anche dirti con chi parlare. -
- Grazie. -
- Sempre disposta ad aiutare gli amici di Rachel. - sollevò il bicchiere in alto e ammiccò, - Santé, Alan! -
- Alla tua, Samuelle. -
Bevvero ancora e poi calò il silenzio.
Samuelle non sapeva esattamente come continuare la conversazione. Sentiva lo sguardo di Alan addosso, intriso di desiderio. O forse era solo l'alcool che aveva appiccato un incendio dentro di lei, risvegliando i ricordi spiacevoli di quella notte in cui tutto era cambiato. Era stata opera di un gruppetto di vampiri giovani, che si erano intrufolati e avevano fatto saltare una delle tubature sotterranee. Faceva molto caldo, era un'estate molto afosa e il fuoco era divampato subito, senza il minimo controllo. Lei e molti altri non avevano potuto fare granché. Nonostante avessero tentato di forzare le porte del magazzino, alla fine le fiamme li avevano raggiunti prima che arrivassero i pompieri. Le avevano detto dopo che erano state bloccate con la magia. Samuelle aveva visto il proprio corpo bruciare assieme a quello dei suoi compagni, la cui unica colpa era stata quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ancora oggi si svegliava di soprassalto nel cuore della notte con le loro urla nelle orecchie.
Tracannò la vodka e sbatté il bicchiere sul tavolo.
- Devo la vita a Rachel. S’il te plaît, aiutala ad andare fino in fondo a questa storia. - aggiunse con voce incerta e il cuore pesante.
Alan sprigionava un odore fresco di erba e di sudore che le pungeva le narici e le dava alla testa, ma si impose di controllarsi, perché sapeva che era l’alcool a farlo apparire così bello ai suoi occhi. Normalmente non avrebbe mai trovato attraente un ragazzo così giovane, eppure non riusciva proprio a smettere di fissarlo.
- Te l’ho detto, Samuelle. È un aiuto reciproco. - ripeté a bassa voce e quella frase inoffensiva assunse un nuovo significato nella penombra della stanza.
La ragazza si alzò e torreggiò su di lui braccia conserte: - Non la ingannerai? -
- Non ho motivo di farlo e non lo farò. - rispose sincero, poi si mise in piedi, posò una mano sul suo viso e con l’indice sfiorò la bruciatura che i capelli candidi lasciavano scoperta.
Samuelle si mosse prima che potesse elaborare un singolo pensiero. Non seppe cosa la spinse a baciarlo, ma in quel frangente non le importò delle conseguenze del suo gesto. C’era solo il presente, le mani di Alan sul suo corpo, sotto la fascia che le copriva il seno e sotto la gonna, le sue dita che la violavano piano e al contempo con bramosia, urgenza. Non fu affatto dolce, ma nessuno dei due avrebbe voluto che lo fosse.
Samuelle si ritrovò nuda in un batter d'occhio, piegata a novanta gradi sulla scrivania. Quando Alan le aveva tolto la biancheria, quasi strappandogliela di dosso, per un attimo si era fermato a guardarla, accarezzando la pelle scoperta con una fame animale, quasi rabbiosa, gli occhi che brillavano come quelli di un predatore.
Era solo sesso, un'unione di corpi priva di amore o carezze, fine a se stessa.
Samuelle fece appena in tempo a indicargli il cassetto dove teneva la scatola dei preservativi di gomma, poi Alan le tolse gli occhiali multilenti e, per nulla impressionato dalle ferite, affondò nelle sue umide carni, strappandole un gemito strozzato. Il suo corpo fremeva sotto le sue spinte vigorose, si inarcava docile per dargli più piacere e riceverne altrettanto, mentre il cacciatore si appropriava di lei con furia. Samuelle lasciò che quel desiderio cocente le invadesse le vene spazzando via ogni resistenza, incurante del fatto che i suoi gemiti potessero svegliare i due ospiti, incurante delle cicatrici sulla pelle, delle bruciature e del dolore, incurante di tutto ciò che c'era al di fuori di quella stanza piena di pezzi meccanici, gemme e cavi. Le sue membra arsero come quella notte, ma in modo più piacevole, e il mondo dai suoni ovattati che la circondava da anni la cullò nel suo abbraccio.
Cambiarono spesso posizione, due animali affamati l'uno dell'altra e mai sazi dei rispettivi sapori. Si cercarono come pazzi, con avidità e ingordigia, come se non lo facessero da anni, come se l’astinenza fosse ancora un pericolo reale, una catena pronta a separarli alla fine di ogni amplesso. Non si dissero niente, non ce ne fu bisogno, perché i gesti valevano più delle parole. Lasciarono che fossero i loro corpi a dialogare, fino a quando non caddero stremati sul pavimento, nudi, ansimanti e ancora intimamente legati.
Solo allora Samuelle si concesse di sbirciare Alan e in quegli occhi celati appena dalle palpebre socchiuse scorse un uomo. A un tratto, la sensazione di essere tra le braccia di un essere che nascondeva il suo vero io dietro un corpo giovane l’assalì, ma durò solo un istante, il tempo di un battito di ciglia ed era già passata così com’era venuta.
Si rivestirono alla bell'e meglio e si addormentarono abbracciati, scaldati dal calore della loro pelle e da una coperta spiegazzata rubata da un cumulo di vestiti ammassati a terra.
Per la prima volta dopo tanti anni dall’incendio, Samuelle non sognò le grida dei suoi compagni.

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Capitolo 18
*** Act. 2 - Fairyland ***


Slayers
Act. 2 - Fairyland



La mattina dopo Alan fu il primo a svegliarsi. Sgusciò fuori dalle coperte senza fare il minimo rumore, stando bene attento a non svegliare Samuelle. La osservò dormire per qualche secondo, prima di imboccare il corridoio per dirigersi in bagno. Era una stanzetta di pochi metri quadrati, con una vasca di rame posta nell’angolo tra la finestra ovale e il lavandino. Controllò la lancetta dello scaldabagno e, dopo aver appurato che ci fosse abbastanza acqua calda, si spogliò. Si strofinò per bene e a lungo, godendosi ogni singola goccia di quella carezza liquida. Non appena percepì il freddo sulla pelle, uscì dalla vasca. Si rivestì rapidamente e tornò nello studio, dove sorprese Samuelle mentre indossava un paio di pantaloni marroni strappati sulle cosce. Alla vista delle cosce nude, percepì di nuovo la morbidezza della sua pelle sotto le dita e avvertì l'impulso di toccarla, ma si trattenne. La luce del giorno aveva spazzato via l'intimità che aveva permeato quel piccolo ambiente durante la notte, come se le tenebre avessero voluto creare le condizioni perfette per renderli complici di qualcosa che i raggi del sole non avrebbero mai concesso.
Rimasero in silenzio per qualche istante, poi la ragazza ruppe il ghiaccio.
Bonjour, dormito bene? - domandò sorridendo.
- Sì, direi proprio di sì. - rispose sbuffando e fece scrocchiare il collo.
- Anche se siamo andati a dormire tardi? -
Il cacciatore stirò le labbra in un ghigno e si aggiustò il soprabito. Samuelle si infilò una canottiera bianca e lanciò sulla poltrona tutti i vestiti sparpagliati per terra.
- Hai bisogno di qualcosa? -
- Se avessi un cambio da darmi, te ne sarei immensamente grato. -
- Uhm… - Samuelle si mordicchiò le labbra e si ravvivò i capelli con un’espressione meditabonda, - Penso di sì, dovresti cercare nel baule in camera mia, anche se non sono sicura siano della tua misura. Mio fratello non era certo uno stangone come te. -
- Non c’è che da provare. -
- Se poi non ti stanno non ti lamentare, eh! -
- Non oserei mai. - ridacchiò schermendosi e strappò una risata a Samuelle.
- Bussa prima di entrare, sia mai che Rachel si stia cambiando. -
- Sissignora. -
Ovviamente, quando fu davanti alla porta si premurò di bussare, anche se continuava a chiedersi perché dovesse avere tutte queste attenzioni nei confronti della cacciatrice. Quando era alla Rocca, si cambiavano tutti nello stesso spogliatoio, maschi e femmine, e non era di certo la prima volta che vedeva una donna nuda, anche se a ben pensarci definire Rachel una donna era come dire che una rosa e una patata erano la stessa cosa.
- Rachel, sono Alan. Posso entrare? -
- Sì, vieni pure. - disse Gabriel.
Alan si accigliò e rimase interdetto per qualche attimo. Quindi aprì la porta e, se prima era solo confuso, adesso era decisamente allibito. Sbatté le palpebre una o due volte, giusto per sincerarsi di non stare ancora dormendo. Rachel era seduta davanti allo specchio e dietro di lei c'era Gabriel, che le pettinava i capelli, tutto concentrato a districarle i nodi con delicatezza. Le setole della spazzola accarezzavano gentilmente la lunga chioma bionda di Rachel, che non sembrava affatto turbata.
- Se avete da fare, torno dopo. -
- No, no, abbiamo quasi finito. -
Gabriel afferrò un elastico e cominciò a intrecciare le ciocche, fermandosi ogni volta che lo reputava necessario per bloccarle i ciuffi ribelli con delle forcine.
Sul letto c’erano dei calzini spaiati e una o due camicie a manica corta, e, nascosti sotto un tappeto di maglioni, sbucava l’orecchio morbido di un coniglio di peluche. Aguzzando la vista, Alan ne scorse ben sei sotto le lenzuola, più due o tre coperti da una maglietta rossa che giaceva abbandonata come un panno sporco sotto il davanzale della finestra.
Senza ulteriori indugi, si diresse verso il baule rosso vicino all’armadio, zigzagando agile tra i libri e i vestiti buttati a terra. Si inginocchiò astenendosi dal commentare e spalancò il baule. All’interno c’erano magliette, canottiere e pantaloni, tutti piegati con estrema cura. Se non avesse saputo che il farsetto viola e i pantaloni neri di Gabriel erano stati presi da lì, avrebbe pensato che erano anni che quella cassa non veniva aperta. Cominciò a tirare fuori gli abiti, stando ben attento a non sgualcirli e a ripiegarli qualora non incontrassero i suoi gusti. Alla fine optò per una semplice maglia nera a maniche lunghe di cotone pesante e un paio di braghe di pelle in tinta. Il fratello di Samuelle doveva essere un alquanto tipo stravagante. Lisciò le pieghe tra i ricami dorati di un farsetto rosso acceso che, assieme a molti altri vestiti dai colori improbabili, costituiva la maggior parte del corredo del baule. Ma forse era solo lui a trovarli eccentrici e di pessimo gusto, visto che Gabriel non si era posto nessun problema a indossare una camicia di un beige scolorito con le maniche a sbuffo, un paio di pantaloni e un gilè color merda.
“Anzi, color Russet.”
Tossicchiò per nascondere una risata perché la voce che aveva sentito nella sua testa non era la sua, ma quella stizzita di Frejie. Sì, in effetti non era mai stato un amante della moda e, nonostante la maga lo avesse torturato per anni per insegnargli tutte le tinte esistenti, per lui c’erano solo due sfumature di marroni e quel gilè era tutto furchè color cioccolato.
Nel frattempo Gabriel aveva terminato l'opera e adesso stava osservando soddisfatto la treccia. Rachel si allungò sul tavolino, passandosi con attenzione un lucidalabbra rosa pescato da chissà dove, dopodiché si sistemò un nastro rosa tra i capelli. Legò le Bladegun nelle fondine ben strette alle cosce e poi si girò, scrutandoli entrambi con i suoi occhi inespressivi. Era tornata la cacciatrice che lo Slayer conosceva, fredda e scostante come una statua di ghiaccio. Il turbamento del giorno prima pareva svanito senza lasciare traccia.
- Ci metteremo qualche ora ad arrivare alle miniere. - esordì con voce piatta, - Andare a cavallo è scomodo, perché, considerando il pericolo di crolli e visto che non sappiamo quanto la galleria sia stabile, il soffitto potrebbe franarci addosso in qualsiasi momento. In tal caso dovremo essere liberi di muoverci senza alcun impedimento e gli animali sono un peso in più che non possiamo permetterci. Quindi prenderemo il treno fino a Ferwal e da lì proseguiremo a piedi. -
- Intendi davvero entrare in una miniera abbandonata da più di cinquant’anni? - la interrogò il compagno.
- Hai per caso paura. -
Alan la guardò di traverso e schioccò la lingua infastidito: - Esprimevo solo il mio disappunto per il fatto che stai decidendo tutto da sola. Gabriel, sei sicuro che questo sia l’unico modo per arrivarci? -
- Sì, ne sono sicuro. Meredith non sbaglia mai. - asserì solenne.
- Meredith è un fantasma. -
- Cosa stai insinuando, eh? Che, solo perché non è più viva, sia una bugiarda? - si accalorò, gli occhi verdi ridotti a fessure e le labbra storte in una smorfia arrabbiata, - No, perché se è questo che stai insinuando, ti ricordo che lei ha deciso di accompagnarvi e… -
- Nessuno sta dicendo questo. - si intromise pacata Rachel, - Però Alan ha fatto una giusta osservazione. È un fantasma. Se la sua è stata una morte violenta, come ha detto, potrebbe aver perso o confuso alcuni ricordi. Non è una un caso strano, capita spesso, ed è poi uno dei tanti motivi per cui questi spiriti inquieti non riescono ad abbandonare questo mondo. -
- Uh, hai fatto i compiti! - la sbeffeggiò Alan, ma la sua compagna non diede peso alle sue parole.
Gabriel si torse le dita a disagio, tenendo gli occhi fissi sul pavimento.
- Io mi fido di quello che dice Meredith. - mugugnò con voce incerta.
- Nessuno lo sta mettendo in dubbio. Però c’è comunque questo rischio e lo ha detto anche lei di non ricordare granché. Quando la possessione è finita non ti ha detto altro. - chiese Rachel.
- No… no, non mi pare. Però... aspetta. - si massaggiò le tempie e si batté una mano sulla fronte, - Non so se può essere utile, ma durante il primo periodo che ho trascorso con Meredith la sentivo spesso canticchiare una filastrocca. -
- Che filastrocca. -
Il ragazzo si mordicchiò un attimo le labbra, come se stesse cercando di ricordare le esatte parole.
- Quale filastrocca, Gabriel. - ripeté la cacciatrice.
Prima che potesse dire qualcosa, Samuelle entrò nella stanza.
- Se state parlando delle filastrocche delle fate, le conosco anche io. - commentò con un sorrisetto saputo, facendo sussultare Gabriel per lo spavento.
- Stavi origliando? - la prese in giro Alan, che si era accorto già da un po’ della sua presenza dietro la porta.
- Nessuno usciva più da questa camera, mi sono preoccupata. - rispose scrollando le spalle.
- Nascondi dei mostri nell’armadio? -
- Solo alcuni gatti di peluche e un Gemren a forma di lupo. Sì, beh, in effetti quello è un po’ macabro, considerando che gli manca una gemma del potere, ma non penso si possa definire “mostro”. - si appoggiò al muro e si schiarì la voce, - Comunque sì, conosco alcune filastrocche delle fate. -
Rachel fissò Gabriel, che si fece piccolo piccolo.
- Io… io non sapevo che fosse una cosa risaputa. - piagnucolò.
- Certo. - Rachel si avvicinò lentamente al ragazzo, che scattò a rintanarsi nell’angolo opposto della stanza.
Le dita della cacciatrice si chiusero a pugno e si apprestò ad avanzare verso di lui, ma dopo un attimo ci ripensò, tornando a sedersi sulla sedia davanti allo specchio senza dire o chiedere nulla.
L’altro si affrettò comunque a dare spiegazioni: - Ho detto la verità, lo giuro! Io sono un investigatore da poco e non mi sono mai arrivate richieste dal popolo delle fate! E… e non ho sempre vissuto a Chasterm! -
- E da dove verresti. -
- Calmati, chérie. - intervenne Samuelle preoccupata.
- Io sono calmissima. - sibilò, mentre inceneriva Gabriel con un'occhiata assassina.
Alan si mosse d'istinto e si spostò verso la porta, tenendo sotto controllo la sua compagna per scansare eventuali attacchi e darsela a gambe per tempo.
Gabriel rimase in silenzio, così Rachel si innervosì ancora di più.
- Allora, hai intenzione di parlare. -
- Vengo da Dranlon… - farfugliò, - Se mai un giorno andrete lì, potete chiedere di mia madre, la Farfalla Bianca. Non volevo prendervi in giro, credevo davvero che la filastrocca vi sarebbe stata d’aiuto! -
- Recitala. -
Senza avere il coraggio di alzare la testa, Gabriel si strinse le gambe al petto e recitò.
 
Tra le braccia freschi fiori e biondo grano,
rossi frutti tra le ossa di una mano
portano vento che ha odor di marcio
con la bocca aperta da uno squarcio
 
Cantano mentre ballano in tondo
A nord sopra il cadavere del moribondo
In mezzo alle pietre brillanti
Con gli occhi verso le stelle calanti.
 
Camminano sull’altra sponda
Tenendo sulla destra la caduta profonda
Stanno lontane dal nudo sentiero
Così da salvarsi dall’inverno nero.
 
Poi a destra passan vicine al fuoco
Attente al triste sussurro fioco
Aggirano le acque e schivano i Venti
Seguono al calar delle ombre le luci latenti
Senza guardare i boccioli nascenti.
 
Alla fine alzan la mano
e inneggiano ai Guardiani dell’Arcano.
 
Samuelle, Alan e Rachel si guardarono, cercando nei reciproci sguardi una conferma.
- Samuelle, la conosci? - domandò Rachel.
Non, mai sentita. - la ragazza scosse il capo, esibendosi in una smorfia di disappunto, - Che dire, sembra un indovinello più che una filastrocca. -
- Già. -
Quando Rachel si voltò di nuovo verso Gabriel, questi si appiattì contro il muro, quasi desiderasse sparire e diventare parte dell'arredamento.
- Ricordi altro. -
- N-no. No, davvero, lo giuro, non sto mentendo. - balbettò a raffica.
- Allora direi che non c’è altro da aggiungere. Andiamo alle miniere e lì vedremo di riflettere su come venire a capo di questo indovinello. Samuelle, hai sistemato Sebastian. -
- Oui! -
L'amica corse nello studio per recuperare il Gemren e tutti la seguirono.
Et voilà! - esclamò consegnandolo nelle mani della sua padrona, - Non aveva niente di che, solo qualche cavo un po’ usurato, ma nulla che avesse seriamente compromesso le gemme e i collegamenti. -
- Ottimo. Quanto ti devo. -
- Nulla, lo sai che ti sono debitrice. -
- Ma... -
- Niente “ma”. Insisto. -
Rachel si arrese e strinse Sebastian al petto.
Samuelle, invece, si spaparanzò a gambe aperte sulla poltrona, sbuffando e massaggiandosi il collo. Alan fissò scontento le sue gambe ossute fasciate dai pantaloni, deluso di non poterle contemplare prive di veli come la notte precedente. Dovette farsi bastare il ricordo delle sue cosce nude e oscenamente aperte per lui, ancora vivido e impresso a fuoco nella memoria. Si umettò le labbra e le rivolse un'occhiata carica di sottintesi. La ragazza sorrise di rimando e, come per provocarlo, accavallò le gambe, facendo ciondolare un piede con disinvoltura.
- Vi ho preparato qualcosa da mangiare. Non avevo molto in casa, ma penso che due panini con formaggio possano bastarvi per un pasto. -
- Grazie, Samuelle. - rispose Rachel.
- Di niente, chérie. Il treno per Ferwal parte tra dieci minuti, vi conviene sbrigarvi. -
Gabriel, che nel frattempo aveva racimolato abbastanza coraggio per alzarsi e avvicinarsi ai due cacciatori, aggiunse: - Sì, meglio. Non è sicuro muoversi quando cala il sole nel mondo delle fate. -
- Bene, diamoci una mossa. - dichiarò Rachel.
- Vi accompagno alla porta. - sorrise Samuelle, balzando in piedi e afferrando la giacca grigia lunga fino alle ginocchia.
Attraversarono il cortiletto fangoso in fila indiana, fino a raggiungere la bottega. Non appena Samuelle entrò, prese un paio di chiavi da uno sportello incassato nel muro, aprì la pesante porta di ferro che si affacciava sulla strada e tirò su le saracinesche. Un timido sole faceva capolino da dietro le nuvole e tutti quanti si ritrovarono a sperare che non piovesse.
Alan lasciò che Rachel e Gabriel lo sorpassassero e uscissero dal negozio per rimanere da solo con Samuelle. Si girò a guardarla e lei ricambiò con un sorriso sghembo, uno stiramento di labbra che poteva dire tutto e niente. Lui si limitò a scrutarla in silenzio, aspettando che fosse lei a parlare.
La tecnomante tacque a lungo, poi d’un tratto gli si accostò esitante, sfregandosi le mani con nervosismo. Gli sfiorò appena le dita con le sue già sporche d’olio e di polvere.
- Ti ringrazio. - sussurrò, mordicchiandosi l'interno di una guancia.
Alan non rispose, annuì e basta. Quindi le diede le spalle e scomparve oltre la porta di ferro senza proferire verbo, mentre qualcosa di indefinito gli pungolava qualcosa di altrettanto indistinto nello sterno.
 

*

Arrivarono alle miniere di Ferwal circa dopo due ore di viaggio, durante il quale la conversazione si era ridotta all’essenziale. Nessuno, Gabriel escluso, aveva avuto molta voglia di parlare. Quando si era reso conto che i suoi compagni non erano in vena, aveva appoggiato la fronte contro il finestrino e aveva osservato il paesaggio correre veloce oltre il vetro.
Il cielo, da grigio che era, si era fatto sempre più azzurro. Una leggera brezza soffiava tra gli alberi scuotendo le loro fronde e l’erba si piegava dolcemente, un mare color giada accarezzato dalle dita delicate del vento.
Di tanto in tanto anche Alan si era messo a guardare il panorama. Non era la prima volta che percorreva quella tratta, eppure aveva dovuto ammettere che fosse sorprendente come la natura fosse riuscita ad adeguarsi all’uomo pure in quelle zone. Vide la pianura declinare verso le miniere, dove la terra era brulla, l'aria pesante e il verde inesistente, con cumuli di ciottoli accatastati qua e là per far posto ai pali del telegrafo e alle rotaie.
Scesero alla dodicesima fermata e seguirono il sentiero che si dirigeva verso ovest.
- È lontano da qui. - domandò Rachel.
- No. - Gabriel indicò un punto imprecisato al di là di una carrucola arrugginita, - Dobbiamo andare in questa direzione e poi imboccare la vecchia strada, quella piena di casolari. Poi sempre dritti. -
- Che tu sappia, c’erano dei mostri particolari? - domandò Alan.
Gabriel piegò la testa di lato, come faceva quando il fantasma gli diceva qualcosa.
- Meredith non se lo ricorda, ma crede di no. -
“Il che significa che ci sono. Perfetto. Che gioia.”
I due cacciatori si scambiarono un’occhiata significativa e sotto lo sguardo smarrito del ragazzo sguainarono le armi, Rachel le Bladegun, Alan la sua balestra.
L’aria si fece umida e il terreno sempre più instabile a causa del tappeto di foglie marce che lo ricopriva. Stavano facendo troppo rumore e Alan si impose di trattenersi dall’imprecare ogni volta che sentiva il suono degli anfibi che affondavano in quella fanghiglia informe. Continuava a guardarsi attorno, scrutando attraverso la fitta boscaglia che delimitava il sentiero. Anche Rachel era concentrata sull’ambiente che li circondava e non c’era suono che le sfuggisse. L’unico che sembrava tranquillo era Gabriel. A un certo punto, quando si mise a fischiettare “La donna al palo”, una canzone da taverna nota per la sua volgarità, Alan avvertì l'impulso di mettergli le mani al collo, e lo avrebbe anche fatto se questo non avesse significato lasciar cadere la balestra.
Si inoltrarono nelle stradine della miniera, zigzagando tra i resti delle rotaie arrugginite, i picconi abbandonati e le carrucole a pezzi, costeggiando i casolari in rovina finché non si trovarono a un bivio. Gabriel girò a destra con sicurezza. Quando arrivarono davanti alla galleria designata, dovettero fermarlo prima che la imboccasse. Lo tirarono dietro di loro e arrestarono il passo. Alan e Rachel drizzarono le orecchie e aguzzarono la vista, senza però scorgere nulla.
Vedendoli immobili, Gabriel si schiarì la voce: - Perché ci siamo fermati? -
I suoi accompagnatori non si degnarono di rispondere a quella domanda così stupida. Il ragazzo sbuffò e avanzò, ma Alan lo afferrò prima che entrasse, fulminandolo con uno sguardo minaccioso.
- Io non vedo niente. - dichiarò Rachel.
- Nemmeno io. - concordò Alan.
- Meredith dice che non ci sono mostri! - insisté scocciato.
“È un idiota.”
- Volevamo solo riposarci un attimo. - borbottò Alan.
- Abbiamo fatto solo pochi metri! -
- Eh, sai com’è, siamo vecchi. -
Gabriel inarcò un sopracciglio: - Avrete sì e no venticinque e quattordici anni. -
Sebastian, che svolazzava sulla testa della sua padrona, rispose: - In verità la signorina ha ben duecentocinquantasei anni, sei mesi e… -
- Sì, va bene, andiamo avanti. - lo interruppe Alan, riponendo la balestra sulla schiena e sguainando la spada.
Gabriel sgranò gli occhi e squadrò da capo a piedi Rachel, boccheggiando incredulo. Poi si decise a far loro strada, addentrandosi nel tunnel con una certa esitazione. Sopra la sua spalla si era posato Sebastian, gli occhi accesi di rosso che gettavano un alone inquietante sulle pareti e sulle stalattiti sul soffitto, dando l’impressione di star camminando nella gola di un mostro dalle zanne snudate.
Alan poteva sentire il cuore di Gabriel battere all’impazzata in preda alla paura. Più e più volte lo vide asciugarsi il sudore freddo sul collo con le maniche a sbuffo di quella ridicola camicia, mentre parlottava tra sé e sé cercando di farsi coraggio. Rachel sembrava indifferente come al solito e l’unico indizio della sua tensione era il lento movimento delle pupille, che ora erano solo due fessure verticali. Se era vero che era un Sannan e che uno dei suoi genitori era un vampiro, Alan scommetteva che ci vedesse anche meglio di lui al buio.
Proseguirono per quasi tre ore, fermandosi una volta per mangiare e un'altra per togliere i massi che ostruivano la via. Presero dei picconi dagli scheletri dei minatori, ma furono costretti a spostare a mano le rocce più grosse. Il pericolo di frana c’era sempre, ma contro ogni pronostico riuscirono a sgomberare il passaggio senza incidenti.
Uno spiffero freddo annunciò loro che erano vicini all'uscita. Sbucarono in riva a un fiume, con le canne e i giunchi che arrivavano fino al polpaccio. La luce li accecò per qualche istante, soprattutto Alan e Rachel, che indugiarono qualche momento per riaversi dallo shock.
Gabriel si asciugò le mani sudate sui pantaloni e fissò gli alberi spogli sulla riva opposta. Il terrore aveva lasciato il posto all'ansia e, nonostante avesse smesso di tremare, era rigido come un pezzo di ghiaccio. I due cacciatori lo affiancarono, ma a parte lo starnazzare di un’anatra spaventata dalla loro presenza e il gracidare annoiato delle rane non sentirono niente. Era come se la natura fosse ammutolita e li stesse osservando trattenendo il respiro.
- Cosa diceva la prima strofa dell’indovinello? - domandò Alan, guardandosi intorno circospetto.
Gabriel, senza staccare gli occhi dalle alghe smosse dalla corrente, recitò nuovamente la filastrocca a mezza voce.

 
Tra le braccia freschi fiori e biondo grano,
rossi frutti tra le ossa di una mano
portano vento che ha odor di marcio
con la bocca aperta da uno squarcio.
 

- Direi che l’odore di marcio c’è. - commentò caustico Alan.
- Oserei dire che ci potrebbero essere pure i fiori e il grano. - Rachel indicò uno spiazzo piuttosto ampio vicino a una tana di un castoro, con dei fiori dalla corolla incrostata di fango e terra, - Vedi quei rametti tagliati. Secondo me sono quel che rimane di un campo di grano. -
- Oh, ti intendi di agricoltura? -
La cacciatrice alzò un sopracciglio: - Il frumento selvatico esiste. -
Alan sbuffò e cominciò a guadare il fiume e gli altri lo seguirono a breve distanza. Non aveva ancora rinfoderato la spada, quindi si muoveva a fatica, ma non ci pensò neanche a privarsene. Si rendeva conto che là, in mezzo al fiume, con l’acqua nera che gli arrivava a metà coscia, era un bersaglio facile, ma una gamba o un braccio poteva farseli ricrescere in qualche modo, mentre tornare in vita era decisamente più complesso. L’unica cosa che lo consolava era che non era il solo a doversi sporcare e, quando giunse sulla riva opposta, si gustò con la coda dell’occhio la scena di Rachel che annaspava con le pistole strette in mano, il corpetto e i pantaloni ormai luridi.
Quando Gabriel mise piede a terra, si inoltrarono nella foresta. La luce obliqua del sole filtrava appena attraverso le fronde degli alberi, avvolgendo ogni cosa in un inquietante penombra dove ogni suono sembrava amplificarsi, echeggiando nel silenzio innaturale.
Alan si guardava costantemente intorno, occhieggiando inquieto attraverso la foschia che pian piano gli aveva inghiottito i piedi, preceduto da Gabriel e da Rachel, che scrutava nella nebbia con i sensi vigili. A un certo punto si fermò e Alan la imitò. Non ci mise molto ad individuare lo scheletro di un umano a qualche metro da loro. Le ortiche spuntavano dalla gabbia toracica e un rampicante dai fiori di un verde intenso aveva invaso le orbite e gran parte della bocca. I vestiti laceri penzolavano dalle ossa lisce e bianche, ma ce n’erano altre lì vicino, animali e umane, tanto da far supporre che fossero stati sbranati da una bestia feroce.
A quella vista, Gabriel trasalì e distolse lo sguardo, mentre i due cacciatori esaminavano il corpo. Solo quando si furono accertati che non avesse nessun segno particolare riconducibile a qualche tipo di mostro decisero di ripartire.
Camminarono ancora per un bel po’ e si rivolsero la parola giusto per ripassare nuovamente la seconda strofa dell’indovinello, ma per il resto del tragitto decisero di non rischiare la sorte e attirare l'attenzione di qualcosa di indesiderato. Nei paraggi non avevano scorto nessuno e nel silenzio potevano udire anche il minimo scricchiolio, però non era da escludere che i nemici si stessero nascondendo aspettando l’occasione propizia per attaccare. In più avevano il sentore di essersi persi, perché il paesaggio era sempre lo stesso.
Alan si bloccò sbuffando e richiamò con un cenno Rachel e Gabriel, arricciando il naso per il fetore: la melma del fiume si era solidificata sui loro abiti e adesso emanavano tutti un odore sgradevole. L’unico che sembrava non farci caso era Gabriel, che evidentemente doveva essere abituato a puzzare.
- Stiamo procedendo alla cieca. - esordì il cacciatore.
- No, stiamo solo seguendo la strada. - ribatté atona Rachel.
- Quale strada? No, perché io, a parte alberi e nebbia, non vedo altro. -
- Quella che conduce alle pietre brillanti. -
- E dove si troverebbero queste… pietre brillanti? Qualcuno di voi lo sa? Non so se ve ne siete accorti, ma qui non c’è nessuna cazzo di strada! - ringhiò esasperato.
- Io non lo so. Meredith non si fa sentire e non posso costringerla a manifestarsi… - balbettò intimorito Gabriel e, per sicurezza, arretrò di un passo.
Il cacciatore lo fissò in cagnesco. Inspirò profondamente e rinserrò la stretta sull’elsa della spada.
- Quindi dobbiamo avanzare nella nebbia sperando di arrivare in un posto che non sappiamo nemmeno come sia fatto? -
- La filastrocca dice che queste fate “danzano a nord sopra il cadavere del moribondo”. Prima abbiamo visto degli scheletri. Sappiamo che le fate tengono molto ai loro luoghi sacri, non sarebbe così strano pensare che, una volta concluso il ballo, abbiano trasportato i corpi lontano. - disse Rachel.
- Sono solo supposizioni campate per aria. -
- Sì, ma sono le uniche sensate. -
- Su questo avrei i miei dubbi. -
- Se hai un’idea migliore, esponicela, Alan. - calcò sul suo nome con un tono gelido.
A quel punto Gabriel si mise in mezzo: - Dovremmo andare avanti e basta. Litigare non serve a nulla. -
Alan sputò a terra e cercò di non alimentare ulteriormente il cattivo umore, altrimenti sarebbe esploso. La cacciatrice lo guardò con il suo viso inespressivo ancora per un secondo, poi allentò la presa sulle Bladegun.
- Meredith comunque mi ha parlato… cioè, non mi ha parlato, mi ha solo detto che è giusto. -
- Cosa è giusto. -
- Non me lo ha detto, ma penso… penso si riferisse alla direzione. -
- E perché non ce lo hai riferito subito? -
La domanda ringhiata di Alan lo fece sussultare: - Stavate litigando e… e lei si è svegliata proprio in quel momento e… -
- Va bene, ho capito. - lo liquidò infastidito.
Senza aggiungere altro si rimisero in marcia.
Il sole stava tramontando e la foschia sempre più fitta ricopriva il terreno in un velo lattiginoso, diramandosi tra gli sparuti ciuffi d’erba in fumosi tentacoli evanescenti.
In quell’atmosfera cupa e pesante, il ricordo di quello che era successo la notte prima con Samuelle riaffiorò a tradimento nella mente di Alan, ma invece di portargli conforto e calore gli chiuse lo stomaco in una morsa. Era stato solo sesso, eppure più ci pensava, più quella parola lo turbava, insieme all'immagine del corpo della ragazza sotto il suo, con il viso contorto in un’espressione estatica di puro piacere. Un piacere che gli aveva permesso di lasciarsi andare e che adesso si era trasformato in una belva che gli affondava le fauci nel cuore, togliendogli il respiro e riempiendogli la bocca del sapore acido della bile. Si artigliò il petto nel vano tentativo di decomprimere i polmoni, ma, per quanto massaggiasse, non riusciva ad incamerare abbastanza ossigeno, come se ci fosse un ostacolo a impedirne il passaggio. Alzò gli occhi e sobbalzò appena quando incrociò quelli neri di un corvo, che lo osservava appollaiato su un ramo. Sembrava che gli stessero scavando nell’anima, pieni di biasimo. Sentiva di aver deluso Eluaise, di averla in qualche modo tradita, ma non sapeva spiegarselo bene.
In quel momento si accorse che gli alberi si erano si erano diradati e che davanti a lui c’era un’immensa radura dall’erba di un verde talmente intenso da risultare accecante persino in mezzo alla nebbia. In mezzo, arroganti e orgogliose come statue di antichi dei, dodici pietre d’acquamarina si ergevano contro il cielo, catturando e disperdendo la luce in tenui bagliori azzurrini. Poco lontano udì lo scrosciare dell'acqua di un ruscello.
Allora Gabriel recitò la seconda strofa della filastrocca.

 
Cantano, mentre ballano in tondo
Sopra il cadavere del moribondo
In mezzo alle pietre brillanti
Con gli occhi verso le stelle calanti. 

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Capitolo 19
*** Act. 2 - Riddle ***


Slayers
Act. 2 - Riddle



Il vento soffiava da ovest e frusciava tra gli alberi, accarezzando il soffice tappeto d'erba della radura. Le nuvole celavano la luna che, con la sua luce biancastra, illuminava appena il paesaggio. Alan osservò i monoliti in acquamarina avvolti da morbidi tentacoli di nebbia, incantato e inquieto allo stesso tempo, mentre i due compagni rimanevano alle sue spalle in religioso silenzio. Un dubbio si era insinuato nella mente di tutti e solo dopo cinque minuti buoni Gabriel osò esprimerlo.
- È già notte. Abbiamo camminato così tanto...? -
- È probabile che sia un’illusione. - rispose Rachel affiancandolo, le Bladegun sempre strette tra le mani, - Se è vero che siamo nel paese delle fate, è più logico pensare che tutto quello che vediamo sia frutto della loro magia. -
- E… quindi? Cioè, adesso dove siamo? -
- Forse ancora nella palude, forse nel bosco, forse in un’altra dimensione. Difficile a dirsi. -
- In un’altra dimensione?! No, è impossibile, nessuna creatura può… -
- Potremmo rimandare le spiegazioni a più tardi? Questo posto non mi piace per niente. - li interruppe bruscamente Alan.
Con uno sbuffo infastidito si incamminò verso le dodici pietre. Il chiarore lunare delineava il contorno dei monoliti, disposti in due anelli concentrici. In fondo, avvolto da rampicanti e muschio, c’era quello che il cacciatore dedusse essere un altare, un blocco di cinque metri di giada insanguinata, arrossata nei punti da cui un liquido denso e apparentemente ancora fresco gocciolava su una macchia di terra nera. Nonostante lo splendore che gli si profilava davanti, Alan non oltrepassò il perimetro delle prime pietre: se quello era davvero il mondo delle fate, entrare in un cerchio dove potevano compiersi riti e sacrifici umani non costituiva tanto un rischio, quanto un evidente tentativo di suicidio. Si fermò a meno di qualche braccio, cercando un qualsiasi punto di riferimento che lo aiutasse a capire come dovessero proseguire. Udiva ancora lo scrosciare dell’acqua provenire da una direzione indeterminata al di là della nebbia. All’inizio aveva pensato ci fosse un fiumiciattolo, ma adesso non ne era più tanto sicuro, non quando il rumore si fondeva col silenzio come l’eco di un sogno.
- E ora? - chiese a Rachel.
- Non lo so, ci sto riflettendo. -
- Fallo in fretta. -
- L’indovinello parlava di stelle calanti. Potrebbe riferirsi all’ovest. - azzardò dopo un attimo.
- Potrebbe. - Gabriel si massaggiò il mento e Alan lo guardò far finta di pensare per darsi tono, - Come ogni buon investigatore, ho sempre cercato di informarmi su ogni cosa e sì, posso assicurarti che la luna e le stelle tramontano proprio ad ovest. -
- Se non ce lo avessi detto tu, non lo avremmo mai capito. - borbottò Alan tra i denti e roteò gli occhi esasperato.
- Mi pare di ricordare anche il motivo per cui le fate guardano ad occidente. - aggiunse Gabriel, convinto di aver fatto colpo, ma Rachel lo stroncò con un gesto noncurante della mano.
- Non è importante ora. -
- Ma… ma… - boccheggiò smarrito.
- Non. Ora. - scandì gelida e il modo con cui pronunciò quelle parole fu più che sufficiente per metterlo a tacere.
Alan stava per fare una battuta, quando un’enorme sagoma passò silenziosa sopra le loro teste. Serrò la presa sull'arma e contrasse i muscoli, mentre la cacciatrice alzò immediatamente le Bladegun. Tuttavia non riuscirono a vedere niente, poiché la nebbia era troppo spessa persino per i loro occhi, e l'ombra svanì. Non capirono se fosse stato un mostro alato o un umanoide molto agile, ma qualsiasi cosa fosse di certo non era loro amica.
- Sbrighiamoci. Alan, tu occupati di Gabriel. Io vi copro. - ordinò Rachel senza abbassare gli occhi.
Alan non se lo fece ripetere due volte. Afferrò il ragazzo per un braccio e lo trascinò via correndo, senza voltarsi indietro. Al loro passaggio la nebbia sembrava diradarsi e il suono dell’acqua si faceva sempre più forte, finché nel suo campo visivo non apparve un fiume cristallino. Si fermò sulla sponda, poco lontano dalle canne e dai lupini che, assieme alle rose canine, ondeggiavano sospinte dalla corrente. In lontananza udì il fragore di una cascata.
Attesero che Rachel li raggiungesse, dato che non era molto saggio separarsi in un luogo sconosciuto e potenzialmente ostile, soprattutto con appresso una zavorra inutile come Gabriel: Alan dubitava fortemente che sapesse usare un'arma, anche solo per difendersi, perciò avrebbe dovuto fare lui tutto il lavoro, ma non aveva la benché minima voglia di fare da balia a qualcuno.
Quando Rachel ricomparve di fronte a loro, non sembrava appena uscita da uno scontro. Con le Bladegun ben salde tra le mani e un aspetto impeccabile, si accostò a loro sfoggiando un'aria cupa.
- Nulla, quella cosa non si è fatta vedere. Andiamocene. -
- Nella filastrocca parlava di un fiume. - esordì Gabriel, affannato per la corsa.
- Non direttamente, ma sì. “Camminano sull’altra sponda, tenendo sulla destra la caduta profonda”. Probabilmente si riferiscono alla cascata. - commentò Alan.
- In questo punto l’acqua è troppo alta. - fece notare Rachel, - Rischiamo di farci trascinare dalla corrente se tentiamo di guadarlo. Sarebbe più sicuro se ci spostassimo e… -
- No, non fatelo! - la voce tremula di Gabriel la interruppe, - Meredith dice di seguire l’indovinello. -
- L’indovinello non specifica dove attraversare il fiume. - puntualizzò.
- Lo so, ma… - si morse le labbra, - Quando hai detto che sarebbe stato meglio spostarsi ho avuto una brutta sensazione. -
I due cacciatori si guardarono e, dopo un breve momento di silenzio, Alan disse: - Prendiamoci tutti per mano. -
- Non è una buona idea. - sbuffò Rachel, ma già stava rinfoderando le Bladegun e quando Gabriel le strinse il polso non si ritrasse.
La corrente era forte e ogni passo era faticoso e rimanere in equilibrio si stava rivelando più difficile del previsto. Erano consapevoli che sarebbe bastato solo che uno di loro scivolasse per trascinare gli altri con sé, ma non abbandonarono l'impresa. Affondarono gli stivali nella melma, strinsero i denti e mantennero lo sguardo fisso sulla sponda opposta per non lasciarsi distrarre. Camminarono lentamente per dar modo a tutti di mettere bene i piedi uno davanti all'altro.
Non appena toccarono la riva, si fermarono per riprendere fiato. Una fitta macchia verde si estendeva a perdita d’occhio di fronte a loro e, rispetto al boschetto paludoso che avevano attraversato precedentemente, questa sembrava una vera foresta, simile in tutto e per tutto a quella di Brugge.
Alan si spostò le ciocche bagnate dagli occhi, mordendosi nervosamente l’interno della guancia.
- Sei preoccupato. - disse Rachel, fissandolo in tralice.
- Mh. - mugugnò imbronciato.
Si girò verso di lei, ma non riuscì a rimanere serio quando la vide bagnata fradicia e con la treccia quasi sfatta. Represse a stento un risolino e si coprì la bocca con una mano.
- Con la fortuna che abbiamo, sicuramente sarà pieno di mostri. -
- Sarà sufficiente seguire le indicazioni dell’indovinello e arriveremo sani e salvi. - obiettò Gabriel, guadagnandosi un’occhiata omicida dal cacciatore.
- Non so se l’hai notato, ma qualcosa ci osserva da un pezzo. - sibilò incattivito, spostando lo sguardo alle sue spalle.
- Non riesco a localizzarlo, sa nascondersi bene. - aggiunse Sebastian, - Qui l’aria è piena di magia. Ho cercato di risalire alla fonte, ma ci sono troppe interferenze. -
Le cannule ramose del Gemren emisero un lungo sbuffo e le piccole gemme rosse, accese da una luce sanguigna più intensa del solito, brillarono a intermittenza.
- Non riesci ad identificare che tipo di magia è. -
Sebastian tentò di scuotere la testa, finendo con lo sbilanciarsi e cadere tra le braccia della sua padrona: - No, signorina. Se però i responsabili sono le fate, è possibile si tratti di un’illusione, seppur terribilmente realistica. -
Alan inarcò un sopracciglio. Era sempre stato scettico su quel genere di magia: l’idea che un’illusione potesse avere delle ripercussioni gravi era illogica e improbabile, ma Frejie gli aveva spiegato che alcune sottoscuole avevano sviluppato degli incantesimi nuovi e letali, che giocavano con la mente e, in alcuni casi, potevano condurre alla follia.
- Allora dobbiamo stare molto attenti e seguire passo a passo le strofe dell’indovinello. - sentenziò Alan pragmatico.
- Che è quello che vi ripeto io dall'inizio. - borbottò Gabriel.
Il cacciatore scelse di ignorarlo: era un pazzo che aveva un fantasma come fidanzata, quindi già abbastanza sfigato senza che lui si prendesse il disturbo di spaccargli la faccia.
Si inoltrarono nella foresta, cercando di rimanere sul sentiero di terra battuta che dalla riva del fiume spariva nel sottobosco. Il clima, a differenza della palude, era mite e nell’aria si respirava un forte odore di fiori, mentre una brezza fin troppo calda faceva frusciare le fronde degli alberi. Faggi secolari contornavano la stradina e i loro rami, intrecciati fittamente sopra le loro teste, lasciavano appena filtrare la luce della luna e delle stelle, che si riversava in piccole schegge argentee sui sassi e sugli steli d’erba che coloravano il cammino. Qualche volta Alan sentì il frinire delle cicale e dei grilli o il gracidare delle rane che intonavano un coro quasi allegro nei loro stagni. Se non avessero sempre avuto la sensazione di essere seguiti, sarebbe stata una piacevole passeggiata.
I due cacciatori procedevano in silenzio, attenti ad ogni movimento, mentre Gabriel osservava rapito il paesaggio, incurante di dove metteva i piedi. Talvolta Alan lo vide inclinare la testa e mormorare qualcosa tra sé e sé, ma non si premurò di ascoltare cosa avessero da dirsi lui e Meredith. Si passò una mano sulla bocca e tossì, reprimendo la risata che sentiva formicolargli in gola. Per quanto ci provasse, non riusciva a prenderlo sul serio, era più forte di lui.
A un certo punto giunsero in prossimità di un lago, dove il sentiero si divise in tre: la strada a sinistra costeggiava la polla d'acqua e si addentrava ancora di più nella foresta, quella a destra terminava in una piana dove si ergeva un castello diroccato e sul terreno di quella centrale, che tagliava il lago a metà, spuntavano numerosi crochi in fiore.
- Ah, bene, e adesso? Quale sarà la strada che conduce all'“inverno nero”? - domandò Alan.
Rachel guardò Sebastian: - Hai idea di cosa possa essere. -
- Io so cos’è. - rispose Gabriel.
Incrociò le braccia al petto e scrutò i due cacciatori con un sorriso trionfante, in attesa che gli chiedessero di proseguire. Non si sarebbe scucito, se la cacciatrice non gli avesse fatto cenno di continuare.
- In realtà è un'espressione arcaica per riferirsi alla morte. - spiegò solenne, orgoglioso di poter mettere in mostra le sue doti da investigatore, - Non so se si possa far risalire all’Era del Buio, però sono certo che sia legato al mito di Ferwal, a quando il suo fido compagno Herwitch decise deliberatamente di ignorare il consiglio degli dei e imboccare il sentiero a sinistra. Alla fine venne ucciso in un’imboscata dai mostri di ghiaccio, servi di Iis. -
- Allora sai essere utile! - commentò sarcastico Alan, ma prima che il ragazzo potesse ribattere riportò la sua attenzione sulle strade, - Bene, quindi non dobbiamo andare a sinistra. A destra, forse? -
- Il castello non è sicuro e non solo perché è pericolante. - disse Sebastian in tono enigmatico e si alzò in volo, mentre la sua padrona sfoderava di nuovo le Bladegun, - E poi c’è “il triste sussurro fioco” da cui dobbiamo guardarci le spalle. -
- Bisogna solo capire cos’è. - continuò Gabriel, - Quella fortezza mi inquieta, ma potrebbe essere la strada giusta. -
- Tutte potrebbero essere quelle giuste e tutte potrebbero essere sbagliate. - ribatté Alan.
Gabriel lo fissò confuso: - Perché dici così? L’indovinello parla chiaro. -
- L’indovinello dice solo da cosa dobbiamo guardarci, non come arrivare alla meta successiva vivi e vegeti. Nella strofa dirà pure di andare a destra, ma è un indizio abbastanza inutile visto che proprio sulla destra c’è un castello pericolante e non esattamente ospitale. Piuttosto, i crochi hanno qualche impiego particolare? -
- Di solito quel fiore viene usato come spezia, ma un po’ di tempo fa era considerato un antidolorifico. - rispose Rachel.
- Ha per caso un legame con il fuoco? -
- Forse intende il dolore in senso metaforico? - buttò lì Gabriel.
- No, troppo complicato. -
Rimasero in silenzio a lungo, ognuno immerso nei propri pensieri, finché a un certo punto Rachel non oltrepassò Alan e si inginocchiò a studiare la corolla di un croco. Rimase imbambolata a guardarlo come se lo vedesse per la prima volta, tanto che i due compagni la fissarono perplessi. Poi lo colse, ne sfiorò i petali e infine lo stritolò nel palmo, e un intenso e nauseante odore di pelle bruciata saturò l’aria.
Gabriel, allarmato, corse verso di lei, ma inciampò nei suoi stessi piedi e per poco non cadde addosso ad Alan, che era rimasto fermo a guardare la scena. Rachel lasciò andare quel che rimaneva del fiore, un semplice stelo semi bruciato, e tornò verso di loro, impassibile come al solito.
- Per Shamar, la tua mano… - balbettò Gabriel.
- Non ti preoccupare, non ha fatto molto male. -
- Ma adesso come farai a impugnare le tue pistole? E ti verrà la cicatrice… -
- Stai tranquillo. -
Aprì la mano e il ragazzo sgranò gli occhi nel vedere la ferita che stava guarendo a una velocità impressionante.
- Com'è possibile? -
La cacciatrice fece spallucce, sfilò l’elastico dalla treccia e si fece una semplice coda.
- Sono un mezzo vampiro. - si limitò a dire, come se quell’affermazione fosse sufficiente a spiegare tutto, - Comunque grazie di esserti preoccupato. -
Gabriel boccheggiò, sorpreso quasi quanto Alan all'udire quei ringraziamenti. L’espressione granitica di Rachel era sempre la stessa, ma allo Slayer parve che la voce, di solito gelida e piatta, fosse lievemente mutata, assumendo una sfumatura più... umana.
- Di niente. - rispose imbarazzato Gabriel.
Prima che potesse aggiungere altro, la cacciatrice gli diede le spalle e si avvicinò ad Alan.
- Lo sapevi? - la interrogò.
- Cosa. -
- Degli effetti. -
- Ho preferito provare direttamente. Mi ricordavo di aver letto qualcosa riguardo l’impiego del croco nelle magie di fuoco, ma non ne ero sicura. -
- Dovresti tenere in più alta considerazione la tua vita. -
- Ti preoccupi per me, per caso. -
- Scherzi? Affatto. Mi darebbe solo molto fastidio se tu crepassi solo perché ti è esploso in faccia un fiorellino. –
La ragazza inclinò la testa, ma non rispose.
- Quindi… riepilogando. - esordì Gabriel, schiarendosi la gola per attirare l'attenzione, - Abbiamo escluso tutte e tre le strade, direi. Ora dobbiamo capire a cosa si riferisce il “triste sussurro fioco”. -
Alan sogghignò: - Quello è facile. Basta che tendi le orecchie e te ne accorgerai. -
Il ragazzo sbatté le palpebre senza capire, poi si guardò intorno timoroso. Restò immobile a massaggiarsi in gomiti per un minuto, poi quando udì il sospiro del vento che soffiava tra le rovine del castello si colpì in fronte, come per darsi dello stupido.
- Era il sibilo del vento! -
- Già. - disse Alan.
Gabriel cominciò a camminare su e giù nervosamente.
- Se nessuna delle strade va bene, da dove possiamo passare? - mormorò incupito, ma subito dopo si bloccò e fissò il lago con aria truce, - Oh, no… ma che diamine! Tanto valeva che mi fossi tenuto i vestiti di ieri! -
- Non abbiamo molta scelta. –
Il ragazzo sbuffò e incrociò stizzito le braccia al petto: - Quindi è proprio necessario? Cioè… possiamo nuotare fino alla riva opposta anche senza passare sotto il castello. –
Alan sfoderò il suo ghigno più feroce: - Prego, noi ti seguiamo. –
- Che palle… -
- Sempre meglio farsi una doccia a casa propria che farsela fare in un obitorio. Anche se dubito troverebbero i nostri corpi. - disse Rachel, tanto per smorzare la tensione.
Alan sospirò e, stufo di star ad ascoltare quella stupida conversazione, si avvicinò al lago infossato nel terreno, calandosi giù dal leggero declivio. Ormai aveva abbandonato la speranza di concludere quella missione senza bagnarsi.
A circa metà della discesa Gabriel perse l’equilibrio e ruzzolò giù, finendo in acqua con un tonfo e un’imprecazione. Lo aiutarono a rimettersi in piedi e ripresero a camminare con cautela. Avevano i vestiti fradici e più volte Alan ponderò di abbandonare il suo cappotto, ma poi scartò l’idea perché era l’unico che aveva e non poteva comprarne un altro.
Quando passarono sotto il castello, la brezza gli portò all’orecchio una risatina inquietante, che lo spinse ad accelerare. Non sapeva cosa si nascondesse in quell’antica fortezza e non ci teneva a scoprirlo.
Giunsero sull’altra sponda e si arrampicarono sulla parete fangosa. La strada centrale, quella cosparsa di crochi in fiore, diventava uno stretto sentiero brullo che tagliava a metà un prato fiorito. Sul lato destro i fiori erano ancora chiusi, sebbene alcuni stessero già accennando a sbocciare, e l’acqua nei canali naturali che zigzagavano tra massi e colline di terriccio brillava come argento fuso, riflettendo il cielo stellato. Dall’altra parte, invece, i pistilli catturavano la luce della luna in un baluginio caleidoscopico di bianco e argento. Il vento che tirava da nord-ovest sembrava sospingere in aria le lucciole che vorticavano su di essi, costringendole a un lento, elegante valzer.
 - Allora, da qui dovrebbe essere facile. Mi sembra chiaro che le luci latenti siano le lucciole e che dobbiamo stare lontani dal prato di destra, quello irrigato dai fiumi dove i fiori si stanno aprendo. - disse Gabriel.
- D'accordo, ma cosa intende per “schivano i Venti”? È un po’ difficile schivare l’aria. -  ribatté Alan.
- Sicuramente è una metafora - si intromise Rachel, - Quando si schiva una cosa significa che la si evita, quindi potrebbe voler dire di non seguire la direzione del vento. -
Il cacciatore corrugò la fronte: - Uhm, potrebbe essere. -
- Più che altro è l’unica interpretazione possibile. - aggiunse Gabriel.
- Meredith non ti sta suggerendo nulla? Il suo uomo va a rischiare la vita nelle paludi stregate della sua ex padrona e se ne sta in silenzio per tutto il tempo? -
Gabriel abbassò lo sguardo e si irrigidì, mordendosi nervosamente le labbra.
- Di solito, dopo una possessione, riesce a riprendersi in una notte, eppure sto facendo sempre più fatica a sentirla e non so perché. - mormorò in tono dimesso.
- Deve essere la magia, questo posto ne è impregnato. - Rachel fece spaziare lo sguardo, osservando circospetta il paesaggio attorno a sé, - Comincio a pensare che siano gli alberi stessi a sorvegliarci. -
- Nella foresta delle driadi a Brugge, si dice che anche le foglie abbiano orecchie. E anche nei boschi colonizzati dove vivono i druidi è la natura a essere la sentinella. Inoltre, la cosa che ci sta pedinando è ancora qui. - disse Alan.
Gabriel deglutì: - Potrebbe essere un mostro? -
- Non lo so, riesco a malapena a percepire la sua presenza. -
- Non potresti sbagliarti? -
- Non sbaglio mai quando c’è di mezzo la mia vita. - replicò serio.
- Ci conviene muoverci. - intimò loro Rachel.
Attraversarono il prato camminando controvento, in direzione nord-est. Man mano che avanzavano, le lucciole aumentavano di numero e, ogni volta che sfioravano un fiore dove si erano posate, esse volavano via, rilucendo come frammenti di stelle. Se da un lato questo li rincuorava, dall’altro l’angoscioso e innaturale silenzio che aleggiava lì intorno acuiva la loro l'inquietudine.
Quando Alan scorse in lontananza due querce dal viso umano, capì a cosa si riferisse l'ultima parte dell’indovinello ancor prima che il Gemren svolazzasse sopra la sua testa con gli occhi rossi che brillavano a intermittenza.
- Signorina, sono quei due Trerant antichi la fonte della magia. -
- Grazie, Sebastian. - Rachel lo afferrò e lo portò dietro di sé per proteggerlo, per poi incrociare lo sguardo perplesso di Alan, - Cos'è che non ti convince. -
- Il fatto che non si animino. Penso si siano fossilizzati. -
- Solo perché non si muovono. -
- E anche perché non si sono ancora alzati per picchiarci. In ogni caso, dobbiamo salutarli sorridendo. - ghignò e lanciò una lunga occhiata alla sua compagna, sperando che cogliesse il sottinteso, ma lei non gli diede soddisfazione.
Si mise a contemplare il viso addormentato dei Trerant, le rughe della corteggia che li facevano sembrare ancora più vecchi e stanchi, le guance scavate e gli occhi cisposi chiusi. Alan ne aveva visti un paio durante una missione vicino a Brugge, ma mai così anziani.
- Hai idea di come si salutino questi esseri? - domandò a Gabriel.
- No, non ne ho mai letto sui libri. -
- Da quel che ricordo, i druidi si inginocchiano e recitano “Aaye, adar calen, cormamin lindua ele lle”. -  disse Rachel.
- Un saluto più lungo no? -
- Significa… -
- Lo so cosa significa. - sbuffò scocciato, - Però non mi sembra che "calen" significhi “verde”. -
- Concordo con la signorina. - si intromise Sebastian, posandosi sulla spalla della cacciatrice.
Alan lo guardò di sbieco, ma decise di non discutere. In fin dei conti, non si era mai interessato né ai druidi né alle loro usanze, era probabile che avessero ragione loro.
- Bene, quindi dobbiamo semplicemente ripetere i loro gesti? -
Rachel annuì, poi si inginocchiò pronunciando la formula a mezza voce, imitata da Gabriel e, infine, da Alan.
Lì per lì non accadde niente, anzi il silenzio divenne ancora più denso e la natura attorno a loro si zittì. Persino il vento smise di soffiare tra le fronde degli alberi.
Dopo quella che parve un'eternità, Alan avvertì una presenza alla sua sinistra, la stessa che li aveva tenuti d'occhio fino a quel momento. Fece per avvisare i compagni del pericolo, ma Rachel e Gabriel erano spariti. Deglutì e scattò in piedi, le dita serrate attorno all’elsa della spada, i muscoli tesi e pronti a colpire. Tuttavia, quando realizzò cosa fosse la creatura, l'arma gli scivolò dalle mani e, con essa, anche la voglia di combattere.
Angolino dell'autrice: buongiorno miei prodi lettori! Allora, finora come va la storia? Vi piace? Spero di sì, ce la sto mettendo tutta per tessere una trama decente e senza buchi XD Comunque, appaio in questo capitolo essenzialmente per scusarmi: purtroppo questo doveva essere parte del capitolo scorso, ma per esigenze di lunghezza ( leggere online un capitolo di 16 pagine mi sembra una cattiveria gratuita) ho deciso di spezzarlo in due parti. Sperando che questa mia scelta non abbia rovinato l'atmosfera >-< fatemi sapere che ne pensate e ci vediamo al prossimo capitolo!
-Hime

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Capitolo 20
*** Act. 2 - Lehcar ***


Slayers
Act. 2 - Lehcar



Per un istante tutto rimase uguale: gli alberi, i Trerant dormienti, il cielo stellato sopra la sua testa. Persino il silenzio era lo stesso, denso e grumoso come il fango secco degli acquitrini. Rachel restò ferma e vigile a osservare i Guardiani della foresta, in attesa che accadesse qualcosa, ma tutto pareva immerso in un'eterna e snervante immobilità. Solo quando si accorse di essere sola si voltò.
- Alan. Gabriel. -
Strinse le Bladegun e scrutò alla ricerca di un indizio che l’aiutasse a capire dove fossero andati a finire. Sebastain volteggiava sopra di lei, sbattendo le ali più velocemente del solito, come se fosse agitato, inquieto. Poi il Gemren alzò la testa verso il cielo e gli occhi si spensero all’improvviso, così come il suo cuore verde e il meccanismo che gli permetteva di volare. Rachel scattò rapida, afferrandolo sottobraccio un istante prima che la sua enorme testa sbattesse al suolo.
Un brivido freddo le fece accapponare la pelle, come un riflesso, una reazione spontanea del suo corpo al pericolo, ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a percepire nessuna presenza ostile. Fu proprio l’istinto a suggerirle di guardare il cielo e le nuvole che si addensavano a una velocità innaturale, oscurando una dopo l’altra le costellazioni. Si spense l’Unicorno, i due Cani, si spense il Toro e con essa anche i Gemelli. Infine fu il turno di Orione, che quella notte brillava più forte delle altre.
All'orizzonte Rachel vide il breve chiarore di un lampo e alle orecchie le giunse il sordo rimbombo di un tuono. Il vento sferzò l’erba con la violenza di una frusta, alzando nell’aria foglie secche, polvere e piccole zolle di terra. Rachel indietreggiò, strinse le armi e fece saettare lo sguardo da un’ombra all’altra senza trovare nulla, eccetto oscurità e contorni indistinti.
All'improvviso nella sua testa esplosero due voci profonde, che parlavano all'unisono. Si girò a fronteggiare i due Trerant e notò che i loro occhi erano aperti, che le loro iridi di un verde incandescente la fissavano.
Sin an aisling a 'fàs an lann mo bhana-mhaighstir.”
Rachel sollevò le pistole e, senza esitare, prese la mira e premette il grilletto. Il proiettile fendette l’aria, ma stranamente non colpì mai il bersaglio. La cacciatrice si irrigidì, sbarrò le palpebre e abbracciò Sebastian. Quando un lampo rischiarò la volta celeste e un tuonò le ferì i timpani, avvertì le forze venirle meno. In un attimo cadde a terra svenuta, prigioniera dell'oblio, mentre sopra di lei il cielo ruggiva furioso. 
 
