Il caso Brandi

di Celtica
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo Capitolo ***
Capitolo 2: *** Secondo Capitolo ***



Capitolo 1
*** Primo Capitolo ***


Capitolo uno

Questa storia è stata scritta a quattro mani con NatalieRiver182,
i meriti e le colpe di questa storia sono tanto suoi quanto miei…

Scritta per la sfida "Una storia, quattro mani", indetta sul gruppo Facebook Efp famiglia: recensioni,consigli e discussioni

Con la consegna n. 6



PRIMO CAPITOLO


Pioveva.
Le gocce sui vetri del locale erano simili alle lacrime che vedeva abitualmente nel suo ufficio.
Massimo non era un sostenitore dei piagnistei, non era paziente e comprensivo, era solo un avvocato. E faceva il suo lavoro.
Rosanna prese a muovere il cucchiaino nella sua tazzina, guardando fuori dalla finestra. Una ruga le solcava la fronte, una ruga che altre donne avrebbero cercato di nascondere, mentre lei sembrava farne una bandiera.
Massimo si ritrovò i suoi occhi addosso mentre sorseggiava il suo caffè.
«Ti concentrerai solo su questo caso, vero?» mormorò lei mordendosi il labbro.
Sorresse il volto con la mano e il gomito appoggiato al tavolino. Un lampo illuminò l’azzurro del suo sguardo e Massimo si perse ad ammirarla.
«Sì.»
«E non vuoi dirmi perché?»
Il resto del locale era vuoto, ma lui si sentì come al centro di una folla. Si schiarì la gola mentre si guardava intorno. C’era solo il barista, qualche metro più avanti, intento a pulire il bancone.
«Ros… ho provato a spiegarti.»
«Hai provato…» ripeté lei schiudendo appena la bocca. La sua voce uscì suadente come quando erano soli, a casa sua… «E non ci sei riuscito» e tagliente come quando voleva ferirlo.
Massimo era abituato a essere al centro dell’attenzione, a sentirsi attaccato, quasi aggredito… eppure nessuno riusciva a fargli l’effetto di Rosanna. La tensione che provava quando era con lei poteva essere pari solo all’attesa della sentenza, quando il giudice chiede al convenuto di alzarsi in piedi.
Quando era incerto sul risultato, quando, da difensore, diventava un po’ vittima. Vittima del tempo, del giudizio, vittima più dell’indagato.
«Ros…»
«Niente Ros» lo interruppe lei scuotendo i bei capelli ricci.
Massimo ne ammirò il colore rosso e sfuggente, e ricordò una cliente che con lui aveva perso. L’unica con cui avesse mai perso una causa.
«Voglio sapere perché ti vuoi dedicare completamente a questo caso» continuò Rosanna, accarezzando la tovaglietta verde del tavolo. «Perché solo a questo?»
Massimo, l’avvocato, quello che non temeva giudice e giuria, quello pronto a trovare sempre un motivo per difendere i suoi clienti, si sentì un momento interdetto.
Dire o non dire?
Non sapeva quanto Rosanna sarebbe stata pronta ad accettare. Lei veniva da una famiglia per bene, e non aveva mai considerato innocenti gli indagati. Tutti gli indagati. Vittorio Brandi compreso.
«Ha compiuto troppi reati, Ros. Non mi va di lasciarlo.»
«Eppure sembri convinto di perdere…»
Rosanna lo conosceva bene. Forse anche troppo.
«Ha commerciato prodotti malfunzionanti…» disse Massimo abbassando lo sguardo sui bottoncini dorati della sua camicia. Era vestita in modo molto diverso da lui: il bianco degli abiti di lei era in perfetto contrasto con il suo completo grigio. «E ti risparmio il resto… Minacce, aggressione a pubblico ufficiale, pubblica intimidazione… Ha anche contraffatto questi prodotti, spacciandoli per Asam.»
Rosanna sorrise.
E fu il primo arcobaleno di quel giorno.

nn

L’uomo era in cella, in attesa del processo che avrebbe decretato la sorte della sua libertà, con il sorriso mellifluo e viscido di chi era convinto di avere in pugno la situazione: in fondo, era nelle abili mani di Massimo Spina, il quale gli aveva comunicato di essere alla ricerca di alcune prove in grado di scagionarlo.
Con Massimo si era sempre dichiarato innocente, aveva finto meglio di un attore teatrale, ingannando quel pover uomo che pensava di agire per la giustizia. Al pensiero, il sorriso sulle labbra di Vittorio si allargò.

