Arkham Unsound

di Always_Always
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Walking disaster ***
Capitolo 2: *** What now ***
Capitolo 3: *** Bang bang ***
Capitolo 4: *** Jack e Sally ***
Capitolo 5: *** Crazy in Love ***
Capitolo 6: *** Breathe me ***
Capitolo 7: *** I started a Joke ***
Capitolo 8: *** The dark side of the mood ***
Capitolo 9: *** Kings and queens ***



Capitolo 1
*** Walking disaster ***


 
 

 
Capitolo n°1
Walking disaster
 
 
 
This city's buries in defeat
I walk along these no-name streets
Wave goodbye to home
 
As I fall
 
At the dead-end I begin
To burn a bridge of innocence
Satisfaction guaranteed
A pillow-weight catastrophe
 
(Sum 41, Walking Disaster)
 
 
 
Gotham City.
Una città dove la luce non arriva mai e quando lo fa non è abbastanza forte da illuminare il marcio che brulica nelle sue viscere. Anche quel giorno non fa eccezione. Il sole è coperto da nuvole grigie e il vento gelato trascina con sé le prime giornate d'autunno che si trasformeranno poi in inverno.
Alfred Pennyworth scosta lo sguardo dalla finestra e bussa con la mano libera alla porta di mogano. Con l'altra, il vassoio resta in equilibrio ed emana profumo di brioches e caffè.
 
"Signorino Bruce, è ora di alzarsi."
 
Non è così stupido da aspettarsi una risposta immediata. Conosce abbastanza Bruce Wayne da sapere che non è un tipo mattiniero, ed è anche per questo motivo che ha giocato d'anticipo: la colazione a letto è un'ottima arma, soprattutto in circostanze particolari come quelle.
 
"Non vorrà far tardi il primo giorno… ?"
 
Scuote la testa e lancia un'altra occhiata al cielo grigio. È quasi certo che pioverà. Non ne è sorpreso. L'umore nero del piccolo Bruce ben si rispecchia in quelle nuvole scure. Ma, d'altra parte, non potrebbe essere altrimenti.
Oggi non è una giornata come le altre.
Al quarto richiamo, finalmente un mugolio arriva in risposta e Alfred ottiene il permesso di entrare. La camera è avvolta nell'oscurità e pregna di aria viziata, così la prima cosa che fa il maggiordomo dopo aver poggiato il vassoio d'argento è scostare le tende e spalancare la finestra.
La luce fioca entra insieme a una ventata d'aria fredda. Bruce si lascia sfuggire un lamento di protesta e infila nuovamente la testa sotto il cuscino.
 
"Maledizione, Alfred."
"Buongiorno anche a lei."
"Che ore sono?"
 
Alfred lo scruta dall'alto. Bruce Wayne ha solo diciassette anni, ma è già una di quelle persone che non perde tempo in chiacchiere. Non sa se considerarlo un pregio o un difetto.
 
"Le sette e trenta, sir."
"Troppo presto."
"Al contrario: è già in ritardo".
 
L'occhiata eloquente che gli rivolge il padrone non lascia spazio a dubbi: Bruce ha sempre preferito la notte al giorno. Il buio alla luce. Per la verità, c'è stato un tempo in cui era così mattiniero che nemmeno Alfred riusciva a tenergli testa. Ma quel tempo se n'è andato. Quel bambino, se n'è andato. Sono cambiate tante cose da allora.
Pian piano, è cambiato tutto.
 
"Le lascio la colazione, sir. Le consiglio di fare in fretta, o finirà per non andare  a scuola."
"Non sarebbe così tragico."
 
Bruce sorride e lui sa quanto siano rari i suoi sorrisi. Potrebbe contare su una mano le volte in cui Bruce Wayne ha concesso al mondo la visione della sua perfetta dentatura. Lui glielo dice sempre, che dovrebbe sorridere di più. Ma non può nemmeno forzarlo. Bruce Wayne è…complicato. Molto complicato.
 
"L'aspetto di sotto."
"Alfred…"
 
È quasi alla porta quando Bruce lo blocca. La sua voce è fredda come il ghiaccio e non lascia trasparire nessuna emozione. Alfred sa già cosa sta per dirgli prima ancora che lui parli.
 
"Sai che giorno è questo?"
 
Come potrebbe non saperlo? Una serata a teatro. Una famiglia felice.
Poi un uomo mascherato. Un colpo di pistola. Thomas e Martha Wayne assassinati.
Suo malgrado annuisce, sprofondando in ricordi dolorosi che sanno di rimpianto. Bruce mantiene saldo lo sguardo, ma nei suoi occhi c'è solo il vuoto.
 
"Allora sai che questo non è un buon giorno."
 
Non c'è nient'altro da aggiungere. Alfred esce dalla stanza e quando chiude la porta dietro di sé, si appoggia alla parete. Ha bisogno di un istante per riprendersi. Un attimo. Solo un attimo da concedere a se stesso, poi tornerà alla compostezza che lo caratterizza. Osserva di nuovo il mondo oltre la finestra, dove le prime gocce di pioggia cominciano a scivolare giù dalle nuvole.
Deve essere forte. Per Bruce. Ha una promessa da mantenere. Ma ci sono dei momenti di sconforto in cui non può mentire nemmeno a se stesso: quella grande casa è troppo vuota per due persone sole, e la mancanza di Thomas e Martha Wayne grava inevitabilmente sulla villa.
È il ricordo di un tempo felice, ormai così lontano da sembrare un'altra vita.
 
 
 
Gotham City.
Il rumore assordante che invade le strade e che non si placa nemmeno di notte, non impedisce ad Harleen Quinzel di sentire il fastidioso richiamo della sveglia. Non che ne avesse bisogno, comunque. L'eccitazione l'ha tenuta in piedi fino a notte fonda e l'ha poi svegliata con largo anticipo. Ha impiegato più tempo del dovuto per scegliere degli abiti adatti all'occasione e il risultato è il disordine di ordinaria amministrazione al quale suo padre si è inevitabilmente rassegnato.
Non che potesse fare altrimenti, comunque. Harleen ha una maniacalità morbosa quando si tratta di creare scompiglio. È una dote naturale, non può farci niente.
Spalanca gli infissi e si ritrova faccia a faccia con la pioggia putrida di Gotham City. Sbuffa, intrappolando con le dita una ciocca di capelli biondi che non vuole mai stare al suo posto. Probabilmente i suoi compagni di classe troverebbero il clima opprimente ad hoc per la situazione, ma a lei è sempre piaciuta la scuola, la baraonda che si scatena per i corridoi, la gente da conoscere. Lo trova divertente. È per questo che sbuffa di nuovo e decide di dedicarsi alla colazione per non perdere l'ottimismo.
Non che le riesca bene, comunque. Sembra che questa mattina il mondo sia contro di lei. Sul tavolo della cucina trova un biglietto. È scritto a mano e la calligrafia è spigolosa. Non ci vuole un genio per capire di chi si tratta.
 
Ospedale. Torno tardi.
Ti voglio bene. Papà.
 
Papà ignora l'uso di una sintassi corretta. Papà è sempre impegnato da dimenticarsi di avere una figlia. Papà dovrebbe andare a viverci, in quel dannato ospedale. E non sarebbe neanche una perdita così rilevante, visto che non sa cucinare e la sua partecipazione alle serate familiari si limita a una birra e un libro. Poco male, papà può andare a quel paese. Non vuole farsi rovinare il primo giorno di scuola da lui.
Il suo ultimo primo giorno di scuola. È frustrante pensare che fra pochi mesi non metterà più piede nel posto che ha considerato casa per tutti quegli anni. Soprattutto perché il college sembra un miraggio lontano che soltanto il professor Bane e le vecchie care parallele potrebbero avverare. Ma ora non deve pensarci. Basta: colazione, ultima toelettatura e via. All'incontro con Pam. Prima che l'anticipo diventi ritardo. Pam metterebbe il broncio e questo non sarebbe divertente. Per questo sbocconcella quello che trova in cucina, poi si fionda sulle scale ed entra nel bagno.
Incontra il suo riflesso sulla superficie dello specchio e tra una smorfia e l'altra, un rituale poco ortodosso che fa fin da quando era una bambina, Harleen abbandona i brutti pensieri e trova un'altra ragione per essere felice.
 
 
 
Gotham City.
Un luogo dove il rispetto e la retta via sembrano un lusso che nessuno può più concedersi. Ma Jeremiah Arkham è fermamente convinto che la sua scuola sia l'eccezione che conferma la regola e per questo appare sorridente mentre passeggia per i corridoi dell'Arkham High School. Il primo giorno di scuola ha l'odore forte di giovinezza e buoni propositi. È la calma prima della tempesta, quando gli studenti sono ancora inebetiti dall'ebrezza dell'estate per rendersi conto di cominciare un anno di fatica e sudore. Per questo gli piace così tanto camminare in mezzo a loro, il primo giorno. È la sua personale cerimonia scaramantica.
 
"Signor preside, Vicki Vale è arrivata e chiede di lei."
 
Joan Leland è già al lavoro prima che qualcosa abbia davvero inizio. Non lo ammetterà mai, ma Jeremiah è contento della meticolosità della propria segretaria. Lo fa sentire con le spalle coperte, come se niente di male possa succedere.
 
"Ancora qualche minuto."
 
Lei annuisce leggermente e quando Arkham si volta è già sparita. Che donna affidabile. Deve fare in modo di tenersela stretta: la maggior parte delle brutte faccende le risolve lei e questo facilita di gran lunga la sua vita. Assumerla è forse stata la mossa più intelligente da quando ha ereditato la scuola da suo nonno.
Nel suo lento pellegrinare si ritrova a pochi passi dal suo ufficio. La pianta che ha ordinato ad Harold di annaffiare non sta crescendo come dovrebbe e per questo dovrà toglierla di lì, prima che diventi gialla. Ma non è la pianta che attira la sua attenzione, al momento.
Seduta nella piccola sala d'attesa davanti al suo ufficio c'è la testa bionda di Vicki Vale. Altalena lo sguardo attento a destra e a sinistra e con una fuggevole occhiata Jeremiah capisce al volo quanto sia sveglia. Bene. Gli piace che il personale della sua scuola sia ricettivo e ben qualificato. Inoltre non può negare che sia una bella donna. E anche questo è un bene. Le belle insegnanti sono rare, al momento. Potrebbe farla apparire nelle foto ufficiali. È certo che la scuola ne gioverebbe.
Sistemandosi la cravatta, Jeremiah Arkham si prepara ad andarle in contro, sfoggiando il suo sorriso migliore.
 
 
 
Gotham City.
C'è chi dice che sia in costante movimento, un grumo di larve che si attorciglia nel fango. Alcuni invece hanno scelto di non vedere il macabro spettacolo che è e sono riusciti a trovare un'abitudinaria routine nelle loro vite.
Come Rachel Dawes.
Uno… due… tre…
Non aveva mai visto il pavimento da quella prospettiva. Ci sono delle macchie scure nell'angolo, probabilmente dovute all'umidità. Dopotutto, è normale che nel bagno delle ragazze ci sia un po' di umidità, giusto? Scommette che anche in quello dei ragazzi è così. Dovrebbe farlo presente alla bidella, quella nuova. Potrebbe essere un pretesto per scoprire il suo nome.
Quattro… cinque… sei…
Deve solo contare fino a dieci. Solitamente poi Talia è soddisfatta e molla la presa.
Sette… otto… nove…
Sente delle risatine attorno a lei ma s'impone di ignorarle. Il pavimento, il pavimento è molto più interessante. E soprattutto, non vede. Non parla. Non giudica. Ora che ci fa caso, le macchie di umidità sono molte più di quelle che aveva notato. Deve davvero farlo presente a qualcuno. L'umidità porta muffa e l'odore che ne verrebbe fuori, unito all'olezzo gradevole che caratterizza i bagni dell'Arkham High School, sarebbe proprio un bel problema.
Dieci!
Come calcolato, Talia schiocca le dita e l'energumena che teneva Rachel ancorata al pavimento solleva il piede e la lascia andare. Sa che non le è concesso rialzarsi, quindi si limita a mettersi seduta e a massaggiarsi la guancia. È umidiccia e intorpidita.

"Sai, pensavo che l'estate ti avesse resa più battagliera…" Talia la guarda dall'alto in basso. Sbatte un paio di volte le ciglia lunghissime e ghigna. "È evidente che mi sono sbagliata. Oh beh, succede anche ai migliori, giusto?"
 
Le tre oche, dietro di lei, starnazzano. L'energumena le ha raggiunte e se la ride di gusto. Hanno finalmente lasciato cadere la sua borsa, però. Rachel sa che la maggior parte dei suoi libri saranno stracciati o scarabocchiati, ma ora come ora è contenta di non avere qualche livido ingiustificabile e questo le basta. Con Talia Al Ghul, è già un miracolo che non abbia un dente rotto.
 
"Sempre in gamba, Rachel Down."
 
Sono le sue ultime parole. La bellissima Talia, femme fatale dell'Arkham High School, cammina fino all'uscita seguita a ruota dal suo gruppetto di idiote. Quando la porta del bagno si chiude, il caos concitato si dissolve. Per un momento il silenzio è scandito soltanto dal gocciolio dei lavandini. Poi Rachel si rialza e dopo aver recuperato la borsa, si concede qualche minuto per rimettersi in sesto. Ed è proprio mentre si ripulisce davanti allo specchio che si ricorda la promessa che aveva fatto a se stessa: quest'anno doveva essere diverso; quest'anno doveva trovare il coraggio di affrontare Talia e la sua cricca e sputarle in faccia che non era proprio nessuno. C'è riuscita alla perfezione, a quanto vede. Suo padre sarebbe davvero fiero di lei.
Alla fine è il suono della campanella a destarla dal suo autocompatimento e improvvisamente si ricorda dell'intervallo. Talia non sembrava soddisfatta della performance quando se n'è andata, quindi è molto probabile che la cercherà per il bis. Questo vuol dire che Rachel deve trovare immediatamente Selina e nascondersi da lei fino a quando non sarà fuori pericolo. Dovrà darle qualcosa in cambio, certo. Selina non fa mai niente per niente. Ma è un compromesso che è disposta a fare: non vuole tornare a casa malmenata già il primo giorno. E poi, lo sanno tutti che Selina è una che non si fa metter i piedi in testa, soprattutto se si tratta della sua eterna rivale Talia Al Ghul.
Con un ottimismo che le è estraneo, Rachel si stringe nelle spalle e corre in classe, scacciando la brutta sensazione di freddo che le intorpidisce ancora le ossa.
 
 
 
Gotham City.
Se qualcuno lo chiedesse a lui, la descriverebbe come il covo per eccellenza dell'ignoranza del mondo.
 
"Crane, perché gironzoli per i corridoi come un babbuino nella giungla? È troppo difficile per te capire che quando la campanella suona devi andare in classe?"
 
Odia il primo giorno di scuola. Per la verità, odia tutti i giorni di scuola, ma il primo in particolare lo manda in bestia.
 
"Professor Nashton, vedo che il tempo passa e i suoi nervi reggono sempre meno."
"Fila in classe, Jonathan, prima che l'intera scuola sia contaminata dalla tua stupidità."
 
Stupidità. Un tempo era stato convinto di potervi porre rimedio. Per questo aveva studiato per diventare insegnante: per crescere i nuovi geni del domani. Presto però aveva dovuto ricredersi e accettare il fatto di essere l'unica mela sana in un cesto di frutta avariata. L'unica mente geniale è la sua.
 
"Eddy!"
 
Oh no, non lui, non così presto. Edward alza gli occhi al cielo in una muta preghiera che, ovviamente, non viene ascoltata. Perché mai rivolgersi al cielo, poi? Un uomo dal suo acume non dovrebbe dar credito a certe scempiaggini.
Jervis Tetch gli picchietta la schiena con la mano e a quel punto lui non può più ignorarlo. Non si sforza nemmeno di adottare un sorriso forzato quando si gira. Jervis non noterebbe comunque la differenza.
 
"Tetch." La sua ostinazione è palpabile, ma Jervis non sembra intenzionato a perdere quel lungo sorriso; come se fossero grandi amici. Cosa avrà mai fatto per instillargli un'idea tanto balorda? 
 
"Hai visto la nuova insegnante di arte? È carina, sai? È bionda!"
 
Se si aspetta un qualche tipo di reazione, resta deluso. Edward si limita a sottrarsi dal suo tocco e a oltrepassarlo con la degna superiorità che lo caratterizza. Camminare lontano da lui e cercare la sua classe di asini, ecco quello che deve fare.
 
"Ho una lezione di matematica da preparare, Jervis."
"Oh, allora ci vediamo in mensa! Buon primo giorno, Eddy!"
 
Non chiamarmi Eddy, sottospecie di nano mal riuscito.
Qualcosa suggerisce a Edward che oggi non mangerà in mensa.
 
 
 
Gotham City.
Un enorme teatro dell'assurdo in cui tutto rivendica giustizia ma brama divertimento. E il divertimento di Gotham non è mai puro latte materno ma fiele pericoloso che si fa strada tra le ossa e corrode l'animo.
 
"Buongiorno ragazzi."
 
Jervis Tetch si chiude la porta alle spalle e si avvicina alla cattedra. È più alta di lui, ma non ci fa caso. Non fa mai caso a nulla, il professore, come se fosse perennemente perso in un mondo tutto suo.
L'alunno lo guarda qualche istante e il pensiero che lo ha colpito la prima volta che lo ha visto torna a tormentarlo con maliziosa soddisfazione: quel professore è matto. Da legare. Ma non è una novità: a Gotham la pazzia è ordinaria amministrazione.
Alza lo sguardo e si concede una lenta analisi dei suoi compagni di classe.
Rachel Dawes è in prima linea nel suo solito posto davanti alla cattedra. Ha cambiato montatura degli occhiali, ma anche con quelle stecche nere ed eleganti sembra comunque una ragazzina che gioca ancora con le bambole. La materia prima c’è, ad ogni modo; dovrebbe solo stare un po’ più attenta a come si veste. Dopotutto l’eleganza è una delle prime cose di cui bisogna tener conto.
Talia Al Ghul, ad esempio, è una che di eleganza ne capisce. E tanto. Ma forse è anche grazie a tutti i soldi che le dà il caro vecchio Ras’.
Harvey Dent. Trova esilaranti i tipi come lui, cavalieri senza macchia e senza paura pronti a offrirsi in nome della giustizia. Queste ideologie potrebbero funzionare in città luccicanti come Metropolis o Star City, ma a Gotham… no, Gotham è tutta un'altra storia. Dovrebbe chiedere un parere a Selina Kyle, e allora sì che ci sarebbe da ridere.
Pamela Isley, la classica "bella e maledetta". Odiata fin dal primo momento in cui l’ha vista, forse per il suo smisurato femminismo. Non può dire lo stesso della sua amica dai capelli biondi, però. Harleen Quinzel. Il suo nome ha un sapore strano nella bocca, come se gli sfuggisse sempre qualcosa quando si tratta di lei. La trova fin troppo chiacchierona e a tratti irritante, ma deve riconoscerle un senso dell’umorismo a volte azzeccato. Non come Jack Ryder, che invece parla solo per dare aria alla bocca.
E poi, oh beh, poi il gran finale.
Bruce Wayne. Il principe orfano. Il pupillo di Gotham. C’è qualcosa di strano nel modo particolare in cui Bruce Wayne osserva ciò che gli sta attorno. Non è soltanto presunta superiorità, né curiosità disinteressata, quanto piuttosto una maschera di emozioni perfettamente controllate che rendono difficile leggere ciò che ha dentro; come se avesse paura di mostrarsi. Lo trova interessante. Divertente anche. 
 
Il professor Tetch si schiarisce la voce: "Parlando del programma di letteratura che affronteremo quest'anno…"
 
Vorrebbe continuare ad ascoltare, ma la risata soffocata di Jack Ryder lo distrae. Ha il corpo rivolto nella sua direzione e questo gli basta per capire che quelle attenzioni sono rivolte a lui. Ride, ma non in risposta. Trova esilarante la cieca convinzione di Jack che lui sia disposto a essergli amico. Patetico. Lui non vuole amici, non ne ha bisogno, ed è chiaro che Jack non l'ha ancora capito. Ha deciso di non infrangere i suoi sogni idilliaci, però, soltanto perché non ha ancora trovato un modo divertente per farlo.
 
"Sarà un anno interessante, Jacky" ammette, allacciando le mani dietro la testa e senza trattenere un sorriso. Poco importa se Ryder non ha idea di cosa stia parlando.
 
"Davvero interessante."
 
 
 
And now I've been gone for so long
I can't remember who was wrong
All innocence is long gone
I pledge allegiance to a word of disbelief where I belong
 
A walking disaster
The son of all bastards
You regret you made me
It's too late to save me
 
(Sum 41, Walking Disaster)




Angolo dell'autrice:

Anzitutto, grazie per essere arrivati fin qui.
Era da un po' di tempo che questa storia mi ronzava in testa e quale momento migliore per cominciare a pubblicare se non durante la sessione estiva? *nasconde i miliardi di libri che ancora deve finire di leggere*
A parte questi dettagli, la bozza c'è tutta e alcuni capitoli sono già stati scritti. Cercherò quindi di aggiornare la storia periodicamente, ma già da ora chiedo pazienza a chiunque avesse voglia di continuare a leggere i miei capitoli.

Per i personaggi, faccio riferimento soprattutto alla trilogia videoludica di "Arkham", ma c'è anche qualche riferimento a "The Dark Knight" di Nolan. E voi direte: perché allora non hai pubblicato nella sezione film? Perché i giochi si rifanno ai fumetti, quindi mi sembrava più giusto scegliere questa sezione.

Eeeee, niente. Mi farebbe davvero piacere sapere cosa ne pensate! 
Intanto grazie...e a presto - si spera! 

Always_Always



 

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Capitolo 2
*** What now ***


Capitolo n°2
What now
 
 
 
I've been ignoring this big lump in my throat
I shouldn't be crying tears were for the weak 
The days I'm stronger now what so I say
But something's missing
 
Whatever it is
It feels like it's laughing at me 
Through the glass of a two-sided mirror
Whatever it is
It's just laughing at me
And I just wanna scream
 
(Rihanna, What Now)
 
 
 
Harleen Quinzel deve ricordarsi più e più volte che c'è un lato positivo in ogni cosa per evitare di rovesciare il caffè del distributore automatico addosso a qualcuno. Deve ripetersi come un mantra che lei è una ragazza ottimista per natura e pertanto non può farsi crollare l'umore per delle sciocchezze insignificanti.
La sveglia non ha suonato, questa mattina, e con la scusa dell'ospedale suo padre non era lì per evitarle l'irreparabile ritardo. Ha dovuto prepararsi in tutta fretta, saltare la colazione e gettarsi in strada dimenticandosi completamente l'ombrello. Così, la pioggia che da qualche giorno infuria su Gotham City ha attaccato i suoi capelli come se li stesse aspettando. Il massimo che ha potuto fare è stato coprirli alla bell'è meglio con il cappuccio della felpa, ma non è servito. Inutile dire che ora sono gonfi e acconciati in una pessima imitazione delle parrucche di Maria Antonietta. Pam si è arrabbiata moltissimo per il mancato appuntamento, inveendo contro di lei con messaggi piuttosto coloriti nei quali concludeva che si sarebbero viste a scuola e che poteva anche andare a quel paese. Harleen non se l'è presa più di tanto, sa che la rabbia indispettita di Pam può essere sconfitta facilmente con una tazza di the verde; parla per esperienza. Comunque, ha cose più importanti a cui pensare, ora come ora: suo padre le ha lasciato un altro dei suoi bigliettini in cui scrive che starà via tutto il giorno e non tornerà in tempo per portarla ad allenamento. Questo la fa imbestialire più di tutto il resto: suo padre sa quanto sia importante la ginnastica artistica per lei.
Ma se pensa che resterò a casa ha capito male.
 
"Signorina Quinzel, il suo ritardo è imbarazzante."
"Mi dispiace, professor Nashton, ma la mia—"
"Se la risparmi, Quinzel. Si sieda e ringrazi che l'abbia fatta entrare."
 
Harleen ingoia un insulto e non ribatte alla provocazione. Sanno tutti che Edward Nashton è un isterico bastardo che si diverte a umiliare gli studenti e lei non ha intenzione di farsi prendere di mira proprio l'ultimo anno, anche se le prudono le mani. Forse il professor Nashton smetterebbe di essere arrogante con una matita conficcata nell'occhio. Dovrebbe provare, una volta.
Fruga la classe con lo sguardo alla ricerca di Pam e del banco vuoto accanto a lei, sperando che la sua rossa abbia accantonato le divergenze di questa mattina; non potrebbe davvero sopportare altri problemi, ora come ora.
Ma, ovviamente, quando mai le sue preghiere vengono ascoltate?
Nel momento in cui se ne rende conto, si blocca in mezzo all'aula e manca poco perché si metta a urlare.
Selina. Selina Kyle occupa il posto accanto a Pamela. Quello riservato solo ed esclusivamente a lei.
Non. È. Possibile.
Selina deve accorgersi del suo sguardo assassino perché per un istante le concede un'occhiata curiosa, un invito malizioso a fare qualcosa.
Un'altra matita conficcata nell'occhio, pensa Harleen con le vene che si gonfiano, e per completare l'opera ti toglierò quel sorriso a furia di pugni.
Pam, nell'altro banco, ha assunto una faccia mortificata e sta intavolando una conversazione di sguardi che hanno chissà quale significato.
In tutto questo, Harleen ancora non riesce a crederci.
 
"Quinzel, c'è qualche problema in particolare o sta perdendo il mio tempo solo per dare spettacolo?"
 
Fottiti.
Suo malgrado, è costretta a riprendere possesso delle sue abilità motorie e camminare in fondo all'aula, fino al banco che la cara Selina ha deciso di abbandonare per ragioni ignote. Appena lo raggiunge si lascia cadere con un tonfo poco elegante, per poi incrociare malamente le braccia e nasconderci la testa, seccata. Chiude gli occhi e s'immagina i modi più atroci per farla pagare a Selina Kyle.
È sempre stata una ragazza ottimista per natura, ma certe volte le viene da pensare che un omicidio di massa possa davvero fare la differenza.
 
"Sai, il broncio non ti si addice…"
 
Spalanca gli occhi, anche se non alza la testa.
È una voce. È un ragazzo. Ed è incredibilmente vicino. Harleen non impiega molto per risolvere il mistero: deve essere il suo nuovo compagno di banco. È stata così occupata a imprecare contro il mondo che non si è nemmeno ricordata di lanciare uno sguardo al suo nuovo vicino. Per un momento l'idea di essere gentile le sfiora la mente. Solo per un momento, però. Poi si ricorda di essere irritata fino all'inverosimile e dimentica tutto il resto.
 
"Non ho chiesto il tuo parere," ringhia. Parlami ancora e ti mordo.
"Accidenti, biscottino, sei davvero acida. Non ti facevo così suscettibile."
 
Biscottino?
 
Questo è davvero troppo. Probabilmente se gli sputa in un occhio capirà che non deve importunarla più; ma quando solleva la testa per attuare il suo piano di vendetta, Harleen incontra finalmente il suo volto e ogni cattivo proposito si dissolve nel nulla.
 
"Come mai questo improvviso mutismo?" è ancora lui a parlare. È divertito: "Sembravi così sicura di te, qualche secondo fa…"
 
Improvvisamente si rende conto di aver già visto questo ragazzo, di averne già sentito parlare. Non conosce il suo nome, ma la sua faccia è inconfondibile. Se la ricordano tutti.
 
Alla fine lui sorride e rende il tutto ancora più grottesco: "È per le cicatrici?"
 
Harleen si chiede che fine abbia fatto la sua grande capacità di argomentazione, perché in quel momento non riesce a fare altro che osservare quei segnacci scuri e gonfi che prolungano gli angoli della bocca in un macabro sorriso. Ne ha sentite tante sul ragazzo strano con le cicatrici in faccia. A scuola si dice che siano delle ferite orribili che danno il voltastomaco. Non è del tutto vero, anche se deve ammettere che sono tremende. E ciò che rende il tutto ancora più raccapricciante è che nessuno sa come se le sia fatte. O chi gliele abbia fatte.
Harleen, maledizione, dì qualcosa!
 
"… Quei due graffietti?" ribatte, quasi inconsapevolmente, "non li avevo neanche notati."
 
È come se il tempo rallentasse. Le parole del professor Nashton riguardo funzioni e derivate non sono altro che suoni ovattati che Harleen percepisce a stento. I suoi pensieri si congelano e quell'unica frase le rimbomba nella testa, insieme a un'altra considerazione che non attarda ad arrivare.
Sei una cretina, Harl.
Giusta obiezione. Lei e la sua stramaledetta lingua lunga; quando c'è di mezzo la tensione, non riesce a controllarsi. Pam la sgrida spesso per questo e anche se lei cerca d'impegnarsi, non riesce ad evitare uscite imbarazzanti come quella di adesso. Spera solo che il ragazzo non si senta troppo schernito.
Lui la sta osservando con uno sguardo vitreo e anche se Harleen è convinta che ci sia soltanto astio nei suoi grandi occhi verdi, si sorprende di come la facciano sentire: come se riuscissero a leggerle dentro. Arrivare all’anima.
Contro ogni previsione, il ragazzo ruota la testa all’indietro e comincia a ridere forte, così forte che non soltanto lei piomba in un imbarazzo del tutto improvviso, ma tutti i compagni di classe si voltano a osservarli e il professor Nashton li incenerisce con un’occhiata di fuoco.
 
"Voi due! Se la lezione non v'interessa, uscite immediatamente dalla mia classe!"
 
"Harleen Quinzel… tu sei… uno spasso…" risponde lui, ancora ridendo, simulando poi uno sguardo pensoso che pare proprio una presa in giro. Ripete due o tre volte il suo nome lentamente, assaporandone il suono con la bocca piena, poi torna a ridere come se avesse sentito la battuta più divertente del mondo.
 
"Harleen… Quinzel… Harley… Quinn… Harley Quinn! Harley Quinn!"
 
Questo ragazzo è pazzo.
La campanella suona e questo le dà il pretesto che aspettava: si alza con uno scatto e comincia a camminare a passo svelto fuori dall'aula. Ha una sensazione strana all'altezza del petto. È un'agghiacciante inquietudine che le smorza qualsiasi pensiero razionale. Vuole uscire da lì, deve.
Da lontano, percepisce la voce profonda e carezzevole del ragazzo solleticarle le spalle e le vengono i brividi.
 
"È stato un piacere, Harley."



 
∞∞∞ 


 
La fuga rocambolesca della Quinzel non passa inosservata dalla sua inseparabile compagna; la rossa si precipita dietro di lei dopo aver rivolto a Selina l'ultima occhiata fulminante della lezione. Lei risponde con un ghigno, anche se Pamela si è già voltata, e dopo aver sventolato la mano davanti al naso per scacciare l'odore di fiori che quella ragazza si trascina dappertutto, si volta verso la sua nuova spina del fianco.
Rachel Dawes è ancora intenta a sistemare i suoi libri. Istintivamente alza gli occhi al cielo.
 
"Vuoi sbrigarti? Non voglio perdere di nuovo i posti migliori."
"Non preoccuparti, la prima fila resta sempre vuota."
"Appunto."
 
Rachel avvampa, anche se mantiene lo sguardo basso. Selina ha notato che difficilmente guarda qualcuno negli occhi.
Chissà perché.
 
"… L-la prima fila è il posto ideale per—"
"Niente stronzate da secchiona, Rachel. Se vuoi avere le spalle coperte devi fare come dico io. E questo vuol dire ultima fila, da adesso in poi."
 
Anche se deve ammettere che la faccia di Harleen è stata impagabile.
 
"Ancora non riesco a capire perché non ti sei seduta vicino a me…"
 
La piccola Rachel Dawes è timida e riservata, ma quando s'impunta sa essere assolutamente determinata. La rispetta per questo. Anche se è una sfigata e in quanto tale Selina ha il dovere di far rispettare la gerarchia.
 
"Non sono tenuta a giustificarmi con te, dolcezza. E poi sono io che decido come comportarmi durante i miei servizi."
"Ehi, io ti pago per il tuo servizio."
 
È vero, lo deve ammettere. E inoltre, dare fastidio a Talia è una di quelle piccole soddisfazioni che la gratificano sempre. Però non deve darlo a vedere, soprattutto se vuole mantenere la sua reputazione e con quella i suoi lavoretti.
 
"Muoviti", sbotta infine, senza darle il tempo di ribattere.
 
Si allontana verso la porta con le braccia incrociate e la voglia disperata di un chewing-gum. Potrebbe costringere Rachel a comprarle un pacchetto. Non sarebbe una cattiva idea.
I suoi vaneggiamenti perdono di significato quando qualcosa di assolutamente più appetitoso entra nel suo campo visivo: Bruce Wayne non è dotato di una bellezza mozzafiato, ma quando hai così tanto fascino e molti zeri nel conto in banca, non ne hai bisogno.
 
"Oggi siamo di poche parole, principino."
Bruce si accorge di lei e, capita l'antifona, sogghigna.
"Cerco di evitare di parlare a sproposito, gatta. Al contrario di te."
 
Gatta. Il soprannome comincia a piacerle, ma non può pensarci adesso: è in corso una sfida ed è giunto il momento di sfruttare appieno i suoi occhioni blu. Li sbatte due o tre volte.
 
"Non è carino dire certe cose a una donna, Bruce. E io che pensavo di piacerti…"
 
Il loro è un gioco di rivalità ormai di consuetudine. Nessuno dei due ammetterà mai quanto effettivamente faccia piacere.
 
"Non cercare di fare la ragazza indifesa, Selina. Sei tutto meno che questo."
 
Sorride mostrando i denti nivei e quando Rachel, senza degnarli di uno sguardo, li supera e scompare nel corridoio, capisce che è il momento di chiudere la questione.
 
"… Ed è proprio questo che ti piace di me, vero?"
 
Esce dall’aula e può scommetterci tutti i suoi risparmi: Bruce Wayne la sta guardando.
Quanta soddisfazione dà la consapevolezza di avere un buon potere di seduzione.
Dopotutto, gli uomini sono uomini. E il caro principino non fa eccezione.
 
 

 
∞∞∞ 



"Harl, aspetta!"
 
Dammi un minuto.
 
"Harleen?!"
 
Continua a camminare imperterrita verso la prossima aula, la risata del ragazzo ancora nelle orecchie. Vorrebbe riuscire a dare una spiegazione razionale all'ansia isterica che l'ha pervasa qualche istante fa e che non sembra volersene andare, ma Pamela la raggiunge e a quel punto lei non può più far finta di niente. Chiude quelle emozioni in una piccola scatola e la nasconde nei meandri della sua mente. Dopo, dopo penserà a quello che è successo. Ora deve sfoggiare la sua migliore faccia da poker.
 
"Scusa, Pam. Non ti avevo sentita."
 
Pamela la guarda in tralice, la tipica espressione che assume quando scopre le sue bugie.
D’altra parte, Pam ha la straordinaria capacità di capire quando sta mentendo, faccia da poker o no.
Harleen sente il bisogno di cambiare argomento prima che Pamela possa fare qualche domanda scomoda.
 
"Stasera mio padre non può accompagnarmi in palestra."
 
Non riesce a nascondere l'astio nelle sue parole, forse perché non vuole proprio perdonarlo. Suo padre sa che la ginnastica artistica è l'unica cosa che conti davvero e che non può perdere nemmeno un allenamento se vuole avere una qualche chance in futuro. Ma, evidentemente, il suo futuro non rientra nelle priorità di suo padre.
È deludente realizzare quanto poco lo conosca.
 
"Mi dispiace…" risponde Pam, ma Harleen scuote la testa.
"Nessun problema. Ho intenzione di andarci comunque."
 
Tre, due, uno, via: Pamela assume il classico sguardo ombrato. Prevedibile.
 
"Harl, sai quanto sia pericolosa questa città di notte. Non è sicuro an—"
"So quello che faccio. Non succederà niente."
"Non è che ora io sia più tranquilla."
"Pam, rilassati: so cavarmela da sola."
 
La rossa resta zitta, ma la fronte corrugata e le labbra corrucciate vogliono dire tutt'altro. Harleen sente nuovamente il bisogno di cambiare argomento.
 
"Sai chi è il ragazzo con le cicatrici?"
Pamela alza le sopracciglia curate: "Tutti sanno chi è."
 
È vero. La leggenda del ragazzo con le cicatrici per sorriso è nota e parecchio diffusa.
Ma non è quello che intendeva lei.
 
"Conosci il suo nome?"
 
Pamela apre la bocca e alza l'indice affusolato, per poi bloccarsi a mezz'aria e mutare la sua espressione in uno sguardo di grande perplessità.
 
"Jack? John? Forse Jerome?"
 
Un buco nell'acqua.
Harleen resta a pensarci ancora qualche istante, prima di seguire Pamela dentro l'aula e concludere che, chiunque sia quel ragazzo, l'alone di mistero che si porta appresso è più fitto di quanto pensasse.
 
 

 
∞∞∞
 


Le strade di Gotham City non sono mai state pulite e accomodanti. Nemmeno quelle di alto rango. E la sua palestra non è certo nelle zone più prestigiose della città. Per fortuna manca davvero poco per arrivare a casa.
Quando quella mattina Harleen ha detto a Pam che non c'era nulla di cui preoccuparsi, diceva sul serio. Solo che il freddo pungente della notte penetra attraverso la sua tuta di feltro e i rumori confusi che avverte in quella stradina isolata, illuminata soltanto da un piccolo lampione rovinato, la stanno facendo ricredere. Non vede l'ora di arrivare a casa e affogare queste sue sciocche preoccupazioni in una fumante tazza di caffè bollente. Niente di meglio per perdere il sonno.
Ad accompagnarla in quella lunga camminata notturna c'è un gatto grigio appollaiato su un bidone della spazzatura. La studia con scarso interesse e ogni tanto si lecca le zampe tra miagolii e fusa. Probabilmente è l'unico ad essere a proprio agio nell'atmosfera notturna di Gotham. Beato lui.
Un rumore secco le arriva alle orecchie. È alle sue spalle. Si volta di scatto serrando la presa sul suo borsone, ma è soltanto il vuoto a restituirle lo sguardo. Resta ancora per qualche istante a osservare l'oscurità, pensando che quel dannato lampione sarebbe da rottamare, quando un altro rumore, che stavolta identifica con una voce ben distinta, anticipa la figura di un uomo che si stacca dall'oscurità e cammina nella sua direzione.
Per un attimo, Harleen si chiede se non sia meglio cominciare a correre.
Non essere ridicola, Harl: perché qualcuno dovrebbe…
 
"Che ci fai in giro tutta sola, signorina?"
 
L'ombra sotto di lui è lunga e deforme e raggiunge la punta dei piedi di Harleen. Il passamontagna calato sul volto la inchioda per un istante al pavimento.
Girati e scappa.
 
"… Sto… tornando a casa…"
 
Corri Harl.
 
Un ghigno: "Potrei accompagnarti io."
 
Corri!
 
È un attimo. Il gatto si rifugia nel bidone della spazzatura, Harleen si volta lasciando cadere a terra il borsone e l'uomo scatta verso di lei.
Il cuore le batte all'impazzata, impedendole di pensare lucidamente e di respirare. Un'arma, deve trovare un'arma. Qualcosa da usare per cacciarlo via, per difendersi. Cerca di ricordarsi quali siano i punti sensibili per mettere fuori gioco un uomo, i punti di pressione per debilitare gli aggressori: occhi, testicoli, stinchi, setto nasale. Qualsiasi cosa. Ma il suo cervello non vuole saperne di collaborare. La paura si mischia al suo sangue e le stilla un solo pensiero nella testa: la fuga. Così, invece di elaborare un piano d'attacco, non fa altro che muovere le gambe più che può nella speranza di incontrare qualcuno che possa soccorrerla.
Con uno strattone, l'uomo la spinge a terra e lei sbatte la testa contro il lampione della luce. Cade rovinosamente, la pelle si slabbra e comincia a bruciare all'altezza dei gomiti e delle ginocchia. Non riesce a muoversi.
 
"Fermati…" mormora all'uomo, che ora è cavalcioni su di lei. "Non ho soldi, per favore!"
"Dovrò accontentarmi di altro, allora."
 
No, tutto ma quello no.
 
"Se stai tranquilla, non farà troppo male."
 
Le mani sudicie l'accarezzano e lei si sente sporca. Si lascia sfuggire due lacrime amare, mentre si rifugia tra i suoi pensieri, dove Pamela le sorride e il sole splende. Forse se si concentra riuscirà a non accorgersi di nulla. Come se non fosse mai successo.
 
"Che cazzo…?" dice lui. Ha una voce disgustosa.
 
Non aprire gli occhi, Harl.
 
"Chi cazzo sei, eh? Fatti vedere!"
 
Avverte il peso sul suo corpo farsi improvvisamente più leggero e solo in quel momento Harleen racimola un po' di coraggio e apre leggermente gli occhi. L'uomo è in piedi e le dà le spalle, osserva l'oscurità che ha davanti e sventola le braccia in aria con forza. La lama del coltello che stringe nella mano luccica per un istante nel buio.
 
"Oh no…" mormora poi lui, nella voce un terrore che Harleen riconosce a stento, perché i suoni si sono fatti confusi e lei non sa dire se sia per la paura o per il colpo alla testa, ma sente di non essere a pieno contatto con la realtà.
 
"Perché? Io… ti ho dato quello che volevi…"
 
Le sembra di sentire una risata, nell'oscurità. È quella del diavolo?
 
"No, Joker… no!"
 
Soltanto quando lo vede afflosciarsi a terra come un sacco vuoto riprende la lucidità. Sbatte le palpebre, ma quello che ha davanti, sebbene lo riguardi una, due, tre e mille altre volte, le fa accapponare la pelle: quell'uomo è morto. Quel mostro, quel bastardo, quell'infimo animale che meritava di morire, è morto davvero. E il suo stesso coltello conficcato al centro del torace non lascia spazio a dubbi: qualcuno lo ha ucciso.
E quel qualcuno è ancora qui.
Harleen si rannicchia su se stessa senza staccare gli occhi dall'oscurità che inghiotte il vicolo, cercando di restare nel piccolo cerchio di luce che quel dannato lampione disegna attorno a sé. Può sentire distintamente il battito del suo cuore scalpitare in una corsa frenetica e trapanarle la mente. Vorrebbe urlargli di smetterla, sbattere la testa contro il muro nella speranza di placare quel rumore assordante, ma ancora una volta è il panico totale ad ancorarla all'asfalto sporco.
Schiarisce la voce, solo per controllare che ne abbia ancora una.
 
"Chi… chi c'è?"
 
Non deve aspettare molto per conoscere la risposta. Dal buio pesto davanti a lei emerge una figura ingobbita. Ha la faccia truccata in quella che può definirsi una macabra rappresentazione di un pagliaccio da circo. I capelli sono tinti di verde, il volto è completamente bianco e il sorriso è rosso scarlatto, prolungato fino alle guance da delle terribili cicatrici che le ricordano incredibilmente…
 
"TU!" esclama Harleen, alzandosi di scatto. Sembra improvvisamente ripresa, anche se i dolori che ora ignora si faranno sentire, domani.
 