Quando Rachel riaprì gli occhi, i due Trerant erano svaniti, così come la sensazione d’opprimente pericolo. Gli alberi che circondavano il prato non c’erano più e ora l’erba si estendeva fino alla linea dell’orizzonte, punteggiata dai petali rossi, gialli e viola dei papaveri, bocche di leone e lupini. Un sole estivo splendeva nel cielo, mentre nell’aria calda e immobile svolazzavano libellule e farfalle dalle ali bianche quasi quanto le nuvole sfilacciate trasportate da una brezza impercettibile.
Poco lontana da lei, una donna con i capelli biondi legati in una stretta treccia suonava delle ariette vivaci con un flauto. Rachel la fissò sospettosa, stringendo le sue Bladegun fino a farsi sbiancare le nocche, e sbirciò alle proprie spalle per accertarsi non ci fossero nemici a tenderle un agguato approfittando della sua distrazione.
- I tuoi amici non sono qui. - esordì la donna con voce melodiosa, attirando la sua attenzione.
Rachel la vide posare lo strumento sull'erba e rivolgerle un sorriso gentile. Aveva gli occhi allungati e azzurri quasi come il cielo sopra le loro teste, lo stesso colore di quelli di Qayin. E dei suoi.
- Sei spaventata? Non credevo che questa visione ti avrebbe scioccata così tanto. -
- Non sono spaventata. -
- E allora perché non rinfoderi le tue pistole? -
- Dove siamo. -
La donna sorrise e allungò le gambe. Da sotto la lunga gonna nera sbucarono due scarpe di pregiata fattura, con un laccio di pietre opache e filigrana argentata che si avvolgeva più volte attorno alla caviglia.
- Siamo in un'altra dimensione, più precisamente in quello che gli umani chiamano “aldilà”. - rispose, sistemandosi lo scialle di sciamito bianco che le copriva le spalle.
- Sono morta, quindi. -
- Non sempre è necessario esserlo per arrivare qui. -
- Non capisco. -
La sconosciuta sorrise di nuovo, mettendo in mostra un paio di lunghi canini.
- Non è importante che tu capisca, non ora almeno. Coraggio, Rachel. Non eri tu che volevi parlarmi? -
Rachel ammutolì e fece un passo verso di lei, mentre un vento di tempesta soffiava irruento nel fondo della sua anima.
- Sei Seanna. - esalò, gli occhi sbarrati e il corpo rigido come un tronco.
L'altra annuì e schiuse le labbra in un ghigno divertito. Con il cuore che le martellava nelle orecchie, la cacciatrice si avvicinò ancora cercando di richiamare alla mente i discorsi che si era preparata, ma essi non vollero saperne di farsi afferrare.
- Mi sembri sorpresa. Non mi immaginavi così? Sei forse delusa? - indagò Seanna.
Rachel dovette costringersi a non correrle incontro. Era da più di cento anni, da quando aveva scoperto di non essere una semplice Slayer, che desiderava incontrarla. Specialmente da quando aveva cominciato a fare degli strani sogni.
- Non sono delusa. - disse in tono calmo e forzatamente neutro, - Non ti immaginavo così, ma va bene. Ho tante cose da dirti… da chiederti… -
- Oh, qui abbiamo tutto il tempo del mondo. - sorrise di nuovo e protese la mano verso di lei, - Dai, avvicinati, non ti mangio. -
Rachel si sentì attratta come una calamita, ma qualcosa dentro di lei l’obbligò a fermarsi: la sensazione di pericolo era tornata senza apparente motivo, pietrificandola sul posto e impedendole di continuare. A vederla così tesa, un’ombra infastidita adombrò lo sguardo di Seanna, ma poi la mascella si rilassò e le labbra si arcuarono di nuovo in un’espressione rilassata.
- Non ci credo che non hai mai fantasticato su di me. Dopo quei sogni, il mio ricordo non ha mai abbandonato i tuoi pensieri. -
- Un ricordo. -
- Sì. Scommetto che ho la stessa voce che aveva quella figura indistinta. -
- Non so di cosa tu stia parlando. -
- Oh, bambina, non mentire. Non serve. Sai bene che i sogni non sono solo frutto della nostra mente. E tu sei una ragazza speciale, vero? -
Rachel non commentò e assunse l’espressione più imperturbabile che conosceva, cercando di placare il galoppo impazzito del cuore e il suo pulsare martellante che le invadeva le orecchie. Serrò le dita attorno alle Bladegun e inspirò profondamente. La tensione che le tendeva i muscoli sembrava divertire quella donna, che aveva l’aspetto di sua madre.
- Un tempo si credeva che il sogno fosse un fiume che scorreva attraverso i mondi. Le sue acque bagnavano anche i lidi al di là della vita. Tutti potevano sognare, persino i morti. Nessuno ormai ci crede più e molti hanno perduto la capacità di esplorare il mondo onirico, eccetto forse gli Oracoli. Tuttavia, i pochi che sono sopravvissuti sono additati come pazzi e perseguitati alla stregua di mostri. Buffo come la scienza moderna abbia portato via uno dei beni più potenti. - curvò le labbra e scoccò a Rachel una lunga occhiata raggelante, - Ma ci sono alcune persone speciali che sanno ancora sognare. Sanno come navigare su quelle acque perigliose senza farsi completamente trascinare. E una notte scommetto che mi hai vista. Ero così reale da sembrare vera, viva, anche se è da molto tempo che la mia anima ha abbandonato il tuo mondo. Avanti, perché non ti avvicini? -
Rachel chiuse gli occhi e sospirò, lasciando vagare lo sguardo. Quella sensazione di pericolo persisteva e le annodava lo stomaco. Colse un movimento al limitare sul campo visivo, ma quando si girò vide solo l’ombra di un coniglio che fuggiva a nascondersi dentro un cespuglio.
- Hai paura? - sibilò Seanna, minacciosa e suadente al medesimo tempo.
- No. Però stai certa che non farò un passo. -
- E perché? -
- Perché tu non sei mia madre. - dichiarò con in tono freddo.
Seguì un lungo minuto di silenzio, durante il quale la cacciatrice e la donna si studiarono.
Non era Seanna, eppure, nonostante sentisse la pressione del lyinum sull’indice, Rachel non riusciva a premere il grilletto. Arretrò con il cuore pesante e la vista annacquata, cercando invano in quegli occhi così simili ai suoi qualsiasi cosa le permettesse di ritrattare la sua ultima frase.
- Sei molto perspicace, figlia mia. - si complimentò Seanna, alzandosi, - In realtà non avevo dubbi, sei una cacciatrice molto forte, tuo padre sarebbe orgoglioso di te. Ma se pensi che io sia solo un’illusione, ti sbagli. -
Rachel si morse forte le labbra nel tentativo di contrastare il filo spinato che sentiva soffocarle il cuore. Era doloroso.
- Cosa sei davvero. - domandò.
Ancora una volta seguì una lunga pausa. Seanna levò gli occhi verso il cielo, osservando una nuvola oziosa che si faceva trasportare dal venticello.
- Sono un ricordo, frutto della tua mente e lascito della vita di colei che cerchi. -
- Come una proiezione. -
- Una specie. -
- E dimmi, conservi ancora la sua memoria. -
- Una parte, ma questo mio corpo è fatto per lo più da sensazioni. - raccolse il flauto, mentre un sorriso maligno le arcuava le labbra, - E sai cosa pensava Seanna di te?  Della sua figlia mezzosangue? Nel tuo mondo venite chiamate Sangue Sporco, se non erro. - scandì con disprezzo.
Rachel rimase immobile, impietrita, con una marea oscura che le cresceva dentro, le ostruiva la gola e le bruciava i polmoni mozzandole il fiato.
- Ah, sì, ora ricordo: non ti ho mai voluta. L’idea di mettere al mondo un ibrido mi disgustava, ma quel bastardo di uno Slayer mi ha convinta che era la cosa giusta da fare, che se poi ti avessimo venduta alla Dogma loro ci avrebbero lasciati in pace. Come puoi vedere, il nostro piano, anzi il mio piano, ha fallito miseramente. - in un battito di ciglia le fu di fronte, con i canini snudati, - Lui ci ha vendute entrambe, sia me che te. E pensare che mi aveva promesso amore eterno! Sciocca io che gli ho creduto, avrei dovuto saperlo che il suo era un sentimento di convenienza, una recita per convincermi a risparmiargli la vita. -
- Smettila… -
- Ma come, adesso che ti sto mettendo davanti alla verità non vuoi ascoltare? Mi hai cercata per così tanto tempo e ora mi rifiuti? -
Rachel si premette le mani sulle orecchie e indietreggiò barcollando. Non era vero, era solo un’illusione. Come l’aveva chiamata Alan? Illusione realistica, sì, e quell’essere non poteva farle davvero del male.
Il filo spinato intorno al suo cuore si strinse ancor di più, perforandolo con le sue punte acuminate. Quasi le parve di sentire il sapore del sangue in bocca.
- Vattene. -
Una risata violenta e sguaiata proruppe dalle labbra di Seanna. L’afferrò per il collo e la sollevò da terra come se non avesse peso, inchiodandola con quei suoi occhi azzurri, l’unica cosa che non era mutata su quel viso ora deturpato dalle fiamme e dalle ustioni che premevano da sotto la pelle annerita.
Rachel si dimenò, scalciò e con gli occhi umidi le scaricò addosso entrambi i caricatori delle Bladegun. I proiettili le fecero saltare un occhio, le ridussero il corpo a una massa di carne sanguinante, ma la creatura non mollò la presa. La sua risata stridente divenne sempre più forte, assordante, cattiva.
- Non puoi fare niente contro di me, Rachel. - disse sputando un grumo nero, che le scivolò sulla mandibola scoperta e sul collo.
Seanna la scaraventò a terra e le schiacciò il viso sotto le scarpette di pregiata fattura. Da sotto le ciglia umide, la cacciatrice vide quella che doveva essere sua madre alzare le mani al cielo e subito dopo udì il fragore di un tuono. Poi percepì il violento ticchettio della pioggia sulla pelle, gocce pesanti, nere, dense e appiccicose come catrame.
- Non puoi uccidermi, perché io vivo dentro di te, bambina mia. -
Un fulmine squarciò il cielo, illuminando i fiori anneriti del prato e innumerevoli cadaveri di animali putrefatti e mangiati dai vermi. La luce bianca avvolse tutto e, prima che Rachel potesse capire cosa stesse accadendo, le orecchie cominciarono a ronzarle e sui suoi occhi calò di nuovo l’oscurità.
 
Si ridestò piano piano con la sensazione di aver dormito per anni. Avvertì la freschezza delle lenzuola e il tepore della lana sotto i polpastrelli. Si guardò intorno frastornata e notò che era distesa su un letto in una stanza di pietra, con il soffitto a costoni e le finestre piombate chiuse da pesanti grate. Una cassapanca antica, di legno intagliato con rose e cigni, era stata sistemata sotto un quadro sbiadito di una natura morta. Le due sedie a zampa di leone che attorniavano un basso tavolino erano occupate da un Alan dalla faccia annoiata e da un Gabriel pensieroso, tutto assorto nella lettura di un tomo dall’aria difficile.
Fu proprio il ragazzo ad accorgersi per primo che si era svegliata. Si alzò di scatto, richiamando con un cenno Alan, e andò a sedersi sul bordo del letto con un’espressione sollevata.
- Per Shamar, ci hai fatto prendere un bello spavento! Non so cosa diamine ti sia successo, ma quando vi ho visti svenire entrambi ho quasi avuto un infarto e… -
- Dove siamo. -
- Mi sembra ovvio, no? -
- No, non è ovvio se te lo ha chiesto. - borbottò Alan mentre li raggiungeva e andava ad appoggiarsi al muro.
Gabriel sbuffò, poi intavolò un discorso su quanto fosse importante la gentilezza nei rapporti umani che Rachel non ascoltò, intenta ad osservare il cacciatore. Sul viso Alan portava la solita maschera d'indifferenza, come se non gli importasse niente di ciò che gli accadeva intorno. Non che la cosa la toccasse, ma l’occhiata che le rivolse in qualche modo la infastidì.
Si tirò su e si appoggiò allo schienale del letto, massaggiandosi le tempie per scacciare il ronzio nelle orecchie. Forse aveva l'emicrania. Ignorò il dolore e il vuoto che sentiva nel petto e si impose di respirare normalmente.
- Dove siamo. - ripeté.
- Siamo nel castello di Seanna. - rispose Gabriel.
A quelle parole, il suo cuore mancò un battito. Strinse forte le lenzuola, trasse un profondo respiro e rimise in ordine le immagini che le vorticavano nel cervello.
- Mi avete portata voi qui. -
- In verità ti ha potata lui sulle spalle. Eri svenuta e non riuscivamo a svegliarti, così Meredith e Maxwell ci hanno suggerito di trasportati direttamente qui e… -
- Maxwell. - chiese stranita.
- Sì, è un lupo gigantesco. - 
Rachel fissò lo sguardo in quello di Alan, la testa che le girava come se fosse su una giostra, ma il cacciatore non si scompose. Si spostò semplicemente una ciocca ribelle dal viso, una di quelle rosse, poi afferrò una sedia e la trascinò vicino al letto.
- Gabriel, vai a dire ai padroni del castello che la bella addormentata si è svegliata. -
- Sì, vado subito. - balbettò nervoso.
Il ragazzo si defilò in fretta e chiuse la porta alle sue spalle. Solo quando il rumore dei suoi passi svanì, Alan si sedette e intrecciò le dita davanti al naso.
- Cosa hai visto? - la interrogò.
Rachel distolse lo sguardo e impercettibilmente affondò le unghie nelle lenzuola. Vedeva ancora il viso insanguinato della creatura, e le sue parole le riecheggiavano nella sua testa, impedendole di pensare lucidamente. Non riusciva a spiegarsi da dove venisse la tensione che la irrigidiva, o a cosa fosse dovuta quella sensazione di gelo che le attanagliava le viscere e le comprimeva i polmoni. Era simile alla stanchezza, qualcosa che rendeva le palpebre pesanti e le faceva desiderare di abbandonarsi ad un eterno oblio.
- Seanna. - disse a fatica, pronunciando quel nome con voce flebile.
Non si curò del motivo per cui gli stesse rispondendo, in quel momento non aveva importanza. Non più delle parole che sua “madre”, perché non riusciva a chiamarla in altro modo, le aveva rivolto.
Alan sospirò e le mise una mano sulla spalla. Rachel inclinò la testa, sfiorando appena con l’orecchio le nocche screpolate del suo compagno.
- Come siete carini. -
Rachel riconobbe all’istante la voce di colui che aveva parlato. Non si stupì quando, voltandosi, incrociò due iridi di un giallo quasi dorato. Erano passati più di quarant’anni, ma Maxwell era rimasto l’uomo attraente che ricordava, con gli stessi capelli nero pece e il sorriso beffardo che gli dava quell’aria da bello e dannato. Nonostante la cicatrice che gli deturpava l’occhio destro, qualcosa nel suo viso, al di là della coda e delle orecchie da lupo, era cambiato, qualcosa che ora gli dava un’aria più selvaggia, animalesca.
- Non pensavo che ti fossi messa in coppia con quel ritardato del mio allievo. Non che la cosa mi dispiaccia, Alan non sarebbe capace di trovare il suo culo con due mani e una torcia e la tua compagnia non può fargli che bene. - disse, avvicinandosi al letto.
- Ritardato a chi? - ringhiò Alan, ma nella sua voce non c’era rabbia.
Rachel si sedette e si chinò per indossare le scarpe.
- Dov’è Sebastian. - chiese a Maxwell.
- L’ho lasciato a Lehcar. Quando l’ho raccolto, emetteva del fumo, come se fosse andato in corto circuito, e ho pensato di lasciare che fosse lui ad occuparsene, dato che sembrava sicuro di sé. -
A sentir pronunciare quel nome, Rachel divenne di sale.
Lehcar, colui che aveva ucciso sua madre. Lo Slayer che poteva darle tutte le risposte.
Chiuse la mano a pugno e contrasse la mascella. Improvvisamente, la stanchezza evaporò davanti all’incendio che adesso le faceva ribollire il sangue. A quella sensazione sapeva dare un nome: rabbia. Oscura e fredda rabbia.
Maxwell inarcò un sopracciglio, ma non si scompose. Rachel lo studiò per un lungo momento, valutando i pro e i contro se avesse deciso di ammazzarlo subito. Le Bladegun erano appoggiate sul tavolino, le sarebbe bastato un rapido scatto per agguantarle, ma qualcosa le diceva che la sua velocità non avrebbe potuto competere con quella di Maxwell, non nelle condizioni in cui versava. Si sentiva ancora debole, non sarebbe stata abbastanza in forze per una lotta. Accantonò l'idea, superò Alan con passi aggraziati e si fermò di fronte al tavolino senza tradire alcuna emozione. Appena ebbe infilato le armi nelle fondine, giurò di aver udito un lieve sospiro provenire dalla direzione del compagno.
Dal canto suo, Maxwell rilassò le spalle e le rivolse un mezzo sorriso. Rachel scrollò le spalle e lo osservò da sotto le ciglia, soppesando l’espressione quasi divertita dipinta in faccia.
- Non si fissano così le persone, signorina. - la rimproverò Maxwell in tono scherzoso e, prima che potesse dire altro, le diede le spalle, - Muovetevi, c’è qualcuno che vuole parlare con voi. -
Scesero un’ampia scalinata che attraversava due piani illuminati da vecchi candelabri. Giunti al piano terra, passarono tra due file di statue collocate in piccole alcove e percorsero un lungo corridoio.
Alan camminava tranquillo, assorto in chissà quali pensieri, le pupille ridotte a due fessure verticali che si muovevano pigramente da una parte all’altra. Rachel lo vide indugiare spesso su Maxwell, ma nessuno dei ruppe il silenzio. Dal canto suo, la cacciatrice si limitava a seguire il loro accompagnatore, senza pensare a niente. Il fuoco che sentiva ardere nel petto era preferibile a qualunque altra sensazione. Così lasciò che divampasse, alimentando le fiamme con il pensiero di quello che avrebbe fatto a quell’uomo una volta che lo avesse avuto davanti.
Quando giunsero davanti a una pesante porta in ferro e lynium, Maxwell l’aprì, ma fermò Alan prima che potesse fare un solo passo all’interno.
- Mi ero scordato di dirti che l’invito era solo per una persona. - ghignò, spingendolo indietro.
- Sei sempre il solito. -
Maxwell scoppiò in una grassa risata. Era una risata vera, notò Rachel, come tutte le altre emozioni che aveva mostrato fino a quel momento.
Lanciò un’occhiata di sbieco ad Alan, cercando di capire cosa avesse intenzione di fare. Anche se fremeva dalla voglia di testare i suoi nuovi proiettili su Lehcar, aveva un debito con lui.
- Stai tranquilla, Rachel. Andrà tutto bene, non hai nulla da temere. - la rassicurò Maxwell accorgendosi della sua rigidità.
Rachel scrollò le spalle e, dopo aver scambiato un'occhiata intensa con Alan, oltrepassò Maxwell e la porta senza voltarsi indietro, le dita già avvolte attorno alle Bladegun.
Quando le ante si chiusero alle sue spalle, due occhi rosso sangue si fissarono nei suoi e per un attimo si sentì mancare la terra sotto i piedi. L’essere che la fissava dallo scranno di marmo e onice nera non aveva più niente di umano. Lo percepiva da come la guardava, dallo sguardo gelido che le aveva piantato addosso. Aveva i capelli innaturalmente bianchi, la carnagione candida, i muscoli tesi sotto l’armatura di pelle nera. Molte fate sedevano ai suoi piedi a capo chino, come sudditi di fronte al proprio re.
Una parte di Rachel sapeva che non poteva essere né un Primigineo né un Antico, l’odore era troppo diverso, eppure la forza che emanava la sua figura la teneva inchiodata lì. La consapevolezza di trovarsi al cospetto di un avversario che non avrebbe potuto battere le piombò addosso con la violenza di una valanga.
Un tetro silenzio ammantava l'ambiente e la luce bronzea del sole calante che filtrava attraverso le alte finestre accarezzava il marmo del pavimento, rendendolo simile ad una superficie ricoperta di lava.
Ad un tratto, Lehcar si alzò in piedi. Sul fianco portava uno stocco dalla guardia finemente lavorata.
- Immagino tu sappia chi sono. - esordì all’improvviso con voce autoritaria.
Rachel annuì. Avrebbe voluto fare un passo indietro, ma il suo corpo si rifiutò di ascoltare gli ordini del suo cervello.
- Non devi avere paura, non ho intenzione di farti del male. - disse, per poi fare un cenno in direzione delle fate, - Perdonale, sono state addestrate a intrappolare tutti coloro che tentano di arrivare qui e quando vi hanno visto si sono prodigate per fermarvi. Maxwell vi ha seguito fin da quando siete entrati, voleva proteggervi. Aveva fiutato l’odore del suo allievo e non vi avrebbe lasciati morire in nessun caso. -
La cacciatrice si morse le labbra senza sapere che dire.
- Assomigli molto a tua madre, sai? Oserei dire che hai preso tutto da lei. - mormorò sorridendo.
Si avvicinò a lei lentamente e, appena fu a meno di un braccio di distanza, le prese una ciocca tra le dita e l’arrotolò attorno all’indice. Rachel si ritrasse ed estrasse una delle Bladegun, puntandogliela alla gola.
- Non osare parlare di lei. - ringhiò.
Lehcar non si scompose, anzi sostenne il suo sguardo ostile senza timore continuando a sorridere.
- Tu l’hai uccisa. -
- È una domanda o una costatazione? -
- Rispondi o ti faccio saltare la testa. -
- Noto che hai ereditato anche l’irritabilità di Seanna. -
Rachel prese la mira e premette il grilletto. Agile come un gatto, Lehcar si spostò di lato evitando il colpo. L’esplosione dello sparo rimbombò sui muri, rimbalzando contro le statue e le vetrate, e il proiettile si conficcò nel trono. Il marmo si crepò e un sottile filo di fumo fuoriuscì dal foro. Prima di poter reagire, Rachel si sentì afferrare per i polsi e, in una frazione di secondo, si ritrovò a terra.
- Vorrei avere un dialogo civile. - la rimproverò, poi calciò le armi lontano da loro e torreggiò su di lei, - Se avessi voluto ucciderti, non respireresti già più, te lo assicuro. -
La cacciatrice si issò sui gomiti con uno strano calore che le infiammava le guance, mentre una fastidiosa sensazione di disagio le serpeggiava nello stomaco. Lehcar la studiò curioso da sotto le ciglia bianche, perfettamente padrone della situazione. Niente nella sua postura lasciava trasparire una minaccia e Rachel non poté fare a meno di sentirsi confusa.
 - Perché l'hai ammazzata. -
Lehcar scosse la testa con aria cupa: - Perdonami... -
- Quindi lo ammetti. - sibilò a denti stretti.
- Sì, è solo colpa mia se tua madre è morta. - la voce gli si incrinò appena, - Quando mi si è presentata l’occasione, ho vacillato e ho temuto per la mia vita. Per questo lei è morta. -
- Non me ne faccio niente delle tue scuse, non la riporteranno qui. -
- Nemmeno uccidendomi la potrai riabbracciare. - ribatté pacato e stirò le labbra in un sorriso triste, - Sei cresciuta bene, Kreilel, seppur senza una madre o un padre. Nessuno ti ha insegnato niente all’infuori della caccia e mi dispiace che tu sia diventata com'ero io. Certo, forse non sarei stato un buon genitore, ma avrei fatto del mio meglio per non far mancare niente né a te né a Seanna. -
- Come conosci il mio vero nome… -
L’espressione di Lehcar si addolcì: - C’è solo un’altra persona oltre a tua madre che può conoscerlo. -
- Mio padre. - completò la frase in un sussurro.
Rachel si portò una mano alla bocca. Aveva la gola chiusa e le ginocchia molli, tanto che, se avesse provato ad alzarsi, era sicura che non ci sarebbe riuscita.
- Non ci somigliamo molto, lo so, ma è meglio così. - sospirò e tornò davanti allo scranno, mentre una squadra di otto fatine gli veniva incontro trasportando Sebastian.
Quindi si voltò e le porse il pipistrello meccanico. Lei lo strinse forte al petto e fissò Lehcar dal basso, ancora incredula.
- Cos'è successo veramente a Seanna. - chiese turbata.
- È successo molto tempo fa. - rispose in tono cupo, - Io ero un semplice Slayer, nel cui corpo era stata impiantata la carne di un vampiro puro, un Primigineo. Del mio gruppo ero stato l’unico bambino a sopravvivere. Vista la mia forza, la Dogma mi ha sempre affidato compiti difficili, di solito missioni che avevano a che fare con necrumanoidi. Ero bravo nel mio lavoro: le Rune del Comando mi impedivano di perdere il controllo e l’Essenza dell’Anima mi aveva tolto la paura della morte. Non la cercavo, ma se fosse arrivata la mia ora non l’avrei respinta. La mia vita era la caccia e avrei continuato a uccidere mostri finché uno di loro non mi avesse divorato. Avevo appena ritirato la ricompensa per la testa di una sirena quando la Dogma mi ordinò di eliminare Seanna. Non so chi avesse messo una taglia sulla sua testa, ma poco importava. Il mio lavoro era uccidere, non fare domande. Le informazioni erano vaghe, nessuno sapeva molto su questo vampiro, a parte il fatto che dimorava in un castello avvolto dalla nebbia. Decisi dunque di pedinare una mia vecchia conoscenza, un vampiro a cui avevo risparmiato la vita un bel po’ di tempo prima. -
- Il barone Andrzej Harward. -
Lehcar sgranò gli occhi e fece un mezzo sorriso: - Adesso si fa chiamare barone? E dire che non mi è mai sembrato molto intraprendente. L’hai incontrato, deduco. -
- È stato lui a dirmi dove trovarti. -
- Sempre il solito chiacchierone. - sbuffò nostalgico, - All’epoca era un povero elfo che aveva avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Era riuscito a nascondere di essere stato morso alla sua famiglia, ma non aveva il controllo delle sue pulsioni. Quando arrivai a Ferwal, lo vidi in una locanda del centro, mi sedetti davanti a lui e gli ricordai che mi doveva un favore. -
- Perché l’avevi risparmiato. - indagò Rachel.
- Non c’era una taglia sulla sua testa all’epoca del nostro primo incontro e lui non mi sembrava così pericoloso da meritare di morire. Comunque, si ricordava perfettamente di me e delle minacce che gli avevo rivolto prima di andarmene, ma nonostante tutto negò di essere al servizio della Matrona. Avrei potuto metterlo sotto torchio, ma preferii aspettare che mi guidasse lui fino al castello. D’altronde, prima o poi sarebbe dovuto tornare. Dopo una settimana di appostamenti, lo seguii attraverso la palude, percorrendo la sua stessa strada passo a passo. Sai, allora non c’era nessun indovinello e gli unici a conoscere la strada erano i servi più fedeli di Seanna. Avevo già escogitato un piano, certo che lei non fosse diversa da tutti gli altri vampiri con cui mi ero misurato, ma quando varcai la soglia del castello non ebbi nemmeno il tempo di sguainare la spada. Tua madre, ancor prima di essere un vampiro, era una maga e aveva passato tutti i secoli precedenti a studiare gli incantesimi più disparati. Non le fu difficile sconfiggermi. -  ridacchiò e scosse la testa, - Non so quanto tempo passai nelle sue prigioni, giorni, settimane, forse mesi, non aveva importanza, il tempo aveva smesso di esistere per me. Poi, una mattina Seanna venne nella mia cella e mi morse senza che io potessi opporre resistenza. All’inizio non sentii nulla, ma poi, pian piano… beh, spero non ti capiti mai di essere morsa da un vampiro puro. -
- So solo che è molto doloroso. -
- Già. -
Incrociò le braccia al petto e spostò i capelli per mostrare due piccoli fori rossi.
- Persi i sensi. Per la prima volta in vita mia desiderai davvero di morire, pregai che la Dama Nera mi venisse a prendere per porre fine a tutto quel dolore, ma ogni volta che la sentivo vicina il mio corpo riprendeva a lottare. Quando mi risvegliai, notai che la temperatura era diventata più mite e la primavera aveva già sciolto la neve. Seanna tornò nella mia cella e mi disse che aveva cancellato una parte delle Rune del Comando e che ero diventato un vampiro. -
- Non è possibile cancellarle, non una volta che si sono cicatrizzate. - obiettò Rachel sbalordita.
- Anch'io non le credetti, ma quando mi osservai allo specchio, mi resi conto che non mi stava prendendo in giro. Non erano completamente sparite, però sentivo molto meno il loro influsso. Inoltre, mi ero unito completamente con il vampiro che era in me e mi erano stati restituiti pure i sentimenti. -
- Non è possibile. -
- Lo stai sperimentando sulla tua stessa pelle. -
Rachel non replicò, non avrebbe avuto senso negare, anche se in quel momento avrebbe tanto voluto non sentire niente per avere la mente sgombra e riflettere sulla situazione. Invece si trovava in balia della confusione, sommersa da sensazioni di cui aveva solo sentito parlare. Riconobbe una di queste macchie di colore, era una cosa che Samuelle le aveva descritto quando finalmente si era tolta le bende dal viso: sollievo. Comprese di non essere strana o un esperimento fallito, di non essere sola in tutto quello, e come per magia percepì un grosso peso scivolarle via dalle spalle.
Lehcar sorrise lievemente e riprese: - All’inizio la odiai per quello che mi aveva fatto diventare. Non nego di aver più volte pensato di ucciderla, magari durante il giorno, quando il suo potere era meno forte, ma capii ben presto che non sarei riuscito comunque a scappare: se non mi avesse ammazzato lei, sarebbero stati i suoi seguaci. Così mi arresi a vivere con lei e ad obbedire ai suoi ordini. Alla fine, mi dicevo, non era poi tanto diverso dal combattere al soldo della Dogma. Tuttavia, Seanna non mi obbligava a fare nulla. Solo una volta mi mandò assieme ad Andrzej in città a sedare una rivolta e poi a controllare come stava suo figlio Qayin, che sarebbe anche il tuo fratellastro. La maggior parte del tempo la passavamo insieme, o meglio lei mi cercava per parlare. Era una gran chiacchierona, sai? Poteva aprire una dissertazione filosofica sul perché il cielo era azzurro e continuare per ore, interrogandosi su quali fossero i motivi per cui un dato fenomeno aveva luogo. La sua sete di conoscenza era insaziabile. Non mi resi conto subito di quanto fosse diversa, ma pian piano il mio odio per lei cominciò a svanire, così come la mia voglia di scappare e tornare a essere uno Slayer. Poi un giorno mi resi conto che mi piaceva la sua compagnia, era bello discutere, farsi domande e cercare le risposte per il puro gusto di farlo, e non perché era necessario per portare a termine il mio dovere. Ritrovai quella parte umana che l’Essenza dell’Anima mi aveva strappato e, inevitabilmente, mi innamorai di lei. -
Si lasciò ricadere pesantemente sul trono e si passò una mano sul viso, con le spalle incurvate da un peso invisibile.
- Cosa è successo dopo. - insisté Rachel.
Lehcar si raddrizzò. Ora sembrava solo un uomo stanco, inerme e abbattuto. Un guerriero che aveva perso la battaglia e il suo regno.
- Seanna era già incinta di te quando arrivarono. Io ero andato e Ferwal a prendere Qayin, poiché tua madre voleva rivederlo e raccontargli perché lo aveva lasciato, ma non feci in tempo a bussare alla porta dei suoi genitori adottivi, che Andrzej corse da me per avvertirmi che una squadra di Slayer era penetrata di forza nella foresta e avevano assediato il castello. Corsi più velocemente che potevo. Sapevo di essere in svantaggio con tutti quei cacciatori, però volevo che almeno voi vi salvaste. Combattei contro i miei vecchi compagni e mi feci strada tra i loro corpi, ma erano troppo numerosi e troppo forti. Mi scontrai poi con una mia vecchia conoscenza, un cacciatore abile, ma non quanto me. Eravamo stati partner durante molte missioni, ma in quel momento non importava. Lo odiavo, lo odiavo dal profondo della mia anima perché, per quanto gli urlassi di fermarsi, lui continuava a incalzarmi e ad esortarmi ad arrendermi. Più di una volta individuai una falla nella sua difesa, eppure non fui in grado di ucciderlo. Poco dopo, mi furono addosso, mi disarmarono e mi inchiodarono a terra. Catturarono me e Seanna e ci portarono alla sede centrale della Dogma, a Dranlon. Pensavo ci avrebbero ucciso, ma quando ci misero nella stanza delle torture capii che quello che cercavano da noi erano informazioni, lo capii nell’esatto momento in cui cominciarono a infilarmi dei pezzi di legno ardenti sotto le dita, domandandomi dove fosse il portale. Andò avanti per circa tre giorni. Gli Slayer sopravvissuti all’assalto si davano il cambio tra un’ora e l’altra e ogni volta mi chiedevano la stessa cosa. Per ogni mio “no” mi veniva staccato un dito, rotto un osso, reciso un legamento. Le pareti erano spesse, ma non abbastanza per i nostri sensi acuti. Lei poteva sentire le mie urla e io i suoi singhiozzi come se fossimo stati nella stessa stanza. Alla fine, Seanna cedette e disse loro che il cerchio di acquamarina era il portale. -
Gli occhi di Rachel luccicavano alla luce del tramonto. Serrò la mascella, inspirò profondamente e sentì il sangue affluire al viso e pulsare violento nelle tempie.
- Pensavo fosse un’illusione. -
- Seanna non me ne aveva mai parlato e io non ho mai approfondito, dando per scontato che fosse solo il frutto di una qualche magia delle fate. In realtà, quello era un portale costruito dagli Imperiali e doveva permettere loro di viaggiare tra le dimensioni. Non mi ero mai preso la briga di chiedermi perché la Dogma stesse cercando questi ruderi e quando lo scoprii ero già scappato e tua madre già morta. - chiuse gli occhi, strinse i pugni e scosse il capo come a scacciare delle immagini orribili, poi tornò a raccontare con voce tremante, - Ricordo che la trascinarono sotto il sole cocente, la legarono a un palo e mi obbligarono a guardare mentre bruciava. Fu un processo lungo, doloroso, straziante, quasi quanto le sue grida disperate. Non appena lo ritennero opportuno, la tirarono giù. Un alchimista le aprì il ventre con un falcetto e ti tirò fuori dal suo corpo ancora vivo. -
Rachel strinse ancora di più Sebastian al petto, mentre un sordo dolore al petto le mozzava il fiato.
- Sono scappato come un codardo due giorni dopo. Lo Slayer che faceva la guardia era giovane e inesperto, l’ho attirato nella cella con una scusa e gli ho spezzato il collo. Poi mi sono gettato a rotta di collo attraverso quel dedalo di corridoi stretti e claustrofobici che una volta erano la mia casa. Sono fuggito infischiandomene di tutto il resto, non ho nemmeno provato ad andare a controllare se tu o Seanna foste ancora vive. Sono semplicemente andato via e i miei piedi mi hanno di nuovo condotto in questo dannato castello. - mormorò con voce rotta, scoccandole un'occhiata carica di rimorso e senso di colpa.
- Perché. -
- Non lo so. Forse perché le fate potevano ancora darmi l’illusione che Seanna fosse qui, o forse perché consumarsi nel luogo dove avevo ottenuto e perso tutto era la giusta punizione per un crimine inespiabile. Non ti chiedo di perdonarmi, Kreilel, non mi merito altro se non il tuo disprezzo. Vorrei solo che tu non fossi una Slayer. -
- Non posso essere altro. - rispose con voce atona.
- No, ti sbagli. Questo è quello che la Dogma vuole farti credere, perché per loro è più facile se ti convinci che il destino ti sia già stato cucito addosso, che le tue chiavi non possono aprire nessuna porta. - le andò vicino e le strinse le spalle, - C’è sempre un’alternativa. -
Rachel sorrise involontariamente a quel contatto e un piacevole calore la pervase ovunque.
All'improvviso la porta si aprì e Maxwell e Alan entrarono nella stanza, il primo con un ghigno soddisfatto sulle labbra, l’altro con i capelli scompigliati e un brutto livido sull’occhio destro, più altri svariati segni di lotta sparsi sul viso e su ogni parte del corpo scoperta.
- Avete finito con la riunione di famiglia? Il ritardato vuole parlare con te. - esordì Maxwell ammiccando a Lehcar.
Alan si fece avanti. Sbatté le palpebre sorpreso alla vista delle mani di Lehcar sulle spalle della sua compagna, ma decise di rimandare le spiegazioni.
- Max mi ha detto che sai qualcosa sui Viandanti. È vero? -
Lehcar lo squadrò per interminabili secondi, studiandolo con attenzione. Non appena Maxwell gli fece un cenno di assenso, decise di parlare.
- Quando tornai qui, mi rifugiai nella biblioteca di Seanna in cerca di risposte. È così che ho appreso dell’esistenza del portale. A quanto pare, durante l’Era del Fuoco gli Imperiali vollero provare a costruire dei passaggi per spostarsi da una dimensione all’altra, ma non ottennero nulla. Almeno finché sul corpo dell'imperatore Terrasen I non apparve una runa sconosciuta. -
- Una runa sconosciuta? -
- Sì. L’alfabeto runico ne conta ufficialmente solo ventiquattro, ma in realtà ve ne sarebbe una venticinquesima: Raedo. La sua funzione rimase ignota fino alla prima adolescenza del giovane imperatore, allorché davanti a tutta la corte egli sparì nel nulla, per poi ritornare un istante dopo coperto di brina e ghiaccio. -
- È solo un aneddoto. - sbuffò Alan.
- Non so se sia una fantasia o meno, so soltanto che questa runa esiste e che è stata usata per costruire i portali. Perché mi guardi così? Non mi credi? -
- Mi viene difficile senza uno straccio di prova. - commentò ironico.
- Non ti sei mai chiesto perché talvolta sogni cose che sono già accadute? O cose che si verificano subito dopo, magari a distanza di qualche giorno? - lo provocò Lehcar.
Alan impallidì: - Come fai a saperlo? -
- Perché è un fenomeno che accade a tutti gli Slayer, nessuno escluso. Le Rune del Comando sono formate da sei caratteri: Thurs, Ur, Iss, Algiz, Tyr e infine Perth, il segreto. Quando Seanna ha cancellato quest'ultima, al di sotto c'era Reid, il viaggio. Per quale motivo un incantesimo di semplice controllo dovrebbe includere una runa che garantisce protezione durante i viaggi? -
- Dove vuoi arrivare? -
- I piani alti della Dogma sono sempre stati ossessionati dalla ricerca di questi portali. Non so a cosa servono, ma sono più che certo che gli Slayer siano cavie, in principio nate con lo scopo di proteggere l’umanità dai mostri, mentre adesso per ricreare i Viandanti, gli unici capaci di attivare i portali e spostarsi attraverso lo spazio e il tempo. Reid deriva da Raedo, è una variante sporca, immensamente più debole dell’originale. -
Rachel fece saettare lo sguardo su Alan. Loro erano Sannan, non avevano le Rune del Comando, eppure entrambi potevano sognare, vedere il passato e, forse, anche il futuro.
- Tutto ciò non ha senso. - si intromise, ma l’espressione seria di Lehcar non lasciava adito a dubbi.
Maxwell si fece avanti e si tolse la maglia, mettendo in mostra le Rune del Comando impresse a fuoco sulla schiena.
- Non sta mentendo. - con la mano toccò la cicatrice alla base della schiena, - Non si vede più molto bene, ma quando ho perso il controllo anche la mia capacità di sognare se n'è andata. Quando poi sono riuscito a tornare in me, Lehcar ha confermato i miei sospetti. -
Alan si massaggiò la testa e trasse un profondo respiro: - Va bene, aspetta un attimo. Hai parlato al plurale, hai detto “Viandanti”. -
- Corretto. I testi antichi non sono precisi, ma i libri che Seanna aveva raccolto parlavano di quattro Viandanti, due capaci di muoversi nel tempo, altri due nello spazio. Purtroppo non so dirti molto, non c’erano sufficienti informazioni a riguardo. L’unica cosa di cui ho certezza è che chiunque abbia ricevuto questo potere possiede la runa di Raedo sul corpo. E la Dogma li sta cercando. -
Rachel scorse Alan sussultare. Quando lo aveva pedinato ad Hargitay, lo aveva visto fare domande in giro a proposito di una certa Eluaise e anche durante la notte che avevano passato da Samuelle lo aveva di nuovo sentito nominare quella donna. Sembrava tenerci molto e, a giudicare dalla tensione dei suoi muscoli, doveva essere preoccupato.
- Tu sai dove si trovano? Sto cercando Eluaise, temo che sia invischiata in qualcosa di grosso, temo che... -
- No, mi dispiace. Se Seanna fosse ancora viva, avremmo potuto chiedere a lei, sicuramente avrebbe saputo aiutarti. - rispose Lehcar con un sospiro.
Nel frattempo, all'esterno si era scatenato un temporale e la stanza era piombata nella semioscurità, un grigiore che gettava sull'ambiente un alone cupo. Lehcar si incantò ad osservare le leggere goccioline d'acqua che si infrangevano e scivolavano lungo il vetro della finestra.
- Se la tua Eluaise sta tentando di scappare dalla Dogma, avrà preso la prima nave diretta a Narmalyana. - dichiarò sicuro.
- Non ci arriveremo mai, i Giardinieri Grigi ci fermeranno al confine con la Waldstӓtte. -
A quel punto Maxwell ghignò e gli diede una pacca sulla spalla: - Non ti preoccupare, c'è qualcuno che mi deve ancora un favore a Dranlon. -
- Bene, allora mi accompagnerai fino a lì e… -
- Accompagneremo. - lo interruppe Rachel.
Sebastian aveva ripreso a muovere le alette meccaniche e adesso svolazzava sopra la testa di Alan, emettendo i soliti sbuffi dalle cannule ramose.
- Quello che la signorina intende è che anche lei verrà con te. Pensa che potrà esserti utile il suo aiuto. -
Il cacciatore la squadrò perplesso, ma Rachel raccolse le sue Bladegun e le rinfoderò con aria impassibile. Non era necessario che Alan scoprisse perché aveva deciso di seguirlo. Nessuno l’avrebbe fermata dal raggiungere il suo obiettivo.
- Andate ora. Le fate vi scorteranno fuori dalla foresta. - li incoraggiò Lehcar.
Senza aggiungere altro né salutare, Alan e Maxwell uscirono a passo svelto.
Quando si accinse a seguirli, Rachel venne bloccata per le spalle e in un attimo si trovò prigioniera di due braccia forti, la schiena premuta su un torace ampio e muscoloso. Eppure non si sentiva in trappola, anzi. Quell'abbraccio era carico di tristezza, solitudine e affetto, poteva quasi avvertirli strisciare sotto la pelle. Gli occhi cominciarono a pizzicare in maniera fastidiosa.
- Lasciala andare, Kreilel. -
- Non posso arrendermi. -
Udì Lehcar sospirare contro il suo collo e credette che si sarebbe allontanato con un'espressione delusa stampata in faccia, ma inspiegabilmente lui rimase lì e la strinse ancora di più.
- Il tuo nome lo ha scelto tua madre, ma sono stato io a scriverlo sulla sua pancia, così che fossi solo tu a conoscerlo. E sai cosa ho pensato in quel momento? -
- Cosa. -
- Che era il nome adatto alla creatura che aveva ridato speranza alla mia vita. Non sprecare la tua, Kreilel. -
Rachel restò in silenzio, combattuta. Poi, lentamente, scivolò via dalle braccia di suo padre. Varcò la soglia accompagnata da due fatine con le ali azzurre di farfalla e non si voltò mai indietro, anche se avrebbe desiderato affogare nello sguardo colmo d'amore che le accarezzava la pelle.
 

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Capitolo 21
*** Act. 2.1 - Old Friend ***


Slayers
Act. 2 - Old Friend



La contessa Frejie Lucisla Barazethai alzò infastidita gli occhi al cielo, poi borbottò una formula magica e lo specchio cominciò a svanire. Detestava chi osava contattarla per una consulenza e metteva in dubbio le sue conoscenze. Per Shamar, quanto poteva essere arrogante quel cacciatore!
Si cambiò, prese il mantello di broccato e si diresse nel suo studio, dove l’aspettava Angelika. Sperava vivamente che non avesse combinato alcun danno in sua assenza, la sola idea la faceva innervosire, visto che in meno di tre giorni era riuscita a rompere tre vasi appartenuti alla sua famiglia da ben tre generazioni. Quando arrivò, Megurine, il nuovo cameriere, aveva già portato il carrello della cena che la sua allieva, seduta a gambe incrociate sulla pelliccia davanti al camino, stava letteralmente mangiando con gli occhi, con i lunghi capelli biondi che le ricadevano sul naso e sulle spalle facendola sembrare una specie di animaletto affamato.
Come al solito, non appena si accorse della sua presenza, Angelika le rivolse uno sguardo pieno di ammirazione, che Frejie ricambiò con un sorriso di cortesia. Aveva sostituito l’abito blu scuro con uno di flanella semplice ma elegante, con giusto qualche cucitura d’argento nei punti strategici. Avrebbe dovuto togliersi la stella d’ossidiana, ma poi si era accorta che si accompagnava molto bene anche alla sua nuova acconciatura.
Si accomodò sulla sedia e fece cenno ad Angelika di fare lo stesso. La ragazza si tirò su, raddrizzò la schiena e camminò come le aveva insegnato, un piede davanti all’altro, ancheggiando lievemente ad ogni passo senza traballare, dimentica del dolore che l’aveva tormentata per giorni quando la maga le aveva di nuovo rotto il femore per poi rinsaldarlo nella posizione corretta. Quindi Frejie la servì con della zuppa d’avena e la guardò mangiare con appetito.
- Sei migliorata molto. -
- Grazie, maestra, ma ho ancora molta strada da fare. -
- Da quando sei qui hai fatto dei passi da gigante. - anche la maga assaggiò la minestra e fece cenno a Megurine che poteva andare, - Non stare curva e non azzardarti a pulirti la bocca con la manica. -
Angelika abbassò prontamente la mano, arrossendo di vergogna, e prese il tovagliolo che Megurine aveva lasciato di fianco al piattino di porcellana e alle posate d'argento.
- Scusate. -
- Cosa ti ho detto sullo scusarsi? -
- Che le maghe non si scusano, rimediano. -
- E tu cosa hai appena fatto? -
Angelika si morse le labbra e infossò la testa nelle spalle. Per tutto il resto della cena si sforzò di rimanere dritta e di mangiare composta, anche se, Frejie lo sapeva, avesse potuto avrebbe infilato la faccia nel piatto. Un leggero sorriso arcuò le labbra della maga. Non glielo avrebbe mai detto apertamente, ma era molto fiera di lei. Non era l’allieva più acuta che aveva avuto, però di certo era tra le più promettenti.
I primi giorni di convivenza non erano stati facili. Angelika era una ragazza mansueta, mite, molto portata per la magia, eppure riusciva sempre a combinare qualche guaio. Lanciare incantesimi le veniva naturale, come se lo avesse sempre fatto, però non aveva ancora imparato a leggere e a scrivere bene, quindi ne conosceva solo una minima parte. Quei pochi che aveva memorizzato li padroneggiava con un’abilità impressionante, tanto quanto i sogni che faceva.
Frejie si tagliò due fette di tacchino e le poggiò nel piatto.
- Hai dormito bene stanotte? -
- Domandare se ho sognato? -
- Sì, ti sto domandando se hai sognato. - la corresse paziente.
- No, maestra. -
- Allora perché sei così mortificata? -
- Mor… tificata? -
- Triste. -
Angelika spostò lo sguardo sul camino e osservò la danza frenetica delle fiamme attorno al ceppo di quercia annerito.
- Non lo so, sento un peso qui. - si indicò il petto, - Avere paura di dormire, a volte. -
Frejie si pulì la bocca col tovagliolo e suonò la campanella sulla scrivania. Subito due camerieri entrarono nella stanza e portarono via il carrello.
- Voi delusa? -
- No, non mi hai delusa. Ora però vai a lavarti, Fabrice ha già preparato la vasca. -
- E voi? -
- Userò il bagno al pianterreno. - si alzò e attese che anche lei facesse lo stesso, - Dopo ho un incontro importante, quindi non ci saranno le lezioni serali. Non voglio essere disturbata. -
Angelika annuì e fece un rapido inchino.
- Non correre. -
- No, maestra. -
- Ah, a proposito, ho sentito Alan poco fa. Ti saluta. -
Non le servì girarsi per vedere il sorriso di Angelika allargarsi e gli occhi brillare nel riflesso che le fiamme proiettavano sul suo viso. Poi uscì dalla stanza con passo regale, come Frejie le aveva insegnato. D'altronde, ormai era una donna e come tale doveva curare il portamento e le maniere.
Quando la porta si chiuse alle sue spalle, Frejie udì lo scalpicciare frenetico dei piedi della sua allieva e sbuffò divertita, scuotendo debolmente il capo.
 