Giustizia? borbottò tra sé e sé. Ma dove! Non esiste una giustizia unica per tutti. Coloro che la evocano sono degli illusi convinti dell’esistenza di un Dio.
Si accarezzava la barba ispida che non aveva avuto modo di radere, mentre rifletteva su quanto sciocche potessero essere le persone, mettendosi contro qualcuno chiaramente più forte.
Non che si ritenesse superiore a loro, tutt’altro! Credeva solo di essere più furbo.
Aveva sempre appoggiato i potenti, senza far nulla che potesse infastidirli, ma al tempo stesso li disprezzava, poiché credevano di poter far tutto il loro comodo, come se non gl’importasse di nessun altro.
Nemmeno a lui interessava, perciò non aveva provato alcun rimorso in seguito a quella che era stata una delle più clamorose truffe dell’anno.
Aveva ordito tutto nei minimi dettagli, e dopo aver venduto a prezzi esorbitanti quello scadente marchingegno, destinato a distruggersi entro una settimana, sarebbe dovuto partire per il Messico, dove avrebbe fatto perdere le proprie tracce.
Purtroppo, aveva sottovalutato l’intelletto di uno degli acquirenti, il quale l’aveva denunciato per truffa dopo solo due giorni dall’acquisto. Vittorio si era chiesto se non fosse stato uno di quei tipi che si divertono a smontare macchine, bilance, orologi e robot da cucina per vedere come fossero all’interno.
Fatto stava che un certo Antonio Biagi si era reso conto che mancavano dei pezzi, che quell’affare meccanico non serviva di fatto a nulla e che era inesorabilmente destinato a rompersi.
Pochi giorni dopo erano giunte altre denunce, che l’avevano fatto arrestare e costretto a passare due settimane in cella in attesa del giusto processo. Non avrebbe mai ammesso nulla, col cavolo che l’avrebbe fatto!
Negare, negare e negare, fino alla fine.
Fingere di essere stato incastrato, di non averne mai saputo nulla.
Dire che era stata tutta opera dei “superiori”, che lui credesse di lavorare onestamente.
Ammise di aver un po’ esagerato con la recita del povero innocente che si trovava a combattere contro gli aguzzini che volevano distruggerlo: minacciare l’ufficiale di denunciarlo per diffamazione, così come aveva fatto con l’accusa, non era stata una grande idea.
Ingoiato l’errore, tornò a ripetersi che non poteva finire in carcere, in un mormorio simile alla litania. Suonava ironico, dato che quella dove si trovava era niente di meno che una cella puzzolente, spoglia e terribilmente noiosa.
Ma non poteva permettersi di ammettere i propri crimini, non se a difenderlo c’era lui…