"Ci rincontriamo, Harley."
 
Una voce accomodante ma agghiacciante, così diversa da quella placida che aveva al loro primo incontro.
 
"Che diavolo ci fai qui!? E- quell'uomo! E- quel coltello! T-tu l-l'hai ucciso! Cazzo, l'hai ucciso! Sei pazzo?! L'hai ucciso! Davanti a ME! E-"
 
Forti braccia la sbattono contro il palo, bloccando sul nascere quella crisi di nervi. Harleen fa fatica a crederci: il suo dannatissimo compagno di bancoè davanti a lei, preme un braccio sul suo collo e con l'altra mano…
Oh, cazzo! Quello è un coltello?!
 
"Ho sempre pensato che fossi una ragazza troppo chiacchierona, zuccherino…" sussurra lui a due centimetri dal suo viso e il suo tono di voce è cambiato ancora, è gracchiante, rauco e docile allo stesso tempo. Le ricorda tanto una faina pronta a scattare. Il coltello le carezza la guancia lasciando una scia fredda che la manda in tilt.
 
"Perché ti ha chiamato 'Joker'?" chiede, rendendosi conto soltanto dopo di quanto sia fuori luogo quella domanda.
Lui curva la testa di lato e si lascia sfuggire un risolino: "Chiedilo a lui…"
 
Sarà colpa della sua voce, del suo sorrisetto divertito o dei suoi occhi verdi, ma Harleen non ha paura. Il terrore si è volatilizzato, non riesce neanche a ricordarsi che sapore abbia. Solo che ora capire il perché richiede una lucidità che sa di non possedere.
 
"Aveva paura di te…" – un'altra considerazione fuori luogo.
"Mmh," lui aggrotta le sopracciglia e si lecca le cicatrici rosse rosse, "forse non gli piacevano i clown…"
"Hai intenzione di uccidermi?"
"Fino a poco tempo fa, sì."
 
Dovrebbe urlare e chiedere aiuto. Dovrebbe assestargli una gomitata in pancia e fuggire il più lontano possibile dallo strano luccichio che accende i suoi occhi. Eppure non riesce a muoversi. La paura che prima l'aveva spinta a correre fino a consumarsi le gambe ora sembra assopita e lei scopre di non volersene andareSa che potrebbe ucciderla da un momento all'altro, ma non le importa.
 
"Perché hai cambiato idea?"
 
Lui scoppia in una risata. Quella del diavolo. E in quel momento Harleen si dà della stupida perché, anche se molto più macabra, soffiata, temibile e distorta, quella risata non è molto differente da quella che gli ha sentito fare in classe.
E non è stata capace di riconoscerla.
 
"Sai, bambolina… tu sei troppo divertente. Mi fai ridere, vedi? E questa è una cosa carina."
 
È soltanto quando lui si volta che si rende conto di non averlo più addosso.
 
"Ci vediamo domani, Harle-quin…"
 
Dalla sua gola non esce alcun suono. Si sente disorientata e la testa ruota vorticosamente, impedendole qualsiasi ragionamento razionale. È consapevole di aver fatto un incontro assurdo, il più pericoloso ed esaltante di tutta la sua vita, ma ora, osservando camminare quel ragazzo a passo tranquillo, non sa dire che sensazioni abbia in proposito. Intercetta con lo sguardo il corpo ormai privo di vita dell'animale che stava per aggredirla e, suo malgrado, non riesce a provare pena per lui. Al contrario, il bastardo è all'inferno dove merita di stare. Ma quando il ragazzo scompare nell'oscurità da dov'è venuto, ecco che tutta la magia svanisce in un battibaleno e lei realizza quello che è appena successo. Si ritrova in un vicolo buio, sola in piena notte e il terrore l'assale ancora, brutale e inarrestabile come una ganascia d'acciaio. Recupera il suo borsone e schizza a casa alla velocità della luce.
Soltanto quando infila le chiavi nella toppa e chiude la porta dietro di sé si permette di guardare in faccia tutto quello che è successo. Si accascia contro la porta, immersa in un silenzio surreale che non lascia scampo. Una volta tanto è grata che suo padre non sia in casa.
"Mmh, forse non gli piacevano i clown…"
Una risata sconnessa le sfugge dalle labbra, prima che fiotti di lacrime le bagnino il viso e lei precipiti in un pianto isterico carico di paura e terrore.
 
 
 
Through the glass of a two-sided mirror
Whatever it is
It's just sitting there and laughing at me
And I just wanna scream
 
What now? I just can't figure it out
What now? I guess I'll just wait it out
What now? Please tell me
What now?
 
(Rihanna, What Now)
 
 




Angolo dell'autrice:

Eccomi qui con il secondo capitolo.
In verità non c'è davvero molto da dire.
Volevo solo ringraziare chiunque avesse letto il capitolo e tutti quelli che hanno messo la mia storia nelle seguite — preferite — ricordate! 
E ovviamente grazie a chi ha recensito e a chi recensirà! 

Ci riaggiorniamo al prossimo capitolo!

Always_Always
 

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Capitolo 3
*** Bang bang ***


Capitolo n°3
Bang Bang
 
 
 
Season came and changed the time
When I grew up I called him mine
He would always laugh and say
"Remember when we used to play?"
 
Bang Bang, I shot you down
Bang Bang, you hit the ground
Bang Bang, that awful sound
Bang Bang, I used to shoot you down
 
(Nancy Sinatra, Bang Bang)
 
 
 
Rachel si mette a sedere ignorando un dolore acuto al sedere che non se ne andrà se non tra qualche ora. I suoi libri sono sparsi a casaccio sul pavimento e per un istante è sollevata che il corridoio sia deserto e nessuno possa vedere la pessima figura che sta facendo. Anche se, probabilmente, se qualcuno fosse lì Talia e la sua cricca non si permetterebbero di toccarla neanche con un dito.
Stronzate, si divertirebbero ancora di più a umiliarmi pubblicamente.
 
"Sei patetica, Down. Senza la tua guardia del corpo vali meno di zero."
 
Non tenta di ribattere alle provocazioni di Talia, che troneggia su di lei e la scruta dall'alto al basso come se stesse guardando un insetto, né di far cessare le risatine di scherno da parte delle solite oche. Ingoia un insulto, conscia che servirebbe solo ad aggravare la situazione, ma non può nascondere l'astio che incendia il suo sguardo.
Non c'è nessuna parola che potrebbe descrivere l'odio profondo che prova nei confronti di Talia Al Ghul.
Ma dove diavolo sei sparita, Selina?
 
"Perché mi guardi così? Vuoi colpirmi?" Talia si abbassa su di lei e alza il mento, mostrandole il volto con la spavalderia di chi non ha paura di nulla: "Provaci, se ne hai il coraggio."
 
Bastarda.
Per un solo, piccolissimo istante, Rachel è tentata di farlo. Riempire di schiaffi e pugni quel volto da strafottente e cambiarne i connotati senza rimpianti. Quanta soddisfazione soltanto all'idea. Eppure si limita a reggere il suo sguardo e restare immobile.
Potrebbe farlo. Davvero. Ma sa che non può. Lei è fermamente convinta che la violenza non sia mai la soluzione. Che picchiare qualcuno è sbagliato, scorretto e spregevole. Quale persona con un quoziente intellettivo nella norma sfrutta la violenza per imporre i propri principi e i propri desideri? Una che non ha altri strumenti per esprimersi diversamente. Una non civilizzata, vuota e totalmente abietta.
E lei non ha intenzione di abbassarsi a un tale infimo livello, neanche se potrebbe rimetterci un dente.
 
"Lo sapevo", mormora soddisfatta Talia dopo qualche secondo. Le molla uno schiaffo sulla faccia che lascia cinque segnacci rossi. "Patetica" ripete.
 
Rachel sente montare l'ira, le lacrime e il dolore, ma non batte ciglio. Talia Al Ghul si rialza, sistema l'abito firmato e dopo aver fatto segno alle sue sottoposte, le manda un bacio con la mano.
 
"Ci vediamo più tardi, Down. Dovresti stare più attenta a dove cammini. Non vorrei mai che cadessi di nuovo e ti facessi male…" ride carica di veleno e le oche con lei. Poi svoltano l'angolo e la lasciano finalmente sola.
 
Rachel comincia a raccogliere pian piano tutti i suoi oggetti, in un silenzio carico di pensieri. Non sembrano esserci danni, o almeno, nessuno irreparabile e questo dovrebbe farla stare meglio. Ma la verità è che ha una gran voglia di scappare lontano e non tornare più.
 
"Brutta… puttana…" mormora a denti stretti, non accorgendosi di una lacrima solitaria che scivola sulla sua guancia rossa. Stringe le mani con troppa forza, tanto che sente le unghie conficcarsi nella pelle, eppure non allenta la presa perché soltanto in quel modo riesce a scaricare la rabbia. Piange, sprofondando in un dolore che sa di solitudine e ingiustizia.
 
"… Tutto bene?"
 
Solleva la testa, sorpresa. Davanti a lei c'è Harvey Dent, un sorriso titubante e due occhi indagatori che spiccano sotto al ciuffo biondo. Forse è appena arrivato e non ha visto la scenetta pietosa di poco prima. Meglio così: Rachel non ha voglia di ricevere la carità di qualcuno, soprattutto perché sa che tutta la scuola l'ha etichettata come la ragazza sfigata che è buona solo per essere presa a pugni.
Si sente stanca, vorrebbe tornare a casa e dormire. Invece si limita a pulirsi il viso e darsi il contegno che le serve per apparire più forte di quello che è.
 
"Mai stata meglio", ribatte con più acidità di quanta vorrebbe, ma francamente che le importa? Harvey Dent è un ragazzo popolare, uno di quelli che esce vincitore da qualsiasi situazione, troppo abbagliato dalla luce della sua stessa immagine per curarsi di lei. Sicuramente le si è avvicinato solo per dovere, non per un reale interessamento.
 
"Oh", per un attimo Harvey le sembra dispiaciuto, ma ancora una volta Rachel si costringe a voltarsi dall'altra parte. I libri sparsi per il corridoio sono tanti, quando c'era Talia non se n'era accorta. Continua a raccoglierli e a infilarli nella borsa quando Dent si inginocchia accanto a lei.
 
"Che cosa stai facendo?" è tutto quello che riesce a domandare.
"Non si vede? Ti aiuto."
"Me la cavo benissimo da sola, grazie."
Un ammiccamento: "Non ho alcun dubbio, ma aiutare le belle ragazze è uno dei miei passatempi preferiti."
 
Rachel lo guarda a bocca spalancata.
Mi sta prendendo in giro. Non c'è altra soluzione.
Sta per ribattere con un insulto più aggressivo quando incontra il suo volto. Il sorriso di Harvey Dent è così genuino e sincero che Rachel si chiede per un istante se non abbia sbagliato qualcosa.
 
"Oh, beh…" si ritrova a farfugliare, improvvisamente arrossita "… grazie…"
"Dovere."
 
Si rialza un po' impacciata, arraffando la borsa che lui le porge senza sapere dove metterla e improvvisamente il silenzio che c'è tra loro è così imbarazzante che lei desidera sparire da qualche parte. Eppure si sente strana, leggera, come se stesse volteggiando tra le nuvole.
Diavolo Rachel, il colpo che ti ha dato Talia questa volta ti ha davvero fritto il cervello.
 
"Grazie", ripete prima di mordersi la lingua. Se continua di questo passo, la prenderà per un'idiota e la sua reputazione è già abbastanza raccapricciante senza che lei la peggiori ulteriormente.
Un altro sorriso luminoso anticipa lo sguardo improvvisamente serio di Harvey e quando poi parla di nuovo, la sua voce tentenna.
 
"Sai… tu tendi a nasconderlo, ma non hai niente da invidiare a quella stronza. Anzi, probabilmente è il contrario e lei lo sa…"
 
Cosa. Diavolo. Ha appena. Detto?
Boccheggia, Rachel, incapace di rispondere, incapace perfino di connettere il cervello per capire che cosa stia succedendo attorno a lei. Mai, mai, in tutto questo tempo qualcuno le aveva parlato a cuore aperto, dicendo cose così rassicuranti e premurose. Non è abituata a queste attenzioni. Non è abituata a quello sguardo carico di aspettativa che lui le rivolge di sottecchi – quasi si vergognasse di chissà quali pensieri – e che le fa intuire chenon sta mentendo; ma nel momento in cui si accorge di aver fatto cadere il silenzio per troppo tempo, lo sguardo di Harvey è mutato un'altra volta in un'espressione delusa. Si sta voltando, se ne sta andando, ma è come se lei non fosse più padrona del suo corpo e delle sue azioni.
 
"Mi chiamo Rachel!" urla, quando lui è già lontano, quando potrebbe non sentirla più.
 
Voltati. Ti prego voltati. Voltati, voltati, voltati, voltat—
Il suo sorriso. Il suo bellissimo sorriso che le scalda il cuore è la prima cosa che vede quando lui si ferma.
 
"Lo so."
 
Basta quello. Harvey si volta di nuovo e stavolta lei lo lascia andare, conscia che ora, in un modo stranissimo che la emoziona e la manda in piacevole confusione, qualcosa è cambiato.
 
 
 
∞∞∞ 


 
La lingua sonda la morbidezza e il calore delle sue labbra, anche se non ce n'è un effettivo bisogno: la scia umida che lui ha lasciato sul suo collo un attimo prima è ancora bollente e le infonde una sensazione di benessere.
Reprime un sospiro.
Sente il tocco delle sue grandi mani prima sui fianchi, poi sulla schiena e le dita insinuarsi con una delicata urgenza tra i suoi capelli carbone. Lei soffoca una risata leggera sulla sua bocca mentre lo guarda negli occhi, bramosa di contatto e consapevole di come tutto questo lo faccia impazzire: loro, il gioco di seduzione che entrambi sanno essere soltanto uno stuzzicate preliminare e poi, ogni volta, lo sgabuzzino della scuola; mani a cercare pelle calda sotto la stoffa, respiri affannati trattenuti a stento per non fare rumore, baci rubati che scottano e danno l'illusione di sentirsi amati.
 
Selina è sempre stata convinta di due principi, sui quali basa tutta la sua esistenza: mai rubare a chi non puoi seminare e mai lasciarsi coinvolgere dai sentimenti. Il primo sta cominciando ad applicarlo al meglio, soprattutto ora che deve cavarsela da sola e non può più permettersi il lusso di finire in un riformatorio; con il secondo non ha mai avuto grandi problemi.
Anche se, deve ammetterlo, da quando Bruce Wayne è entrato nella sua vita, si sente più esposta a questo piccolo rischio.
Sente il bisogno di dire qualcosa per impedirsi di pensare.
 
"Se Mr Freeze dovesse beccarci ora potremmo passare dei guai, principino."
 
Bruce solleva lo sguardo, negli occhi Selina può leggere tutto il suo desiderio e questo le fa uno strano effetto. Bruce le sorride mentre si abbassa a baciarle il collo.
 
"Sei libera di andartene quando vuoi."
 
Selina sorride di rimando. Bruce Wayne è scaltro e intelligente, un ragazzo che trasuda sicurezza e infonde la scomoda sensazione di essere un gradino sopra gli altri. Lei si è abituata alla soggezione delle sue attenzioni ed è riuscita a trovare in lui un interessante compagno di giochi – e non parla soltanto di un mero rapporto fisico. Stuzzicarlo la intriga. I suoi sguardi sfacciati e la sua dialettica, la intrigano. Lui, con la sua parlantina, i suoi movimenti, il suo atteggiamento, la intriga.
 
Gli sfila la maglia con attenta lentezza, beandosi della sua espressione euforica e tornando a baciarlo non appena ha il petto nudo. Allaccia le braccia alla sua schiena e si dimentica di respirare quando lui comincia a spogliarla piano, senza fretta. Se pensa che pochi istanti prima erano entrambi in classe ad ascoltare una noiosissima lezione di Chimica, le viene da ridere.
Scusami, Rachel. Questa te l'abbono.
 
Poi Bruce cerca di nuovo le sue labbra, schiacciando il petto nudo contro il suo, pelle contro pelle, calore che crea altro calore e lei perde di nuovo la testa e non pensa più a nulla.
Per il momento non vuole realizzare quanto quella relazione clandestina cominci a contare, forse più di tutto il resto. 
 
 

 
∞∞∞ 



Chimica.
Ha sempre. Odiato. La chimica.
 
"Come potete vedere, i leganti sfruttano…" nemmeno si sforza di ascoltare quello che Mr Freeze ha da propinare con quel tono soporifero.
 
Chiacchiere. Noiose e insulse chiacchiere.
Jack ripiega il foglio su se stesso, forma un angolo acuto con la punta della pagina e poi trasforma i due lati più lunghi in ali cartacee. Ed ecco che, in meno di un secondo, un nuovo velivolo affianca la sfilza di aeroplanini che occupa ordinatamente il suo banco.
Signore e signori, benvenuti al Ryder Air Corporation. Vi informiamo che oggi è una splendida giornata con temperature nelle medie stagionali. Ottima per viaggiare e rilassarsi.
Mr Freeze stride il gesso contro la lavagna ed è l'unico motivo per cui Jack Ryder alza la testa e gli concede un'occhiata annoiata.

"In questo modo, la soluzione…" bla, bla, bla. 
 
Se fosse per lui, la scuola non sarebbe altro che un luogo dove incontrarsi e fare baldoria, senza la scocciatura di materie da studiare e test da superare. Che sogno: un unico, grande salone con musica e stuzzichini. Un eterno intervallo. Allora sì che sarebbe interessante.
 
Afferra un aeroplanino di carta e, dopo essersi assicurato che Mr Freeze sia indaffarato alla lavagna, lo lancia. Lo osserva librarsi in volo e immagina di esserci sopra, a miglia di distanza, con la brezza fra i capelli e il mondo ai suoi piedi. L'aeroplano alza la quota, vira a sinistra, ruota su se stesso e poi precipita sul pavimento. Si ferma a qualche centimetro dalle scarpe di qualcuno.
Jack Ryder ne segue i lineamenti, il suo sguardo si arrampica sulle gambe, sul busto e si fissa sul volto chino.
 
Il ragazzo con le cicatrici.
 
Preso com'è dalle sue faccende, non deve essersi accorto dell'atterraggio maldestro del suo origami improvvisato e per un istante Jack Ryder ne è deluso.
Quel ragazzo è perennemente indaffarato. Scrive e rimugina, reclinato sul suo banco, ignorando ciò che lo circonda. Jack si chiede spesso come possa vantare una media così buona senza mai stare attento durante le lezioni. Lui non ne è capace. Lui deve sudare sangue e fare i salti mortali per riuscire a passare l'anno. Lo trova frustrante e ingiusto, anche se ormai ha tacitamente accettato il contorto rapporto che ha con l'istruzione.
 
Senza essere visto, si prende del tempo per osservare il suo compagno di classe. Segue con lo sguardo i movimenti serrati del suo braccio finché non si scontra con la matita che schizza veloce, si agita in tutte le direzioni e disegna chissà quali pensieri.
 
"Ha Ha Ha."
 
La memoria prende il sopravvento nella mente di Jack.
 
"Pesce d'Aprile: sua moglie è morta e suo figlio è spastico!" [1]
 
Non può fare a meno di ricordare, ma subito s'impone di ignorare il brivido che scorre lungo la colonna vertebrale.
Quello che scrive il suo amico non sono affari che lo riguardano. Anzi, dovrebbe dimenticarsi dell'increscioso episodio di qualche tempo prima e concentrarsi su altro.
Dovrebbe dimenticare di averlo studiato con attenzione per scoprire cosa scrivesse tutto il dannato giorno.
Formule chimiche, frasi sconnesse, barzellette macabre, risate, calcoli. 
 
Deve sempre ficcare il naso, Jack. Anche quando non sarebbe conveniente. Anche quando dovrebbe desistere per il suo stesso bene. Sua madre glielo ripete sempre che ha la stoffa del giornalista e da quando ha realizzato questa sua capacità, Jack si è imposto di assecondare il suo Sesto Senso in ogni situazione. Come quella volta.
Una scrittura tagliente incisa sul banco nudo a colpi di matita.
 
Il ragazzo con le cicatrici non ha quaderni, né fogli o foglietti. Il ragazzo con le cicatrici è munito soltanto di una matita gialla appuntita che ripone minuziosamente dietro l'orecchio quando non deve adoperarla. Non gli occorre altro: né lezioni, né appunti. Spesso Jack gli chiede come faccia a sapere sempre tutto e lui gli risponde che usa l'istinto. Poi solitamente scoppia a ridere e Jack avverte la consueta sensazione di essersi perso qualcosa.
È sempre una giostra di emozioni, stare con lui. Una roulette russa di cui non comprende appieno le regole. Ma la popolarità che gli ha portato il legame fittizio con quel ragazzo è così suadente che Jack ha deciso di seppellire i suoi timori sotto belle ragazze e party lussuosi.
Poco importa se ogni tanto deve dar fondo alla sua fantasia per rispondere alle domande insistenti riguardanti il suo apparente compare.
 
Il tuo amico è un mistero, Jack, tesoro. Ti va di svelarci qualcosa?
 
Una volta gliel'ha anche confessato, di aver inventato storie sul suo conto di sana pianta, ancora e ancora. Ma anche allora il ragazzo non si è arrabbiato, al contrario: ha apprezzato la sua trovata – riservando solo qualche critica alla sua sterile immaginazione – senza aggiungere altro; e a quel punto Jack si è davvero convinto che il suo compagno di classe avesse qualche problema in più oltre a quelle due cicatrici che ne deturpano il viso.
 
Ma fintanto che il suo tornaconto personale è così appetitoso, il ragazzo con le cicatrici può fare quello che vuole. Da quel poco che lo conosce – e nessun altro può vantare questo piccolo privilegio – Jack si crogiola nella convinzione di poterlo gestire.
È un ragazzo sveglio, lui.
 
 

 
∞∞∞


 
"Ci rincontriamo, Harley…"
 
Quando la campanella dell'ultima ora suona, Harleen Quinzel non se ne accorge e resta seduta al suo posto, la faccia stanca e segnata da profonde occhiaie violacee che ha inutilmente tentato di coprire con un trucco malcurato. Pamela ha cercato più volte di farle sputare il rospo, ma lei si è categoricamente rifiutata di raccontarle il motivo di tanto sgomento, barricandosi dietro un silenzio tombale o accampando frasi spicciole palesemente finte. Sa che Pam presto perderà la pazienza, ma è come se avesse perso la facoltà di ragionare.
Non fa che pensare a quello che è accaduto la sera prima, rimuginando su emozioni e sensazioni che si sono appiccicate alla pelle e che non vogliono andare più via. Si sente spaesata, ha dolori dappertutto e una terribile emicrania che neanche l'aspirina è riuscita a placare. Probabilmente avrebbe fatto meglio a restare a casa, ma l'idea di rimanere da sola dopo la terribile esperienza che ha subito le ha fatto venire i brividi, così ha ignorato la parte del suo cervello che la implorava di tornare a dormire ed è uscita di casa prima di pentirsene.
Solo che le cose non sono migliorate. Forse sono addirittura peggiorate, perché non fa che pensare a lui.
 
"Hai intenzione di uccidermi?"
"Fino a poco tempo fa, sì".
 
Non ha cominciato a urlare. O a chiedere aiuto. O a tentare di scappare. Com'è possibile? Deve essere stato il terrore misto all'adrenalina a condizionarla. Era spaventata e non ha pensato lucidamente. Non c'è altra spiegazione.
Ma non avevo paura…
Certo che ne aveva, si ricorda male. Tutta quella situazione è stata assurda e surreale, per questo non può fidarsi di quello che ricorda. Stress post-traumatico. Ha alterato la sua memoria.
E se invece mi sbagliassi? Se invece ciò che ricordo corrispondesse a verità?
 
"Ci vediamo domani, Harle-quin…"
Dio, non vuole neanche pensarci.
 
"Harl… andiamo?"
"Vengo subito."
 
Pamela è amareggiata, lo capisce dalla sua voce. Non può darle torto. Forse più tardi le racconterà quello che è successo. O forse no. Ha paura di quello che potrebbe dire, perché ora come ora non riuscirebbe a sopportare un "te l'avevo detto". O un interrogatorio a macchinetta sull'uomo morto e su… su…
 
"Perché ti ha chiamato 'Joker'?"
 
No, si rifiuta di chiamarlo a quel modo. Le sa tanto di mostro. E forse lo è, ma è meglio non pensarci. Deve trovare un altro nome per adesso, almeno per adesso. Cosa aveva detto Pamela quel giorno? 'Jack? John? Jerome?' Le cose si complicano, perché quei nomi non si addicono per niente a lui, nemmeno dopo averli ripetuti mille e mille volte.
 
Jack, John, Jerome… Joker…
 
Almeno una costante c'è. Magari il suo vero nome comincia davvero con la J.
 
Ma qual è il tuo vero nome, Mr J?
 
E poi, ora che ci pensa, non può assolutamente parlarne con Pamela. Se la obbligasse a denunciarlo alla polizia? È vero, Mr J ha ucciso un uomo a sangue freddo, ma le ha anche salvato la vita. Dovrebbe davvero ripagarlo a quel modo?
 
Sarò pazza, ma non voglio farlo.
 
Finalmente si alza, decisa ad accantonare quei pensieri assurdi, se non per sempre, almeno per le prossime ventiquattr'ore. Come se il suo corpo condividesse la sua decisione, il dolore si fa meno acuto e le permette di muovere il collo senza intorpidirsi. Lo ruota verso destra e vede Pamela alla porta che l'aspetta; dovrà chiederle scusa per il suo strano comportamento.
Lo ruota a sinistra, verso la finestra. E…
 
Oh, fanculo.
 
Lui è lì, Mr J. O come diavolo si chiama. È diretto verso il cancello della scuola, ma quella che pare a tutti una camminata tranquilla per lei è quella dello stesso clown inquietante che le ha tolto il sonno. È pietrificata. Il cuore ricomincia a battere all'impazzata come la sera prima, ma questa volta Harleen ne è più che certa: non ha paura. E questo azzera completamente tutti i ragionamenti fatti in precedenza, lasciandole una sola mossa plausibile.
 
"Ma dove vai?"
 
Scusami, rossa.
 
"Harleen!"
 
Ignora il richiamo di Pamela e corre all'impazzata verso l'uscita, anche se le gambe fanno male. Si catapulta in giardino e lo cerca con il fiato corto, animata dall'assurdo desiderio di volergli parlare. Di cosa ancora non lo sa e nemmeno si cura di rispondersi, perché appena varca il cancello e si ritrova in strada avvista la schiena di Mr J scomparire dietro l'angolo in fondo al vicolo. Ancora una volta, senza pensarci, gli corre dietro.
 
"Ehi tu!" ha il fiatone. "Asp—"
 
È una questione di istanti. Le mani di lui si stringono attorno al suo collo e il colpo che riceve quando la lancia contro il muro, schiacciandola col suo corpo, la fa gemere di dolore.
 
"Harley?" sembra sorpreso. "Non è carino seguire le persone come delle piccole ladruncole…"
 
La sua voce, incredibilmente, è diversa ancora una volta: divertita e al contempo irritata, con una parvenza di calma che però non inganna nessuno. Quante sfumature diverse di emozioni può assumere? Quante sensazioni è in grado di provare in un solo secondo? Harleen si stupisce di pensare quanto tutto quello sia stupefacente.
 
"Mi… fai… male…"
"La cosa mi lascia del tutto indifferente."
"Voglio… solo… parlarti…"
 
Mr J impunta i grandi occhi verdi nei suoi e lei capisce che la sta studiando. Sta valutando se ascoltarla oppure no. Si rende conto che potrebbe benissimo stringere la presa fino a spezzarle l'osso del collo e poi andarsene via fischiettando, ma, com'è già accaduto la sera prima, non le importa. Non ha paura e sente che va bene così.
 
"La piccola bambolina viene a ringraziare il buon samaritano?"
 
Sì. No. Forse?
 
"Mi hai salvato la vita." E ora mi sento diversa.
 
Lui ride, ed è meraviglioso. Stringe la presa sul suo collo, ma anche questo è meraviglioso.
 
"È buffo, di solito è il contrario…"
 
Lo sa, sa che sta dicendo la verità. Sa che ha già ucciso e che lo farà ancora, che è un mostro e che probabilmente è pazzo, ma si ritrova a rantolare sommessamente, unica risata strozzata che la morsa attanagliata alla sua gola le concede.
Perché mi sento incredibilmente bene?
 
"Comunque…" Mr J stringe la presa attorno al suo collo, la voce si fa roca, isterica, malata e lei esaurisce anche la poca aria che l'era rimasta. "Posso sempre rimediare ora…"
 
Harleen boccheggia, le mani d'istinto vanno a stringergli i polsi in un vano tentativo di lotta. La vista si annebbia, gli oggetti si fanno confusi e in pochi secondi l'unica cosa che riesce a vedere è solo il suo viso, così vicino al suo.
Così… bello…
Anche ora, nel probabile ultimo istante della sua vita, Harleen si riscopre a non avere paura e sente. Adrenalina, stupore, meraviglia, aspettativa. Sensazioni che si rispecchiano nei suoi occhi e con prepotenza si dissetano nello sguardo di Mr J, uno sguardo marmoreo, perfetto, limpido, nel quale si riversa lo stesso luccichio di pura follia che aveva intravisto la sera prima. È una sensazione strana quella che prova, mentre il cuore quasi esplode dal torace e lei capisce di adorare questo istante, questo dolore, quest'emozione travolgente che le scuote l'anima.
È inutile negarlo ormai: lo trova straordinario.
Sono pazza?... ha importanza? Tu non fermarti.
Ma lui si ferma. Allenta la presa e lei ne è delusa.
 
"Stavo… stavo solo scherzando…" è dispiaciuto ma pare parlare con se stesso, anche quando la lascia andare e lei scivola sull'asfalto, annaspando alla ricerca d'aria che va a riempire di nuovo i polmoni.
 
Harleen tossisce forte, le mani arpionate alla gola in un massaggio che non allevia il dolore e gli occhi chiusi nel tentativo di metabolizzare quello che è appena accaduto. Quello che ha appena provato.
All'improvviso sente l'aria farsi più fredda e quando riapre gli occhi, dopo secondi che le sembrano secoli, solleva la testa e sente il cuore avere un singhiozzo. È sola. Lui se n'è andato.
… Mr J?
Quando tornerà a casa, le due uniche lacrime sul viso arrossato saranno attribuite al tentato strangolamento e a nient'altro. Nient'altro. [2]
 
 
 
Now he's gone I don't know why
And till this day sometimes I cry
He didn't even say goodbye
He didn't take the time to lie
 
Bang Bang, he shot me down
Bang Bang, I hit the ground
Bang Bang, that awful sound
Bang Bang, my baby shot me down
 
(Nancy Sinatra, Bang Bang)




Angolo dell'autrice:
Sono tornata. Devo dire che questo capitolo non mi convince particolarmente. Nonostante l'abbia riletto/corretto moltissime volte, c'è sempre qualcosa che non me lo fa piacere fino in fondo. Ma lascio a voi il giudizio finale U.U

Per quanto riguarda le due note:
[1]: è la parte finale della barzelletta che Mr J racconta ne "Arkham Asylum: una folle dimora in un folle mondo" (a parer mio una delle graphic novel più belle mai state scritte). A chi interessasse sapere la barzelletta al completo, eccola qui: — 
Allora, un tipo va all'ospedale a trovare la moglie, che ha appena avuto un bambino. Incontra il medico e gli dice: "Dottore, ero così preoccupato! Come stanno?" E il medico: "Stanno benone. Sua moglie ha partorito un bel bambino, e stanno bene tutti e due." "Lei è un uomo fortunato." Così il tipo entra nella maternità con i suoi fiori. E non trova nessuno. Nel letto di sua moglie non c'è nessuno. "Dottore?" dice. Poi si volta, e vede il medico e tutte le infermiere che ridono come pazzi. "Pesce d'aprile! Sua moglie è morta, e il bambino è spastico!!" —

[2]: La parte finale è la rielaborazione della scena di "Harley Quinn n°5". Sono consapevole che non sia questa gran trovata originale, visto che in molte fanfiction è presente. Ma io adoro quel momento e penso che sia un po' l'essenza di quelli che sono Harley e Joker. O almeno, di quelli che sono Harley e Joker dal mio punto di vista. 

Altra annotazione: Harleen che finisce malmenata. Di nuovo. Volevo solo assicurarvi che non sono sadica e non ho nemmeno un'antipatia particolare per lei, anzi, per la verità è il contrario. È un maltrattamento momentaneo. Un passaggio di transizione, ecco. E poi, diciamocelo, trattandosi del Joker non ci si può aspettare poi qualcosa di tanto diverso. 

E anche Harvey Dent alla fine è entrato in scena. Si può dire che ora i protagonisti della storia siano tutti stati introdotti. Ci saranno ancora altri personaggi che passeranno di qua, ma non avranno ruoli particolarmente rilevanti.

Eeeeee nulla, non ho nient'alto da dire, credo. 

Sempre un calorosissimo grazie a tutti voi che avete recensito, a chi ha messo la storia nelle seguite / preferite / ricordate e anche ai lettori silenziosi.
Grazie davvero a tutti, mi riempite il cuore di gioia.

Al prossimo aggiornamento!!

Always_Always

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Capitolo 4
*** Jack e Sally ***


Capitolo n°4
Jack e Sally
 
 
 
Io come Jack fantasma re ti odio perché mi chiami 'celebrità'
Mi faccio in tre soltanto per te, ti accoltello e poi ti chiedo quanto bene si sta
Necessità per me che adoro farmi male dalla tenera età
Ma una cosa la farò per te lo so 
Ti regalerò il mio dolore come eredità perché…
 
Facciamo passeggiate al parco in riva dei ruscelli
Poi attorcigliamo i corpi sopra un letto di coltelli
Tra queste luci amore mio ricuci i tuoi brandelli
Perché ho il cuore a pezzi se tu perdi i pezzi come Sally
 
(Nitro, Jack e Sally)
 
 
 
 
Gotham City questa mattina è piovosa e particolarmente scura, coperta da nere nuvolacce che impediscono di vedere oltre qualche casa appena fuori l'Arkham High School. Il vento è impetuoso, trasporta la pioggia fitta e la sbatte con violenza sulle vetrate dell'aula, crepitando ogni tanto al rombo dei tuoni.
Pamela odia il maltempo con tutta se stessa. Se fosse per lei, ci sarebbero sempre il sole splendente e qualche pioggerella occasionale, giusto per permettere alle piantine del suo giardino di crescere belle e rigogliose.
Invece ora saranno sicuramente rovinate. Povere care.
Ha preso tutte le precauzioni del caso, questa mattina, non appena ha sporto il naso fuori casa e ha sondato le condizioni metereologiche, ma non può fare a meno di preoccuparsi come una matta al disastro che potrebbe trovare al suo ritorno.
I fiori. Se c'è qualcosa nella vita di Pamela che semplicemente è, nella concezione platonica del termine, questo è il caso: dal primo fuscello al più robusto dei suoi alberi, lei li adora tutti. Se ne cura come se da un momento all'altro potessero spalancare gli occhietti e cominciare a parlare – ha letto molti articoli sulla concreta possibilità che il regno floreale possa percepire le vibrazioni delle corte vocali, ed è per questo che si premura di regalar loro delle parole dolci, delle coccole speciali.
Harleen spesso ci scherza sopra, dicendole che è come se fosse già una madre. Non ha tutti i torti, anche se Pamela non gliel'ha mai confessato. Prova un legame strano con il suo giardino: è il suo tesoro e i fiori tanti piccoli figli.
Io vedo in loro qualcosa che gli altri non vedono.
Sua nonna, con le mani nodose e i capelli color delle nuvole, così forte e fiera da rappresentare la sua roccia, glielo ripeteva sempre: la sua attenzione per le piccole cose l'avrebbe portata lontano.
"Hai gli occhi speciali, bambina mia. Tu scovi cose che nessuno nota, con quelli. Le cose più belle."
Ed era stato sempre per le insistenze implacabili sue e di sua nonna che suo padre aveva acconsentito – nel giorno che ricorda come il più bello di tutta la sua vita – a portarla con lui al laboratorio di botanica.
Ci va ancora oggi. Aiuta suo padre con le piante e gli esperimenti e la trova un'attività particolarmente stimolante.
 
"Isley?"
 
Non è la voce del professor Day[1]. Si stacca dalla finestra.
 
"Jonathan Crane?" esclama sorpresa. Non le aveva mai rivolto la parola prima d'ora: "Hai bisogno di qualcosa?"
 
Crane è uno di quei ragazzi che ama la sua intimità. È arrivato all'Arkham High School al terzo anno e nessuno sa tutt'ora per quale motivo abbia deciso di cambiare scuola, visto che ha una media impeccabile e un'intelligenza da invidiare. E, come è solito accadere in posti gremiti di gente ignorante, fin dal principio ha cominciato a circolare ogni tipo di storiella sul 'nuovo arrivato' e sui 'motivi che l'avevano spinto a traferirsi'. Alcuni banali, altri particolarmente fantasiosi e terribili; ma da che Pamela si ricorda, anche quando era sulla bocca di tutto l'Arkham High School, Crane ha sempre cercato di mantenere intatta la sua privacy e questo l'ha reso un po' più simpatico ai suoi occhi. Anche se le dicerie sul suo conto a proposito dello spaccio di droga lo rendono un personaggio strano, di cui diffidare. Non che lei creda a certe storie, ovvio. È più… l'istinto.
 
"Vorrei solo sapere…" comincia lui. Ha degli incredibili occhi limpidi che le ricordano il cielo terso di una giornata d'Agosto. "Dov'è… Harleen? È da qualche giorno che non si vede."
 
Oh, Crane caro… non ti è ancora passata, eh?
 
Dopotutto, doveva aspettarselo. La sua biondina attira l'attenzione e quando concede un'occasione non è facile da dimenticare. Jonathan Crane non ha fatto eccezione nella sua triste avventura: un tacito interesse per Harleen, ricambiato e scomparso in un battito di ciglia, come se non fosse mai esistito. È il modus operandi di Harleen: avvicinarsi a ragazzi dal passato misterioso, placare la sete da perfetta crocerossina e poi scordarsene[2].
 
"A casa," risponde Pam e quasi le dispiace per la delusione che nota nello sguardo di Crane. "Harleen non sta molto bene."
 
In realtà, è tutta la settimana che si comporta in modo strano.
Forse dovrebbe andare a casa sua e controllare di persona le sue condizioni, perché non l'ha convinta quando le ha detto che "doveva aver preso freddo e non se la sentiva di uscire dal letto", affatto.
Harleen non ha mai saltato un giorno di scuola. Mai. Ciò significa che dev'essere successo qualcosa di particolare per farle cambiare idea.
Qualcosa che non vuole rivelarle.
Pamela dovrebbe offendersi per la scarsa fiducia che Harleen nutre nei suoi confronti; ha dato sempre per scontato che tra loro non dovessero esserci segreti, accecata dalla convinzione che essere migliori amiche implicasse la lealtà incondizionata. Ecco perché dovrebbe arrabbiarsi, ne avrebbe il diritto.
 
Ma la verità è che Pamela Isley è soltanto preoccupata, tormentata da un brutto presentimento che non la fa dormire la notte. Lo stesso che ha avuto quando è morta la moglie del professor Fries[3], solo che questa volta è più acuto, più doloroso e le fa temere il peggio.
Perché la nonna, nella sua lungimiranza, non è mai stata del tutto sincera: Pamela non nota soltanto le cose belle, con i suoi occhi.
Intravede anche quelle brutte.
 
 
 
∞∞∞


 
Vicki Vale si sta dimostrando una brava insegnante, Rachel deve ammetterlo. E non è stato facile arrivare a questa conclusione, perché se c'è una materia sulla quale è più che puntigliosa e perfezionista, quella è storia dell'arte. Adora l'arte. Da grande le piacerebbe fare il curatore d'arte e girare il mondo. Louvre, Musei Vaticani, Galleria degli Uffizi, posti meravigliosi con tesori straordinari che vorrebbe poter vedere quando e come le pare.
Finisce di scrivere sul quaderno e ripone finalmente la penna nell'astuccio, massaggiando la mano. Dovrebbe smetterla di prendere così tanti appunti: le verrà la tendinite.
 
"Ora, per quanto riguarda il compito su un autore post-impressionista a scelta…" la professoressa Vale è anche una donna capace, perché è appena arrivata e già sa farsi rispettare dalla classe. Non è una cosa facile, visti gli elementi presenti. "Mi piacerebbe che faceste questo lavoro in coppie."
 
No! Stavi andando così bene, Vale…
Non è la prima insegnante che propone lavori di gruppo, ma Rachel li ha sempre detestati. Nessuno si è mai proposto di unirsi a lei e deve sempre pensarci da sola. Ci ha fatto l'abitudine, alla fine, ma non può nascondere a se stessa quanto le faccia male non avere mai nessuno su cui contare.
 
"Ehi…"
 
Qualcuno le puntella la spalla con le dita e quando lei risponde al richiamo, Harvey le sorride a trentadue denti. Rachel deve ancora abituarsi al fatto che Harvey Dent le dedichi tutte queste attenzioni e migliorare le sue reazioni in proposito, come per esempio quella imbarazzata che sta assumendo proprio ora e che le colora la faccia di un improponibile rosso peperone.
 
"Ciao," farfuglia. Con lui farfuglia sempre. Maledizione.
Se Harvey se n'è accorto, non lo dà a vedere: "Sai già con chi fare la ricerca?"
 
Certo, da sola. Perché, vuoi prendermi in giro anche tu? Devi metterti in fila, allora.
 
"Che t'importa?"
Harvey piega la testa di lato come un uccellino curioso: "Beh, se non hai altri programmi… potremmo farla insieme."
 
Lei sta pensando a quanto sia strana tutta quella situazione che in realtà non ha ascoltato una parola di quello che le ha detto.
 
"Fare che cosa?"
"La ricerca."
"La ricerca?"
"… la ricerca, sì."
 
Per poco Rachel non ha un mancamento. La ricerca. Con Harvey Dent. Quella di storia dell'arte. Con Harvey Dent.
Harvey interrompe i suoi pensieri: "Se te l'ha già chiesto qualcun altro non ti preoccupare…"
 
Qualcun altro? Ma è pazzo?
 
"Perché lo chiedi a me?" brava Rachel, non gettarti subito tra le sue braccia solo perché ti considera.
 
Harvey scuote la testa e lei nota che i capelli biondi si spettinano. Le piacciono a quel modo: "Perché sei una delle poche ragazze intelligenti di questa classe e perché in arte sei una forza."
"Le altre erano impegnate?"
 