La vasca era già piena e l’acqua calda al punto giusto. Frejie si sfilò l’abito, lo consegnò a Claire e, dopo essersi tolta tutte le forcine dalla testa, entrò nella tinozza. Le tende della finestra che aggettava sul giardino interno non erano state tirate completamente e la luce chiara della luna giocava con il lucore aranciato sprigionato dalle candele.
Prese il pettine e lo accarezzò, scandendo una formula magica. Da quando la sua bambinaia, la signora Elith, era morta nessuno aveva più il permesso di pettinarla, non tanto perché tenesse a quella donna, quanto perché era l’unica a non farle male. Avrebbe potuto chiedere a Claire, ma l’ultima volta le era quasi venuto un colpo quando aveva visto la quantità di capelli che erano rimasti sul pettine. Da quel momento, aveva deciso che avrebbe fatto da sola. O con la magia.
Sorrise e appoggiò la testa sul bordo, godendosi il lento e delicato movimento dei denti del pettine tra i capelli. Quindi prese il sapone e cominciò a sfregarsi gli avambracci.
Uno stormo di corvi e cornacchie si alzò in volo a ovest e squarciarono il silenzio con il loro richiamo allarmato.
“Non è un buon segno.”
Sospirò e fissò lo sguardo sul lampadario spento sul soffitto, ripensando ai sogni di Angelika. Ne aveva fatti molti in quel periodo, uno più confuso e insolito dell’altro. All’inizio aveva provato a interpretarli, ma ben presto si era resa conto che, finché la ragazza non avesse assunto una maggiore consapevolezza del suo potere, sarebbero stati sempre molto nebulosi. Non che poi si aspettasse di capirli appieno, i sogni degli Oracoli non erano famosi per la loro chiarezza. In ogni caso, quello che le aveva raccontato l’aveva inquietata, l'aveva pure visto attraverso i suoi occhi.
Sovrappensiero, in un gesto quasi automatico, sfiorò con la punta delle dita la pietra del potere sul collo, poco sotto la nuca, la prima dell’impianto magico che le percorreva tutta la spina dorsale. Erano sedici, di un viola intenso, posizionate nel mezzo di un intrico di curve, rune e arabeschi in rilievo.
Non aveva mai eccelso nell’onomanzia, perciò aveva compiuto un enorme sforzo per connettere la sua mente a quella di Angelika. La ragazza era rimasta tesa a lungo quella sera, lo ricordava benissimo, e si era agitata ancora di più quando le aveva annunciato che avrebbe sognato con lei. Per tranquillizzarla le aveva dovuto dare un infuso di mandragola, henbene, morella, belladonna e valeriana, sperando che l’effetto calmante non prevalesse su quello allucinogeno. Non aveva dovuto aspettare molto: Angelika prima era scoppiata a ridere, poi aveva cominciato a ballare sulle punte con la testa di Peter tra le braccia e infine era crollata addormentata sul tappetto, accompagnata dalle mani invisibili della maga. Era stato allora che Frejie le era andata vicino e, dopo aver attinto all’energia magica delle pietre, aveva forzato la mente della ragazza ad accoglierla.
La prima cosa che aveva percepito era stato l’odore nauseante dell’umidità. Era seduta su un ramo di un albero e i suoi occhi si muovevano tranquilli tra le fronde degli alberi, alla ricerca di qualcosa. Davanti al suo naso, al di là della canna di un fucile senza alcun mirino puntata su un sentiero fin troppo vicino, si estendeva una piccola foresta e, sulla linea dell’orizzonte, svettavano i confini squadrati e nebulosi di una metropoli. In realtà, qualsiasi altro dettaglio al di là di quel sentiero e dei primi alberi erano solo contorni indistinti e fumosi.
D’un tratto il cielo si era oscurato e, sulla stradina di terra battuta, si era allungata l’ombra di una donna dal viso bellissimo e solo un paio di calzoni e una tunica stracciata a coprirle le ossa bianche delle gambe e delle braccia. Frejie aveva constatato con orrore che quell’essere era un’Eferia. Piangeva già, segno che si era appena nutrita, con le cinque paia di klauwen, grandi dita simili a petali, che fremevano ancora affamate. Colui attraverso cui stava guardando la scena aveva sbuffato. Poi c'era stato uno sparo e la pelle dura e nera che proteggeva il cuore al centro del petto del mostro esploso aveva tremato. Lo aveva guardato gorgogliare, trascinarsi ancora per qualche passo e infine si era accasciato a terra senza vita.
Aveva atteso qualche secondo prima di rimettersi sulla schiena il fucile e saltare agilmente giù. Non avrebbe saputo dire con esattezza per quanto cadde, ma aveva realizzato quasi subito di essersi sbagliata prima: l’albero su cui era appostata era alto più di dieci metri e il mostro era lontano almeno cento. Non poteva averlo colpito da quella distanza, non era umanamente possibile.
Aveva percepito le labbra arcuarsi in un sorriso compiaciuto quando aveva appurato che il mostro era morto. Poi si era inginocchiata e con l’ausilio di un coltello a serramanico aveva cominciato a fare a pezzi il corpo dell’Eferia. Dove la lama non riusciva a penetrare, bastava usare le unghie ricurve della mano destra, nere e dure come quelle di un rapace. Una volta finito, aveva infilato la testa e tutti gli organi che aveva estratto in un sacco nero e si era pulita le mani callose sui pantaloni neri, per poi incamminarsi svelta sul sentiero, lasciandosi alle spalle il corpo smembrato del mostro.
Interrotto il contatto, Frejie era stata assalita da un forte senso d’angoscia e, quando anche Angelika qualche ora dopo aveva ripreso conoscenza, aveva fatto fatica a mantenere la calma quando le aveva domandato che significato potesse avere quella visione. Si era limitata a delle risposte vaghe e poi aveva spedito la sua allieva ad esercitarsi nella scrittura runica.
Si riscosse e si passò una mano sul viso. Non aveva idea di chi potesse essere l’uomo attraverso cui aveva guardato, né perché lo avesse sognato, ma era più che sicura che si trattava di uno Slayer, abbastanza potente da non desiderare di incontrarlo. Per saperne di più avrebbe dovuto stabilire un altro contatto, ma vista la resistenza che Angelika aveva opposto la prima volta, la possibilità che le sue pietre del potere si rompessero o che il ritardo mentale della sua allieva peggiorasse erano troppo concrete per rischiare.
Fece trillare la campanella e Claire entrò con un vestito di broccato e biancheria di finissima seta nera tra le braccia.
“Io non sono in grado di controllare il potere oracolare di Angelika. Anche volendo dominarla, la nostra magia è troppo diversa. Però conosco chi può aiutarmi a farlo.” si morse le labbra, mentre si lasciava vestire e il ricordo spiacevole di un falco che volava via oltre la linea dell’orizzonte le provocò una fitta al cuore.
- Padrona, il vostro ospite vi aspetta nello studio. - la voce delicata della cameriera ruppe il silenzio.
- Che attenda. Hai preso le scarpe che ti avevo chiesto? -
- Sì, le ho lasciate fuori dal bagno. -
- Bene. Va’ pure a dirgli che a breve sarò da lui. -
La cameriera annuì e, dopo aver fatto un rapido inchino, sparì chiudendo la porta alle sue spalle, mentre Frejie si sedeva sullo sgabello davanti allo specchio e iniziava a prepararsi per l'incontro.
Circa un’ora e mezza dopo, Frejie entrò nel suo studio, ma lì per lì il suo ospite non parve nemmeno accorgersi della sua presenza. Con disappunto della maga aveva tirato le tende e stava osservando il paesaggio notturno dalla finestra, appoggiato appena al bordo della scrivania. Solo quando fu abbastanza vicina, lui si girò e la scrutò con i suoi occhi gialli da cobra.
- Ce ne hai messo di tempo. - esordì.
- Una signora deve essere sempre ben abbigliata quando riceve visite, Davlamin. -
- Anche se questo significa far aspettare ore? -
Frejie si sedette sulla poltrona accavallando le gambe: - Non sai proprio niente delle donne. -
Davlamin ghignò divertito, poi prese a rigirarsi un’ampolla tra le mani, lanciandole di tanto in tanto delle occhiate di apprezzamento quando pensava che non lo stesse guardando. Era molto alto, quasi due metri abbondanti di altezza, e, alla luce del fuoco, la sua carnagione verdognola assumeva una colorazione ancor più intensa che, assieme alle zanne sporgenti, gli conferiva un’aria selvaggia, feroce come quella dei suoi avi e dei suoi fratelli mezzi orchi che vivevano ai margini della società. Tuttavia, Frejie lo conosceva da troppo tempo per avere paura di lui.
- Allora, come mai mi hai chiesto di venire? -
- Volevo discutere di alcune questioni. -
- Sai che non posso parlare di quelle interne della Dogma. -
Frejie si umettò le labbra, ammiccando: - Ma se nessuno lo sapesse, sarebbe come se non mi avessi detto nulla, no? -
Davlamin incrociò le possenti braccia tatuate davanti al petto, facendo tintinnare le perline e gli anelli che gli ornavano le lunghe trecce. Erano molte e partivano dalla cute, scendendo giù fino al fondoschiena, in un’ordinata e compatta cascata nera.
- Ho anche del buon idromele e sidro da offrirti. - aggiunse Frejie e suonò il campanello.
Un istante dopo, Fabrice entrò, spingendo il carrello delle vivande con sopra due calici dorati, due bottiglie ancora chiuse e un cavatappi a forma di gru. Non appena se ne andò, Davlamin esaminò le etichette. Frejie annusò l'aria e distinse odore di inchiostro, di carta, di formaldeide, ed etere. Probabilmente il suo ospite si era fatto un altro tatuaggio. Guardando la sua figura di spalle, ricordò il periodo in cui avevano lavorato insieme alla Dogma. Avevano dovuto indagare sulla storia dell’Antico Impero, in particolare le differenze e somiglianze tra la loro magia e quella attuale. Era stato Davlamin a presentarla all’alchimista che le aveva fornito le pozioni necessarie per cambiare permanentemente aspetto ed era stato sempre lui a impiantarle le sedici pietre del potere subito dopo l’intervento. Quando la maga aveva deciso di abbandonare la Dogma, per lui era stato un brutto colpo. Forse non l’aveva ancora perdonata.
Quando stappò la bottiglia dell’idromele, però, Frejie seppe di avere vinto. Appoggiò la testa al pugno chiuso e attese che lui la servisse.
- Parla. Non ho intenzione di rimanere qui tutta la notte. -
La padrona di casa abbozzò un sorriso, che si premurò di nascondere dietro il calice. Davlamin aveva sempre avuto un debole per lei, persino quando aveva il vecchio aspetto. Magari sarebbe potuto nascere qualcosa di più di qualche occhiata fugace, se lei non se ne fosse andata. Però ormai il passato era passato e Davlamin aveva fin troppe mogli in casa per i suoi gusti.
- Hai scoperto qualcosa di più su questo fantomatico mostro che avrebbe devastato Eartshire? -
- Nulla di che. In realtà, io e gli altri siamo più che certi che si stata opera di un Antico, ma purtroppo quando gli Slayer sono arrivati sul luogo hanno trovato solo macerie. -
- E ne avete perso le tracce? Non me lo sarei mai aspettato, di solito siete molto efficienti. -
Davlamin la scrutò attentamente, quindi scrollò le spalle: - I tempi sono cambiati, ma i problemi rimangono quelli di prima. Gli Antichi non sono stupidi come la maggior parte dei mostri e questo, beh, è davvero intelligente. -
- Cosa intendi? -
- Prima ha distrutto una città intera, poi è sparito. -
- Strano. -
- Già. - concordò, tracannando in un solo sorso tutto l’idromele, - Perché ti interessa? -
Sapendo che avrebbe potuto leggerle nella mente, Frejie si era lanciata un incantesimo per schermare i pensieri e, quando percepì la forza di una magia estranea forzare la barriera, lo fulminò con un sorriso gelido.
- Non è carino quello che stai facendo, sai? - lo redarguì, ma Davlamin sostenne il suo sguardo.
- Il fatto stesso che tu mi impedisca di vedere, significa che hai qualcosa da nascondere. -
- Oppure che non mi piacciono gli uomini invadenti. -
Il mezzo orco contrasse la mascella, punto sul vivo: - Comunque questa è l’unica certezza che abbiamo. -
- Ed è un caso che sia apparso proprio lì? -
- No e mi sorprende che tu me lo chieda, visto che avevi anche una tenuta in quella zona. -
- Ho venduto quella catapecchia anni fa. -
- Sì, lo so, me lo avevi accennato. Comunque non è stato un caso. Recentemente, subito dopo l’attacco, abbiamo scoperto che sotto la città c’erano i resti di antichi palazzi, risalenti tutti più o meno all’Era del Fuoco. Tra questi ruderi c’era quello che Janna ha definito “prototipo di portale”. Non abbiamo trovato tracce evidenti di magia, ma quando gli Slayer hanno perlustrato l'area hanno trovato un residuo di potere non identificato proprio in prossimità del portale. -
- Dici che qualcuno lo ha attivato? -
- No, non credo. Però non ho indagato, non è esattamente il mio campo. -
- Capisco. Apri anche il sidro. -
Davlamin si allungò e, come prima, tolse il tappo a mani nude, senza la minima fatica. Frejie non si impressionò, si sistemò la gonna con noncuranza, lisciando le pieghe che la stoffa faceva sul corpetto aderente e sul merletto arricciato sulla spaccatura sulla coscia.
- Quasi mi aspettavo che mi offrissi roba più pregiata. -
- Non ho voglia di scomodare di nuovo la servitù. -
- Che persona di buon cuore. -
- A volte è conveniente averne uno. -
A quell’ultima affermazione il mezzo orco non ribatté e servì entrambi.
- Le indagini sono ancora in corso, ad ogni buon conto. - riprese Davlamin.
- Di chi è stata l’idea dell’orda di mostri? -
- Dei piani alti, suppongo. Meno attiriamo l’attenzione, meglio è, soprattutto ora che il Basnate si è messo in testa che vuole liberare tutti i bambini orfani delle nostre scuole di addestramento. -
- E tu non credi che sia una cosa giusta? -
- Io sono un semplice mago, non mi sono mai interessato alla politica, però questa è chiaramente una manovra per raccogliere consensi e chiudere le porte di altre città alla Dogma. È una mossa intelligente, ma se non ci fossero più Slayer il mondo cadrebbe di nuovo nel caso dell’Era del Buio e i bambini mutati andrebbero incontro a una brutta fine. Se eventualmente venisse emanata una legge che non ci permette di usarli più come cavie, quelli che sono sopravvissuti al trapianto e a tutti i riti a cui sono stati sottoposti verrebbero fatti a pezzi o, ancor peggio, abbandonati a loro stessi. -
- Pensi davvero che ci sia dietro il Basnate? -
- No, o almeno non all’inizio. Sua Eminenza non è famoso per il suo acume, né tanto meno per la ferrea moralità. Credo che il primo a proporlo sia stato l’Easpag ancyerese. -
- Quello che adesso sta cercando di rabbonire quel pazzo di Ianice III? Coraggioso… -
- Diciamo che il re non lo ama, vista la sua non proprio amata discendenza, ma l’Easpag Fergus Dun Cadhil non si è mai fatto intimidire. La questione dei bambini gli è sempre stata molto a cuore, non mi stupirei affatto se il Basnate abbia accolto la sua proposta per poi distorcerla per i suoi fini. Questi politici… parlano, parlano, ma alla fine non sanno come stanno davvero le cose. Speriamo che le tensioni tra Ianice e la nostra amata regina si plachino e che il Basnate la smetta di farneticare. -
Frejie annuì lievemente e fece ondeggiare il calice sovrappensiero. Uno dei motivi per cui aveva abbandonato la Dogma era proprio perché non riusciva a sopportare le urla delle cavie. Anche se era assegnata a un reparto diverso, nella sede di Dranlon prima o poi capitava a tutti di passare per i laboratori. Non voleva ricordare quel periodo della sua vita, non ce la faceva. Alan non sapeva niente di tutto questo, ma forse covava già dei sospetti.
- Qualcosa non va? -
La voce del mezzo orco la riscosse.
- Tutto bene, scusami. Stavo pensando ancora a quella traccia di potere sconosciuto. - mentì, ma l'altro non parve farci caso.
- Se ti interessa, Janna pensa che potrebbe essere stato un Viandante. -
- Ancora con questa storia? Credevo gli fosse passata la fissazione. -
Una risata roca uscì dalle labbra di Davlamin: - No, purtroppo. Hanno stanziato parecchie squadre di ricerca, direi quasi quante quelle che stanno cercando l’Antico. Sai, da quando quella vampira ci ha detto che… -
- Per Shamar, è successo più di duecento anni fa! - scosse la testa e roteò gli occhi, - Non hanno trovato nulla per tutto questo tempo e ancora non demordono? Peggio dei bambini di quattro anni. -
- Diciamo che sono dei fanatici della massima “la speranza è l’ultima a morire”. -
- A quanto pare. - rispose sprezzante, - E cos’hanno intenzione di fare? Dare la caccia a questi esseri per altri due secoli? -
Davlamin fece spallucce: - Non è mio compito discutere coi piani alti. -
- Lo so. - sbuffò.
- Ti infastidisce? -
- Abbastanza. -
- Allora perché non torni per provare a cambiare le cose? -
Frejie sgranò gli occhi, riuscendo a malapena a contenere lo stupore. Incrociò le braccia al petto, proprio sotto il seno, e si sforzò di sorridere, anche se l’espressione seria del mezzo orco lasciava intendere che non stesse affatto scherzando.
- Hai appena detto che non sei uno che si inimicherebbe i superiori. -
- La vecchiaia mi rende volubile. -
- Oppure stai cercando di convincermi a tornare in memoria dei vecchi tempi. -
- Forse. Ah, Frejie, ti conosco fin troppo bene per sperare di vederti tornare alla Dogma. - posò il calice sul tavolo e lo spostò lontano da sé, - Comunque ti avverto, non è un bene che continui a ficcanasare nei nostri affari. -
- Mi stai minacciando? -
- Ti sto solo dicendo di fare attenzione. - ripose con voce ferma mentre si alzava, lo sguardo adombrato e la mascella contratta, - Ho cercato di non farmi notare quando venivo qui e se mai mi facessero delle domande non parlerò. Però sappi che la Dogma ti tiene d’occhio e non tutti quelli che una volta definivi amici sono rimasti tali. Girano voci molto spiacevoli sugli uomini portati nelle sale degli interrogatori e tu sai benissimo quanto possano essere feroci gli Slayer. -
La maga si morse le labbra a disagio. Aveva eretto uno scudo tutto attorno alla villa prima che lui arrivasse, nessuno si sarebbe potuto intrufolare all’interno senza che scattasse l’allarme. Eppure ogni magia, anche la più potente, poteva essere in qualche modo elusa.
Come se le avesse letto nel pensiero, Davlamin aggiunse: - Ho usato un portale dimensionale per spostarmi dalla mia dimora alle vicinanze di Westmoth, lasciando con le mie mogli un mio clone. È più che sufficiente per ingannare eventuali inseguitori per un paio d’ore. -
- Va bene. Grazie ancora per il tuo aiuto, Davlamin. - disse porgendogli una mano.
- Per te questo e altro, Frejie. - le baciò le nocche.
Quindi estrasse un quarzo citrino dalla tasca dei calzoni e lo pulì sul lembo della tunica. Era una pietra piccola, grande come un soldo di cacio, che rifulgeva di energia magica.
- Non è meglio un semplice teletrasporto? -
- Ti devo ricordare con chi stai parlando? -
Frejie aprì la bocca per replicare, quando la porta si spalancò e Angelika irruppe nella stanza come un cavallo lanciato al galoppo e per poco non inciampò nei suoi stessi piedi finendo con la faccia sul pavimento. Aveva il viso arrossato per la corsa e i capelli scarmigliati di chi si è appena svegliato.
Prima che la maga riuscisse a fermarla, esclamò: - Maestra, ho sognato! Alan! Cioè, no, forse non lui, ma somigliare molto a lui. -
- Angelika, taci. - sibilò secca, ammonendola con un'occhiata tagliente.
- Ma è importante! Io… -
Guardò la maga con quella sua espressione da cane bastonato, ma lo sguardo irritato di Frejie e le sopracciglia corrucciate di Davlamin furono più che sufficienti a farla desistere da qualsiasi altra cosa avesse intenzione di dire.
- Chi è lei, Frejie? - domandò il mezzo orco.
- Una mia allieva. - rispose e con finta noncuranza le si avvicinò.
- Pensavo che dopo Bragwen avessi smesso di insegnare. -
- Sì, avevo smesso, ma poi un amico mi ha presentato questa ragazza e ho deciso di provare a limare questo diamante grezzo. -
- E questo tuo amico si chiama Alan, per caso? -
- No. - mentì, - Alan è il padre di questa ragazza, un commerciante che ha deciso di affidarmi sua figlia quando si è reso conto del suo particolare talento. -
- E tu la stai addestrando nell’onomanzia? -
Frejie gli rivolse un forzato, freddo sorriso: - Sai come la penso sul metodo d’insegnamento, no? Deve essere una cosa solo tra la maestra e l’allieva. Ora scusami, ma devo farmi fare il resoconto del sogno prima che lo dimentichi. -
Davlamin la scrutò per alcuni brevi istanti e, anche se la maga non lo sentì tentare di forzare le barriere della sua mente, sapeva che tutta quella storia non lo convinceva. Aprì la bocca per dire qualcosa, forse per fare un’altra domanda, ma inaspettatamente scosse la testa.
- Di’ alla tua allieva che il modo migliore per non dimenticare i sogni è scriverli non appena ci si sveglia. -
Posò nuovamente lo sguardo su Angelika e, dopo averla studiata per un paio di secondi con i suoi occhi da rettile, ruppe il quarzo citrino a terra. Una nube color zolfo lo avvolse e, pian piano, la sua figura svanì.
Quando furono sole, Frejie schioccò le dita e rivolse alla ragazza un’occhiata carica di biasimo.
- Cosa ti avevo detto? -
- I… io… -
- Tu cosa? - l’afferrò per un braccio, affondando con rabbia le unghie nella pelle delicata, - Ti avevo ordinato di non entrare per nessuna ragione al mondo! -
- Ma Alan... io sognato e voi mi avete detto che dovevo... -
- Zitta. -
Angelika ammutolì ed emise un basso gemito dolorante. Frejie inspirò un paio di volte, prendendosi tutto il tempo necessario per calmarsi e riacquisire il suo abituale contegno. Quando allentò la stretta, all’interno del braccio, poco sotto il gomito, vide cinque piccole mezzelune arrossate e si sentì vagamente in colpa.
- Avanti, cosa hai sognato? - si arrese con un sospiro
- Penso fosse Alan, ma non lo so. Io lo stavo seguendo e… c'era uomo dell’altra volta, quello col fucile. -
Un brivido corse lungo la schiena della maga: - Continua. -
- Nulla di strano, ma io ridevo quando puntavo il fucile su di lui. -
- Gli hai sparato? -
Angelika abbassò lo sguardo, cominciando a tormentarsi le dita: - Sogno finito prima… non lo so. Era tutto confuso… -
Frejie fece per intonare una formula magica, poi si fermò. Non poteva contattare Alan adesso, non con il pericolo che ci fosse qualcuno che la stesse spiando. Si sedette sulla poltrona dietro la scrivania e nascose il volto fra le mani, riflettendo sul da farsi.
- Maestra, mi dispiace… -
- Scusami tu, Angelika. Hai fatto solo quello che ritenevi giusto e, alla fine, sono stata io a dirti che dovevi correre da me se avessi fatto altri sogni. Ora va’ a dormire o domani non riuscirai ad alzarti. -
Angelika inclinò la testa e la vergogna lasciò subito il posto alla curiosità: - Dove andiamo? -
- Dall’unica persona che penso possa darci risposte. -
- Oh, che bello! Peter sarà felicissimo. Allora andare subito a dormire. -
Si stropicciò gli occhi e, senza aspettare un’altra esortazione di Frejie, si avviò verso la porta.
Sulla soglia si fermò e disse: - Maestra… Alan starà bene. Alan forte. -
- Lo so. -
- Non preoccupare. - si accarezzò il palmo della mano, come sempre faceva quando riusciva a visualizzare i fili d’energia che l’aiutavano a percepire le emozioni della persona a cui erano legati.
- Buonanotte, maestra. -
- Buonanotte, Angelika. -
La porta si chiuse e nello studio piombò un silenzio carico di angoscia.
 

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Capitolo 22
*** Act. 2.1 - The Druid's Heart ***


Slayers
Act. 2 - The Druid's Heart

 
 
Attraversarono uno stretto fiume e, una volta dall’altra parte, spronarono i cavalli nel bosco, tra le alte querce dalle ampie chiome e le felci che arrivavano alle staffe.
Angelika si guardava attorno meravigliata. Mai nella sua breve vita era stata circondata da così tanto verde, nonostante avesse vissuto in campagna. Spesso si fermava ad osservare questo fiore o quel fungo variopinto e più volte Frejie doveva spronarla a muoversi, ma la ragazza sembrava persa in un mondo tutto suo. Alla fine, la maga ci rinunciò. Ormai la destinazione era vicina e, se avessero proseguito di buona lena, sarebbero arrivate con un’ora d’anticipo sulla tabella di marcia.
Frejie sospirò e si strinse nella pelliccia di visone. Nonostante la stanchezza però, sapeva che la preoccupazione per quello che Angelika le aveva detto le avrebbe impedito di dormire. A questo si sommava il dubbio che Davlamin non fosse lo stesso che aveva conosciuto dieci anni prima. Non sapeva se avesse intuito qualcosa riguardo il potere di Angelika, ma si ritrovò a sperare che avesse perduto l'arguzia di cui si vantava un tempo.
Girò stancamente la testa e vide la sua allieva sussultare e il suo cavallo impennarsi davanti a un lupo dal manto grigio, gli occhi gialli e le zanne snudate sul muso contratto. Allarmata, la maga cominciò a fare dei rapidi gesti con le mani, maledicendosi per la sua disattenzione, quando il vento le portò una voce alle orecchie. Era una voce delicata, che parlava un idioma antico e precluso ai più. Anche gli animali dovettero percepirla, perché il cavallo si lasciò domare e il lupo smise di ringhiare, indietreggiando fino a un’alta quercia, dietro la quale Frejie scorse una figura minuta e esile.
Era un bambino fra i tredici e i quattordici anni. Come tutti i figli dei druidi, i capelli lunghi erano stati intrecciati con perle e piume di corvo, mentre sul viso spiccavano i simboli tribali dipinti con mallo di noce e tralci di vite. La tunica verde e marrone, cucita con diversi pezzi di stoffa, gli ricadeva morbida sul corpo immaturo. Naturalmente, aveva un pugnale assicurato alla cintola e la freccia incoccata nell’arco abbassato. Alle sue spalle, Frejie percepì la presenza di altre dieci figure.
- Ko wai’l  koe?1 - domandò il piccolo, avvicinandosi di soppiatto.
Kel’ matou hoa oto koutou ariki. Kia haere tatou.2 - rispose senza esitare.
Sorpreso che conoscesse la loro lingua, avanzò incuriosito di un passo, ma una voce autoritaria gli urlò qualcosa che lo bloccò sul posto.
Frejie fece voltare il sauro e vide tre uomini e due donne avvicinarsi. Erano tutti armati e portavano i capelli lunghi, come la tradizione imponeva ai guerrieri. Una ragazza della stessa età di Angelika intimò ai compagni di fermarsi e si staccò dal gruppo, gli occhi azzurri e attenti puntati su di loro. Le tre trecce che le ornavano il capo dondolavano ad ogni suo passo, accarezzando i fianchi stretti e segnati da due profonde cicatrici ad artiglio. Al suo passaggio, le foglie non scricchiolarono, come se levitasse. Frejie celò la sorpresa dietro una gelida compostezza.
Alè ono Frejie te wahine makutu?3 -
La maga annuì, rivolgendole un ampio sorriso: - Sono passati solo quindici anni e già ti dimentichi di me, Anevia? -
- No, ma non potevo avere la sicurezza che fossi davvero tu. -
- E cos’altro ti serve per convincerti che sia io? -
La ragazza restrinse gli occhi a due fessure: - Whakaaturia ahau te pere me nga kohatu.4 -
Frejie scese da cavallo e, dopo essersi abbassata il cappuccio, inclinò il collo in modo da mostrarle la prima pietra del potere, quella che aveva alla base della nuca. Seguì un lungo silenzio, durante il quale Anevia le tolse il mantello e le tastò la schiena, contando le gemme una ad una per accertarsi che fossero realmente sedici. Solo quando sfiorò l’ultima fece cenno agli altri di abbassare le armi e di avvicinarsi.
- Adesso sei sicura che sia realmente io? - la canzonò la maga.
- Diciamo di sì. - rispose Anevia, - Lei chi è? -
Vedendo che la stava indicando, Angelika incassò la testa nelle spalle, calcandosi il cappuccio in testa come se bastasse a farla sparire. Frejie non la biasimava, i Cervir, così si chiamavano tra di loro, non erano famosi per la loro ospitalità, anche se il ragazzino di prima la guardava più con curiosità che astio.
- È la mia allieva. -
La seconda ragazza del gruppo era un po’ più alta di Frejie, ma il seno piccolo, i capelli neri e l’ovale morbido del viso le suggerivano che non dimostrava gli anni che aveva. Quando Anevia le aveva dato l’ordine, era stata la prima a raggiungerla.
- Aria… strana attorno a lei. - commentò.
- Lo so, per questo sono qui. Devo parlare col Padre. - spiegò pacata.
- E che autorità avresti per fare una richiesta simile? - intervenne uno dei tre guerrieri, che superava di almeno una testa tutti i suoi compagni.
Aveva un accenno di barba rossiccia sul mento e sulle guance. Portava la collana di un dente di lupo al collo e una pelliccia marrone, spessa e pesante. Una cinghia di pelle gli assicurava sulla schiena una faretra piena di frecce.
- E tu chi saresti, muda?5 - domandò Frejie.
Quello la trafisse con un’occhiata gelida: - Non chiamarmi “ragazzo”, asing6. -
- Non era mia intenzione offenderti. Sono un po’ arrugginita, al di fuori della foresta la vostra lingua non è parlata. –
La sua voce era velata d’ironia, ma il guerriero non si scompose. La scrutava con diffidenza, in un modo che le ricordò Alan. Solo in un secondo momento, Frejie si rese conto che entrambi avevano gli stessi occhi.
“No, i suoi sono più chiari.”
Si morse le labbra e inghiottì la tensione che le serrava la gola, la mano stretta con forza sull’orlo del mantello.
- Non hai ancora risposto alla mia domanda. – insistette il cacciatore.
A Frejie parve che ci fosse qualcosa di forzato nella freddezza che ostentava, ma accantonò il pensiero e incoraggiò Angelika ad avvicinarsi. La giovane, seppur con palese riluttanza, smontò di sella. Era rigida e a malapena riusciva a controllare il tremore alle mani. Quando la sua maestra le tolse il cappuccio, per poco non si ritrasse spaventata.
- La tua compagna l’ha già notato e penso che anche a tu abbia percepito un’aura diversa dalla mia su di lei. Sono qui perché ho bisogno di saperne di più e l’unico che può chiarirmi le idee è proprio il Padre. - illustrò Frejie.
Il druido incrociò sull'ampio torace le braccia cosparse di incisioni e attese altre spiegazioni, per nulla intenzionato a cedere terreno, né tanto meno fiducia. Il silenzio tra di loro si fece così denso che Frejie poté sentire il battito agitato del cuore di Angelika.
- Cosa vuoi che ti dica? Ne so meno di te. Sono venuta qui per avere risposte e non sei tu colui che potrà darmele. -
- Ha ragione lei, Kiol, è inutile rimanere qui a discutere. - intervenne Anevia.
- Come fai a sapere che non sta mentendo? È un’asing, un’estranea, non ci si può fidare di loro. -
Le due donne si scambiarono un’occhiata d’intesa.
- Noi ci conosciamo. - rispose Anevia, rivolgendo poi un rapido gesto ai due uomini rimasti indietro, che annuirono e scomparvero tra gli alberi.
- Vuoi davvero scortarla fino al cuore? - chiese dubbioso Kiol.
- Sì. Ora va’ con Feun e Hel, seguili e assicurati che annuncino la nostra ospite. -
Kiol aprì la bocca per ribattere, ma Anevia gli aveva già dato le spalle. Prima di andarsene, il cacciatore lanciò un’ultima occhiata a Frejie e, solo quando sparì nel sottobosco, la maga si concesse di tirare un sospiro di sollievo.
- Qualcosa non va? – la voce di Anevia la riscosse dai suoi pensieri.
- No, sono solo molto stanca. – si affrettò a rispondere, - è stato un lungo viaggio. –
La druida tacque. Alzò la testa e rimase un momento a osservare il lento oscillare dei rami sopra di loro. Il vento aveva cominciato a soffiare più forte e il viola del crepuscolo si stava espandendo sopra la linea dentellata delle cime degli alberi.
Frejie si sistemò meglio il mantello sulle spalle, abbandonandosi a una risatina divertita.
- Perché ridi? –
- Nulla, nulla. Non cambi mai. – si passò una mano sulla bocca, prendendosi un momento per recuperare la sua solita compostezza, - Sono passati quindici anni, ma sei rimasta la stessa ragazza ossuta e seriosa. -
- Taci, prima che cambi idea. - indicò Angelika col mento, - Davvero non sai nulla? -
- Dubiti delle mie parole? Mi ferisci. -
- Sempre meglio dubitare che fidarsi ciecamente. -
- Hai appena mandato via tutti i tuoi compagni, scegliendo di restare in compagnia della tua amica e quel bambino, che a malapena conoscono la lingua comune. Questo non è forse un segno di fiducia? -
Anevia sbuffò e le diede le spalle. Lasciò la freccia incoccata nell’arco e le dita della destra appoggiate sulla corda, nell’evenienza che si fosse presentato un qualche pericolo. La ragazza coi capelli neri la seguiva a poca distanza, camminando molto velocemente senza fare rumore, mentre il bambino avanzava tranquillo vicino ad Angelika. Di tanto in tanto, Frejie li osservava e non poteva non trovare la scena divertente. La sua allieva balbettava più del solito, gesticolando per farsi capire dal suo interlocutore, che, invece, non riusciva a rimanere serio. La fissava con un misto di divertimento e curiosità, talvolta tentava anche di articolare una frase, ma la commistione tra lingua druidica e lingua comune rendeva difficile la conversazione. Così, alla fine, anche lui passò ai gesti e Angelika scoppiò a ridere di cuore, come sempre faceva quando trovava una cosa buffa. E quella leggerezza riuscì a placare almeno un po’ la preoccupazione della maga.
- Sembri tenere molto a lei. - considerò Anevia.
- Tengo a lei come a qualunque delle mie allieve. -
- Non sembra. -
- È invidia quella che vedo nei tuoi occhi, Bragwen? -
La ragazza contrasse le labbra in una smorfia stizzita: - Non chiamarmi così. -
- Mi pare sia il tuo nome. -
- Lo era. - fece un cenno alla ragazza dai capelli neri e quella aumentò l’andatura, - Quel nome non mi si addice più. Mi sembrava di averti già detto che ora sono Anevia, una druida. -
- Sei stata una delle mie allieve migliori. - sospirò amareggiata.
- E tu un’ottima maestra, ecco perché mi hai lasciata andare per la mia strada. -
Frejie annuì e distolse lo sguardo. Bragwen era il suo orgoglio, il suo fiore all’occhiello. Sua madre, una donna aristocratica che si dilettava con la magia, quando aveva sorpreso la figlia a sollevare con la forza del pensiero una pila intera di libri aveva smosso mari e monti per trovare qualcuno che potesse seguirla nella sua carriera da maga. All’epoca Frejie aveva appena lasciato la Dogma e aveva accolto quella ragazzina ossuta e cupa quasi con riconoscenza. Le aveva insegnato tutto, dai rudimenti fino agli incantesimi più potenti. Come sua madre, morta di sifilide circa tre anni dopo che aveva cominciato il suo apprendistato, sognava per lei una carriera brillante. Tuttavia, quando Bragwen era venuta da lei comunicandole che sarebbe diventata una druida, le era caduto il mondo addosso. Aveva fatto di tutto per dissuaderla, era arrivata persino a minacciarla pur di trattenerla, ma alla fine le era sfuggita dalle mani. Ancora oggi le faceva male ricordare il momento in cui il falco pellegrino, l’animale di cui Bragwen aveva preso le fattezze, era sparito oltre la linea dell’orizzonte. Successivamente la ragazza le aveva scritto una lettera, in cui la informava del nuovo nome e dei motivi che l'avevano spinta a scappare, pur senza scendere nei dettagli. Da allora non aveva più ricevuto sue notizie.
- Sei sempre stata uno spirito libero, ma ancora oggi mi chiedo cosa ti abbia spinta davvero ad abbandonare tutto. Nella lettera eri vaga. -
- Gli stessi motivi che guidano tutti coloro che decidono di lasciare la città e venire qui. - fece un cenno in direzione del bambino, - Né io né Manto siamo druidi di sangue puro. Lui è un orfano che è stato abbandonato vicino alla foresta, io sono la figlia illegittima di un uomo che non si è mai degnato di riconoscermi, ma che nella sua infinita bontà mi ha pagato gli studi per diventare una maga. Eppure, nonostante tutto, i druidi ci hanno accolti, dandoci un altro nome, un’altra identità e un’altra famiglia, e così fanno per tutti coloro che rivedono nei cieli anneriti delle città una tomba, una cappa soffocante che offusca la mente e soffoca il cuore. Frejie, tu mi hai aperto gli occhi e per questo ti ringrazio, ma non mi pento di essermene andata. La magia, quella che pratichi tu, quella che piega la natura imponendosi su di essa come il vincitore sul vinto, è sempre stata un peso per me. Prima o poi me ne sarei andata comunque, era inevitabile. - 
- Non penso capirò mai la tua scelta. - sospirò, si strinse nel mantello e si sistemò la pelliccia sulle spalle.
Anevia le lanciò un’occhiata obliqua: - Ne sei proprio sicura? –
La maga non rispose, non ne valeva la pena. Lei era stata la prima a rinnegare le sue vere origini quando le si era presentata l’occasione. Non poteva cambiare le sue origini, ma nell’aspetto non aveva più niente che potesse ricordare l'elfa che era.
- Cos’hai intenzione di fare con la tua allieva? - le chiese Anevia.
- Voglio capirla. -
- Non ti ho chiesto questo. Non solo questo, almeno. - replicò, la linea serrata delle labbra tradiva la finta indifferenza dello sguardo. Frejie sapeva cosa voleva sapere, qual era la tacita domanda che le stava rivolgendo.
- Non lo so. Vedremo. -
La druida la fissò per interminabili istanti, poi si riscosse e finse di sistemare l’arco.
- Acceleriamo il passo o non arriveremo mai. –
Proseguirono per altre due ore, le druide sempre davanti a loro e Manto e Angelika poco dietro, sempre concentrati in quella loro strana conversazione. Anevia e la sua compagna conoscevano molto bene la foresta, e se Frejie fosse andata lì da sola senza un incantesimo di geomanzia non avrebbe saputo orientarsi. Loro invece sembravano conoscere l’ubicazione di ogni albero, sasso, animale e sentiero nascosto presente nella foresta, che, sebbene non fosse una delle più grandi di New England, era insidiosa come qualsiasi altro luogo in cui l’industrializzazione e la civiltà non avevano mai messo piede: dirupi, terreno talvolta instabile, strade che conducevano nel nulla e torrenti impossibili da guadare erano tra le tante difficoltà che lei e Angelika avrebbero dovuto affrontare se avessero intrapreso il viaggio da sole. Con le due druide, invece, non perdevano mai la bussola e sapevano sempre quando era il momento di andare a destra o a sinistra, di tagliare attraverso l’erba alta e le ortiche, o avanzare zigzagando tra gli alberi. In questo erano molto simili alle driadi di Brugge, anche se queste nelle loro fila contavano solo donne e raramente qualche uomo, appartenente però sempre al popolo fatato. Le loro figlie, concepite durante le notti di luna nuova, avevano tutte la pelle olivastra e gli occhi e i capelli verdi, e fin da piccole sapevano maneggiare perfettamente la magia insita nella natura, muovendosi nella foresta con la stessa scioltezza con cui Frejie camminava in città. I druidi avevano ripreso alcune delle usanze delle driadi, come l’accoppiamento rituale e la venerazione degli spiriti primordiali, ma la loro società era molto più liberale e aperta nei confronti degli uomini, tant’è che alla Madre, la Wilm’nìs, era affiancato il Padre, l’Hilm’nèr.
Quando Frejie vide la foresta diradarsi, capì che erano arrivati. Le querce si aprivano in una radura estremamente ampia, dove erano state erette delle piccole capanne di rami intrecciati ricoperte di foglie naturali e magiche, affinché né il vento né la pioggia potessero farle cadere. La luce aranciata del sole illuminava il profilo di una decina di figure intente a pulire le verdure e a condire la carne, o tenere a bada i bambini che si rincorrevano l’un l’altro. Non appena uno di loro li vide avvicinarsi, si fermò a guardarli e la bambina che lo stava inseguendo, una ragazzina dai capelli color mattone e il viso e le braccia spruzzate da lentiggini, gli cadde addosso. Seguì un breve tafferuglio tra i due, ma bastò lo sguardo severo di Anevia per convincerli a smettere.
La druida coi capelli neri, che Frejie aveva appreso chiamarsi Frig, corse agilmente verso Kiol, che stava venendo loro incontro. Indossava gli stessi vestiti di prima, ma adesso sul capo portava due corna di cervo. Doveva essere stato un esemplare piuttosto giovane, visto che non erano lunghe e ritorte, ma erano più che sufficienti per designare il ragazzo come il prossimo Hilm’nèr.
- Non mi avevi detto che Kiol era il giovane cervo. - sussurrò ad Anevia.
La druida fece spallucce: - Ha superato la prova da poco. Deve però capire che quando siamo in ricognizione mi deve ancora obbedienza. -
- Questo spirito di ribellione mi ricorda qualcuno. -
Anevia la fulminò con lo sguardo, ma prima che potesse ribattere Kiol era già davanti a loro. Di nuovo i loro occhi si incrociarono, ma questa volta fu il cacciatore a distogliere lo sguardo per primo.
- Il Padre è pronto a ricevervi. -
Legarono i cavalli alla staccionata più vicina e, con Angelika che teneva per mano Manto, si avviarono verso il centro del villaggio, dove, vicino a tre grandi falò non ancora accesi, vicino a un grande e frondoso albero di noce sorgeva un’abitazione leggermente più grande delle altre. Kiol si fermò davanti alla porta e si spostò facendo entrare Frejie e Angelika. Il piccolo druido mise il broncio quando Anevia gli ordinò di andare a casa, protestando in coro con Angelika in una lingua a metà tra quella dei druidi e quella comune. Alla fine riuscirono a staccarli promettendo loro che per quella notte avrebbero potuto dormire insieme.
L’aria che si respirava all’interno della capanna era satura del profumo degli incensi e del ginepro che bruciava nelle ciotole di pietra agli angoli della casa. Le piante dai fusti spessi e forti si arrotolavano su se stesse, arrampicandosi sui rami che costituivano le pareti della stanza e infilandosi negli spazi tra di essi, per poi sbucare all’esterno e godere della carezza degli astri. Tutto l’arredamento era costituito da un tavolo stracolmo di erbe di ogni genere, uno sgabello su cui erano poggiati libri e pergamene e un letto con una coperta di lana pesante a ridosso di un focolare.
Angelika si guardava intorno con curiosità. Rispetto a quando erano partite, era molto più sciolta e tranquilla.
- Maestra, perché siamo qui? - bisbigliò, osservando la sinuosa lingua fumosa di un incenso.
- Te l’ho già detto. - rispose inginocchiandosi sul pavimento di foglie secche, eppure magicamente morbide.
- Lo so però… è strano qui. -
- È normale. Dai, siediti, non è educato aspettare in piedi come un avvoltoio. -
Angelika obbedì, sedendosi a gambe incrociate vicino a lei. La meraviglia era ben visibile sul suo viso, le labbra schiuse in un sorriso gioioso e il naso arricciato e leggermente arrossato che non faceva altro che accentuare l’ovale delicato del suo viso fanciullesco. Era una bambina nel corpo di una donna, una bambina che sembrava stare vivendo un sogno.
- Chiudi la bocca prima che ci entri una mosca. - la rimproverò la maga con un tono tra il serio e il faceto.
- O-oh, s-sì. Questo posto sarebbe piaciuto un sacco a Peter. -
- Gli racconterai tutto quando torneremo, allora. -
- Certo! Gli racconterò anche di Manto, di Anevia e… -
- E anche di quanto tu ti sia sentita a tuo agio qui? -
Entrambe le donne girarono la testa al suono di quella voce gentile e allo stesso tempo decisa, una voce che esigeva rispetto e obbedienza. Persino Frejie si sentì in obbligo di chinare il capo quando il Padre posò lo sguardo su di lei. Ma non era stato lui il primo a parlare, bensì la donna che lo affiancava.
Tena ki a koutou, Hilm’nèr10. - li salutò.
Whatu ki a koe, makuta.11 - rispose cordialmente la donna, - Non piegare la testa davanti a noi, non sei più una straniera da molto tempo, Frejie. -
Frejie osò alzare gli occhi solo dopo un istante di esitazione. In quel momento si avvide che Angelika era rimasta immobile a fissare le due figure che stavano avanzando verso di loro, completamente rapita dall'aura che emanavano.
L’Hilm’nèr era un uomo alto, dalle braccia muscolose e il collo taurino. Portava dei calzoni di tela legati in vita con un cinturone, sotto al quale sbucavano dei ciuffi di pelliccia, e i piedi erano scalzi e ricoperti di terriccio. Delle crespe ciocche rosse, intrecciate alla maniera dei cacciatori, ricadevano languide sul petto nudo e dipinto con disegni tribali. Le lunghe e maestose corna di cervo che indossava sulla testa gli conferivano un’aria regale e fiera. La donna che lo accompagnava era bassa e di corporatura esile, ma nell’espressione saggia e nei lineamenti seri e marcati Frejie riconobbe la stessa forza. Indossava una gonna nera che frusciava ad ogni suo passo e lasciava scoperte le caviglie ricoperte di rune rosse e verdi, che Frejie immagino estendersi anche sulle gambe. In testa portava una corona di penne di corvo, che, assieme ai pendagli di ferro, ai fiori e alle campanelle che le ornavano i capelli neri, scendeva lungo la schiena nuda. Le innumerevoli collane che coprivano appena il piccolo seno emisero un suono cupo quando si accostò ad Angelika e, con un delicato ma fermo gesto della mano, le afferrò il viso scrutandola a lungo negli occhi.
Contro ogni previsione della maga, la sua allieva non si ritrasse.
- È questa la giovane che hai sognato, toku wahine?7 - le domandò l’uomo, rimasto rispettosamente indietro.
- Aye. - rispose e le inclinò la testa per osservarla da un’altra angolazione, - Guardala, taku aroha8, ha i miei stessi occhi, come il corvo mi aveva predetto. Anche se non avrei mai immaginato che gli Spiriti si fossero già appropriati della sua mente. -
- Di che state parlando? -
- Tranquilla, makuta9, ora ti spiegheremo ogni cosa. -
La donna accarezzò la guancia di Angelika e si sistemò davanti a loro, seduta a gambe incrociate, con la mano appoggiata sul pavimento che sfiorava quella del suo compagno. Anche se non si guardavano, Frejie riusciva a percepire la forza che li teneva uniti, un legame indissolubile e sacro che univa le loro anime in una sola.
- Il corvo mi ha annunciato la vostra venuta in sogno. - esordì la Wilm’nìs, - Mi ha detto che sareste giunte quando la ruota dell’anno si fosse trovata al suo estremo inferiore e così è stato, ma non mi ha rivelato il motivo. Parlate e non abbiate timore. -
Frejie guardò Angelika, che se ne stava imbambolata a fissare la donna. Non sembrava intimorita né incuriosita. In realtà, sul suo viso la maga non riconobbe nessuna delle sue solite emozioni, tanto che pareva un'altra persona.
- Non voglio tediarvi a lungo, penso che possiate immaginare il motivo per cui sono giunta fino a qui. La magia della mia allieva è molto diversa dalla mia e non sono in grado né di controllarla né di capirla fino in fondo. Ho pensato che voi poteste darmi una risposta. All’esterno, al di fuori della foresta, si vocifera che voi siate un Oracolo. -
- Ed è così, makuta. Ho ricevuto il dono della Vista dagli Spiriti e sono in grado di navigare attraverso il fiume del sogno e del tempo. Però lascia che ti dica che la tua allieva è capace, molto più di me, anche se il suo potere le ha portato via buona parte della sua mente. -
La maga annuì grave. Sospettava che il ritardo mentale di Angelika non fosse solo dovuto al sangue che le scorreva nelle vene. Tutto quello che aveva passato, le violenze, la perdita di colui che amava, le morti a cui aveva assistito e soprattutto i sogni non avevano fatto che tormentarla, e senza una guida o un'ancora aveva finito per impazzire, sebbene non in modo irreversibile.
- Si può controllare? - indagò impaziente.
- Si può controllare il sorgere del sole e l’alternarsi delle stagioni? - intervenne l’Hilm’nèr con un sorriso indulgente, - Per quanto voi maghi possiate soggiogare la natura, essa tenderà sempre a ribellarsi alle vostre redini, come una giumenta che fugge il morso dell’addestratore. Chi vede vedrà sempre, perché quando chiude gli occhi si immerge anima e mente nel Sogno, il fiume che scorre attraverso i mondi. -
Frejie assottigliò le palpebre e sfoggiò una smorfia indispettita: - Tutto si può controllare, kiniagi12. Anche se per breve tempo, tutto si può piegare. -
L’espressione della Wilm’nìs non mutò e, con pazienza, si accinse a spiegare: - Vedi, la magia di un Oracolo è l’opposto della tua, come due sorelle con padri diversi. I vostri libri, da cui attingete ogni vostra conoscenza, sono un patrimonio inestimabile, che per secoli ha reso grande un popolo donandogli la forza e il potere per proteggersi dai mostri che albergavano fuori e dentro le anime. I libri, il retaggio del passato, costituiscono sì i mattoni del futuro, i pioli della scala per ascendere agli dei, ma ricorda che sono destinati a trasformarsi in polvere, perché sono fatti della stessa natura di cui è fatta la carne degli uomini. Il tempo erode le pagine e, così come il vento spazza via le ceneri delle sue vittime, l’avanzare frenetico dei secoli seppellisce il sapere nella memoria dei morti. La tua arroganza, makuta, sta nel non aver compreso che la mente degli uomini è soggetta a inganni. -
A Frejie venne quasi da ridere. Era andata lì per capire qualcosa di più su Angelika e ora si ritrovava coinvolta in una discussione sulla magia.
- Lo so che non credi, altrimenti anche tu potresti vedere. Peccato, perché hai un animo forte e una mente salda, saresti un Oracolo davvero potente. -
- Mi state prendendo in giro? -
- Un complimento non è sempre sinonimo di adulazione. - disse pacato l’Hilm’nèr, - Tu non credi ed è giusto che sia così, perché la tua stessa essenza dipende da ciò in cui riponi la tua fede. Volevi delle risposte e ti sono state date, sta a te decidere come agire. -
- Mi avete detto che non si può controllare. – sibilò a denti stretti.
- Tu non puoi. – spostò lo sguardo su Angelika, - Solo lei può controllare il suo potere. -
“Il mio contributo è inutile, quindi.” Si morse le labbra e contrasse la mascella.
Come se le avesse letto nel pensiero, la Wilm’nìs le prese le mani. Nonostante il freddo e i calli, aveva le dita calde e morbide.
- La sua magia e la tua sono figlie della stessa madre. Per quanto possano essere diverse, non possono esistere l’una senza l’altra. Le Vene del drago e la forza di volontà rappresentano la sorella dominante, che si impone sugli altri per conseguire il suo scopo e rendere onore al sangue che l’ha generata. L’altra gemella è colei che cammina nella nostra ombra, che vive in noi fin da quando siamo nati. È gentile e preferisce guidare in silenzio, piegando la realtà con la gentilezza della voce. La prima è caos, è sfrenata, instabile, distruttiva e perennemente affamata, mentre la seconda è ordine, semplicità, calma. Insieme hanno creato la vita e si contendono l’anima di chi, come noi, ha nelle vene il sangue della loro madre. E così come loro influenzano noi, noi influenziamo loro. Finché la ruota girerà, fino a quando il fango, le intemperie e il ghiaccio non faranno cadere a pezzi il legno marcio, potrai sempre fare qualcosa. -
Frejie si portò una mano alla fronte e scosse la testa: - Parlate per enigmi, Wilm’nìs, quando io ho bisogno di risposte chiare subito. -
- Le risposte te le ho date nell’unica forma che conosco, le stesse che lo Wyrd, il Corvo bianco, mi ha sussurrato quando vidi per la prima volta. -
- Non posso aiutarla se non so nemmeno come interpretare i suoi sogni. -
Di punto in bianco, Angelika riassunse la sua solita espressione curiosa, si protese verso la donna e mormorò: - Sì, ditemi capire, per favore… -
- Non è così semplice. - l’Hilm’nèr incrociò le braccia sul petto e piegò la testa di lato, riflettendo, - A volte i sogni vanno presi per quello che sono, ossia semplici manifestazioni dei nostri sentimenti e della nostra anima. Altre volte sono le gocce del fiume che scorre attraverso i mondi e sulla ruota del tempo, mischiandosi alla scia incessante delle anime. Quando ciò accade, interpretare il loro volere e ascoltare i loro sussurri diventa difficile. - spostò lo sguardo su Angelika, - Se quello che hai visto ti preoccupa, l’unica cosa che puoi fare è aguzzare l’udito. -
- Come fare a saperlo? -
L’uomo scosse la testa e la luce del sole morente si infranse sulle corna di cervo.
- Ho sognato a lungo. - rivelò, - Ma non avevo la Vista come la mia taku wahine, sapevo a malapena tenermi a galla senza affogare nel fiume. Quello che mi è stato mostrato, però, mi è bastato per capire alcune cose, forse quelle più importanti. -
Angelika annuì con la testa china, come se avesse capito perfettamente ciò che intendeva.
La maga le lanciò uno sguardo obliquo: - L’unica cosa che posso fare, dunque, è sostenerla nel suo percorso. –
L’Hilm’nèr annuì: - Lei è l’unica a poter prendere il comando del suo destino. –
La maga indurì lo sguardo con una smorfia stizzita: - Il destino non esiste, kiniage12. –
La Wilm’nìs si alzò, - Tu non vedi, makuta, per questo non puoi capire. Per te, il fato non esiste e vita, quella continua catena di scelte e svolte, ti appartiene, ma ci sono cose, eventi che esulano dalla nostra volontà. Chi abbia deciso fosse così, non ci è dato saperlo, ma prima lo Wyrd si manifesta per chiunque. E quando esso viene a trovarti, lo si può accettare oppure lo si può tentare di combattere, così come si può bloccare il fiume quando esce dai suoi argini. -
- Nessuno può decidere della mia vita. - replicò gelida.
Le labbra della donna si arcuarono in un mezzo sorriso e non aggiunse altro. I suoi occhi non erano più concentrati su di lei. Fissavano un punto sopra la sua testa, ma sembravano vedere al di là del tetto di foglie e del cielo ormai scuro.
- Oggi è Yule, la notte degli spiriti, makuta. Spero che possano alleggerire il peso che hai nel cuore e portarti consiglio. -
La maga schioccò la lingua, ma non disse niente. Poi si alzò e, dopo un rapido inchino, fece cenno ad Angelika di seguirla fuori.
- Come ti senti? - le domandò.
La sua allieva chinò ancora di più la testa, ma, nonostante il tremore, trattenne stoicamente le lacrime.
- Ho paura. Paura di questo potere, paura che il corvo venire a far visita anche a me. Miei sogni strani, difficili, e tutto per colpa mia perché non brava per vedere bene. Se Alan farsi male… -
Frejie le passò un braccio intorno alle spalle le sollevò il mento con un dito: - No, Angelika, non pensarci neanche. Non sarà colpa tua se Alan si farà del male. Sarà colpa di un mostro, o di un altro cacciatore, o di una missione più difficile delle altre o addirittura un suo errore. È uno Slayer, la sua vita è sempre in pericolo, ma ha imparato sulla sua pelle che non deve mai abbassare la guardia. Tu potrai anche avvisarlo del pericolo imminente, però dovrà poi essere lui a fronteggiarlo. -
- Da solo? -
La maga esitò un istante, poi le sorrise: - No, non sarà solo. Lo aiuteremo noi. -
A quelle parole, Angelika sembrò rilassarsi, ma prima che potesse aggiungere altro Manto le corse incontro. Alla vista del bambino, le ombre abbandonarono il suo viso e tornò a sorridere come se niente fosse accaduto. Non attese nemmeno il permesso di Frejie per allontanarsi con lui e in un attimo era già lontana a danzare intorno al falò che era stato acceso in mezzo al villaggio.
La maga la lasciò andare, in fondo Angelika aveva bisogno di un po' di svago, se lo meritava. Poi, accertandosi di non essere pedinata, si diresse fino al limitare della radura e con dei gesti fece apparire uno specchio dagli opachi riflessi rosati, al di là del quale, tuttavia, non scorse niente a parte un'infinita distesa di tenebra.
 

Note

Ko wai’l  koe? ----> Chi siete?
2 Kel’ matou hoa oto koutou ariki. Kia haere tatou
 ---> Non siamo nemici, ragazzo. Abbassa l'arco. 
Alè ono Frejie te wahine makutu?
 ---> sei tu, Frejie? 
Whakaaturia ahau te pere me nga kohatu. ---> mostrami le sedici pietre e ti crederò
5 muda ---> ragazzo
6 asing ---> straniero
toku wahine ---> mio amore, anche mia signora.
8 
taku aroha ---> mio amore, mio signore. Come prima, dipende dal contesto.
9 makuta ---> maga
10 Tena ki a koutou, Hilm’nèr. ---> Salute a voi, Hilm'nèr
11 Whatu ki a koe, makuta. ---> Salute a te, maga..
12 Kiniagi/ Kiniage ---> titolo onorifico, tradotto letteralmente sarebbe re e regina.