nn

Le mura del carcere sembravano colorare di grigio il centro della città.
C’erano alberi intorno, e palazzi, e strade.
Massimo pensò che non era la prima volta che attraversava quel suo piccolo mondo per difendere qualcuno di colpevole. Perché Vittorio Brandi, il suo cliente, era colpevole.
Lo aveva sempre saputo, ancora prima di venire chiamato a difenderlo.
Attraversò le strisce pedonali di fronte al cancello di ferro, pronto a incontrarlo. Sistemò una mano in tasca per darsi un tono, come faceva sempre quando doveva vederlo.
Si chiese quanto era giusto proteggerlo, nonostante i motivi che aveva, quei motivi che non aveva ancora trovato il coraggio di svelare a Rosanna…
Forse, si disse, se fosse stato un altro si sarebbe semplicemente rifiutato di difenderlo.
Mostrò i documenti alle guardie, che lo conoscevano, e si avviò all’interno dell’edificio, attraversando diversi corridoi prima di trovarsi nella stanza dei colloqui. Era un posto che non gli piaceva, ma a cui aveva fatto l’abitudine.
Aspettò il detenuto cominciando a sedersi, dando le spalle alla finestra alta e stretta che illuminava appena il muro di fronte. C’era solo un tavolo in quel posto. E due sedie.
Quando la porta si aprì, Massimo passò due dita sugli occhi, come a calmarsi. Ma era calmo, non aveva motivo di essere agitato.
Allora cos’era quel senso di inadeguatezza che sembrava avvolgerlo?
«Avvocato Spina…» lo salutò la guardia, prima di chiudere la porta alle spalle del detenuto.
Era basso, con la faccia cortese di chi è sempre pronto a sorriderti, le spalle strette e le braccia corte di chi non è in grado di difendersi. Ma era tutto falso, Massimo lo sapeva.
Vittorio era tutto fuorché cortese, un matto che dava i numeri senza preavviso, arrivando alle mani. Quando cercava di nascondere la rabbia, sul suo volto si formava una fossetta, vicino alle labbra.
Era il suo segnale. E Massimo lo conosceva.
Il suo cliente raggiunse la sedia di fronte a lui con estrema lentezza, come se non avesse nessuna fretta di parlargli. Eppure era lui quello che rischiava.
Massimo seguì la mano di Vittorio, liscia e pulita, quasi da donna, mentre raggiungeva lo schienale per tirarlo verso di sé.
«Eccoti, avvocato…» esordì Vittorio, portandosi le dita alle labbra come se stesse fumando una sigaretta.
Era uno dei suoi vizi, Massimo lo ricordava bene.
«I capi d’accusa sono tanti, troppi» rispose lui, ignorando il suo commento. «Come vogliamo procedere?»
«Sei tu che hai studiato legge.»
Massimo guardò i capelli radi di Vittorio e ringraziò il cielo di non essere come lui. Almeno lui li aveva, i capelli. Lo pensò per distrarsi, per evitare di rispondere a quei commenti che lo irritavano tanto. Poi fece un lungo sospiro e finse di trovarsi con un cliente qualunque, un cliente innocente.
Almeno fino a prova contraria.
«Possiamo mettere di mezzo psicologi, dire che ci sono stati problemi durante l’infanzia…»
«Ammettilo, tu vuoi proprio farmi apparire come un down!» accennò una risata, come a voler porre la conversazione sullo scherzo. Ma era serio, lo sapeva benissimo.
«Oppure,» proseguì Massimo, come se non fosse stato interrotto, lanciando un’occhiata di sbieco alla porta. «possiamo dire che non si sapeva nulla del malfunzionamento e che l’attacco d’ira è stato causato dall’idea di essere stato raggirato…»
«Attacco d’ira? Come parli, avvocato.»
«Ciò che capita quando si arriva a minacciare e aggredire. Ciò che è successo…»
Vittorio si torse le mani e spostò lo sguardo altrove, innervosendosi al ricordo dell’accaduto.
Fu questione di un attimo, prima che riprendesse la solita espressione pacifica e sardonica, con l’unica aggiunta di un’innocente fossetta.
«Massimo, cerca di capire. Ti assicuro che non volevo fare una scenata simile, mi sono sentito messo sotto torchio e accusa, tra l’altro ingiustamente!»
Massimo annuì, assecondandolo.