Questa volta lui ride forte, evidentemente non ha capito la serietà della sua domanda: "Rachel Dawes, sei la ragazza più diffidente che io abbia mai conosciuto. Non m'importa se le altre sono impegnate. Voglio fare la ricerca con te."
 
Sorride, di nuovo. E di nuovo quella sensazione di volteggiare sulle nuvole le afferra lo stomaco e le fa battere forte il petto.
"Voglio fare la ricerca con te"
È sincero? È solo l'ennesimo scherzo di Talia? È tutta una sua immaginazione?
 
"D'accordo".
 
Non le importa. Accidenti, domani potrebbe svegliarsi e capire di aver sbagliato tutto, ma ora come ora potrebbe anche bruciare il mondo e lei sarebbe comunque al settimo cielo.
 
 
 
∞∞∞


 
Non appena la campanella comincia a suonare, Selina è già fuori dall'aula e sta camminando per il corridoio, i pensieri proiettati alla brillante vetrina di gioielli che accompagna la sua passeggiata fino a casa. Si è ripromessa che un giorno riuscirà ad uscire da quel negozio con il collier di diamanti che ha adocchiato il giorno prima, così luccicante da farle sfavillare gli occhi.
Dall'uscita principale o da quella sul retro…
L'immagine abbagliante di quei gioielli si disintegra contro il volto appuntito di Talia Al Ghul. Sta camminando verso di lei e ha un ghigno stampato sul volto che fa capire a Selina che deve averle detto qualcosa, ma l'immagine di quei diamanti le ha offuscato la mente.
Poco male, non c'è da temere: Talia Al Ghul non ha mai nulla d'intelligente da dire.
 
Fa comunque finta di aver capito e prepara il contrattacco: "Non hai i soldi del paparino da sperperare, Al Ghul?"
Talia è velenosa quando replica: "Io almeno ce l'ho un paparino, Kyle."
 
Selina incassa il colpo con la maestria di chi è abituato ad aggrapparsi all'orgoglio.
Nasconde la rabbia dietro un sogghigno sarcastico e pensa alla mossa successiva.
Che sia violenta e brutale per questa dannata stronza.
 
"Oh, ma è risaputo," il suo sorriso si allarga, "i lividi sono evidenti. Dovresti coprirli con più trucco, lo sai?"
 
Questa volta è Talia a incassare il colpo. Apparentemente non si nota la differenza, ma Selina può sentire la rabbia di Talia montare e diventare incandescente. Ha lo stesso sapore della sua.
Fai di tutto per nasconderlo, ma nemmeno la tua vita è perfetta, mia cara Al Ghul. E l'unica che se ne rende conto è la tua peggior nemica. 
Deve rodere davvero molto.
 
"Dovresti ricordarti qual è il tuo posto, Kyle," Talia vomita sul suo nome tutto il suo disprezzo, ma questo non è che musica per le orecchie di Selina.
"E tu dovresti scendere dal tuo cazzo di piedistallo."
 
Ha sentito abbastanza. Supera Talia senza più degnarla di uno sguardo e quando riesce finalmente ad arrivare al giardino dell'Arkham High School, estrae dalla tasca un pacchetto di sigarette e ne imbocca una. Il fumo si dissolve verso l'alto e porta via la collera in una lenta scia grigiastra, che si aggiunge allo smog abituale di Gotham City.
È solo in questo momento che Selina si accorge della pioggia. Scroscia con insistenza, si intrufola tra i vestiti e nei calzini con un fastidio pungente. Lei realizza di non avere l'ombrello e di essere costretta a correre per evitare di arrivare a casa zuppa, rinunciando quindi alla sua sosta abituale alla vetrina della gioielleria. Questo pensiero le fa tornare un pochino della rabbia soppressa.
Selina odia la pioggia. Selina odia bagnarsi. Selina odia moltissime cose.
Ma cambiare i suoi piani in particolare.
 
 
 
∞∞∞


 
Ha spulciato con precisione maniacale tutti i giornali che vendeva l'edicola. Tutti quanti. Ha combattuto contro il brutto tempo e contro la stanchezza che si sente addosso, oltre a mille altri pensieri che le intasano la mente e non la lasciano ragionare lucidamente, per costringersi a uscire di casa econtrollare. Per tutto il giorno non ha fatto che cercare su internet notizie di cronaca nera dell'ultima settimana.
Ora è sera e Harleen sta ancora cercando.
Invece niente. Neanche una maledettissima traccia.
L'omicidio dell'uomo nel vicolo non è accennato da nessuna parte, come se non fosse mai avvenuto. E sarebbe tutto perfettamente splendido se davvero non fosse stato altro che un terribile scherzo della sua mente stanca. Ma lei sa che non è così. Sa che è stato Mr J.
Joker…
 
Si è presa la giornata libera anche oggi. Ha detto a Pamela di non sentirsi bene. Non è del tutto vero, ma i segnacci violacei che ha sul collo sono ancora troppo evidenti; avrebbero destato troppi sospetti e ora lei vuole soltanto mettere ordine nei propri pensieri - anche se non è facile.
Quanto era… meraviglioso.
Suo malgrado, non fa che ripensare al loro ultimo incontro e a tutti i sentimenti contrastanti che ha generato; si è sentita come mai in vita sua.
Viva. Sull'orlo di una scoperta straordinaria.
Quello che ha visto negli occhi di Mr J nel momento in cui stringeva le dita attorno alla sua gola si è insinuato tra i suoi pensieri e continua a tormentarla anche ora. Sono sensazioni travolgenti cui non riesce ad attribuire un nome. E la scoperta strepitosa, la scoperta spaventosa, è che non ne è dispiaciuta - affatto. Vorrebbe solo avere l'occasione di stargli così vicino ancora una volta. Per sentirsi leggera. Libera.
Scuote la testa: dovrebbe smetterla con queste idee malsane che non giovano affatto ai suoi nervi già pericolosamente provati. Quel ragazzo ha cercato di ucciderla. Questo è il punto focale che dovrebbe tenere ben chiaro nella mente.
Eppure…
 
Un tuono spaventoso squarcia il cielo notturno e lei alza lo sguardo dallo schermo luminoso del computer. La tazza di camomilla è ancora accanto alla sua mano, ma non fuma più. Probabilmente è gelata.
Peccato. La camomilla era l'ideale per calmare i nervi.
 
Suo padre non tornerà per cena. Non l'ha ancora avvertita, ma ormai Harleen si è fatta il callo con queste situazioni. Da quando sua madre è morta, è cambiato tutto. Ne hanno sofferto entrambi, ma suo padre non è più stato lo stesso quando il cancro l'ha portata via. Harleen l'ha superato, alla fine. Con difficoltà, ma l'ha fatto. Invece suo padre ancora piange quando è convinto che nessuno lo senta: era così innamorato di lei, lo è tutt'ora. E questo la porta a pensare quanto sia deleterio l'amore, niente di più di un processo chimico fatto di ormoni e dopamina.
Eppure così brutale da spezzare a quel modo una persona…
 
Un altro tuono. Questa volta è così fragoroso che Harleen sobbalza e picchia involontariamente contro la tazza. La camomilla gelata si versa completamente sulle sue gambe nude e per un soffio evita i pantaloncini di tuta che ha indosso.
Maledizione! Ecco cosa succede quando sei con la testa fra le nuvole, Harl!
Si alza e cammina a piedi nudi fino alla cucina, osservando la chiazza scura scivolare fino alle caviglie. Apre un cassetto, individua lo straccio più pulito e comincia ad asciugarsi con poca energia.
Sempre. Con la testa. Fra le n…
 
Suona il campanello. Una volta soltanto.
Harleen distoglie l'attenzione dal disastro e alza lo sguardo. La coda di cavallo sobbalza un istante, ma lei non ci fa caso.
 
"Chi è?"
 
Nessuna risposta.
 
"Papà, sei tu?"
 
Il campanello suona di nuovo, questa volta dura più a lungo, come se dall'altra parte ci fosse l'impazienza di entrare.
Se è Pamela giuro che l'ammazzo.
Mentre i lampi illuminano la sera a intermittenza e il campanello suona un'altra volta, Harleen raggiunge la porta con una strana sensazione alla bocca dello stomaco.
 
"Un attimo, non c'è bisogno di—"
 
La sua protesta si smorza all'improvviso quando Harleen apre. È lui, Mr J. È in piedi di fronte a lei, ingobbito e bagnato fradicio. I capelli tinti gocciolano copiosamente e l'acqua precipita nella pozza creatasi sulla veranda. Il volto è in ombra, coperto dall'oscurità della notte, ma lei può scommetterci che è truccato di bianco, con gli occhi cerchiati di nero e il sorriso scarlatto.
Esattamente come ti ho visto quella sera di qualche settimana fa.
È così che Harleen lo ricorda nella mente, anche se a scuola non c'è mai stato alcun trucco.
È così che Harleen lo guarda e si convince di vederlo, vederlo davvero, come se il cerone e il rossetto fossero parte integrante della sua essenza.
Ma la domanda è: cosa ci fai qui?
 
Mr J fa scivolare la lingua sulle cicatrici in quello che sembra un tic inconscio e in quel momento Harleen si concede un'attenta analisi di quelle ferite. Non le trova più orribili o tremende come la prima volta. Al contrario, è affascinata da quei tagli profondi che cristallizzano il volto di Mr J in un eterno sorriso. Sono il suo fardello – ora Harleen lo percepisce chiaramente - e trasudano un dolore profondo che le infonde nel petto lo smanioso desiderio di toccare. Ripercorrere quelle piaghe con le dita, risalire al contrario il tormento di Mr J per raggiungere l'origine.
Qual è la storia di queste cicatrici?
 
"Tu…" mormora Harleen con il cervello in completo blackout e solo allora lui sembra accorgersi della sua presenza. Si riscuote e alza lo sguardo. Sono occhi penetranti, profondi e bellissimi e Harleen prova di nuovo quella sensazione di qualcosa. E non riesce a muoversi.
 
Con le movenze attente di un predatore, lui la stringe per il braccio e la trascina fuori, nell'oscurità che inghiotte le loro figure. Si prende del tempo per bloccarla contro la colonna e arpionarla con entrambe le mani. Harleen sente la pioggia fredda e pungente bagnarle il maglione, le gambe, il volto e l'adrenalina scalpitare nel suo cuore e smorzarle il respiro, ma tutto quello che riesce a fare è restare imbambolata in quella posizione. Non riesce, non vuole staccare lo sguardo dal suo volto. Perché anche se sono al buio e lei non riesce a vederlo, può sentire ancora i suoi occhi su di sé. E questo basta ad annullare ogni sua volontà di reagire.
Cosa… cosa c'è lì dentro, Mr J? Mostramelo. Ti prego.
Un lampo esaudisce le sue preghiere. Inonda il cielo con una velocissima scarica bianca che però è sufficiente. Vede quello sguardo, quegli occhi straordinari e si sente completa. Come se avesse trovato quello che stava cercando. Come se non le importasse di nient'altro al di fuori di lui.
 
"Harle-quin…" la sua voce è un sussurro suadente che la fa rabbrividire.
 
Mr J… quanto… sei…
 
"Non dovresti andare in giro conciata in quel modo, sai? Potresti ammalarti. E non sarebbe carino."
 
… straordinario…?
 
"Perché sei qui?" gli domanda e non le importa che lui abbia scoperto dove abiti senza che lei gliel'abbia mai detto. Anzi, lo trova bello. Romantico, in qualche modo. E ora vuole soltanto averlo vicino. Sentire il suo respiro sulle labbra e bearsi di quel contatto un po' rigido che domani sicuramente le costerà qualche livido. Ma non ne è irritata, al contrario: le piacerà ripercorrere il suo tocco su di lei.
 
Mr J la sta guardando. No. La sta leggendo con quegli occhi smeraldo incorniciati dalla pioggia che scivola lungo le guance e porta via il trucco. Anche lei ormai è fradicia e ancora una volta trova il tutto tremendamente romantico. Sta per chiedergli di entrare in casa quando lui con uno scatto improvviso si avventa sulle sue labbra.
A quel punto, tutto smette di avere senso.
 
Qualcosa si rompe nella testa di Harleen e lei sente di avere tutto quello che avrebbe mai potuto desiderare. Il bacio di Mr J è violento, famelico, per niente delicato e questo non fa che elettrizzarla di più. Per questo ricambia il bacio e tralascia il resto; si gode le sue labbra e la sua lingua, il suo sapore. Le braccia sono ancora bloccate dalle mani di Mr J e il massimo che può permettersi è far leva sulle punte dei piedi nudi per tentare di avvicinarsi a lui.
Mr J profuma di pioggia. No, non di pioggia, di temporale.
E lei ha sempre amato il temporale.
Se continui così, Mr J, morirò qui. E sarà tutta colpa tua.
 
Come se le avesse letto nel pensiero, Mr J si stacca da lei con uno scatto, come se avesse appena ripreso coscienza di sé, ma continua a tenerla intrappolata contro la colonna. Harleen si rende conto di aver chiuso gli occhi e non vuole riaprirli. È ancora tutto così surreale. Così perfetto. Non vuole rischiare di rovinare l'atmosfera, di staccarsi e di dover rispondere alle mille domande che sicuramente si farà quando tutto sarà finito. Vuole restare congelata in questi istanti per sempre. E sempre sempre sempre. Però c'è una cosa che deve sapere. Una cosa di cui ha bisogno per far sì che ogni cosa sia davvero perfetta.
 
"Qual è… il tuo nome?"
 
Quando Mr J la lascia andare con un altro scatto violento, è come se le strappassero il cuore dal petto. Apre gli occhi con estrema lentezza, quasi potesse convincerlo a tornare dalle sue labbra e non allontanarsi più. Ma quando finalmente riprende a vedere, riconosce il luccichio minaccioso del coltello di Mr J schizzare a due centimetri dal suo viso e conficcarsi rabbioso nella colonna di legno. Smette di respirare.
 
"Sei una che parla troppo, Harley. Te l'ho già detto."
 
È arrabbiato, può capirlo dai suoi occhi e dalla sua voce. Si sente tremendamente in colpa per aver spezzato la magia. Ma la curiosità è troppa.
Scusami, tesoro. Perdonami.
 
"Voglio solo sapere il tuo nome, Mr J…"
"Mr J?"
 
Scoppia a ridere. Non è la risata che gli ha sentito fare in classe, ma quella stridente del vicolo. Quella del diavolo.
Ed è magnifica.
 
"Vuoi sapere una cosa divertente, bambolina?"
 
Il coltello le carezza la guancia. Lo adora, tanto che vorrebbe continuasse in eterno. Le si avvicina di nuovo, una lentezza calcolata che la fa rabbrividire e il sorriso scarlatto ora è più allungato, le cicatrici risplendono come se Mr J stesse per rivelare la sua battuta più riuscita.
 
"Neanche me lo ricordo, il mio nome."
 
Non se l'aspettava. Questo davvero non se l'aspettava. Riprende un poco della sua lucidità soltanto per assimilare al meglio ciò che le ha detto. Potrebbe essere vero, certo, ma potrebbe anche essere una bugia. E lei non sa più cosa pensare.
 
Mr J si allontana di nuovo con un altro scatto. Harleen ha notato che molti suoi movimenti sono rapidi e nervosi, dettati dall'iperattività. Lui le volta le spalle e scuote la testa, ma lei sente il disperato bisogno di avvicinarsi a lui, di poggiargli una mano sulla spalla, di voltare il suo viso e baciarlo di nuovo. Però lui non è della stessa opinione. Quando Harleen lo sfiora, Mr J se la scrolla di dosso con rabbia, un'isteria che non gli si addice per niente, che lo rende spaventoso.
 
"Non sei in diritto di prenderti queste libertà, Harley Quinn!" sta urlando. "Non osare mai più! Mai. Più! O ti ammazzo."
"Mi dispiace, Mr J, io—"
 
La spinge un'altra volta contro la colonna, ma questa volta fa solo male. E il coltello puntato alla gola non è per niente piacevole.
 
"Sai, Harley…" minaccioso, pericoloso, terrificante. C'è qualcosa di diverso nel suo sguardo. "Se fossi una ragazza furba, scapperesti lontano da me. E invece sei pronta a farti uccidere. Perciò ci sono due soluzioni: o sei stupida, o sei pazza."
 
Fa male. Non soltanto la mano che strattona i suoi capelli e il coltello che punge la gola. Fa male al petto, al cuore. Harleen si sforza di non piangere, ma sente che fra pochi istanti cederà.
 
"Sai, Harleen? Dovresti starmi alla larga."
 
In quell'istante lei strabuzza gli occhi, perché è la prima volta che la chiama con il suo nome completo. Quello vero. E stona incredibilmente. Ma non è soltanto questo a lasciarla attonita, quanto quello che riesce a scorgere nel suo tono di voce. Oltre la rabbia, oltre la violenza, c'è qualcos'altro che suona incredibilmente serio. Qualcosa che assomiglia ad apprensione.
Mr J… temi per me?
Si scioglie. Questa volta davvero. E capisce che non le importa se la ucciderà, o la picchierà, o la tratterà come uno straccio a causa dei suoi sbalzi d'umore. Lei gli starà vicino. Per sempre.
 
Vorrebbe rispondergli, dirgli che non riuscirà a liberarsi di lei così facilmente, che non ce la farà mai, ma lui si volta verso la strada e scompare nella notte, la pioggia cade sulla sua figura e lo fa sembrare ancora più bello.
Rimane lì a guardarlo, sotto al temporale, fradicia come una spugna e quando non riesce più a distinguere la sua figura resta a fissare il punto in cui è sparito, la testa piena di pensieri affollati ma il cuore stranamente leggero, come se avesse finalmente trovato il suo posto.
Accanto al tuo o stritolato dalle tue mani, è lo stesso.
 
 
 
Quindi dai
Fammi ancora male che ti voglio demolire poi lo so che metti amore in ciò che fai
Mi fai camminare sulle spine ma sorridi perché infine sai che mi ritroverai
E disegnerai con lamette affilate il mio corpo morto ormai
Così quando mi accarezzerai potrai leggere quello che ho dentro come col braille
 
Stanotte niente passeggiare in riva dei ruscelli
Ti guardo col sangue negli occhi e in mano due coltelli
Spengo le luci così non ricuci più i brandelli
E anche se mi disprezzi io ti faccio a pezzi, un bacio Sally
 
(Nitro, Jack e Sally)
 
 



Angolo dell'autrice:
Ecco l'aggiornamento. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, perchè per scriverlo ci ho messo praticamente tutta me stessa ;D
Prima dei ringraziamenti, volevo spiegare le note che ho inserito qua e là:

[1]: Il professor Day, detto anche Julian Gregory Day, detto anche l'Uomo Calendario. Per chi non lo conoscesse, è uno dei criminali di Gotham. Non so voi, ma in Arkham City mi è piaciuto da matti questo personaggio - anche se di fatto non combinava nulla per tutto il gioco. Mi piaceva che parlasse sempre di date diverse a seconda del periodo dell'anno in cui veniva giocato il gioco (lo sapevate?) e mi inquietava parecchio. Inquietava nel senso che l'ho trovato fantastico. Quindi l'ho inserito nella mia storia - fa l'insegnante di storia. Per forza di cose. Con tutte le date che conosce a memoria!

[2]: Jonathan Crane e il suo interesse per Harleen. Anche qui, non è farina del mio sacco. La mia citazione è presa palesemente dalla web serie "TheJokerBlog" - stupendamente meravigliosa, se avete voglia, guardatela! - nella quale si cita appunto l'interesse di Crane per la dottoressa Quinzel - che però non è mai arrivato a nulla di fatto.

[3]: So che nella storia originale Nora Fries è viva, ma semplicemente congelata in attesa che Mr Freeze riesca a trovare una cura per la sua malattia. Ma qui...beh, qui non ce l'ha fatta.

Davvero, spero vivamente che non ci sia nessun personaggio OOC. Io mi sono impegnata per rendere il tutto verosimile, ma mi rendo conto che qualcosa potrebbe essere esagerata o non all'altezza. Vi prego davvero di farmi sapere se c'è qualcosa che non va. Qualsiasi cosa.
Le critiche sono sempre ben accette, al pari dei complimenti!

Grazie infinite a tutti quelli che hanno recensito i capitoli precedenti, grazie anche a chi ha inserito la mia storia tra le seguite / preferite / ricordate e grazie anche a chi continua a leggere la mia storia in silenzio.
Un bacio a tutti!

Al prossimo aggiornamento!

Always_Always

P.S: Visto che - finalmente - ho imparato a inserire le immagini, voglio lasciarvi con questa fanart ripescata su internet. Sono i nuovo Harley Quinn e Joker del film Suicide Squad. So che ci sono moltissime critiche, moltissimi pareri discordanti eccetera, ma io ho adorato il trailer. Dalla musica ai dialoghi alle scene. E i personaggi, a parer mio sono strepitosi, dal primo all'ultimo. 
Harley è meravigliosa. Già dalla prima scena in cui compare l'ho adorata come non mai. È lei, squisitamente lei. Bella, matta e letale.
Anche gli altri personaggi li ho trovati azzeccati (Will Smith non mi delude mai) e per quanto riguarda "il pezzo grosso", quello che ha fatto parlare - e continua a far parlare - voglio dire anche io la mia - anche se a qualcuno non interesserà, probabilmente.
La prima volta che ho sentito che la parte del Joker sarebbe toccata a Jared Leto, non ho storto il naso e sono partita ottimista: fisicamente, Leto si presta benissimo per il magro e appuntito Joker - non come i suoi predecessori che erano troppo robusti / muscolosi / quello che volete, nonostante abbiano fatto comunque un lavoro egregio. 
Dal punto di vista meramente fisico, quindi, Leto partiva già con questo piccolo vantaggio - che non è poi tanto piccolo, visto e considerato che ormai tutti vogliamo vedere il Joker dei fumetti su pellicola.
Poi ho visto il trailer e il mio ottimismo è aumentato ancor di più. Le sue movenze, la sua mimica facciale, la sua voce....è il Joker. È. IL. JOKER. Mi sono messa a fangirlare come una cretina nella sua scena. Dura pochi secondi, ma già si riesce ad afferrare tutta la sua essenza malsana e inquietante. I tatuaggi - che io pur non disdegnavo, visto che è un modo come un altro per interpretare la follia del Joker (senza dimenticarsi che nella serie "All star:Batman e Robin", Joker ha un enorme drago tatuato su tutta la schiena) - qui passano davvero in secondo piano. Guardando la sua scena, era come se i tatuaggi sottolienassero la follia del Joker, non stonavano per niente e anzi, sembravano amalgamarsi molto bene con la presentazione del personaggio. 
Se nel film Leto sarà bravo come lo è stato nel trailer, sarà uno splendido lavoro. Al pari delle altre due magistrali interpretazioni di Nicholson e Ledger.
L'unica cosa che non mi convince fino in fondo è la risata che ho sentito nel trailer. Ma i rumors dicono che ci saranno più di una risata all'interno del film, quindi spero davvero che riusciremo ad avere una risata sguaiata che faccia onore a Mark Hamill.

E niente, fine dello sproloquio. Ovviamente è la mia opinione personale. Magari nelle recensioni fatemi sapere cosa ne pensate voi! Se siete d'accordo o se invece siete completamente contrari!
Lascio l'immagine! 
Un bacio a tutti!

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Capitolo 5
*** Crazy in Love ***


Capitolo n°5
Crazy in Love
 
 
 
I look and stare so deep in your eyes, 
I touch on you more and more every time
When you leave I'm begging you not to go, 
call your name two three times in a row
Such a funny thing to me to try to explain 
how I'm feeling and my pride is the one to blame
'Cause I know I don't understand 
just how your love can do what no one else can
 
(Beyonce, Crazy in Love)
 
 
 
 
La mensa è gremita di studenti, così tanti che Vicki Vale non pensava potessero essercene in un solo istituto. Ma, d'altra parte, lei è sempre stata abituata al suo piccolo e tranquillo paesino, quindi non dovrebbe sorprendersi che in città le cose stiano diversamente.
 
"Mia cara, sembri particolarmente spaesata…"
 
Jervis Tetch le sta porgendo il braccio con un'eleganza che non trasuda nulla di sbagliato, ma Vicki è sempre stata una donna sveglia, una che sa leggere gli occhi della gente e lo sguardo che le rivolge il suo nuovo collega è tutt'altro che innocuoSembra che voglia mangiarla e questo la mette a disagio. Ma sa che, essendo appena arrivata, non può permettersi di inimicarsi l'unico potenziale amico, considerato che nessun altro si è mostrato interessato a fare conoscenza. Si limiterà a fare buon viso a cattivo gioco.
Si abbassa quel tanto che basta per afferrargli il braccio e vede Jervis illuminarsi. Reprime il disgusto e scuote la testa.
 
"Da dove vengo io non c'era nemmeno, la mensa."
"Non è il massimo, ma il cibo è buono. Vieni Alice, raggiungiamo Eddy."
"Vicki."
"Come?"
 
La donna gli sorride forzatamente: "Il mio nome è Vicki, non Alice."
 
"Oh, ma devi ammettere che ti si addice proprio!" Jervis le sorride di rimando, poi fa un cenno verso un uomo infilato in una camicia verde e corrucciato dalla testa ai piedi. È seduto a uno dei tanti tavoli della mensa. Lei sa di chi si tratta, perché ha avuto modo di conoscerlo qualche giorno prima: Edward Nashton, l'insegnante di matematica. È scorbutico e scontroso con chiunque, persino con Jervis che, per qualche strano motivo, continua a essergli amico. Non le piace per niente, quell'uomo. Il suo senso di superiorità è pari solo al suo sconfinato orgoglio e questo basta per annoverarlo nella lista di persone con cui non intende approfondire un rapporto. Ma, ancora una volta, le circostanze la costringono a contraddirsi.
Questa faccenda del far buon viso a cattivo gioco si sta rivelando più complicata del previsto.
 
"Eddy, sei stato gentile a occupare un tavolo per tutti!" esclama Jervis, particolarmente eccitato.
 
Ma lo fa di proposito o non si rende conto della realtà dei fatti?
Il professore di matematica alza gli occhi appena, li fa roteare al cielo e poi si concentra nuovamente su ciò che tiene fra le mani. Sono una matita e un giornalino de "L'Enigmista"[1]. Vicki ne approfitta per intavolare una conversazione, se non altro per staccarsi dalla presa di Tetch.
 
"Le piacciono gli indovinelli, signor Nashton?" domanda, prendendo posto e poggiando il vassoio sul tavolo.
Edward continua a tenere lo sguardo fisso sulla rivista: "Diciamo che sono particolarmente abile nel risolverli. Ma questi," sventola in aria il giornalino con sufficienza e poi lo sbatte sul tavolo, "sono così insulsi da farmi pena."
Tetch ha la voce sognante di un bambino stupito: "Eddy riesce a capirli tutti nel giro di un'ora. Glielo dico sempre che ha un cervello formidabile."
 
Vicki, suo malgrado, sorride. Osserva il vassoio del collega di matematica e nota che i due piatti sono disposti in ordine perfettamente simmetrico; le pietanze sono separate con precisione chirurgica, così come le posate: maniaco dell'ordine. Ma che bella sorpresa… e lei che pensava che il nano fosse già un grado sopra la sua scala di sopportazione. 
 
"Alice mangia, altrimenti si raffredda."
 
Per l'appunto.
Vicki si volta amareggiata verso Jervis per ripetergli per l'ennesima volta che, maledizionesi chiama Vicki, ma è la voce seccata di Edward a interromperla.
 
"Immagino che 'Alice' non sia il tuo nome…"
 
Pare rassegnato, come se fosse a conoscenza di qualche particolare interessante che lei ignora. Annuisce senza più parlare, concentrandosi sul pranzo e scegliendo di troncare la conversazione.
Un perfezionista patologico e un nano con la fissazione per Alice.
Ma dove diavolo è capitata? Più che una scuola, le sembra un manicomio.
 
 
 
∞∞∞


 
"Sapevo di trovarti qui."
 
Rachel Dawes alza la testa dai libri e sistema gli occhiali che le sono scivolati sulla punta del naso. Davanti a lei, poggiato allo stipite della libreria e con il sorriso sulle labbra, c'è Harvey Dent.
Anche se dovrebbe esserne abituata, si stupisce ogni volta della sua capacità di sorprenderla. Il lato positivo è che sta imparando a non far trapelare la sua agitazione.
 
"Mi stai seguendo?" domanda, ma sorride, perché non c'è alcuna insinuazione nella sua voce.
 
Nell'aria echeggia lo 'ssh' della bibliotecaria, così Harvey abbassa la voce e le si avvicina.
 
"Ho solo pensato che una ragazza secchiona come te non avrebbe perso tempo a mangiare in mensa." Prende posto accanto a lei e getta lo zaino a terra: "Non con un test in arrivo."
"Ottima capacità di deduzione, Sherlock."
"Che posso dire? Mi viene naturale."
 
Ridacchiano entrambi e Rachel scosta una ciocca di capelli castani dietro l'orecchio. È imbarazzata, ma stranamente a proprio agio; con lui è sempre così: si sente impacciata come se non riuscisse più a ragionare lucidamente, eppure felice e leggera come non lo è mai stata. Che sia questo l'effetto dell'amicizia? È questo che si prova ad avere qualcuno con cui ridere e scherzare? O forse…
 
Harvey si gratta la testa e comincia a parlare: "Dobbiamo anche cominciare la nostra ricerca di arte, sai…"
 
Rachel abbassa lo sguardo e nota che le loro mani sono più vicine di quanto pensasse. Vicinissime. Si sente improvvisamente accaldata.
Ma non li hanno, i condizionatori, in questa maledetta scuola?
 
"Hai ragione," gli risponde, "ma il test è questa settimana."
 
Lui sogghigna e fa scivolare la mano in tasca; per un attimo Rachel è dispiaciuta che si sia allontanata dalla sua: riusciva quasi a sentirne il calore. E le piaceva. Nonostante abbia un caldo insolito, le piaceva.
 
"Facciamo così," Harvey le mostra una moneta, "testa o croce."
Rachel ridacchia di nuovo: "Per che cosa?"
"Testa: cominciamo la ricerca insieme. Croce: tu torni ai tuoi studi e io ti lascio stare."
 
La ragazza soppesa la sua proposta e osserva la moneta d'argento che scintilla nella sua mano grande. Harvey, con il suo carisma che lo rende sempre sicuro, suscita un certo fascino su di lei, al contrario così timida e riservata. Lo guarda, guarda i suoi capelli biondo cenere e i suoi splendidi occhi nocciolati e lo invidia: le piacerebbe essere come lui. Avere la stessa sicurezza.
 
"Lasci che sia il caso a scegliere per te?"[2] ribatte, ancora sorridendo.
 
Vorrei che uscisse testa. 
 
Lui accende il volto con un altro sorriso: "Perché no?"
 
Lancia la moneta. Vortica in aria.
Testa, testa, testa.
Arriva all'apice e comincia a precipitare.
Testa, testa, testa.
Harvey l'afferra e la ribalta sul palmo della mano. Rachel non si era resa conto di quanto fosse agitata, ma ora vuole assolutamente conoscere il verdetto. Harvey se ne andrà? O resterà con lei? L'idea di passare del tempo con lui la manda in visibilio.
 
"Mi dispiace," annuncia infine lui, scostando la mano e permettendole di vedere il risultato, "ma dovrai rimandare i tuoi studi a più tardi."
Il profilo arcigno di John Fitzgerald Kennedy sembra farle l'occhiolino ed è la cosa più bella che abbia mai visto.
"Oh," sbuffa Rachel, in un tono falsamente deluso che lui smaschera immediatamente, "sei davvero insopportabile."
 
 
 
∞∞∞


 
Pamela cammina spedita senza degnare Harleen di uno sguardo. Con disappunto nota che la fila per la mensa è quasi chilometrica, maledizione. Un istinto omicida parte dalle viscere e risale in gola e manca poco perché Pamela si metta a urlare.
Fanculo, fanculo a tutti.
 
"Pam, per favore aspetta!"
"Non ci provare Harl."
"Ho detto che mi dispiace."
 
Si beh, quello è il minimo.
Supera Jonathan Crane e si mette in coda, agguantando malamente un vassoio mentre aspetta il suo dannatissimo turno. Harleen la affianca, ma lei non ha intenzione di guardarla in faccia.
 
"Credo che sia un po' esagerato, sai…" mormora Harl.
Quasi Pamela strabuzza gli occhi: "CHE COSA? Sparisci per una settimana senza farti sentire, poi torni qui come se nulla fosse e non mi degni nemmeno di una spiegazione! E ti aspetti che io ci passi sopra?"
 
Harleen si gira i pollici e osserva il pavimento con inspiegabile interesse: "Non è proprio così. È solo che—"
"No, Harl. Non dirmi che l'hai fatto per non farmi preoccupare. Risparmiami altre bugie."
La bionda storce il naso: "Non sono bugie."
 
La fila scorre più velocemente di quanto si aspettasse, infatti dopo qualche minuto sta già indicando alla cuoca le pasta in bianco. Potrebbe ordinare anche il secondo, ma quella carne ha un aspetto orribile e mangiare verdure l'ha sempre disgustata.
Povere, povere piante.
 
"E per te, biondina?" la cuoca è grassa e ha una voce da uomo. Indossa una di quelle cuffiette per capelli sempre unte che le ricordano quanto sia terribile mangiare in mensa.
Pamela sa già che cosa prenderà Harleen. Lei non è mai stata attenta a quello che mangia, mai.
 
"Bistecca e patatine fritte, per favore."
 
Già. Devo sempre pensarci io alla tua salute, vero?
Contro la sua ferrea ostinazione, consente a Harleen di sedersi al suo stesso tavolo. Sarebbe troppo strano mangiare senza di lei. Quando è stata l'ultima volta che sono rimaste separate? Non se lo ricorda più. Un'eternità, appunto. E lei non è una ragazza che si affeziona facilmente, quindi Harleen l'ha fregata per bene. Maledetta biondina. Fin da quando ne ha memoria, lei e Harl sono sempre state insieme e così deve continuare a essere, anche quando vorrebbe darle due ceffoni ben piazzati sul viso — come in questo momento.
 
"Pam, senti…" Harl chiude gli occhi e cerca di trovare le parole giuste. "Mi dispiace davvero. Ma non sto accampando scuse per giustificare la mia ultima settimana e vorrei che tu lo capissi."
"Harleen Quinzel, pensi che non abbia notato i lividi che cerchi di nascondere con quella maglia a collo alto?"
Lo vede chiaramente, lo stupore, scivolare negli occhi di Harl e pietrificarla sulla sedia.
"Credi che io sia così stupida da non aver visto quanto sei assente in questi giorni? Persa nei tuoi pensieri?"
 
Come se non fossi più a contatto con la realtà.
 
"I-io…" boccheggia, Harleen, incapace di racimolare scuse.
"Quello che ti sto chiedendo è di fidarti di me." Pamela le afferra la mano e anche questo è un comportamento insolito per una come lei. Ancora una volta, è colpa di Harleen. Lei e la sua stramaledetta capacità di farsi voler bene.
 
"Quello che ti sto chiedendo è di lasciare che io ti aiuti. A me puoi dire tutto, lo sai."
 
Per qualche istante è soltanto il chiacchiericcio generale della mensa a fare da sottofondo ai loro sguardi, ai loro pensieri. Pamela non l'ha mai vista così strana. Diversa, Harleen è cambiata. Ha continui sbalzi d'umore e sembra non riuscire mai a concentrarsi. Pare ossessionata da un pensiero fisso e il brutto presentimento che continua a perseguitare Pamela si fa intenso ogni istante di più.
Quando risponde, il tono piatto di Harl le fa capire che aveva ragione: qualsiasi cosa stia succedendo è grossa. E grave.
 
"E se fosse qualcosa difficile da capire?"
 
La voce è un sussurro inquieto che poco si addice al carattere energico della sua migliore amica.
In che guaio ti sei cacciata, Harleen?
 
Deglutisce. "Fammi provare."
 
 
 
∞∞∞


 
Il professor Victor Fries prende posto al tavolo degli insegnanti salutando i presenti con un freddo 'buongiorno'.
Jervis lo guarda dal basso e sorride. Victor è sempre gentile e educato con tutti, qualsiasi cosa accada. Certo, forse è un po' distante, ma lui non se la prende più di tanto, anche se vorrebbe capire il motivo di tale cambiamento: era così caloroso, prima! Poi la signora Fries è morta ed eccolo lì, a odiare il mondo intero con la sua consueta eleganza. Jervis non comprende come possa essere ancora addolorato, anche a distanza di così tanto tempo: Nora era mora, con un nome banale e nemmeno gli occhi azzurri. Non si addiceva per niente a un uomo come Victor! Lui è più adatto alle bionde… come la signorina Vale. Lei sì che è la persona giusta! È proprio contento che si sia unita al nuovo corpo insegnanti, dovrebbe andare a congratularsi con il vecchio Arkham, e…
 
"Oh!" esclama, gli occhi luminosi e la testa ormai altrove, "Bane! Siamo qui!!"
"Anche lo scimmione?"
"Eddy, sii gentile. Non vorrai farlo arrabbiare! Ricordi com'è finita l'ultima volta?"
 
Il collega non risponde, ma il discorso non resta in sospeso perché Alice assume un'espressione indagatrice.
 
"Che cos'è successo?"
 
Adora quella ragazza. La sua curiosità, la sua scaltrezza, la sua energia. Dio, l'adora proprio!
 
"Eddy gli ha consigliato di piantarla con gli steroidi. Bane non ha gradito."
"Si fa di steroidi?"
"Certo che no," risponde Victor, perentorio.
"Certo che sì," ribatte Eddy, "altrimenti perché è così grosso?"
"Costituzione… ?" azzarda Alice.
 
Nota lo sguardo truce di Eddy e decide d'intervenire prima che l'amico possa insultare l'intelletto della sua bionda.
 
"Comunque, Bane non l'ha presa molto bene e ha rotto il tavolo. Usando Eddy."
 
Ride. È l'unico ma non gli importa.
Finalmente Bane li raggiunge con la sua camminata pesante che gli ricorda tanto quella di un grande orso arrabbiato. Eh sì, perché Bane, per un motivo o per un altro, è perennemente imbronciato e questo un po' lo rattrista perché gli piacerebbe che andassero tutti d'accordo come veri amici.
Però non perde mai le speranze.
 
"Allora, come è andata la giornata?"
 
Bane risponde con un ringhio sommesso, agguantando il tocco di pane che ha sul vassoio: "I novellini sono degli idioti."
Eddy, di fronte a lui, sogghigna: "Per una volta sono d'accordo con te."
 
Jervis lo sa: questo non li rende amici. Però non può fare a meno di essere felice di questo piccolo avvicinamento.
Victor si limita a sorseggiare il suo bicchiere d'acqua e Alice è ancora intenta a osservare Bane, probabilmente sconvolta dalla mole massiccia del suo nuovo collega. Lo sa che il suo amicone fa questo effetto ai nuovi arrivati: è davvero bello grosso.
Jervis, tutto sommato, sente che sarà una bella giornata.
 
 
 
∞∞∞


 
Jonathan Crane è in fila per la mensa e si prende il tempo necessario per osservare il mondo che gira attorno a sé. Gli studenti sembrano tante piccole formiche che brulicano alla disperata ricerca di briciole di pane. Gli fanno pena, ma al tempo stesso invidia la loro caparbietà nel voler trovare ad ogni costo un posto nell'ordine delle cose. Lui è sempre stato estraneo a queste necessità. È sempre stato distante, come se fosse separato dal resto del mondo. Ha imparato a non farne un dramma e a bearsi delle piccole cose che la sua vita apatica gli concede. Una, in particolare.
La tua più cara e preziosa amica…
La cuoca gli porge il piatto e lui ringrazia con un cenno educato del capo.
Non ti piacerebbe scoprire qual è la cosa che teme di più?
C'è un tavolo vuoto in un angolo della grande mensa. Da lì riesce a vedere tutti. È perfetto.
Non ti piacerebbe vederli urlare?
Il pacchetto che tiene sigillato prudentemente nella tasca interna dei sui pantaloni ora pesa più di quanto dovrebbe e pare chiamarlo con insistenza crescente.
Ma non si può, non si può!
Impugna la forchetta: l'insalata non gli è mai parsa più terribile.
Non faccio più certe cose. Ho chiuso con quella roba.
In verità non è poi così male, una volta in bocca. Jonathan sistema meglio gli occhiali e osserva gli studenti e gli insegnanti, imponendosi di resistere a qualsiasi cosa potrebbe indurlo in tentazione.
 
 
 
∞∞∞


 
Quando Bruce entra nel salone sa che Selina aspetterà qualche minuto prima di seguirlo e scuote la testa, divertito: quella ragazza ha così tante paranoie. Supera addirittura le sue.
E non è così facile.
 
Silenzio e finzione. Queste sono le regole che si sono imposti quando hanno iniziato quel bollente gioco di seduzione. Non che gli dispiaccia, comunque. Non sa quale potrebbe essere la sua reazione se qualcuno si accorgesse della loro tresca e per ora non vuole scoprirlo. No, molto meglio così. Silenzio e finzione. Le regole esistono per un motivo. E la rassicurante certezza dell'anonimato è una piacevole sensazione.
 
Si avvicina alla fila per la mensa e davanti a lui nota una figura; ha le spalle coperte da una cascata di capelli castani. Per un istante si blocca e non sa come comportarsi. Non ha bisogno che lei si giri per riconoscerla: potrebbe distinguere quei fianchi morbidi e quelle gambe snelle persino in una piazza sovraffollata e proprio per questo è incerto se avanzare e scontrarsi inevitabilmente con lei, o se costringersi al digiuno per causa di forza maggiore. È così indeciso che quando effettivamente lei si volta, resta imbambolato come un pesce lesso. Le labbra carnose e il sorriso niveo risplendono su quel viso perfetto e, quasi come una conseguenza naturale, gli si secca la saliva in gola.
 
"Talia," saluta lui, la fuga ormai un sogno lontano, "non… pensavo di trovarti qui."
 
Bella, con la mascella rigida e gli zigomi appuntiti. Bella, con gli occhi pastosi da sembrare di crema, unico squarcio di tenerezza in quell'armatura di ghiaccio.
 
Per un istante gli sembra che arrossisca. "A volta mi capita, sai…"
 
È solo un'impressione, naturalmente. Talia ha un controllo ineccepibile delle sue reazioni; per questo adora i suoi occhi.
Quelli non sempre riesce a controllarli.
L'aria è pregna d'imbarazzo e lui si sorprende di come due persone carismatiche come loro perdano d'improvviso tutta la loro abilità di argomentazione. Si risponde che, però, a situazioni come quella non sono abituati. Carisma o no.
 
"Beh…" Talia si schiarisce la voce, "come… stai?"
 
È una bella domanda. Se la fa spesso anche lui, senza mai riuscire a venirne a capo. Ora in un modo o nell'altro deve trovare qualcosa da rispondere, però, altrimenti farà davvero la figura del cretino ed è l'ultima cosa che vuole. Non davanti a lei. Specialmente davanti a lei.
 