 

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Capitolo 23
*** Act. 2.1 - Yule ***


Slayers
Act. 2 - Yule

 
 
C’erano miliardi di stelle quella notte, tutte così vicine da darle l’impressione che bastasse allungare la mano per afferrarne una. Frejie le osservava seduta su un tronco che fungeva da panca, con le gambe vicino al fuoco, i capelli che le ricadevano sul viso e le palpebre socchiuse. Angelika, come quasi tutti, si stava servendo di una razione abbondante di cinghiale, parlottando con Manto, mentre faceva la fila. Anche lei avrebbe dovuto mettere qualcosa sotto i denti, ma aveva in bocca il sapore acido della bile e l'idea di buttare giù anche solo un boccone le faceva venire il voltastomaco. Si strinse nel mantello e si concentrò nuovamente, nella speranza di percepire la vibrazione familiare del cristallo di Alan, ma ancora una volta udì soltanto lo scoppiettare delle fiamme sui ceppi di abete e il chiacchiericcio delle donne. Si passò una mano sul viso e si impose di rilassare le spalle. Si disse che non poteva fare granché, che sarebbe bastato aspettare che fosse Alan stesso a contattarla, ma il sogno di Angelika non le dava pace. Più tentava di distrarsi, più la sua mente tornava lì, alla visione dello Slayer sconosciuto, alla facilità con cui si era liberato dell’Eferia. Angelika le aveva riferito di averlo sentito ridere la seconda volta che le era apparso in sogno, quando aveva puntato il fucile addosso ad Alan. Quasi le sembrava di avere davanti agli occhi la scena.
Una cacciatrice druida le si accostò e le porse una coscia di cinghiale, chiedendole in una lingua comune stentata se non avesse fame. La maga rifiutò cortesemente e la giovane, dopo una breve esitazione, si allontanò, tornando a poggiare il piatto ai piedi della Wilm’nìs, che sedeva assieme all’Hilm’nèr vicino al secondo focolare, quello dove si stava cucinando il cervo. La donna non aveva smesso di spiarla da quando erano usciti dalla capanna. Frejie non avrebbe saputo se la stesse tenendo d’occhio per accertarsi che non facesse niente di male o perché era a conoscenza del suo turbamento interiore. Ad essere proprio sincera, non gliene importava poi molto.
Quella notte si festeggiava Yule e nella periferia del villaggio, seguendo un’immaginaria spirale, erano stati allestiti vari falò pieni di legna secca, pigne e foglie aromatiche, mentre nella piazzola centrale tre fuochi erano già stati accesi. Se non avesse avuto il cuore così pesante, forse si sarebbe addirittura potuta godere quello spettacolo.
Si alzò e raggiunse il tavolo dove c’erano le anfore piene di cent’erbe e idromele. L’uomo che la servì, un elfo dalla carnagione pallida e i corti capelli rossi che lasciavano scoperte le orecchie a punta, non le domandò nemmeno quale né quanto ne volesse. Prese un tozzo bicchiere di terracotta e lo riempì fino all’orlo. Frejie ringraziò con un forse troppo breve e frettoloso gesto del capo e poi si appoggiò ai rami intrecciati di una capanna, osservando i druidi danzare attorno al fuoco, incuranti del freddo, con le fiamme che serpeggiavano sui loro corpi flessuosi in sinuose ombre nere, il fumo che lambiva le loro figure come un mantello di tulle e lino cinerei. Com’era usanza, tutti portavano una corona di vischio sul capo. Gliene avevano offerta una, ma, a differenza di Angelika, non l’aveva accettata. Era una festa che non significava nulla per lei, riteneva fosse più rispettoso ammetterlo apertamente piuttosto che fingere di avere fede.
Un soffio di vento freddo le gonfiò il mantello, provocandole un brivido freddo che la riscosse dai suoi pensieri. Bevve un altro goccio di cent’erbe e, non percependo più lo sguardo della Wilm’nìs addosso, si azzardò a cercarla con gli occhi. Era seduta su una semplice coperta di lana pesante, con i piedi scalzi e il seno coperto solo dalle collane. Con le palpebre appena abbassate si stava godendo le carezze dell’Hilm’nèr, che le sfiorava la pelle con i polpastrelli delle dita, mentre le mani scorrevano sulla pelle nuda delle cosce, dei fianchi e delle braccia, le iridi nere incandescenti e piene di desiderio incatenate a quelle verdi di lei. Nelle comunità dei druidi, solo loro e altri pochi potevano avere il privilegio di mettere al mondo dei figli. La tradizione voleva che la Madre mettesse al mondo almeno un bambino ogni due anni dal momento in cui gli spiriti la sceglievano per diventare Wilm’nìs, età che si aggirava attorno ai tredici, quattordici anni. Era un rito che Frejie aveva sempre considerato barbaro, alla stregua dei matrimoni combinati, eppure, a vederli ora, non avrebbe mai detto che i due fossero stati costretti. Lo intuiva dalle occhiate che si scambiavano, dai loro gesti, dai baci delicati che si donavano avvicenda: non c’era nessun obbligo a tenerli legati, era una loro scelta.
- Cosa guardi, asing? -
Riconobbe immediatamente la voce di Kiol, ma decise di non voltarsi, limitandosi ad abbassare lo sguardo sul bicchiere e a buttare giù in un colpo solo l’ultimo sorso di cent’erbe. Non lo aveva nemmeno sentito avvicinarsi.
- Mi limito ad osservare. -
- Se stai osservando, significa che c’è qualcosa che attira il tuo interesse. -
Il Padre e la Madre si alzarono in piedi e due ragazze vestite con due tuniche di cotone pesante accorsero per consegnar loro due torce. Fu allora che un lungo corteo, guidato da un elfo e una nana dalle trecce bionde, fece il suo ingresso nel villaggio. Gli uomini e le donne che lo componevano avanzavano a testa alta, nella destra tenevano una fiaccola, mentre l’altra era distesa lungo il fianco, così vicina a quella del compagno, quasi da toccarla. L’Hilm’nèr e la Wilm’nìs accolsero i due giovani con un lieve inchino, poi i capi del corteo alzarono le fiaccole e cominciarono a recitare una preghiera, dapprima in un mormorio sommesso, poi in un crescendo che divenne un canto, a cui tutti si unirono in un coro armonioso e tonante allo stesso tempo. Il vento si alzò, sferzò le fiamme, ma al posto di spegnerle le ingrossò, innalzando il loro chiarore verso il cielo, quasi a voler rivaleggiare con le stelle.
Frejie osservava rapita lo spettacolo, gli occhi fissi su quelle figure che camminavano per il villaggio accendendo i piccoli focolari vicino alle capanne, che subito inghiottivano le ombre, emanando un chiarore dorato, una luce che inondava ogni cosa e si espandeva sempre più.
Frejie indietreggiò e, senza rendersene conto, finì contro il petto di Kiol. Fece per ritrarsi, ma le mani dell'altro la bloccarono per le spalle, forti, salde.
- Lasciami, muda. -
- Perché dovrei? - sbuffò, le spostò delicatamente una ciocca dal collo e la fece voltare.
Il giovane cacciatore indossava gli stessi vestiti di quel pomeriggio, ma le pitture di guerra erano sparite, lasciando solo la runa di Ur dipinta sulla guancia destra. Le iridi verdi erano appena celate dietro le ciglia lunghe e le trecce rosse gli ricadevano disordinatamente sul petto. Odorava di muschio, di menta, di fumo e di desiderio. Fu soprattutto l’ultimo profumo che Frejie percepì distintamente.
- Stai scambiando Yule per Beltane. Io sono una straniera, i giovani cervi come te dovrebbero cercarsi una compagna tra la comunità, non di certo una maga che ripartirà tra poche ore. -
- Sei tu che stai confondendo il cielo con il mare. Io posso avere chi voglio, non ho nessun obbligo nei confronti di nessuna donna, non finché lo Wyrd non mi avrà scelto come prossimo Hilm’nèr e, anche in quel caso, il mio dovere sarà disgiunto dal piacere. - le sussurrò in un orecchio, poi scese con le mani lungo le spalle, accarezzandole i fianchi.
Frejie puntò le proprie contro il suo petto e inaspettatamente, forse perché si era accorto della sua esitazione, Kiol la lasciò all’istante. Sorpresa da quella reazione e irritata dal sorrisetto che gli arricciava gli angoli della bocca, la maga si scostò e distolse lo sguardo.
Rimasero un istante in silenzio, entrambi fermi a contemplare il corteo che si stava disperdendo per unirsi alle danze attorno al focolare. Il Padre e la Madre ballavano vicini al fuoco, muovendo le mani per invitarlo a danzare allo stesso ritmo, mentre esso lambiva le loro dita senza bruciarle.
Angelika e Manto dormivano già, l'uno accanto all'altra, a ridosso di un tronco, avvolti in una coperta che qualcuno si era premurato di metter loro addosso.
- Ti ha mandato la Wilm’nìs? - domandò con finta disinvoltura.
- Sono venuto di mia spontanea volontà. Ho visto una giovane donna tutta sola e ho pensato di venirle a fare compagnia. -
- Chi ti dice che volessi la tua compagnia? -
- Diciamo che ho un sesto senso per certe cose. - ghignò.
- Allora è un pessimo sesto senso, perché io non ho mai desiderato stare con te. -
- Sei sempre così diretta con gli uomini, asing? -
- Solo con quelli che mi sorprendono alle spalle e continuano a chiamarmi “straniera”. -
Lui sorrise e a Frejie parve di vedere un baluginio strano in fondo ai suoi occhi.
- Chiedo perdono, ma dopo tutti i tentativi di intrusione che abbiamo subito non riesco più a fidarmi di nessuno, nemmeno dell’amica di una mia compagna. - sospirò con aria cupa e le accarezzò le ciocche sparse sulle spalle con espressione seria.
Frejie non si sottrasse al contatto. Il suo corpo, così dannatamente vicino al suo, la scaldò attraverso il tessuto della tunica aderente e percepì la tensione azzerarsi. Senza accorgersene si rilassò e abbassò la guardia, forse per la prima volta da quando era giunta al villaggio.
- Nemmeno tu sei originario di queste parti. - considerò.
Kiol inclinò la testa e schioccò la lingua, ma in quell’atteggiamento non c’era irritazione, solo semplice sorpresa.
- Come hai fatto ad accorgertene? -
- Hai un lieve accento fanishtico e la pelle fin troppo abbronzata per essere nato a New England. Quindi non hai il diritto di chiamarmi straniera. - gli si accostò lentamente, spinta da un improvviso desiderio di calore, e lasciò che lui l'abbracciasse con un movimento lento e cauto.
Avrebbe voluto aggiungere altro, ma le parole le rimasero impigliate in gola. Alzò la testa e incrociò il suo sguardo, avvinta da quelle iridi verdi, dal bagliore sanguigno che esse emanavano, come se all'interno bruciasse un fuoco più vivo di quello che abbrustoliva la legna dei falò. C’era qualcosa di strano in quel ragazzo, ma più cercava di fuggire, più il suo corpo opponeva resistenza.
- È Yule, Frejie. - Kiol le alzò il viso, sussurrandole quelle parole a un soffio dalle labbra, - Si dice che il potere degli spiriti sia più potente, che persino chi non crede può incontrare e conoscere il suo Wyrd. -
Frejie ridacchiò: - Credi troppo, Kiol. -
- Forse, ma ci sono delle cose che sono indipendenti dalla nostra volontà e trascendono la nostra capacità di comprensione. –
Le stesse parole della Wilm’nìs, lo stesso sguardo, la stessa fermezza.
Con un sorriso enigmatico, la prese per mano, risalì il braccio fino alla spilla del mantello e la slacciò, facendolo cadere a terra in un leggero fruscio, - Quando incontriamo il nostro Wyrd non possiamo più sfuggirgli, Velia. -
Sentendosi chiamare così, col suo vero nome, Frejie sussultò e capì che quello con cui stava parlando non era Kiol, ma qualcosa di antico e potente. Lui le sorrise e le schiuse le labbra delicatamente con il pollice.
- Non posso… - mormorò con un filo di voce.
Il cacciatore le sciolse i capelli e disegnò il contornò delle orecchie, del collo, della collana d’ossidiana, scatenandole dei piacevoli brividi su tutta la pelle.
- Sono il tuo Wyrd, Velia, e stasera è Yule. - ripeté sorridendo, come se avesse a che fare con una bambina testarda.
Non c’era cattiveria nelle sue parole, né biasimo o sussiego nei suoi occhi, ma solo desiderio. Un desiderio che la stava pervadendo pian piano dai punti che lui sfiorava, per poi esploderle tra le cosce.
Camminarono fino alla capanna della Wilm’nìs e dell’Hilm’nèr e il cacciatore la trascinò all’interno senza alcun ripensamento. Niente faceva pensare che quello che stava per accadere fosse stato orchestrato dalla Madre, a dispetto dei timori di Frejie. L’incenso aveva smesso di bruciare da molto, ma il suo profumo di calamo aromatico permeava ancora l’aria e, assieme al fumo intessuto delle scintille dei bracieri, sembrava fagocitare ogni suono proveniente dall’esterno.
Frejie spostò lo sguardo dal letto di pellicce a Kiol. Non assomigliava in nulla ad Alan, eppure non riusciva ad allontanarsi né a sentirsi in colpa. Si lasciò cadere supina sul giaciglio e lasciò che Kiol le gattonasse sopra, che la baciasse, che le accarezzasse le cosce salendo sempre più in alto. Si spogliarono lentamente, slacciando ogni singola fibbia con delicatezza e senza mai interrompere il contatto visivo. Quando furono entrambi nudi, lui appoggiò la bocca sul suo seno e leccò un capezzolo turgido finché non la sentì gemere e respirare affannosamente. Aveva le mani grandi, callose, ruvide e screpolate, ma il suo tocco era gentile, attento.
- Non pensare, Velia. -
- Non ho più quel nome… -
- Il tuo nome sarà per sempre questo. -
Affondò due dita in lei e le morse il collo come per rimproverarla. Frejie ansimò, conficcò le unghie nella sua schiena e soffocò un ansito sulla sua spalla, mentre lui le lasciava una scia di baci lungo il petto, l’addome, il ventre.
Da fuori si levò un canto armonioso, pronunciato in una lingua sconosciuta e familiare al medesimo tempo, che si perse nel fumo purpureo della capanna assieme ai gemiti della maga. Gemiti che si trasformarono in accorate preghiere quando Kiol sfiorò con la lingua ruvida le sue carni bagnate.
 
Regina del Sole, Regina della Luna
Regina dei corni, Regina dei fuochi
Portaci il Figlio della Promessa.
È la Grande Madre che Lo crea
È il Signore della Vita che è nato di nuovo!

L'oscurità e la tristezza vengono messe da parte
quando il Sole si leva di nuovo!

 
Seguirono altri baci, altre carezze, altri sussurri e morsi impazienti. Frejie gli cinse il bacino con le gambe e avvicinò i loro corpi fino a farli scontrare. Penetrò in lei con studiata lentezza, quasi volesse farle sentire ogni singolo centimetro di pelle, e si prese le sue labbra in un respiro strozzato. Quando cominciò a muoversi, la maga riversò la testa all’indietro, gli occhi socchiusi e il viso già distorto nell’estasi del piacere. Lo implorò di non fermarsi.

Sole dorato, delle colline e dei campi,
illumina la Terra, illumina i cieli,
illumina le acque, accendi i fuochi!

Questo è il compleanno del Sole,
io che son morto, oggi son di nuovo vivo.
Il Sole bambino, il Re nato in inverno!

 
Come faceva a capire le parole di quel canto? Aveva una conoscenza approssimativa della lingua dei druidi, eppure capiva tutto. Avrebbe voluto delle risposte, ma la ragione l'abbandonò completamente all'ennesima spinta. Gemette di nuovo e spostò la testa, consentendo a Kiol di morderla ancora, di tuffarsi nei suoi capelli scompigliati e marchiarla con un'altra doppia mezzaluna frastagliata poco sotto la mandibola, dove chiunque avrebbe potuto vederla. Il giovane percorse con i polpastrelli ogni curva del suo corpo e Frejie si ritrovò a guardarlo come aveva guardato Alan in quei frangenti, quando ancora erano una cosa sola e lei si era illusa di poter sostituire Eluaise. Affogò in quegli occhi di un verde troppo chiaro per essere quelle dello Slayer, aspettando che il dolore le azzannasse il cuore, ma ricevette solo altro piacere, che, come la marea, spazzò via tutto, passato, presente, futuro. C'erano solo loro due in quella capanna ammantata dal profumo di calamo aromatico.
 
Io sono il richiamo al di là dei confini della terra,
Io posso cambiare forma come un dio,
Perché io sono l’Agrifoglio e la Quercia,
Perché io sono l’oblio, il Caos e la rinascita,
Perché io sono il Vecchio e il Bambino
che nasce dal ventre della morte.
 
Frejie sussultò sotto i colpi furiosi dell'altro, dettati dalla brama di un predatore che ha tra le zanne la sua vittima. I loro bacini combaciavano perfettamente, in un modo semplice e assurdamente preciso. Lo sentì tremare e poi liberarsi dentro di lei in un ringhio sommesso. I loro cuori battevano all’unisono, quasi sfiorandosi attraverso la sottile pelle del petto. Rimasero a lungo in silenzio, ascoltando i rispettivi respiri, entrambi con le palpebre abbassate e la mente altrove.
Si addormentarono cullati dai rumori lontani della festa e dal calore dei loro corpi avvinghiati.
 
Stava volando. Sotto di lei l’oceano sfrecciava con le onde che mugghiavano sotto le sferzate del vento. Un movimento alla sua destra attirò la sua attenzione e si stupì quando vide un corvo bianco dalle ali immense.
- Chi sei? -
Il corvo gracchiò e sbatté più forte le ali per prendere quota.
- Non ti serve sapere chi io sia, non saresti in grado di capirlo. - rispose nella sua mente, con una voce che, in qualche modo, le ricordava quella dell’Hilm’nèr.
Frejie lo affiancò e scosse la testa bagnata, lasciando che il vento impetuoso le asciugasse le penne.
- Cosa vuoi da me? -
- Abbassa gli occhi e capirai. -
Frejie obbedì e si accorse che sotto di lei non c’era più il mare, ma una lucida scacchiera con i quadretti neri e bianchi scheggiati, usurati dal tempo. Tra di essi si innalzavano le montagne, scorrevano fiumi e camminavano uomini e donne che da quell’altezza apparivano come formiche dai colori sgargianti.
Il ruggito di un tuono esplose sopra di loro nel momento stesso in cui un fulmine squarciò il cielo coperto da nubi temporalesche. Una lunga fila di sagome indistinte e dai volti fumosi li circondò e cominciarono a vorticare in cerchio. La fissavano con occhi vuoti, sussurrando parole che non capiva in un coro incomprensibile e inquietante. Una di loro la stava guardando con un ghigno sardonico e Frejie dovette soffocare un grido quando riconobbe sua madre.
- Velia… -
Il corvo gracchiò e cominciò a volare a spirale attorno a lei, squarciando quel muro di spiriti con il suo poderoso battito d’ali. All’inizio Frejie perse una corrente e scese di quota, ma il vento creato dai rapidissimi movimenti circolari del corvo la sostenne in aria quel che bastava per trascinarla proprio nel mezzo, dove poteva volare in tutta tranquillità. Era come essere nell’occhio del ciclone, con i visi dei morti che sfumavano appena provavano a penetrare la barriera che si era creata.
- Guarda il mondo, imprimitelo nella memoria affinché tu sappia a chi consegnare i suoi fili. -
La maga tornò a guardare in basso e sentì le viscere contrarsi. Vide una lunga spiaggia lambita dal mare, arrossato dal sangue dei corpi trasportati dalle onde. Una donna si strappava i capelli e si straziava il volto, urlando verso il cielo, lo sguardo fisso sul cadavere di un giovane uomo in divisa militare. All’orizzonte, sulla cima dell’albero maestro delle navi e delle aeronavi che punteggiavano le acque e il cielo, sventolava la bandiera di New England.
Vide le alte torri del castello dell’Ancyara ridotte a tozzi moncherini bruciati e le sue imponenti mura divorate delle fiamme. Sulla balconata che aggettava sulla città c’era un uomo senza più la corona che chiedeva pietà a dei soldati con lo stemma delle due rose sul pettorale delle armature, l'espressione disperata e il mantello regale macchiato di sangue non suo. Lo trascinarono in piazza e lo fecero inginocchiare davanti al ceppo, il boia vicino a lui che ghignava con l’ascia già sollevata.
Vide Letodus, con le sue infinite spiagge e i suoi antichi castelli, avvolta da un miasma nero e denso, irrespirabile, simile ai fumi delle prime fabbriche. I suoi abitanti si nascondevano nei vicoli e si fondevano con le lunghe ombre delle cattedrali, mentre degli uomini con una maschera senza volto sciamavano ovunque, le spade seghettate che catturavano la luce della luna e delle stelle.
Vide Narmalyana, dove un uomo vecchio era seduto su uno scranno di pietra e calpestava i fedeli prostrati ai suoi piedi, avanzando con le mani protese verso un oroboro dorato che si mordeva la coda. Non appena lo sfiorò, esso fremette, rizzò le squame e si contorse, finché dalla sua testa non uscirono un ragazzo con un buco sanguinante nel petto e un uomo dagli occhi bianchi e incavati. Entrambi percepirono la presenza di Frejie e guardarono in alto, verso di lei, scrutandola con i loro occhi saggi.
Vide Alan, il volto scavato dalla stanchezza, camminare avanti e indietro su un dirigibile, mentre due ragazze correvano verso di lui senza però riuscire ad afferrarlo. Attorno al cacciatore si affollavano le ombre sinistre dei morti. Una in particolare attirò la sua attenzione: una donna dal viso coperto da un velo sgualcito e un bellissimo abito di seta nera, con tulle e merletti ad ornarne il bordo sdrucito. Gli accarezzava il braccio con movimenti lenti, sensuali e, ogni volta che lo toccava, la pelle di Alan si faceva sempre più livida. Frejie tentò di urlargli di allontanarsi, ma all'improvviso un’esplosione assordante coprì ogni suono e il dirigibile cominciò a precipitare.
- No! Alan! - provò ad uscire dal vortice, ma non aveva abbastanza forza per oltrepassare la barriera di vento.
- Non remare contro le correnti del Sogno, Velia. -
La voce del corvo bianco placò il battito impazzito del suo cuore. Poi questi virò e così fece lei, seguendo la corrente ascensionale che la portava verso sud, verso i deserti del Primo Continente e la sabbia che turbinava sulle dune dorate, stridendo contro le alte mura di pietra nera di Irdumiswed. Un rombo riecheggiò nell’aria afosa e un’aeronave sfrecciò sopra l’antica città, piegando le palme e alzando un vento di polvere al suo passaggio. Gli uomini dell’equipaggio riposavano sotto il sole cocente, mentre una donna dagli occhi neri come l’inchiostro e il portamento fiero di una leonessa stava al timone. Alle sue spalle, seduto su un barile, c’era un ragazzo. La sua testa ciondolava sul torace e delle raffiche gli scompigliavano le ciocche rosse e bianche. Tra le mani stringeva una spada fregiata di rune macchiata di sangue. Frejie li vide andare incontro a una tempesta, venti impetuosi e lampi accecanti squarciavano il cielo nero, ma nessuno a parte quel ragazzo sembrava vedere la minaccia che si avvicinava.
Spinta da una volontà non sua, Frejie puntò gli occhi al di là del Mar Shun, verso Asselle, la città d’oro, e oltre, fino a Rumiyya al-hin, la Città delle Città, dove i draghi volavano inquieti sopra i giardini in fiore dell’imperatrice. Vide la donna più potente, l’ultima dell’antica stirpe, camminare nelle sue stanze, con la Tar- raguni che l’osservava seduta sul trono di giada, mentre nelle ombre lunghe delle colonne si nascondevano figure armate con pugnali e spade di carta ingiallita. Un attimo dopo il marmo del pavimento si tinse di rosso e il sangue allagò tutta la sontuosa corte, rovesciandosi sui muri del palazzo come una liquida rete scarlatta.
Infine spostò nuovamente lo sguardo su New England, sulla scacchiera distrutta, e vide Eluaise precipitare verso il suolo assieme ad Alan. Nessuno dei due urlava o si dibatteva, eppure Frejie sapeva che entrambi erano vivi perché si tenevano stretti nella caduta, mentre l’ombra indistinta di un essere simile a un pipistrello li seguiva in picchiata, le fauci spalancate e gli artigli protesi nel tentativo di afferrarli. Al suolo, in mezzo ai ruderi delle città, una folla di umani dalle fattezze mostruose che sfoggiavano il simbolo di Shamar sul petto e un'orda di mostri si combattevano con inaudita ferocia.
Quando Alan ed Eluaise si schiantarono, Frejie gridò terrorizzata e sentì il sapore salato delle lacrime bagnarle le labbra.
- Ora sai a chi devi consegnare le redini del mondo. - sussurrò il corvo bianco.
- No, non lo so… -
- Sì che lo sai, lo hai visto. -
- Alan? Devo consegnare le redini del mondo ad Alan? -
Il corvo si fermò proprio sopra la sua testa, per poi planare di fianco a lei.
- Ormai il sole è sorto, la notte degli spiriti è passata. -
- No, aspetta, ho ancora delle domande da farti! -
- Le risposte alle tue domande sono in ciò che hai visto. Addio, Velia. - si congedò e sbatté forte le ali svanendo nella nebbia.
Il sole fece capolino da oltre le nubi, le squarciò rischiarando l’oscurità con la sua luce bianca e Frejie si sentì sempre più pesante, finché non fu più in grado di volare. Poi cadde nel vuoto.
 
Quando si svegliò era mattina inoltrata. Kiol dormiva ancora accanto a lei, con il viso appoggiato sulla sua spalla. Cercando di non svegliarlo, la maga scivolò fuori dall’abbraccio caldo delle coperte – qualcuno doveva essere entrato nella capanna durante la notte, perché prima non c’erano – e cominciò a rivestirsi. Fuori il villaggio era ancora silenzioso, segno che i festeggiamenti erano andati avanti anche dopo che lei…
Si morse le labbra, strinse la cintura attorno alla vita e si affrettò ad uscire dalla capanna. Non voleva parlare con nessuno, tanto meno incontrare la Wilm’nìs, anche se forse era l’unica che avrebbe potuto spiegarle cosa era davvero accaduto.
Come se fosse stata evocata, la Madre le si fece incontro, uscendo da una delle capanne alla sua sinistra. Stavolta indossava una lunga tunica bianca e un mantello blu. Avanzò con passo deciso, porgendole il suo mantello e la spilla dorata con un sorriso. Avrebbe voluto girare i tacchi e andarsene, ma la spilla era importante, così Frejie lo prese e lo indossò, tenendo ostinatamente lo sguardo rivolto da un’altra parte.
- Sei agitata. -
- Ho solo avuto una notte movimentata. -
Il sorriso sulle labbra della donna si addolcì: - Il Corvo bianco è venuto a farti visita, vero? -
La maga si irrigidì: - Quel sogno non aveva senso. -
- Non era un sogno, lo sai bene. Era troppo realistico. -
- Molte volte ho sognato cose che ho pensato fossero vere, ma poi si sono rivelate solo paure e proiezioni della mia coscienza. Io non sono un Oracolo come Angelika o come te, non posso vedere, non posso navigare nelle acque del Sogno. -
- A Yule le regole del mondo si sovvertono. Se gli Spiriti hanno scelto di comunicare con te è perché sanno che sei la persona più adatta a conoscere il loro messaggio. Attraverso l’unione di corpo e anima, tu e il giovane cervo siete stati resi partecipi dello Wyrd del mondo. Non rifiutare la verità solo per scetticismo. -
- Perché Kiol avrebbe dovuto vedere con me? -
- Perché è il principio stesso della visione, che arriva attraverso l’estasi del piacere carnale. Certi fardelli sono più facili da portare se si è in due a conoscere. -
- Non mi importa. - la voce le uscì più dura di quello che pensava, - Io ho solo visto delle cose che non comprendo, cose che potrebbero accadere o che potrebbero già essere accadute. Devo consegnare le redini del mondo a qualcuno, ma non so a chi, perché tutte le persone che ho visto morivano. No, Wilm’nìs, io non conosco la verità e quel sogno mi ha confusa ancora di più. -
- Ne sei sicura? Oppure è il tuo orgoglio da maga a impedirti di comprendere i segni? -
Frejie girò la testa e serrò le labbra.
- Non fare così. Sei venuta qui per avere delle risposte e ti è stata offerta la possibilità di cambiare lo svolgersi degli eventi. Ma devi mettere da parte l’orgoglio e superare i limiti che ti sei imposta. Non ha senso appellarsi ai nostri principi quando ci trema la terra sotto i piedi, men che meno ora che c’è in gioco qualcosa più grande di te. -
- Hai detto che alcune cose non si possono cambiare. -
- Non ho mai detto che non ci si possa provare. -
- Non sono una donna che si butta in imprese impossibili. -
- È impossibile solo ciò che tu ritieni tale. -
- Mi stai forse dicendo che potrei impedire la morte di Alan? - domandò, lottando contro il tremito della voce, - Mi stai dicendo che posso salvarli tutti? Questo significherebbe che il destino non esiste e il tuo Wyrd diventa una parola priva di senso. -
La Wilm’nìs le strinse le mani e le baciò la fronte senza rispondere, accarezzandole amorevolmente i capelli ancora scompigliati.
In quel momento, Frejie udì una porta aprirsi alle sue spalle. Quando si girò, si trovò faccia a faccia con Angelika. Indossava una sottoveste in taffetà sotto la tunica di cotone a maniche a sbuffo, coi bordi in ciniglia. Sulle spalle aveva già il mantello da viaggio, chiuso all’altezza del cuore da una spilla realizzata con rami e fibre grezze intrecciate. Aveva un’espressione serena, anche se Frejie aveva notato da subito un leggero rossore attorno agli occhi.
- Ti senti bene, Angelika? -
La ragazza annuì, tirando su col naso: - Sì, entrata solo una mosca nell’occhio. -
- Doveva essere una mosca molto grande se ti ha fatta piangere così. - sospirò e spostò di nuovo la sua attenzione sulla Wilm’nìs, - Noi partiamo ora. -
- Dirò ad Anevia di sellarvi i cavalli. -
- Grazie dell’ospitalità e di tutto quello che avete fatto. -
- Sì, grazie… grazie davvero. - la salutò Angelika.
La Madre le rivolse un sorriso caloroso e allungò la mano, lasciando entrambe interdette. Angelika serrò subito la presa, il volto disteso in un’espressione piena di riconoscenza. Dopo un minuto di cordialità e balbettii di ringraziamento, fece un passo indietro. Ma quando le dita della Madre e quelle di Frejie si sfiorarono, la Wilm’nìs si incupì e impallidì. In quegli occhi verde giada la maga scorse il gelo la paura.
- Cos’hai visto? -
- Non ho visto. Ho sentito. - rispose con tono amaro, - La Dama Nera. È nascosta nella tua ombra, makuta. -
Frejie deglutì e strinse i pugni. Angelika le si affiancò e l'abbracciò tremando.
- Non voglio che… -
- Non dirlo nemmeno. - l'ammonì, poi sorrise incoraggiante, - Non morirò finché non ti avrò resa la maga più potente di tutta New England. -
La ragazza si asciugò una lacrima e annuì con convinzione. Frejie si voltò e camminò verso Anevia, che fino ad allora era rimasta ferma a poca distanza in attesa che il colloquio terminasse.
Per tutta la traversata della foresta nessuno parlò, nemmeno Angelika, che di solito non riusciva mai a stare zitta. Forse anche lei era turbata. Più volte la maga la sorprese a fissare il vuoto mentre si mordicchiava nervosamente le labbra. Una volta arrivate a casa, le avrebbe chiesto se avesse sognato anche lei quella notte.
Frejie stava annegando nei pensieri, che però le sfuggivano prima di prendere forma, scombussolandola e tormentandola. Non si sentiva in colpa per non aver salutato Kiol, non ne aveva motivo, però non riusciva a non riflettere su quello che aveva visto assieme a lui. Si chiedeva perché gli Spiriti, o qualsiasi entità si fosse impossessata del suo corpo, avessero deciso di rendere il cacciatore partecipe del sogno. La spiegazione della Wilm’nìs le sembrava troppo semplice.
Gli addii furono brevi da entrambe le parti. Frejie non aveva niente da dire ad Anevia e la sua ex allieva non sembrava volerla trattenere. Però l’abbraccio che si scambiarono, seppur quasi frettoloso, valeva più delle parole. Prima che la maga girasse il cavallo, la druida era già sparita, veloce e silenziosa così com’era arrivata.
Sulla via del ritorno dovettero fare una breve deviazione: una frana, probabilmente causata dalle continue piogge che durante quel rigido inverno avevano reso il terreno ancora più instabile e fangoso, aveva bloccato il sentiero diretto verso Westmoth. Frejie ponderò l’idea di usare la magia, ma la scartò. D’altronde, anche se prima e dopo la partenza aveva preso dei provvedimenti per rendersi irrintracciabile, era pur vero che qualsiasi Slayer capace di usare la magia avrebbe captato il suo portale da centinaia di miglia. Con un sospiro irritato si rassegnò a proseguire su una strada dissestata, che passava attraverso i vari paesini della contea. Si tennero lontane dalle strade principali, spostandosi sempre per quelle secondarie o, se era possibile, su quelle di campagna, piccoli sentieri che si perdevano nel verde dei prati. Incontrarono ben poche persone sul loro cammino, per lo più contadini che tornavano dai lavori nei campi e a malapena avevano la forza di alzare la testa.
Giunsero in prossimità di un vecchio ponte sul calar della sera e, quando gli zoccoli risuonarono sulle travi marce e ammuffite, Frejie non riuscì a trattenere un’imprecazione.
- Mai una volta che lo riparino decentemente! Angelika, aumenta il passo. Meno ci mettiamo ad attraversare, prima arriviamo a casa. -
Ma la sua allieva rimase dietro di lei, all’inizio del ponte, con lo sguardo fisso sulle proprie mani.
- Angelika? -
- Maestra, il filo… il filo trema… -
- Per carità, Angelika, ti ho già detto che ne parleremo dopo! Ora andiamo, prima che… -
Le parole furono coperte da uno sparo. Quello che in seguito accadde, fu così veloce che Frejie a malapena riuscì a ricordarlo. Il cavallo che si impennava, l’esplosione della barriera magica sprigionata dalla spilla, Angelika che urlava, il tonfo e la densità vischiosa del sangue che le imbrattava i capelli. Infine una presa salda e l’intenso e penetrante profumo di muschio di un corpo caldo.
  

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Capitolo 24
*** Act. 3 - The Ancient ***


Slayers
Act. 3 - The Ancient

 
 
Alan e gli altri arrivarono a Chasterm all'alba, giusto qualche ora prima che si mettesse a piovere. La luce delicata del sole era celata dietro le nubi temporalesche e presto un’acquerugiola uniforme e fastidiosa aveva cominciato a picchiettare sui tetti delle case. Quelle a est apparivano quasi spettrali e l’assenza del solito, caotico via vai che caratterizzava la città non faceva altro che accentuare la sensazione di abbandono. Durante il tragitto incontrarono qualche operaio diretto in fabbrica, ma erano ben pochi coloro che avevano la forza di alzare lo sguardo dal marciapiede, sebbene la presenza di Maxwell e Rachel non passasse esattamente inosservata.
“Siamo fortunati. Se non fosse così presto, scapperebbero urlando.”
Girarono a destra, inoltrandosi in una viuzza secondaria a malapena illuminata dai lampioni e dalle insegne dei locali. O meglio, Maxwell girò e gli altri si limitarono a seguirlo, visto che si era autonominato loro guida. Quando Rachel gli aveva fatto notare che non ne avevano bisogno, l’ex-Slayer l’aveva rimbrottata con un mezzo sorriso, per poi mettersi in testa al gruppo sedando sul nascere ulteriori discussioni. Né Alan né Gabriel avevano aperto bocca. L’importante, in fondo, era andare avanti e non contava chi voleva giocare a fare il capo.
Di tanto in tanto ad Alan capitava di incrociare lo sguardo del suo vecchio maestro, ma era questione di qualche istante e subito tornavano ognuno a trincerarsi dietro i propri pensieri.
Con un sospiro, Alan si strinse nel soprabito e mosse le dita intirizzite dal freddo nelle tasche. Sfiorò il profilo del quarzo, ancora tiepido. Evidentemente Frejie aveva cercato di contattarlo a lungo, visto che quando lo aveva tirato fuori poco prima si era quasi bruciato la mano. Chissà cosa aveva voluto dirgli di tanto urgente.
- Odio questo tempo. - borbottò a un certo punto Gabriel, tanto per interrompere quel silenzio snervante.
- Concordo, ma non viviamo di certo in un paese conosciuto per il sole. - rispose Maxwell.
- L’inverno è veramente gelido quest’anno. Nelle contee di Illyon, Chart e Kyonin persino il Belriad è ghiacciato e il commercio via fiume è quasi completamente sospeso. -
- Questo perché quegli arroganti degli Elfi del Giorno si rifiutano di usare la magia per scioglierlo. La solita storia ogni anno. -
- E dire che la maggior parte delle persone comuni li reputano degli ottimi mercanti. -
Maxwell gli lanciò un’occhiata obliqua: - Tu sei tra questi? -
- N-no! Mica sono una persona comune, io! -
Alan inarcò un sopracciglio.
“Giustappunto, sei un pazzo che ha come fidanzata un fantasma.”
Come se avesse udito i suoi pensieri, Maxwell scoppiò a ridere di gusto.
- Scommetto che sei uno di quelli che pensa che i ghiacci dei monti Vallar non si sciolgono mai e che nella valle di Unein c’è sempre la neve. -
- Non sono così stupido! - protestò Gabriel, - Neppure Meredith, che non è mai uscita da Chasterm, sa che sono solo dicerie da ciarlatani, nevvero? -
- Ah, non lo so, io non parlo con i fantasmi. -
- La signorina vi chiede di smettere. Le vostre voci e le vostre chiacchiere la infastidiscono peggio di questa pioggerella. - intervenne Sebastian.
Maxwell schioccò la lingua e sistemò l’ascia che portava sulla schiena, la stessa sfregiata compagna di battaglia di quando era ancora uno Slayer.
- Tu non cambi proprio mai, Rachel. -
- La signorina è un mezzo vampiro. La sua specie, per quanto abbia una parte mortale, è immune allo scorrere del tempo, quindi esula dal concetto stesso di cambiamento. -
Il Lycan aprì la bocca per ribattere, poi scosse la testa e ci rinunciò. Sapeva che insistere sarebbe stato inutile.
Alan spostò la sua attenzione sulla cacciatrice. Camminava poco dietro il suo vecchio maestro, con le braccia lungo i fianchi, lo sguardo perso nel vuoto e il viso inespressivo di sempre. L’unico indizio che gli faceva pensare che c’era qualcosa di diverso era il fatto che fin da quando avevano lasciato il castello era sempre stato Sebastian a parlare al suo posto. Negli ultimi tempi era diventata più loquace, pur senza esagerare, ma adesso pareva essere precipitata di nuovo nel suo irritante mutismo. C’era qualcosa di forzato nella sua camminata marziale, una rigidità che spesso, durante il viaggio, le aveva fatto aumentare il passo fino quasi a lasciarli indietro.
Sentendosi osservata, sbirciò alle proprie spalle, ma Alan era già tornato a guardare altrove.
La pioggia non accennava a diminuire. In alcuni momenti sembrava stesse per smettere, ma poi riprendeva, più insistente e fastidiosa di prima. Passarono davanti al Museo dell’Arte e della Scienza, un palazzo basso e squadrato attorno al quale si stava già ammassando una folla pronta a comprare i biglietti per entrare. Sulla bacheca era stato affisso un ormai fradicio cartellone che annunciava “Da Azhaara I a Khariya dar’Sheeda: arte e storia dell’impero delle donne”.
- Aprono così presto? - domandò Alan.
- No, ovviamente. Penso sia per la mostra in corso. - rispose subito Maxwell.
- È la prima volta che il museo ospita una mostra sul Primo continente. Devo assolutamente procurarmi i soldi per andarci prima che finiscano. - disse Gabriel, gli occhi che brillavano per l'emozione.
- Sì, quando ci saremo separati potrai fare tutto quello che vuoi. Ora muoviti, mi si stanno bagnando persino le mutande. - mugugnò Alan.
Quando giunsero alla gilda dei tecnomanti erano ormai bagnati fradici, ma, visto che non avevano mai avuto intenzione di passare dall’entrata principale, nessuno udì tutti gli improperi che uscirono prima dalla bocca di Alan e, subito dopo, da quella di Gabriel, che era scivolato in una pozzanghera sporcandosi ulteriormente.
Il cacciatore fu ben felice di non dover passare dall’ingresso principale, in primo luogo perché in quello stato pietoso avrebbero avuto un po’ troppi occhi addosso e, in secondo luogo, l’idea di incontrare di nuovo Qayin gli faceva prudere le mani e venire i brividi. Malgrado l’esperienza gli avesse insegnato che non era una mossa intelligente attaccar briga con un vampiro, era a dir poco frustrante non potergli dare una lezione.
Al contrario di quello che si aspettava, però, i due vampiri dinnanzi alla porta sul retro li fecero passare senza battere ciglio. In un primo momento, mentre saliva le scale per andare al piano superiore, Alan si domandò il motivo di tale comportamento, per poi imprecare sottovoce quando si ricordò che i Primiginei vampiri potevano captare la presenza e l’odore della loro preda anche a un miglio di distanza.
Seguirono altre rampe e un paio di corridoi, tutti più o meno deserti, abitati al massimo da qualche acaro vagante. Rachel affiancava Maxwell, mentre Gabriel camminava accanto ad Alan, fermandosi ogni quattro passi per rimirare un quadro, un vaso antico, il mobiletto intagliato nel faggio che, per Shamar, doveva avere almeno cinquant’anni. Alan dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per tenere sotto controllo l’irritazione e l’inquietudine. Senza dubbio la scampagnata alla magione di Lehcar non aveva giovato al suo ginocchio che, anche se era guarito, ogni tanto si faceva sentire con un dolore sordo e pulsante. A volte capitava, soprattutto quando era passato poco tempo dalla frattura e guarigione dell’osso.
All’ennesima rampa di scale imprecò di nuovo, augurandosi che gli Spiriti, Shamar o chiunque ci fosse lassù facessero soffrire K’yorl tanto quanto stava soffrendo lui.
Quando giunsero all’ultimo piano, la città si era completamente svegliata e nella piazza su cui aggettava l’imponente e magnifica facciata della gilda c’era già chi cominciava a mercanteggiare sul prezzo di questo purosangue o di quell’abito. Nonostante tutto, dai piani inferiori non si udiva alcun suono e, a parte i lampadari di cristallo sopra le loro teste, non sembrava esserci nessun’altra fonte di luce. Alan si domandò se quello non fosse il giorno di riposo e se davvero c’era la speranza di trovarvi la sorella di Samuelle.
Alla fine del corridoio, davanti alla porta della stanza in cui si stavano recando, c’erano due soldati armati con un fucile di lynium, rigidi e tesi come se qualcuno avesse infilato loro un’asta su per il culo. Si spostarono non appena li videro, così come avevano fatto i due vampiri all’entrata. Alan li osservò perplesso. L’unico che sembrava nutrire qualche riserva su quello strano comportamento oltre a lui era Gabriel, che alternava lo sguardo a destra e a sinistra con espressione preoccupata. Maxwell avanzava sicuro davanti a tutti, mentre Rachel occhieggiava annoiata in direzione della statua di Elisabetta Vittoriosa fuori dalla finestra, al centro della piazza.
Con la mano vicino all’elsa della spada, il cacciatore li seguì. Entrato nella stanza, lo stupore scacciò la diffidenza. La luce entrava in raggi obliqui attraverso le finestre slanciate decorate con fiori profilati in piombo, diffrangendosi nei suoi colori in un caleidoscopio di sfumature rosse, blu e giallo opaco. Di fronte a lui, posizionato dietro a un tavolo in quercia gremito di pergamene, ampolle, cacciaviti e chiavi inglesi di ogni misura e circondato da scalinate sospese in aria, c’era un enorme cuore di quello che a prima vista poteva sembrare semplice vetro. Al suo interno, incastrati in un mosaico perfetto, ticchettavano le rotelle bronzee degli ingranaggi, producendo l’energia sufficiente per far pulsare i quattro spessi cavi che si attorcigliavano attorno alla struttura, per poi sparire nel soffitto. Quando Alan si avvicinò, vide che ad ogni battito le rune incise nel bronzo dei dentelli si accendevano e si spegnevano.
- Cos'è questa meraviglia? - balbettò Gabriel.
- È il nostro progetto. -
La voce di Qayin rimbombò nel locale e, mentre avanzavano, la luce del sole accarezzò la figura del vampiro, in piedi sulle scale sospese. Al posto dei suoi abiti eleganti, indossava una camicia grigia macchiata d’olio e un cappotto di pelle marrone dai bordi sdruciti. Le mani erano coperte da un paio di guanti da lavoro, mentre un paio di occhiali da meccanico gli celavano lo sguardo. Nonostante ciò, Alan ebbe la netta sensazione che stesse fissando Rachel.
- Il… vostro progetto? Pensavo che voi tecnomanti progettaste armi e basta. - commentò Gabriel.
Il vampiro gli rivolse un sorriso divertito: - Nonostante ci dipingano come dei guerrafondai, non siamo così senza scrupoli come credete. Come ci chiamano, Temarie? Cani del governo, mi pare di ricordare. -
Oui, anche se nel tempo si sono inventati dei soprannomi anche peggiori. -
Una donna minuta fece capolino dal lato opposto della scala. Era vestita quasi allo stesso modo di Qayin, con la sola differenza che la camicia era stata legata poco sotto il seno, lasciando scoperta buona parte della pancia, e al posto dei lunghi pantaloni da lavoro indossava una gonna corta e delle calze nere rotte in più punti. Il colorito pallido, quasi malsano, accentuato dai capelli neri e bianchi, denotava che era da un po’ che non usciva all’aria aperta. La somiglianza con Samuelle era evidente, ma Alan ammise di preferire la sorella che viveva alla Boulangerie.
Temarie si fece avanti e si accostò a Qayin, poi squadrò Alan con i suoi strani occhi azzurro verdi.
- Chi sarebbero loro, boss? -
- Amici, Temarie. -
Qayin si lasciò cadere giù con un abile salto, atterrando delicatamente come un felino. Con un cenno ordinò alla ragazza di raggiungerlo e quella obbedì.
- Allora, Alan, hai trovato Eluaise? -
- No. -
- Tu lo sapevi. - sibilò Rachel.
Qayin sussultò e spostò lo sguardo su di lei: - Cosa avrei dovuto sapere? -
- Non fare il finto tonto. - sibilò la cacciatrice e lo afferrò per il cappotto.
Il vampiro non provò nemmeno ad allontanarsi. Rimase immobile a fissarla con un’espressione impassibile sul viso granitico.
- Perché non me lo hai detto prima. -
- È passato troppo tempo. -
- Non puoi aver dimenticato una cosa del genere. - rinserrò la presa fino a far sbiancare le nocche, - Avevo il diritto di saperlo. -
Qayin non si scompose e scrollò le spalle.
- Forse, ma cosa sarebbe cambiato? Anche se ti avessi detto che avevamo la stessa madre, avresti comunque continuato a cercare. D’altronde, la caccia è la tua ragione di vita, no? -
Rachel arricciò le labbra in lieve moto di stizza. Alan non fu l’unico ad accorgersene. Gabriel era indietreggiato ulteriormente e la tensione nelle dita di Maxwell tradiva un certo nervosismo. Alan lo spiò, domandandosi quale fosse la natura del rapporto tra Lehcar, Qayin e il suo vecchio maestro.
- Ti ha disturbata conoscere la verità? - Qayin scoprì le zanne in un ghigno beffardo, - Che dire, pensavo fossi una donna razionale, invece ti fai prendere dai sentimentalismi. -
- Non puoi sapere come sarebbe andata, né tu né io lo sappiamo. -
- Oh, mia carissima sorellina! Sei una Slayer. Voi vivete per la caccia e siete parte essenziale di essa. Puoi negarlo, se questo ti fa dormire meglio la notte, ma nel profondo sai che ho ragione. -
Rachel gli rivolse un’occhiata gelida e ridusse le pupille a due ostili fessure verticali. Alan aveva visto quello sguardo decine di volte nei mostri, negli assassini, nei soldati disertori che spadroneggiavano nei villaggi sperduti, e per un istante temette che l’ira di Rachel esplodesse. Lentamente, però, la cacciatrice mollò la presa e indietreggiò con passi cauti, come se da un momento all’altro potesse cambiare idea e saltargli addosso. Solo quando gli si affiancò, Maxwell allontanò la mano dall’ascia.
Dopo un breve attimo di silenzio, Qayin prese la parola: - Allora, vogliamo andare al sodo? -
Alan annuì e sbirciò in direzione di Temarie.
- Ho bisogno di parlare con lei. -
- Perché? -
- Sa qualcosa. -
- Tutto quello che vi ho detto me lo ha riferito lei. - puntualizzò il vampiro.
Alan gli rivolse un sorriso forzato: - Potresti esserti dimenticato di dirci qualcosa. Ti suona familiare? -
- Diffidi forse di me, Slayer? -
- Di te? Io? Assolutamente no. - sbuffò sarcastico, - Ma può succedere di tralasciare dei dettagli. -
Qayin schioccò la lingua e incrociò le braccia sul petto, indispettito, ma non replicò, limitandosi a lanciare un’occhiata obliqua a Temarie, in una tacita esortazione a parlare. Eppure la ragazza restò in silenzio a scrutare Alan in cagnesco, con quei suoi occhi di un azzurro sporco, offuscato come i vetri delle finestre e gli anelli delle catene che tintinnavano appese al soffitto. Era come se l’umidità presente nell’aria glieli avesse ossidati.
Alan, perplesso, ricambiò lo sguardo. Successivamente, la consapevolezza che forse Temarie sapesse dei suoi trascorsi con la sorella lo assalì e in un secondo comprese come mai fosse così indisposta.
“Merda. Devo aspettarmi delle scenate?”
- Temarie? -
- Non c’è nient’altro da dire, boss, tanto meno a degli estranei come loro. -
Alan notò che aveva una voce dura e un accento marcato, nulla a che vedere con la delicata cadenza ancyarese di Samuelle. Inoltre, la sua mascella era più squadrata e gli più zigomi alti.
- Temarie, obbedisci. -
La ragazza si esibì in una smorfia che lasciava ben trasparire tutto il fastidio che provava. Poi, senza cambiare espressione, si terse il sudore dalla fronte e gettò i guanti da lavoro sul tavolo.
- Eluaise era una mia sottoposta. Come penso saprai, noi “cani del governo” ci occupiamo di progettare armi per la nostra amata regina, ma ogni tanto ci dedichiamo anche ad altri progetti. Circa un anno fa, Eluaise ha ripreso alcuni vecchi studi condotti da un certo Cornelius, un tecnomante che si era sempre interessato alla storia dell’Antico Impero, in particolare alla loro tecnologia. -
Alan incrociò lo sguardo di Qayin e, con un sorriso tirato, disse: - Questo non me lo avevi detto. -
Il vampiro levò gli occhi al cielo e sospirò scocciato. Quel silenzio valeva più di mille risposte e Alan dovette ingoiare la bile per costringersi a non sfoderare la spada.
- Quest’uomo, Cornelius d’Arden, era un tipo abbastanza strano, uno di quelli di cui non si fiderebbe nemmeno una nonnina cieca. Studiò due anni all’Accademia di Lenth, ma in seguito fu espulso perché aveva dei voti troppo bassi. Non so cosa abbia fatto nei tre anni che ha passato a gironzolare per New England, ma di solito i maghi falliti o si danno al traffico di sostanze illegali o entrano a far parte di qualche banda poco raccomandabile. -
- Logico. -
- Quando venne da noi riuscì a superare a pieni voti l’esame per entrare nella gilda. Non è mai stato un abile meccanico né ha mai eccelso in fisica o ingegneria, ma aveva delle idee interessanti su vari argomenti. -
- Che genere di idee? -
Temarie lo fulminò con lo sguardo, evidentemente non le piaceva essere interrotta. Un violento colpo di tosse la costrinse ad abbassare gli occhi e si portò una mano al petto.
- Il genere di idee che possono rivelarsi dei colpi di genio come delle enormi cazzate. Sosteneva che, se ci fossimo impegnati, avremmo potuto ricostruire i portali dell’Antico Impero. Arrivò addirittura ad affermare che sarebbe stato sufficiente rimettere in uso quelli vecchi, tenendo semplicemente conto delle modificazioni subite dalle Vene del Drago dall’Era del Fuoco ad oggi. -
- Immagino non sia così semplice. -
- Infatti. In ogni caso, quando si rese conto che i suoi sproloqui erano solo aria fritta, per la gioia di tutti lasciò perdere. Peccato che non buttò i suoi appunti. -
- Scusate, ma non conservate tutti i progetti nella biblioteca centrale? - si intromise Gabriel.
- Purtroppo sì. Qualsiasi idea, fallimentare o meno, rimane custodita negli archivi. Il che non è un male, almeno finché non capitano nelle mani sbagliate. -
Un altro colpo di tosse. Rapida, estrasse un fazzoletto dalla tasca della gonna e si asciugò la bocca, per poi riporlo altrettanto velocemente nel suo nascondiglio di stoffa.
- Non fraintendermi, Eluaise era una ragazza piena di talento. Nei quattro anni che ha passato qui ha ricevuto la possibilità di lavorare e studiare con i migliori, dato che le sue capacità erano riconosciute da tutti, ma da quando ha trovato quelle maledette pergamene ha sviluppato un'ossessione. Si è messa alla ricerca di Cornelius e insieme a lui ha cominciato a lavorare su quei maledetti progetti. -
Alan contrasse la mascella e, ancora una volta, quando incrociò lo sguardo indifferente di Qayin, dovette imporsi la calma. Quante altre informazioni preziose gli aveva taciuto?
“Infida sanguisuga bastarda.”
- Quindi stava lavorando alla costruzione di questi portali? -
- No. Quello semmai era l’intento finale di Cornelius, ma Eluaise mi sembrava molto più interessata al funzionamento in sé e anche alla storia dell’Impero. Non chiedermi a che scopo la stesse studiando, non ero io la sua referente. -
- Fammi indovinare: non mi direte un accidente di quello che stava combinando. -
- Non pensare di essere così speciale, sei solo un semplice Slayer. Certo, sarai anche amico della sorella del boss, ma ciò non ti rende diverso da qualunque altro estraneo che infila il naso nei nostri affari. - lo rimbeccò Temarie.
- Temarie, smettila. - la ammonì Qayin.
- Oh, non avevo dubbi al riguardo, ma non siamo qui per parlare di me. - replicò caustico Alan.
- Forse quello che non si rende conto di come funzionano gli affari qui sei tu. -
- Mi risulta che siate stati voi ad aver commesso una leggerezza: non le avete chiesto chi fosse il committente. Non siete così potenti da autofinanziarvi e sono più che sicuro che abbiate numerosi registri per tenere la contabilità. Secondo me, sapete benissimo chi è stato a fornire il supporto economico necessario a Eluaise e Corvinus e io voglio quel nome. -
Qayin e Temarie si scambiarono un'occhiata fugace.
- Parlate. Tutto quello che sapete ci potrebbe tornare utile. - li esortò Maxwell, gli occhi gialli fissi in quelli del vampiro, - Basta segreti, basta scherzi, non sei nella posizione adatta, Qayin. -
- Mi stai minacciando, per caso? -
- Il mio era solo un consiglio. - dichiarò e si scrocchiò il collo.
- E se il boss non volesse seguire il tuo consiglio? - sputò velenosa Temarie.
- Libero di non farlo. D'altronde la vita si basa sugli stessi principi dell’alchimia. Come si dice? Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. - accarezzò l’impugnatura dell’ascia con noncuranza, - Puoi agire come meglio preferisci, ma pondera bene le tue scelte. Sia mai che le conseguenze siano più disastrose e imprevedibili di quello che pensi. -
Cadde un pesante silenzio, saturo di tensione, minacce e palesi ostilità.
Gabriel fece saettare lo sguardo tra i presenti, i muscoli sempre tesi e pronti a scattare in caso di pericolo, mentre Alan, Maxwell, Temarie e Qayin si fronteggiavano con arroganza.
- Non siamo qui per combattere, Qayin. - esordì Alan.
- Ma se sarete costretti a farlo, non esiterete. Conosco la vostra politica, Slayer. - il vampiro gli rivolse un sorriso sprezzante, - Cosa ci guadagno se vi do tutte le informazioni che vi servono? -
- Non ti puoi accontentare di salvarti la pelle? -
- Gli affari sono affari e ciò che volete vale parecchio. -
- Non ho denaro con me. -
- Quella è proprio l’ultima cosa che mi serve. Abbiamo l’oro della corona e dei privati, più che sufficiente per riempire le casse della gilda. No, voglio una promessa. -
- Una promessa? - ripeté scettico.
- Voglio che giuri sul tuo sangue che, quando verrà il momento, mi darai una mano a fare ciò che è giusto. - proferì solenne, scrutandolo intensamente.
- Che stai farneticando? Io aiutare te? -
- Sei sordo? - sbuffò Temarie.
- Taci. -
La ragazza lo fulminò.
- Prometti? - lo incalzò Qayin.
- Non finché non mi dici di cosa si tratta. -
- Vuoi o non vuoi queste informazioni? - chiese con un sorriso malizioso.
- Sì. - grugnì imbronciato e sospirò sconfitto, incrociando le braccia sul torace.
- E allora prometti e basta. Quando sarà il momento, salderai il tuo debito. -
Il cacciatore contrasse la mascella. Quel patto non gli piaceva per niente, ma pareva l'unica soluzione. Lentamente sfoderò la spada e poggiò la lama sul braccio, all’altezza del gomito, ma prima che l’acciaio incidesse la pelle si sentì afferrare violentemente. Riconobbe quella presa poderosa anche senza bisogno di girarsi e incontrare lo sguardo furioso del suo maestro.
- Non fare l’idiota, Alan. -
- Non ho alternative. -
- C'è sempre un'altra strada. -
- Non abbiamo tempo, Maxwell. Eluaise non ha tempo, io non ho tempo. Se questo giuramento mi farà avere quelle informazioni, e sia. - concluse asciutto.
Maxwell strinse i denti fino a farli scricchiolare, mentre Qayin e Temarie si gustavano la scena con un sorrisetto fastidiosamente divertito. Solo dopo un lungo momento, quasi con riluttanza, il Lycan si fece da parte.
- Accetti? -
La voce del vampiro era melliflua, suadente. Ad Alan ricordò il tono di una puttana quando riesce a rubare i soldi al cliente addormentato. Senza interrompere il contatto visivo, il cacciatore si avvicinò alla scrivania. Poi, con un fluido movimento della mano, affondò il filo della lama nella pelle bianca del braccio. Il sangue sgocciolò sul mogano in un lento, ritmico stillicidio. Qayin catturò una goccia e se la portò alle labbra, spalmandola alla stregua di un rossetto con la stessa accuratezza di una donna poco prima di un incontro galante.
- È di tuo gradimento? - ghignò Alan.
- No, è disgustoso, ma tra poco mi toglierò questo schifoso sapore dalla bocca. -
Temarie intercettò l'ordine del suo capo di continuare il discorso e, prontamente, eseguì.
- All’inizio pensavamo che il contributo venisse da un privato che non voleva far conoscere la propria identità, cosa abbastanza comune, perciò lasciai correre. Non si disdegna mai il denaro. Tuttavia, quando quelle somme cominciarono ad essere ingenti, cominciai ad indagare, più per curiosità che per reale interesse. Cercai di risalire alla sua identità attraverso i movimenti bancari, ma aveva sempre pagato in contanti e il ragazzino che veniva a versare i soldi mi disse di non averlo mai visto. Lo descrisse come un uomo alto, nulla di più. Ogni mercoledì una figura incappucciata andava a casa sua a consegnargli i soldi da versare e spariva subito dopo. -
- Molte persone ti darebbero dell’incompetente. -
- Io sono una tecnomante, non mi occupo di burocrazia. -
- Quindi sei solo un’impicciona. -
- Diciamo che, in quanto suo capo, mi sono avvalsa del diritto di torchiarla finché non ho ricevuto le informazioni che volevo. Quando me lo disse, quasi non ci credevo. - fece una pausa a effetto e ghignò apertamente, - Era stata la Dogma a darle i fondi per quella ricerca. -
Il cuore di Alan mancò un battito: - Mi prendi per il culo? -
- Ti capisco. Anch'io mi stupii, ma in effetti era anche l’unica spiegazione plausibile. Esistono solo tre grandi potenze che possono permettersi di spendere più di centomila raie in un colpo solo. Di una siamo abituali clienti, con l’altra siamo in pessimi rapporti. Non che con la Dogma sia tutto rose e fiori, ma diciamo che era l’unica che aveva tutti i motivi per sovvenzionare quella determinata ricerca. -
- Questa… ricerca è stata la causa dei suoi lunghi viaggi? -
- Mi sembra ovvio. Con quei soldi Eluaise si è potuta permettere di andare in giro in lungo e in largo assieme a Cornelius. -
- Sai dirmi le loro mete? -
- Zeera, Versa, Eartshire… -
- Eartshire? Quando ci è andata? -
- Penso sei, sette mesi fa, ma non ne sono certa. -
- Cosa vi ha detto che stava cercando? -
- Doveva fare dei controlli, ma non scese nel dettaglio. Ricordo che al suo ritorno alla gilda in era provata, stanca e più agitata del solito. Da che la conosco, Eluaise ha sempre sofferto d’insonnia e terrori notturni, ma mai come in quei giorni prima della partenza per Eartshire. -
Alan si morse le labbra e rimase in silenzio per un po’. La tensione delle spalle tradiva la sua angoscia.
- Ha lasciato qualcosa nella sua camera? -
- No. Quando partiva si portava sempre dietro le poche cose che aveva con sé. -
Alan emise un verso frustrato e chiuse gli occhi per riflettere. In quella stanza umida e satura di tensione gli sembrava che gli avessero gettato dell’acido muriatico sul cuore, un cuore soffocato dalle urla trattenute e dalla dolorosa consapevolezza di averla lasciata andare. Non c'era stato quando Eluaise aveva avuto bisogno di lui e ora chissà in che razza di guaio si era cacciata.
- Dobbiamo andare. - disse con voce incolore, fredda, in netto contrasto con la rabbia che gli serpeggiava nella cassa toracica.
- Dove vorresti andare, scusami? - gli domandò Maxwell.
- A Eartshire. -
- Alan, ragiona. Ci è andata sette mesi fa, non è possibile che sia ancora lì. -
- Infatti. - intervenne Gabriel, - Hai sentito cosa ha detto Lehcar, no? È probabile… -
- So cosa ha detto Lehcar, c’ero anch'io. - ringhiò astioso, - Ma è l’unico indizio che coincide con le informazioni che avevo. Eartshire si trova a sud e io mi stavo dirigendo lì. -
- Se volessi aspettare, potrei chiedere a Meredith se riesce a rintracciarla. -
- E quanto ci impiegherebbe? -
- Non lo so, non ho mai provato. Ma potrebbe metterci poco… -
- Poco è troppo per me. - rispose a denti stretti.
- Alan… -
- Zitto. -
Gabriel ammutolì immediatamente. Maxwell gli lanciò uno sguardo indagatore. Alan spostò l'attenzione sulla ferita aperta, che già si stava rimarginando. All'improvviso avvertì l’impellente bisogno di uscire, di sentire l’aria fresca nei polmoni e il vento nelle orecchie.
- Quanto tempo ci mette la ferrovia ad arrivare ad Earshire? - chiese a Rachel.
- Una settimana. Quella contea non è delle meglio servite, la ferrovia e i binari sono sempre in manutenzione. -
- Allora prenderemo dei cavalli e, giunti lì, procederemo a piedi. - decretò.
- Chi ti dà il diritto di… - cominciò Rachel, ma il resto della frase le morì in gola.
Assunse un'espressione concentrata e acuì l'udito, restando in ascolto.
Un grido soffocato, seguito da altri simili squarciò il silenzio.
Maxwell si girò di scatto e afferrò la sua ascia, i denti scoperti in un basso ringhio. Alan sfoderò la spada e arretrò fino a un passo da Rachel, che stringeva entrambe le Bladegun tra le mani. Si scambiarono un’occhiata complice, ma, prima che qualcuno potesse parlare, un’ombra all’angolo del suo campo visivo si mosse rapida.
La finestra esplose in milione di schegge affilate e da essa entrò un uomo. Atterrò aggraziato, quasi non pesasse più di un granello di polvere, e venne loro incontro con spavalderia, come se non temesse alcunché e le armi dei presenti non fossero altro che innocui giocattoli per bambini. Era vestito di tutto punto, con la camicia appena fuori dai pantaloni e il mantello che ondeggiava al ritmo dei suoi passi. Le labbra erano incurvate in un ghigno crudele che esponeva una chiostra di denti appuntiti e arrossati, come le unghie che avevano perforato i guanti intrisi di sangue e frammenti d’ossa. Nella mano destra reggeva la testa mozzata di Chris, il vampiro buttafuori.
Temarie urlò e così fece Gabriel, entrambi con gli occhi sgranati e pieni di terrore. Un terrore atavico, alimentato dalla certezza che quell’essere era il predatore più forte e inarrestabile che l’umanità avesse mai conosciuto. Era lo stesso con cui Alan si era misurato, lo stesso che stava inseguendo Eluaise, lo stesso che aveva devastato la terra durante l’Era del Buio.
Maxwell si girò verso i compagni e sbraitò: - Correte! Correte, presto! -
Qayin non se lo fece ripetere due volte. Afferrò Temarie e Gabriel, che erano i più vicini, per il bavero delle giacche e scattò verso l'uscita. Però, in prossimità della porta, rimbalzò e venne scaraventato a terra, come se una barriera invisibile lo avesse respinto.
- Oh, quanta fretta… in questo mondo non conoscete il rispetto che si deve a un dio? - commentò divertita la creatura e buttò la testa di Chris da una parte con noncuranza.
Prima che Alan potesse reagire, gli strappò dal soprabito la spilla con lo stemma della Dogma e l’aprì, portandosi al naso la ciocca rossa appartenuta ad Eluaise. Se la rigirò tra le dita sporche e inspirò il suo odore. Quei gesti, per quanto semplici, sembrarono alquanto osceni e disgustosi.
Alan represse a fatica un conato e un moto di rabbia omicida. Rinserrò la presa sulla spada e indietreggiò, imitato da Rachel e Maxwell.
- Suvvia, mettete giù quelle armi. Voglio solo fare due chiacchiere. - li blandì, come fa un genitore con i figlioletti discoli, e un altro ghigno grottesco gli deformò la bocca.
  