Bugie, pensò, solo bugie.
Eppure decise di iniziare a fargli domande come se fosse stato innocente.
«Adesso rispondimi sinceramente» era più una formula d’introduzione che una vera richiesta, dato che sapeva benissimo che la risposta sarebbe stata solo un’altra falsità «Sapevi della truffa?»
L’uomo parve titubare un attimo, come combattuto. Restò in silenzio qualche istante, mentre quel barlume di onestà in lui gli sussurrava di dire la verità, per amor suo.
«No.»
Massimo trattenne un sospiro.
«In questo processo, io voglio che si dica solo la verità. È stato un, come dici tu, attacco d’ira, e non ne sapevo assolutamente niente!» Vittorio puntò gli occhi verdi sull’avvocato. «Devi credermi, almeno tu» aggiunse.
Quelle ultime parole erano intrinseche di una malinconia che il buonsenso avrebbe definito artificiale, ma che fecero dubitare un istante Massimo della colpevolezza del cliente.
Si disse che forse era meglio così, per giustificare quell’attimo quasi di debolezza: come poteva difenderlo, se nemmeno lui lo credeva innocente?
«Va bene, Vittorio» la voce inciampò su quel nome. «Diremo così, allora, ma le parole non bastano, Sai dirmi dove posso trovare una qualche prova?»
Vittorio parve infervorarsi, guardando il difensore. Tuttavia, trascorse nuovamente un altro momento in silenzio, forse meditando, prima di fornire a Massimo qualche informazione.
«Sì, certo che lo so. Scusami, stavo riflettendo un attimo per decidere se ciò che sto per dirti potesse avere un peso legale o meno.»
Massimo non poté evitare una risposta sagace.
«Non sei stato tu a dire che qui l’avvocato sono io?»
Entrambi accennarono un sorriso, un po’ triste, un po’ amaro.
«Sì, sei tu, e non ho alcuna intenzione di rubarti il ruolo. Solo, volevo evitare un secco “non conta niente” mentre parlavo.»
«Lo eviterai, ma ora su, dimmi, che l’orario delle visite sta per finire.»
L’uomo cercò un attimo le parole, scegliendo con cura con quali fosse meglio iniziare.
«Come sai, ho acquistato quelle macchine Asum per conto di alcuni, perdonami l’epiteto forse troppo vago, ricconi, che mi dissero di voler aprire un’azienda di rivendita, insomma, una specie di amazon ma non su internet.»
Quella lunga introduzione non fece altro che innervosire Massimo, che si chiedeva dove volesse arrivare.
«Ecco, io non ho mai toccato né visto quelle macchine. La ricerca di impronte su uno qualsiasi di quegli affari potrà confermarlo.»
L’avvocato aprì bocca, ma Vittorio lo costrinse a richiuderla interrompendolo prima ancora che iniziasse a parlare.
«So cosa stai per dire. No, non avrei potuto pagare nessuno che lo facesse al posto mio, innanzitutto perché non avrei avuto soldi sufficienti, poi perché sono apparecchi delicati, e per aprirli e smontarli serve uno strumento apposito di cui ignoro addirittura il nome, so soltanto che costa davvero tanto ed è difficile da usare.»
Massimo alzò un sopracciglio, chiedendosi come mai allora qualcuno fosse riuscito ad aprirla e a scoprire l’inganno; si rispose che certi smanettoni hanno davvero di tutto in casa, per soddisfare la loro curiosità.
O forse, semplicemente, lo faceva di mestiere.
Oppure, ancora, suo fratello gli stava mentendo…
«Va bene, vedrò di lavorarci su e pensarci a casa, in modo da verificare che questa prova non abbia falle. Con tutte queste denunce alle spalle, non possiamo permetterci di farci smontare qualcosa, lo capisci, no?»
Vittorio annuì, gettando un’occhiata all’orologio. Massimo si alzò, sistemò i pantaloni e la giacca e rimise a posto la sedia.
«Domani ti farò sapere. Buona giornata e arrivederci.»
Fu in quel momento che Vittorio disse qualcosa che Massimo avrebbe preferito non facesse.
Vittorio non aveva idea del perché desiderasse salutarlo in un modo del genere. Non aveva idea nemmeno del perché il sorriso pacato sul suo viso si fosse tramutato in un ghigno divertito, solo nella penombra della stanza mal illuminata. Sapeva solo che avrebbe ottenuto certamente una reazione, in quel modo, e non il solito modo indifferente da avvocato, freddo e realista.
«Allora a domani, fratellino.»
Massimo, che ormai gli dava le spalle, a un passo dalla porta si raggelò, rimanendo pietrificato sul posto.
Un secondo, due, tre, quattro, cinque. Cinque secondi durante i quali l’avvocato sarebbe voluto sparire dalla faccia della Terra.
Vittorio sorrideva, ma lui non si voltò.
«Sì» fu l’unica risposta, prima di poggiare il palmo sulla maniglia e abbandonare la stanza.


nn

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Capitolo 2
*** Secondo Capitolo ***


quattro mani Capitolo due
Questa storia è stata scritta a quattro mani con NatalieRiver182,
i meriti e le colpe di questa storia sono tanto suoi quanto miei…