"Single," si lascia sfuggire e non è esattamente quello che voleva dire; proprio no. Quel tono autocommiserativo da dove è saltato fuori? È in situazioni come queste che vorrebbe prendersi a pugni da solo. Forse un livido o due gli ricorderebbero di collegare il cervello alla lingua.
Talia si rabbuia e così anche lui.
Bella mossa, idiota.
 
"Già…" commenta lei. Questa volta i suoi occhi sono pieni e liquidi. Se non la conoscesse bene, probabilmente non se ne accorgerebbe.
 
Ma io ti conosco ed è questo che fa male più di tutto. I ricordi sono dolorosi, vero Talia?
 
Lei si gira e comincia a camminare verso una meta imprecisata che a Bruce non è dato di conoscere. Vorrebbe fermarla, afferrarle il braccio e chiederle qualcosa su di lei. Come sta. Se le è passata.
Se mi hai dimenticato.
Invece tutto quello che fa è osservarla andarsene, ermeticamente barricata in quella corazza di indifferenza e cattiveria che l'ha sempre caratterizzata e che lui è riuscito, per un tempo che gli pare infinitesimamente piccolo, a scalfire.
 
 
 
∞∞∞


 
"Pam… ti senti bene?"
 
Harleen la guarda di sottecchi senza riuscire a nascondere la preoccupazione. Forse avrebbe dovuto scegliere un posto più consono per questo tipo di conversazione, ma sa che Pam non avrebbe sopportato altre tergiversazioni. E poi, la verità è che vuole ardentemente raccontarle ciò che è successo e sfogarsi con lei per tutto ciò che è accaduto: il primo incontro con Mr J, l'omicidio nel vicolo, l'aggressione fuori dalla scuola e poi il bacio sotto casa. Troppo a lungo ha taciuto, accontentandosi dei suoi soli pensieri e ora ha bisogno di sfogare tutte le sensazioni che ha provato, di dare voce alle emozioni straordinarie che Mr J ha scatenato in lei e cercare di spiegare quanto meravigliosa e al tempo stesso spaventosa sia la rivelazione che lei, in un modo ossessivo e morboso che non comprende ancora appieno, sia innamorata di lui.
E sa che, anche se ci metterà del tempo e probabilmente non sarà d'accordo, Pamela è l'unica con cui potrebbe confidarsi. Almeno, ne era certa prima di vedere quello sguardo strano nei suoi occhi, una mescolanza di preoccupazione, rabbia e paura. Ha il dubbio di aver parlato troppo presto.
 
"No."
 
Harleen osserva le sue spalle irrigidirsi e i suoi pugni farsi sempre più chiusi ed è aggredita dal panico. Tenta di rimandare l'irreparabile.
 
"Senti, so che è difficile da capire, ma—"
"Niente ma, Harl. Questo non è solo 'difficile da capire', è inaccettabile. Dirmi che sei… sei… di quel mostro, poi!"
 
È come se la colpisse al cuore: "Mr J non è un mostro."
 
"Mr J?" sbotta Pamela, lo stupore sgrana i suoi occhi, "Harl, ma senti quello che dici?"
"Qual è il problema?"
"Quel ragazzo ha ucciso una persona e ha tentato di far fuori anche te, due volte."
"L'ha fatto per salvarmi. E non voleva uccidermi."
"Chissà quante altre volte ha ucciso!"
 
Tante. L'ho visto nei suoi occhi.
Pamela le afferra la mano e per un istante è tentata di sottrarsi a quel tocco freddo. Non capisce, Pamela. Non vuole starla a sentire. La tratta come una bambina capricciosa e questo la irrita come non mai.
 
"Harleen, ti prego, abbandona questa pazzia. Non puoi essere davvero… innamorata di lui!"
 
Innamorata di lui.
Detto ad alta voce, ha un suono meraviglioso.
Innamorata di lui. Uhm.
È possibile?
 
"L'avevo detto che non avresti capito…" commenta afona e questo basta perché Pam smetta per qualche istante i panni da vendicatrice per indossare quelli da psicologa mancata. Non ha mai potuto soffrire il suo comportamento da madre surrogata.
 
"Dio mio, Harl! Ti prego!"
"Io ho visto cosa c'è in fondo ai suoi occhi, Pam: tristezza e dolore." E non solo. Ma Pam non capirebbe. "Laverò via quel dolore e lo farò di nuovo felice!"
"Harleen Quinzel, questa volta hai passato il segno e non resterò zitta mentre ti fai ammazzare! Scordatelo! O lui, o me!"
 
 
 
∞∞∞


 
Rachel non avrebbe mai immaginato che studiare con qualcuno potesse essere così spassoso e ne rimane piacevolmente sorpresa. Harvey, poi, è un ragazzo affabile e divertente, che non dice mai una parola fuori posto e riesce sempre a metterla a suo agio. La ricerca procede lentamente ma lei non ne è dispiaciuta, anche se la sua natura studiosa le imporrebbe un ritmo più serrato sui libri. Stare con Harvey è così… bello. Sentirlo vicino, far scivolare lo sguardo sul suo corpo e poi tornare sul suo viso, osservare come l'angolo della bocca si sollevi a ogni sua risata, ridacchiare per i capelli biondi che proprio non vogliono stare al loro posto, è incredibile; la fa sentire speciale. Harvey è speciale. Se ne accorge a ogni secondo che passa. Non è ancora riuscita a capire come siano finiti mano nella mano, seduti così vicini da essere quasi l'uno sopra l'altro, ma non le importa. È come se fosse in un sogno, un sogno ad occhi aperti dal quale per nulla al mondo vorrebbe svegliarsi. E lui le carezza le dita con una delicatezza così amabile che ha più volte indugiato sulle sue labbra sottili provando a chiedersi come sarebbe stato baciarle.
 
"Rachel, mi stai ascoltando?"
"C-come?"
"Lo sapevo, questa storia proprio non ti piace."
 
Un'altra risata. E il suo cuore fa una bella capriola all'indietro. Resta imbambolata a guardarlo anche quando lui si volta verso di lei e smette di parlare. I suoi occhi nocciola la fissano a lungo e brillano di una luce strana che li rende ancora più incantevoli.
 
"Sei… molto bella, Rachel."
 
Lei avvampa. Un'abitudine alla quale si è ormai abituata.
Poi Harvey si avvicina lentamente e posa le labbra sulle sue in un bacio che ha il sapore di dolcezza. E Rachel a quel punto chiude gli occhi e lascia che lui la porti lontano, in un posto che profuma di fragole e d'amore e dove esistono solo loro.
 
 
 
∞∞∞


 
"Amico, ma perché non mangi mai niente?"
 
Jack Ryder si sente in diritto di fare domande, ma la verità è che è un'irritante chiacchierone e se continuerà con questa imprudenza imparerà a sue spese che è sempre meglio pensare prima di parlare. Ma oggi Mr J non ha voglia di dare spettacolo: il pubblico è noioso e senza classe e la sua arte sarebbe sprecata in un contesto simile.
Ah ah. Ho parlato troppo presto.
Nel suo campo visivo entra una figura interessante che gli accende lo sguardo e gli fa cambiare idea: Bruce Wayne.
Sarebbe splendido verificare se quello che pensa sul piccolo principe corrisponda a verità, ma se vuole davvero mettere in scena uno spettacolo come si deve, occorre prima di tutto dare 'il via alle danze'.
Ridacchia, ora sinceramente divertito.
 
"Jacky," dice, "quello non è il tuo amico Bruce?"
 
Lo stolto si volta a quelle parole e il suo volto s'indurisce alla vista del principe di Gotham.
Mr J sa che tra i due non è mai corso buon sangue, o almeno: sa che Jack odia a morte il più famoso orfanello della città, forse per un'invidia mai del tutto sopita. Ma da uno squallido imbecille come Jack Ryder non ci si può aspettare altro.
 
"Bruce Wayne, quella feccia," risponde Jack. "Che ci fa qui?"
 
Può sentirlo dalla sua voce, tutto l'astio che impregna le sue parole. Così tanto che è quasi palpabile.
Ride di nuovo.
 
"Perché non glielo chiedi?"
Jack lo guarda e sorride, ma il suo, di ghigno, è molto più allargato: "Io ti seguo, Jacky."
 
È l'ultima piccola spinta: Jack parte alla carica e lui deve trattenersi a stento per non ridere come un matto.
Non ancora, non ancora. Non è ancora ora.
 
"Ehi, Wayne! Credevo che i principini come te non frequentassero la mensa! Ti mischi con le persone normali?"
 
Dai, dai, dai…
Bruce si volta appena, squadra per qualche secondo la figura di Jack e poi torna a osservare il cibo. Alza le spalle.
 
"Credevi male, Ryder. A volte anche noi principi dobbiamo mangiare."
"E dov'è il tuo caro maggiordomo? Si è scordato di cucinarti il pranzo?"
"Si è preso la giornata libera. Che posso dire? Sono sfortunato."
 
Eh no, no, no, non va. Quell'idiota non sa proprio come si fa.
Jack sta annaspando nel suo stesso discorso e nessuno li sta ascoltando. Se Mr J vuole davvero arrivare dove spera, ci vorrà molto più di questo show da quattro soldi per scaldare il pubblico e crede proprio che dovrà intervenire.
D'altra parte, lui se lo ripete spesso: se si vuole fare una cosa è sempre meglio pensarci da soli.
Si apre il sipario!
 
"Pare che anche tuo padre si fosse preso una giornata libera e quando l'ha fatto non gli è andata molto bene."
 
Lo vede chiaro come il sole: le spalle di Bruce Wayne s'irrigidiscono d'istinto e il chiacchiericcio che aveva caratterizzato l'imbarazzante intervento di Jack sprofonda nel silenzio.
Oh, ora sì che ci siamo.
Ai tavoli, nessuno si è ancora accorto di niente e questo gli dà un po' fastidio, ma pazienza: per questa volta dovrà accontentarsi di un piccolo pubblico. Qualcosa gli suggerisce che ci saranno altre occasione per performance migliori.
Bruce si volta verso di lui e questo gli dà il pretesto per affiancare quell'inetto troglodita di Jack Ryder e superarlo.
 
"Credo che la sfortuna di cui parlavi sia una cosa di famiglia, sai?"
 
Ridacchia. Per la situazione, per la giornata così meravigliosa e sopra ogni cosa per la faccia marmorea che assume il caro Bruce Wayne. È impagabile. Mr J ha centrato l'obiettivo, ma in fondo, è stato facile: il principe di Gotham è una bomba a orologeria e lui è sempre stato bravo con gli esplosivi.
 
"Tu chi sei?"
"Arrabbiato, Brucey? Non dovresti. O forse sì…"
 
Ride di nuovo e il principino gli si avvicina fino ad arrivargli a qualche centimetro di distanza. È livido di rabbia. Basterà poco per farlo cedere.
Pronti…
 
"Non mi sono mai andati a genio quelli come te."
 
Mr J dovrebbe sentirsi offeso, ma decide di passarci sopra: è il loro primo incontro, dopotutto. Bruce non ha ancora avuto l'opportunità di conoscerlo. Ma si rimedierà a questa piccola mancanza. Ne avranno, di tempo.
 
"Non esistono quelli come me."
"Credi di essere tanto furbo?"
"Più furbo di tuo padre…" un'altra occhiata stralunata e Mr J capisce che il piccolo Bruce si sta trattenendo a stento.
 
Partenza…
 
"Anche se, a dirla tutta, ho sentito che sei stato tu a voler uscire da quel bel teatro. Quindi in verità quello poco furbo sei—"
 
Un pugno. Un pugno potente in piena faccia che lo fa cascare a terra bello e disteso.
Via!
Ride così tanto che fa fatica a respirare.
 
"Guarda come ti scaldi! Sono sensi di colpa, quelli?"
 
Un altro pugno, questa volta all'altezza dello stomaco, ed è quasi certo di morire dal ridere. Non può fare a meno di guardare Bruce: la sua ira, la sua disperazione, come si disseta nella violenza nonostante si nasconda dietro una maschera d'indifferenza. È l'oscurità, quella che lo avvolge come un mantello nero, ed è buffo che solo Mr J se ne sia accorto.
 
"Ehi, lascia stare il mio amico, stronzo!"
 
Jack Ryder scaraventa il vassoio sulla testa di Bruce, facendolo cadere a terra. Il principe di Gotham resta immobile per alcuni istanti e Mr J ha il timore che possa aver perso i sensi. Non era così che doveva andare. Sbagliato, è tutto sbagliato! Lo spettacolo? Rovinato. La giornata? Sciupata. E quel troglodita di Jack Ryder si contorce in una risata che gli ricorda tanto un tasso con l'asma.
E questo non è divertente.
 
"Vieni, ti aiuto io," gli dice poi Ryder, allungando una mano che però Mr J rifiuta.
"Jacky Jacky Jacky…" è arrabbiato. Le mani prudono e lui deve trovare il modo per salvare il salvabile. "Perché devi sempre impicciarti negli affari degli altri?"
 
Quell'idiota non capisce mai come stanno le cose. Ha il cervello più piccolo di una briciola di pane e lui non ha mai sopportato la stupidità. Certo, ne ride. Fino a quando la stupidità non diventa d'intralcio, come in questo momento. Dovrà dargli una bella lezione, una esemplare che non si dimenticherà più. Bacchettarlo sulle mani fino a quando non capisce come stanno le cose. Dopotutto, un insegnante deve sempre sapere quando è il momento di passare alle maniere forti. Mano caritatevole e mano pesante: è lo stesso meccanismo che si usa per addestrare i cani, con Jack Ryder non deve essere poi tanto diverso.
Jack lo affianca quando lui si avvicina al bancone e scuote la testa, deluso.
 
"Jacky Jacky Jacky… ma ce l'hai un cervello in quella testa vuota?"
 
Dietro di loro si alza l'urlo furibondo del professor Bane e mentre Bruce Wayne è ancora steso a terra, tutti si voltano in quella direzione. Tutti tranne lui e Jack. È il momento. Vendicarsi e concludere in grande stile.
L'ultimo sketch della giornata.
 
"Ma che stai dicendo, amico? Io ti ho—"
 
Il rosso schizza e Mr J ritrova il sorriso.
 
 
 
∞∞∞


 
Se prima aveva il dubbio di essere capitata in una gabbia di matti, ora Vicki Vale ne ha l'assoluta certezza. Il corpo insegnanti con cui sarà costretta a lavorare fino al prossimo trasferimento è composto da pazzi apatici e il fatto che ci abbia impiegato così poco tempo per rendersene conto la dice lunga su quello che sarà costretta a sopportare per il resto dell'anno.
 
Bane è un enorme orso costantemente arrabbiato che probabilmente, e aveva ragione Edward a sostenerlo, fa uso di steroidi, perché non può davvero essere così grosso.
Victor è sociopatico e sembra odiare il genere umano a prescindere, come se fosse allergico al sorriso e alla felicità. È freddo come un iceberg e lo sa anche se non gli ha mai stretto la mano: quell'uomo emana gelo al posto del sudore. Comincia a comprendere perché gli studenti sussurrino 'Mr Freeze' ogni volta che attraversa i corridoi[3].
Edward è un megalomane ossessivo compulsivo: ha riordinato più di dieci volte le posate alla giusta distanza e ha passato l'intero pranzo a lanciare frecciatine più o meno velate asserendo quanto tutti siano ignoranti rispetto a lui.
Jervis, invece, assomiglia sempre più a un maniaco depravato. È fissato con i cappelli stravaganti, con il the e dà sempre l'impressione di non capire nulla di quello che gli si dice. E ha scoperto perché la chiama Alice: per colpa di un dannato romanzo! E pare che non sia un nomignolo che affibbia solo a lei, ma a qualsiasi ragazza bionda dagli occhi azzurri. Vicki si è appuntata mentalmente di avvicinarlo solo per le questioni urgenti. Quelle tanto urgenti. Come un incendio o un terremoto.
E che si fotta pure il buon viso al cattivo gioco.
 
All'improvviso un gran baccano desta tutti e cinque e fa alzare loro le teste. Jervis smette di farneticare e viene coperto dal tono glaciale di Victor, che ferma la prima studentessa che passa e le domanda che cosa stia accadendo.
 
"Una rissa," risponde quella, intimidita, "Bruce Wayne e Jack Ryder."
"CHE COSA?" sbraita il professor Bane. È un urlo potente che attira l'attenzione dell'intera sala mensa e fa fuggire la ragazza. Doveva essere terrorizzata dall'idea che lui potesse farle altre domande e Vicki non può darle torto: non ha impiegato molto tempo per capire che quel tizio perde le staffe con una velocità imbarazzante. Forse anche lui dovrebbe essere avvicinato solo per le questioni urgenti. Come il professor Nashton.
L'idea di poter contare solo su Mr Freeze non la consola come dovrebbe.
 
"Quel Jack," commenta Edward, disgustato, "sempre un piantagrane."
"Ma Wayne!" esclama Jervis. "È un ragazzo così ben educato!"
 
Tutti restano ai propri posti e quando un urlo squarcia l'aria Vicki prende coraggio e si schiarisce la gola: "Scusate, ma… non dovremmo intervenire?"
 
Edward, Jervis e Victor si voltano contemporaneamente verso Bane e quest'ultimo alza gli occhi al cielo e poi si alza. La vena sulla sua fronte è rigonfia e la sua ombra ottenebra completamente il corpo minuto di Jervis. Ringhia. Vicki non se l'è sognato: il professor Bane ha ringhiato davvero. Non la sorprenderebbe se cominciasse a mordere e sbavare. Francamente, a questo punto non la sorprenderebbe più nulla.
 
"Vado, li sistemo e torno."
"Aspetta," dice Victor, incolore, "vengo con te."
"Anche io," aggiunge Vicki, precipitandosi dietro di loro.
 
Non sa cosa intendesse Bane quando ha detto 'li sistemo', ma ha un brutto presentimento. Manca soltanto una scazzottata tra professori e studenti per completare il quadro. Manicomio sotto mentite spoglie: ecco il quadro clinico.
 
"Non metterci troppo, Bane, o la carne si raffredda!"
"Jervis, perché devi sempre essere così inopportuno?"
"Scusa, Eddy."
 
 
 
 ∞∞∞



"Harleen Quinzel, questa volta hai passato il segno e non resterò zitta mentre ti fai ammazzare! Scordatelo! O lui, o me!"
Harleen quasi si strozza con la sua stessa saliva.
 
"Mi stai chiedendo di scegliere? Tu o lui?"
 
Pamela la squadra con la determinazione che sfoggia soltanto in situazioni disperate e questo la spaventa ancora di più. Quando Jack Ryder ha urinato nell'aiuola della scuola, ecco quando le ha visto assumere quell'espressione. Non è stato piacevole. Il povero Ryder non ha parlato con nessuno per settimane.
 
Pam scuote la testa: "Non lascerò che ti cacci nei guai per lui."
"E quindi mi costringi a scegliere?"
"Se è per aiutarti, sì."
 
Harleen si sente tradita, ha il cuore a pezzi e una gran voglia di piangere. Pensava che Pamela sarebbe stata un porto sicuro con cui condividere le sue sensazioni e riuscire a chiarire il da farsi, invece ora è più confusa di prima e ha la certezza che quando termineranno questa conversazione perderà una delle due persone che ama.
Che cosa può fare?
 
"E se scegliessi lui?" è soltanto un'ipotesi, ma Harl vuole ferirla in qualche modo. Vuole che si senta spezzata come lo è lei. E Pamela abbocca all'amo, perché il suo volto muta in un'espressione costernata, come se non credesse a ciò che ha sentito.
 
"Harle—"
 
Un urlo disumano tronca la loro conversazione e le fa voltare verso il banco del cibo. C'è tanta gente ammassata, laggiù e non si vede bene cosa stia accadendo, ma ad Harleen basta fare attenzione per avvertire nell'aria una risata che conosce fin troppo bene.
Sbianca.
 
"Che cosa sta succedendo?" Pamela non ha ancora capito.
"È lui," mormora Harleen, apatica.
"Lui?"
 
Mr J…
Si alza di scatto e comincia a correre.
 
 
 
∞∞∞


 
Quando Vicki raggiunge il luogo della rissa insieme ai suoi due colleghi, non riesce a reprimere un urletto di orrore: c'è del sangue. Tanto sangue. Copre gran parte del pavimento e si concentra su un corpo riverso a terra.
Mio… Dio…
Accanto a quel corpo ce ne sono altri due, intrecciati con ferocia e intenti ad azzuffarsi come leoni imbestialiti. In verità, soltanto uno scaglia raffiche di calci e pugni, livido di rabbia. L'altro si limita a ridere. È coperto di sangue e si sbellica dalle risate come un pazzo. Non tenta nemmeno di fermare il suo avversario, che incessante continua a colpirlo e a sbraitare di smetterla di scherzare.
Vicki non ha mai visto uno spettacolo più orrendo e grottesco di quello.
 
"CHE DIAMINE SUCCEDE QUI?"
 
Sobbalza: il tono baritonale e minaccioso di Bane l'ha presa alla sprovvista un'altra volta. Anche Victor urla e per la prima volta lo vede sbilanciarsi.
 
"WAYNE! BASTA! LASCIALO STARE!"
 
Quello è Bruce Wayne?
Alla fine è Bane a risolvere la questione. Solleva di peso il ragazzo che continua a menare calci e pugni e lo divide da quello che ride senza contegno. Sente i due ragazzi urlarsi contro ma non riesce a capire cosa si dicono, perché rivolge l'attenzione al professor Fries e al corpo immerso nella pozza di sangue.
 
"Cosa gli è successo?"
"Chiami un'ambulanza, ora" ordina lui, senza guardarla.
 
Vicki percepisce la sua agitazione e non può che giustificarla.
C'è così tanto sangue…
Estrae il cellulare dalla tasca mentre il ragazzo che ride cade di nuovo a terra. In quel momento nota che ha la bocca sfregiata da due lunghe cicatrici.
 
"Tu…" lo sente mormorare tra una risata e l'altra, additando Bruce Wayne, "sei… troppo… divertente!"
 
Quello che ha appena scoperto essere il principe di Gotham si slancia verso il suo obiettivo con una furia cieca negli occhi e Vicki si rende conto che, se Bane non fosse grosso come un armadio a due ante e dotato d'incredibili riflessi, probabilmente l'altro ragazzo si ritroverebbe già all'altro mondo.
 
"MR J!"
 
Una voce isterica apre la folla e una ragazza bionda si fionda accanto al ragazzo con le cicatrici. Vicki non riesce a riconoscerla. In verità, non ha riconosciuto nessuno e questo la infastidisce: dovrebbe riuscire a distinguere delle facce, ormai. È passato del tempo dalle prime settimane di scuola.
"Come ti senti?" domanda la bionda, preoccupata oltre ogni limite. Si poggia il ragazzo sulle gambe e lo stringe a sé.
 
"118. Pronto intervento, qual è l'emergenza?"
Vicki si riscuote: "Serve un'ambulanza all'Arkham High School. Non so cosa sia successo, ma c'è tanto sangue…"
 
 
 
∞∞∞


 
Lui è poggiato sulle sue gambe ma Harley ora non riesce ad assaporare questo bellissimo contatto: Mr J è malmenato e ricoperto di sangue. Lei sente che sta per scoppiare a piangere ma riesce a trattenersi – a stento.
Chi? Chi ha osato!
 
"Che ti hanno fatto?" mormora, gonfia di rabbia e preoccupazione. È attanagliata da sentimenti così forti che sente di poter rompere qualcosa. Di poter uccidere qualcuno.
"Harle-quin…" lui alza il mento e intreccia una mano tra i suoi capelli biondi. Sorride, carico di un'euforia che gli annebbia lo sguardo; sembra essersi dimenticato della loro ultima conversazione. Ubriaco di risate, per Harleen non è facile decifrare le sue parole.
 
"Volevo solo vedere… se avesse il cervello…"
"Chi?" lo incalza.
"Ma non ce l'ha…" Mr J ride di nuovo. "Jacky non ha il cervello…"
 
"Signorina Quinzel," il professor Bane le parla con tono indecifrabile. Sta ancora trattenendo il bastardo che ha ridotto così il suo Mr J, ma non sembra fare molta fatica. "Porti il suo amico in infermeria."
 
Suo malgrado, annuisce. Suo malgrado, seppellisce il rancore e la voglia matta che ha di risistemare i connotati di quello stronzo che ha malmenato così Mr J.
Ma questa me la paghi molto, molto cara.
Però Mr J continua a ridere come un pazzo e lei alla fine abbandona i suoi propositi di vendetta e ritrova il buon umore: è felice che non sia ridotto così male da non riuscire più a divertirsi, perché se lui non potesse più ridere sarebbe davvero la fine del mondo.
Mr J si alza e le si poggia contro, anche se non sembra aver bisogno di sostegno per camminare. Harley sorride e avvampa pensando che, probabilmente, lui voglia semplicemente starle vicino.
 
"Andiamo, Pasticcino…" si ritrova a dire, pregna di dolcezza. Non ha idea da dove le sia uscito quel nomignolo improbabile, ma lui non sembra turbato. Al contrario, la guarda smagliante e le fa l'occhiolino: "Andiamo, Bambolina…"
 
Se Harley non si scioglie a quelle parole è solo perché non vuole rovinare tutto.
Sì, andiamo…
Si fanno largo tra la folla, sotto gli sguardi indagatori degli studenti dell'Arkham High School. Sono occhi penetranti che traboccano di curiosità ed eccitazione – le risse hanno sempre questo strano effetto e Harley non riusciva mai a comprenderne il perché, prima. Ora, invece, le sembra di condividere quella bramosia di novità, quell'interesse per il proibito, per l'adrenalina, per la violenza. 
Siete invidiosi, non è vero? Vorreste avere il coraggio di agire, andare contro le regole e fare tutto quello che volete. Vorreste esserci voi, al loro posto. E invece spiate chi non si fa scrupoli perché siete dei codardi. Ma io no: io sono esattamente dove vorrei essere.
Tuttavia tra quegli occhi neri ce n'è un paio che brilla di luce propria e per un attimo la fa piombare in un denso imbarazzo.
Gli occhi di Pamela avvampano di rimprovero e traboccano di preoccupazione e rimpianto, come se il loro discorso non fosse semplicemente in sospeso, ma già concluso.
Ma questa non è una scelta, si ripete Harleen. Io non ho ancora scelto.
Quando scosta lo sguardo perché non riesce più a reggere il confronto, però, Harleen sente comunque il cuore lacerarsi e perdere un pezzo lungo la strada.
 
 
 
 
Got me lookin' so crazy right now,
your love's got me lookin' so crazy right now
Got me lookin' so crazy right now, 
your touch's got me lookin' so crazy right now
Got me hoping you page me right now, 
your kiss's got me hoping you save me right now
Lookin' so crazy your love's got me lookin' got me lookin' so crazy your love
 
(Beyonce, Crazy in Love)
 
 
 
 
 
Angolo dell'autrice:
Ecco il nuovo capitolo. È molto più lungo e molto più caotico degli altri, ma non ho voluto dividerlo in due perché altrimenti avrebbe perso quel non-so-che che lo rende così…appetibile (?). Quindi l'ho lasciato per intero!
 
Sinceramente, mi sono divertita da matti a scrivere questo capitolo – non che mi sia divertita nel malmenare Jack Ryder, intendiamoci – però l'ho trovato estremamente…liberatorio. Mi sono sfogata parecchio con questo capitolo.
Quindi spero che possa divertire/allietare anche voi.
 
Questo capitolo ho voluto dedicarlo soprattutto ai miei amati professori. Perché? Semplice semplice: io adoro Jervis, Edward, Bane e Mr Freeze. Li trovo dei personaggi interessantissimi e bellissimi.
Jervis, poi, lo adoro. Dico sul serio. Nonostante sia un nanetto dai seri disturbi mentali e con un'ossessione spaventosa per Alice nel Paese delle Meraviglie, io lo trovo tenerissimo. Da spupazzare. Poi, anche io ho la fissa per i cappelli e per il the, quindi… U.U
 
Per quanto riguarda Selina, invece, mi dispiace che in questo capitolo sia solo accennata. Ma volevo affrontare altri argomenti e introdurre nuovi elementi – come il rapporto tra Bruce e Talia e il povero Crane, che pure avrà un bel ruolo all'interno della storia ma che è stato praticamente dimenticato fino a ora. Inoltre avevo paura di mettere troppa carne al fuoco, quindi ho deciso di accantonarla, per questa volta.
Chiedo perdono. Non ricapiterà più (credo).
 

Spazio note: 

[1]: Lo so, lo so. Fare riferimenti all'Enigmista usando il giornalino dell'Enigmista è scontato e imbarazzante. Ma, ehi, lasciatemela passare dai. Mi fa troppo ridere l'idea di Edward alle prese con le parole crociate.
[2]: È una citazione presa pari pari dal film TDK di Nolan.
[3]: Il. Soprannome. Di. Mr Freeze. Anche qui, chiedo venia. Non sono mai stata brava con i nomignoli.

Per il resto, come al solito, grazie infinite a chi ha recensito lo scorso capitolo, a chi recensirà questo, a chi ha inserito la mia storia tra le seguite/preferite/ricordate e a tutti i lettori silenziosi.
 
Un abbraccio a tutti di cuore! :D
 
Stavolta, vi lascio con l'immagine coccolosa di un Jervis ancora più coccoloso.
Al prossimo capitolo!

Always_Always                                                                  
                                                                                                  
                                                            
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Capitolo 6
*** Breathe me ***


Capitolo n°6
Breathe me
 
 

 
Help, I have done it again
I have been here many times before
Hurt myself again today
And the worst part is there’s no-one else to blame

 
Be my friend
Hold me, wrap me up
Unfold me
I am small and needy
Warm me up
And breathe me
 
(Breathe me, Sia)
 

 
  
La pioggia scivola sulla finestra e disegna minuscole gocce trasparenti che si ramificano in flebili fruscelli verticali.
Il cielo è scuro, come se la notte fosse calata su Gotham City con largo anticipo; Vicki Vale aveva optato per un taxi ancora prima che il tempo peggiorasse.
È tanto stanca. Il quarto caffè che si è scolata a tempo di record non ha aiutato a tenerla attiva, nonostante la pila di compiti che deve finire di correggere per il giorno successivo; sente che se non trova in fretta un modo per restare sveglia, crollerà sulla cattedra di legno e tanti saluti al mondo.
Questo è l'effetto dello stress: una sonnolenza febbricitante che si trasforma spesso in raffreddore gocciolante e mal di testa spaventoso.
Il tutto accompagnato da un'insofferente sensazione di spossatezza. Che fortuna.
Con uno scatto secco, la porta dell'aula che ha occupato abusivamente si spalanca e lei sobbalza. Alcuni fogli cadono sul pavimento e lei trattiene un'imprecazione mentre si regge la testa con le mani regalando un'occhiata di fuoco all'ospite inatteso.
 
"Nashton! Non si bussa?"
"Non ho il tempo per le formalità," esclama il professore di matematica, digrignando i denti. "Come se non fosse già abbastanza assurdo relegarmi a messaggero. Non ci sono i bidelli per certe cose?"
 
Anche lui regge fra le mani una tazza di caffè fumante. Il profumo che si spande nell'aria è tanto invitante, anche se ormai Vicki dovrebbe essere sazia di caffeina. Ma quello è un suo piccolo difetto: adora il caffè. Comunque, ad osservarlo meglio, Vicki nota che la camicia sempre impeccabile di Edward ora ha il colletto stropicciato. Anche la cravatta è allentata. È una scoperta straordinaria.
Allora anche il maniaco dell'ordine a volte si lascia andare. Che cosa stavi facendo, Eddy? Enigmi sul water?
Non sa perché, ma quell'immagine le dà la forza per ridere.
 
"Hai bisogno di me, Edward?"
 
Ha parlato troppo presto. Il sorriso si smorza non appena Edward Nashton le rivolge un'occhiata in tralice come se avesse detto la peggiore eresia del mondo.
 
"Non io, ci mancherebbe. No, il Grande Capo vuole vederci. Credo stia cercando qualcuno cui accollare la colpa di quello che è successo."
Non c'è bisogno che spieghi a cosa si riferisca.
"Il ragazzo si è svegliato?"
 
Lui si sfila gli occhiali e scuote la testa in dissenso: "Coma farmacologico. Aspettano che il suo cervello dia segni di vita, ma è inutile: non c'è mai stata attività cerebrale in Jack Ryder, nemmeno quando era in forma."
Questa volta Vicki non riesce a ingoiare il rospo: "Quel ragazzo sta lottando tra la vita e la morte. Non dovresti scherzarci sopra."
"È la pura veridicità dei fatti. Hai mai avuto a che fare con Jack Ryder?"
 
Sì. Credo. Non lo so…
È tanto stanca. E quello che è accaduto non aiuta. Quello che ha visto, non aiuta.
Jack Ryder riverso a terra. Bruce Wayne con uno sguardo omicida. Le risate in sottofondo. Tutto quel sangue…
 
"Quanto tempo ho per prepararmi prima della tempesta?"
 
Ha avuto occasione di conoscere Jeremiah Arkham il primo giorno di scuola. Uomo elegante, brizzolato e dalla barba sempre fatta, le ha dato l'idea di un uomo che ottiene sempre quello che vuole e pretende il massimo in tutto ciò che fa. Non c'è da stupirsi che ora esiga delle spiegazioni per quanto è successo: ci scommette lo stipendio che sarà infuriato.
 
Inaspettatamente, il professor Nashton sorride. No, non è un sorriso. È un ghigno. Il ghigno complice di chi ha apprezzato la battuta. E di nuovo Vicki si sorprende.
Quindi ce l'hai il senso dell'umorismo sotto quell'aspetto da megalomane. Che scoperta interessante.
 
"Giusto il tempo di arrivare nel suo ufficio," risponde lui.
Vicki storce il naso: "Avrò bisogno di un altro caffè, allora."
"Sei la nuova arrivata. Un faccino mortificato e te la caverai."
 
Alza lo sguardo ma lui è già uscito quando lei realizza quello che è appena successo: erano parole di conforto, quelle? Un invito a mantenere la calma? Se sì, è sorprendente. L'incidente in mensa deve averlo scosso più di quanto sembra. Deve tenerlo a mente. Può darsi che l'abbia giudicato male e che il caro Edward Nashton in realtà non sia poi così bastardo e menefreghista come vuole apparire.
Sta a vedere che aveva ragione Jervis e nessun altro ha mai capito nulla.
 
Accantona in fretta quei pensieri, però: il profumo di caffè è scomparso con Eddy e l'astinenza da caffeina comincia a bruciare nella sua gola. Si alza dalla cattedra e si dà una sistemata prima di uscire dall'aula. Le sembra di ricordare che ci sia un distributore automatico, sulla strada che porta all'ufficio del preside. Bene. È un'ottima notizia.
 
 

 
∞∞∞



Bellissimo.
Steso sul lettino, ha gli occhi chiusi e la medesima espressione soddisfatta che gli ha visto quando l'infermiera l'ha costretta ad andarsene e aspettare fuori.
Ha l'impressione che stia dormendo, ma appena si avvicina ecco che Mr J apre gli occhi e le concede uno sguardo languido che però ha lo stesso sapore del ferro. Lei non cerca di interpretare quegli occhi: rischierebbe di finirci annegata e poi ora sono finalmente soli e lui sta guardando solo lei e tanto basta.
 
"Harley…"
Bellissimo.
Harleen fa un passo verso di lui: "Come ti senti?"
 
Mr J ha un grosso livido rossastro sulla guancia e una strada di lividi violacei lungo il collo. Ipotizzare quanti può averne sotto la maglietta la preoccupa più di quanto dovrebbe, ma poi le macchie scure che sporcano il tessuto della maglia la allontanano da quei pensieri e Harleen realizza.
Spaventoso.
È il sangue di Jack Ryder. Lo stesso Jack Ryder che conosce fin dal primo anno e che la diverte con scherzetti infantili come nascondere i libri a Rachel Dawes o infilare rane vive nel cassetto della cattedra. Lo stesso Jack Ryder che ha appeso per tutta la scuola volantini che ritraevano la faccia di Talia Al Ghul con barba e baffi. Lo stesso Jack Ryder che Mr J ha mandato all'ospedale.
Lo so che sei stato tu, anche se non ci sono prove. È colpa tua.
 
"Splendidamente ammaccato," ridacchia lui. "Brucey ha un ottimo gancio destro."
 
Deve lottare con le unghie e con i denti per non gettarsi su di lui e ripetersi mille e mille altre volte che Mr J – Joker – ha fatto del male a Jack Ryder. Non uno sconosciuto qualsiasi che ha tentato di aggredirla e nemmeno vittime senza volto di cui ha soltanto ipotizzato l'esistenza. Il suo compagno di classe. Quel Jack Ryder.
E questo è spaventoso.
 
"Vieni, Harley Quinn, sdraiati accanto a me."
 
La saliva le si secca in gola nonostante Harleen deglutisca marcatamente. Un sorriso genuino è tutto quello che le sta offrendo; una sfilza di denti bianchissimi e occhi così profondi da non vederne la fine. Una mano aperta col palmo verso l'alto che la invita a ricambiare il gesto e farsi più vicina – più vicina, per respirare il suo profumo e sfiorargli le spalle e baciargli le labbra.
Bellissimo.
Spaventoso.
 
"Perché… ?" articolare una frase di senso compiuto è più difficile di quanto immaginasse, ma Harleen non ha comunque il tempo per impegnarsi. Lui alza il sopracciglio e l'angolo della bocca in una smorfia di disappunto.
 
"La mia bambina non vuole accertarsi delle mie condizioni?"
 
Tua?
 
Harleen stringe i denti, i pugni e le spalle: "Stai meglio di Jack Ryder."
 
Non è la risposta giusta. Lo capisce quando lui inarca di nuovo il sopracciglio e volta lo sguardo verso l'alto, allontanando poi la mano per allacciarla dietro la testa.
 
Mr J sbuffa: "Peccato."
 
È tutto lì? Un invito rifiutato e un'insinuazione al vento? No, Harleen non può accontentarsi, non questa volta. Non si tratta solo di baci rubati o qualche livido da nascondere con sciarpe e colli alti. Stavolta c'è di mezzo Pam, un'amicizia costruita su mattoncini lego dell'asilo nido e consolidata con pianti e risate di tutta una vita.
 
Deglutisce quando ci prova di nuovo: "Perché hai fatto del male a Jack Ryder?"
 
Tua? Allora non mentirmi.
 
"Smaltimento rifiuti," ribatte Mr J. "Un giochino divertente."
"Fare del male alla gente lo trovi divertente?"
 
Mr J sembra pensarci seriamente perché corruga la fronte e increspa le labbra; Harleen conficca le unghie nei palmi per reprimere la voglia ardente che ha di accontentarlo. Di sdraiarsi vicino a lui. E poggiargli una mano sul petto e ascoltare il battito del suo cuore e bearsi del suo calore e…
 
La risata di Mr J frantuma ogni cosa: "Non saprei dire."
 
Potrebbe essere una menzogna. Lui potrebbe semplicemente fingere e prendersi gioco di lei – non lo conosce abbastanza da riuscire a leggere fra le righe delle sue risposte e anche per questo è così terrorizzata da quello che ha scatenato in lei. Eppure sa, in un anfratto inesplorato della sua anima, che lui sta dicendo la verità. E questo la fa scivolare di nuovo al punto di partenza, dove non può fidarsi di se stessa perché ogni cosa che riguarda lui le sembra giusta. Anche quando non lo è.
 
"E tu, piccolo Arlecchino?" Mr J si mette seduto e si volta nella sua direzione: "Trovi divertente fare sempre quello che t'impongono?"
 
Perché… non faccio altro… che pensare… a te?
 
"La vita non è fatta solo di divertimento," risponde lei, secca.
 
Lui ride, è meraviglioso - spaventoso. Spa…
 
"Sei un cosino così ingenuo, Harley! Perché non dovrebbe essere così?"
 
Tua?
 
"Il mondo è una barzelletta, tortina. Che vuoi fare se non ridere?"
 
Quando l'ha presa per mano? Quando l'ha attirata a sé? È troppo vicino. Harleen non sa come distrarsi: troppi pensieri, troppe emozioni. Deve andare via, prima di fare qualcosa di cui potrebbe pentirsi. Prima di permettere all'irrazionalità di prendere il sopravvento.
 
"Jack Ryder non è morto," confessa Harleen e si sorprende dell'indifferenza che sente nella sua stessa voce. Come se non le importasse – ma sa che non è così.
Giusto?
 
Quella rivelazione penetra nello sguardo di Mr J e si tramuta in amarezza. Sembra davvero irritato di non essere riuscito nel suo intento e ancora una volta l'ombra dell'indifferenza arpiona dolorosamente lo stomaco di Harleen. È meglio concentrarsi su Mr J, o cederà al crollo nervoso che si sta muovendo nelle sue viscere. Lui si è rilassato di nuovo come se avesse già dimenticato l'informazione ricevuta e la sta guardando dall'alto, l'espressione di chi ha trovato qualcosa d'interessante. Si passa la lingua lungo la cicatrice. Harleen ha la pelle d'oca e questa volta davvero smette di pensare.
 
"Sprechi il tuo tempo fingendo di essere qualcosa che non sei," la voce di Mr J è un sibilo profondo; la sua mano scivola sul fianco di Harleen, disegnando una scia bollente che le fa girare la testa.
 
"Ma io so quello che c'è dentro di te, Harley Quinn…"
 
Uno strattone deciso la costringe ad avvicinarsi ancora di più, ad appoggiare le mani sul suo petto e guardare soltanto i suoi occhi.
Ma cosa c'è in fondo ai tuoi occhi, Mr J?
 
"… non vorresti scoprirlo anche tu?"
 
Succede in quell'istante. Il filo che la teneva in equilibrio sulla china precaria del raziocinio si trancia di botto e lei precipita. È una caduta libera che la fa sentire rinata. Si getta sulla bocca di Mr J, famelica come non lo è mai stata. Lo sente ridere sulle sue labbra e gli regala un morso giusto per fargli capire che il modo che ha usato per avvicinarla a sé nonostante tutto è stato meschino e scorretto. Avrebbe dovuto immaginarlo, comunque: Mr J non sembra il tipo da accettare un rifiuto.
Lui raccoglie la provocazione e le rifila un bel pizzicotto sul sedere, ma a quel punto lei è in visibilio e non riesce più a ricordarsi come si chiama.
Tua. Tua, tua, per sempre tua. 
 
La presa di Mr J è dura e sfrontata e suggerisce ad Harley che da domani dovrà stare attenta a mostrare i polsi e le braccia. Ma quel piccolo barlume di razionalità svanisce in fretta; un altro bacio di Mr J, possessivo, violento, e lei si chiede come possa tutto quel dolore farle così bene. Tanto che vorrebbe continuasse in eterno.
 
"Ehm Ehm."
 