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Capitolo 25
*** Act. 3 - Blood for Blood ***


Slayers
Act. 3 - Blood for Blood

 
 
Il sangue sulle dita della creatura catturava i raggi del sole. Sorrideva, mentre si sedeva alla sedia dietro alla scrivania di mogano; sorrideva mentre si leccava gli artigli e li squadrava col suo ghigno grottesco, i lineamenti del viso deformati una smorfia estatica e le gambe accavallate con una studiata e fastidiosa noncuranza.
I tre Slayer lo tenevano sotto tiro, pronti a scattare nel momento opportuno. Ma c’era qualcosa che li teneva bloccati, un qualcosa che non aveva niente a che fare con la paura, qualcosa che non riuscivano a identificare. L’aria attorno a loro vibrava in un modo strano, insolito, era come se non ci fosse ricambio tra quella all’esterno e quella all’interno della gilda.
Solo quando Alan si avvide che la luce faticava a passare attraverso i vetri, si rese conto di cosa non andava: quella non era la semplice barriera magica che avvolgeva l’edificio. Era una bolla soffocante intrisa di energia oscura, malvagia, estranea, un’energia che si scontrava persino con la natura stessa.
La creatura si accorse del suo sguardo scuro e ridacchiò: - Su, su, giù quelle armi, cacciatori. Non serve essere così tesi, questa è una semplice visita di cortesia e ho preso provvedimenti per evitare intromissioni. –
- Cosa vuoi da noi, mostro? – lo apostrofò Alan.
- Oh, che brutta parola per definirmi… solo e soltanto perché ho strappato la testa a un paio dei suoi bambolotti? – indicò Qayin che in quel momento si stava alzando da terra, - Non hanno sofferto, è stata una morte rapida. So essere un Dio misericordioso, anche con gli infedeli che tentano di opporsi alla mia forza. –
Rachel divaricò appena le gambe, il necessario per stabilizzare il baricentro e prende meglio la mira.
- Uh, la signorina mi sembra molto combattiva. Non che voi altri non lo siate, si intende, però mi stupisce vedere una... – annusò l’aria e sogghignò, - Una mezza vampira che ha ancora l’aspetto di una bambinetta. In ogni caso, se sarete collaborativi, vi prometto che se vorrete combattere non vi farò totalmente a pezzi. –
Maxwell rinserrò la stretta sull’ascia: - Tante parole e pochi fatti, Antico. L’aver ucciso un paio di comuni vampiri non fa di te un dio. Quello che hai fatto non è poi tanto diverso da quello che farebbero dei semplici zombie o dei lucertoloidi incazzati. –
Un moto di stizza attraversò il volto del mostro, ma a discapito di quello che Alan credeva, non raccolse la provocazione, limitandosi semplicemente a cambiare posizione sulla sedia.
- Non mi piace che mi si paragoni a un mostrucolo del vostro mondo, Slayer, ma d’altronde da esseri così abietti e ottusi non potevo sperare in una strategia diversa. Come ho detto prima, sono qui per parlare, non per combattere. Potrei uccidervi seduta stante, a te, alla piccola vampira e all’umano lì a terra, ma vorrei evitare. Mi sono sporcato abbastanza per oggi. – prese un fazzoletto nero dalla tasca e cominciò a pulirsi le mani, mentre la chiostra di zanne si ridimensionava a una semplice dentatura umana, - Allora, possiamo intavolare una conversazione civile? –
Alan fece un passo in avanti senza abbassare la guardia: - Cosa vuoi da noi? –
- Da voi? Da voi niente, mi interessano le informazioni che mi puoi dare tu su questa ciocca di capelli. Sai, appartengono a una persona che sto cercando da un bel po’ di tempo. –
- E chi ti dice che io sappia qualcosa? –
- Ti piace scherzare col fuoco? –
- Diciamo che le fiamme mi hanno sempre affascinato. –
- Pensi davvero di riuscire a ferirmi con quel pezzo di ferro? Non ti credevo così stupido, Slayer. -
Dalle ultime parole dell’Antico scomparve ogni forma di cortesia, rimpiazzata da un sibilo minaccioso e un'occhiata tagliente. Alan avanzò di nuovo, cauto, guardingo, con la spada alta davanti al viso. Sapeva che se avesse deciso di attaccarlo non avrebbe avuto scampo, però sperava che a una distanza più breve sarebbe stato più facile colpirlo.
La creatura si esibì in un ghigno raccapricciante.
- Sarebbe un'ottima strategia provare a colpirmi da più vicino. Davvero ottima, oserei dire che potrebbe anche funzionare, se solo avessi a che fare con uno dei tanti mostri che di solito combatti. È davvero un peccato che io non sia come loro. - commentò serafico.
- Non ho di certo intenzione di farmi ammazzare come un cane. –
- Mai detto questo, mi limitavo a renderti partecipe dei miei pensieri. – arrotolò la ciocca attorno al dito con espressione meditabonda, - Allora, dov’è questa Eluaise? Dove la stai nascondendo? –
A quell’affermazione, ad Alan venne da ridere. Riuscì appena a soffocare un risolino, mordendosi le labbra.
- Cosa ti diverte della mia domanda? –
- Solo il fatto che tu possa pensare che io la sta nascondendo. –
L’Antico lo scrutò un momento prima di rispondere.
- In effetti, se fosse qui con te, anche se si fosse lanciata gli incantesimi più potenti per non essere localizzata, riuscirei comunque a percepire la sua presenza. – si umettò le labbra, picchiettandosi l’angolo della bocca con l’indice, lo sguardo fisso sulla ciocca rossa, - Che dire? Quella donna non smette di sorprendermi. –
- Ne parli come se la conoscessi. –
- La conosco molto, molto bene e non serve che tu sappia in quali occasioni ci siamo incontrati. Come avrai sicuramente capito, i miei piani non ti riguardano, perciò non ha senso informarti, non riusciresti nemmeno a comprendere. - lo schernì e gli occhi neri emanarono un baluginio ferale.
Alan strinse l’elsa con rabbia, talmente forte da farsi sbiancare le nocche. Percepiva gli occhi di Maxwell e Rachel sulla schiena, la tensione contenuta in ogni loro respiro, ma non sarebbero intervenuti.
- Stai tremando, cacciatore? Sei forse preoccupato per l'amata? E dire che non è poi così diversa dalle altre mortali per quel che riguarda l’aspetto. Puoi trovarne tante altre come lei e sostituirla facilmente. –
- Zitto. –
- Va bene, va bene, non perdere la calma. – ridacchiò e alzò le mani in segno di resa, - Comunque sia, non ti devi agitare, non ho intenzione di torcerle nemmeno un capello. Vedi, lei è la mia chiave di volta, la chiave per raggiungere il potere. E io sono sempre stato affascinato dal potere. È banale, me ne rendo conto, ma quando voi mortali e tutte le creature degli altri mondi parlerete di me, non potrete non elogiarmi. – scoccò un'occhiata ad Alan, che non aveva ancora replicato, - Devo dedurre che non parlerai? -
La sua domanda riecheggiò nel silenzio, così scrollò le spalle rassegnato.
- Come vuoi, cacciatore, tanto qui nessuno ci sentirà. - sbuffò irritato e si alzò con movimenti aggraziati, eleganti, fluidi, quasi volesse rimarcare il concetto di essere su un gradino superiore.
D’un tratto tutta la stanza tremò e la porta esplose con una deflagrazione assordante. Nella figura che emerse dal fumo e dalla polvere Alan riconobbe Samuelle e rimase di stucco.
- Muovetevi! – esclamò.
- Non andrete da nessuna parte. - il mostro avanzò verso Alan, camminando tranquillo, con quel suo fastidioso ghigno stampato sulle labbra, - Ora da bravo, fatti spezzare le oss…- 
Non finì la frase.
Una raffica di proiettili gli fece esplodere il cranio, spruzzando materia cerebrale ovunque. Il corpo cadde a terra con un tonfo e il cacciatore con la coda dell’occhio scorse Rachel, il suo viso impassibile, lo sguardo fisso sul corpo a terra ai suoi piedi, le Bladegun fumanti strette tra le mani. Calò un silenzio agghiacciante. Un istante più tardi, il rumore di una sirena trafisse le orecchie dei presenti, rimbalzando da un muro all’altro dell’edificio.
 - Che fate lì impalati?! Sbrigatevi! Tagliamo la corda finché è fuori gioco! - li spronò Samuelle, spazientita dalla loro esitazione.
- Sam! - la chiamò Temarie e le andò incontro, - Meno male che sei arrivata! Io… -
- Mi sono preoccupata. Ho provato a chiamarti, ma non mi rispondevi. Quando poi Meredith mi ha detto di venire subito qui, mi sono accorta che c’era qualcosa di strano. -
- Meredith? Chi è Meredith? -
- È una storia lunga, dopo ti spiego. Ma cos’era quella creatura? Un mago? -
- Un essere che per il momento non ci darà più problemi. - disse Qayin, si spolverò i pantaloni e porse la mano a Gabriel per aiutarlo, - Dai, tirati su. -
Il ragazzo non si mosse. Osservava con crescente raccapriccio il corpo del mostro, paralizzato dalla paura.
- Gabriel, è tutto finito, tranquillo. - lo rassicurò Samuelle, accovacciandosi accanto a lui e accarezzandogli la schiena rigida.
A quel contatto, Gabriel si appiattì contro la parete e iniziò a urlare istericamente, sotto shock. Quando però incrociò gli occhi di Qayin, la voce gli morì in gola e ammutolì.
Maxwell mulinò l’ascia e, ancor prima che lo esortasse, Alan si era già allontanato da quel corpo che ora si ergeva in piedi dietro di lui, con i frammenti di pelle, ossa e cervello che strisciavano su di esso, dimenandosi come vermi mentre si ricomponevano. La mascella, che ea rimasta intatta, si mosse assieme alla lingua, emettendo un gorgoglio raccapricciante.
Rachel sparò ancora, senza indugi, fino a svuotare il caricatore. Il corpo dell'Antico sussultò, le braccia ondeggiarono mentre veniva trivellato dai proiettili, e anche quando quella tempesta di piombo terminò, continuò a tremare, scosso da spasmi incontrollati. Presto gli astanti compresero che la causa di quella specie di convulsioni era la carne che tentava di espellere i proiettili ancora fumanti, i quali precipitarono sul pavimento tintinnando, quasi a scandire un conto alla rovescia. 
Alan e Maxwell guardarono con occhi sgranati l’orrore che si stava svolgendo sotto i loro occhi.
- Via, via! Scappate! - gridò Qayin e si caricò in spalla Gabriel come se fosse una bambola.
Temarie e Samuelle seguirono il consiglio e scattarono leste verso la porta.
La cacciatrice si morse un dito e lasciò colare il sangue sulle rune presenti sulla canna. I simboli di Thuris, Tyr e Shita si illuminarono di un alone giallastro e un proiettile simile ad una saetta esplose in una ragnatela di fulmino contro la spalla della creatura.
- Vi copro io. – disse in tono neutro, senza perdere di vista l'Antico, e sparò ancora.
Il corpo del nemico perse l’equilibrio, indietreggiò e cadde. La scrivania di quercia si rovesciò e le fiale si ruppero sul pavimento. 
Alan e Maxwell afferrarono Rachel per un braccio e la trascinarono senza tante cerimonie oltre la soglia della stanza, attraverso il corridoio e poi giù per le scale. Arrivarono al piano terra e girarono a sinistra, ma l’odore forte del sangue che impregnava l’aria li dissuase dal proseguire. Imboccarono un corridoio, il primo alla loro destra, poi svoltarono in un altro che sbucava in una sala che sembrava l’ala di un museo, con tanto di piedistalli, teche e pezzi d’antiquariato. Non c’erano finestre, le fonti di illuminazione erano solo le luci incerte sul soffitto. Alan imprecò, stringendo l’elsa fino a farsi sbiancare le nocche.
- Di qua! - esclamò Maxwell, indicando una scala a chiocciola che scendeva.
Sfondò la porta in fondo alla rampa con un calcio e Alan lo sorpassò, tirandosi dietro Rachel. Poi si misero tutti e tre spalla a spalla, scrutando nella penombra, i sensi tesi e vigili.
- Quanti…? – domandò ansante Alan.
- Un altro. Non possiamo attirarlo fuori, scatenerebbe il caos in città. - disse Rachel.
- Tu credi davvero che riusciremo ad uscire vivi da qui? -
- Dobbiamo tentare. - la voce di Maxwell non lasciava trasparire alcuna emozione, come un soldato ben addestrato, - Ascoltate, lo stronzo dovrebbe ormai essersi ripreso, ma non so bene dove sia. L’altro ci sta alle costole. -
- Meglio dividerci. Io e Maxwell andremo avanti, mentre tu, Rachel, rimarrai qui. - propose Alan.
La cacciatrice annuì e tolse la sicura alle Bladegun.
- La gilda è stata costruita sulle rovine di un vecchio castello, il tunnel dietro quella porta dovrebbe portare fuori città. – disse semplicemente.
Alan spostò lo sguardo alle sue spalle, verso la porta in fondo alla stanza: - Non crepare. –
- Non accadrà. –
Maxwell non disse nulla.
Passò un lunghissimo istante e il tempo parve dilatarsi all’infinito. Poi i cacciatori si separarono e poco dopo il cigolio di una porta che si apriva e chiudeva riecheggiò sui muri di pietra.
Sebastian, che fino ad allora le era svolazzato intorno silenzioso, si posò sulla spalla della sua padrona.
- Desidera trasformarsi, signorina? Se mi permette, sarebbe l’opzione migliore. -
- Lo so, ma non subito. L’obiettivo è ancora troppo lontano. -
- Immagazzinerò un altro po’ di energia, allora. -
Il Gemren si piegò e le morse il collo, mentre un basso ronzio si diffondeva dappertutto.
 
Rachel lo percepì avvicinarsi quasi subito. Camminava lentamente, appoggiando con accortezza i piedi sul pavimento. Probabilmente sperava di coglierla di sorpresa, oppure era fin troppo sicuro di poter vincere.
Il cuore accelerò appena il suo battito e un fuoco conosciuto le incendiò il sangue, invadendole le vene e il cervello: l’eccitazione prima della caccia, l’unico sentimento che le era concesso di provare quando era in quella forma.
Quando l’essere entrò nella stanza, Rachel rimase immobile, godendosi la sua espressione stupita. Aveva l’aspetto di una giovane donna, con i lunghi capelli cinerei che le ricadevano languidamente in due code sul seno prosperoso. Le braccia, entrambe coperte da una fitta rete di tatuaggi che si inerpicavano fino alla parte destra del viso, ondeggiavano ad ogni passo, sfiorando con le unghie nere i calzoni di pelle stinta e la seta viola della tunica.
- Pensavo di dover combattere contro dei cacciatori di mostri, non contro una vampira. Anche se il tuo odore non ricorda molto quello dei tuoi simili. - disse, arricciando le labbra in un sorrisetto irritante.
La Slayer non raccolse la provocazione. Il morso che Sebastian le aveva lasciato sul collo sanguinava ancora, ma non le importava granché, non ora che era trasformata. Si mosse di lato, le Bladegun già puntate sul bersaglio.
- Ah, sì, giusto! Voi Slayer non siete veri mostri, Aedrihar me lo aveva accennato. Tanto meglio, mi sentirei quasi in colpa ad uccidere uno dei nostri. -
Aprì una mano e nello stesso momento in cui uno dei tatuaggi si illuminò apparve una spada nera, più lunga di una lama normale.
- Veniamo a noi, piccola vampira. –
Rachel allargò le gambe e cominciò a girarle attorno, accelerando e rallentando continuamente, una Bladegun vicino al petto, l’altra davanti al viso.
La donna mulinò la spada e la seguì con lo sguardo: - Questo trucchetto con me non funziona, cacciatrice, ma soprattutto mi annoia. –
Accorciò le distanze con uno scatto e calò un fendente dall’alto verso il basso con forza.
Rachel lo schivò e indietreggiò quel che bastava per sferrare subito un colpo, senza mettersi in posizione, senza nessun preavviso. Dall’incontro dei lynium e dell’acciaio scaturì un’esplosione di scintille.
- Non male. – commentò la donna, - Davvero, niente male. –
Si disingaggiò e, imitando quello che aveva fatto la cacciatrice, sferrò un fendente diagonalePerò, un attimo prima che le lame si sfiorassero, le girò attorno e tentò un affondo al fianco. Rachel parò, sfruttò il suo slancio per farle abbassare la spada e attaccò con l’altra Bladegun. Come se se lo fosse aspettato, la donna scattò in avanti, eseguì una piroetta e rispose con un altro affondo, veloce e preciso. Rachel sentì la carezza dell’acciaio a un pollice dal viso, ma riuscì a balzare indietro ed evitare per un soffio che le portasse via un orecchio. Poco dopo avvertì il sangue scorrerle sulla guancia.
Cominciò a indietreggiare.
- Ahi, ahi, ahi… sei stata avventata. - la derise e falciò l’aria con ampi movimenti della spada, - Questa volta ti è andata bene, ma la prossima? Dai, stai più attenta, non vorrei mai sfregiare ancora quel tuo viso così carino. -
Rachel arretrò e si mise sulla difensiva.
- Se continui così, finirai contro il muro. –
- Se continui così, finirai contro il muro. - le fece notare divertita.
La cacciatrice lo sapeva perfettamente, ma non le importava. Doveva prendere tempo, sia per concedere ad Alan e Maxwell un vantaggio, sia per trovare il punto debole del nemico.
- Aspetta, ora ho capito. Sei qui per i tuoi compagni, giusto? Ah, che dolce, pensi prima a loro che a te stessa. Quasi mi commuovo. - si umettò le labbra con la lingua nera, biforcuta come quella di un serpente.
Le si gettò addosso, eseguendo una lunga serie di colpi, la lama che sibilava attorno a lei in finte fulminee. Rachel divaricò le gambe e attese che arrivasse a portata, che credesse di averla sopraffatta. All’ultimo si girò e simulò anche lei un colpo da destra e, quando la donna esitò, affondò con l’altra Bladegun, talmente velocemente che la donna riuscì a malapena a difendersi. Indietreggiò e per un istante, barcollò e a Rachel quella frazione di secondo bastò. La lama si insinuò nella sua guardia, la sorpassò e affondò, descrivendo con un sibilo una diagonale perfetta dalla spalla al petto. La stoffa si lacerò e il sangue schizzò a terra.
Negli occhi della donna si accese un barlume animale. Rispose con furia, con la stessa rabbia di una tigre a cui vengono portati via i cuccioli. Se la cacciatrice non fosse balzata di lato, probabilmente quel colpo le avrebbe staccato un braccio.
- Schifosa! Ti stacco la testa, ti faccio a pezzi! - sbraitò collerica.
Rachel si abbandonò a un sorriso, dettato dalla consapevolezza che quell’essere non era come l'altro Antico.
Prese a camminare verso di lei, senza esitazione, con spada davanti al viso pronta a colpire. La ingaggiò subito, costringendola sulla difensiva. Attaccava così in fretta che Rachel non poteva rischiare né un affondo né una finta, doveva continuamente schivare senza permettersi il lusso di allontanarsi.
La pressava colpendo in croce, spingendola contro un’altra parete, una parete da dove non avrebbe più avuto lo spazio di muoversi. Se fosse finita lì, non avrebbe avuto scampo.
Spostò appena lo sguardo alle sue spalle, il minimo per scorgere la rampa di scale che si inerpicava giù, fino al piano superiore.
Un lampo, un’intuizione.
Passò dalla parata al colpo nello stesso istante in cui la donna descriveva il secondo, rapido fendente. Le due lame si incontrarono, si scontrarono, gemettero in uno stridio assordante. Quella di Rachel scivolò di lato, permettendole di aggirare la sua avversaria e di andarle alle spalle. La donna si girò, mulinando quasi alla cieca un ampio colpo dove presupponeva lei fosse, ma la mancò di un pelo e rimase scoperta. Rachel scattò e la colpì con forza con un calcio all’addome che le fece perdere l’equilibrio. Barcollò senza più fiato, con il sangue che ormai le aveva infradiciato la veste. Solo quando il suo piede incontrò il vuoto del primo scalino, capì di aver perso, lo capì quando un proiettile la passò da parte a parte facendole esplodere il cuore in una pioggia di scintille e carne.
Risuonò un gemito, poi la donna spalancò ancora di più gli occhi. Poi cadde a terra in una nuvola di polvere. Una chiazza nera si spandeva sotto di lei, gocciolando sugli scalini in un lento stillicidio.
La cacciatrice si affacciò dalla cima della rampa e scrutò nell’oscurità. La scorse mentre provava a sollevare la testa, a muovere le braccia, le gambe. I suoi lamenti riecheggiavano nell’aria pregna del tanfo del sangue. Rachel torreggiò su di lei senza dire una parola, con le rune della Bladegun fumante che brillavano nella penombra. Voleva che si imprimesse per bene la sua faccia nella memoria, la faccia della Slayer che l’aveva sconfitta.
La creatura la fissò con uno sguardo carico d’odio, mentre osservava impotente la sua figura farsi più piccola, il seno sparire e il viso assumere i tratti delicati e acerbi di una ragazzina di quattordici anni.
- Sei un mostro… - esalò, poi scoppiò a ridere, un gorgoglio agghiacciante che la scosse come se fosse in preda agli spasmi della febbre, - Non… non hai ancora vinto. - sibilò con voce roca, - Io non posso morire. È stato un bello spettacolo, ma non è ancora terminato. Aedrihar ha avuto tutto il tempo di rimettersi in forze e adesso sarà sulle tracce dei tuoi compagni. Li starà già massacrando. -
- Allora è meglio che mi sbrighi. - considerò Rachel con espressione granitica e si allontanò.
Andò a recuperare Sebastian, che giaceva spento in un angolo polveroso della stanza. L'energia rilasciata per permetterle di trasformarsi lo aveva quasi completamente scaricato. Ci sarebbe voluto un po’ prima che la pietra del potere si riattivasse.
Una risata sommessa rotolò fuori dalle labbra della donna.
- Non arriverai mai in tempo. -
Rachel girò appena la testa nella sua direzione, dopodiché oltrepassò la porta a passo di marcia. Fu forse per questo che non udì la formula magica e il battere di mani dietro di sé.
 
Risuonò un rombo, uno schianto talmente violento da far fuggire gli uccelli.
- Attento Alan! -
L’Antico si scagliò su Alan come un dardo scagliato da una balestra. Con in bocca il sapore del sangue, il cacciatore piegò le ginocchia e bloccò l’artiglio a poca distanza dal viso. In quel momento, Maxwell gli balzò addosso da dietro e vibrò un colpo d’ascia con tutta la sua forza. Il mostro schivò agilmente, con grazia, lo affiancò e tornò all’attacco spalancando le fauci. Fu solo grazie ai riflessi fulminei da Lycan che Maxwell riuscì a balzare indietro giusto in tempo.
- Ah, quanto siete testardi. – si umettò le labbra con la lunga lingua biforcuta, - Era da molto che non incontravo qualcuno capace di farmi divertire così. –
I due Slayer non dissero nulla. Riprendevano fiato, puntando con entrambe le mani le armi verso di lui. La radura in cui si erano ritrovati alla fine del tunnel, sarebbe stata un’ottima arena se il loro avversario non fosse stato quell’essere. Con i deboli raggi del sole che proiettavano le ombre degli alberi sui loro visi, Alan sputò a terra un miscuglio di saliva e sangue.
L’Antico indietreggiò e si lecco gli artigli arrossati: - è davvero un peccato che siate dalla parte sbagliata. Siete ancora in tempo per fare la scelta giusta. Ditemi quello che sapete e vi concederò di entrare tra i miei seguaci. –
- Fottiti. -
Maxwell scattò in avanti, menando un violento fendente che squarciò l’aria in un sibilo, mentre Alan tentava un affondo al fianco. Entrambi i colpi andarono a vuoto. Quando il Lycan si accorse degli artigli del mostro, era già troppo tardi. Le unghie uncinate affondarono nella pelle, gli straziarono la guancia fino a sotto la mascella, portandosi via anche l’occhio destro.
Maxwell guaì di dolore, il sangue che usciva a fiotti inzuppandogli i capelli e la casacca nera. L’Antico ridacchiò e lo attaccò nuovamente, stavolta mirando alla gola, ma Alan si frappose tra i due. Spostò il peso sulla gamba sinistra e descrisse un semicerchio con la spada, mancando di nuovo il bersaglio, ma costringendo il mostro ad allontanarsi.
 - Siete testardi. Vi ho detto che non potete sconfiggermi con simili trucchetti. Mi avete trascinato qui, lontano da tutti, ma a me non cambia assolutamente nulla. - ghignò cattivo e scrutò Alan con malcelata impazienza, - Il tuo amichetto potrebbe morire dissanguato. Se mi dicessi quello che sai, gli salvaresti la vita. -
Alan sbirciò in direzione di Maxwell e si sentì schiacciare dall'angoscia. Il Lycan ansimava pesantemente, ogni respiro strozzato pareva l'ultimo, e fissava con l’unico occhio rimasto l’Antico. Alan lo aveva avvertito di non seguirlo, ma l'altro era stato irremovibile, come era accaduto durante la battuta di caccia che gli era valsa la nomina di Slayer, quando Maxwell aveva lasciato che la sua parte mostruosa prendesse il sopravvento per salvarlo, altrimenti sarebbe morto.
Cogliendo l’esitazione nei suoi occhi, l’Antico continuò con un ghigno compiaciuto: - Dai, non hai motivo di diffidare di me. Siamo molto più simili di quello che credi, te lo posso assicurare. So che ti hanno insegnato a detestarmi, ma questa tua cocciutaggine potrebbe costarti molto. È ovvio che non puoi vincere, tanto vale cercare di trarre qualche vantaggio da questa situazione e provare ad uscirne senza lasciarci le penne. -
- Ci ammazzerai comunque una volta ottenute le informazioni che desideri. – ringhiò Maxwell.
- Sei così diffidente, lupo? Ti sto offrendo una via di fuga, perché mai… -
Alan lo ingaggiò prima che terminasse la frase. Fece tre salti in avanti, un mezzo giro e una finta da destra. Il mostro abbassò la guardia quel secondo necessario perché lui potesse agire. La lama non incontrò resistenza. Un grido di dolore vibrò nell’aria, un grido che nelle orecchie del cacciatore risuonò come una gradevole melodia, ma che non durò che un istante.
Maxwell, l’ascia sollevata per colpire, gli balzò addosso, ma l’Antico reagì molto più velocemente. Tirò un’artigliata ad Alan e si allontanò prima riuscisse a colpirlo. I due cacciatori l’osservarono, mentre caracollava al limitare della radura, ma nessuno dei due riusciva a muoversi per attaccare. Erano stanchi e questo anche l’Antico lo sapeva. Probabilmente, era proprio su questo che contava, che prima o poi le ferite e il sangue perso gli avrebbero fatto fare un errore mortale.
Si scambiarono una rapida occhiata, poi Maxwell caricò a testa bassa, mulinando velocemente l’ascia per tentare di disorientare il mostro, che gli andò incontro inferocito. La ferita aperta sanguinava sempre meno, si stava rimarginando troppo in fretta. L'impatto dell'ascia sugli artigli provocò una piccola esplosione di scintille.
Ci fu un breve scambio di colpi tra i due, prima che anche Alan intervenisse. Gli andò addosso, compì tre piroette, schivò un’artigliata che gli descrisse una sottile linea rossa sul collo e passò la spada nella sinistra. Con una torsione del busto, diede un colpo forte, vigoroso, un colpo che avrebbe tranciato di netto il braccio a un uomo, ma la lama rimase bloccata tra l’omero e la clavicola incapace di penetrare oltre. L’Antico si svincolò, colpì con gli artigli della destra, facendogli perdere la presa sull’elsa. Poi alzò l’altra, già pronto ad attaccare di nuovo quando Maxwell afferrò l’ascia a due mani, compì un mezzo giro e affondò. Affondò con sicurezza, con la fluidità di chi ha una grande padronanza dell’arte della guerra. Il sole scintillò sulla lama che scivolava dietro di lui, trascinandosi dietro una parabola di goccioline rosse. L’Antico annaspò, fece due passi con il sangue che gli usciva dalla bocca e un sorriso odioso che gli increspava le labbra. Poi la testa cadde con un tonfo appena udibile nell’erba. Nello stesso istante, l’ennesima nuvola si addensò davanti al sole.
- Ce… ce l’abbiamo fatta… - domandò Alan.
Maxwell scrollò il capo. Si accostò alla testa mozzata e mise il piede sulla guancia insanguinata, osservando con palese disgusto il corpo scosso da spasmi del nemico, che giaceva tra le ortiche e le erbacce.
- Questo stronzo è ancora vivo. Potremmo cavargli qualche informazione, ovviamente stando bene attenti a non riunire le parti. -
Alan sghignazzò, rinfoderò la spada e sollevò il corpo dell’Antico per le braccia, cominciando a trascinarlo verso il bosco. Quando stava per lasciarlo, un brivido gli corse lungo la schiena e la sensazione d’essere osservato gli stritolò le viscere. Alzò piano gli occhi e perlustrò i dintorni fino ad incontrare quelli della figura che era apparsa ai margini della radura. Camminava sfiorando appena il terreno con i piedi nudi, la larga gonna di lino che accarezzava i fili d’erba ad ogni suo passo. I capelli le volteggiavano davanti al viso come alghe nere sospinte dalla corrente. Di fianco a lei, sorretta da una fitta rete di lucenti corde violacee, volteggiava una donna con la parte destra del viso coperta da tatuaggi. 
Non appena li raggiunse, l'Antico gemette. Maxwell calcò ulteriormente il piede sulla guancia per farlo tacere.
- Chi sei? - ringhiò.
Le labbra rosse della donna si incresparono in un sorriso bonario e indicò con un cenno la testa sotto il suo stivale: - Sono la compagna di quello lì. -
In seguito, batté le mani scandendo una bassa litania. Entrambi gli Slayer furono sbalzati via come se fossero stati colpiti da un ariete, andando a schiantarsi contro gli alberi. La corteccia si spaccò sotto le loro schiene e si frantumò in piccole schegge, che caddero ai loro piedi assieme ad aghi di pino e rametti spezzati.
Ad Alan occorse un bel po' per tornare a mettere a fuoco il paesaggio, soprattutto per scacciare i puntini neri. Quando una potente stilettata di dolore gli trafisse il cervello, sgranò gli occhi e incamerò in una volta sola più ossigeno che poté per soffocare l'urlo sofferente che gli era risalito in gola. Digrignò i denti e guardò preoccupato Maxwell, svenuto accanto a lui.
- Scusate i modi rudi, ma non credo che me lo avreste restituito spontaneamente. - disse la donna e avanzò verso il compagno, - Ah, questi giovani! Sempre così affamati di gloria. Io avevo detto loro di non fare sciocchezze, ma come al solito non mi hanno ascoltata. -
Mentre le stesse corde che sorreggevano la donna tatuata si avvolgevano attorno alla testa e al corpo dell’Antico, Alan si prese il suo tempo per osservarla. Emanava la stessa aura opprimente che aveva percepito quando erano all’interno della gilda, anche se molto più forte. Il solo guardarla gli toglieva il fiato.
Prima che le corde lo allontanassero troppo, la donna tese l’orecchio per ascoltare il flebile sussurro che uscì dalle labbra cianotiche del suo compagno.
- Siete rimasti voi due. La vostra amica vampira non sapeva nulla. Peccato che Aedrihar mi abbia già rivelato chi è la nostra fonte d’informazioni, mi sarei divertita di più a scoprirlo da sola. -
- Cosa hai fatto a Rachel? - ringhiò il cacciatore e tentò di alzarsi, ma una fitta lo accecò e ricadde a terra.
- Ho soltanto rovistato nella sua mente, niente di più. Se mi dirai quello che sai sulla tua amica rossa, eviteremo tanti inconvenienti. Spero tu sia collaborativo. -
Alan la fissò negli occhi e sputò. L'altra inarcò un sopracciglio e sbuffò infastidita, poi azzerò la distanza in un secondo e lo afferrò per la gola. Lo Slayer rantolò e si dimenò come un ossesso, cercando disperatamente di liberarsi da quella morsa d'acciaio. Le mani della donna erano arroventate, sembrava fossero fatte di metallo incandescente.
Ormai un fitto banco di nubi aveva inghiottito il sole e le ombre si allungavano come se fossero dotate di vita propria.
- Te lo chiederò un’ultima volta: vuoi dirmele te le cose, oppure devo fare a modo mio? -
Alan, per quanto gli era possibile, scosse la testa e le sputò in faccia in un sibilo strozzato.
- Molto bene. Speriamo che il tuo cuore sia abbastanza forte, allora. - chiocciò la donna, impaziente di dare inizio ai giochi.
All'improvviso Alan si sentì schiacciare da una forza invisibile. Dei tentacoli simili a serpenti si infilarono sotto la pelle, invadendogli il cervello e violandogli i ricordi. Lanciò un grido agonizzante, che riecheggiò nel bosco per svariati istanti. Il suo corpo venne scosso da violente convulsioni, gli occhi si rovesciarono mostrando solo il bianco e le vene del collo si ingrossarono per lo sforzo di resistere alla tortura. Infine, lentamente, si arrese al supplizio: le sue membra si immobilizzarono e rimase appeso per il collo come una marionetta priva di fili.

  

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Capitolo 26
*** Act. 3 - A Promise to Remember ***


Slayers
Act. 3 - A Promise to Remember

 
 
Una voce familiare squarciò il velo di incoscienza che gli obnubilava il cervello.
- Fai attenzione, piano… alzalo con delicatezza, Qayin. -
- Lo sto facendo, ma non è facile! -
Avvertì delle mani su di sé, una che gli sorreggeva la testa, l’altra che gli sollevava le ginocchia. Alan aprì gli occhi, ma non vide nulla se non due facce indistinte.
- Per Shamar, Maxwell si sta dissanguando… Temarie, il sangue non si ferma, cola attraverso la fasciatura! -
Gabriel, questo poteva essere solo Gabriel. Che stava succedendo? Tentò di mettere a fuoco, ma un forte dolore alla testa gli mozzò il fiato, togliendogli la forza e la lucidità per chiedere come stesse il suo maestro.
- Zitto, maledizione! Invece di stare lì impalato, prendi una cazzo di coperta e coprilo! -
- Tem, calmati. -
- Come, Sam? Come dovrei riuscire a calmarmi?! La ferita si è infettata e se Ludwik non arriva in tempo, questo qua ci lascia le penne! -
- Dove metto Alan? -
- Lì, posalo sul divano. Gli altri come stanno? -
Silenzio.
- Dio, no… -
- Non è ancora detta l’ultima parola, Tem. Sono tutti vampiri, sono più resistenti di quello che pensiamo. -
La voce di Samuelle era fin troppo gelida, Alan dubitò stesse dicendo la verità.
- Dammi dell’alcol, Gab. È la bottiglietta bianca col liquido incolore, non puoi sbagliare. Poi vai a vedere come sta Rachel. Qayin, sai già cosa fare? -
- A-ah. -
Si sentì appoggiare su qualcosa di morbido e innaturalmente liscio e avvolgere dal profumo di nuovo e di pelle trattata. Mosse le dita e cercò di tirarsi su, ma tutto il suo corpo gli spedì delle fitte lancinanti, mozzandogli il fiato. La presa ferrea di Qayin non fece altro che acuire il dolore. Forse gli disse qualcos'altro, ma il cacciatore era troppo confuso per capire, ragionare. Nella sua mente regnava il caos: i ricordi, le sensazioni, persino i suoi pensieri erano avvolti dalla nebbia, una nebbia soporifera che ne storpiava i contorni come un cristallo sporco e scheggiato.
Percepì un tocco delicato e il solletico di alcune ciocche di capelli. Quando aprì gli occhi, intravide il profilo delicato di una donna e il contorno di un paio di occhiali da aviatore sulla testa.
- Elly… - rantolò.
Come in un sogno, allungò la mano per accarezzarle la guancia. In quel momento la stanchezza lo morse con rabbia, trascinandolo nel sonno senza che lui riuscisse a opporsi.
 
Faceva caldo quella sera e, nel cielo estivo, le stelle sfavillavano come diamanti, vicine come mai lo erano state. Alan le osservava da una collinetta con aria annoiata, lanciando di tanto in tanto un'occhiata verso il paese, dove si stava svolgendo una festa. Gli abitanti di Eartshire si erano ammassati tutti nella piazza principale, un esagono a malapena sufficiente a contenere le bancarelle durante i giorni del mercato. Guardandoli dalla sua posizione, si domandò come diamine facessero a respirare, stipati com’erano.
Improvvisamente, dalla viuzza a Nord, irruppe un corteo scatenato di uomini e donne urlanti. Si fecero largo a gomitate fino al palchetto dove stava suonando l’orchestra e, dopo aver offerto da bere ai musicisti, si misero a ballare al ritmo della melodia del pianista.
Un Si bemolle un po’ troppo acuto convinse anche gli altri a lanciarsi nelle danze.
Con un sospiro annoiato, Alan si appoggiò al tronco del faggio e prese a masticare un ciuffo d’erba. Aveva accettato i giorni di ferie con gioia, ma se avesse saputo che avrebbe dovuto sorbirsi tutto quell'inutile baccano, avrebbe chiesto al vecchio Wylzmej di tornare ad Eartshire la settimana successiva: odiava le feste e sinceramente non capiva cosa ci trovasse di così divertente Eluaise nel buttarsi in mezzo a quella folla sudata e puzzolente.
Va beh, tanto stasera finisce.”
Sbuffò e, ancora una volta, spostò la sua attenzione sulla piazza. Non lontano dal palco, vicino a una bancarella che vendeva caramelle e dolciumi fritti al momento, c’era Velia. L'elfa stava ordinando un muffin al triplo cioccolato assieme a una ragazza di bassa statura, vestita con un elegante abitino di flanella dello stesso rosa confetto della sua amica. Entrambe si erano acconciate i capelli in una maniera improbabile, Alan non sapeva se fosse uno chignon o una treccia arrotolata per sembrarlo. Ai piedi indossavano dei sandali dorati alla schiava, che si attorcigliavano fino poco sotto il ginocchio. Ma la cosa più bella e appariscente erano gli orecchini della sua amica: le due gocce d’acqua marina che le pendevano dai lobi delle orecchie leggermente a punta catturavano la luce dei lampioni, rilucendo e sfavillando di un bagliore liquido, simile al riflesso del sole sull’ultimo ghiaccio.
Quando un ragazzo, un certo Sel, le si avvicinò, l’amica le fece l’occhiolino e, prima che Velia potesse ribattere, le afferrò il muffin e la sospinse tra le sue braccia. Con un’espressione a metà tra lo scetticismo e il divertimento, Alan la seguì con gli occhi mentre veniva trascinata in mezzo alla folla fino ad arrivare sotto il palco, dove si misero a ballare fianco a fianco. La gonna svolazzava leggera e i fiori nei capelli si disfacevano ad ogni saltello in una pioggia di petali rosa e bianchi. La ragazza rideva così forte, che ad Alan parve di sentirla nella testa.
Nell’ultima fila, appoggiato a un muro, c’era mastro Liam, che con un boccale di birra in mano chiacchierava allegramente con il macellaio e la signora Finnigan, una donna sottile come un giunco, l’espressione arcigna e il naso adunco e butterato. A giudicare dalla scioltezza dei loro gesti, Alan intuì che stessero parlando di cose di poco conto, come la cerimonia di nozze della nipote del notaio o l’instabilità del tempo. Da quando sua moglie era morta, mastro Liam parlava solo di cose futili, anche nei momenti in cui avrebbe dovuto essere serio. Forse era per questo che il rapporto con sua figlia si era logorato.
Qualcuno stappò il vino e la folla rispose con esclamazioni di gioia. Poi, dalla torre campanaria al limitare della città, partirono i primi fuochi, che si aprirono in fiori colorati nel cielo notturno.
Alan sbadigliò e si sistemò a gambe incrociate ad osservare il tripudio di scintille che esplodevano sopra di lui, intessendo l’elegante seta notturna con granati, topazi e zaffiri sfavillanti. Ecco, in quel momento avrebbe volentieri bevuto una buona birra, una di quelle ghiacciate che Maxwell gli aveva fatto assaggiare il mese scorso.
Un fruscio alle sue spalle lo distolse dai suoi pensieri.
- Mi avevi promesso che saresti venuto con me alla festa. -
Un sorrisetto gli arricciò le labbra: - Ci sono venuto, solo non sono rimasto. Non me lo hai chiesto. -
- Pensavo fosse scontato. -
- Non c’è niente di scontato nella vita. -
- Gne, gne, gne! -
- Sei infantile. -
- Mai quanto te. -
Eluaise si sedette vicino a lui. Il mantello di velluto rosso disegnava il profilo delle spalle sottili e, assieme all’ampia gonna dell’abito verde e alla treccia ornata da fiori di campo, le conferiva un’aria quasi principesca. Alan si sarebbe pure fatto scappare un complimento, se non fosse stato per gli occhiali d'aviatore che rovinavano completamente l'effetto.
- Dovevi proprio tenere quei brutti occhiali? -
- Mi sembra ovvio! E poi non sono così male appesi al collo. Potrebbero passare per una collana. -
- Una collana piuttosto stramba. -
- Ma pur sempre una collana. Potrei lanciare una nuova moda, che dici? -
- Continua a sognare. -
Lei rise e gli diede un pugno sulla spalla. Anche Alan scoppiò a ridere e le si avvicinò un po’ di più.
- Comunque, stai davvero bene. Intendo i tuoi vestiti. Sei molto carina. -
Eluaise avvampò e si strinse nelle spalle per celare il rossore che le colorava le guance: - Non è vero, lo dici solo per prendermi in giro. -
- Lo sai che, se ti volessi prendere in giro, avrei detto ben altro. -
- Tipo che sembro uno gnomo in tutù? -
Il ragazzo sghignazzò: - Sì. Oppure ti domanderei se hai avuto un incontro ravvicinato con un cane rabbioso incazzato. -
- Alan! -
Un altro pugno, stavolta sul braccio.
Alan non riuscì a trattenere l’ennesima risata. Da quanto non si sentiva così sereno? Trasse un profondo respiro e le accarezzò i capelli le ciocche sparse sfuggite alla treccia, seriche lingue di fuoco che si attorcigliavano attorno alle sue dita come tanti piccoli serpenti.
Eluaise sbuffò e distese le gambe sull'erba. Il vestito si alzò fin sopra il ginocchio, mettendo in mostra la pelle bianca cosparsa da un delirio di lentiggini.
Bella lo era sempre stata, ma agli occhi di Alan in quell'istante parve ancora più splendida. Fin da quando era entrato in quella casa, aveva desiderato di starle accanto. Adesso che avevano entrambi quindici anni faceva fatica a riconoscere in quella ragazza la sua compagna di giochi di un tempo, quella che indossava i pantaloni giallo limone scoloriti e la maglietta bianca troppo larga e si faceva pettinare i capelli in lunghe code da Vesa nelle torride giornate estive; quella che rimaneva seduta sullo steccato accanto a lui, con le gambe ciondolanti e gli occhi rivolti verso il cielo, stregati dall’avvicendarsi delle nuvole e dal lampeggiare dei fulmini nel cielo; quella che, raggomitolata tra le sue braccia avida di calore, si lasciava bagnare dalla carezza catartica della pioggia.
Si riscosse e si schiarì la gola.
- Allora, come procedono i tuoi studi a Chasterm? - le domandò.
Eluaise tirò un sospiro di sollievo a quel repentino cambio di argomento.
- Bene, direi. Ho ottenuto la borsa di studio e il capo della gilda mi permette di tornare a casa ogni fine settimana. Non sto nella sede centrale, ma spero di andarci presto, anche perché sono proprio curiosa di vedere i progetti a cui stanno lavorando. Dicono che stiano costruendo un motore capace di trasformare l'aria in energia elettrica, così da usarla come combustibile. -
- L’aria? -
- Ehi, non fare quella faccia! Guarda che non è una cavolata! -
- Non lo metto in dubbio, ma permettimi di essere un tantino diffidente. -
Eluaise roteò gli occhi esasperata: - Tu sei sempre diffidente. -
- A parte con te. -
Sorrise e arrossì: - Tu, invece? Come procedono gli addestramenti alla rocca? -
- Procedono. Ho superato la prova delle malattie. Gwynever è morta e anche Jillian l’ha seguita subito dopo. -
- Oh. Mi dispiace… -
- Pure a me, ma alla fine sapevamo che sarebbe finita così. Dei dieci bambini che vengono sottoposti ai riti, uno o al massimo due diventano Slayer. - mormorò e si esibì in una smorfia carica di amarezza.
Eluaise non commentò, sciolse solo il nodo del mantello e lo distese sulle spalle di entrambi, come sempre faceva quando succedeva qualcosa di brutto e si rintanavano insieme sotto la coperta in attesa che la tempesta finisse. Sopra di loro altri tre fuochi d’artificio esplosero in figure iridescenti tra fischi e boati e la folla in piazza si lanciò in sonore esclamazioni di ammirazione.
Alan, teso e impacciato, accarezzava i capelli di Eluaise, aspirando il loro profumo di lillà e fiori d’acacia.
- Papà come sta? -
- Come al solito. Non penso riuscirà mai a superare la morte di mamma. Ormai sono sei anni che non c’è più e si rifiuta ancora di parlarne. - rispose triste la giovane.
Alan annuì, poi l'abbracciò e la cullò dolcemente. Lei appoggiò il viso sul suo petto e lo lasciò fare, nascondendo le lacrime dietro le ciglia.
Per un po’ rimasero così, avvolti nella loro bolla privata che li isolava dalla realtà. Alan non sapeva perché, ma con Eluaise al suo fianco si sentiva al sicuro, protetto. Le sfiorò con le labbra i capelli, l’orecchio e lei si ritrasse appena, senza però fuggire dal suo abbraccio.
- Sogni ancora, Alan? - domandò all’improvviso.
Il ragazzo si irrigidì: - No. -
- Stai mentendo. -
- Elly, per favore… -
- È importante. -
Lui sospirò e levò gli occhi al cielo. Trascorse un lungo, silenzioso minuto, prima che trovasse il coraggio di annuire.
- Sempre la stessa cosa? -
- No. Stavolta in quel laboratorio vedo delle figure, degli scienziati con un camice bianco e uno stemma che non conosco cucito sulla schiena. Accanto a me c’è un’altra persona, un uomo prigioniero in un cristallo bianco, sembra quasi che l’abbiano rinchiuso in un blocco di ghiaccio. Non so come, ma ho la certezza che sia ancora vivo. E soffre, soffre tantissimo, percepisco il suo dolore come se fosse il mio. -
Eluaise gli strinse la mano per dargli forza, per fargli sentire che lei era lì. Quel calore, come ogni volta che Alan veniva in contatto con esso, riuscì ad allentare il nodo alla bocca dello stomaco, quello che gli attorcigliava le viscere come un filo spinato.
- C’è un forte odore di… di disinfettante. Il pavimento è cosparso di cavi che si connettono a dei cristalli per lo più azzurri, anche se ce n’è qualcuno che riluce di tonalità giallastre. All’interno però ci sono sempre delle persone. Anzi, beh, non so quanto si possano definire tali. -
- In che senso? -
- Nel senso che non sono completamente umani. Alcuni hanno le braccia scarnificate come quelle di un’Eferia, altri ancora hanno il corpo ricoperto da scaglie come quelle di un basilisco o di un drago. C’era addirittura una… una donna con le gambe mutate in due lunghe code di serpente. – deglutì e affondò le dita nella terra, - Quando uno degli scienziati ha posato la mano sul cristallo e l’ha sciolto, quella donna ha cominciato a urlare e a dimenarsi come un’ossessa, soprattutto quando le hanno infilato tutti quegli aghi nella pelle. - concluse, tentando di tenere a freno i brividi che rievocare quelle terribili visioni gli avevano provocato.
- Per gli dei… chi potrebbe mai fare una cosa simile? -
- Non ne ho idea, so solo che erano coscienti. Tutti quanti. -
Rimasero in silenzio, senza che nessuno dei due trovasse il coraggio e la voglia di parlare. Entrambi sognavano e spesso si svegliavano di soprassalto, spaventati e boccheggianti, nel cuore della notte, ma nessuno dei due ne aveva mai fatto parola, né con Maxwell né con mastro Liam. Era una cosa che solo loro due potevano capire, un segreto che li legava e li soffocava al tempo stesso.
 - Un giorno scopriremo a cosa sono dovuti. -
- Speriamo. -
- Ce la faremo. Dobbiamo. - la voce di Eluaise tremò appena.
Sempre che io non muoia prima.”
Alan tenne quel pensiero per sé: sapeva quanto la sua scelta di diventare Slayer facesse star male Eluaise, sapeva quante lacrime versava ogni volta che saliva sul treno diretto a Moor, verso la sua rocca piena di fantasmi, dove i sussurri dei morti facevano frusciare l’erba ingrigita dalla cenere dei corpi bruciati.  
- Non sei obbligato a tornare… - mormorò lei.
- Elly… -
- Non mi devi proteggere, non ne ho bisogno. -
Alan inclinò il viso, le sollevò il mento e posò le labbra sulle sue con delicatezza e imbarazzo, il cuore che gli batteva rapido nel petto. Percepì il suo respiro fermarsi, vide gli occhi lucidi spalancarsi per la sorpresa e poi chiudersi, mentre i loro corpi si distendevano sull’erba, talmente stretti da lasciar pensare che le loro ossa si sarebbero rotte per poi rifondersi insieme. Sotto di loro, dalla piazzetta claustrofobica di Eartshire, si alzavano canti, fischi, risate; in alto, nel cielo screziato da fumose pennellate purpuree, una tempesta di fuochi d’artificio sbocciava senza sosta in un turbine di scintille.
 
- Alan, non muoverti. Devo cambiarti le medicazioni o le ferite si infetteranno, va bene? -
La voce di Temarie gli arrivò lontana, distante chilometri. Subito dopo, il rumore di una porta spalancata rimbombò nella sua scatola cranica come il fragore di un tuono.
- Temarie, c’è bisogno di te. Maxwell perde molto sangue e una costola gli ha perforato un polmone. Devi aiutare Ludwik. -
- Sam, non ho il dono dell’ubiquità! Uff, va bene, occupati tu di lui e tieni d’occhio Rachel. -
Presto Alan avvertì solo il tocco bruciante dell’alcol sull’addome, che sgocciolava sul pavimento mescolandosi all’odore di pelle e al miasma soffocante di etere e formalina. Non ricordava di essere stato ferito lì. Sul petto nudo, all’altezza del cuore, qualcosa, come una piccola sfera, emanava un continuo e costante calore.
- Maxwell… Maxwell è… - gemette roco.
Prima di rispondere, Samuelle srotolò le bende intrise di sangue e cominciò a ripulire con calma uno dei tanti tagli che gli sfregiavano la carne. Sentì il suo tocco delicato mentre tamponava, cercando di fargli meno male possibile, ma il suo corpo era un incendio di dolore che gli bruciava le sinapsi, si insinuava tra i suoi pensieri e affondava le zanne velenose nel suo cervello, per poi tirare, strappare e ridurre a una straziante impotenza. Le ombre del mondo avevano assunto una sfumatura rossastra, mentre i contorni della realtà si erano fusi in un’unica vena scarlatta che si attorcigliava in sinuose volute di fumo, disperdendosi nell’aria come coralli di sangue.
- Cosa… cosa ho…? -
- Febbre e tachicardia. La piccola pietra del potere che Ludwik ti ha posizionato sul petto dovrebbero rallentare il battito, ma… -
La frase le morì in gola e, con attenzione, gli alzò un braccio per far passare una benda. Nonostante quel movimento, la sfera rimase immobile.
- Cos’è... successo a... Rachel? -
- Lei sta abbastanza bene. L’abbiamo trovata subito, prima che la magia le procurasse un infarto. -
Il cacciatore annuì, reprimendo a stento un mugolio sofferente. La testa gli pulsava, ben più delle ferite aperte, più del disinfettante sulle braccia, più della gemma che continuava ad irradiare calore.
- Eluaise è la donna che stai cercando? -
- Come fai a saperlo…? -
- Prima, nel sonno, hai gridato spesso il suo nome. -
- Sì… sì, è lei… -
- Pensa a lei, allora, e resisti. Non mollare, Alan. -
C’era qualcosa di strano nella sua voce, ma Alan era troppo stanco per capire a cosa fosse dovuto. Udì i passi di qualcuno avvicinarsi, poi gli sembrò che un ago gli penetrasse nel braccio. Il sonno sopraggiunse subito, accompagnato da un piacevole tepore che sciolse definitivamente ogni suo pensiero.
 