SECONDO CAPITOLO


Una macchina della polizia, dalla carrozzeria blu notte e il titolo dipinto in bianco sui lati, lo stava portando in tribunale.
Quasi sorrideva nel pensare che sarebbe stato suo fratello a difenderlo, l’esatto contrario di quel che accadeva quando erano bambini.
Era sempre stato troppo buono, Massimo. All’asilo per i bulli picchiarlo era come bere un bicchier d’acqua.
Sentì le mani iniziare a tremargli, quante botte aveva preso in pieno viso per difendere quel debole!
Se n’era presto stancato.
Non voleva diventare come loro padre, e infatti ora era l’esatto contrario. Se gli fosse assomigliato anche solo un po’, ora sarebbe stato lui a guidare quell’auto, e dietro ci sarebbe stato solo un criminale qualsiasi, in attesa di una sentenza.
Un piccolo sorriso fece capolino sulle sue labbra, mentre l’immagine di una gita al mare iniziava a espandersi nella sua mente, abbracciandolo con la malinconia del ricordare.
Fu l’ultima gita, quella.
L’ultima prima che papà smettesse di tornare alle sette di sera. Aveva lasciato sempre più soli lui e Massimo, innamorato perso del suo lavoro e della sua giustizia. Ma chi ama, la giustizia? L’ha mai abbracciato? Baciato? Carezzato?
La giustizia gli si infilò nel petto anni dopo, sotto forma di pallottola. Quella sua giustizia lo uccise.
Non che a Vittorio fosse dispiaciuto, dopo tutto.
Per otto anni era stato un padre fantasma, e le rare volte in cui palesava alla famiglia la sua presenza era per parlare di voti. Voti che Massimo aveva sempre più alti.
Iniziò a disprezzare entrambi allora, e disse addio alla giustizia lo stesso giorno in cui lo disse al padre. Chi conosceva la sua storia, quei pochi confidenti che aveva avuto in gioventù, lo chiamavano il figlio dell’invidia. Forse sarebbe stato più appropriato figlio della gelosia.
Geloso? Geloso di chi? Di quel padre che tanto odiava, o di quel fratello di cui era sempre stato l’ombra? Se avesse avuto più attenzioni da entrambi, sarebbe forse stato migliore?
No.
Certo che no, si rispondeva.
Avrebbe coltivato tutto quell’odio e quel disprezzo da solo, anche senza un motivo dietro. Anche se non l’avessero abbandonato a se stesso.
Nell’adolescenza si era sentito un cane randagio in mezzo a una famiglia col pedigree. Si era ispirato al padre, ma solo per gli orari di rientro a casa.
Ogni tanto aveva un orologio nuovo, e qualche migliaio di lire di troppo.
Eppure nessuno se ne era mai preoccupato, eccetto Massimo.
Lui sì che gli aveva fatto la ramanzina, e troppe volte. Probabilmente era anche l’unico a essersene accorto.
Quel maledetto faccino tondo che aveva lo tormentava da sempre, gli dava un’aria affabile che solo sui trent’anni aveva imparato ad apprezzare. Solo lui si era reso conto che la fossetta sulla fronte si formava sempre più spesso.
Poi se n’era andato. Aveva imitato il padre anche in questo, lasciando un fratello ancora studente e una madre nel dolore, senza un figlio e un marito. E ed era arrivato a cambiare nome…
Ogni tanto rimpiangeva questa sua scelta, più per principi morali che per vera tristezza. Come poteva pretendere compassione, se per primo aveva lasciato la sua famiglia? No, non voleva questo, essere compatito lo ripugnava.
Per lui quella famiglia era morta e sepolta, prima che lo fosse il padre.
Erano morti il giorno in cui l’orario di rientro si fissò a mezzanotte.

nn

Era strano ricordare.
Per tanti anni, Massimo aveva passato il tempo a tentare di dimenticare. Era rimasto fermo a osservare lo scorrere dei giorni, chiedendosi se mai lo avrebbe rivisto. Sperando che non accadesse.
Poi aveva incontrato Rosanna e tutto si era concluso.
Suo fratello era morto, le aveva detto. Suo fratello aveva seguito le orme di loro padre ed era morto…
Lei aveva cercato di consolarlo, svelandogli segreti che avrebbero dovuto farlo sentire meglio. Segreti di famiglia, di quelli che tutti hanno e di cui nessuno parla.
Se Rosanna avesse scoperto la sua menzogna… fra loro sarebbe finita.
Eppure, mentre camminava spedito verso l’aula di tribunale in attesa della sentenza, Massimo non poté fare a meno di dirsi che, per lui, Vittorio era davvero morto.
Aveva deluso suo padre, era andato via di casa, aveva imboccato la strada opposta a quella di Massimo. Aveva persino cambiato nome!
Cosa avrebbe detto loro padre se lo avesse saputo? Se fosse stato ancora vivo?
Per fortuna era morto.