La magia si dissolve. Sull'uscio della porta, l'infermiera li sta guardando con un'occhiata sconcertata e per un attimo Harley sta per urlarle che non c'è bisogno di fare tante storie per un piccolo bacio e che farebbe un gran favore a tutti se tornasse da dove è venuta. Ma poi il respiro si placa e viene presto sostituito da un velo rosso di vergogna quando realizza di essere a cavalcioni sul letto senza nemmeno sapere il perché.
E Mr J, sotto di lei, ride di gusto e sembra apprezzare il nuovo colorito.
Questa me la paghi… Pasticcino.
 
"La scuola sta chiudendo, ragazzi. E sembra che siate entrambi… in buone condizioni. Quindi potreste, ecco… andarvene?"
 
Accidenti.
 

 
 
∞∞∞


 
Il temporale imperversa per le strade di Gotham City, ma anche la pioggia che cresce e si fa pungente non basta a lavare via lo sporco incastonato fra le sue ossa.
Bruce Wayne è scappato da Villa Wayne non appena Alfred l'ha lasciato in camera sua. Ultimamente, lo fa spesso. Aspetta che Alfred poggi sul tavolo il vassoio d'argento che profuma di pietanze sempre nuove e ricercate, e quando la porta si richiude alle sue spalle, spalanca la finestra e comincia a correre. Sotto lo sguardo vigile della notte, si prende un attimo di libertà per fuggire lontano.
 
"Pare che anche tuo padre si fosse preso una giornata libera e quando l'ha fatto non gli è andata molto bene…"
 
Quasi inciampa nel tugurio di cartone di un barbone. Lo sente imprecare qualcosa a denti stretti, ma lo supera troppo in fretta per riuscire ad afferrare le sue parole. E comunque, la baraonda di voci che frullano nella sua testa è troppo forte e sovrasta ogni cosa: sono la sua rabbia e il suo dolore, nenie affilate che fanno a pezzi il suo cuore con affondi spietati. Continua a correre, cercando di fuggire da se stesso e da quella voce squillante che continua a canzonarlo anche ora. Se si concentra può ancora vedere il volto di quel bastardo e il sorriso da schiaffi che aveva stampato addosso.
Spero che quelle cicatrici gli facciano un male cane. 
La pioggia batte sulla sua figura ormai zuppa ma questo non lo frena: non deve fermarsi, non può; deve proseguire fino a quando non sanguineranno i piedi; fino a quando sarà così stremato da non riuscire più a pensare. Così, finalmente, non potrà più dar retta all'ira, alla disperazione e all'amarezza.
Al rimorso.
 
È abituato ai rumori notturni di Gotham City. Immergersi anima e corpo nel putridume della sua città, lasciare che l'oscurità opprima i suoi pensieri, è qualcosa di catartico. Un processo perverso e liberatorio, come se donarsi all'ombra corrotta di Gotham gli concedesse l'opportunità di abbandonare il suo ruolo da principe e sentirsi normale. Un peccatore in mezzo a tanti altri.
Un assassino in mezzo a tanti altri. 
È in momenti come questi che si convince di essere il perfetto figlio di Gotham: nero e colpevole come le sue viscere.
 
Si è fermato, contro il suo volere. Si è reso conto del luogo in cui è finito e vorrebbe avere la forza per voltarsi indietro e ricominciare a scappare. Ma, come ogni volta… il grumo marcio che pesa sul cuore è più gravoso di quanto possa sopportare.
Non c'è mai nessuno in quel vicolo quando cala la sera. L'ha notato dopo le prime visite. Probabilmente è una regola non scritta dei criminali, una sorta di muto rispetto: 'Vietato sostare nel luogo sacro dove sono morti Thomas e Martha Wayne'. Già si immagina i pettegolezzi dei passanti.
Non c'era anche un figlio con loro, quella tragica notte? Sì, quello che è sopravvissuto alla tragedia… povero piccolo… Cosa? È stato lui a insistere per passare di qua? Sciocco, sciocco ragazzo. Avrebbe dovuto saperlo. Avrebbe dovuto prevederlo. È come se avesse premuto lui stesso il grilletto.
 
Voci immaginarie; forse sta definitivamente diventando pazzo - Alfred potrebbe avere qualcosa da ridire a riguardo.
Come se avesse sentito i suoi pensieri, il telefono nella tasca della felpa squilla e appena lo afferra legge sul display il nome del suo tutor. È l'ultima chiamata di molte. Per tutta risposta, Bruce infila nuovamente il telefono nella tasca e lo ignora categoricamente: Alfred se ne farà una ragione. È consapevole che le sue scappatelle notturne non siano passate inosservate, ma se Alfred non ha ancora affrontato l'argomento vuol dire che ha silenziosamente accettato come stanno le cose.
A volte Bruce si chiede come sarebbe la sua vita se Alfred fosse un maggiordomo invadente e puntiglioso, ma i brividi che arrivano puntualmente lungo la schiena gli impediscono di rispondersi.
Alfred è Alfred e va bene così.
 
Chiude gli occhi e si concede un profondo respiro – smog e marciume che riempiono i polmoni e hanno il sapore dolciastro di una medicina avariata.
 
"… Sapevo di trovarti qui…"
 
È una voce femminile e no, questa volta Bruce non se l'è immaginata. Anche se l'ha fatto diverse volte nei suoi sogni.
Voltarsi e risponderle, ecco quello che dovrebbe fare. Domandare cosa ci faccia lì e perché. Ma la strada è vuota e lui si trova nella stessa posizione di allora, quando quel rapinatore ha premuto il grilletto e i suoi genitori sono…
Riesce a vederli anche ora, stesi ai suoi piedi, immersi in una grande pozza scura.
 
"Bruce… ?"
 
La sente avanzare di un passo e improvvisamente si ricorda come sia riuscita a trovarlo. È ovvio, a pensarci. Gliel'ha detto lui: 'Vado da loro, a volte. Per sentirli vicini'. Cosa stavano facendo nel frattempo? Non ha importanza. Lei ha sempre saputo ascoltare.
 
Lei tentenna qualche istante: "Ho sentito dell'incidente in mensa…"
 
Incidente…
"Arrabbiato, Brucey? Non dovresti. O forse sì."
 
No, quello non era un incidente, ma un piano ben premeditato per colpire e affondare, senza altri fini e lui ha abboccato in pieno. Che stupido. Le risate e le insinuazioni, tutto parte di un piano malato che avrebbe dovuto smascherare. E invece l'ha capito dopo, soltanto dopo, quando, per farlo calmare, Alfred l'ha abbracciato talmente forte da farlo quasi soffocare. Stupido… lasciarsi fregare in quel modo… lasciarsi…
"Sono sensi di colpa, quelli?"
 
Lo sguardo di Bruce è marmoreo quando si volta:ç "Avevi ragione, sai?" dice, il sarcasmo pungente dell'autocommiserazione.
Lei non cede lo sguardo: "Su che cosa?"
"Lo sai su cosa."
 
"Anche se, a dirla tutta, ho sentito che sei stato tu a voler uscire da quel bel teatro. Quindi in verità quello poco furbo sei…"
 
Selina ha la giacca slacciata, è fradicia e ha qualche capello fuori posto: i risultati della sua corsa trafelata. Ha lo stesso sguardo morbido che Bruce custodisce nei suoi ricordi, occhi di miele che si sciolgono a colpi di baci, nettamente in contrasto con quelli affilati che caratterizzano la sua figura fuori dallo sgabuzzino dell'Arkham High School.
In effetti, trovarsela davanti senza insolenza nella voce e pronta a sostenerlo, è surreale.
 
Lei scuote la testa: "Non è stata colpa tua."
"Risparmiami la finta compassione, Selina."
"No, Bruce, niente scherzi, non stavolta. Voglio assicurarmi che tu stia bene."
 
"Arrabbiato, Brucey? Non dovresti. O forse sì."
 
Bruce alza le spalle, il volto perso in pensieri che Selina non riesce ad afferrare: "Niente di rotto."
"Non è quello che intendevo."
 
Oh, Bruce ne è consapevole. Nonostante i suoi sforzi, Selina ha la fastidiosa capacità di raggiungerlo, superare la barriera che ha eretto tra lui e gli altri e sfiorargli il cuore con le dita affusolate; per questo sarebbe stupido da parte sua continuare a fingere. Il problema è che non sa se fidarsi di lei: le sue dita potrebbero trasformarsi in artigli e trafiggerlo da un momento all'altro e questo lui non può permetterselo: è già rimasto scottato una volta. I segni di quella delusione sono ancora marchiati a fuoco sul suo cuore.
"Arrabbiato, Brucey?"
 
"Che te ne importa?" ribatte, scuro in viso.
 
Selina lascia in sospeso la domanda per qualche secondo prima di rispondere, in un silenzio pesante che schiaccia entrambi.
 
"Bruce…" voce calda, profonda, sincera "… permettimi di aiutarti…"
 
Permettimi di aiutarti, Bruce. Sfogati con me, Bruce. Non fare il furbo, Bruce.
"Più furbo di tuo padre…"
 
Il dolore alle ginocchia quando si lascia cadere sull'asfalto lo sente appena. Selina è subito accanto a lui, lo stringe da dietro, lo arpiona con le braccia minute e non lo lascia andare, nemmeno quando Bruce comincia a tremare e lacrime di rabbia e amarezza scivolano sulle sue guance in un pianto silenzioso. Si mischiano con la pioggia.
 
"Va tutto bene."
 
I capelli di Selina profumano di pulito anche se sono bagnati, la sua guancia è tiepida e asciuga via le lacrime. L'abbraccio in cui l'ha intrappolato è brutale, non lascia scampo, non annulla il dolore ma lo enfatizza, come se Selina conoscesse alla perfezione tutti i sentimenti discrepanti che affliggono Bruce e lo lasciano attonito, frustrato, furioso.
È una stretta consapevole – perché Selina sa, senza bisogno di parlare – che piano piano infonde nel petto di Bruce un calore apatico e insensibile, che attutisce il tormento e assume il sapore di un'anestesia.
Un'anestesia al dolore.
 
"Sistemeremo tutto, Bruce…" soffia Selina al suo orecchio e poco importa aver compreso anche se stessa in questa muta promessa; entrambi se ne accorgeranno soltanto dopo, quando saranno lontani l'un l'altro e potranno ragionare lucidamente su quanto successo.
 
Ora restano semplicemente abbracciati in questo vicolo deserto, la pioggia una cornice umida che li isola dal mondo.
 
"Tutto quanto."
 
 

 
∞∞∞


 
Il segreto è non guardarlo negli occhi, non dargli l'infondata sensazione di prendersi gioco di lui. Forse, se si dimostrerà remissivo, Jeremiah Arkham allenterà la presa e rilasserà la vena pericolosamente ingrossata che ha sul collo.
 
"Maledizione!"

Oh… forse no.
 
"Questa è una catastrofe!"
 
Catastrofe. Come quando finisce il the ed è troppo tardi per comprarne altro. Sì, può comprendere come debba sentirsi ora il preside Arkham: finire il the è una terribile sciagura.
 
"Vi rendete conto di quello che rischiamo? Avremo tutti alle costole: polizia, giornalisti! Ci sbraneranno vivi e vorranno sapere come sia potuto accadere!"
 
La pianta che c'è nell'angolo dell'ufficio è ingiallita sulla punta delle foglie; si vede che non è stata curata a dovere. Harold dovrebbe stare più attento a certe cose o finirà per far infuriare il preside – e non sarebbe saggio, viste le reazioni. Ma anche queste considerazioni dopo un po' lo annoiano e per cercare di distrarsi getta un'occhiata fuori dalla finestra: piove ancora a dirotto e lui non ha l'ombrello. Comunque, preferirebbe di gran lunga essere là fuori sotto l'acqua che qui dentro, nel bel mezzo dell'uragano. Non sopporta le discussioni tanto violente.
 
"Siamo intervenuti appena abbiamo potuto," questo è Bane, con il suo accento spagnolo e la sua voce grossa. Il preside Arkham non si è mai lasciato intimidire dal suo tono cavernoso.
 
"E allora come diavolo ha fatto un nostro studente a finire in ospedale con una dannata forchetta conficcata nel lobo frontale!?"
 
Ouch. Una forchetta, dice? Molto, molto sgarbato. I gentiluomini non fanno questo genere di cose. Per fortuna, lui non era lì per assistere all'orribile scena: non l'ha mai sopportata, la vista del sangue. Eddy dice che è come l'acqua, solo più denso e di colore rosso. Probabilmente è vero: Eddy dice sempre la verità.
 
"Quando li abbiamo fermati, Jack Ryder era già a terra," anche Victor ha un tono tagliente, anche se non è paragonabile a quello del preside.
"Mi state dicendo che oltre a non aver impedito questo disastro, non avete nemmeno idea di chi sia stato?!"
 
Ci vorrebbe un calmante. Una bella tazza di the per acquietare gli spiriti. Ma non quello che c'è nei distributori automatici, che brucia la gola e finisce subito; il suo the. Quello speciale.
 
"Forse Bruce Wayne."
 
Oh, Eddy si è deciso a parlare, finalmente! Niente di meglio di un uomo del suo acume per risolvere al più presto la faccenda.
Però… Bruce Wayne? Ne sei proprio sicuro?
 
"Wayne è un ragazzo tanto a modo…" sussurra infatti Jervis tra sé, dando voce ai suoi pensieri. Eddy lo ignora, se pure l'ha sentito. Non importa, conosce bene il suo amico: si mostra duro e aggressivo, ma in realtà è tenero come un biscotto inzuppato nel the!
 
Jeremiah Arkham sembra quasi disperato quando scocca un'occhiata in tralice a Eddy: "Nashton, non dirmi che il nostro unico capro espiatorio è il principino di Gotham."
"È la nostra migliore ipotesi: Bane ha confermato che fosse fuori di testa quando l'ha fermato."
Arkham diventa rosso rosso. Dovrebbe tenere controllata la pressione: "Non possiamo puntare il dito contro l'unico superstite della famiglia più amata della città e aspettarci di passarla liscia se sbagliamo accusa."
 
Eddy mugugna qualcosa che solo Jervis riesce a captare. Non ha afferrato le sue parole, ma non ne ha bisogno: in situazioni come queste, con quel ghigno tirato e quell'espressione di superiorità, Eddy può aver detto soltanto una cosa: "Prima l'apparenza e poi la sostanza". Jervis non sa perché, ma Eddy è sempre stato divertito da questa considerazione. La ripete stesso, quando le cose vanno male. Dice che è il motto dell'Arkham High School e che Jeremiah Arkham lo usa come mantra.
Jervis non ha capito bene cosa intenda, ma non se ne fa certo un cruccio.
 
"C'è anche quell'altro ragazzo…" Alice è timida, ma la sua voce cristallina si fa sentire. Bella, bellissima Alice. "Quello con le cicatrici sul viso…"
Arkham alza un sopracciglio – che aria buffa! "… Cicatrici?"
"È all'ultimo anno," spiega velocemente Victor, "Jason… Napier? Non ne sono sicuro."
 
"Leland," il tono lapidario con cui il preside si rivolge alla sua segretaria lascia Jervis attonito, "controlla."
"Subito, signore."
"Potrebbe essere quello di cui abbiamo bisogno."
 
Alice ha i capelli legati. Non gli piacciono a quel modo. Dovrebbe farle presente che è molto più carina ed elegante quando le ricadono sulle spalle.
Un tuono fa tremare i vetri dell'ufficio e Jervis sobbalza. Dannati temporali. Rovinano sempre i suoi meravigliosi cappelli.
 
"Trovato," esclama Joan Leland davanti al monitor. Non gli è mai andata a genio, la segretaria: sempre impegnata a capofitto nel lavoro, senza mai uno sfogo, un hobby. Che donna di poca classe.
 
"Jack, Jack Napier[1]. Diciassette anni, ultimo anno. Vive con la madre."
 
"Mai sentito," commenta Jeremiah Arkham. Jervis nota che non è più infervorato come prima e che ha una luce diversa nello sguardo; pare rilassato. È chiaro che la sua mente abbia già elaborato uno stratagemma per uscire da quella situazione difficile. È molto furbo, quasi quanto Eddy.
 
"Ora," continua. La sua voce è cupa di nuovo e sta osservando uno a uno i suoi insegnanti – Jervis è sempre un po' titubante, quando lo fa.
 
"Mi aspetto che troviate una soluzione a questa storia. Io terrò a bada la polizia e cercherò di evitare una denuncia della famiglia Ryder. Ma se non troverete un modo per sistemare la faccenda, giuro che vi trasferirò nell'ultimo buco del mondo e rimpiangerete di essere diventati insegnanti!"
 
 

 
∞∞∞


 
Volteggiare sopra Gotham City appesa per una corda a testa in giù, con le vertigini allo stomaco e la sensazione di precipitare da un momento all'altro che le toglie il respiro.
No, non è abbastanza.
 
"Guarda Mr J, guarda che meraviglia!" Harley indica la pioggia che scivolando a cascata sull'ombrello teso crea uno specchio d'acqua che riflette le mille luci di Gotham.
 
Mr J si limita a stringere la presa attorno alla sua mano e continua a camminare. Le ha permesso di poggiare la testa sulla sua spalla, però; Harley non è ancora riuscita a calmare il battito del suo cuore, per questa piccola vittoria.
 
Correre sull'orlo di un precipizio con Gotham sotto di lei e il vento impetuoso che la spinge inevitabilmente giù nel burrone, ma che la fa anche sentire euforica.
No, non è ancora abbastanza.
 
"Qui vicino c'è il vicolo del nostro primo incontro. Te lo ricordi, Mr J? Ti ricordi come mi hai salvata?"
Come mi hai conquistata?
"Il più grosso errore della mia vita," ribatte lui prima di scoppiare a ridere. E Harley ride insieme a lui, sghignazza fino a quando le fanno male gli occhi e continua a farlo un poco anche dopo, perché è così bello vederlo illuminarsi in quella risata, vederlo mentire e smascherarlo immediatamente per il mondo in cui la stringe, la cerca, la ama.
Sì, lo so che è così.
 
È come se fosse nata per questo momento, per incontrare lui. La sua intera vita era una preparazione a questo istante. È tutto così chiaro ora che le viene da chiedersi dove sia stata fino a quel momento, cosa abbia vissuto. Non ricorda nemmeno perché fosse così titubante, poco fa, in infermeria – era l'infermeria? Né perché abbia anche solo pensato di stare lontana da lui: dove può stare, se non tra le sue braccia? È così folle. Così bello.
Sei tu, Pasticcino. È tutto merito tuo.
 
"Harley, lasciami respirare."
Respira su di me, Pasticcino. Respira me.
 
Un lampo illumina la sera e il rombo del tuono squarcia l'aria rimbalzando fra le gocce di pioggia. È un'atmosfera altisonante che le ricorda il loro primo bacio, sull'uscio di casa, schiacciati contro la colonna e bagnati fradici. Quanto era romantico. Sarebbe splendido se Mr J ora l'accompagnasse fino al suo vialetto, con quelle banalissime recinzioni bianche che Harley odia tanto. Ora che ci fa caso, non sono molto lontani. Già s'immagina il loro arrivo: lo porterebbe di nuovo vicino alla colonna, si schiaccerebbe ancora a lui e pretenderebbe un altro bacio famelico, una buonanotte bagnata. Poi, un po' titubante ma con la lussuria negli occhi, gli chiederebbe di seguirla dentro e poi…
 
"Ehi!" Quasi squittisce quando Mr J si scansa dal suo tocco e comincia a camminare nella direzione opposta. "Dove vai?"
Casa mia è da questa parte e senza te fa un freddo cane.
 
"Non sono affari tuoi, Tortino di zucca," risponde Mr J. La sua voce è graffiata, le sembra irritato. Sarebbe il momento perfetto per domandarsi come mai non sia ancora in grado di comprendere appieno i suoi stati d'animo e i suoi continui sbalzi d'umore, ma vederlo allontanarsi ha infranto i suoi sogni ad occhi aperti, lasciandola basita e amareggiata.
 
"Credevo mi avresti accompagnata a casa," sottolinea senza nascondere il fastidio che le punge la lingua.
Mr J si blocca. L'acqua precipita sui suoi capelli, sulle spalle e sulla schiena disegnando nell'aria una sagoma trasparente.
Volta appena il capo per guardarla in faccia: "Che cosa sembro, il tuo cane da guardia?"
"Certo che no," risponde lei dopo qualche secondo, registrando il suo tono indispettito, "è solo che pensavo—"
"Che cosa? Che sarei diventato il tuo bel principe azzurro e che avremmo cavalcato su un bianco destriero verso l'orizzonte?"
 
Non proprio. Cavalcato, certo, ma non su un bianco destriero.
 
Mr J sembra leggerle nella mente, perché la osserva con quegli occhi inquisitori e poi scoppia a ridere. Forte e sguaiato. Una risata svilente che non è affatto piacevole e che Harley non sopporta. Deve assolutamente trovare un argomento per allontanarsi dall'imbarazzo e dallo scherno. Un argomento che possa rigirarsi a suo favore.
 
"Non assomigli a un principe azzurro, Pasticcino. Piuttosto a un clown dalla faccia bianca."
E vediamo se adesso mi dici perché vai in giro travestito da pagliaccio della morte.
 
Le sue insinuazioni spengono le risate di Mr J e ne accendono lo sguardo. Non sembra arrabbiato, non proprio, e questo la fa ben sperare di ricevere qualche risposta. Anche se avrebbe preferito di gran lunga finire questa conversazione in un altro luogo. In un altro modo.
 
"Le armature scintillanti non mi donano per niente, Harley."
"E i coltelli insanguinati sì?"
"Un uomo di spettacolo usa sempre i suoi attrezzi migliori."
"Non credo che Jack Ryder abbia apprezzato lo sketch, Mr J."
"È stato troppo rapido. Con te m'impegnerei di più."
"Mi diresti la storia di quelle cicatrici, poi?"
 
Mr J non risponde subito. Si prende del tempo per impiantare lo sguardo in quello di lei: "Odio raccontare aneddoti noiosi."
Harley deglutisce: "Non sono sicura lo troverei noioso."
"Non ti fidi di me?" voce canzonaria e provocatoria, ma lei è decisa a non perdere terreno.
"E tu ti fidi di me?"
 
Eccolo, lo zampillo d'irritazione che scivola nei suo occhi verdi. Esattamente quello che Harley stava cercando.
 
"Sei una ragazza insolente, Harleen."
 
È fastidioso sentirgli pronunciare il suo nome per intero, ma Harley non protesta perché sa che lo sta facendo di proposito e non vuole cadere nella sua trappola, non ora che lo sta portando dove vuole lei, dove ci sono risposte. Solo che non sa quanto può osare prima di rovinare tutto — qual è il limite massimo della sua pazienza? Ci sarà un indicatore della sua esasperazione? Un tic nervoso, un movimento mal controllato, una smorfia innaturale? Non lo sa, ma per ora ha deciso che vale la pena rischiare, quindi si fa forza e balla col diavolo.
 
"Voglio solo… conoscerti. Capirti."
Sono innamorata di te, ho perso la testa per te, farei di tutto per te. È troppo chiedere qualcosa in cambio? Un pezzetto di te che conosco soltanto io?
 
Ma Mr J ridacchia e lei sente che l'ha perso di nuovo. Che era vicina, vicinissima, ad afferrare qualcosa di lui oltre la sua maschera, ma non c'è riuscita. Non importa, comunque. Lei è una ragazza paziente ed è disposta ad aspettare.
Per te, sono disposta a tutto.
 
"Che cosa sei, Harley, la mia analista?" chiede Mr J, avvicinandosi di un passo e leccandosi la cicatrice. "Devo sdraiarmi su un lettino e rivelarti i miei più oscuri segreti?"
Sì. Sdraiati su un letto. Al resto ci penso io.
"O forse," continua lui, suadente, "sei in cerca di confessioni perché sei tu che hai qualcosa da confessare?"
 
Con uno strattone la attira a sé, bloccandole il polso con la mano. L'ombrello protegge di nuovo entrambi, anche se alcune gocce di pioggia scivolano dal viso di Mr J e finiscono su di lei. Sono così vicini da potersi sfiorare il naso, ma a Mr J non sembra importare.
 
"Sai, Harley," allunga la 'a', si riempie la bocca, "tu hai qualcosa che non va."
Le lascia un polso per indicarsi la fronte: "Qui dentro. Altrimenti perché continuare a starmi dietro? Perché venire da me per farti maltrattare?"
 
Harley deglutisce di nuovo e si limita a guardarlo. Incredibile come lui riesca a centrare il punto della questione senza nemmeno impegnarsi; deve essere una sua dote naturale. Perché, vuole sapere. Perché, continua a chiedere. Ma lei non può dirlo, non ad alta voce. Lo renderebbe reale e non può permetterselo. Non ancora.
 
"Non ho niente che non vada, Pasticcino."
"Nemmeno io, Zuccherino."
"Avrei qualcosa da ridire, a riguardo."
 
Una risata. È piuttosto scontato, ormai. Ma Harley si sorprende di trovarlo sempre bellissimo, anche quando la fa irritare.
 
"Potresti scoprire che non siamo poi così diversi, io e te."
"Io non uso forchette come armi contundenti."
"Lo troveresti divertente."
"Io non uccido la gente."
"Ma ti piacerebbe?"
 
Harley spalanca gli occhi. Mr J ha chinato la testa di lato e la osserva con l'innocenza di un bambino, come se avesse fatto una domanda banale sul tempo atmosferico.
"Ma ti piacerebbe?"
Deve andarsene, sente il bisogno di allontanarsi dalle sue domande spiazzanti, ma appena prova a scostarsi la presa di Mr J si fa più forte.
 
"Ah ah, Harley. Non si bara. Al gioco delle confidenze si resta fino alla fine. E non guardarmi così: hai cominciato tu."
"Non ho niente da confessare."
Lui scuote la testa: "Tutti hanno qualcosa da confessare. Solo che tu non sei ancora pronta."
 
C'è una dolcezza inusuale nelle sue ultime parole, come se Mr J sapesse qualcosa che Harley invece ignora e si divertisse a guidarla piano piano nella direzione giusta. Come un maestro attento.
E Harley ancora una volta cade in balia di sentimenti contrastanti ai quali non riesce a dare una voce; vorrebbe scappare dalle sue insinuazioni e allo stesso tempo vorrebbe che Mr J la stringesse di più e continuasse a condurla nel suo mondo.
 
Invece lui le concede un buffetto sulla guancia e poi la lascia andare.
"La prossima volta, bambolina," la sua voce è carezzevole, "te lo prometto."
Si volta verso l'oscurità e comincia a camminare tra la pioggia, lasciandola da sola sotto l'ombrello.
Resta ad osservarlo senza sapere il perché, con l'assoluta sicurezza di conoscere le sue intenzioni.
Ucciderai anche stanotte, Mr J, non è vero? Ne sono certa. Ma perché non ho la forza per fermarti?
All'improvviso, un'immagine si staglia nella mente di Harleen.
 
Ballare sul filo di un coltello che volteggia su Gotham City arsa dalle fiamme, con nastri di raso sanguigno che le avvolgono i polsi e le fanno da cavaliere al ritmo di una risata al tempo stesso malsana e liberatoria, che le annebbia la mente ma la fa sentire viva. Viva come non lo è mai stata.
Ecco, pensa, imboccando la strada di casa, questo è abbastanza. 
Questo sei tu.
 
 
 

Ouch, I have lost myself again 
Lost myself and I am nowhere to be found 
I think that I might break 
Lost myself again and I feel unsafe 


Be my friend
Hold me, wrap me up
Unfold me
I am small and needy
Warm me up
And breathe me
 
(Breathe me, Sia)




Angolo dell'autrice:
Sono in ritardo. Mi scuso davvero tanto. Sono stata in vacanza e semplicemente il mare e il sole mi hanno rapita. Aggiorno con questo capitolo, sperando di farmi perdonare.

Allora, cosa dire? Credo che il Joker di questo capitolo sia più Nolaniano che altro, però mi piaceva così, quindi non ho modificato nulla. Ovviamente, come al solito, fatemi sapere cosa ne pensate.
Per la nota: 
[1]: Jack Napier. Non l'ho inventato io. È preso dal film di Burton, dove Jack Nicholson interpreta un Joker reso magnificamente che, prima di diventare il clown prince of crime, si chiama appunto Jack Napier.
 
Riguardo il resto, mancano i trafiletti di Harvey e Rachel. Lo so. Ma Bruce e Harley hanno preso più spazio di quanto avessi preventivato, quindi alla fine ho dovuto tagliare da qualche parte. Comunque, nel prossimo capitolo ci saranno. 
A proposito di Bruce, forse risulterà un po' troppo sentimentale. Ma io me l'ero immaginata così quella scena... quindi bo, fatemi sapere.

Volevo ringraziare tutte le bellissime persone che hanno commentato i capitoli precedenti, tutti quelli che hanno messo la mia storia tra le seguite / preferite / ricordate e a tutti i lettori silenziosi!
Grazie infinite, soprattutto per la pazienza! <3

P.S: Visto che oggi sono in vena Nolaniana, ecco un'immagine Nolaniana!

Al prossimo capitolo!

Always_Always


                                                                          Image and video hosting by TinyPic

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Capitolo 7
*** I started a Joke ***


Capitolo n°7
"I started a Joke"
 
 
I started a joke
Which started the whole world crying
But I didn't see
That the joke was on me
 
I looked at the skies
Running my hands over my eyes
And I fell out of bed
Hurting my head
From things I'd said
 
If I'd only see
That the joke was on me
 
 
(I started a Joke, BeeGees)
 
 
 
 
A Gotham City la privacy è un lusso per pochi eletti.
I pettegolezzi serpeggiano per le strade, insinuandosi nelle orecchie e tra la lingua delle persone. Chi è stato doveperché ha fatto cosa e quando ecome è successo il fatto. Ama parlare, Gotham City, deridere i suoi abitanti e intrecciare i fili del loro destino come una giocattolaia esperta e carogna.
E, da prole esemplare, l'Arkham High School non è da meno.
Selina Kyle riflette su questa verità mentre armeggia con l'armadietto dello spogliatoio femminile.
 
All'Arkham High School, la gente ama le chiacchiere. 
 
Un dato di fatto immutabile, come il cielo azzurro o la terra rotonda. Uno dei dieci comandamenti che vigono nell'istituto.
Numero uno: sparlare sempre del prossimo.
 
Jack Ryder ne è l'esempio perfetto: una settimana piena di pettegolezzi sfrenati. Poi, calmate le acque, anche quella novità è diventata preistoria.
Dimentica in fretta, Gotham City. Le brutte faccende sono abitudini che non fanno più notizia.
Selina infila la maglia nera aderente e le viene da ridere per tutta questa ipocrisia.
 
"Domani sera, dici?" mormora una ragazza dietro di lei. Confabula con la compagna e si porta la mano alla bocca, gli occhi guardinghi di chi sta rivelando un segreto. L'amica ne condivide lo sguardo, scocca un'occhiata a Selina e ruota improvvisamente la testa dall'altro lato, come se nulla fosse, provocandole il secondo moto d'ilarità.
Numero due: fingere di non sparlare di nessuno.
 
Gli studenti dell'Arkham High School sono così prevedibili che Selina a volte si chiede come possano reggersi sulle loro gambe in una città letale come Gotham City. Poi si ricorda che non le interessa. L'unica cosa che conta è il suo guadagno e fintanto che le sue tasche sono piene, gli studenti di questa maledetta scuola possono anche aggirarsi per le strade con il paraocchi. Perché è un altro il comandamento che le sta più a cuore.
 
Numero tre: per le informazioni, chiedere a Selina Kyle. Lei sa sempre tutto.
Ghigna di nuovo.
Al giusto prezzo.
 
È una bella giornata. Ricordarsi della sua fitta rette di informazioni e guadagni le risolleva sempre l'umore.
Richiude lo sportello e soltanto quando raggiunge le compagne di corso fuori dallo spogliatoio nota il volto indurito del professor Bane - indurito più del solito.
 
"Sparite dalla mia vista!" sta sbraitando e il collo è diventato il doppio del normale.
Selina è certa di non averlo mai visto adottare un tono tranquillo, ma probabilmente lui non se n'è mai reso conto.
Le fa tenerezza, in un certo senso.
 
"E sarà meglio che la prossima settimana siate più concentrate, o saranno guai!"
 
Accanto a lei, alcune studentesse rabbrividiscono. Ancora una volta: prevedibile. Selina mantiene la testa alta e le spalle dritte, alzando gli occhi al cielo e lanciando un'occhiata distratta al suo insegnante.
Non è impressionata o preoccupata: il professor Bane non si permetterebbe mai di aggredire una delle sue pupille. Una delle poche che sa la differenza tra due linee parallele e le sue, di parallele. Per questo ha le spalle coperte. Avere un fisico atletico e un buon coordinamento aiuta, in questi frangenti.
Senza contare che stamattina Harleen Quinzel non sembra essere nella sua forma migliore, quindi accaparrarsi il titolo di atleta della settimana è stato un giochetto da ragazzi.
 
La campanella suona e questo basta alle sue compagne per defilarsi in fretta e furia. Lei sta per addentare un chewing gum quando l'accento spagnolo del suo professore la fa tornare indietro.
 
"Cosa posso fare per lei?" domanda Selina, il sorrisetto accondiscendente che le fa sempre scampare le punizioni del professor Nashton.
Gli occhi del suo insegnante di ginnastica sono arrabbiati e confusi: "Dimmi un po', Kyle: che diavolo sta succedendo, qui?"
 
E a quel punto Selina non può fare a meno di ridere davvero. Un risolino che sfugge dalle sue labbra ma che deve soffocare in fretta per invertire le sopracciglia pericolosamente inarcate del suo professore. Un risolino divertente che abbraccia un pensiero ancora più divertente.
Tutti sanno che, se c'è qualcosa che vuoi sapere, Selina Kyle è la persona adatta a te.
 
Non chiederà un compenso al professor Bane: la giornata è partita così bene che ha deciso di regalargli quell'informazione. Un omaggio della casa.
Solo per questa volta.
 
"Beh, vede, professore…" risponde; ha il tono appagato di una gatta in calore.
Schiocca la lingua, s'inumidisce le labbra: "Si tratta di Talia Al Ghul".
 
 
 
∞∞∞


 
"Rachel—"
"No."
 
«Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino…» - Dio, quant'è romantico!
 
"Rachel…"
"Ho detto di no."
 
«… né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede…»
 
"Rachel, non farti pregare."
 
Rachel Dawes alza appena gli occhi dal libro e si ferma in mezzo al corridoio, concedendo a Harvey un'occhiata fra l'annoiato e l'irritato. Ma lui ricambia quello sguardo con uno ricolmo di aspettativa e dolcezza e lei alla fine ne è sopraffatta.
 
"Harvey… non puoi davvero chiedermelo."
"Lo so," risponde lui, "non è facile per te. Ma—"
"Talia Al Ghul è una bastarda senza cuore che si diverte a tormentarmi fin dal primo anno, quindi scordatelo. Preferisco occupare il mio tempo con un'attività che non comprenda lei e il suo infinito narcisismo."
 
Neanche nota Harvey sbuffare perché fionda nuovamente il naso tra le pagine e riprende la sua camminata.
 
«Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr'occhi forse si vede di pi—[1]
 
Harvey le sottrae il libro dalle mani e lo nasconde dietro la schiena, ignorando le sue lamentele.
 
"Non insisterei tanto se non fossi certo che ti piacerebbe," continua lui, anche quando Rachel tenta di riprendersi ciò che è suo e si alza sulle punte. Anche quando solleva le braccia in aria e comincia a saltare invano per afferrare il libro.
 
"Ti stai sbagliando, Harvey."
Un sorriso provocante: "Non lo faccio spesso."
"Sbruffone."
 
Rachel salta di nuovo e questa volta riesce ad afferrare il libro. Ma Harvey ha la presa ferrea e alla fine nessuno dei due cede, ritrovandosi uno di fronte all'altro, con le braccia alzate e i visi vicinissimi.
 
"E poi," rimarca Harvey, "sarebbe un ottimo pretesto per uscire con la mia ragazza."
 
Rachel ha un singulto.
 
"La mia bellissima ragazza."
 
Oh, sei un bastardo.
L'ha fregata di nuovo. Per benino. Sono fidanzati da una sola settimana e Harvey conosce già tutti i trucchetti per farla cedere, per portarla dove vuole lui. Anche se, deve ammetterlo, non è poi così difficile: basta usare le giuste parole ed ecco che la sua scorza di ghiaccio si scioglie come burro.
Tocca i tasti giusti, Harvey, la fa sentire amata e voluta. La fa sentire importante, la punta di diamante in una collana di pietre.
Maledetto sbruffone.
 
La voce di Rachel è un sussurro, ma loro sono ancora vicinissimi: "Il tempo di un saluto, poi me ne vado."

Sì, come no.

Harvey sorride, le scocca un bacio sulle labbra carnose e poi le restituisce il libro.
Si allontana di un passo e comincia a camminare verso la loro aula.
 
"Non te ne accorgerai nemmeno," promette.
 
Sì. Come no.
 
 
 
∞∞∞


 
È uno sguardo catatonico quello che assume Harleen Quinzel durante tutte le lezioni di questa uggiosa giornata di Novembre.
Se avesse motivo di rimuginarci sopra, si renderebbe conto di aver sbattuto le ciglia giusto un paio di volte nell'arco della giornata, di avere saltato completamente la colazione e di aver indossato due calzini di colori diversi.
Invece Harleen Quinzel è talmente stanca che queste considerazioni le scivolano addosso senza che quasi se ne renda conto.
 
Ha dormito male, questa notte. Sempre che due ore stiracchiare di assopimento parziale possano essere considerate dormire. Per lo più, Harleen si è girata e rigirata nel letto con una morsa dolorosa allo stomaco che non le ha dato tregua nemmeno un istante.
È ansiosa, Harleen. Smarrita in incubi contorti che giocano con la sua mente e poi sfuggono ai suoi ricordi, lasciando immagini sfocate che hanno il sapore amaro di se e di forse.
 
Ha sognato Pam, stanotte. O almeno crede. Ricorda i suoi capelli rossi.
Capelli di fuoco.
Capelli di sangue.
Harley Quinn li afferrava con le mani bianche e li strappava uno a uno fino a quando non colavano sulle dita, macchie vermiglie che impiastricciavano i palmi e si addensavano attorno alle unghie. E a quel punto Pamela – una faccia in agonia che lacrimava foglie marce – si voltava verso di lei e le chiedeva perché.
Harleen si è svegliata di soprassalto, il volto arrossato e un grido fermo in gola.
 
Ha sognato anche Mr J, stanotte. Questo lo ricorda bene. Stringeva la mano di suo padre e sfoggiava il suo sorriso migliore.
Un sorriso angelico.
Un sorriso depravato.
Mr J estraeva il coltello e infilzava, infilzava, infilzava. Infieriva sulla carcassa con la ferocia di una bestia scatenata fino a quando non si voltava verso di lei e cominciava a ridere – il viso una mappa di gocce rosse ancora calde. Spalancava la mano, le cedeva il coltello – le donava il colpo di grazia - e a quel punto Harley Quinn ne afferrava il manico e finiva il lavoro.
Infilzava, infilzava, infilzava. E infieriva, infieriva, infieriva.
Quando Harleen si è svegliata urlando, aveva ancora tra le orecchie la risata acuta di Harley Quinn.
 
Il professor Fries tossisce forte per richiamare l'attenzione degli studenti.
Harleen si riscuote dai suoi pensieri e sbatte le ciglia – per la terza volta.
Cerca di concentrarti, Harl. I sogni non sono la realtà.
'Ne sei così sicura?' Le domanda una vocina nella testa che assomiglia incredibilmente al tono malizioso di Mr J.
Harleen non risponde. Abbassa lo sguardo e arpiona il banco con le mani, cerca di concentrarsi sul libro spalancato sotto i suoi occhi; ma le lettere si mischiano tra di loro senza alcuna logica e alla fine Harleen si scontra di nuovo con i suoi stessi pensieri.
Ha la sensazione di sprofondare in un lago nero. E di morirci annegata.
Pam… dove sei?
Ha bisogno di lei. Del suo sguardo accusatorio e del suo volto indurito; delle sue mani morbide e del suo profumo di orchidea.
Perché è terribile quello che sta succedendo. Quello che Mr J sta facendo.
Harley Quinn… Harley Quinn spensierata, Harley Quinn innamorata. 
Harley Quinn senza alcuna coscienza… Harley Quinn senza alcuna speranza.
Ha paura, Harleen. Terrorizzata dall'agghiacciante sensazione di volere tutto quello che Mr J promette. Di entrare nel suo mondo e scoprire di sentirsi a casa. Per questo ha bisogno di Pam e di parole rassicuranti che la tengano con i piedi per terra senza lasciarla andare; ma Pamela è irraggiungibile: un muro di silenzi che ribatte ai suoi messaggi o alle sue richieste d'aiuto.
E Harleen Quinzel sente di scivolare in un inferno rosso e nero dove il fuoco ardente del suo cuore brilla come la scintilla della follia.
 
 
 
∞∞∞


 
Bruce Wayne avvista la fonte del suo pellegrinare con ostentata tranquillità. L'inizio della terza ora ha svuotato i corridoi e dissolto la fila per il distributore automatico, consentendogli un rilassato break mattutino a base di the nella calma piatta di quotidiana routine dell'Arkham High School.
L'erogazione termina, il the è caldo sulle sue labbra e tra le sue mani, dove segni più scuri di lividi sbiaditi gli ricordano la rissa che si è scatenata una settimana prima.
 
Non ne ha più parlato con nessuno, nemmeno con se stesso. Sente che, per il momento, va bene così. A volte gli è passato per la testa di affrontare l'argomento con Selina; parlare con lei di quello che c'è stato e cercare di tradurre il significato nascosto dei loro gesti di quella notte, ma poi ha desistito. Lei si comporta come se nulla fosse accaduto, la loro complicità clandestina è ancora quella di prima e Bruce sente che anche questo va bene così. Non sa per quanto potrà andare avanti, ma non ci vuole pensare.
 
Selina Kyle è un argomento troppo complicato su cui concentrarsi, soprattutto a quest'ora di mattina.
 
"Ti facevo più un tipo da caffè."
 
Tono insolente, voce melliflua: a volte Talia gli ricorda straordinariamente Selina.

Bruce abbozza un sorriso e si volta verso di lei: "Alfred detesta il caffè."
"Da perfetto inglese," rimbecca Talia, ricambiando il sorriso.
 
Avverte il suo inebriante profumo quando lei ravviva i capelli con la mano affusolata e poi lo guarda con gli occhi cremosi.
 
"Domani sera..." comincia.
"Ho sentito le voci, " ribatte lui.
 
Difficile ignorarle, in verità: l'intera scuola è in fremente agitazione. Lui ha cercato di non lasciarsi travolgere dall'eccitazione – e c'è anche riuscito piuttosto bene, fino a questo momento.
Ora il profumo di Talia gli dà alla testa e lo manda in confusione.
 