La porta della camera da letto era chiusa, come sempre accadeva quando in casa rimanevano solo loro due. In quei casi Alan non si degnava neanche di bussare prima di entrare.
Frejie se ne stava distesa sul letto, con i gomiti che affondavano nel materasso di morbida piuma e i piedi laccati con uno smalto nero sollevati a mezz’aria. Era nuda, così come l’aveva lasciata qualche minuto prima, con i capelli biondi che catturavano la luce obliqua del tramonto in languide lingue dorate, le gemme del potere che brillavano pallide sulla pelle di porcellana nel loro labirinto di rune e simboli arcani e i fianchi arrossati dai lunghi graffi.
Non si era nemmeno girata a guardarlo, ma Alan sapeva che si era accorta della sua presenza. D’altronde, lui non aveva fatto nulla per celarla.
Si richiuse la porta alle spalle, stando bene attento a non fare rumore, e solo in quel momento la maga si girò. La matita nera le impiastricciava le ciglia lunghe e del rossetto non rimaneva altro che una striscia rosata sulla guancia, eppure Alan non poté che trovarla estremamente sensuale.
Raggiunse il letto, gattonò sopra di lei e le elargì un sorriso stiracchiato. Frejie chiuse il libro che stava leggendo e attese che fosse abbastanza vicino per allungarsi verso la sua bocca e reclamare un bacio.
- Cos’hai intenzione di fare? - bisbigliò.
Alan si umettò le labbra e rimase in silenzio ad osservarla, tenendola prigioniera sotto di sé. Aveva le mani appoggiate sulle coltri, all’altezza del seno, e le ginocchia aperte sfioravano le ossa sporgenti dei suoi fianchi morbidi. Lei lo guardò con un mezzo sorriso, i capelli sparpagliati sulle spalle e sul cuscino come soffici fili dorati.
Quando era tornato in quella villa, circa sei mesi prima, a malapena l’aveva riconosciuta. Tutto era cambiato di lei, in quei cinque lunghi anni, persino il nome. Tutto a parte gli occhi, di un azzurro talmente intenso e limpido da sembrare vetro soffiato.
- Voglio averti ancora. - le sussurrò e cercò di trasmettere il desiderio che provava in quelle tre parole.
- Lo vuoi sempre. - replicò lei e il sorriso si ampliò.
Frejie sorrideva sempre da quando c'era Alan, proprio come Eluaise. Il ricordo del loro ultimo saluto sopraggiunse inaspettato, togliendogli il respiro. La maga dovette accorgersene, perché prese lei il controllo.
Lo afferrò di scatto e, tirandolo per le spalle, lo costrinse a mettersi seduto con le gambe ben divaricate. Poi una specie di corda invisibile gli si attorcigliò saldamente attorno ai polsi e lo sospinse contro la testata del letto.
- Non pensare. Ora ci sono io qui con te. -bisbigliò suadente e, allo stesso tempo, decisa, come quando dava ordini.
- Non mi metterei mai contro di te, mia signora. - scherzò.
- Lo so. -
Si inginocchiò tra le sue gambe e accolse la sua virilità tra le labbra. Una scarica di piacere gli arrivò al cervello, annientando al suo passaggio ogni sua resistenza o esitazione. Con gli occhi socchiusi, il cacciatore aprì di più le gambe, combattendo contro l’impulso di muovere il bacino, mentre il calore lo avvolgeva ad ogni affondo. Strinse le mani a pugno e si morse la lingua trattenendo un gemito, il sudore che gli imperlava il petto e scivolava in stille salate sulla pelle cosparsa di brividi.
Era una giornata afosa ad Eartshire, di quelle che ti costringevano a rimanere in casa per proteggerti dalla luce abbacinante di un sole troppo luminoso e un cielo di un azzurro così intenso da sfociare in un denso color cobalto. Nella stanza la temperatura crebbe vertiginosamente, mescolandosi al penetrante odore di sesso e di fiori di ginepro che si respirava nell’aria.
Alan abbassò appena lo sguardo, osservando con gli occhi offuscati la testa bionda che si muoveva in un lento oscillare che ricordava il mare calmo. No, Frejie non aveva nulla in comune con Eluaise, nemmeno nel sorriso, quel sorriso che adesso sapeva averle arricciato appena le labbra. Annaspò e rovesciò la testa all'indietro. Ondate di piacere gli trafissero il cervello come una scarica elettrica ad ogni sapiente guizzo della sua lingua, una continua e piacevole agonia a cui non poteva a non voleva sottrarsi.
Un gemito più forte degli altri gli sfuggì dalla gabbia dei denti. Inarcò la schiena, allargò ancora di più le gambe e fremette, in balia delle pulsazioni incontrollate che pretendevano di trovare sfogo. Avrebbe desiderato accarezzare con le dita in quei fili d’oro, ma Frejie non glielo avrebbe permesso. Era lei che comandava e solo lei poteva decidere quando concedergli misericordiosamente il premio.
- Fre… Frejie… - la invocò ansimando.
La maga lo fissò dal basso, le pupille dilatate e le guance rosse, per poi accarezzargli l’interno coscia con delicatezza, in un tacito segno di assenso. Alan si irrigidì, le gambe si fecero molli e l'orgasmo esplose nel basso ventre come un incendio. I pensieri si sgretolarono e il corpo si sciolse, abbandonandosi agli ultimi stralci di piacere.
Quando Frejie si tirò su, con le spalle dritte e lo sguardo fiero di una leonessa, vide un rivolo bianco scivolarle lungo il mento e il collo.
- Vuoi sempre comandare tu, eh… -
Lei ghignò e schioccò le dita, poi si stese al suo fianco. La pressione esercitata dalle corde invisibili si allentò e scomparve.
- A me non sembra ti dispiaccia. -
- Ho mai lasciato intendere che non mi piacesse? -
- Ci mancherebbe che non ti piacesse. -
- La modestia è un tuo tratto caratteristico. -
- Sempre. -
Il cacciatore fece passare un braccio attorno ai suoi fianchi e l'attirò a sé.
Si rilassarono e restarono in silenzio, forse perché nessuno aveva nient’altro da dire, forse perché c’era troppo di cui parlare. In quei mesi si erano raccontati un sacco di cose a letto: ricordi, rimpianti, verità, soprattutto bugie. Quelle non erano mai mancate, da entrambe le parti. Eppure, nonostante entrambi fossero consapevoli che prima o poi quell’illusione sarebbe finita, continuavano a fingere per prolungare il più possibile quegli effimeri momenti di pace.
- Alan? -
-Uhm? -
Lo Slayer aprì gli occhi. Nella luce del crepuscolo, la figura di Frejie risaltava come la statua di un’antica divinità pagana, una sensuale driade dei boschi dagli occhi così azzurri da rivaleggiare con le acque cristalline del Belriad.
- Rimarrai qui? -
- Sì. -
- Stai mentendo. -
Alan chiuse gli occhi, affondò il naso nel suo collo e inspirò il suo odore intossicante. Frejie allungò la mano, intrecciando le dita con quelle dell'amante.
Il sole in quel momento tramontò. Le ombre si allungarono e l’oscurità li avvolse in un morbido e fresco velo nero.
- Però posso dirti una cosa. - la voce del giovane si addolcì e l’altra mano, quella libera, le accarezzò la guancia, - Quando avrai bisogno di me, ci sarò. -
- È una promessa? -
Alan si perse per interminabili attimi a contemplare rapito il profilo delicato del suo viso, la bocca carnosa, la curva perfetta delle ciglia e della mandibola. C’era dolcezza in quel volto, adesso, una dolcezza che Frejie aveva sempre nascosto, anche nei momenti d’intimità. Era più unico che raro che si lasciasse andare in quel modo.
- Alan? -
- Sì, è una promessa. - rispose infine e seppellì la faccia in quella profumata chioma dorata.

 


 

Note d'autore, aka I deliri saltuari di Hime

Ciu!

Buongiorno miei prodi, bentornati al 26 esimo capitolo di questa storia che si fa sempre più complicata XD Allora,vi sta piacendo? Avreste mai pensato che le avventure di Alan avrebbero preso questa piega? Bè, io no, pensavo sarebbe stata una mini long di massimo 10 capitoli, invece... *sospira* vabbè, non ho deciso di scrivere questo famigerato angolo autore per tediarvi con le mie seghe mentali. In primis, per quel che riguarda questo capitolo, volevo dirvi che l'ultima scena, è stata resa meno esplicita per rimanere nei limiti del rating arancione. Qualora vi interessasse leggere quella super (?) hot, la trovate QUI.

In secondo luogo, a parte cogliere l'occasione per invitarvi a visitare la pagina Hime-chan dove posto puntualmente deliri/avvisi/foto e coseh di natura non identificata, ci tenevo a dirti che ci avviciniamo a metà della storia ** Eh, già, Slayers conta circa 60 capitoli e... e niente, volevo condividere con voi la gioia di essere quasi arrivata al trentesimo in poco più di un anno. E nulla... poi quando arriveremo al trentesimo capitolo vi scriverò un'altra nota autore u.u

Un bacione e a presto

Hime

  

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Capitolo 27
*** Act.3 - Patriotic Games ***


Slayers
Act.3 - Patriotic Games

 
Il vento soffiava dal mare verso l’entroterra, piegando con sferzate violente l’erba verde del giardino del castello di Belmoral. La regina Vittoria osservava il paesaggio dalla finestra al secondo piano, abbracciando con lo sguardo il bosco di querce che si estendeva a perdita d’occhio in tutte le direzioni. Aveva amato quelle lande fin dalla prima volta che vi aveva messo piede, quando i suoi occhi si erano posati su quella cittadina rocciosa sulla costa orientale della contea di Baylin. Ora non era più una giovane principessa, gli anni erano passati implacabili anche per lei, eppure si sorprendeva ancora quando intravedeva l’ombra di un cavallo o il guizzo fulmineo di un leprotto spaventato nell’erba. Le era quasi dispiaciuto quando aveva dovuto distruggere il precedente e mediocre maniero per costruire quello attuale, le era parso uno sfregio alla libertà che si respirava in quel luogo. Tuttavia lei, più del suo attuale e inutile marito, aveva bisogno di un posto dove riflettere, rilassarsi, un posto che potesse chiamare casa.
Sospirò e, con un sorriso amaro, osservò nel vetro della finestra il riflesso di una donna che aveva ormai passato la quarantina, con i capelli raccolti in uno stretto chignon dietro la nuca e una pesante corona di gigli d’argento e diamanti che sfavillavano come stelle all’alba. Sfiorò appena i gambi dei fiori, ne seguì il percorso fin sopra l’orecchio, e ricordò quando era andata dall’orefice reale con la sua collana di diamanti chiedendogli di incastonarli nella nuova corona, quella che gli aveva ordinato di forgiare alla morte del suo Robert.
Si lisciò le pieghe dell’abito, mentre guardava il continuo via vai degli scudieri e il muoversi risoluto del Koh-i-Noor, lo stallone elfico che suo figlio Eddard stava addestrando alla caccia. Già, aveva amato molto il suo primo marito e fosse stato per lei non si sarebbe nemmeno risposata, ma i consiglieri avevano fatto pressioni fino a quando non aveva ceduto. Tutto per il favore del popolo, tutto per la ragion di stato. Adesso, per quella stessa ragione di stato, doveva cominciare a muovere i pezzi della scacchiera.
Lo sferragliare delle armature, seguito dal fruscio delle porte sul tappeto persiano, la fece voltare.
- Benvenuto, Eruwen. O forse dovrei dire bentornato? -
- Mia regina, voi mi onorate. -
- E tu sei sempre troppo formale. Vieni, non stare sulla porta. Non ti inchinare, ormai ci conosciamo troppo per essere così rigidi sull’etichetta. -
Eruwen piegò il capo in segno di rispetto ed entrò con la solita fluidità nervosa che lo caratterizzava. Camminava a testa alta, gli orecchini dorati che tintinnavano e gli occhi rossi che si muovevano con finta curiosità dal signorile tavolo circolare vicino alla libreria al camino riccamente decorato, dalle perle del girocollo ai ricami a croce sull’orlo dell’abito. Come tutti gli elfi della Notte, era bello, bello e bastardo come il peggior figlio di puttana di New England, ma in fondo la regina non poteva fargliene una colpa: essere l’ambasciatore di quel folle di Ianice III era davvero un lavoro infame, un passo falso poteva costargli la vita.
- Non sei a tuo agio qui? -
- Certo che sì, maestà. -
Si sedette sulla sedia di frassino scuro, quella dove si accomodava sempre.
- Sono solo rimasto stupito dal vostro invito. Pensavo avremmo parlato nelle stanze del vostro meraviglioso castello. -
- Questa conversazione deve rimanere privata. Sapete com’è, no? I muri hanno occhi e orecchie e purtroppo non si sa mai dove essi si nascondano. -
L’elfo annuì con un mezzo sorriso. Vestito così, con una casacca di seta rosa e un cappotto bordato con una pelliccia di volpe bianca, sembrava più un giovane principe che un semplice ambasciatore.
- Allora, quali questioni urgenti vi hanno spinta a chiamarmi con tale urgenza? -
- So che il tuo amato re, il grande Ianice III, volge lo sguardo all’orizzonte, ultimamente. - disse, sedendosi di fronte a lui.
- Il nostro sovrano ha un cuore patriottico, vorrebbe riportare Ancya agli antichi splendori. -
- Oh, lo so, lo so. D’altronde anche il mio caro padre aveva votato la vita al suo popolo. -
Eruwen rimase impassibile e la regina dovette trattenere un risolino all’impercettibile irrigidimento delle spalle.
Edward d’Hilyum, duca di Lenth e Baylin, era passato alla storia per essersi dimostrato un re giusto, un padre devoto e un marito fedele. Per gli ancyesi, invece, era stato l’ennesimo sovrano che non si era fatto piegare dalle loro inutili e insistenti pretese territoriali. La battaglia delle Sherman, anche dopo cento e passa anni, era una ferita ancora aperta.
- In ogni caso, non dovete preoccuparvi di nulla. - riprese pacato l’ambasciatore, - Il mio re punta lo sguardo a nord, alle lontane e floride terre del Merk settentrionale. -
- Non ne ho mai dubitato, però noi sovrani siamo al servizio del popolo e, alle volte, il popolo si ricorda di qualche antico smacco e comincia a fare pressioni. Alle volte un discorso gentile e fermo basta per rabbonirli, altre volte nemmeno il potere della persuasione riesce a distoglierli dai loro intenti. Oserei dire che in queste occasioni spesso ci facciamo trasportare dal furor di popolo e intraprendiamo azioni di cui ci potremmo inseguito pentire. - 
- Ne sono consapevole, ma vi posso assicurare che… -
- Tu mi puoi assicurare? Eruwen, perdonami, ma per quanto le tue parole siano sincere, so quanto possa essere tentatore il serpente del potere. Ianice è un uomo dal grande cuore e dalla mente acuta, ma è ancora troppo giovane per distinguere tra le bocche che consigliano per il bene della nazione e quelle che tramano per un loro fine personale. Spero tu capisca ciò a cui mi sto riferendo. -
Eruwen si morse le labbra e una ruga di preoccupazione si disegnò sulla sua fronte. Si sistemò sulla sedia e, fingendo di aggiustare una piega inesistente sulla casacca, distolse lo sguardo.
La regina lo osservò: era nervoso e si controllava a fatica, ma cercava di non far trapelare nulla. Come tutti gli ancyesi, era troppo orgoglioso per pensare che anche una donna come lei potesse avere delle spie sul loro territorio, persino nella loro stessa corte. Era per questo che non avevano mai vinto una battaglia contro di loro negli ultimi trecento anni. Senza perdere il sorriso, rimase in silenzio per un po’, scrutando il suo interlocutore che lottava contro la tensione crescente. Infine si alzò, attraversò la stanza fino al carrello vicino al camino e si versò del buon vino in una coppa dorata. Prima di relegare la servitù alle faccende al primo piano, si era premurata di farsi preparare dei biscotti al burro da offrire, qualora quello sfacciato di Ianice avesse deciso di venire di persona.
- Ecco perché oggi ti ho convocato qui. Ianice dovrebbe essere ancora celibe. -
L’elfo tirò un sospiro di sollievo: - Non sbagliate. Sta cercando una sposa tra le famiglie nobili ancyesi, anche se è davvero difficile trovarne una che soddisfi i suoi gusti. -
La regina nascose un risolino dietro la mano.
- Lo so, appunto per questo volevo facilitarti il compito. La duchessa di Corkia e Crowne ha una figlia in età da marito ed è da un paio di mesi che sta cercando un uomo bello, fiero e forte a cui affidare la sua bambina. Chi se non un re potrebbe accontentare le esigenze di una povera madre? -
Negli occhi dell’ambasciatore si accese una scintilla d’interesse: - Pensavo che la vostra Beatrice fosse già stata promessa a Duneval. -
- Già, ma purtroppo il fidanzamento è stato rotto quando la Dama Nera si è portata via il marito di Heluna. - scosse il capo e sospirò, fingendo si asciugarsi una lacrima, - Purtroppo dopo questo grave lutto, la famiglia del duca naviga in brutte acque e Beatrice si è vista costretta a tornare a casa dei genitori, rompendo il fidanzamento. D’altronde, quale madre darebbe in sposa la propria figlia a un uomo che non può mantenerla? -
Eruwen non rispose e la regina tornò a riempirsi la coppa.
Quel bastardo di un vampiro si era indebitato con mezza New England negli ultimi mesi e, anche se continuava a venire alle cene e alle serate mondane sfoggiando i suoi abiti sfarzosi, tutti a corte sapevano che, se non fosse stato per i soldi elargiti gentilmente dalla corona, la Public Express sarebbe già fallita e con essa tutta la sua famiglia. Sapere che era morto era stato un sollievo, sia per la regina che per quella poveretta di sua moglie.
- Siete sicura che la duchessa approverebbe questa unione? -
- La conosco, ti posso assicurare che desidera più di ogni altra cosa il bene della sua bambina. Mi pare di ricordare che il suo trisnonno fosse un barone di spicco nella vostra nazione. -
- Sì, era un barone con molti possedimenti. -
- E, se non erro, li ha ancora. -
La regina si avvicinò e passò la mano sullo schienale della sedia, stando bene attenta a sfiorare anche le spalle dell’elfo.
- Poniamo caso che il tuo re decida di accettare la mano della nostra amata Beatrice e, sempre per caso, supponiamo che con questo matrimonio tu possa riavere alcuni territori che duecento anni fa avete perso. Non ti sembra un ottimo affare? -
- Dipende a quali vi riferite. -
- Pensavo di concederti di nuovo la Vedètte e Saucerre. Sai, per l’onor di popolo… - fece un gesto vago con la mano e lasciò la frase in sospeso, con un sorrisetto sempre più compiaciuto che le si allargava sul viso.
Ne aveva discusso a lungo con Ian, il suo consigliere, e per mesi si era arrovellata alla ricerca di una soluzione diversa, una soluzione che le permettesse di mantenere tutti i territori dalla Cervantesa fino alla Vedètte, ma purtroppo quella sembrava l’unica possibilità, soprattutto con la Chiesa e la Fanishmea che non attendevano altro che un pretesto per muover guerra. No, non potevano permettersi di combattere, non prima che i tecnomanti avessero portato a termine il progetto.
“Che quel ragazzino si riprenda pure i suoi due fazzoletti di terra. Se li godrà per poco. Heluna capirà, capirà perché ho ceduto le terre della sua famiglia.”
- Purtroppo non posso darvi una risposta ora, devo prima parlarne col re. -
- Certamente, Eruwen. Aspetterò tue notizie. - sospirò, si spostò una ciocca sfuggita dallo chignon e guardò fuori dalla finestra.
Era una concessione necessaria, si disse, una decisione dettata dalla ragion di stato. Poteva solo sperare che le due regioni, tutte abitate da bravi e onesti mercanti, non opponessero resistenza durante l’espropriazione delle terre.
- La servitù vi scorterà fino all’uscita della tenuta. -
- Grazie, maestà. -
L’ambasciatore si alzò, si inchinò e poi si congedò.
Mentre il suono dei sui passi si faceva sempre più lontano, la regina trasse un profondo respiro. Concordava con Ian che avevano bisogno di altri mesi di pace, ma non riusciva a non pensare di aver appena venduto la figlia della sua più cara amica al nemico.
 
*
 
Rachel aveva ripreso conoscenza quasi subito, o almeno così le era sembrato, ma quando riaprì gli occhi si rese subito conto che era passato più tempo di quello che pensava. Era distesa sul letto di una camera disadorna, con le pareti di un triste rosa pallido e un’unica finestra nascosta da una leggera tenda di lino. Sul tavolo addossato alla parete di fronte a lei, quasi protetto da una muraglia di libri, erano state appoggiate le Bladegun e Sebastian. La pietra verde brillava di una luce tenue e intermittente.
“Deve essere ancora scarico.”
Il rumore di qualcosa che cadeva sul pavimento le fece abbassare gli occhi su una piccola sfera blu, un cristallo perfettamente rotondo che rotolò fin sotto il comodino. La cacciatrice si allungò per prenderla, ma una fitta al petto e un improvviso giramento di testa la costrinsero a stendersi di nuovo.
- Non dovresti fare sforzi. -
Qayin uscì dalla penombra, materializzandosi al suo fianco. Rachel lo fissò da sotto le ciglia socchiuse, affondando con le poche forze che aveva le unghie nelle lenzuola. Tuttavia obbedì, distendendo le gambe e prendendo un profondo respiro. Quando il vampiro afferrò la sedia e la mise vicino al letto, dovette far appello a tutto il suo autocontrollo per non guardarlo male.
- Ti ricordi cosa è successo? -
- Sì, ricordo tutto. -
Qayin annuì, intrecciando le dita sotto il mento. Si era cambiato e adesso portava una semplice camicia bianca sopra un paio di pantaloni neri.
- Gli altri come stanno. -
- Si sono salvati per miracolo. Il dottor Ludwik è arrivato in tempo per evitare che tu e Alan aveste un infarto. Grazie a queste non avete nemmeno riportato danni permanenti al cuore. - si chinò e le porse la sfera azzurra, - Ci metterete comunque un po’ a riprendervi, ma mi sembra un contrattempo sopportabile in cambio della propria vita. -
Rachel chiuse gli occhi. Sentiva un continuo ronzio nelle orecchie e le tempie le pulsavano dolorosamente ad ogni minimo movimento, ad ogni contrazione dei muscoli della bocca, persino ad ogni impercettibile battito di ciglia. Poi un dettaglio nelle parole di Qayin premette dall’angolo del suo cervello.
- Maxwell... non hai parlato di Maxwell. -
- Sta bene. -
A Rachel non sfuggì il gelo nella sua voce e la fretta con cui aveva risposto.
- Dimmi la verità. -
Lo fissò con attenzione, ma quel viso non esprimeva nulla. Rachel si sorprese a pensare quanto fossero simili sotto quell’aspetto.
- Qayin. - lo esortò.
- Aveva perso molto sangue, ma è riuscito comunque a sopravvivere. Non hanno potuto fare nulla per salvare il suo occhio, purtroppo, ma credo che gli alchimisti gliene potranno impiantare uno di vetro. -
Rachel sollevò le palpebre e lo vide chinarsi su di lei. Una ciocca sfuggita dalla coda le sfiorò la guancia, il calore del suo respiro le scaldò il collo e rabbrividì per il solletico. Inaspettatamente, quella vicinanza la calmò e si domandò cosa si nascondesse dietro quegli occhi impassibili, così maledettamente simili ai suoi. Era sempre stata capace di capire le persone attraverso i minimi gesti, ma Qayin rimaneva un mistero, lo era stato fin da quando si erano incontrati per la prima volta. La sua ambiguità l’aveva sempre infastidita, la sua doppia faccia da giocatore di poker non le aveva mai fatto abbassare la guardia. Eppure ora non le dava fastidio la sua presenza, anzi.
- Cosa ti passa per la testa. -
- È una domanda? -
- Mi conosci troppo bene per far finta di non capire. -
Il vampiro curvò un angolo della bocca in un mezzo sorriso: - Penso a tante cose, alcune importanti, altre decisamente più superficiali. -
La sua voce si era addolcita, ma la sua espressione divenne ancora più indecifrabile, anche se le parve di vedere una scintilla di divertimento brillare in fondo a quelle iridi gelate. Era suo fratello e non sapeva niente di lui.
- Non capisco mai cosa ti passi per la testa, non capisco i motivi del tuo comportamento… -
- Se tutti riuscissero a capirmi, non sarei un buon uomo d’affari. - ghignò e si allontanò da lei, senza interrompere il contatto visivo.
Rachel fece per aggiungere altro, quando Qayin si alzò e le posò sul comodino una pasticca bianca.
- Non so quanto possa farti stare meglio, ma Temarie ha insistito che tu la prendessi. Scommetto che il mal di testa non ti è ancora passato. Questa dovrebbe farti dormire il tempo necessario a farti riprendere. -
Rachel scosse la testa e se la rigirò tra le dita: - Aspirina. -
- Sì. Dovresti mandarla giù con un po’ d’acqua, se aspetti un attimo vado a prenderla. -
La ragazza scosse la testa e la ingoiò. Poi, sotto lo sguardo contrariato di Qayin, scese dal letto e si avvicinò alla scrivania.
- Dovresti riposare. - la rimproverò.
Rachel scrollò le spalle, rimise la Bladegun nelle fondine e prese Sebastian tra le braccia.
Con un sospiro rassegnato, il vampiro si diresse alla porta e la cacciatrice gli andò subito dietro. Si ritrovarono in un lungo corridoio pieno di porte chiuse, illuminato da delle gemme multicolori che galleggiavano sul soffitto in un lento moto circolare. Un tappetto viola stinto che si snodava in ogni direzione attutiva il rumore dei loro passi. Ad ogni angolo brillava una runa inscritta direttamente sull’intonaco del muro.
- Dove siamo. -
Qayin le lanciò un’occhiata di sbieco: - Nella gilda dei tecnomanti, mi sembra ovvio. -
- Non mi ricordo di aver mai visto questo corridoio. -
- Perché questa è la vecchia sede della gilda degli alchimisti, anche se ormai ci siamo uniti un bel po’ d’anni fa e siamo diventati una gilda unica. Purtroppo Fergia non ha voluto abbandonare questo palazzo. Quando siamo stati attaccati, ho dovuto chiedere a Temarie di attivare il portale di traslocazione per arrivare qui in tempo. -
Rachel annuì. Era l’unica spiegazione possibile, in effetti. L’arredamento che la circondava era molto diverso da quello della gilda dei tecnomanti, anche se, a giudicare da quello che aveva visto, le camere degli apprendisti non dovevano differenziarsi molto.
“Avranno lo stesso periodo di ferie, allora, visto che non ho visto nessuno.”
Percorsero il corridoio fino alla fine, girarono a destra e di nuovo a sinistra. Passando vicino a una porta semichiusa, la cacciatrice scorse il profilo addormentato di Gabriel, disteso su un divanetto di pelle scura. Russava appena, tutto rannicchiato su se stesso, le gambe tirate al petto e due occhiaie violacee che spiccavano sull’incarnato pallido e smunto del viso.
Proseguirono ancora un po’, zigzagando nei corridoio semibui, finché Qayin non bussò a una porta dove spiccava una targhetta argentata con su scritto “Infermeria”. Qualche istante più tardi, un uomo dai capelli color dell’acciaio, vestito con un camice bianco e l’espressione severa venne loro ad aprire.
- Come mai l’hai fatta alzare, Qayin? -
Aveva una voce severa ma rassegnata, come quella di un generale sconfitto.
- Non posso di certo bloccarla al letto, Ludwik. -
L’uomo sospirò e scosse la testa per poi spostarsi dalla porta: - Entrate, forza. -
Rachel non se lo fece ripetere due volte. La stanza dell’infermeria non era diversa da quella di un normale ospedale, con i lettini allineati uno di fianco all’altro e separati solo da un paravento di un bianco asettico. Percepì immediatamente la presenza di sette vampiri feriti e dei suoi due compagni. Una donna dai capelli bianchi raccolti in una crocchia la fissava dall'altro capo della stanza e Rachel ricambiò per un attimo il suo sguardo sgomento. Poi si diresse a passo sicuro verso gli ultimi due letti, quelli proprio sotto la grande finestra. Ad un tratto scorse con la coda dell’occhio un movimento al limite del suo campo visivo.
- Ah, finalmente ti sei svegliata. -
Alan fece capolino da dietro un paravento, con già addosso il suo sdrucito soprabito e la sua maglietta strappata. Era molto pallido. Anche se cercava di allacciarsi gli anfibi da solo, si vedeva che faceva fatica a piegarsi, come se ogni movimento fosse un'atroce sofferenza.
- Dovresti rimanere a letto, Slayer. - gli disse la donna, fulminandolo con un'occhiata penetrante.
Non era un medico, non aveva né stetoscopio né un camice come Ludwik, ma dalla gonna a vita alta e dai lunghi guanti viola, in tinta con l’abito nero e grigio su cui brillava un uroboro intrecciato a forma di otto, Rachel capì di essere davanti al capo della gilda degli alchimisti, Fergia D’Urden.
- Non posso, devo andare. - ribatté secco, ma non appena tentò di alzarsi, un capogiro lo costrinse di nuovo a sedersi sul letto.
- È inutile che ti ostini, ora come ora il tuo cuore non è capace di sostenere nemmeno lo sforzo di camminare. - gli andò vicino e gli alzò il mento, fissandolo con cipiglio critico, - Hai ancora le pupille dilatate e stai sudando. Il rischio che tu abbia un infarto è superiore al quaranta percento. Se decidi di non darmi retta e di fare di testa tua, le possibilità che tu possa arrivare vivo a domani diminuiscono di un ulteriore dieci percento. -
Alan si tirò indietro e rispose con un sorriso strafottente: - Non me ne fotte un cazzo delle tue percentuali. Io ho una missione da portare a termine e… -
- Tipo cercare la donna chiamata Eluaise? -
Alan trasalì.
- Come immaginavo. - sospirò Fergia e tornò a sedersi sulla piccola seggiola ai piedi dell’altro letto, - La tua donna può aspettare. Se esci da qui senza esserti riposato abbastanza, probabilmente morirai. Non penso che lei voglia questo, ti pare? -
Rachel spostò lo sguardo sul suo compagno. In qualche modo, capiva quello che provava. La gelida rabbia che gli incendiava lo sguardo era la stessa che emergeva ogni volta che le sue ricerche su Lehcar erano finite a un punto morto.
- Non c’è proprio nessun modo per velocizzare la guarigione. - domandò.
Fergia inclinò la testa e spostò la sua attenzione su di lei. Rimase in silenzio per un lungo momento, scrutandola con i suoi occhi neri e attenti. Rachel immaginò che stesse cercando di dare un tono alle sue parole.
- Cercherò di essere chiara. Siete stati vittime di una magia sconosciuta, che per poco non mandava entrambi all’altro mondo. Sinceramente, non capisco il vostro voler per forza partire subito, nelle vostre condizioni. Non sono un medico, però ho studiato dai migliori maghi di New England e so riconoscere gli effetti nocivi di un incantesimo. Quindi posso dirvi con altrettanta sicurezza che non potrete lasciare la gilda prima di un mese. -
- Un mese?! Stai scherzando, spero. - sbottò Alan, ma l’occhiata che Fergia gli scoccò lo fece ammutolire.
Se avesse avuto abbastanza energie, se non fosse stato così provato, di certo sarebbe corso fuori, infischiandosene delle conseguenze. La consapevolezza che sarebbe potuto morire al minimo sforzo lo bloccava.
Rachel lo vide abbassare lo sguardo, le labbra pallide strette nella morsa dei denti, le mani chiuse a pugno sulle ginocchia, le spalle tremanti. Avrebbe voluto replicare, ma che senso aveva negare l’evidenza? Il battito affaticato e lento del suo cuore, dei loro cuori, non lasciava nessuna speranza.
- Ha ragione, Alan. Adesso non saresti capace di muovere un passo fuori da qui. - disse una voce roca.
Tutti si girarono verso il lettino alle spalle di Fergia. Maxwell si era tirato a sedere e, con un’espressione sofferente, cercava di appoggiarsi allo schienale del letto. La donna si allungò per aiutarlo, ma il Lycan scosse la testa e la incenerì con l’unico occhio rimasto. Aveva il petto e le braccia tutte fasciate.
- Taci. - ringhiò Alan.
- Sempre il solito irritabile, melodrammatico tonto. Alle donne piacciono le cicatrici, sai? - ansimò con un sorriso divertito, per poi rivolgersi a Fergia, - Ascoltami, non possiamo permetterci di rimanere qui un mese. Mi piacerebbe starmene a letto servito e riverito coma un principe, ma non posso, non dormirei tranquillo sapendo che c’è una fanciulla in pericolo. Quindi o ci dici come fare per guarire più velocemente, oppure avrai tre morti sulla coscienza, perché al massimo tra una settimana ripartiremo. -
Fergia lo trafisse con un’occhiata affilata come un rasoio. Non era una donna abituata ad essere contraddetta. Fece per aprire bocca, quando Samuelle, Temarie e Ludwik fecero il loro ingresso nella sala.
Al vedere la sua migliore amica, il cuore di Rachel accelerò e per qualche motivo a lei sconosciuto si trovò a tirare un sospiro di sollievo. Non si era resa conto che fino ad allora era stata in piedi, rigida e tesa, con un groppo in gola che le rendeva difficile persino deglutire.
- Io e mia sorella sapremmo come fare. -
La voce di Samuelle era stanca, meno energica rispetto al solito, eppure non aveva nessuna esitazione. Rachel sapeva che quando usava quel tono qualunque tentativo di dissuaderla sarebbe stato inutile. Ma Fergia no.
- Ah, sì? E cosa avresti in mente di fare, ragazzina? -
- Fergia… - la blandì Ludwik.
- No, dottore, non tollero che venga messa in discussione la mia e la tua autorità da una bambinetta che puzza ancora di latte. -
Ludwik e Temarie si scambiarono un rapido cenno e sospirarono quasi all’unisono.
- In quanto medico curante, desidero che ascolti quello che questa ragazza ha da dire. -
La donna sbatté le palpebre, come se non riuscisse a capacitarsi di quello che aveva sentito. Poi, quando capì, dapprima spalancò gli occhi, in seguito cominciò a tamburellare le unghie sul bracciolo della sedia.
- Adesso anche tu hai da ridire sulle mie decisioni. - sibilò.
- Il tuo comportamento diventa poco professionale quando ti senti attaccata nell’orgoglio. - Ludwik incrociò le braccia al petto con un’aria profondamente spazientita, - Conosco molto bene Samuelle, so quanto lei e sua sorella siano brave nel loro lavoro. Ho sentito la loro proposta e penso che dovresti ascoltarla anche tu, Fergia. -
Per un lungo momento i due si misurarono con lo sguardo, un duello silenzioso che né Rachel né nessuno degli astanti osò interrompere. Alla fine il dottore dovette vincere, perché la donna si appoggiò allo schienale della sedia e con un gesto stizzito della mano invitò a Samuelle di parlare.
- Je pensais... anzi, io e mia sorella pensavamo che sarebbe sufficiente impiantare la gemma del potere nel petto dei due cacciatori. Applicheremo dei fori alla pietra e vi faremo passare dei fili di linyum dello spessore di un nanometro, poi basterà fare un piccolo taglio all’altezza della vena cava inferiore e far sì che i fili vi si colleghino naturalmente. -
- Interessante. Peccato che quella pietruzza non sia sufficiente a sanare rapidamente le ferite del cuore senza una buona dose di riposo. - Fergia sottolineò quell’ultima parola con una certa decisione, - Se fosse stato così facile, l’avrei proposto io stessa. -
Samuelle si morse le labbra e Rachel notò il suo sguardo adombrarsi. In quello stesso istante, l’attenzione di Alan, fino ad allora concentrata sulla discussione in corso, si spostò su un pinnacolo di fumo fuori dalla finestra.
- Però i danni al cuore guarirebbero più in fretta e, di conseguenza, diminuirebbero i giorni di degenza. - insistette la ragazza, ma Fergia scosse la testa.
- Sarebbero comunque necessarie almeno tre settimane. Perché possano andarsene in meno di una settimana, ci vorrebbero due pietre del potere pure all’ottanta, ottantacinque percento. Ne avremmo anche alcune, ma per tagliarle della misura giusta senza contaminarle ci vorrebbero… -
Prima che potesse proseguire oltre, Samuelle la interruppe: - Io le ho. -
Frugò nel marsupio di cuoio e tirò fuori due piccole gemme viola perfettamente sferiche, che rilucevano di un tenue lucore azzurrato. Fergia strabuzzò gli occhi, aprendo la bocca un paio di volte senza riuscire ad articolare una parola.
- È per questo che ho insistito affinché l’ascoltassi. - intervenne Ludwik, sorridendo divertito, - Nemmeno io ci credevo, ma quando stamattina è corsa da me per dirmi cosa aveva in mente di fare e me le ha mostrate, mi sono dovuto ricredere. -
La donna prese delicatamente le gemme e se le rigirò tra le mani, osservandole in controluce. Chissà se aveva notato il sorriso vittorioso della “ragazzina”.
- Potete fare qualcosa anche per il mio occhio? - domandò Maxwell.
- Avevo pensato di impiantarti un oculus normale, ma credo che ti possa essere più utile il modello "rift". Da quello che Ludwik mi ha detto, non hai subito dei danni irreparabili al nervo ottico, quindi tornerai a vedere anche meglio di prima, ma mi occorrerà qualche giorno per modificare quelli che ci sono nel laboratorio di gilda. - disse Temarie.
Il lycan sogghignò: - Meglio di prima dubito, piccoletta. Nessuna protesi potrà mai essere migliore degli occhi di un licantropo. –
Per la prima volta dal momento in cui era entrata, la ragazza sorrise: - Vedremo, vedremo. -
Maxwell la ringraziò con un cenno del capo, mentre Alan continuava a guardare fuori dalla finestra, perso in chissà quali pensieri.
- Dunque è tutto sistemato. - concluse Rachel.
- Sì. - dichiarò decisa Fergia, prima di ridare le gemme a Samuelle, - Ora abbiamo tutti bisogno di riposare. Domani penseremo a programmare gli interventi. No, non ho intenzione di discuterne adesso, ragazzina. Vai a stenderti un po’ sul letto. In quello stato non sapresti praticare un foro a un sasso. -
Samuelle decise di non ribattere. Poi, mentre tutti gli altri defluivano verso la porta, fissò per un lungo istante la schiena di Alan. Scrollò le spalle e il suo sguardo si incupì. Temarie le strinse il braccio e si morse le labbra, i lineamenti del viso irrigiditi in una brutta smorfia. La trascinò fuori senza salutare.
Rachel attese ancora un momento, poi le seguì in silenzio. Le parole che voleva pronunciare erano rimaste incastrate in gola, serrata da un sentimento che non conosceva.
 
*
 
Era mezzanotte passata quando Alan udì il cigolio della porta e vide l’ombra del visitatore allungarsi sul pavimento. Con un sospiro stanco si tirò su e, quando i capelli bianchi e scompigliati di Samuelle fecero capolino da dietro il paravento, era già quasi riuscito a mettersi seduto.
La luce chiara della luna filtrava attraverso i vetri smerigliati della finestra, delineando la figura della ragazza in una scala di grigi evanescenti, sfumati sulla pelle candida delle spalle scoperte.
- Cosa ci fai qui? -
Samuelle si sedette sulla sedia senza una parola e appoggiò il mento sulle mani intrecciate, l’occhio di cristallo opalescente concentrato sul lucore argentato che danzava sul davanzale della finestra. Tacque per un tempo che potevano essere secondi o minuti. Nel buio di quella stanza asettica, dove l’unico suono udibile era il respiro profondo di Maxwell, il tempo si perdeva nel silenzio.
- Avevo voglia di vederti. -
- Dovresti riposare, Samuelle. -
- Je sais, ma non ho sonno. -
Trasse un profondo respiro e scosse la testa, passandosi nervosamente una mano tra i capelli.
- Ad essere proprio sincera, è da quando te ne sei andato che non riesco più a dormire bene. -
Alan annuì appena. Le pupille si erano rimpicciolite, permettendogli di vederla perfettamente al buio, di accorgersi di suoi pugni chiusi, dei denti affondati nelle labbra, del riflesso liquido che le offuscava lo sguardo.
- Lo so che è sciocco, però credo… -
- Non dirlo, Sam. -
- Che te lo dica o meno non cambia la sostanza delle cose. Le parole non diventano reali solo quando le si pronuncia e chi è convinto di una cosa del genere è davvero un coglione. - ridacchiò.
Si stropicciò gli occhi e scrollò le spalle, come se quel semplice gesto bastasse a scrollarle di dosso il peso che sentiva.
- Lo sapevo fin dall’inizio che non sarebbe successo nulla, però non è una cosa che controllo. - continuò.
- Non ti sto incolpando, nessuno lo sta facendo. -
- Oh oui, qualcuno mi sta continuando a ripetere quando sia stupida. Purtroppo non è una cosa facile da gestire, soprattutto se sei tu stesso a colpevolizzarti per qualcosa su cui non hai potere. So che non dipende da me e che tra un po’ passerà. C’è una parte di me che però vorrebbe cambiare le cose, che si ostina a pensare a come sarebbe se facessi questo, quello, quell’altro ancora, senza rendersi davvero conto che sarebbe tutto inutile fin dal principio. A volte invidio Rachel: voi Slayer non provate sentimenti profondi, non dovete soffrire per… -
La parola aleggiò nell’aria e, muta e sanguinante, si perse nel silenzio.
- Mi dispiace, Samuelle. -
- Dispiace anche a me, non sai quanto. -
Il brusio che giungeva dalla strada si attutì. Una nuvola oscurò la luna e la cascata di luce che si riversava nella stanza venne inghiottita dalle ombre e smembrata in tante piccole strisce luminose.
- Sai, molto prima dell’industrializzazione, Chasterm era una città dove passavano tanti cantastorie, menestrelli, tutti diretti a corte. Non era raro vederli agli angoli delle strade, attorniati da bambini e adulti, mentre si prodigavano a raccontare ascese e cadute di lord, trame intessute da crudeli streghe, avventure di impavidi cavalieri pronti ad affrontare draghi sputafuoco per conquistare il cuore della loro principessa. Ricordi quando ti ho detto che ho sentito tutte le leggende sulle fate? Non stavo scherzando. Anche se non sono nata qui, quando mi sono trasferita dai miei zii per cominciare a studiare rimanevo spesso da sola a casa con mia sorella e mia cugina più piccola. Con noi, nonostante fossimo grandi, c'era la nostra vicina di casa, la signora Dena. L’adoravamo, sai? Faceva dei biscotti al burro buonissimi e sorrideva sempre, anche quando la gamba le faceva male e non riusciva quasi a camminare. -
Sbatté di nuovo le palpebre, tirandosi via una lacrima con il dorso della mano.
- C’era… una storia che ci raccontava spesso. Aveva un titolo strano e lei lo pronunciava con la sua erre moscia, con le parole che sibilavano nei fori tra i denti. Scommetto che anche tu la conosci. -
- Sam… -
- Non, laissez-moi finir. - gli prese la mano tra le sue, regalandogli un tremulo sorriso, - Solo questa fiaba, solo per stanotte. -
Il cacciatore non si mosse, nemmeno quando percepì le sue dita accarezzargli il profilo del mento, il pollice che sfiorava la vena pulsante del collo.
- C’era una volta, molto tempo fa, una ninfa bellissima, dai riccioli color del grano maturo e gli occhi tersi come il cielo estivo. Viveva assieme alle sue sorelle sulla costa di un’isola sperduta e amava recarsi con loro a passeggiare a piedi nudi sulla spiaggia e a fare il bagno nelle limpide acque del mare. Il loro padre, il dio dei fiumi e dei boschi, si raccomandava sempre che stessero attente, che gli umani avrebbero potuto far loro del male, ma nessuna aveva mai dato peso a quelle parole. La notte del solstizio di primavera, stanca di stare nel suo palazzo di rami e giunchi, la ninfa ingannò le guardie e andò sulla spiaggia, dove si stese a guardare l’infrangersi delle onde sugli scogli. Cullata da quel suono soave, gli occhi le si chiusero. Quando si svegliò, era circondata da un gruppo di pescatori. Visto che le ninfe erano disprezzate come qualunque altro mostro, gli uomini, spinti dall’odio che da sempre animava i loro cuori, cominciarono a picchiarla. La ninfa tentò di scappare, ma invano. Alla fine, soddisfatti di quello che avevano fatto, i tre pescatori arroventarono un arpione e le bruciarono metà viso. In seguito la presero e la buttarono in una grotta nascosta dagli scogli, lontana dalla spiaggia dove lei e le sue sorelle andavano. - si fermò, indugiando sul profilo della spalla fasciata, - La ninfa rimase lì, in compagnia solo della disperazione e del dolore delle ferite. Passarono due giorni, poi tre, poi quattro. Al quinto giorno, pensò che la Dama Nera sarebbe venuta a prenderla ma, prima di perdere i sensi, percepì delle mani gentili sollevarla. Quando rinvenne, si trovò su un letto morbido, in una piccola capanna di legno. Al suo fianco, seduto su una sedia di vimini e paglia, c’era un giovane dalla pelle… -
- Spessa come il cuoio e gli occhi più scuri del carbone. - completò Alan.
- Oh. Conosci questa storia? -
- Quando ero piccolo mia madre mi raccontava spesso queste fiabe popolari. -
- Quindi sai anche come finisce. -
- Non me lo ricordo. - mentì, sorridendo sghembo.
- Il giovane si prese cura della ninfa. Era molto gentile con lei e fece di tutto affinché si sentisse a suo agio e si riprendesse in fretta. Lei però non parlava mai, aveva paura. Poi, col passare delle settimane, si rese conto che quell'uomo non era come tutti gli altri, che la sua non era una gentilezza di facciata, ma che ci teneva davvero a lei. Durante quel periodo la ninfa si innamorò perdutamente di lui. Le bastava una sua carezza per stare meglio, un suo sorriso perché si sentisse invadere da una gioia improvvisa, una sua occhiata per mandarle il cuore in gola. Un giorno decise di dichiararsi, così una mattina uscì e andò a raccogliere dei fiori nel bosco. Lì incontrò le sue sorelle. -
Samuelle gli passò una mano tremante sulla fronte, la voce incrinata sempre più bassa, fievole.
- Queste lì per lì non la riconobbero, ma poi, quando la ninfa venne loro incontro, l'abbracciarono e la baciarono, chiedendole in lacrime cosa le fosse successo. Allora raccontò gli eventi degli ultimi mesi, da quello che le avevano fatto i pescatori fino a quel momento, rivelando la sua intenzione di confessare il suo amore. Le sorelle, inorridite, provarono a dissuaderla, la pregarono di tornare a casa con loro, ma lei non ne volle sapere. Diede loro le spalle e tornò alla casa del pescatore con un mazzo di lillà, gardenie, mughetti e bocche di leone. Quando arrivò, udì una risata allegra e una voce di donna provenire dall’interno: dentro, stretta tra le braccia del giovane, c’era una ragazza con i capelli di fiamma e il viso più bello che avesse mai visto tra le mortali. La ninfa rimase a guardarli per un po’, poi, col cuore a pezzi e le guance rigate dalle lacrime, se ne andò, tornando nel castello del dio del fiume. -
Abbassò gli occhi e giunse le mani in grembo. Alan stette a guardarla senza trovare niente da dire. Sapeva che qualunque cosa avesse detto non sarebbe servita, così optò per rimanere in silenzio assieme a lei.
- Che stupida che è stata la ninfa. Avrebbe dovuto capire che quell’umano non l’avrebbe mai voluta. -
- Non poteva saperlo. -
- Avrebbe dovuto immaginarlo. -
Il cacciatore prese un profondo respiro: - Alla fine la ninfa muore per il cuore spezzato, giusto? –
La ragazza annuì.
- Bè, è una fiaba stupida, raccontata da un bardo che aveva il cuore avvelenato da un amore non corrisposto. Alla fine, è stata raccontata in un’epoca in cui le relazioni interraziali erano proibite. – l’osservò e si allungò verso di lei, - Non si possono controllare le emozioni, Samuelle, non puoi scegliere chi amare. Ed è giusto che sia così, perché è questo ciò che vi rende umani, ciò che vi rende vivi. –
- Lo sei anche tu… -
- Meno di quello che potresti pensare. –
La ragazza si premette le mani sulle cuffie che le coprivano le orecchie, come se non volesse sentire. Una lacrima sfuggì dalle ciglia e le scivolò lungo la guancia.
- Alan… -
- Dimmi, Samuelle. -
- Grazie per avermi ascoltata. - si alzò e gli rivolse un sorriso mesto, tirato, - Scusami se ti ho annoiato con le mie chiacchiere… -
- Non mi hai annoiato. -
A fatica si tirò su anche lui e le si mise davanti. Le braccia di Samuelle si stringevano attorno ai suoi fianchi. Tremava, scossa da violenti singhiozzi.
- Grazie per quello che hai fatto. - disse semplicemente il cacciatore.
Quella semplice parola suonava strana persino a lui, eppure sapeva che era l’unica cosa che aveva senso dire in quel momento.
Samuelle lo abbracciò ancora più stretto e nascose il viso nella sua spalla. Le bende, attraverso la maglietta, cominciarono ad inumidirsi.
- Un giorno mi spiegherai come hai fatto a parlare con Meredith. - buttò lì Alan, per sdrammatizzare.
La ragazza annuì sospirando. Lentamente, come se non avesse più forze, lasciò la presa, si girò e si allontanò. Non indugiò nemmeno un istante. Aprì la porta e svanì nel corridoio buio senza mai voltarsi indietro.
Il cacciatore rimase in piedi, osservando i raggi lunari danzare nella stanza, finché non sentì le ginocchia cedergli e fu costretto a sedersi di nuovo.
All'improvviso un bagliore rosato si accese nella tasca del soprabito e il cristallo volteggiò nell’aria, cominciando a plasmarsi in uno specchio liquido e pulsante d’energia magica. Alan si stava già per rimettere in piedi, pronto a parlare con Frejie, quando il prisma ebbe come un sussulto e la voce preoccupata di Angelika emerse dalla luce. 
- Alan… -
- Angelika, ma che diamine…? Perché mi chiami a quest’ora? -
La voce della ragazza era distorta, sfrigolava come i cavi elettrici quando facevano contatto.
- Alan… Midwinter… Frejie è… -
La luce aranciata divenne incerta, debole come la fiamma di una candela lasciata fuori dalla finestra. Poi, davanti al suo sguardo attonito, lo specchio collassò in una nuvola di scintille.
 
Due cavalli alati davano il benvenuto ai passeggeri alla stazione di Chasterm. Si diceva che l’uomo che le avesse costruite, un nano famoso di nome Vumli Sognus, avesse voluto esprimere la sua idea di progresso attraverso quelle figure, che, secondo i più esimi critici d’arte, rappresentavano l’evoluzione tecnica, guidata dalla ragione e dalla volontà. Alan non sapeva se questo fosse vero, ma era più che sicuro che nessun nano avrebbe mai eretto spontaneamente le statue di due cavalli, i nani odiano le cose più alte di loro.
Si guardò nervosamente intorno. Avevano il treno tra una decina di minuti e Maxwell e Rachel non si vedevano ancora.
“Proprio oggi devono essere in ritardo?”
Scosse la testa, incrociò le braccia al petto e sospirò, ignorando le occhiate infastidite degli uomini e delle donne che gli passavano vicino quando si accorgevano che quello che aveva al suo fianco non era un Gemren particolarmente realistico, ma un cavallo riottoso e ben poco incline a spostarsi.
- Dai, Brunilde, su, fai la brava. –
La cavalla obbedì con uno sbuffo. Era rimasta tutta sola per quasi dodici giorni in quella taverna in periferia. Quella mattina, se Alan non fosse arrivato poco prima dell’alba a buttare giù dal letto quel bifolco del proprietario, l’avrebbero venduta o anche macellata. La guardò dritta negli occhi e le accarezzò la criniera scompigliata.
Quella settimana era passata più in fretta di quanto si aspettasse, tra l’operazione, la degenza e la routine quotidiana della gilda che, negli ultimi tre giorni, aveva riaccolto tutti i suoi allievi di ritorno dalle vacanze. Il cacciatore aveva ascoltato le loro chiacchiere per i corridoi e tutti i pettegolezzi che si erano diffusi sui pazienti che soggiornavano in Infermeria, ma mai nessuno si era spinto ad entrare per confermare la veridicità delle voci. Nessuno, parte una ragazzina, che però era scappata urlando quando uno dei vampiri le aveva rivolto un sorriso a trentadue denti con tanto di canini in mostra. Da quel momento non erano più stati disturbati, almeno fino a quella mattina, quando Fergia li aveva fatti alzare presto per sottoporli alle ultime analisi. 
Lui e Rachel si erano ripresi piuttosto bene, la gemma del potere si era unita perfettamente al cuore. Maxwell, invece, faticava ancora a raccapezzarsi di come potesse vedere così bene con la nuova protesi.
L’orologio sulla facciata della stazione scoccò le 11.07 e una voce cordiale annunciò che entro otto minuti il treno diretto nella contea di Readings sarebbe partito. Il cacciatore tirò le briglie e Brunilde, con uno sbuffo innervosito, si avvicinò, appoggiando il muso contro il suo petto, all’altezza del bitorzolo sul cuore.
- Ricorda di non entrare nei campi anti-magia e di non compiere sforzi eccessivi. Cerca di evitare qualsiasi combattimento, gli alcolici assolutamente no e niente fumo. - scimmiottò a bassa voce le parole Fergia, - Sì, già che ci siamo divento vegetariano. - borbottò cupo.
- Sia mai! -
La voce baldanzosa di Maxwell lo fece girare. 
Il suo vecchio maestro camminava con Rachel sottobraccio, osservando il caos della stazione con uno sguardo un po’ perso. Probabilmente ci avrebbe messo un po’ di tempo ad abituarsi ad avere quel coso nell’occhio. La cacciatrice sfoggiava la sua solita espressione impassibile, che contrastava col delicato vestito con vaporose gonne di tulle e trasparenti maniche a sbuffo. Nella mano sinistra stringeva una valigia piena di chissà cosa. Sebastian le svolazzava vicino, con in testa un cartoccio chiuso che emanava un delizioso odore zuccherino. Tale cartoccio destò non solo l’attenzione di Alan, ma anche quella di Brunilde.
- Cosa c’è lì dentro? - domandò curioso, aveva già l'acquolina in bocca.
Maxwell ghignò saputo e aprì la busta: - Allora, i tre muffin sono tutti al cioccolato, mentre le brioche sono tutte alla crema di limone. Vuoi favorire? -
- Non dovevamo mangiare roba sana? - 
- Cosa c’è di più sano dei dolcetti appena sfornati da una pasticceria artigianale? - 
Il Lycan prese un muffin e lo azzannò, sporcandosi tutte le labbra di cioccolato. 
- Ringrazia Rachel, comunque. È stata lei a portarmi lì. - aggiunse.
Alan prese un cornetto e chinò appena la testa, in un silenzioso segno di ringraziamento. La Slayer annuì appena. Era da quando aveva parlato con Samuelle quella notte che non gli rivolgeva mai direttamente la parola e non sapeva se fosse perché la sua amica le aveva raccontato ciò che era accaduto tra loro due o perché si era svegliata con la luna storta. Conoscendo il tipo, non poteva essere sicuro di nulla.
- Attenzione, il treno diretto ad Eartshire delle ore 11.15 partirà tra tre minuti. Tutti i passeggeri sono pregati di avviarsi al binario dodici. -
- Mi sa ci conviene sbrigarci. - osservò Maxwell.
- Sì, non ho assolutamente voglia di aspettare il prossimo tra quattro ore. -
Salirono rapidamente le scale e, incuranti delle occhiatacce e degli improperi che si lasciavano alle spalle, oltrepassarono l’entrata sorvegliata dai Guardiani in divisa.
La stazione, all’interno, era ancora più grande di quanto che il cacciatore ricordasse. La tettoia, composta da cinque volte in ferro e vetro smerigliato, si innalzava al di sopra dei dodici binari, un record considerando che quella di Dranlon ne contava diciotto. Tutti erano più o meno affollati da passeggeri, controllori e mendicanti appoggiati al di sotto dei tabelloni a split-flap, dove le lettere cigolavano sugli ingranaggi arrugginiti segnando l’ora e la destinazione del treno. Sopra le loro teste, cinque grossi ventilatori dissipavano continuamente il vapore e i fumi che saturavano l’aria.
Ovviamente, non potendo correre, i tre arrivarono al treno per il rotto della cuffia. Fendere la folla, in un’altra occasione, sarebbe stato veramente difficile, ma un cavallo palesemente innervosito e l’occhio finto di Maxwell avevano contribuito ad aprir loro la strada. Nemmeno il controllore, un elfo dal viso pulito e l’espressione severa da classico newenglandese fissato con la puntualità, ebbe da ridire quando allo scoccare delle 11.15 Alan chiese di aprire il vagone merci per caricare Brunilde. La cavalla, per quanto fosse di solito un animale calmo e obbediente, non ne voleva sapere di farsi stipare in mezzo a due stalloni e tre giumente di razza, scalpitava e tirava le redini per uscire. Tentò anche di mordere Alan, col risultato che il cacciatore rinunciò a calmarla e, con un gesto scocciato, mollò le redini, per poi scattare fuori prima che Brunilde potesse muovere anche un solo passo.
Quando salì sulla carrozza passeggeri erano ormai le 11.30 passate.
- Finalmente, pensavamo avessi deciso di viaggiare nel vagone merci! - scherzò Maxwell.
- Passami un altro cornetto. - sbuffò in risposta.
Alan si lasciò cadere sul sedile vicino al finestrino, massaggiandosi la radice del naso con aria esasperata. Persino il sapore delizioso della crema al limone non riuscì a fargli tornare il buon umore.
- La signorina chiede se c’è qualcosa che la preoccupa, signor Alan. -
La voce metallica di Sebastian gli picchiò sui nervi.
- Non ho nulla. -
- A lei sembra di sì. - insistette il Gemren.
- Attenzione, prego. Il treno 2367 in partenza al binario 8 partirà con venti minuti di ritardo. Ci scusiamo per il disagio. -
“Ci mancava pure questa…”
- Hai delle brutte occhiaie, tonto. - Maxwell inclinò appena la testa, - Pensi davvero di potermi fregare? Capisco che adesso sono mezzo disabile e mezzo cieco, ma ho ancora un occhio buono. -
Alan non raccolse la provocazione e si limitò a spostare la sua attenzione fuori dal finestrino. 
Da quella sera, Angelika aveva provato a ricontattarlo più volte, ma ogni tentativo si era stato vano. Dubitava ci fosse qualche interferenza magica così forte da impedire il contatto, oppure che Frejie avesse perso le sue doti magiche nelle ultime settimane, però ogni volta lo specchio non aveva fatto in tempo a formarsi che già era collassato. L’unica cosa che Angelika aveva continuato a ripetere era "Midwinter" e Alan suppose si riferisse alla contea di Midwinter.
“C’è qualcosa che non va.”
- Non è niente. Sono solo ancora spossato per l’operazione, tutto qua. - sospirò stanco.
Rachel e Sebastian si scambiarono uno sguardo eloquente. Poi Maxwell chiuse gli occhi e Rachel tirò fuori un libretto con la costa rovinata e le lettere vergate in un oro così scolorito da risultare illeggibili. Dopo nemmeno un minuto, il Lycan si alzò.
- Mi è venuta fame, vado a vedere se c’è qualcosa nel vagone ristorante. –
Senza aggiungere altro, si avviò, serpeggiando in mezzo ai bagagli e ai corpi ansimanti dei ritardatari in mezzo al corridoio.
Alan si appoggiò allo schienale e adagiò la testa contro il vetro, osservando una giovane coppia che si salutava sulla banchina a fianco. La donna, una giovane graziosa con una treccia corta e un capello di velluto a tesa larga, si stringeva a un mezz’orco dagli occhi piccoli e le braccia villose e il collo taurino e forte. I muscoli parevano fatti di pietra, probabilmente induriti dal pesante lavoro in qualche fabbrica. Lei nascondeva il viso nel suo torace ampio e si aggrappava alle sue spalle larghe, le guance annerite dal mascara sciolto, che aveva sporcato la camicia bianca del compagno. Quando lui la lasciò, le porse un fazzoletto con un sorriso rassicurante.
Alan si mise a origliare senza volerlo. Non bastava un vetro così sottile per isolarlo dal mondo. Non con quell’udito, almeno.
- Non voglio partire… - pigolò la donna.
- Oh, dai, ci vedremo ogni mese. Non è un addio, solo un arrivederci. - le passò una mano sulla guancia asciugandole le lacrime e arrotolò una ciocca di capelli attorno al dito.
- Perché sorridi? Sono l’unica che sembra dispiaciuta! -
- Sono felice che tu abbia finalmente ottenuto la borsa di studio che tanto desideravi. Mi mancherai. Da morire. Ma allo stesso tempo sono fiero di te. - la afferrò per i fianchi, la sollevò e la strinse a sé, avvolgendola in un abbraccio dolce e delicato, - Ti aspetterò qui e, se mai avrai bisogno di me, correrò da te. -
- Promesso? -
- Promesso. -
La posò di nuovo a terra e, prima che il controllore chiudesse la porta e il capotreno fischiasse per la partenza, le diede un rapido bacio sulle labbra.
- Non è educazione fissare le persone, le ricorda la signorina. - gracchiò Sebastian.
- Non stavo fissando nessuno. -
Il pipistrello planò sul bracciolo e appoggiò il testone alla spalla della sua padrona: - La signorina dice di sì. -
“Mai che si faccia i cazzi suoi, eh?”
Sospirò e intrecciò le dita sul petto. Quanto tempo era passato da che avevano annunciato il ritardo del treno? Uno, due minuti? Alan non lo sapeva, eppure gli sembrava che il tempo scorresse più lentamente del normale e, se questo da una parte lo innervosiva, dall’altra lo rassicurava, ricordandogli che aveva sempre tempo per scendere.
“Perché dovrei scendere?”
Si morse le labbra e si passò una mano sul petto, sulla collinetta sotto la quale premeva la gemma del potere. Per quanto ci provasse, continuava a pensare alle chiamate di Angelika, alla sua voce intermittente, venata da un sentimento di angoscia che sfociava nella paura. Sembrava supplicarlo, ma Alan non riusciva a capire perché, nè cosa stesse succedendo. Quell’incertezza, quel non sapere, per quanto cercasse di nasconderlo, lo stava logorando.
Un’idea, allora, lo pungolò con prepotenza dai meandri del suo cervello, un’idea piena di implicazioni e che avrebbe portato a delle complicazioni, ma Alan seppe che, in fondo, era quella la cosa giusta da fare. Però, prima, doveva aspettare.
Accavallò le gambe e attese.
- Vado in bagno. – mugugnò infine, alzandosi dopo sette minuti esatti.
- Perché ti porti le armi. – Rachel alzò gli occhi dal libro che stava leggendo.
- Non si sa mai. -
- Cos’hai in mente. –
- Devo solo andare in bagno, il come lo vado a fare non ti deve importare. – sfoggiò il suo ghigno insopportabile, - Devo forse dedurre che vuoi venire con me? Che fai, me lo tieni anche mentre piscio? - 
La cacciatrice sgranò appena gli occhi e lo scrutò per un lungo momento, con una smorfia quasi infastidita sulle labbra. Poi, come previsto, tornò a leggere.
Con calma, Alan arrivò alla fine della carrozza e si mise a fare la coda, calcolando mentalmente quanto mancasse alla partenza.
Otto minuti.
“Midwinter… cosa ci fanno Frejie e Angelika a Midwinter?”
La fila scorreva lentamente. La gente entrava per poi uscire dopo trenta, quaranta secondi. Un uomo ce ne mise centoventi, un altro ancora quasi centoquaranta. Alan contava nella mente il tempo che passava, osservando di tanto in tanto l’orologio apposto alla sua sinistra sopra la porta dell’altro vagone per essere sicuro di non sbagliare. La puntualità, in quel caso, era essenziale.
- Signore, mi scusi… sarebbe il suo turno. -
L’anziana signora che aveva richiamato la sua attenzione era accompagnata da due bambini, entrambi vestiti con dei ridicoli calzoni color grigio topo e un panciotto a doppiopetto che li faceva sembrare più grassi di quello che già erano.
Alan si spostò, facendole cenno di entrare al suo posto. La signora non si fece pregare.
Quattro minuti.
I due operai che stavano controllando le rotaie in testa al treno, si fecero un cenno e si spostarono.
Quando chiuse la porta alle sue spalle, Alan attese altri due minuti, prima di scendere le scale e uscire dal treno. Per sbaglio, urtò il capotreno che gli lanciò un’occhiata truce, prima di fischiare e entrare.
Appena udì i passi dell’uomo allontanarsi, il cacciatore scattò verso il vagone merci, sfogliò nel mazzo di chiavi che aveva appena rubato, infilò quella giusta nel lucchetto e aprì.
Non appena il portellone si spalancò, Brunilde trotterellò fuori, regalandogli un’occhiata piena di risentimento.
- Ehi, tu cosa stai facendo? –
Era il controllore, l’elfo dal viso pulito, inquadrato come tutti i newenglandesi. Alan si voltò e, prima che potesse dire altro, gli tirò una testata in mezzo alla fronte. Il setto nasale si ruppe con uno schiocco sordo, mentre l’elfo cadeva a terra privo di sensi.
Il treno stava già partendo, quando il cacciatore infilò nuovamente il lucchetto e si fece largo tra la folla in groppa a Brunilde.