Per fortuna… Sentì un groppo salirgli in gola mentre si fermava davanti alle porte di legno scuro, lavorate a fuoco.
Aveva amato suo padre. Gli era rimasto accanto nonostante tutto. Nonostante si fosse messo a difendere i cattivi, rischiando di dargli un altro dolore. Un dolore che non era comunque paragonabile a quello di Vittorio…
Vittorio aveva sempre guardato con disprezzo l’onestà di loro padre. Si era sempre rifiutato di vivere come lui, come loro. Perché Massimo sì, era un avvocato ora, ma per arrivare a quel punto aveva sudato, lavorato, passato notti insonni a studiare.
Per l’orgoglio di suo padre…
Allungò una mano sulla maniglia di ottone, pronto a tornare in aula e raggiungere suo fratello. Ma poi la strinse a pugno, le nocche divennero bianche, mentre ripensava alle occhiate di Vittorio, alle espressioni rassegnate di suo padre, al giorno in cui era morto…
Suo fratello non era tornato per salutarlo, nemmeno quando stava male. Non aveva chiamato, non si era fatto sentire. Era stato Massimo a cercarlo.
«Papà è morto.»
Tre parole che lo avevano distrutto. Tre parole che Vittorio aveva assorbito come acqua fresca.
«È successo.»
Non lo aveva più sentito dopo quella telefonata. Anni e anni di silenzi, mentre Vittorio viveva chissà come e Massimo cercava di farlo onestamente. Come suo padre…
Strinse la maniglia dorata e cominciò ad abbassarla.
«Massimo!»

Quella voce… No!
Era lei.
Rosanna era lì, dietro di lui, con un completo di raso e il sorriso rosso e lucente con cui lo accoglieva ogni sera, quando si incontravano.
«Cosa fai qui?»
Lei lo raggiunse, sfiorandogli la guancia con le labbra. Era alta come lui e non fece nessuna fatica a sussurrargli nell’orecchio.
«Non sei felice?»
Massimo avrebbe voluto rispondere di no, ma rimase impietrito a guardare la sfumatura purpurea dei suoi capelli.
«Non vieni mai…» mormorò soltanto.
«È vero. Ma in genere non tieni così tanto a un caso come a questo. Ho pensato che ti servisse un sostegno e ti ho raggiunto. La sentenza è oggi?»
Lui si limitò ad annuire.
E ora? Cosa avrebbe fatto ora? Durante il processo era stato chiarito il rapporto di parentela con Vittorio. E se lo avessero ripetuto? Se lo avessero detto davanti a lei…?
Mentre entrava nell’aula dietro Rosanna, Massimo pregò che non lo venisse a sapere. Mai.