Talia alza un sopracciglio come se volesse ribattere, poi lascia cadere i dubbi e continua il suo discorso: "Sei invitato anche tu."
Ghigna, Bruce, e gli costa una fatica sconcertante: "Come tutto l'Arkham, del resto."
"Tu sei uno degli ospiti d'onore."
"Non mi sono mai piaciute queste cose, lo sai."
Lei allunga il sorriso e scuote la testa: "Non hai mai avuto molta scelta…"
 
Che altro può ribattere? Talia ha dannatamente ragione.
Bruce Wayne è il pupillo di Gothamuna presenza di cui vantarsi e un viso pulito da sfoggiare come un trofeo.
Il premio finale delle scalate sociali.
Facciate di copertura. Implicazioni burocratiche. Ne ha viste a milioni di queste sceneggiate – ha preso parte ad altrettante - ma ancora non si è abituato al retrogusto amaro che gli lasciano in bocca. A volte gli piacerebbe essere semplicemente un signor Nessuno.
Ma lui è il principe di Gotham e questo ha il suo prezzo.
 
"Dove?" domanda infine Bruce, concedendosi un altro sorso di the.
"Iceberg Lounge[2]," risponde Talia. "Solita ora."
"Non è detto che ci sarò," sente il bisogno di precisare.
 
Lei si limita ad osservarlo, gli occhi liquidi e profondi che scavano in quelli di Bruce e valgono più delle parole.
Sì che ci sarai, sembrano dirgli. E lo sappiamo entrambi.
 
Poi Talia si volta e comincia a camminare, lasciandolo con ancora nel naso il suo profumo.
 
 
 
∞∞∞


 
Edward Nashton ha sempre saputo che insegnare all'Arkham High School avrebbe implicato delle seccature. Come ha sempre saputo che coltivare l'insegnamento in un contesto come Gotham City fosse una mossa azzardata e masochista.
 
"Io faccio qualcosa."
 
Oh, questa poi.
Edward alza gli occhi al cielo.
Avrebbe potuto fare tante cose nella sua vita. Essere tante cose. Avere riconoscimenti, fare carriera, ricevere premi.
Con la sua intelligenza – e non è il suo ego a parlare, ma la verità pura e semplice – avrebbe potuto essere dovunque. Chiunque.
Invece è stipato in una sudicia aula insegnanti che ingabbia il suo genio in un insulso armadietto dalle ante cedevoli.
E con una collega impicciona che non si decide a lasciarlo in pace.
 
Vicki Vale lo sta guardando con una luce strana negli occhi, un misto di aspettativa e spirito d'avventura.
Particolari trascurabili e incredibilmente irritanti.
 
Edward prende un bel respiro: "Mia cara Vale
"Chiamami pure Vicki," lo interrompe lei e manca poco perché lui la insulti pesantemente.
 
Detesta essere interrotto. È un gesto che non sopporta. Perché i suoi interlocutori non hanno mai niente d'interessante da fargli notare.
Ma se voglio liberarmi di lei, sarà meglio accontentarla.
 
Edward prende un altro bel respiro: "Mia cara Vicki, tutta questa preoccupazione è inutile. Il Vecchio ha già decretato il verdetto, sarebbe stupido accanirsi sulla questione."
"Jeremiah Arkham ha soltanto scelto la soluzione più semplice."
 
OvviamenteStiamo parlando di un uomo senza alcuna coscienza morale.
Edward deve ammettere che la perspicacia di Vicki Vale è un pregio da riconoscerle. Ha capito più lei dell'Arkham High School in pochi mesi di insegnamento che moltissimi altri colleghi in anni di servizio.
 
"Nulla di nuovo," continua lui, "prima l'apparenza e poi la sostanza."
Non riesce a nascondere un risolino a quel palese concetto di fondo.
 
Vicki storce il naso: "I genitori devono essere messi al corrente del comportamento dei figli."
"Il tuo senso di giustizia mi commuove."
Occhi di rimprovero: "Nasthon."
"Sì, Vale?"
 
Silenzio. Edward potrebbe anche cominciare ad apprezzare questi loro battibecchi verbali, se non fosse che ha sicuramente questioni più importanti a cui pensare.
Deve concludere in fretta il discorso.
 
"Senti, Vale—
"Vicki."
"Come ti pare." E non interrompermi mai più. "La faccenda è semplice: si è trattato di un increscioso incidente. Durante la rissa Jack Ryder è inciampato ed è caduto sulle posate rovesciate. Uno scivolone fatale."
La collega scuote la testa e si china verso di lui: "Ma sappiamo entrambi che non è vero."
"Irrilevante. In questo modo la scuola non rischia la denuncia e Jeremiah Arkham ha le spalle coperte. E se lui le ha coperte, vuol dire che anche tu le hai coperte."
Anche noi. È così difficile da capire?
 
Vicki sbuffa ed è la cosa più infantile che Edward le abbia visto fare. Non potrebbe avere un minimo di contegno, almeno di fronte a persone intellettualmente superiori come lui?
 
"Non ti importa sapere cos'è successo davvero?" domanda lei.
 
Edward le concede il beneficio del dubbio.
Capire… cos'è successo…?
No. 
… Sì, E.
No.
 
Vicki continua, il tono di voce più profondo di prima: "E indagare a fondo per scoprire la verità?"
 
 
Ah, la verità, idilliaca utopia.
È chiaro che smania dalla voglia di capire com'è andata. Conoscere le motivazioni, le dinamiche e il contesto che hanno dato luogo al tutto. Riuscire a infittire la sua rete di conoscenze, riuscire a mettere le mani sopra ogni cavillo dell'Arkham High School. È un'ossessione che l'ha sempre affascinato.
A lui piace sapere. Avere la risposta a tutto, mostrarsi agli altri per il genio che è.
E poi c'è quell'altra cosa, vero Nygma?
Se parla con franchezza, deve ammettere di avere sempre avuto un debole per le indagini.
Edward Nashton, il più grande detective del mondoHa sempre avuto un suono dolce nella sua mente.
 
"Jeremiah Arkham non ci permetterebbe mai di tornare sull'argomento," risponde infine lui e negli occhi ora c'è una luce diversa: lo stesso luccichio che ravviva le iridi celesti di Vicki e che lei nota immediatamente.
 
La donna si sporge in avanti un altro po', poggia i gomiti sul tavolo e lo fissa con una complicità intensa.
 
"Jeremiah Arkham non deve saperlo per forza," ribatte, una tacita alleanza che Edward soppesa con attenzione.

Scoprire la verità e allo stesso tempo farsi beffe del Grande Capo in persona. Cosa stai aspettando, E. Nygma[3]?
 
Ride, chiedendosi dove sia stata nascosta Vicki Vale fino a quel momento.
 
 
 
∞∞∞


 
Avrebbe dovuto prevedere questa svolta degli eventi.
Sorrisi. Calma. Periodo rosa. Non poteva davvero sperare che la sua vita continuasse così in eterno. È una questione di equilibrio: il male e il bene trovano sempre un modo per pareggiar i conti.
E Talia al Ghul si premura di farglielo capire molto bene.
 
Rachel osserva la macchia scura che si espande sulla sua camicetta nuova. Un regalo di suo padre. Un costosissimo regalo di suo padre. Il verde acqua e la fantasia floreale ormai passano in secondo piano, grazie all'inchiostro.
Talia ha una mira infallibile, maledizione.
 
"Vaffanculo!" esclama Rachel, armeggiando ancora con acqua e fazzoletti. Sono ormai dieci minuti che sfrega energicamente la chiazza più scura, ma quella non vuole proprio saperne di andare via. Invece di rimpicciolirsi si espande a macchia d'olio sul suo petto. Parte dal seno e arriva all'ombelico.
Se non viene via, sono guai.
 
Era uscita semplicemente per andare in bagno. Non voleva chiacchierare con la bidella, o fumare una sigaretta, o fare una passeggiata per i corridoi infischiandosene della lezione. Una semplice sosta nelle toilette femminili prima di riprendere la sua vigile partecipazione alla vita scolastica.
E invece, non appena fatti due passi, è arrivato il dono amichevole di Talia Al Ghul: un fottuto bicchiere di plastica ricolmo d'inchiostro che '"casualmente" è volato sulla sua camicetta nuova.
 
"Attenta, Rachel: l'inchiostro macchia!"
 
Brutta stronza.
Quando si è accorta del misfatto era già troppo tardi. Il bicchiere rotolava per terra e la sua camicia diventava nera.
 
"Sai, solo perché vai a letto con Harvey Dent non significa che tu possa darti delle arie: la favola della principessa e del ranocchio non è mica vera."
 
Risate, scherni, insulti. La prassi. E lei ne è abituata. Non è stato quello a farla imbestialire.
 
"Harvey sta con te soltanto perché gli fai pena. Lui adora le cause perse."
 
Brutta stronza.
Rachel crede di averle urlato qualcosa come sei soltanto una puttanella viziata, ma non se lo ricorda esattamente. È troppo scossa. E forse il pugno che ha ricevuto in risposta non ha aiutato. Le gira la testa e il sangue che le esce dal naso le suggerisce che dovrebbe darsi una pulita, sistemarsi un poco e tornare in classe: è fuori da troppo tempo.
Ma la camicetta…
Ormai è da buttare. Può provare a metterla in lavatrice, ma è un tentativo disperato. Suo padre non deve venirlo a sapere: pretenderebbe delle spiegazioni che lei non è disposta a dare. Finire in punizione per questo non le sembra una buona idea.
 
Rachel alza lo sguardo per incontrare il suo riflesso allo specchio.
La mia faccia sembra un dipinto di Picasso. Periodo rosso e viola.
 
Le balena in mente l'idea di sottrarsi anche alle lezioni e filare a casa, evitando di girare per la scuola con un enorme buco nero al posto dello stomaco. Potrebbe dileguarsi dall'Arkham High School per piazzare una bella bistecca gelata sul suo occhio nero e far sparire i segni della colluttazione prima del ritorno di suo padre.
 
Senza contare che affrontare Harvey e la sfilza di domande che l'aspetta le fa girare ancor di più la testa. No: un messaggio di scuse e a casa. Senza possibilità di andare oltre. Così lui resterà tranquillo e lei eviterà una marea di problemi.
In questo modo, però, non ho una motivazione valida per sviare la sua richiesta di stamattina. Se non sa cos'è successo, non ammetterà repliche e mi vorrà con lui.
Un rischio che è disposta a correre. Ci sono sempre moltissime persone a questo tipo di eventi, Talia Al Ghul non la troverà facilmente, soprattutto se Rachel farà di tutto per evitarla.
È un bel piano. Davvero un bel piano.
Ora deve solo correre a casa.
 
 
 
∞∞∞


 
La casa ha le pareti scrostate, un balcone senza transenne ma il giardino curato, un pallido tentativo di renderla accogliente ai possibili visitatori - se mai ce ne sono stati.
L'hanno trovata per puro caso, all'angolo tra Mane District e Derry Avenue di quel quartiere malfamato che puzza di pesce e smog. Non è strano che per le strade non ci sia anima viva.
 
Vicki si stringe nel cappotto e infila le mani in tasca, osservando con attenzione tutto ciò che ha attorno: un lampione ammaccato senza lampadina, un cestino ricolmo di rifiuti, un ruscello piovano accanto ai piedi e un solo barbone dall'altra parte della strada che sistema alla bell'è meglio la coperta bucata.
Gotham City: la città delle possibilità.
Vicki respira sogni perduti e speranze infrante.
 
"È davvero qui?" domanda, quasi pregando che Edward si volti verso di lei con il ghigno di chi ha giocato un brutto scherzo.
Ma il professor Nashton alza le spalle e continua ad avanzare, fermandosi soltanto quando raggiunge il citofono – Vicki non pensava ce ne fosse uno.
 
"Casa Napier," legge. "Chiaramente avevo ragione."
 
Mitomane.
 
Il vento gelido scompiglia i capelli biondi della professoressa Vale, ma lei non se ne cura mentre Edward Nashton allunga il dito e suona il campanello.
 
Dlong.
 
Un'attesa ritmata dal piede nervoso di Edward. Vicki si rende conto soltanto in quel momento di non percepire per niente il freddo pungente: è strano, è sempre stata piuttosto freddolosa. Probabilmente è colpa della situazione.
 
Dall'altra parte della casa si avvertono dei passi pesanti, un va' via, Birba! E finalmente la porta si spalanca.
Vicki Vale si rende conto di non aver mai visto una donna tanto grassa. La signora Napier è un donnone che si sviluppa soltanto in larghezza: occupa tutta la porta con il suo immenso ventre ma non arriva nemmeno alle sue spalle.
Lo sguardo, però, è quello di una donna mesta e insicura, considerazioni che vengono confermate nel momento stesso in cui spalanca le due labbra voluminose e comincia a parlare – ha un vocione profondo, ma timoroso.
 
"Chi siete?"
 
Vicki si riscuote dalla vista del neo imponente che troneggia sulla fronte della signora Napier e abbassa lo sguardo sui suoi occhi.
 
"Noi—
"Sono il professor Nashton e lei è la professoressa Vale, dell'Arkham High School. Suo figlio è iscritto alla nostra scuola, vero?"
 
Strabuzza gli occhi, Vicki, voltandosi improvvisamente verso il suo collega e credendo di essere impazzita: Edward Nashton, il più grande nemico dell'umanità, ha appena assunto un tono accondiscendente con un altro essere umano.
E non un essere umano qualsiasi, ma uno che rientrerebbe alla perfezione nella sua personalissima lista di reietti della società.
Hai preso un colpo di freddo, Eddy?
 
"Oh," la signora Napier gli concede una languida occhiata e poi si appoggia allo stipite della porta: "Professori, ma certo… sa, è la prima volta che suonate alla mia porta. È per i colloqui? Ho detto al mio Jack che non potevo andarci. Sa, con il lavoro in sartoria, è difficile trovare il tempo… ma io ci sto dietro al mio ragazzo, sa? Lo educo bene! Come avrebbe voluto mio marito, che Dio lo abbia in gloria…"
"Amen," ribatte Edward e a Vicki va di traverso la saliva.
Perché quel sorriso, Eddy? Che ti è preso? Dov'è finito il bastardo megalomane che ho imparato a conoscere?
 
Si è resa conto di non avere ancora spiccicato parola, ma la signora Napier sembra avere occhi solo per Edward. Lo guarda con adorazione, come se da un momento all'altro potesse mangiarlo.
Vicki non scarta del tutto questa possibilità, comunque.
 
"Ci dispiace disturbarla, gentile signora," comincia lo strano individuo che ha preso il posto di Edward, accennando un sorriso che lascia Vicki basita un'altra volta.  "Siamo qui per una questione piuttosto importante."
La signora Napier porta una mano alla bocca: "È successo qualcosa?"
"Temo di sì."
"Riguarda il mio Jack?"
 
Edward annuisce con determinazione, in una splendida interpretazione di professore affranto.
A Vicki sembra di essere piombata in una telenovelas da quattro soldi, o in un universo parallelo.
Non riesce ad assumere uno sguardo serio. La disinvoltura con cui Edward maschera la sua vera personalità la sta mandando in confusione. Avrebbe dovuto avvertirla. Se l'avesse saputo, si sarebbe preparata a questo cambiamento e all'entrata in scena del fratello gemello di Edward Nashton, sensibile e dal cuore tenero.
Devo ammettere che sei un uomo pieno di sorprese, Eddy.
 
Ad un tratto vede qualcosa che non aveva notato precedentemente. Le è bastato girare la testa per imbattersi in quella scoperta che è ancora più strana dell'alter ego caritatevole di Eddy.
 
C'è qualcosa, poco dietro l'abitazione dei Napier. Potrebbe definirsi una casa, ma l'atmosfera decadente che ci aleggia attorno suggerisce che si tratti dei resti di una casa. Una catapecchia malridotta annerita dal tempo e dalle intemperie, con tre finestre al piano di sopra e tre al piano di sotto, alcuni vetri in frantumi e il legno del pianerottolo marcio e pericolante. Vicki la guarda e non riesce a spiegarsi perché, nonostante uno sfondo decadente come quel disgustoso quartiere, quella casupola sembri fuori posto. Estraniata dalla realtà. Appartenente a un angolo ignoto dell'universo che non ha niente a che fare con Gotham City.
Ne è affascinata. Attratta, persino.
Somiglia a un dipinto di Toulouse-Lautrec[4]... la casa maledetta per un pittore maledetto.
 
Il vocione baritonale della signora Napier la distrae dai suoi pensieri.
 
"Una rissa? Il mio Jack? Ci deve essere un tremendo sbaglio, professor Nasson, mi creda!"
"È Nashton," ribatte Edward e Vicki scorge finalmente un barlume di irritazione nel suo tono di voce. Si sente più tranquilla, anche se ora quella da tranquillizzare è una signora di 150 kili in piena crisi di panico.
"Jack non farebbe del male a una mosca, sa!"
 
Vicki Vale storce il naso. Lo dica ai genitori di Jack Ryder.
 
"Ci dispiace, signora," continua Edward, serafico, "ma dobbiamo parlare con suo figlio."
La signora Napier smette il suo piagnisteo e torna a fissare i due insegnanti: "Non può essere stato lui, sa? Il mio Jack è stato educato bene! Mio marito gli ha insegnato le buone maniere prima di crepare. E io gliele ricordo ogni giorno. E quando se lo merita gli rifilo qualche ceffone. Non forte, sa? Per il suo bene. Ma non in testa, sa? Che altrimenti diventa scemo."
 
Vicki Vale nota Edward stringere i pugni e digrignare i denti. Si accorge dell'odio profondo che sprizza dai suoi occhi infuocati e sfrigola come un fulmine sul corpo flaccido della signora Napier. Deve fare qualcosa prima che il suo collega perda la pazienza definitivamente.
Sei stato bravo a recitare fino a ora, ma adesso tocca a me.
 
"Suo figlio è in casa?" chiede con il tono di voce più gentile che riesce ad adottare, accaparrandosi l'occhiata disperata della signora Napier. Il donnone china la testa, enfatizzando il doppio mento.
 
"Nel letto: il mio Jack ha la febbre, sa…"
 
Questo spiega perché è da una settimana che non si fa vedere a scuola.
 
Vicki sorride, docile: "Se non fosse importante, non saremmo qui."

Se suo figlio non fosse pericoloso, non saremmo qui.
 
Alla fine, è la signora a spezzare il silenzio: "Oh, se mio marito potesse parlare… volete entrare?"
"No," risponde Edward, nervoso, "andrà bene qui."
 
La padrona di casa condivide la sua affermazione, perché si volta verso le scale e dopo aver chiamato a gran voce suo figlio – un richiamo che viene contrapposto da un debole Vengo subito – si porta le mani sotto il mento e ripete: "Se mio marito potesse parlare…"
 
Un gatto maculato fa capolino da una stanza e scompare nei meandri della casa.
Vicki lo osserva e riscopre il suo nervosismo: finalmente sta per scoprire la verità. Cos'è successo quel giorno e perché. Ha visto per poco tempo il ragazzo con le cicatrici, occupata com'era ad aiutare il professor Fries, ma quelle poche occhiate sono bastate. Un volto di quel tipo non si scorda facilmente. Delle cicatrici di quel tipo non si scordano facilmente.
Potrebbe essere il pretesto per chiedergli anche di quelle…
 
Ma le sue farneticazioni piombano nel burrone amaro della sconfitta quando, a passo lento, magro come un chiodo e a testa bassa, si presenta Jack Napier.
Due sono i pensieri razionali che attraversano la mente di Vicki Vale: «Tutto il cibo lo divora la madre» e «Non può essere vero».
Avverte la sua stessa tensione mista a stupore impossessarsi anche del corpo e della mente di Edward, accanto a lei, perché le sue spalle s'irrigidiscono quando lui guarda l'alunno e sbarra gli occhi.
 
"Avevi bisogno di qualcosa, 'ma?"
 
È quasi surreale.
 
"I professori dicono che hai fatto una cosa molto brutta, tesoro. È vero?"
 
Deve esserci uno sbaglio.
Quello sceso dalle scale è Jack Napier. Gambe storte, spalle strette, busto rachitico e occhi azzurri infossati in un volto immacolato. Senza alcuna cicatrice.
Deve esserci uno sbaglio.
Il vero Jack Napier è davanti a loro. Quello falso…
 
"Rispondi, tesoro: è vero?"
 
Vicki ha l'impressione di sentire in lontananza la risata graffiata di Gotham City, che si fa beffe di lei e del suo imperdonabile abbaglio.
 
 
 
∞∞∞


 
Le strade sembrano tutte uguali.
Harleen cammina senza vedere davvero dove mette i piedi; incespica sui suoi passi, barcolla ogni tanto e continua la sua avanzata. Non si riconosce: sprizzare vitalità è una delle sue caratteristiche più evidenti, ma adesso…
Adesso non sa più quello che è.
Ho… bisogno…
Incespica un'altra volta; non cade per miracolo. Si aggrappa alla staccionata bianca e percorre il vialetto con la lentezza di un morto vivente. Trascina i piedi uno dopo l'altro, le braccia abbandonate lungo i fianchi, la testa affollata di pensieri contrastanti che la terrorizzano.
Harley Quinn… Harleen Quinzel… Harley Quinn… Harleen Quinzel…
Una cantilena macabra che trapana il suo cervello e le sue difese.
È con la paura negli occhi che si lascia cadere sulla porta d'ingresso e comincia a battere la mano sul legno duro, quasi senza rendersene conto.
Ho… bisogno… di…
La porta si spalanca. Harleen scivola a peso morto, il dorso della mano che pulsa a causa dell'energia disperata che ci ha messo nel bussare. Nel chiedere aiuto.
Viene sorretta prima di cadere a terra, due mani gracili che in quel frangente sono più forti di una quercia.
 
"Harleen? Cosa… Cosa ti prende?"
 
C'è astio nella sua voce. Non ha ancora superato le divergenze di una settimana prima. Ma Harleen ora non ha voglia di discutere, di dirle che aveva ragione o rimarcare il fatto che avesse torto. Vuole solo essere cullata dalle sue mani curate e sprofondare nel suo petto morbido. Ascoltare il battito regolare del suo cuore e grazie a quello trovare la strada per uscire dal suo incubo.
Per tornare con i piedi per terra.
 
"Pam…" mormora, accorgendosi soltanto in quell'istante di singhiozzare come una bambina. Le lacrime hanno fatto colare il trucco e Harleen si terrorizza perché il primo pensiero che le sfiora la mente, pensando al trucco, alla pioggia e agli abbracci, è uno solo. Sempre, solo e soltanto lui.
Un pagliaccio. E un arlecchino.
 
"Mi devi aiutare," mormora ancora, stringendosi di più a lei, a Pamela, alla sua unica speranza di uscire da quel tremendo vortice che la sta risucchiando. "Non… io… ho bisogno di aiuto," un altro singhiozzo.
Ho... bisogno... di... te...

"Mi sembra di impazzire. Sto impazzendo."
 
E Pamela la stringe, la culla, la soffoca d'amore così tanto che alla fine Harleen, vinta dalla stanchezza e dalla paura, scivola in un sonno senza incubi.
 
"Ci sono qui io, Harl. E adesso sei al sicuro."
 
 
 
 
 
I started a joke
Which started the whole world crying
But I didn't see
That the joke was on me
 
I looked at the skies
Running my hands over my eyes
And I fell out of bed
Hurting my head
From things I'd said
 
 
I started to cry
Which started the whole world laughing
If I'd only see
That the joke was on me
 
 
(I started a Joke, BeeGees)



Angolo autrice:
Eccomi con un altro capitolo! Ok, visto che con gli aggiornamenti sono sempre in ritardo, ho deciso che lascerò i capitoli più lunghi, anche per riuscire a inserire almeno un trafiletto di tutti i personaggi.
Duuunque, vi è piaciuto lo scherzetto di Jack Napier? Spero di avervi fregato almeno un pochino. La verità è che volevo rendere omaggio a Jack Nicholson e al film di Tim Burton, però allo stesso tempo rifarmi all'idea di fondo secondo la quale "Il Joker non ha passato". Mi piace questo concetto, è una caratteristica base di Mr J e io voglio rispettarla. Mr J prima di diventare il Joker era qualcuno. Fine.

E, a proposito di Mr J, mi dispiace non averlo inserito in questo capitolo. Ho cercato di mascherare la sua assenza il più possibile, ma mi scuso nel caso in cui aveste sentito la sua mancanza. È un'assenza di trama. Doveva essere così.
E Selina è davvero l'informatrice di Gotham City, alla pari del Pinguino. Batman la sfrutta spesso per questo.
Per quanto riguarda Harley, invece, spero di non averla resa troppo "Mary Sue". Però sta impazzendo. Non credo che qualcuno avrebbe una reazione pacata e controllata...

Per le note invece: 

[1]: Poesia Di Eugenio Montale, "Ho sceso dandoti il braccio". Una delle mie preferite;
[2]: L'Iceberg Lounge. Rinomato locale di Gotham City, regno incontrastato del Pinguino e sua base operativa. Volevo inserirlo. Perché sì;
[3]: E.Nygma. È uno dei soprannomi dell'Enigmista. E.N.= Edward Nashton/Eddy Nygma. Almeno, mi sembra di ricordare che sia qualcosa del genere. Comunque, in Batman: Arkham Origins, la prima volta che l'Enigmista si palesa al Cavaliere Oscuro, si presenta proprio come E.Nygma. Da qui, la citazione;
[4]: Pittore impressionista. Era affetto da nanismo e ha passato tutta la vita a ubriacarsi e frequentare bordelli, tanto che alla fine è morto ubriaco e sifilitico. Non ricordo se anche povero in canna oppure no.

Niente, come al solito, grazie mille a chi ha recensito i capitoli precedenti, a chi recensirà questo, a chi ha inserito la mia storia fra le seguite / preferite / ricordate e a tutti i lettori silenziosi. Mi fa sciogliere di gioia sapere che la mia storia vi piace! <3

Alla prossima!
Always_Always



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Capitolo 8
*** The dark side of the mood ***


Capitolo n°8
"The dark side of the mood"
 

 
 
In quanto a me, mi troverai tra le spine
Sono quello che vorresti dire ma non vuoi sentire mai
Io non cerco un lieto fine, ma se vivere è morire 
Allora è meglio benedire i guai
 
E vai giù
Dove il buio è affascinante
E il lato oscuro ti sembra più interessante
Imprigionati per sempre dentro un istante 
In cui il dolore lancinante è ormai distante
Mi chiedo se mi vedi?
Se mi credi?
Come ieri tu cerchi chi eri ma non c'è un richiamo, 
Immersi tra i sentieri dei pensieri più sinceri…
Ti amo

 
(The dark side of the mood, Nitro)
 
 
 
 
 
 
 
Questo Venerdì sera è appiccicoso e poco accomodante.
L'umidità affonda nelle pozzanghere di Gotham City, si veste di acqua, di sporco e di nero e assume la consistenza di una bava viscosa.
Jonathan Crane ne avverte le viscide fila attaccarsi alla faccia e si pulisce con la manica dello smoking. I piedi, uno dietro l'altro, inseguono la strada di sassi bianchi che conducono alla porta di casa Quinzel.
 
Casa Quinzel. Questa è davvero incredibile.
 
Non vuole fermarsi a pensare, non deve. Se lo facesse, le domande convulse che ha categoricamente ignorato fino a questo momento gli perforerebbero il cervello palesando l'assurdità della situazione.
Io e Harleen. Dopo il suo chiaro rifiuto nei miei confronti.
Distrarsi, per l'appunto. È proprio quello di cui ha bisogno. Senza contare che Pamela Isley non sarebbe entusiasta di un suo possibile fallimento o di una sua improbabile fuga – anche se Jonathan ammette a se stesso che, a dirla tutta, non ha mai avuto possibilità di opporsi al volere della sua compagna.
 
"Crane, devo chiederti un favore… "
 
Una voce armoniosa e due zigomi appuntiti; due pozzi smeraldo velati di timore ma imbevuti di una determinazione feroce.
Con quel tono maledetto, con quel viso maledetto, come avrebbe potuto negarle il suo aiuto?
Come avrebbe potuto negarle qualunque cosa[1]?
 
E poi hai sempre avuto un debole per Harleen, Jonny.
Anche questo è vero, ma non è il punto focale della questione.
 
Pamela Isley l'ha caldamente invitato all'Iceberg Lounge in occasione della festa di Talia Al Ghul.
Pamela Isley l'ha caldamente invitato a stare incollato ad Harleen Quinzel come, cita testualmente, "se tutta l'aria del mondo fosse concentrata nel suo corpicino 55 kili".
 
Jonathan non sa per quale strano allineamento cosmico non abbia fatto domande ma ha noleggiato uno smoking, si è preparato a dovere spruzzandosi addirittura il profumo ed è arrivato al luogo dell'appuntamento con venti minuti di anticipo.
Tutta questa situazione è particolarmente inquietante.
Assolutamente corretto. Deve ammettere però di essere curioso di come andrà a finire. Stare accanto ad Harleen è stimolante, non soltanto per il corpicino 55 kili che è da togliere il fiato, ma anche per tutto quello che le sta attorno: Harleen è un soggetto altamente imprevedibile. Sospetta – ne è certo – che dietro quel sorriso genuino ci sia qualcosa di più profondo, annidato nel fondo della sua mente e quello che lo sconvolge tanto è che lei non se ne sia mai resa conto.
Harleen Quinzel… cosa nascondi nel tuo subconscio?
 
Fa appena in tempo ad avanzare di un passo che il portone di legno si spalanca scricchiolando e una figura bionda fa capolino dall'interno.
 
"Ciao, Jonny."
 
Sarebbe il caso di interrogarsi sullo sconforto che trasuda dal tono piatto e dagli occhi vuoti di Harleen, ma la sua bellezza ha la capacità di lasciare Jonathan imbambolato. È un miracolo che non abbia la bocca spalancata.
 
"… Ciao, Harleen."
 
È un vestito turchino. Non blu, ne azzurro o qualche altro colore banale per persone banali. Turchino e limpido, come il cielo che Gotham non ha mai visto, come il mare che si disegna all'asilo, quando il mondo è semplice come appare e non si è trascinati a fondo dalla verità che si cela sotto.
Harleen non si nasconde, ostenta la sua bellezza inconsapevole: il tacco nero lucido sfila le gambe già magre, lasciate nude da quel vestito fasciato che le arriva a metà coscia e si ferma poco sopra il seno. Lei si stringe un po' nella giacca di pelle e mostra il collo abbracciato da una collana brillante; guarda Jonathan con un sopracciglio alzato. Ha giusto un velo di trucco e nient'altro.
Nient'altro. Soltanto lei.
 
Jonathan allenta il nodo alla cravatta e tossisce: "Harleen, sei— "
 
"Pronta ad andare," ribatte lei, superandolo. Alcuni ciuffi biondi sfuggono dallo chignon e le ricadono sulla fronte. "Pamela ci raggiunge".
 
Jonathan non ha il tempo di aggiungere altro che Harleen è già in fondo al vialetto. La guarda, muto. L'imbarazzo gli colora gli zigomi sotto gli occhiali, ma tanto Harleen non se n'è accorta, intenta com'è a fissarsi i piedi.
È distante. Imprigionata dietro un muro di superficialità e apatia che la rendono così diversa da come Jonathan si aspettava.
 
Un soggetto altamente imprevedibile…  
 
Tutto sommato, Jonathan sorride: starle accanto sarà una sfida singolare. Qualche parola, un ballo o due e potrà dissetare la curiosità che gli brucia la gola.
Harleen Quinzel… cosa ti preoccupa?
 
"Andiamo, allora."
 
Di che cosa hai paura?
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
Rachel Dawes arpiona con le dita la mano di Harvey Dent, arricciandosi dietro la sua figura rilassata nel vano tentativo di sparire dalla faccia della Terra.
 
"Benvenuti all'Iceberg Lounge," mormora il cameriere che li ha accolti con un sorriso non troppo sincero.
 
Rachel abbassa lo sguardo e stringe la mano di Harvey ancora di più, chiedendosi perché mai sia in capitata in una situazione tanto surreale.
Resta calma, Rachel. Resta calma.
È un locale particolarmente lussuoso, questa è la sua prima considerazione non appena varcano l'ingresso. La zona bar è laterale alla pista da ballo, accanto a loro c'è un'immensa scala che porta al piano superiore e il tutto è offuscato da luci soffuse, molto soffuse: Rachel fa fatica a distinguere le figure.
Almeno nessuno noterà l'occhio nero…
L'ha coperto con quantità industriali di trucco, ma il gonfiore è ancora visibile. Ha raccontato ad Harvey di aver sbattuto contro il mobile – una confessione che le è costata una lunga serie di scherzi e battute, ma ha preferito questo alla storia pietosa di Talia che schiaccia la sua dignità.
Una dignità che questa sera potrebbe perdere completamente.
 
"Allora," comincia Harvey, voltandosi verso di lei. La camicia è slacciata all'ultimo bottone, un tocco sbarazzino che lo rende particolarmente sexy: "Possiamo gettarci sugli alcolici e poi ballare in mezzo alla pista, oppure ballare in mezzo alla pista e poi gettarci sugli alcolici".
 
Rachel increspa le labbra.
E la parte divertente che non potevo assolutamente perdermi sarebbe… ?
 
La ragazza scruta l'ambiente con gli occhi a fessura: la festa è iniziata da poco ma può già stimare che il grado alcolico della maggior parte degli invitati sia ampiamente sopra il livello zero. L'atmosfera onirica le fa ben sperare di poter passare inosservata per tutta la sera, anche se non può abbassare la guardia: all'entrata ha avvistato l'energumena lecca piedi di Talia e c'è mancato poco perché la vedesse.
Se Talia dovesse scoprirla, la camicetta verde acqua irrimediabilmente danneggiata sarebbe soltanto un piccolo assaggio.
Maledizione, Rachel! Perché diavolo ti sei cacciata in questo casino?
 
Poi Harvey l'abbraccia e le scocca un bacio sulla punta del naso. Gli occhi nocciola si allargano, l'angolo della bocca si alza appena e il mento si poggia sui capelli profumati di Rachel.
 
"Sono contento che tu sia qui. Con me."
 
Rachel sorride di cuore, allaccia le braccia attorno alla sua schiena e si gode il suo profumo di pulito e di buono. Con Harvey basta davvero poco per sentirsi sereni. La sua presenza, così forte eppure gentile, riempie un vuoto che Rachel non aveva mai saputo di possedere e che adesso, quando lui non c'è, è profondo e fastidioso.
 
Ma poi arrivi tu e tutto torna a posto…
 
In questo momento si rende conto quanto valga la pena essere qui, a questa stupida festa di questa stupida ragazza, con delle luci che non illuminano e la musica a volume altissimo. E non le importa più di Talia, dell'occhio nero o della sua camicetta: Harvey ne vale la pena. Ne varrà sempre la pena.
 
"Portami dove vuoi," mormora lei al suo orecchio, una voce melliflua e pregna di affetto, dolce quanto il bacio che gli regala sulle labbra. "Portami dove vuoi."

Harvey sorride e Rachel riscopre la felicità.

Per te, ne varrà sempre la pena.
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
Carnaby Street è una lunga e stretta stradina che costeggia uno dei pochissimi parchi rimasti a Gotham City ed è per questo che a Pamela piace. Oltre allo smog e al freddo, se respira profondamente può distinguere l'odore di pino e, in primavera, il profumo delicato dei primi germogli che sbocciano poi col giungere dell'estate. Fortunatamente, è una strada piuttosto tranquilla e non ha paura di attraversala, nemmeno la sera. Anche se, a quest'ora, sarebbe dovuta essere altrove.
Finirà che arriverò tardi alla festa.
 
L'ha preventivato non appena ha letto il messaggio di suo padre. Le ha chiesto di raggiungerla in laboratorio il più in fretta possibile e lei non se l’è fatto ripetere: quando si tratta del lavoro di suo padre tutto passa in secondo piano, comprese la festa e Harleen. Non si sente in colpa perché Jonathan Crane è insieme alla sua bionda e la sta tenendo d'occhio al posto suo – non ha dovuto minacciarlo per fargli capire che deve fare un ottimo lavoro se non vuole incombere nella sua furia; Crane sa che Pamela non si è mai fatta problemi a picchiare i ragazzi con gli occhiali.
 
Harleen ha bisogno di distrarsi.
Dopo quello che le ha rivelato, dopo lo stato in cui l'ha trovata, è imperativo che si prenda del tempo per ritrovare se stessa e la lucidità pericolosamente annebbiata.
Se Pamela pensa allo sguardo disperato che le ha visto in volto e ai lamenti che sfuggivano dalle sue labbra…
Quel brutto bastardo.
Deve fare qualcosa. Deve fare qualcosa ora. Quel pazzo non può continuare a tormentare la sua bionda in questo modo – non può continuare a scorrazzare in libertà dopo tutti i crimini che ha commesso. Non ci vuole un genio per capire che è pazzo, basta guardarlo negli occhi – se quelle cicatrici orrende non fossero sufficienti. Chiunque perderebbe la ragione, con un volto così.
 
Pamela blocca il flusso dei suoi pensieri soltanto quando entra nell'appartamento 2A di Nothing Hill. Il laboratorio di botanica non è mai stato appariscente o di un gusto particolarmente ricercato, eppure è uno dei luoghi preferiti di Pamela. Ricorda quando suo padre le stringeva la mano e la conduceva nei meandri di quel posto che, ai suoi occhi di bambina, sembrava misterioso, magico e grottesco. Camminavano per i corridoi traboccanti di verde e tutto quello che Pamela vedeva pareva essere incantato, una favola come quelle che suo padre le leggeva quando s'infilava sotto le coperte.
"Questo è il mio mondo, Pammy Pammy," le ripeteva sempre, "l'ho costruito pensando a te," e Pamela si premurava di imparare quanto più poteva su quel luogo incantato; ascoltava suo padre a bocca spalancata e con gli occhi vispi, perché, se era il suo regno, doveva sapere come prendersene cura.
Così Pamela si aggirava come una principessa in quel reame di foglie e vita, dialogando con rose grandi quanto la sua faccia paffuta e arrampicandosi su rami imponenti, sfogando la sua fantasia e la voglia di avventura. E suo padre rideva, la guardava e rideva, infilato in un camicie bianco candido e con ampolle alla mano – gonfio di gioia, d'orgoglio e d'amore.
 
"Papà?" chiama ad alta voce, un sorriso radioso legato a quei ricordi.
 
Si avvicina all'appendiabiti per liberarsi della giacca e sostituirla con il camice – il regalo della nonna per i suoi diciassette anni. Poggia la pochette verde sulla scrivania e soltanto in quel momento avverte un insolito calore stuzzicarle la schiena. Scocca un'occhiata al termometro ambientale: per la corretta crescita delle piante, la temperatura deve essere un po' più calda del normale, ma così è eccessivo! È praticamente un clima africano!
Forse papà sta lavorando a un nuovo ibrido che ha bisogno di più calore.
 
Pamela percorre il corridoio illuminato, premurandosi di controllare le piante che crescono rigogliose. Sono tutte bellissime, anche se particolari: suo padre ha l'ossessione per gli intrecci genetici e riesce a creare sempre qualcosa di spettacolare. Pamela non ha mai avuto dubbi sulla sua genialità, ancora prima dei riconoscimenti ufficiali che abbelliscono le pareti dell'ufficio. E anche se ogni tanto hanno avuto alti e bassi – come quel tale di cui non ricorda il nome che ha tentato di rubare le ricerche di papà e ha inviato messaggi di minaccia dopo il suo fallimento – Pamela non ha mai demorso e si è sempre impegnata al massimo, cercando di aiutarlo con ogni mezzo disponibile, in ogni occasione.
Voglio che realizzi il tuo sogno, papà. E voglio esserci quando lo farai.
 
"Papà?" chiama un'altra volta, arrivata alla fine del corridoio. Il calore si sta facendo via via più intenso, per questo Pamela ne segue la scia: trovata l'origine, è certa di trovare anche suo padre; a quel punto lo sgriderà per la scarsissima attenzione che nutre per il mondo esterno: quando è impegnato in un nuovo progetto, s'isola completamente come se non esistesse nient'altro.
La nonna lo prendeva sempre in giro per questo suo piccolo difetto.
 
Ad un tratto una luce più forte, più calda e più ampia attira la sua attenzione: proviene dall'ultima stanza del laboratorio e pare espandersi sempre di più.
Ma che…
 
Pamela avverte il cuore avere un mancamento quando abbassa la maniglia – stranamente rovente – e spalanca la porta.
 
 
 
∞∞∞
 

 
Il getto della doccia sputa acqua bollente, si riversa sulla sua pelle e condensa l'aria che scema verso il soffitto in una nuvola di vapore.
Edward Nashton ha gli occhi chiusi e non intende riaprirli: vuole lavare via tutti i pensieri e le brutte sensazioni che si sono accumulate nel suo stomaco durante la giornata, fino a quando non resterà soltanto il buio cullante dell'indifferenza.
Odia quando le cose non vanno come previsto.
 
E questa faccenda si sta facendo più complicata di quanto pensassi.
 
Involontariamente, gli torna alla memoria la figura secca di Jack Napier accanto alla madre obesa. Stramba donna, la signora Napier. Ignorante e senza un briciolo di dignità. Gli ricorda un po' sua madre, per certi aspetti, ma Edward scaccia in fretta quei pensieri e si volta dall'altra parte. Non gli piace pensare a sua madre. O a suo padre.
"Sei un idiota, Ed. Sai come vanno trattati, gli idioti?"
La profonda cicatrice sulla scapola sinistra tira la pelle e gli impone di pensare ad altro.
 
Qual è il collegamento tra Jack Napier e il ragazzo delle cicatrici?
 
È questa la domanda che lo consuma, per lo più. Perché. Quale contorto ragionamento ha portato alla scelta di Jack Napier come finta identità? È forse un parente? Un amico? Un tizio anonimo incontrato per caso in un luogo altrettanto anonimo?
O forse è un piano ben congeniato per prendersi gioco di noi?
 
Un nervoso pulsante si arrampica sui suoi organi interni e risale lungo le pareti della sua gola, trasformandosi in un ringhio profondo.
Tutta questa storia ha dell'incredibile e Edward non ne è affatto contento: sa per esperienza che l'incredibile non esiste. C'è sempre una spiegazione razionale a quello che succede nel mondo, un ragionamento logico che sbaraglia le stupide congetture di fede e lui non intende tirarsi indietro. L'ha detto anche a Vicki, quando lei ha suggerito che forse si trattava di una questione più grande di loro e che dovevano informare chi di dovere. Arkham in primis.
"Un po' di spirito d'indipendenza, Vicki", le ha risposto lui, "pensi che con tutto quello che succede in questa città, a qualcuno importerà di un ragazzino che gioca a Indovina Chi?"
L'ha convinta, alla fine e non ha nemmeno usufruito a pieno del suo charme.
 
Lo devi ammettere, Nygma: la ragazza è in gamba.
Ha un fastidioso – e morboso – senso di giustizia, ma Edward riconosce che è confortante poterle parlare senza palesare ovvietà inutili.
È l'unica persona che comprende il sottotesto dei tuoi discorsi – dei tuoi silenzi.
Una mente medio-alta. Merce rara, al momento.
 