 


 

Note d'autore, aka I deliri saltuari di Hime

Ciu!

Alors, questo capitolo è venuto più lungo degli altri. Eh... vabbè, dai, il prossimo cercherò di farlo più breve. So che la formattazione non è il massimo, ma ho dovuto fare tutto da cellulare ed è stato un delirio<< Prometto di mettere l'immagine e di aggiustare il tutto non appena mi tornerà a funzionare decentemente internet. Per il resto? Vi è piaciuto? Fatemelo sapere u.u
Un bacione e a presto
Hime

 

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Capitolo 28
*** Act. 3 - Choice ***


Slayers
Act.3 - Choice

 
Fino a un paio di giorni prima, Frejie era convinta che le uniche cose che servissero a una maga fossero due: un cervello acuto e un bell'aspetto. Il primo è indispensabile, perché, come sempre aveva spiegato alle sue allieve, un incantatore deve essere in grado di assimilare e apprendere tutti gli incantesimi, oltre che inventarne di nuovi, a partire da quelli più semplici come accendere una candela o leggere le rune magiche, per arrivare a quelli più complessi, capaci di rendere eroi o tiranni. I maghi più potenti che erano passati alla storia avevano imparato tutti i simboli e i suoni di ogni formula, parola per parola. Nenie antiche, così intricate da risultare incomprensibili ai più, così pericolose che un solo errore avrebbe portato a una catastrofe. Frejie aveva imparato a sue spese quanto fosse importante avere un cervello fino, soprattutto in quelle situazioni. Invece, per quel che riguarda il bell'aspetto, beh, chiunque, dal pescivendolo fino ai grandi sovrani, poteva affermare la sua utilità, ma una maga, soprattutto se donna, ne conosceva fin troppo bene le implicazioni: per poter accedere alle alte cariche, quali consigliere e ambasciatore, una donna doveva essere bella, colta, educata e affascinante. Non era importante se eri un’ottima maga, se eri stata l’allieva di una delle migliori incantatrici e se la persona più potente di New England era una regina e non un re. In quanto donna dovevi essere perfetta, impeccabile e, soprattutto, di bella presenza.
- È inutile che ti sdegni, Velia, non serve a nulla. - soleva dirle la sua maestra quando la sentiva lamentarsi, - Il mondo attuale è governato dagli uomini e dai loro pregiudizi. A noi non rimane che fingere di abbassare la testa, conformarci alle loro regole e sfruttare la loro scarsa capacità di pensare. Ricorda, mia cara: sono pochi quelli che hanno abbastanza sangue per far funzionare contemporaneamente il cervello e il pene. -
Per tutto del suo apprendistato, fino a quando non era entrata nella Dogma, Frejie non aveva fatto altro che incontrare uomini che, per la sua maestra, rappresentavano lo stereotipo del genere maschile: nobili, maghi, politici che traevano divertimento dal cambiare le carte in tavola a proprio piacimento. Questi, però, non erano riusciti a resistere alle sue occhiate languide, al suo modo di accavallare le gambe e di parlare, fingendo di farli sentire importanti.
All’età di diciotto anni, Frejie era stata l’amante di due ambasciatori, e persino della consigliera del conte D’Arden. Per un po’ le era anche andato bene, la riempivano di regali e seguiva attentamente tutte le loro direttive, ma poi avevano cominciato a fare pressioni perché la loro relazione evolvesse in qualcosa di più e lei se n’era dovuta andare.
Grazie ai soldi che aveva guadagnato e alla fama di grande maga che la precedeva, non appena era tornata a casa il padre non aveva potuto opporsi quando aveva invocato il suo diritto a ricevere il maniero di famiglia. Il parente più prossimo, un suo lontano cugino, aveva troppa paura per mettersi contro di lei, una donna forte e fiera che lo squadrava dall’alto in basso con superiorità. Così, alla fine, suo padre aveva dovuto mettere lei come erede diretta nel testamento e, quando si era ritirato a vita privata nella sua villa nella contea del Kyonin, Frejie era diventata la padrona indiscussa di casa Barazethai. A quel punto aveva ottenuto tutto: fama, indipendenza, ma soprattutto bellezza e potere. Le prime erano solo la diretta conseguenza delle seconde, le fiamme che divampavano dalle sue mani quando intonava quelle cantilene di suoni dimenticati.
Ovviamente valeva anche l’opposto: una donna senza un bel viso, senza un sorriso smagliante, un abito elegante e dei bei modi non aveva nulla, se non il rancore verso madre natura per non averla resa idonea a quel mondo. Se, invece, fosse nata possedendo niente eccetto il potere, la situazione sarebbe stata diversa. Ma questo non era il caso di Frejie, per fortuna. 
La maga sospirò, si sollevò appena sulle staffe e si guardò intorno. Giù in basso, ai piedi dell’altura, si snodava un fiume quasi completamente ghiacciato. Al di là di questo, sulla sponda opposta, si estendeva una macchia verde che copriva appena le luci incerte di una cittadina.
Angelika le si affiancò: - Quanto lontano? -
- Poco. Forse ancora un paio d’ore. -
- Fai anche quattro. - la corresse una voce maschile.
Kiol uscì inaspettatamente dalla boscaglia, con foglie e rametti impigliati nei capelli scuri, che gli ricadevano scomposti sulle spalle.
Al contrario della sua allieva, Frejie non si stupì: ormai, riusciva quasi a percepire la sua presenza quando si avvicinava.
- Ne sei sicuro? -
Il cacciatore alzò un sopracciglio e ghignò: - Dubiti di me, makuta? -
- Chiedevo solo per avere conferma. -
Un sorriso sghembo gli arricciò le labbra. Aveva due occhiaie profonde, come se non dormisse da giorni. Eppure, nonostante i segni della stanchezza, la donna lo trovava a suo modo affascinante.
- Faccio strada io. - si offrì Kiol.
Frejie assentì e attese qualche secondo, prima di ordinare con un colpo di reni al cavallo di procedere.
Erano in fuga da sette giorni. L’ombra che li seguiva, quella che aveva tentato di ucciderla sul ponte, stava loro alle calcagna e, anche se non riuscivano né a vederla né a sentirla, sapevano che, se si fossero fermati, li avrebbe raggiunti. Per questo avevano cavalcato giorno e notte per mettere quante più leghe possibili tra loro e quella presenza silenziosa, invisibile, letale. L'avevano percepita quando avevano raggiunto la contea di Vendev, quando si erano accampati al limitare della città di Werlam e quando, il giorno prima, all’alba, avevano guadato il Verdun, il fiume che segnava il confine con la contea di Midwinter. Era sempre alle loro spalle, nascosta nelle tenebre che precedevano il sorgere del sole e ne annunciavano la dipartita.
Frejie non aveva idea di chi potesse essere, ma sapeva fin troppo bene chi fosse il mandante. D’altronde, aveva lavorato alla Dogma per molto tempo, abbastanza da riconoscere il modus operandi dei suoi assassini, Slayer a cui erano state impiantate le carni di creature della notte, che riuscivano a compiere i più efferati omicidi senza lasciare traccia. Era anche per tale ragione che avevano abbandonato la strada a favore boschi. C’era il rischio di imbattersi in qualche mostro, ma la maga preferiva correrlo piuttosto che finire tra le mani degli Slayer, senza la possibilità di poter usare i suoi incantesimi.
“E poi il materiale di cui era fatto quel proiettile…”
Si massaggiò la radice del naso e sospirò, ripensando alle catene di meteryllium che imprigionavano i Makua impazziti, l’odore della carne bruciata che appestava l’aria quando stringevano loro gli anelli ai polsi.
La prima volta che aveva assistito all'“epurazione”, così gli alchimisti della Dogma chiamavano l’eliminazione dei cacciatori che avevano perso il senno, era rimasta sbalordita nel vedere i poteri magici di quegli Slayer completamente soppressi, soffocati da quella lega così simile al lynium. Non si stupiva che la Dogma avesse deciso di utilizzarla per costruire armi.
Se, però, il mandante le era noto, il motivo della caccia ancora le sfuggiva. Era stata attenta quando indagava, discreta come mai nella sua vita e dubitava che fosse dovuta solo a quello.
Si morse le labbra e girò appena il capo, occhieggiando il viso imbronciato di Angelika.
“Non possono volere lei, non ne hanno motivo, a meno che…”
Scosse la testa e tornò a guardare davanti a sé. Duneval era l’unico ad averla vista, ricordò, e probabilmente aveva anche capito qualcosa delle sue capacità. Era stata stupida, stupida e ingenua.
Serrò le mani sulle redini, le strinse così forte da farsi sbiancare le nocche.
Discesero la collina su cui si trovavano e attraversarono il fiume senza problemi: aveva un letto piccolo e le due sponde erano abbastanza vicine da permettere a Frejie di sciogliere il ghiaccio e al cavallo di immergersi fino alle staffe e arrivare dall’altra parte. Ci fu un momento in cui l’animale nitrì e sbuffò, ma bastarono le parole gentili di Kiol e le carezze di Angelika a farlo calmare.
Tenendosi sempre lontano dalla strada maestra, il cacciatore le condusse su un sentiero al limitare del bosco, dove si imbatterono in due conigli, un riccio ribaltato, che Angelika rimise dritto, e un cerbiatto a cui stavano cominciando a crescere le corna. Il rombare delle macchine e il cigolio dei carri si perdeva nell’aria calma del sottobosco in un’eco lontana, un sussurro fioco che si confondeva con il sibilo del vento tra le foglie dei sempreverdi e lo scricchiolio della brina sotto gli zoccoli.
Frejie tirò un sospiro di sollievo e si strinse nel mantello di pelliccia. In quei giorni, il cielo era sempre rimasto coperto da un manto di nubi che minacciavano neve. La fortuna sembrava essere dalla loro parte, ma la maga non riponeva troppa fiducia nella clemenza del tempo, non dopo che quello era stato definito l’inverno più gelido degli ultimi trent’anni, anche se nella contea di Midwinter faceva sempre freddo, indipendentemente dalla stagione. Forse era anche per questo che erano ben pochi i mostri che avevano abitato quei boschi e, ormai, dopo quasi cinquant’anni di caccia, si erano quasi del tutto estinti. I sopravvissuti si erano rifugiati nelle minuscole zone che rimanevano della loro prima casa e si tenevano alla larga dalle strade frequentate.
All'imbrunire, dopo essersi lasciati alle spalle la città di Netke, raggiunsero il confine occidentale del bosco a poche miglia dalla cittadella di Leuwner. Kiol, durante la strada, le aveva informate che da lì avrebbero potuto proseguire agevolmente, nascondendosi nell’ultimo ettaro di bosco che li separava dalla contea Lenth.
In lontananza, a uno dei tanti bivi in cui si biforcava la strada maestra, scorsero le luci incerte di una locanda isolata, circondata solo da un basso steccato e con l’insegna di ferro scrostata che oscillava cigolando sotto l'azione del vento, che era si era fatto sempre più freddo e tagliente mano a mano che le nuvole si ingrigivano. Quando nell’aria cominciarono a vorticare i primi fiocchi di neve, a malincuore Frejie e Kiol concordarono che fosse meglio fermarsi. Anche il cavallo aveva bisogno di riposo e, sebbene ci fosse il rischio di incontrare uno Slayer, la maga confidava che fossero pochi gli avventori di una taverna tanto sperduta.
Kiol si occupò del cavallo di fronte allo sguardo incredulo del garzone, che lo osservava risentito mentre gli toglieva le redini e lo conduceva senza il minimo sforzo nella stalla.
Un sorriso stanco si allargò sulle labbra di Frejie: a vederlo di spalle, con la tunica sdrucita, gli stivali di pelle e l’arco di frassino a tracolla, Kiol sembrava un soldato reale dei tempi andati, uno di quegli uomini che non avevano bisogno di servirsi di altri per prendersi cura della propria cavalcatura.
Quando lui voltò la testa nella sua direzione e i loro occhi si incontrarono, Frejie distolse lo sguardo e si avviò verso la locanda, seguita da Angelika e dalla ormai familiare sensazione di calore che le era rimasta addosso dalla sera di Yule.
Nello stanzone decadente che fungeva da camera comune, nessuno fece caso a loro, forse perché si somigliavano un po’ tutti con i loro abiti malandati e i visi tirati dalla stanchezza.
La padrona della locanda, una donna tarchiata dagli occhi cattivi, offrì loro del semplice stufato senza sale e con poca carne dura, il tutto accompagnato da tre pinte di birra che sapeva di tutto fuorché di luppolo o malto.
Frejie mangiò in silenzio, masticando lentamente, e con la coda dell’occhio osservò gli altri avventori. Come si aspettava, c’erano poche persone, tutti viaggiatori nelle loro stesse condizioni, ad eccezione di un mercante che vestiva con una pregiata tunica di sete preziose. Era anche l’unico in vena di chiacchiere. La maga venne a sapere da lui che nella contea di Antrim era avvenuto un incidente alla gilda dei tecnomanti. Il loro capo, Qayin Terwen, aveva dichiarato che c’era stato un guasto tecnico e che dei fili elettrici avevano fatto contatto causando un’esplosione di energia magica che aveva mandato in frantumi la vetrata dell’edificio. Il sindaco della città di Chasterm confermava la versione ufficiale, anche se molti affermavano di aver visto qualcuno attaccare la gilda. Ma questo non era niente in confronto alle voci spaventose che alcuni suoi amici gli avevano raccontato. Nel nord del Readings, dove una volta sorgeva la città di Eartshire, la costruzione della ferrovia si era fermata. I più sostenevano che fosse tutta una questione di soldi, che l’instabile condizione economica dell’azienda dopo la morte del suo fondatore avesse spinto la Corona a chiudere i rubinetti e a rivalutare la maggior parte dei progetti. Sarebbe stato anche credibile, se tutti nell’alta società non fossero stati a conoscenza dei libri contabili del caro conte, ricchi di pagine e pagine di numeri in negativo nelle entrate e numeri con fin troppi zeri dopo la virgola nelle uscite. Sottolineava, il mercante, che uno dei creditori del conte era un suo carissimo amico, un banchiere nano di Asie, che quando si ubriacava cantava come un usignolo nel periodo degli accoppiamenti.
La verità, dunque, era da ricercarsi in altri luoghi, precisamente nella contea stessa di Readings. I suoi informatori, uomini fidati che lavoravano per lui da anni, gli avevano riferito che nei dintorni delle rovine di Eartshire si aggiravano ombre che correvano a nascondersi nei ruderi della città non appena sorgeva il sole. Nessuno osava avvicinarsi e i pazzi che vi si avventuravano non facevano più ritorno. Gli sembrava quasi la stessa situazione di Ancya da quando quel pazzo di Ianice era salito al potere.
Nella Foussette meridionale, invece, era stato giustiziato pubblicamente un barone che si diceva avesse tenuto un incontro segreto con gli emissari della regina Vittoria. Nel Lyoncés, alcuni mercanti di origini newenglandesi, sostenitori di una politica pacifista, erano spariti improvvisamente assieme alle loro famiglie. Sui confini della Védette e del Saucerre si stava consumando un'aspra guerra fredda e le truppe ancyesi, giorno dopo giorno, vedevano le loro fila farsi sempre più numerose.
Frejie si massaggiò le tempie, distogliendo la sua attenzione dalle chiacchiere del mercante. Era troppo stanca e aveva bisogno di riposare per metabolizzare tutte quelle informazioni per capire se potevano avere una qualche utilità. Gettò una rapida occhiata alla porta e poi si rivolse alla locandiera che, fino a quel momento, non aveva smesso di squadrarla.
- Avete una camera per noi? - le domandò.
La donna le rivolse un sorriso ostile, mettendo in mostra i pochi denti che le rimanevano: - La mia locanda ospita chiunque, madame. -
Aveva una voce gutturale e roca, che faceva a pugni col melodioso accento ancyese.
- Possiamo pagare. -
- Oh, immagino. - posò la caraffa che stava asciugando con uno straccio e la fissò a braccia conserte, - Per soggiornare qui sono quattro raie a testa. Con il pasto che avete consumato fanno sei. -
- La melma e la carne di cuoio che ci ha servito non valgono nemmeno un quarto di quello che ci ha chiesto. -
- Se non le va bene, può sempre andarsene. -
Frejie le rivolse un’occhiata tagliente e schioccò la lingua. Non aveva quella cifra, quando era partita per andare dai druidi si era portata sì e no una ventina di monete e ora non gliene restavano abbastanza per pagare.
- Allora? Cosa avete intenzione di fare? -
- Penso ce ne andremo in città. -
La donna scoppiò in una grassa risata e poi finse di annusare l’aria: - Non penso vi ospiterà nessuno. L’eau de merde non è molto apprezzata. -
Con l’eleganza che la contraddistingueva, Frejie si alzò e sorrise cordiale: - L’eau de merde può essere lavata via, una faccia di merda no. Arrivederci, madame. -  
A quelle parole, Angelika si coprì la bocca e sgranò gli occhi, mentre Kiol ridacchiò, scuotendo la testa.
Quando oltrepassarono la soglia, l’aria fredda della notte li investì con uno schiaffo. La neve vorticava sospinta da un vento gelido che faceva sbattere le imposte delle finestre della locanda.
Con Angelika che le si stringeva al petto, la maga attese che il cacciatore recuperasse il cavallo. Avrebbe tanto voluto usare la magia per scaldarsi, ma preferiva evitare di attirare l’attenzione su di sé. La tempesta di neve celava la presenza del loro inseguitore, ma se c’era anche solo la minima possibilità di far perdere le loro tracce, l’avrebbe sfruttata a suo vantaggio.
“D’altronde, non deve essere facile nemmeno per lui muoversi con questo tempo.”
Affondò le dita nei capelli di Angelika e le accarezzò la schiena per tranquillizzarla. Le sembrava ancor più provata, sebbene i sogni che la tormentavano sembravano essersi calmati. Ogni notte aveva insistito per fare il turno di guardia più lungo e ora aveva delle occhiaie profonde, rese più evidenti dall’incarnato pallido. Gli occhi grandi e verdi come smeraldi erano adombrati da un sentimento che Frejie non riusciva a capire, un misto di angoscia, tristezza e paura.
- Ti manca Peter? -
La ragazza si irrigidì e annuì appena. Era una reazione spontanea che il suo corpo aveva sempre quando le chiedeva cosa le frullasse per la testa.
 - Sentirà la mia mancanza, lì tutto solo a casa… - sussurrò.
- Non credo, penso si sia abituato a stare lontano da te. - sorrise e la studiò di sottecchi, - Non mi stai nascondendo nulla, vero? -
- N-no, perché io nascondere qualcosa? -
Frejie aprì la bocca per rispondere, ma un movimento ai limiti del suo campo visivo la distrasse.
Una donna vestita con abiti maschili, un berretto di lana calcato fin sopra le orecchie e spessi guanti di velluto nero era entrata nel cortile della locanda e in fretta si accingeva a lasciare la sua giumenta pomellata alle cure del giovane garzone. Gli occhi, neri come l’ossidiana, erano velati dalla stanchezza.
Sentendosi osservata, la nuova venuta si girò, si strinse nel mantello scuro e chinò lievemente il capo, la mano destra posata sul piccolo cilindro in noce attaccato alla cintola, con uno stemma inciso sopra. Frejie ricambiò il saluto, ma non distolse subito lo sguardo indagatore, non prima che Kiol tornasse con la loro cavalcatura e la donna svanisse al di là della soglia.
- Qualcosa non va, makuta? -
- Non è niente. - rispose scuotendo la testa e fece cenno ad Angelika di montare in sella.
Non le era sfuggita l’occhiata curiosa del cacciatore, ma non aveva intenzione di fermarsi a parlare.
Mentre si allontanavano verso Leuwner, Frejie continuò a domandarsi cosa ci facesse in quel luogo sperduto un messaggero della Corona.
 
La scritta sul cancello recitava “Il lavoro nobilita gli uomini”. Il vecchio proprietario della fabbrica aveva deciso di far ascrivere il suo personale motto proprio all’entrata, così da esortare i suoi lavoratori a dare sempre il meglio. Almeno questo era ciò che Frejie aveva sentito dire in giro, ma era più che sicura che quelle parole nascondessero un pessimo, cinico senso dell’umorismo.
Fece un ulteriore passo avanti, scrutando attraverso la neve che le turbinava davanti agli occhi quel che rimaneva della prima fabbrica tessile di New England. All’inizio di quella che gli studiosi definivano “Era del Ferro”, Midwinter era stata tra le prime contee ad abbracciare a piene mani la rivoluzione tecnologica e ad accogliere sul suo suolo la costruzione delle fabbriche tessili. Nel giro di pochi anni, la maggior parte dei campi e delle foreste erano stati sostituiti da alti muri di pietra e da casolari, all’interno dei quali viveva la classe operaia, che ogni giorno, dal sorgere del sole fino allo scurirsi del cielo, tesseva i maglioni di lana e cotone che poi venivano mandati nei negozi di tutta New England. Leuwner, nota con il nome di “città della lana”, aveva permesso a molti di svestire il ruolo dei contadini per entrare nell'industria, fornendo un posto di lavoro ai bambini e alle donne delle fin troppe famiglie che faticavano ad arrivare a fine mese. Il precedente sindaco aveva addirittura fatto distruggere le vecchie e rustiche casette di campagna, così da ridisegnare la planimetria della città attorno alla fabbrica.
Sembrava che tutto stesse procedendo per il meglio, quando i mostri avevano attaccato. Era stato un assalto notturno totalmente inaspettato, un fulmine a ciel sereno dopo anni di tranquillità. Nelle strade il sangue era scorso a fiumi e, quando gli Slayers erano arrivati, avevano trovato solo macerie e corpi fatti a pezzi. I pochi sopravvissuti, che si erano nascosti in mezzo ai cadaveri dei loro amici e parenti, si erano trasferiti in altre contee, lasciandosi alle spalle la polvere e la cenere dei roghi che per giorni avevano bruciato, appestando l’aria con l’odore della carne putrescente.
Con un sospiro, Frejie fece cenno a Kiol di avvicinarsi e, mentre il cacciatore apriva il cancello e verificava che non ci fossero minacce nelle imminenti vicinanze, lei e Angelika entrarono nel cortile, dove all’erba secca si mischiavano detriti, spazzatura e ossa di vari animali.  La puzza di umido e di escrementi rendeva l’aria irrespirabile.
Le porte dell’edificio erano state divelte e languivano sotto la neve, appoggiate alla parete esterna, i vetri rotti che costituivano una trasparente chiostra tagliente e il catenaccio che oscillava appeso ai maniglioni ossidati. Tra loro e le nuove porte, due assi di legno probabilmente appartenute a una lunga tavola, non si frappose nessuno, nemmeno quando Kiol le spostò.
- Andiamo. Non penso smetterà di nevicare prima di domattina. - disse impugnando l’arco, dopodiché oltrepassò la soglia.
Dopo un momento di esitazione, Frejie e Angelika gli andarono dietro.
Vapori di vario genere, provenienti dalle lunghe tubature sul soffitto e sul pavimento, turbinavano in spirali grigiastre e maleodoranti, avviluppandosi su se stesse simili alle spire di un serpente. Le lampadine brillavano a intermittenza, oscillando al vento come il pendolo di un vecchio orologio fuori tempo. Sui muri scrostati rimbalzava il suono di uno sgocciolio ritmico, cadenzato, come un rubinetto che perde. Probabilmente, se non avesse visto delle figure umane accovacciate sotto strati di coperte e lenzuola logore, la maga avrebbe definito quel posto desolato.
- Maestra, sicura che sia sicuro? -
Chiese Angelika in un sussurro e, se Frejie non l’avesse avuta così vicino, dubitava che l’avrebbe sentita.
- Sì. Sarà difficile che ci trovi qui. - rispose.
Era abbastanza sicura che gli abitanti della vecchia fabbrica non avessero preso bene la loro intrusione, a giudicare dalle occhiate diffidenti che lanciavano loro, e sapeva fin troppo bene che prima o poi qualcuno avrebbe tentato di fermarli.
Infatti, i guai non tardarono ad arrivare.
- Hey, voi! Cosa ci fate nel nostro territorio? - li apostrofò una voce, proveniente da un corridoio laterale in penombra.
Ad aver parlato era stato un mezzelfo dai capelli tagliati a spazzola e metà del viso butterato. La sua stazza sviluppata lasciava intendere che doveva aver appena passato l’età adulta e, considerando l’olezzo che emanava, dovevano essere giorni, se non mesi, che non si lavava.
Kiol alzò la testa e lo fissò in cagnesco, tendendo la corda dell’arco.
- Siamo qui solo per ripararci dalla tormenta di neve. - disse Frejie.
- E allora perché non avete chiesto in città? -
La domanda l’aveva posta una donna robusta, con le braccia muscolose ricoperte da una folta peluria, probabilmente si trattava di un ibrido di qualche tipo.
- Esatto, perché siete venuti qui? - le fece eco un nano.
- Non avevamo abbastanza soldi. - mentì.
- Mi prendi per scemo? Anche se siete ridotti in pessime condizioni, non sembrate per niente dei poveracci. - annusò l’aria, - No, non siete dei morti di fame come cercate di farmi credere. -
Si era avvicinato abbastanza perché Frejie potesse vedere le labbra screpolate e le gengive sanguinanti nei punti in cui le carie avevano raggiunto il nervo. Storse il naso, disgustata, arretrando appena assieme a Kiol.
- Vogliamo solo un tetto sopra la testa per stanotte. Potete darcelo? -
Un ghigno divertito storse le labbra del mezzelfo, mentre il suo sguardo si posava su Angelika.
- Certo, ma a tutto c’è un prezzo. Se non avete delle monete, potete sempre pagare in natura. -
Frejie strinse i pugni, ma, prima che potesse ribattere, Kiol sputò: - Sei così poco uomo da chiedere del sesso a una ragazzina di nemmeno la metà dei tuoi anni, hawhe-momo? Eppure credevo che le tue radici ti impedissero di abbassarti a questo. -
Il mezzelfo si accigliò, poi sfoderò un coltello da sotto il farsetto e si avvicinò minacciosamente, la lama che brillava alla luce fioca delle lampade.
- Prova a ripeterlo, Ato’oinne. - ringhiò.
Il cacciatore non si scompose, nemmeno quando gli puntò l’arma al petto.
- Hai sentito benissimo. I tuoi genitori, chiunque di loro sia l’elfo che ti ha generato, si staranno rivoltando nella tomba. -
- Taci, tu non sai niente! - sibilò cattivo.
- Conosco l’onore e l’orgoglio della tua gente e so che non umilierebbero mai delle donne bisognose. -
La lama tremò e una ruga d’incertezza segnò la fronte del mezzelfo.
- Una notte sola, nell’angolo più sperduto della fabbrica. Nulla di più, nulla di meno. - continuò Kiol, il braccio teso per lo sforzo, - Domani mattina all’alba, che abbia smesso di nevicare o meno, ce ne andremo. -
L'altro, lentamente, rinfoderò il coltello e indicò loro un punto imprecisato in fondo al corridoio.
- Muovetevi, prima che cambi idea. Il dormitorio è là in fondo. -
Kiol abbassò l’arco e, dopo aver lanciato una rapida occhiata attorno a sé, giusto per essere sicuro che tutti avessero capito, procedette.
Quando si furono allontanati a sufficienza, Angelika abbandonò il braccio di Frejie e gli si affiancò.
- Come facevi a sapere che avrebbe accettato? -
- Non lo sapevo, ho sperato che la miseria non gli avesse imbruttito anche l’anima. - rivelò sorridendo.
La ragazza lo guardò perplessa, poi, quando incontrò l’espressione distesa della sua maestra, sorrise a sua volta.
Il dormitorio alla fine del corridoio non era altro che la vecchia e polverosa sala macchine. In un angolo, su uno sgabello pericolante, sedeva una giovane donna con i capelli biondi arruffati legati in una crocchia sul collo. Allattava un bambino stando vergognosamente girata verso la parete. Accanto a lei dormiva un uomo con un neonato stretto tra le braccia. Vicino alle varie stufe che emettevano un ronzio altresì fastidioso, dormivano, mangiavano e chiacchieravano a bassa voce molte altre persone, che, non appena li videro, si girarono a studiarli, incuriositi e spaventati.
Un nano con la testa mezza rasata alzò la testa dalla sua cena, una minestra di patate e pane raffermo, limitandosi a indicare la parte opposta della stanza. Ignorando gli sguardi degli astanti, i tre andarono a sedersi contro il muro e Frejie quasi si lasciò cadere sul pavimento, sentendo il corpo abbandonarsi al torpore della stanchezza.
- Dovresti dormire vicino al cavallo. - le consigliò Kiol, mentre Angelika accarezzava il muso della saura.
La maga annuì, stringendosi nel mantello. Era sfinita e aveva le palpebre pesanti, ma qualcosa la obbligava a rimanere vigile. La tempesta fuori infuriava, probabilmente anche il loro inseguitore si sarebbe dovuto fermare per quella notte. O almeno lo sperava.
- Maestra, riposa. Qui pensa io e Kiol. - la esortò Angelika, sbadigliando.
- Tu farai la guardia assieme a lui, vero? - mormorò dolcemente.
- Uhm, sì… chiudo gli occhi solo un attimo… -
- Solo un attimo, sì. - sorrise indulgente.
- Un attimo... - ripeté Angelika e sbadigliò di nuovo, rannicchiandosi contro il ventre del cavallo.
Dopo nemmeno un minuto si addormentò, coi capelli biondi e scompigliati sparsi sul pavimento sudicio e le braccia strette al petto come a stringere qualcosa, forse la testa del suo amato Peter. Con un’espressione divertita sul viso, Frejie si allungò per spostarle le ciocche ribelli dietro le orecchie.
- Anche tu hai bisogno di dormire. - insistette il cacciatore.
- Tutti ne avremmo bisogno, ma non possiamo permetterci di abbassare la guardia. Faremo a turno. -
Kiol assentì, traendo un profondo respiro ad occhi chiusi. Aveva posato l’arco e la faretra ai suoi piedi e la mano poggiata alle ginocchia ciondolava proprio sopra di essi.
- Grazie, Kiol. - dichiarò Frejie all'improvviso, scrutandolo dal basso.
L'altro le scoccò un'occhiata confusa. Le dita di Frejie sfiorarono il livido sulla tempia, l’escoriazione violacea che si era procurata quando era caduta da cavallo. Se non era morta quel giorno, lo doveva solo a lui, che, ancora svenuta, l’aveva trascinata al sicuro nella boscaglia.
- Per esserci stato e per essere rimasto. Non eri obbligato. -
- Lo ero, invece. -
- Forse, ma sicuramente non avevi nessun obbligo nei confronti di Angelika. -
Il cacciatore annuì, quindi socchiuse le palpebre spostando lo sguardo a destra e a sinistra. Anche Frejie tese l’orecchio, ma l’unico suono che udì fu l’ululato della tempesta e un risucchio nasale alle sue spalle, seguito da un estatico sospiro di sollievo. Quando si girò, vide il nano con le narici dilatate e la testa appoggiata al muro. Ai suoi piedi, un bicchiere con sul fondo dei grumi lattiginosi.
- Io e te siamo legati dal doppio filo del destino, makuta. - riprese Kiol e, nel dirlo, si aggiustò la cintura, assicurandosi di avere ancora il pugnale al fianco, - Tu non credi nel destino, lo so, non serve che tu lo ribadisca, ma io sono sicuro che il Wyrd ci abbia fatti incontrare per un motivo, e presto o tardi capiremo qual è. -
- La fede rende ciechi. -
- A volte essa coglie la verità ancor prima della ragione. -
Frejie si astenne dal commentare. Avevano discusso spesso, durante quelle lunghe notti insonni, di ciò che era successo nella tenda della Wilm’nis e dell’Hilm’neer, ma non erano mai riusciti a trovare un punto d’accordo. Le loro visioni erano troppo diverse, i loro mondi agli antipodi, distanti come la Terra dal Sole.
- Frejie. -
- Mh? -
- Non ti lascerò. - proferì deciso, allungò la mano e intrecciò forte le dita con le sue, - Non lascerò né te né Angelika. Non l’avrei fatto quando ero un semplice uomo, non lo farò di certo ora. Il Wyrd mi ha legato a te. -
La maga esitò un istante, prima di rispondere: - Potresti morire. Non hai paura? -
Il cacciatore si avvicinò ancora di più e Frejie poté percepire il calore del suo corpo attraverso la veste.
- Potrei dirti che non ne ho, ma sarebbe una bugia. -
- E allora perché ti ostini a seguirmi? -
- Perché più della paura della morte, ho paura di provare rimpianto. -
Nessuno dei due aggiunse altro, avevano esaurito le parole. Rimasero così, stretti l’uno all’altra, con il vento che fischiava tra gli spifferi e il respiro calmo di Angelika.
Il rumore di uno schianto, seguito da urla terrorizzate, li destò all’improvviso. Il cavallo scalciò e si tirò su con un nitrito allarmato, nello stesso momento in cui Frejie apriva gli occhi. Gli abitanti della fabbrica sciamavano impazziti verso i vari corridoi, nel tentativo di mettere quanta più distanza possibile tra loro e la donna che invece avanzava tranquilla, calpestando i corpi degli uomini che rantolavano a terra, le mani premute contro le orecchie sanguinanti.
- Maledizione, ci ha raggiunti. Presto, sbrighiamoci! - sibilò Kiol, tirando bruscamente su Angelika.
Si infilarono nel primo corridoio che trovarono, correndo a perdifiato. Frejie precedeva il cacciatore e Angelika. Il suo mantello frustava l’aria, il cuore le batteva feroce nella cassa toracica e uno stridio insopportabilmente acuto le feriva le orecchie, talmente forte da renderle difficile persino pensare. Ad un tratto, un lampo balenò a un millimetro dalla sua spalla e colpì il muro. Con la coda dell’occhio vide un semplice buco in mezzo alla ragnatela di crepe. Nessun proiettile, solo un foro della grandezza di una piccola sfera.
Ne seguì un altro e un altro ancora, una raffica di pallottole di luce che si disfacevano in scintille incandescenti all’impatto.
Allora, rabbrividendo dalla testa ai piedi, realizzò con cosa avevano a che fare.
“Un Makua!”
Corse più in fretta, fino a quando non percepì i primi crampi alle gambe, avvertendo i suoi peggiori timori farsi largo nella mente frastornata.
Imboccarono delle scale che salivano al secondo piano. Angelika annaspava, Kiol la strattonava senza darle modo di rallentare. Sentivano i passi concitati della Slayer alle loro spalle, sempre più vicina. Udivano pure il suo respiro, controllato e calmo.
Frejie cercò disperatamente di richiamare alla memoria le strofe di un qualsiasi incantesimo protettivo, ma il fischio continuo che aveva nelle orecchie le impediva di concentrarsi e di associare le parole ai suoni giusti. Avrebbe potuto fare un tentativo, ma le probabilità di errore erano troppo alte e il rischio di morire troppo elevato.
- Il… ilne… -
Non fece in tempo a concludere la prima parola, che si pietrificò sul posto, i suoi compagni dietro di lei. Col cuore in gola, vide che il corridoio terminava davanti a una porta, senza più alcuna via di fuga. Si guardò intorno in cerca di una finestra che potesse costituire una possibile uscita, ma i muri erano un’unica, uniforme parete di cemento. Il terrore la pervase, ma non si fece prendere dal panico. Spostò bruscamente Angelika e, mentre Kiol tirava la maniglia della porta nel tentativo di aprirla, serrò le dita su di essa e pronunciò velocemente l'incantesimo. Le gemme sulla schiena si illuminarono e un calore insopportabile le invase le membra, un dolore così atroce che le fece tremare le ginocchia e le annebbiò la vista. La serratura scattò e la maga quasi cadde a terra quando si aprì. Si sentì trascinare via, riconobbe le mani piccole e callose di Angelika, il calore del suo corpo gracile e spaventato, mentre Kiol si richiudeva la porta alle spalle. Un istante più tardi, una pioggia di colpi si abbatterono su quella sottile barriera di legno e rimbombarono come tuoni nel silenzio di quella stanzetta piena di detriti, calcinacci e pezzi di muro.
- Maestra! Maestra! -
La voce di Angelika non era altro che un sussurro lontano, un’eco indistinta, rispetto a quel ronzio assordante che spingeva contro i timpani come se volesse sfondarglieli. La guardò da sotto le ciglia, vide le labbra tremare e le guance arrossate per la corsa inumidirsi sotto la carezza delle lacrime. Era Angelika che volevano, ma lei non gliel’avrebbe consegnata.
“Fosse anche l'ultima cosa che faccio.”
Si tirò su a fatica, asciugandosi il sangue che le colava dal naso col dorso della mano. Puntò lo sguardo su Kiol, che teneva sotto tiro la porta, i cui cardini tremavano sotto gli attacchi del nemico. Bastò un’occhiata per intendersi e la maga scorse la sua stessa dolorosa consapevolezza negli occhi di lui.
- Devi andartene, Angelika. - ordinò autoritaria e gentile al medesimo tempo.
Pronunciò quelle parole lentamente, per essere sicura che la sua allieva capisse. Mentre si alzava e le si parava davanti, vide la ragazza impietrirsi.
- No! Voi venire con me! -
Supplicò in silenzio Frejie e Kiol, rivolgendo loro una smorfia così afflitta da far male. Ma il cacciatore rimase impassibile, la bocca stretta in una sottile e pallida linea.
La porta cigolò di nuovo e tutta la struttura minacciò di essere divelta, come in un terremoto. Probabilmente c’erano delle occlusioni di meteryllium nel ferro, altrimenti avrebbe già ceduto da un pezzo.
- Non… non potere… - balbettò smarrita.
- Non discutere ora. - le intimò Frejie e aprì e chiuse le mani più e più volte per farsi forza e impedirsi di correre ad abbracciarla, - Tu devi sopravvivere, Angelika, devi andartene ora che puoi. -
- Ma se vado, voi... -
Il pomello saltò e sbatté fragorosamente a terra.
Kiol indietreggiò di scatto, tendendo l’arco fino al limite, mentre volute di energia verde si attorcigliavano sulle sue braccia e si avviluppavano in una pulsante sfera sulla punta della freccia.
Frejie diede alla sua allieva un frettoloso bacio sulla fronte, tentando di imprimervi tutta la dolcezza e la delicatezza che sarebbero servite ad Angelika per sconfiggere la paura di perderla per sempre.
- Non moriremo, tranquilla. - la rassicurò e sperò che l'altra non fiutasse la bugia.
- Davvero? -
La maga annuì solenne, ingoiando il groppo d’angoscia che le attanagliava la gola. Quindi prese il cristallo di localizzazione dal sacchetto delle monte e glielo mise in mano. Le sorrise incoraggiante, poi si girò e andò ad affiancare Kiol. Il cacciatore le lanciò una lunga occhiata, ma non disse nulla: sapeva che sarebbe stato inutile, ormai Frejie aveva preso la sua decisione.
Frejie gli fu estremamente grata del suo silenzio. Chiuse gli occhi, inspirò profondamente e lasciò che il potere delle gemme la pervadesse.
Un secondo più tardi, la porta cedette di schianto.

 


 

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Capitolo 29
*** Act. 3 - Flight ***


Slayers
Act.3 - Flight

Il mezzelfo Calathes era alto, superava di parecchio il metro e ottanta d’altezza. I capelli, tanto chiari da sembrare bianchi, erano legati in una lunga coda di cavallo, che ondeggiava sulla schiena a ogni spiffero di vento. Gli occhi grigio-verdi, grandi e a mandorla, e le orecchie leggermente appuntite denotavano la sua natura di mezzosangue. Stava appoggiato alla parete della torre dell’orologio a braccia conserte, sistemandosi spesso le due falde della redingote. Lui stesso aveva scelto il luogo dell’appuntamento e, su richiesta del cliente, un alto funzionario dell’amministrazione, aveva optato per uno molto affollato, lontano dagli occhi e dalle orecchie indiscrete che pullulavano nelle stradine e nei locali di Chasterm, in cui avrebbero potuto passare inosservati. Peccato che era circa mezz’ora che attendeva e non era ancora arrivato nessuno.
Sospirò e tirò nuovamente fuori l’orologio da taschino, trattenendo un moto di stizza quando vide che le lancette segnavano le dodici e un quarto.
“Un’ora e dieci di ritardo.”
- Capo, mi sa che qui non arriva nessuno. -
- Non ho chiesto la tua opinione, Pulce. -
La mezzelfa al suo fianco sbuffò, prese il pacchetto di sigarette dai calzoni e con uno schiocco di dita ne accese una. Era poco più bassa di lui e aveva la pelle olivastra e gli occhi grandi e scuri, tipici delle popolazioni costiere.
- Certo che, con tutte le precauzioni che abbiamo preso, poteva degnarsi di mandare qualcuno, no? - insisté col suo solito tono insolente.
Calathes alzò gli occhi al cielo: - Sarebbe comunque venuto qualcun altro. Sono uomini di un certo calibro quelli che riforniamo. -
Pulce fece spallucce, sottolineando il suo disinteresse per l’argomento.
- Arriverà qualcuno. - aggiunse dopo un istante, - Ormai ha finito la scorta del mese. -
Con noncuranza si accarezzò il petto all’altezza del cuore, dove teneva la busta con circa cinquanta milligrammi di Akosmia. Socchiuse le palpebre e si godette il tiepido calore del sole. Sì, era sicuro che qualcuno sarebbe arrivato, erano stati il viso sudato e le mani tremanti del funzionario a dargli quella certezza. E se non si fosse presentato, avrebbero fatto un prezzo di favore alle puttane di Levenshulme. Sicuramente, rifletté, anche madame Bouvarìe avrebbe dovuto rifornirsi in quei giorni.
In quel momento, lo scalpiccio di un cavallo attirò la sua attenzione. Calathes si esibì in un sorrisetto soddisfatto, ma l’uomo con i capelli scompigliati bianchi e rossi e il lungo soprabito sdrucito che lo raggiunse non era il funzionario. Prima che Pulce potesse tirar fuori la pistola e lui potesse dire qualcosa, lo sconosciuto saltò giù di sella e, senza tante cerimonie, gli mise in mano le redini, assieme a un sacchetto di monete piuttosto pesante.
- Tra, diciamo, tre giorni metti il cavallo sul primo treno diretto a Readings e di’ al capotreno di lasciarlo nella casa bianca di fianco alla stazione. -
I due mezzelfi si scambiarono un rapido sguardo d’intesa, ma prima che Calathes potesse sfoggiare il suo famoso ghigno minaccioso, le pupille dello sconosciuto divennero due fessure verticali e le labbra un’unica, pallida linea sottile. Non c’era alcuna emozione in quello sguardo da predatore.
- Hai capito quello che devi fare? -
La voce era fredda, non permetteva repliche. Calathes annuì e così anche Pulce, i visi terrei, il cuore in gola.
- Bene. Lì dentro c’è il denaro per il viaggio e una piccola ricompensa per il vostro gentile servizio. - gli si accostò all’orecchio e si scoprì il collo, mettendo in mostra i segni di un morso recente, - Sappi che sono un amico molto stretto di Qayin, il capo della gilda dei tecnomanti, giusto perché non ti venga in mente di tentare di fregarmi. -
Il mezzelfo sussultò quando udì quel nome.
- Chi… chi mi dice che non stai mentendo? - balbettò.
- Puoi credermi oppure andare direttamente da Qayin a chiedergli la natura del nostro rapporto. Penso sarà felice di parlarvene, anche se non apprezza che si metta in dubbio il suo operato. Sapete, è un uomo che tiene molto alla propria immagine. Quindi volete che andiamo subito da lui per chiarire, col rischio che vi stacchi la testa dal collo, o preferite scattare? -
Pulce deglutì a vuoto e Calathes e si ritrovò a scuotere il capo con veemenza.
Lo sconosciuto lo fissò intensamente, per poi rivolgere la sua attenzione a Pulce, che ancora teneva la mano sul calcio della pistola. Non disse nulla, non servì. La mezzelfa lasciò ricadere il braccio lungo il fianco.
- Fantastico, vedo che ci siamo accordati. Spero non ci siano intoppi di alcun genere. - un sorriso sgradevole gli arcuò le labbra e a Calathes si gelò il sangue nelle vene.
Quando sparì tra la folla, i due mezzelfi tornarono a respirare. Il cavallo nitrì e tirò le redini, infastidito da tutto quel via vai di persone attorno a loro.
- Chi era quello? - domandò Pulce.
- Non lo so. Di sicuro qualcuno che spero di non rivedere mai più. -
Quando si girò, si imbatté nella faccia confusa dell’attendente del funzionario, che si stava avvicinando. Calathes inspirò profondamente, assumendo l’espressione più calma e impassibile del suo repertorio, e sperò di concludere l'affare in fretta.
 
Alan rientrò nella stazione quasi correndo, facendosi largo in mezzo alla folla a spintoni e a gomitate, lo sguardo rivolto in alto, sui tabelloni delle partenze nazionali. L’aeronave diretta a Midwinter sarebbe decollata dal Gate 4 tra un’ora e lui non aveva abbastanza soldi per salirci. Imprecò tra i denti, maledicendo la tirchieria della Dogma e la propria tendenza a sperperare denaro in dolci e birra. Avanzò lungo il corridoio col pavimento a mosaico, l’orecchio teso per captare frammenti di conversazione utili.
- Accidenti, siamo in ritardo! Sbrigati, stanno per chiudere il Gate. -
- Oh, tesoro, è uscita la nuova collezione di Madema Alère. Guarda che bello quel collier! -
- Ah, anche tu sei qui per l’inaugurazione del nuovo progetto Hildagarde 3? -
- Mi sembra ovvio, non posso di certo farmi scappare una cosa del genere! Un paio di foto ben piazzate e il capo sarà costretto a darmi la promozione. -
“Non posso essere l’unico stronzo che vuole andare lì, andiamo!”
Fingendo indifferenza, si appoggiò alla parete vicino a una libreria, facendo saettare lo sguardo a destra e a sinistra come se stesse aspettando qualcuno. Di tanto in tanto percepiva gli occhi dei gendarmi su di sé, ma li ignorò.
La stazione di Chasterm era una delle più celebri di New England. Era stata rimodernata per ospitare, oltre i treni, anche le grandi aeronavi e, dopo circa vent’anni di progetti e lavori, la città poteva vantare uno dei più grandi centri nevralgici dei trasporti, con partenze e arrivi provenienti da ogni dove. Dalle due rampe di scale ai lati della biglietteria fluiva una folla continua, un torrente umano che si muoveva in ambedue le direzioni, parlando, dissertando e berciando in una cacofonia linguistica talmente varia, che persino per lui era difficile afferrare qualche parola di senso compiuto.
Con la coda dell’occhio teneva sotto controllo le lancette dell’orologio centrale, quello che era settato sul fuso orario di Dranlon, mascherando il nervosismo crescente dietro una maschera d’impassibilità che si incrinava ogni minuto di più. Provava una voglia incontenibile di andare al secondo piano, sbattere controllori e guardie a terra e salire sull’aeronave con o senza biglietto, ma la ragione e il buonsenso lo trattenevano, ricordandogli che il piano che aveva ideato poteva dare risultati di gran lunga migliori e, soprattutto, utili alla sua causa se avesse evitato azioni impulsive.
- Papà, dobbiamo davvero andare a trovare il nonno? Midwinter è lontanissima! -
- Ti ho già detto di sì. -
- Ma io non voglio! -
Il bambino che si era lamentato strattonò la mano dell’uomo al suo fianco, che in risposta gli assestò uno scappellotto che lo fece barcollare. Non era forte, ma bastò per fargli venire le lacrime agli occhi e abbassare lo sguardo mortificato.
- Quanto sei manesco, Richard. Guarda, l’hai fatto quasi piangere! - lo rimproverò la donna che era con loro, probabilmente la madre, che si affrettò a prendere in braccio l'infante e a cullarlo.
- Tu sei troppo buona con tuo figlio. -
- Si dà il caso che questo sia anche figlio tuo, Richard. -
- Se piange per così poco, si vede che non è sangue del mio sangue, Maddie cara. -
La donna avvampò oltraggiata e il suo viso, dapprima indispettito, si deformò in una smorfia che a stento celava la rabbia. Alan non dovette attendere molto, prima che i due cominciassero a litigare.
Camminò nella loro direzione, le mani dentro le tasche e gli occhi fissi sui biglietti ripiegati nella tasca dei pantaloni dell'uomo.
Quando fu a una decina di passi, il bambino scoppiò a piangere.
- Vedi? Lo hai fatto piangere, vergognati! -
- Lo avrebbe fatto comunque, piange sempre. -
- Piange perché tu lo tratti sempre male. -
- Stai zitta, Maddie, o giuro che… -
Non terminò la frase, perché Alan lo urtò. Ovviamente per sbaglio.
- Oh, scusatemi, non vi ho visto. Stavo guardando i tabelloni e… -
Richard lo fulminò con un'occhiata omicida, massaggiandosi la spalla. Il bambino, invece, lo guardò con occhi sgranati, pieni di sorpresa e curiosità. Aveva le iridi verde-oro, come quelle dei gatti.
- La prossima volta state più attento. - borbottò e si spazzolò la giacca, senza nemmeno premurarsi di nascondere l’espressione schifata, - Potreste non incontrare un gentiluomo paziente come me. -
- Avete ragione, perdonatemi. - fece un lieve inchino con la testa e sorrise affabile.
Poi, sempre con le mani in tasca, si diresse verso le scale alla sua destra. Una volta al piano superiore, si girò per controllare sui tabelloni delle partenze nazionali se non ci fossero stati dei cambiamenti. Infine guardò i tre biglietti: partenza da Chasterm e arrivo a Queen’s Sky, la città più grande di Midwinter. Si diresse verso il Gate 4 e, dopo che il controllore gli ebbe obliterato il biglietto e lui gli ebbe mostrato l’emblema della Dogma, passò oltre.
Un tetto di ferro e vetro smerigliato copriva il lungo marciapiede lastricato con il mosaico della bandiera nazionale newenglandese, tre croci rosse in campo blu, e le dieci banchine, che si innalzavano in ampie scalinate fino all’altezza dello scafo delle aeronavi. Dei bracci metallici e delle spesse catene di lynium sostenevano caravelle con un ampio castello di poppa e un grande pallone aerostatico, galeoni con casseri e polene elegantemente ornati e caracche più simili a velieri da guerra che a navi commerciali. I passeggeri salivano a bordo e gli aeromarinai facevano gli ultimi controlli al timone e ai flap prima della partenza. Alla sua destra, al Gate 10, c’era un grande assembramento di persone, tutte raccolte attorno a un elegante vascello con i alti pennoni, alberi e verghe in abete, che svettavano verso il soffitto con le vele spiegate, ricamate con l’emblema della corona. Sotto la polena dal viso di una splendida sirena, sullo scafo di legno scuro, era stato inciso il nome “Hildagarde”.
“Sarà bella quanto vi pare, ma io preferisco Brunilde.”
Avvicinandosi alla sua aeronave, Alan scorse il capitano, un uomo dall’ispida barba nera, intento a parlare con quello che intuì essere il tecnomante della nave, uno gnomo dai baffi giallo zafferano e furbi occhi azzurri. Quando passò loro accanto, udì qualche frammento di conversazione che gli fece capire che non c’era niente che non andasse. Anzi, erano in perfetto orario e avevano il vento a loro favore.
Si appoggiò alla balaustra e fissò il vuoto sotto a sé.
Gli ultimi passeggeri salirono sull’aeronave e il capitano diede l’ordine di sciogliere gli ormeggi. Nell’aria riecheggiò lo schiocco dei bracci metallici e la bassa vibrazione della magia che passava nelle catene, dissolvendole in schegge di luce, mentre, contemporaneamente, le eliche a prua si attivavano e il pallone aerostatico si sollevava, tendendo le mille corde che lo sostenevano in diagonali perfette. L’aeronave decollò, sospinta da un potere silenzioso, e si lasciò alle spalle la stazione. Il silenzio, interrotto solo dal ronzio delle eliche, dal saltuario movimento dei flap e dal chiacchiericcio di sottocoperta, divenne il padrone incontrastato della nave. Di tanto in tanto, il vento portava la voce stridula di qualche madre o gli ordini di un aeromarinaio, che rimproverava i bambini di non tirare le cinghie dei paracadute. Alan ne aveva contati una cinquantina, appesi lungo il parapetto.
Il primo giorno sostarono a Minbirgham. Attraccarono sul far della sera e, mentre l'equipaggio si occupava di riempire il pallone con l’elio e il tecnomante scendeva sottocoperta per verificare le condizioni del motore, i passeggeri poterono uscire dalle cabine per rifocillarsi. A bordo c’erano le cucine, ma la loro aeronave, come d’altronde quasi tutte quelle di proprietà dello stato, non era abbastanza avanzata per offrire cibo più sofisticato di panini e porridge da riscaldare. Alcuni rimasero all’interno delle loro cuccette, altri, la maggior parte, decisero di andare a farsi un giro nella stazione di Minbirgham.
Anche Alan scese, più per scaricare la tensione che per vera necessità. Non aveva fame, aveva giusto mangiato della pasta scotta per non arrivare a stomaco vuoto a cena. L’unica cosa che gli interessava era arrivare a Midwinter e trovare Frejie e Angelika per assicurarsi che stessero bene e confermare che la sua era stata solo una sensazione, una paranoia dettata dalla stanchezza e dagli eventi degli ultimi tempi.
Sospirò e si stropicciò gli occhi: era a malapena passato il primo giorno e già si sentiva sfinito per via dell'angoscia che gli serrava la gola e la bocca dello stomaco.
Dopo aver fatto il giro di tutta la stazione per ben sei volte, si decise e risalire sull’aeronave. I pochi uomini svegli, per lo più aeromarinai alle prese con la manutenzione, lo guardarono appena, per poi tornare subito al lavoro. Probabilmente non era il primo Slayer che avevano visto a bordo nella loro carriera.
Ripartirono all’alba della mattina seguente. Il controllore, una donna piatta come una tavola e con la pelle dorata per il sole e per il vento, obliterò il biglietto dei precedenti passeggeri con una seconda tacca, che contrassegnava la partenza dalla nuova stazione.
Quando si alzarono in volo, Alan udì due aeromarinai discutere del tempo: il più vecchio sentiva nelle ossa che sarebbe peggiorato. Il suo ascoltatore, un giovane nano con la barba che non gli arrivava nemmeno alla cintola, se ne andò ridendo a giocare a scacchi sottocoperta.
Poco dopo, in lontananza, si stagliò il profilo scuro e minaccioso di nuvole temporalesche, che non tardarono a rovesciare loro addosso una tempesta di grandine e pioggia. Dal letto della sua cuccetta, il cacciatore osservò i rigoli d’acqua che scivolavano sul vetro doppio dell'oblò, lo sguardo fisso sul cielo nero che avrebbe accompagnato il loro viaggio. A Midwinter nevicava sempre, si diceva, e quello non era altro che un assaggio di ciò che lo aspettava.
A notte fonda, quando il temporale si fu trasformato in una semplice pioggerella fastidiosa, Alan si alzò e scese nella vecchia stiva, dove sapeva essere situata la sala macchine. Nessuno gli disse nulla o provò a fermarlo, forse perché, come poi constatò, una barriera magica invisibile bloccava l’accesso al cuore del vascello. Al di là di quel muro invalicabile, c’era un cristallo arancione alto circa due metri, che splendeva di una luce calda e quasi abbagliante. Attorno ad esso, immerso in mezzo a cavi, macchine strane e sbuffi di vapore, si muoveva il tecnomante. Lo vide tirare leve, oliare cilindri e pistoni e controllare le lancette dei due motori impiantati nel pavimento, gli occhi che guizzavano dalla valvola della pressione principale alle altre decine poste sugli ingranaggi, che sembravano costituire le pareti stesse di quella stanza.
Lo gnomo non sembrò accorgersi di lui, o forse non ci fece caso, e lasciò che lo Slayer lo osservasse mentre lavorava. Non tentò di cacciarlo e Alan gliene fu profondamente grato, curioso com'era di vedere un tecnomante all'opera.
Il terzo giorno, giunti alla stazione di King’s Lam nel tardo pomeriggio, il cacciatore andò a farsi un giro nella stazione della città, una struttura che constava di una trentina di piani impilati l’uno sull’altro come i massi di un antico torrione. Come potesse tenersi in piedi una cosa del genere, questo era per Alan un mistero.
Forse fu il viavai continuo di gente a spingerlo a tornare sottocoperta prima del tempo. Oppure, molto semplicemente, il bisogno di tenere occupata la mente e il corpo. Quando viveva alla fortezza di Mohor, gli bastava prendere la spada ed esercitarsi, non c’era giorno in cui mancasse di allenarsi. Alle volte lo faceva perché gli veniva imposto, altre, la maggior parte, per scacciare dai muscoli e dai pensieri l’odioso intorpidimento delle emozioni, quella sensazione di gelo che lo assaliva quando si rendeva conto di cosa aveva lasciato a casa. Di cosa avrebbe perso, se non fosse mai tornato. Adesso, a distanza di anni, rimpiangeva i silenziosi campi d’allenamento della rocca. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter tenersi in forma e distrarsi dalle continue domande a cui avrebbe dovuto trovare la risposta da sé.
Si appoggiò alla parete di fronte alla porta della sala macchine, rimanendo lì fino al calar della sera. Presto, però, cominciò a sentire gli occhi pesanti e decise di tornare in cabina. Quando si stese sul letto e chiuse gli occhi, il sonno sciolse il nervosismo e l’ansia nel delicato torpore del sogno.
 