nn

Il processo era andato, ma come, Vittorio proprio non riusciva a capirlo.
Voltava il capo in giro, cercando di scoprire cosa pensasse la gente di quanto aveva detto, di quanto aveva giurato, di quanta verità era insita nelle sue parole. E sperava, sperava che il Giudice non fosse come loro.
C’erano solo volti cupi dietro di lui: persone che lo fissavano e parlottavano, mentre altri erano in piedi ad aspettare la sentenza.
Massimo non era con lui, era uscito già da un pezzo, ed era strano che non fosse ancora tornato.
Quando la porta si aprì, Vittorio restò fermo, gli occhi verdi puntati contro i due che stavano entrando. Suo fratello non era solo, ma in compagnia di una gran bella donna.
E dal modo in cui erano vicini, dal modo in cui lei sorrideva, trionfante nel mostrarsi in compagnia di un avvocato, quasi gli avesse appeso sulla schiena un cartello con scritto “proprietà privata”, Vittorio capì che stavano insieme.
Tornò a concentrarsi sul processo, su quanto aveva detto per salvarsi la faccia. Non poteva dire la verità, non davanti a lui.
Non aveva mai voluto essere come suo padre, per questo si era gettato in quella vita. Ed era stato scoperto… Massimo non aveva trovato testimoni in suo favore, ma Vittorio lo sapeva già, lo sapeva ancor prima che tutto questo cominciasse.
La verità era che non c’erano testimoni.
Non per lui.
Restò ad ascoltare i passi di Massimo e della donna, il primo che sembrava scivolare sul parquet, mentre i tacchi dell’altra risuonavano nell’aula.
A Vittorio sembrò di sentire solo quel rumore. Ignorò le voci, il brusio della gente in attesa, ignorò i pensieri negativi sull’esito del processo.
Perché finalmente, dopo anni e anni di attesa, dopo silenzi, dopo la morte del padre, erano di nuovo insieme.
«Ehi, fratellino!»
Solo allora, negli occhi di Massimo, così simili ai suoi, Vittorio riconobbe un puro e cieco terrore.
E capì.
Lei non sapeva. Non sapeva di lui, non sapeva del loro legame di sangue, non sapeva che il suo avvocato era imparentato con un criminale.
Massimo diventò rosso; Vittorio vide in quel colorito tutta la vergogna che provava per lui.
E si pentì a sua volta…
Si pentì di tutto ciò che aveva fatto e che avrebbe ancora voluto fare. Si pentì di averlo lasciato, di essersene andato per sempre dalla sua vita. Si pentì di esistere.
«Fratellino?» ripeté la donna, scuotendo i capelli rossi.
Erano vicini a lui.
Massimo guardò il fratello con occhi di ghiaccio, il viso ancora rosso manifestava la sua vergogna e la sua rabbia, quasi infantile.
Spostò lo sguardo su Rosanna.
L’espressione non era irosa come si aspettava, ma piuttosto ferita. Le aveva mentito, in un modo che forse era imperdonabile.
Vittorio era bloccato davanti a entrambi, un passo a metà che non avrebbe compiuto. Voleva avvicinarsi alla coppia, ma qualcosa nella sua mente gli aveva suggerito quel che era successo. Lo sguardo di Massimo lo aveva raggelato e ora inchiodato lì, finché non aveva capito.
Per lui… per lui anche io sono morto, non è così?”
Puntò le iridi verdi sulla donna, come a chiederle scusa di essere lì, di essere la vergogna del fratello.
Il primo a parlare subito dopo fu proprio l’avvocato, il cui rossore stava pian piano svanendo.
«Rosanna, potremmo parlare un minuto?»
Lei parve acconsentire e i due si allontanarono, lasciando Vittorio da solo.
Non gli interessava, no? Suo fratello non era più un consanguineo da tanto.
Cosa gli importava se a causa sua ora avrebbe avuto problemi con la sua ragazza?
Più si ripeteva queste cose, più internamente si convinceva dell’esatto opposto. Una lacrima solitaria gli rigò la guancia.
Perché se ne era andato così? Era necessario tagliare così i rapporti con lui? Si sedette su una panca, e pensò.
Quante cose non sapeva, sul suo stesso fratello!
La vita che si era scelto… Massimo probabilmente ora lo odiava ancora di più, più di quanto Vittorio potesse immaginare. Se era arrivato perfino a mentire sulla sua esistenza con quella donna... E tutto questo perché lo aveva difeso.
Sospirò, chiedendosi se si potesse rimediare. Era buffo che se lo chiedesse proprio in quel momento, dopo tanti anni. Non lo aveva mai chiamato, non ne aveva sentito il bisogno.
O forse ero più come un bimbo che gioca a fare l’offeso.”
In quel momento Massimo tornò, seguito a pochi passi dalla donna dalla chioma rossa.
«Ci lasceresti da soli, per favore?»
Vittorio alzò lo sguardo, per vedere il fratello che diceva alla fidanzata di andarsene. Lei annuì, prima di fare dietrofront e lasciare la saletta di attesa.
«Avvocato, qual è il verdetto?» tentò di scherzare per alleggerire l’atmosfera troppo pesante.
«Le ho spiegato e lei…» Massimo non sembrava intenzionato a continuare la frase.
Ci vollero diverse sollecitazioni perché Vittorio riuscisse a carpire l’esito di quella che non doveva essere stata una discussione piacevole.
D’un tratto, dopo una profusione di scuse imbarazzate per l’episodio capitato (scuse che Massimo non si sarebbe mai aspettato), cominciarono a parlare, come non facevano da quando erano piccoli.
«Non è il posto più gradevole per una riconciliazione, non trovi?»
«No, non lo è affatto. Eppure sento che è il più adatto.»
Vittorio si stupì di quelle parole, non pensava che Massimo avesse davvero intenzione di fare pace.
«Beh, direi che oggi si sono scambiati i ruoli. Una volta ero io il tuo difensore.»
A entrambi scappò un sorriso melanconico.
«Spero che non s’invertano mai più, le aule di tribunale non sono mai piacevoli. Specie per l’accusato.»
Furono interrotti dall’arrivo di un ragazzo mingherlino, che comunicò loro di rientrare per il verdetto.
Ma comunque fosse andata, Vittorio si disse che non importava. Sentiva che avrebbe riavuto suo fratello anche da carcerato. E, forse, da quel momento in poi sarebbe tornato a essere vivo.

nn

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