Perché non la chiami?
 
Lo shampoo cola sulla mano e sul petto. Accarezza un'altra cicatrice sbiadita all'altezza dello sterno, un po' più piccola rispetto a quella sulla schiena ma più fredda e dolorosa, specialmente quando calano le temperature.
Edward Nashton insegue quei segni bianchi e ne ripercorre le memorie in un silenzio affollato di emozioni.
"Non mentire, Ed: io sono tuo padre e so quando menti. Non mentire, Ed: mi fai solo arrabbiare di più."
 
Rabbia.
Il sapore rugginoso è qualcosa che non si dimentica facilmente. Brucia come una ferita aperta, pulsante e viva, dà la spinta che serve per andare avanti e reagire.
Edward si chiede se anche Vicki ne conosca il retrogusto ispido. Se sappia cosa si prova. Se ne conosca rimedio.
E in quel momento, per un fugace e stupido istante, pensa che potrebbe farlo: chiamarla e chiederglielo. E magari parlarle di sé, del perché si sia arrabbiato tanto con la signora Napier e – perché no? – di tutto quello che non ha mai rivelato a nessuno.
 
Ma poi cambia idea.
Non è mai stato tipo da raccontare aneddoti privati della sua vita.
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
L'ala riservata al privée dell'Iceberg Lounge è una balconata circolare che si staglia lungo tutto il perimetro del locale e che comprende un immenso buco nel mezzo, esattamente sopra la pista da ballo.
Talia si specchia nella superficie riflettente che insegue tutto il muro e non è particolarmente soddisfatta di quello che vede. Non è sicura se si tratti di una distorsione ottica o dell'effettiva realtà, ma i suoi fianchi sono più gonfi rispetto al giorno prima. Sporgono dall'attillato vestito beige dandole una forma che non le piace per niente.
Si morde le labbra laccate di rossetto scuro e scompiglia di un poco i capelli lisci.
 
Nello specchio, un uomo rotondo infilato in una pelliccia si palesa dietro di lei.
Il cilindro nero poggiato elegantemente sul capo gli conferisce un'aria regale – ma incredibilmente sinistra.
 
"Spero che tutto sia di suo gradimento, signorina."
 
Talia si volta verso di lui; sfoggia un sorriso bianchissimo: "Come sempre, signor Cobblepot[2]."
 
Oswald Cobblepot allarga le labbra in un sorriso sgraziato, allunga le dita lungo la mano di Talia e la intrappola con un bacio.
Talia lo lascia fare, premurandosi di ignorare la sensazione di viscido che la pervade: con lui è sempre così. Ha fatto presente più volte a suo padre quanto detesti l'atteggiamento morboso del signor Cobblepot, ma non è mai servito: suo padre ha decretato che è necessario e quando lui decreta, non si transige.
 
"Se avesse bisogno di qualcosa, signorina Al Ghul, sarò subito da lei."
"Il suo locale non mi ha mai delusa."
 
Un guizzo di avarizia e orgoglio allarga gli occhietti neri del signor Cobblepot – Talia ignora anche quello, e con esso la certezza che quell'uomo abbia a cuore soltanto il suo potere.
 
"Buona serata, signorina Al Ghul."
"Buona serata a lei, signor Cobblepot."
 
Talia lo guarda imboccare le scale e, dopo un'ultima occhiata allo specchio, si poggia alle sbarre della balconata regalando un'attenta occhiata all'affollamento che si muove di sotto. Gli invitati stanno arrivando con una velocità che non si aspettava e non è particolarmente certa di voler cominciare questa serata. Le piacerebbe annullare tutto e tornare a casa. Non sa il motivo, ma ha una brutta sensazione: un formicolio che pizzica lungo la schiena e arriva fino al collo.
Che ti prende, Talia? Da quando ti fai scoraggiare da delle sciocche impressioni?
Si riscatta, smuovendo con un gesto secco del capo i capelli morbidi. Lei è Talia Al Ghul, accidenti, la ragazza più temuta e adorata di tutto l'Arkham High School. Lei vive per il palcoscenico e per i riflettori, ha una spiccata abilità nel mentire per ingraziarsi chiunque voglia – e altrettanta costanza nel punire chi osa sfidarla.
Questa festa è il suo marchio: il simbolo della sua supremazia incontrastata e sarebbe sciocco non godersela per futili pensieri.
Gli Al Ghul hanno una fama da preservare… giusto, padre?
 
Talia imbocca le scale, rinvigorita da una nuova euforia, mentre i tacchi a spillo ticchettano sul pavimento e la sua voglia di alcool e divertimento aumenta esponenzialmente.
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
"Sembri nervoso."
"Sono solo stanco."
"Sembri stancamente nervoso."
 
Bruce ha tutta l'intenzione di replicare ed è per questo che si volta verso di lei, ma gli occhi grandi di Selina spengono qualsiasi protesta.
Un colore enigmatico, quello dei suoi occhi: azzurro limpido quando è giorno e blu tenebra quando è notte. È camaleontico, esattamente come lei.
 
Selina gli regala un ghigno affilato – incredibilmente sexy: "È la mia presenza a farti questo effetto?"
"Sei troppo presuntuosa, Selina."
 
Ma hai ragione. Maledizione.
Se ci ripensa, Bruce ancora non riesce a crederci. Anonimato, segretezza, finzione. Caratteristiche necessarie di un patto stipulato in religioso silenzio, così forte e chiaro che non era mai stato necessario ribadirlo a voce alta. Nessuno dei due aveva interesse di romperlo – nessuno dei due se l'era mai sognato.
Invece lei l'ha chiamato questo pomeriggio. Un tono vanitoso e sprezzante.
 
"Le feste di Talia Al Ghul sono così noiose! Ti va di aiutare una ragazza in difficoltà?"
 
Così gli ha detto Selina e Bruce ha accettato. Senza pensarci, senza ragionare. Una proposta camuffata, quella di Selina: un invito implicito a stracciare quel patto e gettarlo tra le fiamme - una sollecitazione che lui ha accolto senza battere ciglio.
 
"Alle otto da te. Non farti aspettare, gatta."
"Una donna arriva sempre un po' in ritardo. Non te l'hanno detto, Bruce?"
 
Selina ha mantenuto la parola: sono stati i trenta minuti più lunghi della sua vita. Bruce li ha passati a cercare delle risposte a quesiti tanto complicati quanto irrisolvibili: cosa stava facendo, perché, cos'era cambiato, perché.
Eppure, quando Selina è comparsa sulla soglia, con quel vestito nero lucido e quegli occhi immensi, Bruce non ha trovato nessun motivo valido per rimangiarsi la parola. Le ha sorriso, le ha regalato un baciamano degno di Alfred e si è incamminato con lei sottobraccio.
 
Ora sono alla festa e Selina è ancora sottobraccio ma ha una stretta inesistente, come se temesse di fargli del male, come se temesse di darglifastidio. Bruce realizza questa verità e sorride leggermente, perché è particolarmente piacevole scoprire che Selina riesce a lasciarsi andare a sentimenti umani, ogni tanto.
 
"Come volevasi dimostrare," commenta lei, dopo aver lanciato uno sguardo al locale, "è tutto tremendamente noioso."
 
Bruce la imita e nota gli occhi guardinghi degli studenti dell'Arkham High School inchiodarsi alle loro figure. Sono sguardi sbigottiti, curiosi e indagatori, che strisciano verso di loro e rimbalzano indietro trasformandosi in mormorii malcelati.
Ha sempre odiato questi pettegolezzi. In situazioni analoghe solitamente fa di tutto per evitare le voci di corridoio, ma stasera qualcosa è cambiato.
Perché incredibilmente, in un modo che ancora non ha realizzato a pieno, stare accanto a Selina, davanti a tutti, è gradevole. Spassoso, anche.
Non gli importa di quello che pensano gli altri e questo senso di libertà gli solletica amabilmente il petto.
 
"Andiamo a prendere da bere?" domanda, i nervi rilassati come non mai.
 
Selina sorride e annuisce appena.
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
La serata non va.
 
"Vuoi ballare?"
"Non ne ho voglia."
 
La serata decisamente non va.
 
"Posso portarti qualcosa da bere?"
"Sono a posto così."
 
Sta sorridendo, usando modi gentili e atteggiamenti educati. Non ha tentato di imporle niente preferendo stimolare il suo spirito d'iniziativa, ma a nulla sono valsi i suoi tentativi e alla fine deve ammettere la sconfitta.
Harleen ha un problema. Forse più di un semplice problema. Un enorme, gigantesco, monolitico problema che soffoca la sua indole vivace. Jonathan ha lanciato una domanda velata per persuadere Harleen a vuotare il sacco sul suo profondo turbamento, ma l'unica cosa che ne ha ricavato è stata un paio di occhi lucidi talmente tristi da fargli passare qualsiasi vena indagatrice.
 
È stato dopo il secondo sospiro di Harleen che ha capito le intenzioni di Pamela: non si tratta di una ragazza priva di accompagnatore che ha bisogno di un cavaliere; è un'anima in pena che si dibatte tra il dolore e l'assenza, tra la malinconia e la solitudine.
Jonathan non ha mai provato simili emozioni, ma leggerle sul volto delle altre persone l'ha sempre trovato incredibilmente semplice. L'amore è un concetto complicato che indovina da lontano ma che non riesce a sperimentare a pieno.
Anche se stavolta si tratta di Harleen ed è tutto un altro effetto.
 
Si siede accanto a lei, mentre gli studenti si stringono sulla pista da ballo e sfoggiano le loro mosse migliori.
 
"I libri dicono che il dolore fa parte del gioco," dice.
Harleen alza appena il capo ma non lo gira – insegue con lo sguardo i movimenti sinuosi dei ballerini: "Non ho mai pensato fosse un gioco," risponde.
 
Jonathan non può fare a meno di guardarla, con gli occhi spenti e il volto marmoreo e capisce di aver fatto centro ancora una volta: il freddo che gli intorpidisce il torace non lascia spazio a dubbi.
Harleen… bellissima Harleen… è questo che ti logora?
 
"Implica delle regole," spiega lui, "delle difficoltà. Come in un gioco hai degli obiettivi da raggiungere e delle scelte da compiere."
Un sorriso amaro allarga appena le labbra di Harleen: "Parli come un esperto."
"Mi piace leggere."
 
Una canzone più ritmata della precedente s'impossessa delle casse e riempie il locale con un suono imponente, ma è come se lui e Harleen fossero separati da ciò che li circonda. Ci sono soltanto loro: lo sguardo serio di Jonathan, il mento all’insù di Harleen.
 
"A lui piace ridere," ammette lei infine e questo basta perché Jonathan avverta un altro pugno freddo – più gelido – impossessarsi del suo petto e abbassare di colpo la sua temperatura corporea. Il suo sesto senso è sempre stato infallibile, ma mai come in questo momento ha sperato di sbagliarsi.
Harleen… irraggiungibile Harleen… 
 
Sta per rispondere ma Harleen lo batte sul tempo: "Non sono sicura che sia giusto per me, comunque. Che sia sano."
 
Io potrei essere quello giusto, pensa Jonathan, però non ne è certo neanche lui.  Resta a fissarla con le labbra dischiude, osservando quei lineamenti che ricordava morbidi indurirsi fino a diventare di pietra.
È questa la tua paura, Harleen? La tua paura più grande?
 
"L'amore distruttivo non è mai durato," le risponde e per un attimo spera che Harleen sia d'accordo con lui, che lo guardi e sorrida in quel modo buffo per poi invitarlo a ballare fino a scordarsi del mondo.
E Harleen lo guarda, sì, ma è seria come non lo è mai stata: "Anche questo è scritto nei tuoi libri, Jonny?"
 
Adesso, pensa Jonathan, fissando le labbra carnose di lei. Fallo adesso prima che la paura ti blocchi.
Si avvicina piano piano, con gli occhi spalancati e la gola secca, ma quando sta per baciarla, Harleen si allontana leggermente e gli poggia una mano sul petto.
 
"Mi è venuta sete, Jonny. Vuoi ancora portarmi qualcosa da bere?"
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
Il drink è di un improbabile azzurro fosforescente.
Bruce non è certo di volerlo inghiottire quando Selina glielo porge.
 
"Un brindisi," propone.
Bruce fulmina un'altra volta il contenuto inattendibile del suo cocktail, poi si arrende e scuote la testa: "A che cosa brindiamo?"
 
Selina gli mostra una dentatura perfetta incorniciata da un velo di rossetto bordeaux; si avvicina al suo orecchio e schiocca le labbra: "A noi, principe. Ti viene in mente un motivo migliore?"
 
Bruce ruota lo sguardo e i due si ritrovano faccia a faccia. Sono vicinissimi, può avvertire l'alito fresco di Selina carezzare docilmente le sue labbra e i brividi che risalgono lungo la schiena sono la prova lampante che la situazione gli sta sfuggendo di mano. Dovrebbe agire, imporre dei paletti e mantenere le distanze. Invece le sfiora il naso con le labbra senza quasi rendersene conto.
Ho una disperata voglia di baciarti…
 
Rimangono in quella posizione per interminabili minuti, con la musica che culla le loro figure e la massa informe di persone che colora lo sfondo notturno di quel momento. Selina ha delle mani liscissime. Bruce non ha mai avuto modo di accorgersene, nello sgabuzzino – la fretta è bollente e il desiderio troppo impellente per soffermarsi sui dettagli; ora, però, esposti e visibili da chiunque, le dita sinuose di Selina sfiorano le sue braccia, strisciano sulla pelle fino a intrecciarsi nella sua mano. Bruce risponde alla stretta e in silenzio attende la sua prossima mossa.
 
Poi un passante inciampa nella sua spalla e la magia si spezza.
Selina si allontana di un poco e alza il bicchiere, ammiccando nella sua direzione e bevendo lentamente. Bruce sta per fare altrettanto quando una figura nella folla intercetta il suo sguardo e lo blocca a mezz'aria.
 
Talia.
 
Si sta lentamente avvicinando nella sua direzione e Bruce non è certo di volerla incontrare: Selina è accanto a lui e se Talia dovesse fare domande scomode lui non saprebbe come comportarsi. Sarebbe costretto ad affrontare la questione cruciale che ha rimandato per troppo tempo e lui ora non vuole rovinare la serata per colpa della sua sciocca indecisione.
Maledizione.
 
"Bruce," comincia Talia, una volta davanti a lui, "alla fine sei venuto."
"Mi sembra di ricordare che non avessi molta scelta," sogghigna lui, fingendosi calmo e sicuro di sé – gli è sempre riuscito bene, mentire.
 
Talia inchioda gli occhi pastosi nei suoi: "Ne sono felice."
 
Deve avere un debole per gli occhi, Bruce. Non c'è altra spiegazione. Finisce sempre per soccombere alla vista di quei pozzi profondi che danno libero accesso alla personalità nascosta di chi gli sta davanti – che si tratti di Selina, Talia o chiunque altro.
È innervosito da questa sua nuova debolezza e vorrebbe fare qualcosa a riguardo, però Selina sbuffa sonoramente e a quel punto Bruce realizza di essere in mezzo a due fuochi. Due fuochi roventi.
 
"La festeggiata non deve comparire soltanto a festa inoltrata?" domanda Selina, velenosa.
Talia la degna finalmente di attenzioni e ghigna: "Gli imbucati non devono aspettare che gli invitati siano ubriachi, prima di entrare?"
"Mi spiace deluderti, Al Ghul, ma ho un regolare invito."
"Sono sicura che ti sbagli, Kyle: ho cancellato io stessa il tuo nome dalla lista."
 
Selina sfoggia un sorriso sfrontato quando alza il mento e prende Bruce sottobraccio. Un campanellino d'allarme frulla nella testa del principe di Gotham, ma ormai è troppo tardi per evitare il disastro.
 
"Non te l'hanno detto, Al Ghul? Nessuna lista degli invitati per gli accompagnatori."
 
Boom. Bruce sente la bomba esplodere e le sue interiora maciullarsi e ridursi in poltiglia.
Si sente improvvisamente accaldato. La stanza è troppo stretta e necessita di una scusa convincente per allontanarsi il più possibile da qui ed evitare di affrontare le conseguenze.
 
Talia ha già voltato lo sguardo stupito verso di lui e questo a Bruce non piace per niente. Quegli occhi severi, affilati come lame, aspettano una giustificazione convincente e gli imperlano la fronte di sudore.
Non era così che doveva andare. Non aveva messo in conto che Selina avrebbe sfruttato la situazione per i suoi futili battibecchi con Talia. Odia essere il giocattolino di qualcuno e sopra ogni cosa odia la faccia mortificata che sta assumendo il volto appuntito di Talia. È delusa, spaesata e confusa. Bruce non lo sopporta.
Deve fare qualcosa. Non può lasciarla allontanarsi così, nonostante le emozioni forti che ha provato – che prova? – per Selina.
Perché in fin dei conti si tratta di Talia e pensare a quello che c'è stato fa ancora male.
 
"Un casuale incontro dell'ultimo momento," risponde, senza avere il coraggio di guardare in faccia Selina.
 
Avverte la stretta attorno al suo braccio irrigidirsi all'istante e staccarsi di colpo - il gelo che cala su di loro è così pesante che Bruce fatica a respirare. Ma è da Talia che non riesce a staccare lo sguardo: un lieve rossore le imporpora le guance ed è il solo dettaglio fuori posto nel suo volto marmoreo, apatico – consapevole.
 
È in questo momento che Bruce rimpiange di non essere rimasto rintanato a Villa Wayne, con Alfred davanti al camino e un libro tra le mani, perché sa di aver irrimediabilmente rovinato tutto. Con Talia, con Selina. Voleva tenerle entrambe ed è riuscito a demolire pezzo dopo pezzo tutto quello che desiderava davvero. Talia, Selina. Due splendide aguzzine che logorano il suo cuore, lo stringono fino a farlo sanguinare e lo torturano con rare carezze e sussurri suadenti. Talia e Selina. Così simili eppure profondamente diverse, entrambe mascherate di una fierezza inarrestabile che nasconde un'anima intrecciata di emozioni e viva, piena di sfaccettature e lati nascosti – piena di una malinconica bellezza, la più avvenente di tutte. 
 
"Non pensavo che condividessimo il gigolo, Al Ghul," la voce di Selina è un sibilo rovente privo di scrupoli, "te lo lascio, se vuoi. C'è di meglio, in giro. Sempre che tu accetti la merce usata."
 
Bruce accusa gli insulti senza ribattere e la guarda allontanarsi incapace di fermarla. La sagoma di Selina si confonde tra la folla ma è ben definita nella sua mente: abito sinuoso, curve sensuali, labbra carnose e occhi blu notte.
Selina, dalla risposta sempre pronta. Un fiume in piena che incassa i colpi in silenzio, si rinvigorisce dopo ogni sconfitta e avanza imperterrita a testa alta – l'orgoglio sempre più gonfio, il cuore sempre più vuoto.
Bruce lo sa, ha potuto toccare con mano la dolcezza fermamente imprigionata di Selina; ricorda le parole di conforto e l'abbraccio il calore.
 
"Sistemeremo tutto, Bruce. Tutto quanto."
 
Forse era stato quello, il momento in cui tutto era cambiato. Un piccolo gesto che celava un radicale cambiamento. Lui non è riuscito a capacitarsene fino a questo momento, probabilmente terrorizzato dall'idea di potersi legare ancora a qualcuno. Però Selina ha abbattuto il muro e la domanda ora è cosa deve fare Bruce in merito.
 
"Perché non la segui?" domanda Talia, fissandolo dritto in volto. C'è un mondo in quello sguardo, questa volta lei non si premura di nasconderlo.
Provi qualcosa per lei? Urlano i suoi occhi, grondanti di dolore.
 
Provi qualcosa per lei?!
 
"Non lo so…" ammette Bruce, perché è sciocco continuare a fingere, ormai: bisogna gettare le maschere. Talia l'ha fatto, il minimo che Bruce possa fare è imitarla.
E Selina…
 
"Sistemeremo tutto, Bruce. Tutto quanto."
 
Selina l'ha gettata via da tanto tempo, ormai.
 

 
∞∞∞
 
 
 
"PAPÀ!"
 
Pamela si fionda nella stanza; ha il fiato corto, il cuore che martella nel petto ad una velocità esorbitante e la testa in completo black out: è soltanto il rosso calore delle fiamme a mantenerla vigile.
 
"PAPÀ?!" Squarcia il fumo, il suo grido, mentre il fuoco divora ogni cosa e Pamela deve farsi largo tra la confusione, animata dalla cruda disperazione che le attanaglia le viscere con denti affilati.
 
Perché…? Si chiede, alcune lacrime scivolano lungo le guance annerite ma evaporano prima di toccare terra.
Cosa diavolo è successo?!
 
Avverte un colpo di tosse provenire dal retro della scrivania carbonizzata e senza pensarci si affretta a rimuovere ciò che resta del tavolo in legno; un dolore ardente striscia lungo il suo braccio destro e sui polpastrelli di entrambe le mani, ma Pamela lo ignora perché sotto le macerie, sporco e ferito, c'è il corpo supino di suo padre.
 
"Papà!" Chiama di nuovo, scuotendogli le spalle con una forza incontrollata.
 
Svegliati… non puoi essere… non puoi… essere…
 
Un altro colpo di tosse scuote il corpo di suo padre e a Pamela sembra il suono più bello che abbia mai sentito.
 
"… Pammy… " mugugna il signor Isley, aprendo gli occhi appena. Pamela si lascia sfuggire un sospiro di sollievo seguito da un singhiozzo.
 
"C-credevo che fossi— "
"Perché sei venuta, Pamela?"
 
Cosa?
 
Pamela nota in quel momento lo sguardo stralunato di suo padre e una bruttissima sensazione le piomba addosso, freddandola sul posto.
 
"Papà," risponde, ignorando ciò che sente, "il messaggio diceva che era importante… "
Il signor Isley la spinge all'indietro, una smorfia di dolore gli sfigura il volto ma è presto sostituita da occhi glaciali.
"Pamela," voce profonda, seria, spaventata, "scappa lontano e non guardarti indietro."
Ma perché?
 
Dall'altro lato della stanza, una risata profonda tronca sul nascere le sue proteste. Un uomo di mezza età, con mossi capelli corvini difettati da due ciuffi bianchi ai lati della nuca, sorride sornione vicino alle fiamme. Quando solleva le mani per applaudire, Pamela nota la pistola. Le si secca la saliva in gola.
 
"Interpretazione commovente, Richard, dico davvero."
 
Il signor Isley ringhia, poi tossisce, poi si schiarisce la gola – quando parla, la sua voce è comunque gracchiata. "L'hai portata qui, dannato bastardo."
"Beccato, " ribatte l'altro e scoppia a ridere.
 
Pamela osserva quell'uomo alto e scheletrico avanzare verso di loro. Le fiamme tutt'intorno si gonfiano sempre di più, ma lei ha l'allarmante sensazione che non siano loro, il vero pericolo.
 
"Sai," l'uomo s'inginocchia accanto a loro, la pistola bene in vista e gli occhi che brillano dietro la montatura trasparente degli occhiali. "Tua figlia è davvero splendida. Tutto merito della madre, vero?"
 
La canna della pistola le sfiora la fronte imperlata di sudore e scende lungo la guancia; Pamela trattiene il respiro, le lacrime e un grido.
 
"Non toccarla, Woodrue[2]," sibila il signor Isley, tentando di mettersi seduto ma cadendo rovinosamente a terra subito dopo, con le mani premute contro il ventre. A Pamela cade lo sguardo sul suo camice e nota una grande chiazza scura che le fa sbarrare gli occhi.
La tensione le attanaglia la gola, la paura la tiene ancorata al pavimento e quella dannata pistola, una scia rovente sulla sua pelle tiepida, accresce il disgusto e la disperazione.
 
"Non torcerò un capello a tua figlia, Richard," risponde Jason Woondrue, ignorando le fiamme sempre più vicine, "se mi darai quello che voglio."
 
Pamela ha la sensazione di essere estraniata dalla situazione, di osservare gli eventi da lontano come uno spettatore. Si chiede, in un anfratto della sua mente, come stia andando la festa e come se la stia spassando Harleen. Jonathan Crane avrà mantenuto la parola?
Suo padre tossisce più forte e lei ripiomba nella realtà. Non si è accorta di aver versato una lacrima e di avere gli occhi lucidi.
 
"Il siero non è completo. Nessuno potrebbe sopportarne gli effetti."
 
Jason Woodrue ride. Pamela lo osserva, gli occhi sbarrati dallo stupore e il cuore incatenato al pavimento da una paura crescente che non riesce a placare. Il suo aguzzino porta la mano libera alle labbra, ruota la testa all'indietro e sbraita di nuovo; è una risata isterica, la sua, come se avesse completamente perso la ragione.
Forse non l’ha mai avuta.
 
"Sai qual è sempre stato il tuo problema, Richard? La scarsa fiducia nell'uomo e nel progresso." La pistola le accarezza i capelli e gli zigomi. Il tono di voce del dottor Woodrue muta all'improvviso: si fa grave e minaccioso. "Ora, se non ti dispiace: il siero. O tua figlia ne pagherà le conseguenze."
 
E Pamela a quel punto si volta verso suo padre e imputa gli occhi nei suoi. Non nasconde il suo terrore, né tenta di mostrarsi forte: non è abituata a situazioni del genere, non è mai stata preparata per questo. Si trattava di semplici esperimenti in laboratorio, giusto? Di formule chimiche e sogni inseguiti. Non si era mai parlato di pistole e fiamme e sangue. Di rischi e pericolo.
Per questo Pamela guarda suo padre e si aspetta che tiri fuori dal cilindro qualsiasi cosa voglia il dannato pazzo; perché Pamela, nonostante tutto, vuole disperatamente vivere.
 
Il signor Isley ricambia il suo sguardo; un rivolo di sangue sboccia dalle sue labbra – Pamela singhiozza a quella vista – ma poi il signor Isley le sorride e per un momento tutto ciò che c'è attorno a loro scompare.
Andrà tutto bene, Pammy Pammy, sembrano dire i suoi occhi e Pamela vuole crederci. Gli sorride di rimando, quando suo padre porta lentamente una mano al camicie logoro ed estrae dalla tasca una fiala di liquido verde acceso.
Non fa in tempo a sollevare il braccio che Jason Woodrue gli strappa l'ampolla dalle mani e la solleva verso l'alto, il volto estasiato di un bambino con il giocattolo di Natale.
 
"Una consistenza e un colore perfetti," commenta, ammirato, "Sei sempre stato migliore di me, Richard. "
Il signor Isley non cede alla provocazione e tossisce di nuovo: "Hai avuto quello che volevi. Ora lasciaci andare."
 
Il fuoco ha ormai raggiunto la scrivania e Pamela può già sentirne l'ardente calore appiccicarsi alla pelle e divorarne la carne.
Vuole uscire da lì. Subito.
Jason Woodrue si desta dal suo sogno ad occhi aperti e punta la pistola contro il signor Isley. Gli occhi brillanti nascondono una follia che Pamela smaschera immediatamente.
Il panico l'assale.
 
"Oh, Richard," tono canzonario, "sempre così precipitoso."
 
Afferra bruscamente Pamela per un braccio e la costringe ad alzarsi, arpionandole poi il collo con il braccio disarmato e puntandole la pistola alla tempia. Suo padre sbarra gli occhi, tende il braccio e fa uno scatto verso di lei, ma la ferita che ha al petto è grande e sanguina copiosamente.
Non può fare altro che crollare sul pavimento sporco, pallido e rabbioso.
Il fuoco è vicinissimo alle loro figure. Le fiamme sono gigantesche lingue roventi che masticano ciò che hanno attorno e rigurgitano fuliggine e cenere.
Pamela le osserva, gli occhi gonfi dal pianto e le labbra morsicate dall'ansia e pensa che potrebbe morire in due modi: con un colpo sparato a bruciapelo alla tempia, o arsa in quest'ufficio – in questo laboratorio, il suo stesso regno.
 
Poi Jason Woodrue le afferra la bocca, le spalanca le labbra con le dita e la obbliga nella sua direzione.
 
"Testiamo il frutto del tuo lavoro."
 
Il tempo è scandito soltanto dal denso liquido verde che cola lento lungo la fiala di vetro e precipita sulla sua lingua. Pamela cerca di opporre resistenza, si dibatte con le mani e con le gambe, avverte l'urlo nero di suo padre e il calore delle fiamme che arde come l’inferno.
Ma, nel momento stesso in cui inghiotte il contenuto del siero e lo sente scivolare giù per la gola, l'inferno si scatena dentro, nelle sue viscere; come acido, quell’intruglio corrode i suoi organi. Pamela si accartoccia su se stessa, tenta di placare quel supplizio ma non riesce a muoversi, non riesce a gridare, non riesce a piangere. L’unica cosa che può fare è pregare con tutta se stessa che la pistola spari un colpo e ponga fine a quel tremendo dolore.
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
L'inesistente essenza del nulla danza attorno a lei, dissolve i suoni e diventa sorda, la prende per le braccia e la ingloba nell'insensibilità stessa della negazione.
Harleen ha gli occhi vuoti. Le lacrime non rispondono al suo dolore perché si sente persa, inconsistente, uno specchio rotto che non riflette alcuna immagine – e un corpo che non esiste, non può avere nessuna volontà.
 
"Perché hai cambiato idea?" domanda Jonathan, dietro di lei. Ha la cravatta allentata e i capelli scompigliati. Il volto arrossato spicca anche nella semioscurità della pista da ballo, ma Harleen volta la testa dall'altro lato e non fa commenti in merito.
 
"Perché mi andava," è la risposta apatica, ma la verità è che cerca di trovare un modo per fermare i pensieri, per barricare le emozioni fuori dal suo cuore e tornare ad essere la ragazza che è sempre stata.
"Vai e divertiti," le ha detto Pam. "Sarà la grande serata del tuo nuovo inizio."
Ma Pamela non c'è e lei non si sente grande, non si sente nuova. La malinconia le attanaglia lo stomaco, i polmoni, la gola. Le viene voglia di cacciare un urlo e con quello spaccare le vetrate dell'Iceberg Lounge, ma la forza viene meno e alla fine Harleen rinuncia.
Perché la vita di prima non basta più ora che ho conosciuto te.
 
No, non può permettersi certi pensieri. Vuoto, vuoto nella mente e nel suo cuore. Deve focalizzarsi su Jonny e sui suoi movimenti impacciati, senza paragonare braccia, busto, occhi e labbra a…
 
"Fanculo," sbotta infine, enfatizzando il suo ballo. Le braccia si alzano, si abbassano, le ginocchia si piegano e il sedere va avanti e indietro, a ritmo di una musica che Harleen non sente. È il ballo dell'assenza, quello che mima fino allo sfinimento.
Spesso le picchiano contro – la pista è talmente piccola – ma lei non protesta e si lascia guidare da quei corpi sconosciuti.
Perché, pensa, così è più facile immaginarmi che ci sia tu, tra la folla.
 
Di nuovo questi pensieri dolorosi. Forse ha bisogno di un altro drink, un super alcolico rincarato con vodka extra. O una canna particolarmente carica. È convinta che Jonny non abbia buttata via tutta l'erba, nonostante i problemi che ha avuto l'anno scorso.
Chissà se anche tu ha bisogno di dimenticare, Mr J… dimenticare me…
 
Qualcuno sbatte contro di lei con più forza del normale. Harleen barcolla in avanti, mette un piede in fallo e quasi cade rovinosamente sulla pista da ballo. Questa volta, malinconia o no, si arrabbia davvero. Si volta verso l'artefice del misfatto, gli occhi dei dardi infuocati che sprizzano scintille, ma quando cerca d'individuare la sua vittima non trova nessuno. Davanti a lei, solo un ammasso di corpi sudati che si scuotono e si strusciano. Harleen si prende del tempo per guardare come mani, braccia e bacini si sfiorino l'un l'altro e le viene un singhiozzo al cuore.
Perché… perché fai così male?
 
Senza preavviso, una mano da dietro le corre lungo il braccio.
La parte razionale di Harleen suggerisce che possa trattarsi di Jonny, che abbia accantonato le sue insicurezze per provarci definitivamente con lei; ma il suo cuore smentisce con sicurezza quest'ipotesi e si gonfia di qualcosa di caldo e liquido. Un tepore che trabocca e scorre giù per il corpo, nei polmoni, nel fegato, nell'intestino, fino ad arrivare alla punta dei piedi.
E così, nella folla concitata che ora cala in un silenzio ancora più assoluto, Harleen spalanca gli occhi senza avere il coraggio di voltarsi.
 
Sorride.
 
"Sei fuori tempo, Harley."
 
Una considerazione tanto banale quanto meravigliosa. Un tono indifferente, divertito e insolente, coronato da un nomignolo che suona quasi come un oltraggio, ma che Harley trova sublime.
La mano di lui è sul suo collo, ora. Harley vuole che sia lui a dirigere il gioco, vuole subire il suo volere, così asseconda il suo movimento e alza il mento, incappando nel suo petto. In mezzo secondo, l'odore di temporale le invade le narici e lei chiude gli occhi, frastornata da miriadi di emozioni che le troncano il respiro.
L'altra mano di Mr J va a stringersi sul fianco.
 
"E poi," continua lui, le cicatrici rosse vicino all'orecchio, "queste canzoni non sono un granché. Devi davvero migliorare i tuoi gusti, bambolina."
 
Harley ride. Mr J sa essere docile, quando vuole. Sa dosare la forza della sua stretta e bearla con carezze leggere; sa sdrammatizzare una situazione terribile; sa riempire il vuoto che sente dentro.
 
"Perché sei sparito?" Domanda Harley a fior di labbra. Vorrebbe allungare le mani e allacciarle dietro la sua testa, ma sa che Mr J odia quando prende iniziative – a meno che non sia lui stesso a richiederle. Sa interpretare i suoi gesti e le sue intenzioni, adesso, e rendersene conto la riempie d'orgoglio.
È la prova che sono fatta apposta per te… come tu sei fatto apposta per me…
La voce rigida e rassicurante di Pamela quasi non la sente più.
 
Mr J fa scivolare la mano dal fianco alla coscia di Harley e soffia sul suo collo un risolino.
"Hai sentito la mia mancanza?" ribatte, nella voce un sarcasmo macchiato d'irritazione.
 
Immensamente, vorrebbe rispondere Harley. Sono quasi impazzita, vorrebbe rimarcare Harley. Ma quell'insinuazione le fa spalancare gli occhi, anche se il corpo scotta sotto al tocco di Mr J, affolla la mente di pensieri caotici e la lascia in balia di sporchi desideri.
Alla fine, si stacca quel tanto che basta per voltarsi verso di lui, per fissarlo negli occhi – quegli incredibili occhi verdi – e riprendere a pensare con una parvenza di lucidità. La pista attorno a loro continua a muoversi.
 
"Io ti ho aspettato," precisa e un fastidioso prurito va a pungerle gli occhi. Con tutto il tempo che ha avuto per piangere, proprio ora ci riesce. Ora che non può permetterselo: Mr J è lì davanti a lei e Dio solo sa cosa potrebbe fare se lei crollasse adesso.
Mr J arriccia il naso e inarca le sopracciglia: "E il tuo amico Jonny lo sa? Dovresti avvertirlo di questa tua fedeltà incondizionata."
 
Oh.
All'improvviso nella mente di Harley è tutto più chiaro. Nonostante il disinteresse che traspare dalla voce pacata di Mr J, Harley ha capito cosa si cela sotto. E si sente irrimediabilmente in colpa, per questo.
 
"Jonathan è solo un amico…"
"Ne sarà deluso."
"Mi dispiace, Mr J."
"Non ne vedo il motivo, Harley."
 
Oh sì, sì che lo vedi. Ed è incredibilmente romantico da parte tua, pasticcino.
 
Harley si getta su di lui e s'impossessa delle sue labbra. Sa che è un errore imperdonabile e che Mr J gliela farà pagare cara, ma ora ha bisogno di lui, del suo sapore e del suo calore, perché la gioia che sente nel percepire la sua possessività le sta facendo esplodere il cuore.
Voglio che sia sempre così. Sempre tu e io, sempre dei significati nascosti da portare alla luce, sempre delle parole che nascondono altre parole, sempre noi. 
E accada quel che accada. 
Mr J risponde al bacio per qualche secondo e poi la spinge via, brutale e dominante. Le stringe il collo – tanto, troppo; Harley quasi si piega per il dolore, ma stringe i denti e non replica perché è consapevole che questa sia la punizione per un gesto tanto avventato.
Ma ce ne saranno altri, pasticcino… ce ne saranno altri.
La folla attorno a loro non si è accorta di nulla e Harley ne è felice.
 
Al contrario, Mr J è arrabbiato quando la strattona: "Pensi di avere qualche privilegio, stupida ragazzina? Credi di essere, in qualche modo, importanteper me?"
 
Sì e il modo in cui ti arrabbi ne è la prova, sta quasi per rispondergli, ma decide di giocare d'astuzia, di rispettare le regole che lui le ha imposto e di scommettere il tutto per tutto.
"Come in un gioco, hai delle scelte da compiere e degli obiettivi da raggiungere."
Harley ha appena deciso che, ora e per sempre, Mr J sarà la sua sola scelta e il suo unico obiettivo.
 
"Certo che no," risponde, lo sguardo docile e un sorriso accennato, "ma tu sei importante per me e sono pronta a dimostrartelo in ogni modo."
 
Attimi di silenzio sono scanditi soltanto dagli invitati immersi nella pista da ballo. Alcune braccia s'infilano tra le figure immobili di Harley e Mr J, frullano in aria e poi scompaiono nei meandri di gambe, teste e vestiti.
Harley e Mr J si guardano senza parlare e c'è tanto in quello scambio di espressioni: intenti, richieste, accettazioni. Harley è serena come non lo è mai stata, ma l'idea di sentirsi in colpa per questo non la sfiora neppure. Pamela dovrà farsene una ragione, perché Mr J è la sua costante, d'ora in poi. Dovunque la porterà. Qualsiasi saranno le conseguenze.
 
Mr J lascia la presa sul suo collo, ruota la testa di lato e le concede un sorriso, un sorriso bellissimo che sbaraglia ogni screzio precedente.
Harley è convinta che prima o poi scoppierà a ridere, e quando poi effettivamente Mr J ridacchia, le s'illuminano gli occhi.
 
"Vieni, bambolina," esulta Mr J, afferrandola per mano, "andiamo ad animare questa serata."
 
Harley annuisce e improvvisamente si ricorda il sapore della vita.
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
Harvey non regge l'alcool. Rachel se n'è accorta dopo i primi due shot. Mentre lei li ha scolati senza risentirne particolarmente, le guance di Harvey si sono infiammate di botto e i suoi occhi sono diventati lucidi.
"Andiamo a ballare", le ha detto.
Così sono andati a ballare.
 
Rachel ancora ride se pensa a tutte le posizioni buffe di cui Harvey ha fatto sfoggio. Ne è sorpresa: Harvey da ubriaco è davvero divertente – al limite del ridicolo, certo, ma quel ridicolo che non mette in imbarazzo, che crea una bella atmosfera.
Le ha ripetuto infinite volte che è bellissima, stasera e che è contento di averla con lui, per poi mettersi a gridare che Rachel è la sua ragazza e che tutti devono esserne invidiosi. Alla fine è inciampato sui suoi passi, è caduto a terra con il sedere ed è scoppiato a ridere.
"Come ci sono finito qui?" ha chiesto. Allora si è voltato verso Rachel, paonazza dalle risate, e l'ha trascinata giù insieme a lui.
Rachel ricorda di non aver mai riso tanto in tutta la sua vita.
 
Adesso, Harvey è seduto sul divanetto del piano superiore. Si sono rifugiati lì dopo un'esplorazione infantile e Rachel è convinta che un momento di pausa possa servire ad Harvey per riprendere un leggero controllo di sé.
Inoltre, lei ha il bisogno urgente del bagno.
 
S'intromette tra la folla, si fa largo con le braccia e raggiunge il corridoio che porta ai servizi. La musica si attutisce quel tanto che basta per permetterle di avvertire un ronzio fastidioso forarle le orecchie. Si porta una mano alla fronte, sistema i capelli scompigliati e individua la porta delle toilette femminili. Sta per varcare la soglia quando un lamento trattenuto, simile a un singhiozzo strozzato, attira la sua attenzione.
Proviene da una porta socchiusa accanto a lei.
Ma che cosa… ?
 
Con un po' di titubanza, Rachel si avvicina a quel suono e spinge di poco la porta.
Le pareti bianche della stanza sono contornate da acquari di diverse dimensioni, tutti abitati da pesci di specie differenti. Al centro, invece, troneggia un tavolo di marmo intagliato da venature grigiastre. Bottiglie e bicchieri vuoti giacciono alla rinfusa sulla superficie liscia, bagnata in alcuni punti.
E, contro il tavolo, seduta su una sedia bianca con il bicchiere in una mano e una bottiglia di vino rosso nell'altra, c'è la figura magrissima di Talia Al Ghul. Il trucco sbavato le arriva ormai agli zigomi e, occasionalmente, dai suoi occhi gonfi sfugge qualche lacrima che si schianta contro il tavolo.
Un altro singhiozzo fende l'aria.
 
Rachel smette per un istante di respirare. Strabuzza gli occhi, incapace di credere a ciò che vede, ma per quanto sbatta le palpebre l'immagine che ha davanti è sempre uguale: Talia Al Ghul, la fiera reginetta della scuola, ricca da fare invidia e bella da togliere il fiato, così popolare e intelligente da non avere alcun problema al mondo, è rintanata in questa stanza sconosciuta, sola e disperata.
Ubriaca, aggiunge Rachel alla lista, osservandola mentre tenta di versarsi del vino nel bicchiere e sbaglia la mira più volte prima di riuscirci.
 
Combattuta tra intervenire e disinteressarsene, Rachel è quasi decisa ad andarsene quando la voce malferma di Talia la blocca. È sicura di sé, nonostante tutto. 

"Sei qui per goderti lo spettacolo?"
 
Rachel a questo punto accantona l'idea di svignarsela e attraversa la porta. Si ferma in piedi all'altro lato del tavolo, immobile come una statua e tesa come le corde di un violino. "Non era mia intenzione venire a curiosare."

"Ti sei imbucata alla mia festa."
"Sono un'accompagnatrice."
"Già, queste maledette accompagnatrici…"
 
Si dà della stupida, Rachel, perché è sciocca la premura che le riserva visto che Talia le ha da sempre rovinato l'esistenza.
Ma forse è lo sguardo perso che Talia le rivolge a troncare qualsiasi sete di vendetta; con quegli occhi pieni, con quegli occhi tristi, come potrebbe infierire su di lei? Come potrebbe peggiorarle le cose?
 
"Comunque," Talia alza il bicchiere colmo e se lo porta alle labbra. "Non ti biasimerei, se lo facessi: non sono mai stata premurosa nei tuoi confronti."
 