Quando si svegliò, constatò con stupore di essere ancora vivo. Non ricordava bene come fosse arrivato in quel letto - l’unica cosa di cui era certo era che il cane della signora Finnigan era un bastardo in tutto e per tutto -, ma il gonfiore sulla gamba e le contusioni sulle braccia erano un chiaro indizio. Il fatto che fosse ancora vivo significava che aveva vinto.
Con un notevole sforzo, si issò sui gomiti e si guardò intorno, catturando i dettagli della stanza in penombra, stranamente familiari. C'era una libreria stracolma di pergamene e vecchi tomi, un tappeto colorato con un medaglione circondato da papaveri rossi, un pesante lampadario di ottone adornato con cristalli squadrati, uno scrigno intagliato a mano, aperto su una grossa scrivania cosparsa di rune, sotto la finestra.
Sorrise e fece per alzarsi. In quel momento, la porta si accostò e una mano invisibile lo sospinse di nuovo disteso sul materasso.
- Stai fermo. -
Quello di Velia era un ordine, non un suggerimento.
L'elfa si stagliò sulla soglia della camera, lo scrutò severa per qualche attimo ed entrò. Prese posto su una sedia di fianco al letto, con gesti naturali e automatici. Forse, pensò distrattamente Alan, non era la prima volta che veniva a vedere come stava.
- Cosa è successo? - la interrogò confuso.
Il viso della maga si indurì in una smorfia stizzita: - Come al solito, hai lasciato il cervello a casa prima di uscire. -
- Non hai risposto alla domanda. -
Velia sospirò e volse lo sguardo verso la finestra. La luce crepuscolare le illuminava parzialmente il viso, mettendo in risalto i lineamenti delicati e il sinuoso drago d’argento che, partendo dal lobo, si arrampicava su tutto l’orecchio destro.
- Sappi solo che stavi per spaccarti la testa. -
Alan ghignò, serrando e distendendo le dita ritmicamente. Amava quel materasso e il profumo fresco di resina e fiori d’acanto che emanavano le lenzuola, l’aveva sempre trovato rilassante fin da quando aveva messo piede per la prima volta in casa Barazethai.
La porta si aprì di nuovo scricchiolando e la signora Elith entrò con in mano una tazza di porcellana fumante.
- Hai fatto quello che ti ho chiesto? - le domandò la sua padrona.
La donna annuì, appoggiando la tazza sul comodino e rivolgendole un sorriso affabile. Il corpetto aderente metteva in risalto il seno delicato e le piccole mani, intrecciate sul grembo, quasi sparivano nelle ampie maniche e sottomaniche in battista, piene di ricami.
- Va bene, puoi andare. Me la vedo io. -
La serva chinò lievemente il capo e, in un frusciare di gonne, sparì così com’era arrivata. Alan la seguì con lo sguardo finché non chiuse la porta e il suono dei suoi passi si perse nell’eco del corridoio.
- Perché la tenete ancora con voi? Pensavo che tuo padre non ne volesse sapere di… -
- Mio padre ha cambiato idea. - lo interruppe in tono secco, quello che usava quando non voleva essere contrariata, - Ora prendi la tazza e bevi. Piano, a piccoli sorsi, sennò ti strozzi. -
Nel liquido Alan riconobbe il sapore del ginepro e della menta. Era un infuso che la madre di Eluaise, la loro madre, gli preparava sempre quando si svegliava in preda agli incubi nel cuore della notte, quando il calore di Elly non bastava a scacciare i demoni nascosti nelle lunghe ombre della stanza. Sorseggiò l’infuso lentamente, concentrandosi per capire quali altre erbe fossero state aggiunte. Ravvisò il gusto acre della calendula, quello fresco dell’anice e quello leggermente piccante della caienna. Ad ogni sorso, percepiva i suoi muscoli rilassarsi sotto la pelle e il dolore alle braccia e alle gambe divenne solo un semplice formicolio.
- Mio padre voleva mandarla via, ma mi sono imposta. - disse Velia, riallacciandosi al discorso precedente, - Non ha più una famiglia, non è giusto che dopo quasi due secoli di servizio presso la casata dei Barazethai sia lasciata a morire da sola. -
Alan annuì e posò la tazza sul comodino. Il conte Lanliss Barazethai era un uomo freddo e autoritario. Non lo aveva visto spesso, ma sapeva quanto fosse poco piacevole la sua compagnia. E anche quanto Velia avesse preso da lui.
L'elfa si alzò in piedi e si diresse verso il camino per ravvivare il fuoco con l’attizzatoio. Le fiamme crepitarono e si levarono in alto, lambendo fameliche l’enorme ceppo. La fuliggine e la cenere vorticarono e si incendiarono, brillando come lucciole, per poi ricadere in un grigio nevischio sulla brace accesa.
Il cacciatore si mise a sedere e approfittò della luce per osservare la sua amica. Il vestito che indossava, una lunga veste dal colletto alto, abbottonata con alamari e bottoni che scendevano delineando una spezzata linea dorata fin sotto l’ascella, mettevano in risalto la sua figura snella, la vita stretta e le gambe lunghe, affusolate, sensuali eppure ancora sottili, come quelle della bambina con cui aveva giocato fino a qualche anno prima. I capelli neri e lisci ricadevano sulle spalle, legati in una semplice coda, che metteva in mostra le leggere orecchie a punta. La carezza liquida delle fiamme si spegneva in quella serica chioma corvina e riluceva sulle ciocche sfuggite alla costrizione delle forcine e dell’elastico, spandendosi i bagliori caldi, rapide pennellate di luce in un invernale mare notturno.
Quando lei si voltò, Alan non si prese nemmeno il disturbo di fingere di guardare altrove. Velia amava avere gli occhi degli altri puntati addosso, le piaceva essere al centro dell’attenzione e detestava la falsa modestia. Sapeva di essere bella e, anche se disprezzava profondamente il sangue elfico che l’aveva generata, non poteva che compiacersi delle occhiate che catturava nelle strade di Eartshire e da lui. Soprattutto da lui.
- Hai fatto bene a non dargliela vinta. Se il tuo desiderio era tenerla al tuo fianco, non vedo perché tuo padre dovesse impedirtelo. - riuscì a dire con voce ferma.
Il sorriso che arricciò le labbra di Velia gli fece intuire di aver detto la cosa giusta. La vide camminare verso di lui ancheggiando appena, i due profondi spacchi laterali che lasciavano intravedere il laccio della biancheria nera.
- Quando hai la Prova? - gli domandò, sedendosi sul bordo del letto.
- Tra circa sette mesi. -
La maga annuì lievemente e Alan si abbandonò a un’imprecazione sottovoce quando avvertì una fitta. Sì, decisamente, il cane della signora Finnigan, un Baubau grosso e massiccio quasi quanto un lupo, era un gran bastardo. Un gran bastardo morto, ma pur sempre un gran bastardo.
- È la gamba. - svolse le bende e arricciò il naso, - Stai fermo, adesso passa. -
Il cacciatore percepì un’improvvisa ondata di calore diffondersi in tutto il corpo, mentre il dolore sulla coscia cominciava a scemare. La pelle in quel punto tirava, sembrava che potesse spaccarsi da un momento all’altro, ma i punti di sutura erano stati fatti da mani esperte.
- Purtroppo non posso fare più di così. Anche il chierico, dopo aver estratto il veleno e averti medicato, mi ha raccomandato di tenerti a riposo. -
Alan sospirò e chiuse gli occhi. In realtà non era stanco, non più di quanto non lo fosse dopo i duri allenamenti con i maestri della rocca, ma non voleva più guardarla, non voleva più darle la soddisfazione di incontrare i suoi occhi. Così rimase immobile, sotto la carezza languida dello sguardo di Velia, che, con calcolata noncuranza, aveva accavallato le gambe. Lo faceva sempre quando stava riflettendo su qualcosa.
- Non te la sei cavata male. - disse dopo un po'.
- Ci alleniamo per questo. Se bastasse un Baubau ad ammazzarmi, non varrei nulla. -
- Non ho dubbi sul tuo valore, ma resta il fatto che non hai ancora affrontato la Prova. -
- La chiamano così, però non è la prima caccia. Se lo fosse, probabilmente ora staresti raccogliendo i pezzi del mio cadavere. - replicò con una risata stanca, - Credevi davvero che non mi fossi mai trovato faccia a faccia con un mostro prima d’ora? -
- A giudicare dalla ferita che ti sei procurato, sì. -
- Era così grave? -
- Abbastanza da far sbiancare il chierico che è venuto qui, soprattutto quando ha visto che i lembi di pelle stavano cominciando a ricongiungersi da sé. - spostò lo sguardo dalla gamba alle altre contusioni, - Il fatto che tu sia uno Slayer, ha detto, non è sufficiente a spiegare come tu abbia fatto a sopravvivere. -
Alan non rispose e l'elfa inarcò con eleganza un sopracciglio.
- La prima cosa che ha notato è stato il polso che pulsava quattro volte più lento di quello di una persona normale. Eppure non sarebbe servito, se non avessi avuto in circolo almeno due o tre litri di sangue in più rispetto a un uomo. Non eri pallido quando sei arrivato, almeno non più di quanto tu lo sia già. Però eri divorato dalla febbre, una febbre talmente violenta da farti delirare. Non hai idea di quante farneticazioni mi sia sorbita. -
Il cacciatore socchiuse le palpebre. Era esausto, l'infuso stava iniziando a fare effetto. Doveva riposare, così da essere in piena forma quando Eluaise sarebbe arrivata ad Eartshire. Aveva bisogno di vederla, di baciarla, di stringere le sue mani piccole e soffici.
- C’è una cosa che ha attirato la mia attenzione. - continuò Velia.
- Cosa? -
- A un certo punto hai detto “Elly, ti prego, non morire”. Ho pensato che la febbre ti stesse facendo di nuovo sragionare, ma l’hai ripetuto spesso, come se fosse un ricordo ricorrente, uno scherzo crudele della memoria. -
- Non me lo ricordo. - borbottò, stringendo i pugni sulle coperte.
- Menti. -
- Non sono cose che ti riguardano. - grugnì irritato.
- Potrei intrufolarmi nella tua testolina per ottenere le risposte. -
- Fallo, allora. - la sfidò, trafiggendola con un’occhiata gelida.
L’espressione di Velia era imperscrutabile, una maschera di granito che celava a stento il fastidio, ma Alan non si scompose. Era il loro segreto, suo e di Eluaise, e lui aveva promesso di mantenerlo.
Dopo un lungo silenzio, Velia si alzò di scatto, ma il movimento rimase incompiuto, arrestato ancor prima che le gambe si distendessero. Si rilassò di nuovo, abbozzò un sorriso e gli prese la mano tra le proprie.  Le fiamme danzarono sul profilo delicato del piccolo naso, del mento stretto, delle labbra ben disegnate. Alan non si ritrasse e lei non provò a continuare la conversazione. Non sarebbe servito, erano due testardi. Le parole, come al solito, avrebbero solo rovinato tutto.
- Vuoi che me ne vada? -
- No. -
Da fuori, forse dal teatro all’aperto, si innalzò la voce di una donna, chiara e alta. Quando Alan era arrivato in città, aveva visto che stavano facendo le prove per lo spettacolo “Le mille notti alla corte del re”.
La donna stava dicendo: - Dimmi, cos'è l'amore? Forse tu sai spiegarmelo, tu che di quest'arte conosci i migliori artifici e le tecniche più eleganti. Forse tu mi sai spiegare come fa Amore a irretire l'anima, a vincere le battaglie più aspre; mi saprai dire perché ogni volta che ti guardo, il cuor mi balza in gola. Ti prego, Amore, dimmi, dimmi quante maschere ha questo famoso saltimbanco: è il riso traditore di una dama nascosta dietro l'angolo, è l'albore che avvolge dolcemente il cielo, è il sole che incendiò i campi e le spighe dorate, è il pianto d’ un uomo dal cuore insanguinato? Amore è davvero delirio, follia, salto nel vuoto. È un istinto irrefrenabile, una forza che travolge cuore e anima e corpo. È una malattia che s'insinua attraverso gli occhi, è un assassino col pugnale sempre arrossato. E il cuore non trova scampo a questo continuo tormento: sanguina percosso, frustato, straziato. Amore è contraddizione. Perché io ti amo e ti odio, fuggo e inesorabilmente torno da te, da te che sei la mia condanna e la mia salvezza. - 
- Alan… - lo richiamò l'elfa, distogliendolo dal monologo.
Il cacciatore percepì una strana titubanza. Incuriosito, si girò a guardarla e riconobbe nella smorfia amareggiata una profonda tristezza. Poi lei sciolse la stretta sulla sua mano e passò le dita sul suo avambraccio in una carezza delicata, incerta, come se temesse che lui si ritraesse.
- Scusami, Velia, ma non posso rispondere alle tue domande. -
- Non puoi o non vuoi? -
- È un segreto, ho promesso di mantenerlo. -
La maga assentì e spostò l'attenzione sulle fiamme. Avevano consumato quasi del tutto il ceppo e la brace ardente si stava lentamente spegnendo.
La voce di un giovane uomo sostituì quella della donna e decantò: - Mia dama, voi mi chiedete di dirvi cosa sia l’amore. Nessuno conosce Amore, nemmeno i cantastorie più famosi, e se dicono il contrario, mentono. Anche io ho mentito, non sono altro che un bugiardo, un tessitore di trame che da quando vi ha incontrato è diventato un’ombra, un povero attore che si pavoneggia sul palco per poi svanire senza che se ne sappia più niente. Mia signora, non guardatemi con quegli occhi di stella, non piangete, questo povero bardo non merita le vostre lacrime. V’amo, v’amo follemente. Se foste una contadinella o una gitana dall’ampia gonna, v’amerei anche ora sotto il viso candido della luna, contro la pietra intrecciata d’edera, con le spalle rivolte ai passanti che ci segnano a dito, ridendo e sussurrando di noi e del vizio chiamato Amore. V’amerei come s’ama la prima pioggia estiva e la prima nevicata dell’infanzia, con le mani giunte sull’altare degli antichi e dei profani e la fronte distesa dalle tristi rughe. V’amerei come i ragazzi si amano all’ombra dei cipressi, ancora più lontani della notte, molto più in alto del giorno, nell’abbagliante splendore del loro amore. Ma sono solo un bardo, mia signora, canto l’amore senza che Amore da me giunga mai. -
- Tu credi nel destino, Alan? - riprese Velia.
- Eh? Uhm, sì, direi di sì. -
La maga indugiò sul suo viso, gli occhi socchiusi e il riflesso delle fiamme inglobato nelle iridi celesti: - Credi all’esistenza del filo rosso? Il filo che si dice leghi indissolubilmente due persone? -
- Sì. - rispose sicuro.
- È per questo che stai sempre con Eluaise? Pensi che lei ti sia destinata? -
Quell’ultima domanda la sibilò tra i denti, rotolò fuori dalle sue labbra in un sussurro così basso che, se non fosse stato per il suo udito ipersviluppato, Alan non l’avrebbe colta. Il vento fece stormire le foglie e si introdusse nella camera, facendo scoppiettare il fuoco.
La risposta della principessa dal cuore spezzato scivolò nella stanza, struggente e carica d'emozioni: - Col cuore in mano, una sola cosa ti chiedo: che tu ricordi il mio nome tra i mille che hai scritti nella memoria, così che, quando andrai via, il tuo pensiero tornerà a me, alle notti trascorse tra le lenzuola profumate di resina e di acanto, alle stanze ventose piene di sussurri, alla principessa di popoli senza re. Che tu possa avere, Amore, sempre il vento in poppa, che tu venga sempre baciato dal sole e che il vento del Destino, di quello stesso Destino che mi ha legata per sempre a te ancor prima che nascessi, ti porti in alto a danzar con le stelle. Addio, Amore, che gli occhi degli Dei veglino su di te. -
Alan ascoltò in silenzio. Velia, appurando che non avrebbe mai appagato la sua fame di conoscenza, desistette da ogni altro tentativo di farlo parlare. Andò alla finestra e ammirò il panorama. Poi si voltò di nuovo con espressione seria, determinata. Quando parlò, non c’era esitazione nella sua voce.
- Il Destino non esiste, Alan. È una forza inventata dagli uomini per trovare qualcosa su cui scaricare la responsabilità dei loro fallimenti. Non posso credere all’esistenza di un’entità che ha instillato in me questi sentimenti ancor prima che nascessi, che potessi incontrarti. E se anche questa forza esistesse e avesse deciso cosa fare della mia vita, la combatterei. Quel che provo per te è mio e soltanto mio, così come il desiderio di averti al mio fianco. E un giorno ti avrò, ne sono sicura. -
Un sorriso divertito arricciò le labbra del cacciatore: - Sempre per una questione d’orgoglio? -
- Mio caro, non esiste battaglia che io non possa vincere, o traguardo che non possa varcare. - sorrise sensuale e gli scoccò un'occhiata penetrante.
 
Un grido acuto e il calpestio frenetico nei corridoi delle cuccette lo destarono dal sonno. Alan sbarrò gli occhi e si tirò seduto, la mente ancora annebbiata e i sensi intorpiditi. Per un istante valutò di distendersi di nuovo e tornare a dormire, ma il rumore si era fatto talmente insistente che non poté far altro che alzarsi. Afferrò la spada ai piedi del letto e corse sul ponte.
Dapprima non capì cosa tutti i passeggeri e gli aeromarinai stessero guardando, quale fosse l’evento fenomenale che li teneva tutti lì, assiepati contro le balaustre, con gli occhi sgranati e il terrore dipinto sul viso, così li imitò e guardò anche lui.
Il corpo di una donna si era materializzato nel vuoto, a due metri dell’aeronave. Le lingue d’energia verde, simili a sinuosi serpenti d’acqua, le volteggiavano freneticamente intorno, come se la volessero sostenere, disperdendosi al vento in cenere evanescente.
“Frejie?”
Si fece largo a spallate, spostando le persone che aveva davanti senza curarsi dei borbottii e delle imprecazioni, il cuore in gola e gli occhi puntati in alto, sulle lunghe ciocche bionde che le volteggiavano davanti al viso, mentre il vento le gonfiava la tunica scura e priva di ornamenti.
Quando anche l’ultima lingua d’energia cominciò a dissolversi, la sconosciuta scrollò la testa e allungò le braccia nella direzione della nave, muovendo le mani avanti e indietro, come se stesse tirando a sé un filo invisibile. Quando un refolo d’aria le scoprì il viso, il cacciatore vide due occhi verdi, spalancati e pieni di paura.
Fu allora che Alan capì. E fu allora che Angelika cominciò a precipitare invocando il suo nome. Intorno a lui si scatenò il panico.
- Oddio, si schianterà! Che qualcuno la salvi! -
- Fermate i motori! Dove sono i soccorsi?! Presto! -
Urla, caos, agitazione, isteria. Un'esplosione di suoni riecheggiò su tutto il ponte. C'erano uomini che correvano, donne che cercavano di proteggere i loro figli dalla bolgia, bambini che additavano verso il basso, ma Alan non vi badò. C’erano solo lui e Angelika che cadeva nel vuoto.
Fu il suo corpo ad agire, prima ancora che la mente e il buon senso potessero imporre un freno, prima che chiunque potesse anche solo immaginare cosa sarebbe successo. Lasciò cadere a terra la balestra, si legò il fodero della spada alla cintola, lo strinse bene per essere sicuro che non cadesse, e afferrò un paracadute, stringendo le cinghie attorno al petto e alla pancia.
Alle sue spalle c’era un uomo grasso alle sue spalle che gli riservò uno sguardo trasecolato, senza riuscire ad articolare una parola o dare l'allarme agli aeromarinai che sfrecciavano qua e là. Esalò appena un grugnito quando Alan lo spinse via, scaraventandolo addosso alla folla. Il suo peso fu più che sufficiente per mandare una decina di persone a terra come birilli.
Quando saltò sul parapetto, percepì gli occhi degli astanti su di sé. Esitò giusto una frazione di secondo, poi con uno slancio si tuffò nel vuoto. Il vento gli fischiava nelle orecchie, la velocità gli feriva gli occhi, ma strinse i denti e si irrigidì. La gravità e la spinta lo trascinarono giù, verso Angelika, che stava già protendendo la mano. Le loro dita si sfiorarono un istante, cercando di ghermirsi a vicenda. Dopodiché, quelle del cacciatore si serrarono attorno al polso della ragazza ed entrambi tirarono un sospiro di sollievo. Tuttavia, non ebbero il tempo di esultare o rilassarsi.
All’improvviso, nell'aria si diffuse un boato assordante e una colonna di fuoco squarciò le nuvole, avviluppandosi nel cielo, simile a un drago di lava e fiamme.

 


 

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Capitolo 30
*** Act. 3 - The Last Goodbye ***


Slayers
Act.3 - The Last Goodbye

Nel momento stesso in cui Angelika si teletrasportò, la porta cedette di schianto e la Slayer andò loro incontro con passo leggero, il mantello che svolazzava dietro di lei simile alle ali di un drago e le scimitarre sguainate ben strette nelle mani, coperte da guanti aderenti. I capelli corti e neri nascondevano appena le cicatrici sulle guance e sulla fronte.
- Dov’è l’Oracolo? - li interrogò senza perdere tempo.
La sua voce era atona, inespressiva come il suo viso.
- Al sicuro. - rispose Frejie.
Gli occhi azzurri risplendevano di un’intensa luce violetta e le labbra erano piegate in una smorfia sofferente a causa il ronzio, quel maledetto ronzio che sembrava volerle lacerare i timpani.
La Slayer si guardò intorno, scandagliando la stanza alla ricerca del suo bersaglio. Probabilmente, prima di entrare, si era avvolta in un incantesimo capace di vedere le creature e gli oggettivi invisibili. Schioccò la lingua irritata e spostò lo sguardo prima su Frejie, poi su Kiol, infine sul punto in cui fino a un istante prima c’era Angelika.
- Immagino che non sarete così collaborativi da dirmi dove l’avete mandata. -
I due tacquero.
- Come volete. - mulinò le lame e fece un altro passo, - Mi basta che solo uno di voi due sopravviva, per cavargli le informazioni. -
Nello stesso momento in cui scattò, la freccia di Kiol sibilò nell’aria e un fulmine globulare guizzò nella sua direzione. La Slayer balzò di lato, piroettando con la grazia di un gatto. Il muro dietro di lei esplose e una ragnatela di crepe si aprì sulla parete nel punto d’impatto dell’incantesimo, mentre la freccia s’infranse in un fragore assordante sullo scudo di energia che la circondava.
Il ronzio perforò le orecchie di Frejie, che indietreggiò stordita fino al muro, il fiato che le fuggiva dai polmoni. Quando rialzò lo sguardo, con la vista offuscata e il sapore del sangue sulla lingua, vide che il combattimento era già ricominciato: Kiol che aveva lasciato cadere l’arco per impugnare la spada, avvolta da una guaina di pulsante energia verde, e stava affrontando colpo su colpo l'avversaria.
Inghiottendo la bile acida che le serrava la gola, la maga mosse rapidamente le mani e un lampo accecante solcò il pavimento, disintegrando nel suo passaggio i calcinacci e i frammenti a terra. Kiol balzò di lato in tempo, menando un fendente circolare al basso ventre della donna nell’esatto istante in cui Frejie lanciò un secondo dardo, che riuscì ad abbattere la barriera attorno alla cacciatrice. Come se lo avesse previsto, quella si scansò, piroettò di nuovo e balzò addosso a Kiol incalzandolo con rapido colpo a croce, e poi un altro e un altro ancora.
Frejie osservava quasi ipnotizzata dai movimenti fluidi delle lame, che si scontravano, sibilavano e sprigionavano un nugolo di scintille. Le scimitarre della Slayer fendevano l’aria veloci e letali, alternando stoccate precise a dei giri di polso che le permettevano di passare agilmente dalla difesa all’attacco, in una danza di finte e affondi che confondeva, imbrogliava. Con il viso sudato e le sopracciglia aggrottate per la concentrazione, Kiol respingeva i suoi colpi uno dietro l’altro, cercando e sottraendosi allo scontro ogniqualvolta si vedeva in svantaggio.
Così Frejie ebbe modo di studiare quella donna, di osservare le sue labbra che rimanevano serrate e immobili. Non era lei a emettere quel ronzio, ora ne era più che certa. Si guardò intorno, facendo saettare lo sguardo nella stanza alla ricerca di un’altra presenza, ma i suoi occhi non potevano individuare un essere invisibile, non senza l’uso della magia. La testa le doleva talmente tanto, che persino gli incantesimi più facili le sembravano impossibili da ricordare. Strinse le palpebre e tentò di attingere al potere delle gemme sulla schiena. Prese un profondo respiro, buttando fuori i rumori del mondo e invocando il silenzio, come la sua maestra le aveva insegnato. Con un sospiro che era quasi un gemito, evocò l’immagine di un’oscurità calda e morbida come il sonno e lasciò che essa la pervadesse, placando la sua mente in subbuglio. Il buio l’avvolse, bloccò il ronzio che la circondava e, pian piano, Frejie riacquistò la lucidità sufficiente per dar fondo al potere delle gemme. Non dovette nemmeno impartire il comando, l’energia magica fluì a lei in modo naturale, squarciando quel velo nero con un’esplosione di luce violacea.
Quando riaprì gli occhi, le lingue di fuoco nero che le serpeggiavano attorno alle braccia aderirono alla pelle in un grosso tatuaggio di arabeschi e rune.
- Kiol, attento! -
Kiol scattò indietro, riprese l’arco e le si affiancò, mentre uno scudo d’aria vorticante lo circondava. La Slayer e la maga si scambiarono un rapido sguardo, uno sguardo che Frejie interpretò come il guanto bianco di una sfida, anche se in quelle vacue biglie scure non si leggeva altro che un gelido disinteresse. 
Frejie mosse il braccio destro davanti a sé, mentre con la mano sinistra descriveva le rune nell’aria in un semicerchio d’energia che si propagò come una nube tempestosa. Poi essa si concretizzò in stalagmiti cristalline, che si conficcarono a terra svanendo nel pavimento quando la cacciatrice spiccò un balzo e i loro corpi si teletrasportarono fuori dalla fabbrica, sotto il nevischio che aveva imbiancato le strade deserte della città.
Allora la maga si afferrò i polsi con entrambe le mani, piegando le braccia fin quasi a far toccare i gomiti, i nervi tesi allo spasmo, il sangue pregno di potere che defluiva dalla schiena fino al mosaico di rune e arabeschi sulla pelle. Un istante dopo, quando rilasciò i muscoli, il terreno tremò.
Risuonò una deflagrazione, le finestre della fabbrica esplosero fragorosamente in un tintinnio assordante di vetri in frantumi, le fiamme avvilupparono la struttura e si unirono in un drago di fuoco e lava che si erse fino al cielo, per poi ripiombare a fauci spalancate sulle mura sventrate dall’onda d’urto. L’eco riecheggiò nell’aria, i palazzi adiacenti vennero scossi con violenza e le fondamenta si sfaldarono.
Con il fiato mozzo, Frejie si girò verso Kiol, che aveva già imbracciato l’arco mirando a una stradina laterale, da dove uscì tranquilla la cacciatrice, con gli abiti perfettamente intatti e le scimitarre che brillavano nei foderi d’ebano placcato in lynium e argento. Man mano che avanzava, il ronzio si articolò in un canto soave e scivolò come veleno corrosivo nelle orecchie della maga.
Kiol si frappose tra lei e la Slayer, che li stava raggiungendo. 
A un tratto, la sua immagine si fece sfocata e si moltiplicò in altre identiche tra loro. Kiol si raddrizzò e incoccò restando immobile, simile a una vera e propria statua, un dio cervo in spoglie mortali.
Quando le donne furono a portata, lasciò andare la corda. La prima copia venne colpita al petto. Sussultò e sputò sangue, lo sguardo sconvolto fisso sulla freccia che la trapassava da parte a parte. La seconda copia venne scaraventata all’indietro e picchiò forte la testa contro la strada, sporcando i ciottoli di sangue e materia cerebrale. Nessuna di loro emise alcun gemito, prima di svanire in granelli di sabbia rossa. Ma altre sopraggiunsero, sempre più numerose.
“Maledizione, ma quante sono?”
- Spostati! - sbraitò Kiol, afferrando Frejie per un braccio.
Dalla strada, una pioggia di dardi blu saettò dalle mani delle copie. Frejie saltò di lato, gesticolando rapidamente per creare uno scudo magico, mentre il cacciatore non fece una piega. La sua barriera vibrava come se si stesse per rompere, sfrigolando sotto gli innumerevoli impatti. 
Kiol, intanto, rimaneva fermo, concentrato sui suoi bersagli, materializzando le frecce direttamente tra corda e dita. Cercava con gli occhi l’originale, quella il cui canto annichiliva le capacità della sua compagna. Scoccò l'ennesima freccia, si udì un tonfo e un’altra copia cadde a terra, schizzando i piedi delle compagne di sangue, per poi tramutarsi in sabbia.
- Non riesci a riconoscere quella vera? - domandò a Frejie, pregando di ricevere una risposta positiva.
Un dardo esplose ai suoi piedi, ricoprendo la barriera di polvere e neve. Kiol scosse la testa, scostandosi dalla faccia i capelli, e prese di nuovo la mira.
Frejie spostò febbrilmente lo sguardo in mezzo al gruppo delle cinque copie rimaste, provando a richiamare a sé le parole per invocare la vista magica. Percepì di nuovo un sapore ferroso bagnarle le labbra. Presto il potere delle gemme si impossessò dei suoi occhi.
- Colpisci quella alla tua sinistra. - disse sicura.
La corda si tese di nuovo, la freccia venne scoccata e un’altra Slayer svanì nel vento. Il canto, però, non cessò affatto, come un coro che, nonostante le poche voci rimaste ad intonarlo, non perdeva d’intensità. 
Con immensa fatica, Frejie mantenne la concentrazione sull’incantesimo e sulla guancia sfregiata della Slayer dove erano state incise le Rune del Comando, che, normalmente, emanavano un’aura magica.
- Quella al centro. -
Il cacciatore scoccò. Il contraccolpo fu talmente violento, che la copia rimbalzò sul terreno come una bambola di stracci.
- Kiol, allontanati, sono troppo vicini. -
- Dimmi quali sono le ultime due. -
Frejie innalzò uno scudo per proteggerli da un’altra scarica di dardi, digrignando i denti per lo sforzo: - Quella davanti a te e l’ultima là in fondo. Non puoi farcela. -
Lui non l’ascoltò. Assordata dallo scoppio frenetico dell’incantesimo nemico, Frejie lo vide tendere la corda al massimo, con le piumette verdi delle due frecce che gli sfioravano la faccia e l’occhio destro chiuso per prendere la mira.
Una palla di fuoco si dissolse contro la barriera. Attraverso le fiamme che si sfilacciavano nell’aria, la maga scorse una scarica elettrica percorrere l'arco. Attese ancora qualche istante, il tempo che le tre arrivassero a meno di trenta passi da loro, poi scoccò.
La copia davanti morì sul colpo: la freccia le trapassò la gola, spegnendo l’ultima nota in un rigurgito di sangue. L’altra freccia colpì la Slayer in fondo al gruppetto, conficcandosi nel basso ventre e uscendole dalla schiena. Smise di cantare e si piegò in ginocchio stringendosi la pancia, mentre il suo corpo cominciava già a disperdersi in granelli rossi. L’ultima rimasta sguainò le scimitarre e corse loro addosso nel momento stesso in cui Kiol lasciò cadere l’arco.
Il canto si interruppe un istante, si abbassò di tono e ritornò ad essere un fastidioso ronzio.
Un movimento ai margini del suo campo visivo attirò l’attenzione di Frejie. Dalle macerie della fabbrica emerse dapprima un’ombra sfocata, che man mano che si avvicinava all’entrata assunse sempre di più una forma umana. Infine la luce del sole illuminò il profilo di una donna con i corti capelli neri e gli occhi simili a vacue biglie scure.
“Adesso qual è l’originale?”
Si morse le labbra e tentò di concentrarsi sulle rune incise sulla guancia, ma la Slayer, così com’era apparsa, svanì prima che cominciasse l’incantesimo. Il ronzio divenne di nuovo forte, crebbe così tanto d’intensità da diventare insopportabile anche per Kiol.
Questi indietreggiò, parando appena il fendente della sua avversaria, l’espressione del viso distorta in una smorfia sofferente. Frejie si girò verso la Slayer e le lanciò contro un fulmine globulare. Le orecchie le sanguinavano e la testa le pulsava dolorosamente, ormai era un'impresa restare lucida. Poi, urlando furiosamente, dalle sue mani partì un groviglio di fili viola che la frustarono via, lontana da Kiol. La Slayer incassò le prime sferzate, poi con un fendente circolare recise i fili e la bersagliò con un fulmine che la maga respinse creando uno scudo di fiamme e lava. Dall’incontro della lama con il magma rovente scaturì un lampo accecante e un’onda d’urto che scaraventò entrambe a terra.
La Slayer, tuttavia, non attaccò e svanì insieme all’altra copia. Per un istante il canto parve interrompersi, ma subito dopo si innalzò ancora in un acuto da soprano.
“Maledizione, dov'è?!”
Non fece in tempo a rialzarsi, che apparve alle loro spalle. Aveva i vestiti bruciati, ma la pelle sotto i brandelli del corsetto e del mantello era perfettamente intatta.
Kiol la caricò. Incrociò la lama del pugnale con quella della prima scimitarra, la fece scivolare, tentando di farle perdere la presa con una brusca torsione del polso, ma dovette retrocedere per schivare un affondo mortale. Fu un errore. La Slayer gli saltò addosso e gli assestò una gomitata nello sterno. Frejie sentì l’agghiacciante scricchiolio delle ossa che si rompevano. Il corpo di Kiol venne scaraventato contro il palo della luce. Il ferro, usurato dal freddo e dalle intemperie, si incrinò e il braccio che sorreggeva una corona di vetri si schiantò a terra.
Frejie riuscì giusto a creare uno scudo magico attorno a lui, poi dovette allontanarsi per schivare le fiamme mugghianti che la sorpresero da sinistra. Ma non fu sufficientemente veloce e il fuoco le lambì il braccio. Nell’aria si diffuse il puzzo di pelle bruciata. Per un istante, rimase paralizzata dal dolore. Quando rialzò lo sguardo, vide le due Slayer che continuavano a sparire a intermittenza. Avevano un'espressione sprezzante, come se la stessero deridendo.
Facendo appello alla sua forza di volontà, la maga sollevò il capo, cominciando a scandire una formula magica. Non aveva tempo per capire quale delle due fosse l’originale, doveva eliminarle entrambe. Un lampo si sprigionò dalle sue mani e si divise a metà, dirigendosi contro i suoi due bersagli.
La cacciatrice di sinistra, prima di svanire, riprese a cantare, mentre l’altra creò una sfera magica su cui il dardo rimbalzò. D’un tratto, prima che potesse fare alcunché, Frejie si sentì afferrare e stritolare da una forza invisibile. Si irrigidì e urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Non sapeva chi fosse stata delle due a lanciare l’incantesimo e pensare le era impossibile. I pensieri si sfilacciavano e l’assenza d’ossigeno le bruciava la gola e le offuscava la vista. Si dibatté per incalcolabili secondi, poi le forze l'abbandonarono. Cadde al suolo con un gemito sommesso, il sangue che le usciva dal naso e dalle labbra e le tingeva di rosso il collo e i capelli. 
Kiol aggredì la Slayer ancora visibile, la lama verde parallela al braccio pronta a colpire. Imprecò sputando un grumo di saliva mista a sangue sulla neve, quando un fendente lo raggiunse al fianco. Si allontanò in tempo per evitare il secondo colpo. Brandì il suo pugnale e mirò poco sotto il costato dell'avversaria, ma l’affondo andò a vuoto. Quella svanì in un battito di ciglia e, nel medesimo istante, la gemella apparve dietro il cacciatore. Lo investì con un’ondata di energia magica, che lo scaraventò contro il muro della fabbrica. Kiol tentò di rialzarsi, boccheggiò in cerca d’aria, ma i muscoli non obbedirono ai suoi comandi. La Slayer gli si avvicinò, le scimitarre che brillavano di un bianco accecante.
- Non è necessario che tu viva. - gli disse con voce incolore, - Ma se nella testa della tua amica non ci saranno tutte le informazioni che cerchiamo, scandaglieremo anche il tuo cervello. -
Kiol inspirò profondamente e strinse le dita attorno al pugnale. La lunga lama verde creata dalla magia tremolava sempre di più, frammentandosi ad ogni suo rauco respiro.
- Te lo chiederò un’ultima volta: dov’è l’Oracolo? -
Il cacciatore ridacchiò, la scrutò dal basso, sfidandola, e sputò. La Slayer guardò appena il grumo rosso che le sporcava gli stivali, quindi gli diede un calcio sul polso, così forte da fargli perdere la presa sull’arma, che volteggiò via.
- Kiol, vattene! - gridò Frejie.
Fece leva sulle braccia tremanti, si rimise in piedi e cercò di avvicinarsi al suo compagno, ma non ce la faceva, ogni passo era un martirio e ben presto crollò sulle ginocchia. Il canto l'assordava, le rimbombava nella testa raschiandole il cervello. Emise un urlo disperato, frustrato, rabbioso. Aveva ancora energia per un ultimo incantesimo, che però avrebbe portato alla morte anche Kiol. 
Vide la Slayer rinserrare la presa sulle scimitarre. Contro ogni pronostico, anche il cacciatore si alzò, proprio quando al fianco della maga comparve la gemella. Non cantava più, forse perché pensava che lei non avrebbe più opposto resistenza. E Frejie non scappò, incapace di agire, le dita tremanti e le membra stanche. Kiol incrociò il suo sguardo e annuì debolmente, le labbra arcuate in un sorriso amaro e determinato assieme. Quella era la cosa giusta da fare, lo sapevano entrambi, lei più di chiunque altro.
Il vento soffiò nelle strade desolate, fece turbinare i fiocchi di neve, disperdendoli come soffici petali di bianchi. Mentre Frejie concentrava la magia delle gemme nelle mani, quello stesso vento portò via le parole che Kiol gli aveva affidato, sperando in cuor suo che le sentisse, che i loro occhi si trovassero nuovamente. Ma non importava, non più ormai.
Quando la Slayer lo trafisse con entrambe le spade, Kiol esalò appena un rantolo. Si piegò sulle gambe, scosso da un tremito. Quando l’afferrò per i polsi, Frejie capì che era il momento di agire. Il dolore al braccio scemò e i tatuaggi si allungarono su tutta la pelle, descrivendo su di essa un groviglio caotico di simboli. La magia l’avvolse, divenne un tutt’uno con il suo essere e il suo corpo divenne pura energia.
La Slayer al suo fianco indietreggiò e aumentò l'intensità del canto, ma stavolta la sua voce non poteva più scalfirla. Frejie spalancò le braccia, permise al suo potere di fluire e materializzarsi in un’onda d’urto che la scaraventò lontano come se fosse stata colpita da un ariete. La cacciatrice sbatté contro il muro della fabbrica, al fianco della sua compagna che si stava dimenando per liberarsi dalla stretta di Kiol.
- Frejie, ora! -
La maga protese le mani davanti, le allargò e poi le chiuse a pugno. Il vento si piegò al suo feroce comando e ghermì Kiol e le due Slayer in catene fumose, trascinandole dentro un vortice d’aria e fuoco viola verso di lei. Le vide dibattersi, lottare per liberarsi, le gambe che scalciavano, la bocca aperta ad intonare ancora quella canzone fastidiosa che si alzò di tono finché non le esplosero i timpani.
Frejie urlò di rabbia e di dolore. Percepì il potere venire meno, ma le bastò incontrare l’espressione sofferente di Kiol per riprendersi. Le mani con cui agguantò le due nemiche erano arroventate. Le due gridarono sempre più forte, mentre le fiamme violacee le avvolgevano. Una di loro provò a lanciare un incantesimo, ma la maga non la fece finire. Una vampata di calore proruppe dal suo corpo, talmente intensa da ridurre i suoi tre prigionieri ad un’informe massa carbonizzata. Le parole si affievolirono e le bruciarono la gola.
Durante gli attimi successivi regnò un profondo silenzio.
Quando la magia cominciò a ritirarsi nelle gemme, Frejie cadde in ginocchio, senza più fiato, senza più forze. Si trascinò fino al cadavere di Kiol, lo strinse e appoggiò la fronte contro la sua, ringraziandolo tacitamente per il suo sacrificio. Se soltanto avesse avuto voce, avrebbe affidato una preghiera a Shamar affinché gli donasse la pace. Si limitò a strapparsi un pezzo di stoffa dalla tunica e a coprirgli gli occhi.
In lontananza vide uno stormo di corvi e, in poco tempo, sulle case annerite e abbandonate ne comparvero una ventina. Alcuni volteggiavano eleganti sopra la sua testa, in attesa che lei se ne andasse. Il tanfo della morte e del sangue doveva averli attirati fino a lì, ma Frejie si concesse di pensare che, per una volta, qualcuno avesse dato ascolto alle sue preghiere. Così, quando si alzò, rimase ad osservare gli uccelli, emissari degli antichi dei, mentre si cibavano delle carcasse.
All'improvviso, udì un rumore di passi alle sue spalle, attutiti dalla neve. Non sapeva quanto tempo fosse passato, se ore o minuti, ma di una cosa era certa: era viva. E le due figure che avanzavano trafelate verso di lei erano Alan e Angelika. Sorrise e, un passo dopo l’altro, con la posa più dignitosa che potesse mostrare, andò loro incontro. Mentre camminava, gettò un'ultima occhiata ai corpi, ma tutto ciò che scorse fu solo il cadavere di Kiol immerso in un cumulo di sabbia rossa. Fu allora che le tornò in mente che anche le copie potevano duplicarsi. In quel preciso momento, si rese conto che era troppo tardi.
Un sibilo sferzò l’aria, veloce, inaspettato, mortale. 
Quando abbassò la testa, Frejie non si stupì di vedere la punta di un dardo blu sbucare dal torace. Non riuscì a distogliere lo sguardo per alcuni secondi. Sentì Angelika e Alan gridare all’unisono, li vide correre verso di lei, incuranti dei nemici che ancora potevano esserci, del pericolo acquattato chissà dove che attendeva soltanto una loro mossa falsa per attaccare. Avrebbe voluto dir loro di andarsene, che erano dei pazzi incoscienti, ma le corde vocali erano rovinate, l’energia da lei stessa liberata gliele aveva bruciate.
Si accasciò al suolo, in mezzo alla neve, con quanta più eleganza poté. Quando le mani tremanti di Angelika si strinsero attorno alle proprie e il calore del corpo di Alan aderì il suo, tutto si annullò.
Sorrise mentre accoglieva il silenzio dentro di sé, quasi fosse un gentile amante da quale lasciarsi cullare.
“Addio, Angelika. Alan... grazie di aver mantenuto la tua promessa.”
Quelle ultime parole non le disse, annegarono nel sangue e scivolarono fuori dalle sue labbra in un vischioso rivolo scarlatto.
 
- No! Frejie, resisti! -
Alan le tirò su la testa e la scosse. Angelika si affannò per cercare di fermare l’emorragia, ma era chiaro che sotto pressione non riusciva a ragionare. La magia fluiva dalle sue dita a singhiozzi, troppo debole perché riuscisse davvero a rimarginare la ferita causata dal dardo.
Il cacciatore avrebbe voluto intimarle di muoversi, ma sapeva che non avrebbe ottenuto nulla. Ora, invece, c'era soltanto una cosa che potesse fare, gli era stato chiaro sin da quando era atterrato col paracadute su un edificio sventrato, quando aveva visto i lampi e sentito gli echi della lotta. Se lo era ripetuto mentre correva come un forsennato tre le strade claustrofobiche della città e Angelika lo guidava, seguendo il filo invisibile che la legava a Frejie. Se fosse stato lì fin dal principio, si disse, forse le cose sarebbero andate in modo diverso, ma ormai era troppo tardi per pensarci.
Acuì l'udito e, nel silenzio, captò il suono di passi incerti.
- Ti affido Frejie, Angelika. -
Poggiò la nuca della maga sulla neve e si alzò lentamente, frapponendosi tra loro e la figura che si stava avvicinando. Era uguale alle due Slayer che si erano trasformate in sabbia rossa, con gli stessi occhi neri e vitrei e i capelli corti che nascondevano appena le cicatrici sulle guance. Avanzava claudicante, eppure Alan sapeva che era ancora perfettamente in grado di combattere.
Sfoderarono le armi contemporaneamente, lei le due scimitarre, lui la sua fidata spada. Lo osservò per un lungo momento con quella che sembrò un’espressione curiosa, la testa leggermente inclinata di lato.
- Allontanati, non sono qui per te. - gli disse in tono neutro.
Alan si avvicinò e le girò intorno, descrivendo un semicerchio. Mosse la spada come se stesse eseguendo una catena di finte e affondi d’esercizio.
La Slayer si limitò a seguirlo con lo sguardo: - Hai forse intenzione di sfidarmi? -
Il cacciatore non rispose. Sentiva una profonda rabbia dentro di sé, talmente soverchiante da farlo tremare. Ma c’era anche dell’altro, un sentimento gelido che non ricordava di aver mai provato, più violento del desiderio di conficcarle la spada nel corpo per vederla soffocare nel suo stesso sangue, più feroce della sete di uccidere che gli aveva donato quel velo di calma apparente.
La cacciatrice sospirò e mulinò entrambe le scimitarre, mettendosi in posizione.
- Chiunque tu sia, oggi morirai. - scandì con indifferenza.
“Lo vedremo, puttana.”
Nell'aria risuonò l’urto stridulo del metallo. Alan incalzò, rapido e silenzioso come un lupo, e la Slayer rispose ad ogni colpo, senza mai perdere terreno. Parava, colpiva, parava, colpiva, sembrava non sforzarsi nemmeno. In poco tempo fu lei a prendere il comando. Lo costrinse sulla difensiva quasi subito e, quando si rese conto di non avere davanti un avversario al suo livello, cominciò ad attaccare senza sosta, senza permettergli di pensare a un contrattacco.
Respinse l’affondo del cacciatore, scartò di lato e menò un fendente che gli aprì uno squarcio dalla clavicola al fianco con la sola punta della lama. Il cacciatore strinse i denti e ripristinò la distanza di sicurezza, prima di assalirla a sua volta, ma la Slayer non si fece cogliere impreparata. Deviò il colpo, si acquattò sulle ginocchia e gli assestò un calcio nello stomaco che gli tolse il fiato.
Andarono avanti così per un po’, combattendo sotto la neve che cadeva sempre più fitta sopra di loro. Alan provò a penetrare le sue difese, a colpire prima di lei, ma ogni volta la sua lama si scontrava contro le due scimitarre, che sfruttavano le aperture nella sua guardia per infliggergli ferite su ferite. Il manto bianco su cui duellavano si punteggiò di macchie rosse, piccole gocce che presagivano una lenta morte.
Alan era consapevole di non avere alcuna possibilità, l’aveva sempre saputo, dal momento stesso in cui l’aveva vista arrivare. Era ancora vivo per il puro e semplice fatto che la Slayer, indebolita com’era, non poteva più usare la magia. Eppure, la rabbia e quell'emozione a cui non sapeva dare nome lo spingevano a continuare ad attaccare, in una danza in cui era obbligato a seguire un ritmo troppo serrato. Ma non voleva arrendersi, non poteva. Il cuore batteva veloce, pompando l’adrenalina in tutto il corpo, alimentando il sentimento fangoso che gli ostruiva la gola, un fuoco che scorreva impetuoso nelle vene e cancellava la stanchezza e il dolore.
All’ennesimo fendente andato a segno, arretrò per evitare un affondo mortale. Era sempre più stremato, ansimava e i muscoli iniziavano a risentire dello sforzo a cui li stava sottoponendo.
- Arrenditi, non sei abbastanza forte per sconfiggermi. -
La Slayer accorciò le distanze, le scimitarre che disegnavano due linee rosse nella neve. Alan strinse più forte l’elsa della spada e digrignò i denti. Il freddo rendeva i suoi movimenti più lenti e impacciati e il dolore al petto gli annebbiava la vista. Non poteva più sprecare tempo a parare i colpi, doveva colpirla, subito. O morire nel tentativo. Lo doveva a Frejie, alla promessa che si erano scambiati. Se fosse riuscito a tenerla impegnata ancora un po', Angelika avrebbe curato la maga e sarebbero riusciti a mettersi in salvo. Sarebbe bastato un banale incantesimo di teletrasporto...
Un gemito disperato, come di un animale ferito, gli giunse alle orecchie, gelandogli il sangue. Si voltò. Vide Angelika, le sue mani lorde di sangue, le lacrime che le rigavano il volto congestionato. E poi vide Frejie, il suo petto immobile, gli occhi senza vita rivolti al cielo, il corpo riverso a terra come una bambola rotta
Un grido gli morì in gola e qualcosa dentro di lui si spezzò per sempre.
I battiti del cuore gli rimbombarono nelle orecchie e nello sterno come tamburi e il tempo intorno a lui rallentò, fino a fermarsi. La Slayer si bloccò sul posto, con il piede sinistro piantato nella neve e il destro sollevato nell’azione di compiere un passo. I fiocchi candidi rimasero sospesi in aria, immobili. I corvi smisero di gracchiare e le lacrime di Angelika si congelarono a metà del loro percorso sulle guance arrossate. Il mondo intero ammutolì, paralizzato in quell’innaturale momento di stasi.
Anche Alan si fermò, ma per guardare attonito la realtà pietrificata che lo circondava. Trattenne il respiro. Non sapeva perché, ma c’era una parte, quella più istintiva e irrazionale, che gli suggeriva che era lui l’artefice di quel fenomeno. Non voleva indagare su come fosse accaduto, però, non aveva importanza. Niente aveva più importanza, c’erano solo lui e la Slayer.
Camminò lentamente, fino a pararsi dinanzi alla sua avversaria. La scrutò serio, poi impugnò la spada a due mani. La lama descrisse una parabola e sferrò un colpo deciso. La spada avrebbe dovuto sibilare, ma l’unica cosa che fece fu lacerare la carne in totale silenzio, dipingendo un ventaglio di sangue nell’aria immobile.
Come per incanto, a quel punto il tempo riprese a scorrere. Decelerò un istante, per poi allinearsi sulla sua frequenza naturale. Fu come se il mondo fosse riemerso dall’acqua dopo una lunga apnea.
La Slayer lasciò andare le scimitarre e si portò le mani alla gola, gli occhi neri sbarrati nel vuoto. Indietreggiò barcollando, cadde in ginocchio, spalancò ancora di più le palpebre e crollò nella neve in una nuvola di polvere bianca. Rimase lì a boccheggiare, mentre una grossa pozza di sangue si allargava sotto il suo corpo, la vita che scorreva via in piccoli fiumi densi e viscosi.
Alan torreggiò su di lei, osservò il suo sguardo farsi sempre più offuscato, rifiutando di spostarsi, così che la sua faccia l'accompagnasse in qualsiasi luogo stesse andando.
La Slayer fu scossa un tremito convulso, gorgogliò, raspò il terreno fangoso con i tacchi. Infine smise di dibattersi e restò inerte.
Alan deglutì e perse la presa sulla spada. Il dolore al petto gli strappò il respiro, lo ghermì con forza alle braccia, alle spalle, all’addome. Crollò a terra, annaspando in cerca d’aria, la testa che gli girava, la vista appannata, il sapore acido della bile in bocca. Udì il grido di Angelika e percepì le sue braccia cingerlo con disperazione e delicatezza insieme. Provò ad allontanarla, ma la stanchezza gli piombò addosso come un macigno, ancorandolo al suolo.
La neve continuava a scendere, imperterrita, incurante della tragedia che si era consumata in quella città dimenticata, di cui non rimanevano altro che cenere e macerie annerite.
- An…gelika… -
La ragazza aveva posato le mani sul suo petto e da esse fluiva un calore gentile. Il cacciatore scivolò in un piacevole torpore, mentre il mondo perdeva pian piano i suoi contorni, i suoi suoni, i suoi colori. Prima che il buio sopraggiungesse, roteò gli occhi e allungò la mano nella direzione in cui sapeva trovarsi il corpo di Frejie.
- Scusa... mi… - 
“Scusami per non esserci stato…”
Le sue dita artigliarono il vuoto.

Angolino Autrice, alias, le cavolate che ho da dire.

 Buonasera a tutti,

come al solito, alla fine di ogni storia, vi ritrovate a dover leggere i miei angolino autore completamente sgrammaticati. Abbiate pazienza, il caldo a Milano è distruttivo e io mi sento un po’ una pezza da piedi dopo la notte insonne. Ma, tornando a noi… allora, come vi sentite? Vi è piaciuto il viaggio fino ad oggi? Vi sono piaciute le avventure di #Alanmainagioia e co? Ho sempre cercato di essere costante negli aggiornamenti e spero che anche la storia, seppure un po’ insolita, vi abbia preso. Come ho detto in molte recensioni, era la prima che scrivevo del genere e ho sempre avuto un po’ paura che fosse troppo noiosa, che non prendesse molto o che, molto semplicemente, stessi andando fuori strada. Adesso che sono arrivata al trentesimo capitolo, mi sento svuotata, persa, non mi sono ancora messa nell’ottica che non sto abbandonando la storia ma che, semplicemente, per un po’ non scriverò di loro. È una strana sensazione di malinconia mista a tristezza e… e non so esattamente come gestirla. Penso ci metterò un po’ a smaltire anche questo XD Pensate che quando ho messo la parola fine ho piagnucolato come un idiota per un giorno intero… vabbè, sono un caso senza speranza.

Allora, prima dei ringraziamenti, vi avviso che non è detto che la storia rimanga sospesa un anno intero. Con Fuoco è stato così, con Slayers potrei decidere di riprenderla in mano prima, quindi aspettatevi che da un giorno all’altro tolga la storia da completa e la metta in corso. Eh, lo so, sono storta, ma dovete sopportarmi così.

Dunque… *prende un bel papiro* ringrazio la mia beta, Lady1990 che ha sempre avuto una parola d’incoraggiamento e mi ha sostenuta in ogni momento, anche quando pensavo di mollare tutto; ringrazio mia sorella e il mio ragazzo per esserci sempre stati, per aver sopportato i miei continui sbalzi d’umore e il mio estro creativo perennemente eccitato. So che è difficile e, davvero, non saprei come fare senza di voi. Un grazie enorme va ad Aurelianus e a Nemainn che hanno sempre letto la storia e mi hanno consigliato come scrivere o correggere alcune scene, anche quando il capitolo era già stato pubblicato. Non è cosa da poco e… e ci tenevo a dirvi quanto siete stati importanti. Infine, un grazie gigantesco al mio recensore più assiduo, quello che mi fa sempre morire dalle risate, quello che mi ha sempre dato lo sprint per andare avanti. Sì, sto parlando proprio di te Video Kid, non ti nascondere. Un grazie immenso, tu non hai idea di quanto tu mi abbia aiutata.

Un grazie a tutti i lettori, vecchi e nuovi, recensori abituali e silenziosi. Grazie, grazie mille davvero per il vostro sostegno. Se avete voglia di dirmi la vostra opinione… ne sarei felice, se no vi saluto e vi aspetto per la seconda parte.

Un bacione

Hime

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