Infatti. Potrebbe essere il momento buono per rinfacciarti tutte le cose orribili che mi ha fatto e magari scoprire se riesci a sentirti in colpa.
Rachel però si risponde di nuovo che non può farlo: Talia ha qualcosa che non va. Non è vitale, non è arrogante e fiera come sempre. È… spenta. Nel suo sguardo manca qualcosa, come se si fosse spezzata e avesse perso un pezzo da qualche parte.
 
"Se tu sei stata una stronza non vuol dire che debba esserlo anche io," ribatte Rachel con meno astio di quanto vorrebbe.
 
Talia alza lo sguardo affilato su di lei. Le regala un sorrisetto compiaciuto e Rachel ne resta stupida perché è la prima volta, in tutti questi anni, che Talia la tratta come una complice. Come una delle sue amichette.
Che non sono qui, ora che ne hai bisogno…
 
Rachel realizza questa verità e avverte una stretta al cuore; e le sembra di capirla un po' di più, quella ragazza dal cuore di ghiaccio, che si è circondata di false amicizie e false attenzioni – chissà per quale ragione. Talia è sempre stata sveglia, troppo sveglia per non capire al volo la natura delle persone.
 
"Mio padre non sarebbe d'accordo," mormora Talia, poggiando sul tavolo il bicchiere vuoto. Si appresta subito a riempirlo e Rachel in quel momento nota un bel livido violaceo proprio sotto la spalla. Sbuca leggermente dal vestito firmato ma è abbastanza per farle capire che non si tratta di una botta accidentale.
 
Si maschera dietro il silenzio, incapace di trovare le parole giuste per dire qualunque cosa.
Dovresti andartene, Rachel… lasciarla sola e tornare da Harvey…
Certo, dovrebbe farlo, ma non può. Perché c'è qualcosa nei movimenti sconnessi di Talia e nella sua espressione infelice che la ancora al pavimento.
E Rachel è convinta che, se aspetta un altro po', riuscirà a scoprire di che cosa si tratta.
 
Poi Talia afferra un bicchiere vuoto dal tavolo, lo raddrizza e fa un cenno a Rachel, con la bottiglia alla mano: "Ne vuoi un sorso?"
 
NoQuesto è impossibile.
Rachel annuisce lentamente e senza rendersene conto è già accanto a lei e sta scolando il primo bicchiere.
 
"Ti si vede l'occhio nero, " commenta Talia, asciutta.
"E i tuoi fianchi sono più gonfi del solito, " ribatte Rachel, con la stessa intonazione.
 
Si scolano un altro bicchiere, poi un altro e un altro ancora.
 
Talia non è male, quando è ubriaca: non sibila insulti velenosi e non alza le mani. Piuttosto, si concentra sul suo bicchiere e singhiozza ogni tanto. Ogni tanto una lacrima scivola giù e ogni tanto lei tira su col naso.
Ogni tanto – se ne ha voglia – si pulisce la faccia con una mano e versa il vino anche nel bicchiere di Rachel.
 
Rachel beve – Rachel aspetta: un fiume sconclusionato di parole che riportino la verità per quella che è, senza abbellimenti o libere interpretazioni dettate dalla ragione.
In vino veritas, pensa, e speriamo che sia davvero così.
 
Alla fine, dopo quasi una bottiglia e mezza, Talia rompe il silenzio.
Sta fissando il bicchiere pieno con innato interesse; ha il capo così chino che Rachel non riesce a guardarla in faccia.
 
"Si è innamorato di un'altra."
 
Chi?
Rachel deglutisce ma non dice nulla.
 
"E io che pensavo ci saremmo amati per sempre."
 
Un altro singhiozzo e Talia alza finalmente il viso verso di lei. Le lacrime questa volta sono tante, scendono copiose lungo le guance trascinandosi dietro il trucco e la disperazione. Gli occhi di Talia sono gonfi e rossissimi; ha i capelli arruffati e le labbra incrinate in un sorriso forzato. Le trema il labbro superiore.
 
"Che stupida, eh?"
 
Rachel avverte un tuffo al cuore. Talia è fiera, è orgogliosa e forte, ma non quella che ha davanti a sé. La Talia di adesso è irrimediabilmente spezzata, ha il cuore ridotto a brandelli e un tremendo dolore che l'abbraccia senza lasciarla andare. E anche se prova a resistere, con quel sorriso impotente che le fende la bocca, non può ingannare nessuno.
Talia soffre, una sofferenza acuta e silenziosa, spietata e atroce, continua e insopportabile.
Disumana, pensa Rachel. Ma la verità è che quel dolore è fin troppo umano ed è per questo che è così straziante.
 
"Dicono che il primo amore non si scorda più," risponde alla fine, dopo un lungo e lento sospiro.
Il suo tono è rispettoso, come quello che si usa quando muore qualcuno.
E non è un po' un funerale, questo? Non si tratta sempre di una perdita?
 
Rachel pensa ad Harvey, a quello che prova per lui e a quello che possono ancora costruire insieme e si sente in colpa: "Ma dicono anche che il primo amore finisce per tutti," aggiunge. "Che è destinato a finire e che serve per crescere."
 
Talia non risponde subito. La guarda seria, china la testa di lato, poi si rigira e scola un altro bicchiere: "Dicono un sacco di stronzate," risponde.
"È vero," concorda Rachel.
 
Il silenzio cala tra di loro ancora una volta. Non si guardano in faccia, le due ragazze, ma poi la tensione si smorza ed entrambe, quasi nello stesso momento, cominciano a ridacchiare e poi scoppiano a ridere.
Rachel pensa che quella serata sia così strana – di una strana bellezza – che se la ricorderà per tutta la vita. Perché ridere insieme a Talia è imbarazzante ma liberatorio, quasi come quando ride con Harvey.
 
"Sei proprio uno schifo quando si tratta di consolare la gente, Rachel Down."
 
Ridono di nuovo, fino alle lacrime, fino a quando non hanno i crampi alla pancia e i polmoni svuotati.
Poi la seconda bottiglia finisce e Rachel capisce che è ora di tornare da Harvey.
 
Si alza, si sistema l'abito e si avvia verso la porta, senza il bisogno di dare spiegazioni. Semplicemente, il momento magico e surreale nel quale Talia Al Ghul e Rachel Dawes si comportano come conoscenti – come amiche – si è concluso. Ora bisogna tornare alla vita di sempre, di bullette e bullizzate.
 
Ma, sulla porta, Talia la blocca. La voce impastata è calma: "Sappiamo entrambe che non cambierà niente tra noi; ma, per quello che vale, mi dispiace."
 
Rachel si blocca sulla soglia, assimila quelle parole con tutto il corpo teso. Esce dalla stanza, nell'ombra accenna un sorriso sincero e si richiude la porta alle spalle.
Già… dispiace anche a me.
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
Jonathan li sta guardando.
Un connubio di risate dal nesso inafferrabile.
Jonathan li sta guardando e non riesce a vedere nient'altro.
Lei è così… raggiante. Un'anima rinata; una stella sfavillante che zampilla vita.
 
Quella è Harleen Quinzel, la vera Harleen Quinzel; quella che zampetta in cima alle scale ed è eterea e irraggiungibile – e non la carcassa vuota che si è trascinato appresso per tutta la sera.
Jonathan non può fare a meno di contemplarla dal basso, mentre Harleen vortica su se stessa come una fata e ricade docile tra le braccia del suo accompagnatore.
Il suo accompagnatore. Un essere bizzarro che non è riuscito a inquadrare appieno. Non riesce a leggerlo, il ragazzo con le cicatrici. Non riesce acapirlo. Ha osservato più volte i suoi atteggiamenti durante le lezioni, ha intuito la sua natura stravagante ma non è mai arrivato a niente di più: solo supposizioni e indizi sconclusionati.
Che niente sembra preoccuparlo, ecco che cosa ha capito.  E che trova divertenti anche le questioni più singolari.
"A lui piace ridere"… Jonathan avrebbe dovuto capirlo prima. Che sciocco, è stato: con Harleen, non poteva essere diversamente.
Un ragazzo strampalato per una ragazza imprevedibile.
È nel suo stile, dopotutto.
Però, è così felice…
 
Harleen non ha smesso di splendere. A volte il suo volto si rabbuia in una smorfia ma i suoi occhi restano luccicanti, orgogliosi della propria gioia e così nessuno crede alle sue smorfie, né Jonathan né tanto meno il ragazzo con le cicatrici.
Un legame di dominio e asservimento, il loro; di imposizione e ubbidienza. Un gioco: un perenne scherzo in continua evoluzione.
 
Jonathan poggia la schiena contro il bancone del bar e resta ad osservarli.
Il ragazzo è schifosamente sicuro di sé. Sa esattamente dove mettere le mani e cosa dirle, perché Harleen ridacchia ogni volta che lui si avvicina al suo orecchio e poi gli scocca un bacio. Lui non sempre risponde.
E sei un dannato sciocco a non farlo.
Jonathan non aveva mai provato l'ebrezza della gelosia, ma se dovesse descriverla sarebbe come una migliore amica che spettegola al suo orecchio le peggiori cattiverie pregne di veleno.
È sgraziato, non ha un briciolo di tatto e quelle cicatrici danno il voltastomaco.
 
Jonathan trangugia il suo drink e anche quello che ha preso per Harleen – non che gliel'avesse chiesto, ma Jonathan non riusciva più a restare intrappolato in quella prigione di braccia e sudore; così alla fine era sgattaiolato fuori dalla pista da ballo e si era inventato questa scusa per non sentirsi in colpa.
Beh, pensa, senza staccare gli occhi di dosso dalle due figure, non credo che lei se la prenderà, adesso.
Digrigna i denti e gli rode lo stomaco al pensiero che Harleen non è mai stata felice come in questo momento.
 
Ma poi la presa del ragazzo attorno alle sue braccia esili si fa più forte e se Jonathan se ne accorge è perché Harleen si contorce con tutto il corpo.
Ma che cazzo?!
Sta per avvicinarsi, sta per farlo davvero, pronto a rimboccarsi le maniche e a farcire di pugni il volto martoriato di quel pazzo, ma poi s'irrigidisce e si blocca.
Harleen, ancora costretta dalla morsa del suo compagno, chiude gli occhi e si lascia andare a un immenso casquè, arrivando a sfiorare il pavimento con la schiena. Rovescia la testa all'indietro – i capelli ormai sfuggono a ciocche dallo chignon – e scoppia a ridere.
Una risata piena e ridondante che disorienta Jonathan e lo fa arretrare di un passo.
 
Il ragazzo che la tiene ben salda per il braccio la imita: getta la testa contro le spalle e amalgama quella risata con la sua.
Quei suoni stonati e gracchianti scombussolano il volto già spaesato di Jonathan Crane e in questo momento, Jonny realizza la verità: non c'è più alcuna speranza, per Harleen. Qualsiasi fossero i suoi freni, quando si è confidata con lui e gli ha mostrato una parte delle cicatrici che dilaniavano il suo cuore, adesso sono svaniti.
Harleen ha preso una decisione e l'armonia dissonante che scaturisce da quelle due risate affini ne è la prova schiacciante.
Tu non sai quanto sei fortunato… pensa Jonathan tra sé mentre si volta dall'altra parte, colto improvvisamente dall'imbarazzo di essere di troppo. Il ragazzo con le cicatrici lo infastidisce e non soltanto per l'evidente ascendente che ha su Harleen. È clinicamente interessante, potrebbe dire.Scientificamente stimolante.
Possibile che non abbia mai una preoccupazione? Un pensiero allarmante? Un timore insidioso?
 
Dimmi, ragazzo con le cicatrici, pensa ancora Jonathan, carezzando con la mano un sacchetto di plastica riposto nella tasca interna della sua giacca.
Di che cosa hai paura?
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
Mr J ridacchia e s'inchina verso di lei, incitandola a superarlo.
 
"Io, Mr J? Sicuro?" Domanda Harley, sorridente ma incerta: non ha mai fatto questo genere di cose e ha paura di sbagliare, di farlo arrabbiare e di rovinare tutto.
Mr J però sorride di nuovo: "Consideralo il mio regalo di fidanzamento, tortino di zucca."
 
Harley s'illumina a quelle parole e scaccia ogni dubbio. Con un saltello, si ritrova esattamente di fronte all'allarme antincendio.
Il regalo di fidanzamento… come sei romantico, Mr J.
Tira la leva, ed ecco che le sirene si accendono e cominciano a strillare. Quasi in automatico, una pioggia artificiale precipita dal soffitto dell'Iceberg Lounge e degli urletti di stupore infrangono la musica.
 
"Vieni, Harley!" Esclama Mr J, afferrandola per la mano e portandola sotto il getto d’acqua. Sembra un bambino eccitato e Harley sorride di cuore: "Balliamo sotto la pioggia!"
 
Mr J scoppia in una risata esilarante e poi comincia a muoversi al ritmo della musica. L'acqua gli ha già inzuppato i capelli e i vestiti. Anche Harley è già fradicia e spensierata segue i movimenti del suo cavaliere, lasciandosi andare a una risata infantile.
Seguirlo in capo al mondo, vederlo sprizzante di gioia, le provoca un'euforia che non aveva mai provato prima. È stupefacente, è gratificante vederlo così felice e sapere di essere in parte causa della sua contentezza.
Io e te, pasticcino, siamo la coppia più bella, non trovi?
 
Poi Mr J tira fuori il coltello e anche questo per Harley è stupefacente. È il suo strumento, il mezzo che usa per realizzare la sua arte e mostrarla al mondo, a lei.
 
"Sai cosa manca, bambolina?" Domanda serio, avvicinandosi a lei, "un po' di rosso. Un po' di rosso, sì!"
 
Così dicendo, porta il coltello al braccio e s'incide un taglio netto. Harley lo osserva stupefatta – non pensava che potesse arrivare ad auto lesionarsi – ma quando sta per palesare il suo disappunto, Mr J s'intinge la mano nel suo stesso sangue e poi la struscia sul vestito azzurro di lei.
 
La scia rossa è evidente e Harley la osserva senza sapere cosa dire.
 
"Il turchino non ti dona, cosino. Il rosso invece… ti sta… d'incanto."
 
E sono queste le parole magiche che annullano il resto. Harley si getta tra le sue braccia e sulle sue labbra, conscia che questa volta non ci sarà nessuna punizione per lei. Mr J ricambia, l'afferra per le cosce e la issa su di sé. Si stacca da lei, le morde il collo e poi torna sulle sue labbra.
Harley non ricorda un giorno più bello di questo.
Per tutta la vita, si dice, per tutta la vita ci sarai tu.
Ora deve soltanto pensare a come tenerselo stretto, trovare un escamotage per non farlo sparire mai più.
E poi, c'è un'altra cosa: deve assolutamente buttare tutti i capi azzurri che ha nell'armadio. Il rosso è diventato il suo nuovo colore preferito.
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
La prima cosa che sente quando apre gli occhi sono delle urla. Urla continue e agghiaccianti, alcune più acute e altre più gravi, che vibrano nell'aria e nelle sue orecchie, pungono i timpani fino a traforarli.
Poi, il calore. Che scotta e si trasforma in bruciore. Le arde la pelle da lontano, senza attaccarsi e pasteggiare con la sua carne.
Infine, il vento gelido e impetuoso le schiaffeggia la faccia e le fa spalancare gli occhi.
 
Pamela Isley è stesa a terra, nel bel mezzo del parco verde. Sdraiata su un letto di fiori ed erba, non riesce a ricordare esattamente cosa sia successo, né perché si trovi lì. Fa leva con le braccia per sollevarsi e sente il lamento delle ossa indolenzite. Lo ignora, però, e si costringe a riprendere coscienza di sé.
Dietro di lei, un caldo logorante; davanti a lei, un freddo tagliente.
Pamela si porta una mano alla tempia e non nota il colore verdastro della sua pelle. Piuttosto, si concentra sui suoi ricordi, scava nei meandri della sua mente e cerca la causa della sua amnesia, o qualsiasi altra cosa possa ricondurla ai fatti avvenuti prima del suo risveglio.
 
All'improvviso, un lampo di memoria si fa strada nel suo cervello e contemporaneamente, il boato di un'esplosione rimbomba dietro di lei. Pamela si alza di scatto, i suoi occhi verdi incontrano un appartamento logorato dalle fiamme, immerso nell'inquietante scoppiettio delle lingue roventi.
Il… laboratorio… no…
È il suo regno che brucia, che si disintegra davanti ai suoi occhi, brulica di fuoco e crolla inesorabilmente, si sgretola in una frana rosso sangue.
Si guarda attorno Pamela, disperata, cercando con lo sguardo la figura familiare di suo padre, il suo sorriso, i suoi occhiali che scivolano sempre sul naso, il suo tono dolce.
 
"P-papà?" invoca, invano, con la voce che proprio non vuole saperne di farsi sentire e la gola brucia e si gonfia, provocandole un fastidio non indifferente.
 
Ma attorno a lei non c'è nessuno – né suo padre né il bastardo che ha causato tutto questo – e Pamela sente qual è la verità, anche se non vuole ammetterlo perché è terribile anche solo da pensare. Così continua a cercarlo, avanti e indietro, in lungo e in largo, fino a quando un altro boato la distrae dalla sua corsa e lei, inciampando sui suoi piedi, finisce a terra.
 
"… Papà…" singhiozza, incapace di trattenere le lacrime, incapace di rialzarsi. Stringe le mani a pugno tanto forte da farsi male e solo in quel momento nota che la sua pelle è cambiata.
Cosa… ?
 
Si sente diversa. Si sente più forte, nonostante la stanchezza. Poi ecco, di nuovo, quelle urla agghiaccianti che ha sentito nel dormiveglia, quelle che credeva essere un sogno e invece sono la realtà.
Si guarda attorno, spaesata, la vista offuscata dalle lacrime, ma non vede nessuno.
Chi… ?
Eppure quelle urla sono lì e diventano sempre più forti – sempre più forti, fino a farle sanguinare le orecchie e a farle pensare di essere impazzita.

"CHI C'È?" Grida infine, con le mani che stringono la testa e gli occhi colmi di lacrime.
Un lieve sussurro, rauco e dolorante, le viene incontro. È seguito a ruota da altri lamenti, tutti terribili. « Fa… male… » piangono.
"Dove siete?" Chiede Pamela, il cuore grondante di pietà a quei gemiti strozzati.
 
« Il fuoco… fa male… »
 
Alla fine, Pamela capisce.
Le piante. Le piante del laboratorio stanno piangendo.
Le piante del laboratorio stanno bruciando vive.
 
In quel momento, Pamela porta una mano alla bocca e si sente morire con loro, come se fosse parte della loro essenza, come se fosse Madre Natura.
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
Selina esce dall'Iceberg Lounge e si accende una sigaretta.
La musica si sente anche sulla strada e questo la infastidisce parecchio. Vuole un posto tranquillo, dove poter sistemare i pensieri e archiviare gli eventi della serata.
Della terribile serata.
 
È nervosa. E frustrata e ferita – nell'orgoglio, s'intende.
Sente l'impulsivo bisogno di passare davanti alla vetrina della sua gioielleria, dare un'occhiata a quel collier di diamanti e architettare definitivamente un piano per accaparrarselo senza alleggerire troppo il portafogli.
 
È poggiata con il corpo al muro quando il portone d'ingresso del locale si spalanca e Bruce Wayne compare sulla soglia.
Selina alza gli occhi al cielo, ma l'orgoglio le impedisce categoricamente di scappare via.
 
Bruce si avvicina a lei, indeciso. Poi, sorride: "Sapevo di trovarti qui."
 
Selina capisce l'antifona, ma non abbocca all'amo. Non vuole stare ai suoi giochetti, non più:  "Sto andando via."
Bruce si avvicina di un passo e Selina si convince di essere rimasta ferma soltanto per educazione.
 
"Vorrei che non lo facessi," risponde Bruce.
"Non sempre ottieni quello che vuoi."
"Selina…"
 
Lei getta a terra la sigaretta spenta e gli rivolge un'occhiata minacciosa: "Che cosa, Bruce? Vuoi spiegarmi come stanno le cose? Credo che tu le abbia messe bene in chiaro: siamo una casualità dell'ultimo momento e va benissimo così."
 
Sei un bastardo, Bruce. E non capisci niente.
La rabbia monta sotto i nervi tesi di Selina, si trasforma in lava e scioglie l'affetto che prova per lui.
 
Bruce scuote la testa: "Mi dispiace per quello che ho detto."
Stavolta, è il turno di Selina per lanciare l'amo: "Risparmiami la finta compassione, Bruce."
Bruce abbocca: "Niente scherzi, Selina. Non stavolta."
 
I loro occhi s'incrociano, si cercano l'un l'altro ma Selina mantiene le distanze: l'orgoglio e l'amarezza glielo impediscono. Ci ha provato, Dio se ci ha provato, ha tentato di aprirsi e di fidarsi di Bruce, di conquistare fiducia a sua volta, ma semplicemente non ha funzionato.
Alcune persone non sono fatte per dividere il peso dell'esistenza e Selina sta accettando questa verità, seppur riluttante.
 
"Non si può fare, Bruce," comincia, ignorando quella parte di sé che la implora di fermarsi, "bisogna chiuderla qui. È stato divertente giocare agli amanti proibiti, ma adesso mi sono stancata. Voglio aria nuova: i giochini vecchi alla lunga mi annoiano."
 
Bruce si paralizza a queste parole. La guarda, incapace di ribattere e si dà dello stupido per tutte le congetture che ha fatto. Per le illusioni che si è bevuto, credendo che Selina potesse essere davvero una persona importante. Una persona di cui fidarsi.
 
"Bene," risponde alla fine e ogni parola è una pugnalata al cuore – per entrambi, "allora condividiamo lo stesso pensiero. È stato bello finché è durato, ma adesso è ora di guardare avanti."
Le tende la mano, senza staccarle gli occhi di dosso. "Siamo d'accordo?"
 
Selina osserva la mano davanti a sé e le sembra stupido ripensare a come gliel'ha sfiorata per risalire lungo il braccio soltanto pochi minuti prima. Le fa male, ripensarci.
Ma questa è la soluzione migliore.
 
E alla fine, allunga una mano a sua volta e stringe quella di Bruce: "Siamo d'accordo."
 
Ma il suo cuore non è affatto d'accordo, scalpita e graffia nel suo torace con le unghie e con i pugni, così alla fine Selina ne è sopraffatta e sente il bisogno di andarsene. Stacca la presa – controvoglia – e comincia a camminare dalla parte opposta.
 
"Ci vediamo, Wayne."
 
Bruce la osserva sparire, la mano ancora tesa e calda nel punto dove Selina l'ha toccato. Non ha paura che lei torni a casa da sola, nella notturna Gotham City: Selina gli ha più volte ripetuto che sa cavarsela da sola e lui le crede, sì che le crede, perché ha visto cosa è in grado di fare e non ha dubbi sulla sua incolumità.
Selina è un tornado senza freni, una forza della natura che attira l'attenzione ed entra nella mente. Nel cuore.
Ma ormai è finita e si deve andare avanti.
 
Anche Bruce si volta e se ne va. Sente il bisogno di camminare per schiarirsi le idee.
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
La luce della luna penetra dalla finestra e proietta delle stranissime ombre tutt'attorno. I mobili sembrano dei guardiani silenziosi, incorniciano la vasca da bagno ma restano discreti nella semioscurità.
L'acqua ormai è arrivata all'orlo e Harley chiude il rubinetto; la mano trema leggermente.
 
Non sa che cosa dire.
 
"Hai una bella casa, Harle-quin."
 
Il rossore le colora le guance, ma Mr J finge di non accorgersene, per fortuna.
La situazione è talmente incredibile che Harley pensa di sognare.
È successo, mentre la pioggia artificiale inzuppava i loro vestiti e il padrone del locale – un nanetto tozzo con la pelliccia addosso – inveiva contro i suoi sottoposti per il disastro e mandava gli invitati a casa.
È successo mentre Harley lo teneva per mano, camminava a saltelli e raggiungeva il cancello di casa sua.

"Vuoi entrare?" gli ha chiesto, impacciata e impaziente, "me l'avevi promesso."
Lui l'ha guardata inespressivo e poi ha alzato le spalle. "Sono un uomo di parola[3]."
 
Così eccoli qui, ai lati della vasca da bagno, con ancora i vestiti addosso e gli sguardi fissi l'uno nell'altro.
Mr J la sta studiando attento; non pare per niente impressionato dalla situazione potenzialmente imbarazzante che invece sta facendo accaldare Harley – non sa dove mettere le mani, quanto allungare le gambe, come piegare i piedi.
Concentrati su di lui, Harley. Soltanto su di lui.
E in effetti, averlo davanti è un'emozione incredibile. Oltre l'imbarazzo, c'è una placida serenità che fa da sottofondo alle loro figure. Come se questo fosse sempre stato il loro posto: uno davanti all'altro, uno intrecciato all'altro.
Harley sente che è giunto il momento di approfittare della situazione e di scoprire qualcos'altro su di lui, sul suo passato. Adesso non può scappare.
Errore, Harley: lui non è mai scappato. In un modo o nell'altro ha sempre risposto a tutte le tue domande.
È vero, ma lei sa che ha bisogno di qualcosa di più delle sue battute a libera interpretazione.
 
"Tu non ce l'hai una casa, Mr J?" Domanda mansueta, affondando il mento nell'acqua calda.

Lo sguardo di Mr J diventa più profondo. Qualcosa, laggiù, luccica di un'oscurità suadente, ma è troppo lontana perché lei capisca di cosa si tratti.

"Non vivo mica per le strade, Harley."
"Me la farai vedere, allora?"
"Poi dovrei ucciderti."
 
Una dichiarazione d'intenti inquietante e passionale al tempo stesso. Come lui. Ma lei riesce a leggere tra le righe, ora e sa perché Mr J risponde in questo modo.
Perché a quel punto ti affezioneresti troppo a me e non potresti più tornare indietro, vero?

Harley accenna un sorriso: "Scommetto che mi divertirei."
Mr J fa scivolare la lingua sulla cicatrice e ridacchia: "Io di sicuro."
 
Lo so. E ti amo per questo. Ti odio per questo.
 
Poi Mr J tende le labbra in uno sguardo fermo, durissimo: "Solo io ho il diritto di ucciderti, Harley. Solo io ho il diritto di farti male."
 
Occhi colmi, graffianti, pregni di tenebra; immersi in acque nere di follia frenetica eppure saturi di una sanità inafferrabile.
Harley lo vede: è pazzo. È un genio.
Non sa più quale sia la differenza, ormai.
 
Le parole che le sussurra, in questa stanza buia di questa casa vuota, sono le più belle e le più terribili che abbia mai sentito, le smorzano il respiro e la gettano nel ciclone contrastante delle sue stesse emozioni, dove prega il suo cuore di smetterla di sentire e al tempo stesso lo supplica di continuare a farlo.
 
"Tu sei mia, Harley Quinn. Mia soltanto. E quando deciderò che non andrai più bene per me te ne accorgerai, perché sarai morta."
 
 
 
 
 
 
Follia e intelletto 
Scopano a letto nel mio cervelletto
E i suoni assordanti dei loro orgasmi 
Sono le parti integranti di ogni mio versetto
 
Scendi quaggiù
Dove il buio è affascinante
E il lato oscuro è sicuro e più interessante
Imprigionati per sempre dentro un istante 
In cui il dolore lancinante è una costante
Io so che non mi vedi…
Non mi credi…
Se mi segui, poi cerchi chi eri in un nodo scorsoio,
Penso a mali passeggeri e non ho più rimedi…

Ti odio
 
  
(The dark side of the mood, Nitro)
 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell'autrice:
 
Vi devo delle scuse grandi quanto un continente. Sono in un ritardo talmente imbarazzante che non so cosa dire per far sbollire la rabbia che sicuramente avete nei miei confronti.
 
Sono stata impegnata. Tra progetti dell'università, problemi familiari e spostamenti a destra e a manca, il mio tempo libero si è dimezzato. Ma vi giuro – vi giuro – che ho passato ogni singolo momento che avevo disponibile a scrivere questo capitolo. È lungo, il più lungo che ho scritto, proprio per sdebitarmi dell'attesa così indecente.
Spero che vi piaccia. La festa di Talia era una delle cose che avevo pensato già dall'inizio ed è venuta più o meno come l'avevo immaginata. Mr J forse è un po' troppo sentimentale, ma non voglio stare ancora su questo capitolo e lo pubblico così come è uscito. Oh, anche Bruce probabilmente è un po' più stupido del normale – impacciato e inconcludente, ma per questo credo di essere stata influenzata dalla serie Gotham (mi hanno ucciso il Joker, MALEDIZIONE!) e dal ragazzino che interpreta il piccolo Brucey.
 
Harvey ubriaco, Talia in crisi depressiva che si sfoga con un'incredulissima Rachel, Pamela e la sua tragica avventura, Bruce e Selina che si complicano la vita come al solito e Harley e il Joker che fanno cose. Oh, e Cobblepot che mette a disposizione il suo preziosissimo locale per una festa di ragazzi del liceo. Sì, di cose da digerire ce ne sono in questo capitolo quindi la smetto di rompervi e passo subito alle cose importanti: le note.
 
[1]: Poison Ivy ha la capacità di sedurre chiunque e soggiogarlo al suo volere (l'unico immune è, chiaramente, Batman). Ho voluto riprendere questo concetto perché è uno dei poteri base della nostra Pammy (oltre che uno dei più fighi, secondo me);

[2] Oswald Cobblepot a.k.a Il Pinguino e il suo bellissimo locale. Nella serie videoludica di Arkham mi sono innamorata dell'Iceberg Lounge e non potevo non rendere omaggio (anche se poi l'ho trasformato in un discopub ... ... ... ... );
 
[3]: Jason Woodrue è, nella versione originale, il professore che seduce una Pammy studentessa e usa poi come cavia per i suoi esperimenti. Ammetto che queste informazioni sono prese semplicemente da internet e dal film "Batman & Robin" – ho iniziato da poco a leggere fumetti che parlano nello specifico anche di Poison Ivy quindi chiedo venia nel caso avessi riportato qualche informazione sbagliata.
 
A proposito di Pam, volevo spendere due parole sulla versione che ho creato nella mia storia riguardo la sua trasformazione. Non sono sicura che sia un bel risultato e che faccia un bell'effetto. È la parte che meno mi convince di tutto il capitolo. Ma creare un'altra storia tragica con una famiglia assente o violenta o traumatizzante non mi andava, visto che i personaggi sono praticamente tutti sfigati da questo punto di vista. Allora ho optato per una famigliola felice – l'unica – che viene poi distrutta dal cattivone di turno. Non che così Pam sia meno sfigata degli altri, eh, però almeno la base di partenza è diversa;
 
[4]: Battuta presa dal film "The Dark Knight" di Nolan. Come al solito, insomma. Ma che posso farci? Adoro quel film.
 
Fine dello sproloquio. Grazie a tutti quelli che hanno recensito lo scorso capitolo, a chi ha inserito la storia tra le seguite / preferite / ricordate, a tutti i lettori silenziosi e soprattutto a tutti voi che avete atteso l'aggiornamento, anche quando sembrava non esserci più speranza! (NON HO ABBANDONATO LA STORIA E NON LA ABBANDONERÒ MAI. Costi quel che costi, la finirò!)
 
Al prossimo aggiornamento!!
 
P.S: Per le recensioni che aspettano risposta o per i commenti che devo scrivere io, volevo rassicurarvi che entro domenica avrete tutto. È davvero un periodo complicatissimo, ma non mi sono scordata di voi <3 

Un'ultima cosa: Selina e gli occhi azzurri. Sì, ho sbagliato clamorosamente e me ne sono accorta soltanto dopo, ma ormai il capitolo è postato e mi piace così... quindi.... ehm, è una sorta di licenza poetica?


     
                                                                                      Image and video hosting by TinyPic

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Capitolo 9
*** Kings and queens ***




Capitolo n°9
"Kings and Queens"
 
 
 
Into the night
Desperate and broken
The sound of a fight
Father has spoken
 
We were the kings and queens of promise
We were the phantoms of our selves
Maybe the children of a lesser god
Between Heaven and Hell
 
Heaven and Hell
 
 
 
(Kings and Queens, 30 Seconds to Mars)
 
 
 
 
 
La neve che imperversa su Gotham City è una poltiglia zozza e macchia di grigio i palazzi e le strade.
Harleen Francis Quinzel, una coda bionda che ricade sopra una spessissima sciarpa di lana, è sempre rimasta affascinata da questo strano spettacolo. Soltanto a Gotham City il nevischio che scende giù dal cielo è già sporco prima ancora di toccare il suolo e lo trova un dettaglio davvero interessante. L'anima di questa città è così lurida da infettare perfino le nuvole.
E allora? Forse siamo tutti sporchi; siamo tutti infetti.
Pensieri alternativi: non ha idea quando abbia cominciato a farli. Il mondo è diventato un posto tutto nuovo dove ogni giorno c'è qualcosa che non aveva notato prima. A volte pensa che si tratti della fantomatica maturità – salutare l'adolescenza e le sue contraddizioni per entrare finalmente nel mondo adulto; altre si convince che non possa essere semplicemente così. C'è qualcosa di più profondo – di più sinistro – che si agita dentro di lei.
Harleen Francis Quinzel, la punta del naso rossa per il freddo e le dita ghiacciate, ha realizzato di vivere istante per istante, un tassello di vita alla volta.
Le piace. E le fa paura al tempo stesso.
Tutti i grandi paroloni come moralità, futuro e fede hanno perso il loro lussuoso fascino. Non si tratta più di azioni lungimiranti per un fine irraggiungibile, ma del qui e ora, dell'immediato presente che non si ripeterà.
Tutto gira e ruota e vortica e l'importante è godersi la gravità.
Non ha importanza cadere a terra, se lo fai con un bel sorriso.
Un capitombolo a testa in giù e poi di nuovo sulla giostra.
Dio, non si è mai sentita tanto libera in vita sua – non si è mai sentita tanto diversa in vita sua. Non ha ancora capito se sia un bene o un male questa ventata di novità che sente, ma si sta impegnando per scoprirlo.
Libertà e costrizione… da che parte stai, Harleen?
Certo, la libertà è avida – al contrario di quanto si possa pensare – ma lo scotto da pagare ne vale la pena. E stuzzica anche il suo lato più sagace.
Come a volerle dare ragione, le pagine scorrono sotto i suoi occhi.
 
«Disturbo borderline di personalità: caratterizzato da instabilità delle relazioni interpersonali, dell'immagine di sé e degli affetti, e da marcata impulsività.»
 
La sua libertà ha una forma concreta e risponde al nome di Mr J. O qualunque sia il suo nome vero.
Ha provato a chiederglielo una volta ancora, dopo la festa di Talia Al Ghul, ma lui le ha fatto capire chiaro e tondo che – oltre a non apprezzare la sua banalità morbosa – non ha intenzione di rivelarglielo. Quella stessa notte lei ha ripercorso i lividi che le ha lasciato, riscoprendo una gioia che non sapeva di possedere. Masochismo? Non l'aveva mai considerato possibile e ora comincia a ricredersi; quando Mr J la maltratta, lei si accende come fuoco vivo – un altro sintomo di psicopatia acuta, ma a lei piace pensare che sia soltanto una fantasia erotica, uno di quei piccoli peccatucci innocenti che insaporiscono la vita. E Mr J ha un sapore particolare: acerbo e dolce, rassicurante e pericoloso; Harleen ha capito che se vuole amarlo davvero deve imparare a capirlo fino in fondo e apprezzare tutto di lui, tutte le sue contrastanti sfaccettature psicologiche – vuole riuscire a immergersi nel buio profondo dei suoi occhi e respirare l'ossigeno della ragione per non annegare. Dentro e fuori, dentro e fuori. Harleen subisce il fascino del proibito ma ha paura di lasciarsi andare e deve coprirsi le spalle: per questo motivo stamattina ha rubato dei libri da suo padre - manuali di psichiatria con infinite dita di polvere – e li ha nascosti nella sua borsa.
Ora, mentre aspetta che i cancelli dell'Arkham High School si spalanchino, divora le pagine a una a una: c'è sempre un dettaglio che le ricorda il suo Mr J.
 
Impulsività? Lui.
Instabilità? Ancora lui.
 
La chiave di lettura è sempre quella. Mr J è una costante che si ripete all'infinito.
 
«Disturbo narcisistico di personalità: caratterizzato da grandiosità, necessità di ammirazione e mancanza di empatia.»
 
E lei che ha sempre detestato la psichiatria. Stupida, stupida Harley. Se avesse saputo prima che ogni cavillo riportava a Mr J, avrebbe chiesto a suo padre delle lezioni extra.
 
«Disturbo sadico di personalità: caratterizzato da comportamenti aggressivi, crudeli e umilianti verso gli altri.»
 
Sembra il suo perfetto ritratto, una biografia tanto azzeccata da sorprenderla. Le pare di avere un illimitato accesso alla psiche di Mr J, di avere sottomano la sua stessa mente e di poterci viaggiare dentro come vuole.
Dentro e fuori, dentro e fuori.
Rilegge le ultime parole.
Comportamenti aggressivi, crudeli e umilianti verso gli altri.
Non si vergogna del fremito che le scivola nel ventre. Perché dovrebbe? Quello che legge le piace. Quello che scopre non fa che aumentare la voglia che ha di lui. Tutto gira e ruota e vortica e lei si sta godendo la sua dannata gravità.
Dannata? Forse. Sbagliata? Qualcuno potrebbe dirlo.
Ma se ne infischia. La strada per mantenere la sanità mentale è lunga e perigliosa, e lei ha già deciso che farà di tutto per ottenere sia quella che Mr J.
Sarò la tua dottoressa, Mr J. Il punto fermo della tua vita. E tu sarai lo Stregatto della mia follia.
Può funzionare: l'amore e la determinazione possono fare qualsiasi cosa.
 
«Disturbo antisociale di personalità: caratterizzato da inosservanza e violazione dei diritti degli altri.»
 
Troverà anche se stessa in queste pagine? Una descrizione più calzante delle altre che sarà la prova definitiva del suo tuffo negli abissi reconditi della psicopatologia?
Harley Quinn la regina dei matti…
No, non è così: non perderà la via. Troverà un modo per restare appiccicata alla realtà, un appiglio per mettersi in salvo quando le cose peggiorano – Mr J è lunatico e imprevedibile e lei dovrà imparare a giostrarsi tra l'irrazionalità e la razionalità. O forse sta cercando di capire qual è il segreto della sua attrazione per Mr J. È pazzo? È un genio? Ne è attratta per questo? O perché sente di volerlo salvare?
Ma lui vuole essere salvato? Merita di essere salvato?
Non è più nemmeno convinta che sia salvezza, il grigio mondo schematico che la circonda fin da quando ne ha memoria.
Mr J risplende. Colora la realtà con la sua personalissima visione della vita e Harley non sa se accettare l'inaffidabilità del suo mondo e gettarsi a capofitto nell'esistenza, o se trascinarlo con sé nella rassicurante società che ha imparato a conoscere – se mai glielo permettesse.
Bianco o nero… è davvero tutto qui?
Harley stringe di più il manuale di psichiatria e prega di trovare tutte le risposte.
 
"Che ci fa un arlecchino in preda al freddo del mattino?"
 
Harleen chiude il libro e alza lo sguardo: Mr J ha i capelli scomposti, una matita fra le mani e un'ombra scolorita attorno agli occhi; potrebbero sembrare delle occhiaie, ma lei non si fa ingannare: quei cerchi sono i residui del trucco da clown che adora indossare durante la notte.
Chissà per quale motivo.
Le basta un'occhiata per capire che è di buon umore. Un po' le dispiace: non è particolarmente manesco quando si sveglia per il verso giusto e lei deve accontentarsi dei segni sbiaditi.
 
"Aspettavo te, Mr J. "
"La mattina è già abbastanza pesante senza le tue chiacchiere, Harley."
 
Harleen risponde con un sorriso. Lo spettacolo continua, soprattutto in un rapporto strampalato come il loro. E se Mr J si sente più felice recitando la parte del menefreghista, così sia. Chi è lei per pretendere il contrario? Il suo obiettivo è farlo ridere; renderlo fiero di lei e fare in modo di diventare indispensabile, una presenza velata che aderisce al suo cuore.
Quindi, sì, pasticcino: gioca a fare il duro, tanto la partita la vincerò io.
 
"Mmh," constata poi lui, regalandole un buffetto sulle guance, "sei fredda come il cadavere di un direttore di banche."
Harleen infila il libro nella borsa e lo segue all'interno della scuola: "Un direttore di banche?"
"Strambe creature. Rigidi e impettiti come se il mondo fosse in linea retta."
"Sembra una noia mortale."
 
Mr J s'illumina. Basta davvero poco per renderlo felice. A volte è come un bambino: stessi bronci e stessi desideri.
 
"Vuoi sapere il rimedio perfetto contro la noia, Harley Quinn? Un pizzico di violenza. È un tocco elegante che fa sempre la differenza."
 
Harleen registra l'informazione e si ritrova a ridere per la rima. Vorrebbe dirgli che è meraviglioso, ma riesce a trattenersi: conosce i limiti che non deve varcare. Mr J è vanitoso ma detesta i gesti sdolcinati e Harleen non può spingersi troppo oltre. Dopotutto, il loro rapporto è un'incognita d'infinite variabili e lei sta ancora sondando il terreno per erigere un porto sicuro.
Una fortezza invalicabile dalla quale non mi strapperai più.
In questo, il manuale di psichiatria potrà aiutare: entrare nel suo cuore il più in fretta possibile e mantenersi stretta la ragione è la sua priorità.
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
"Schiaccialo di più."
 
Lo stivale Prada di Shiva risponde al suo ordine e aumenta la pressione sulla guancia arrossata di… come si chiamava il primino con l'apparecchio acustico e il naso grosso? Troppo superfluo per ricordarselo. Tanto meglio: le informazioni inutili le hanno sempre dato fastidio.
Shiva[1] si sistema sulla schiena della sua vittima e Talia ticchetta le dita sul lavandino del bagno. Li osserva con attenzione, concentra le sue forze su quel piccolo atto di bullismo per trarne il piacere necessario e andare avanti per il resto della giornata.
Ma io non sono mio padre e non è così semplice.
Silenzio. Silenzio nella testa. Nasone-a-patata ha cominciato a gorgogliare e questo è assolutamente un particolare che merita attenzione.
 
Shiva piega il viso verso il loro nuovo amico e gli mostra un sorriso affilato: "Come dici, Langstrom[2]? Non riesco a capirti con il mio stivale in bocca."
 
Langstrom. Ecco come si chiamava. Prevedibilmente, un nome inutile per un'esistenza altrettanto inutile.
Gli si addice molto di più Nasone-a-patata.
 
"Che fai, adesso, piangi? Non piangere, Kirk!"
 
Shiva si sta davvero divertendo un mondo, stamattina. La sua passione per le arti marziali la aiuta a sottomettere anche i casi più difficili senza tanti problemi – non che con Nasone-a-patata sia servita. Talia la guarda farsi beffe del ragazzino, mollargli una manata sulle orecchie e deriderlo per la sua sordità.
Certo, non un tocco di classe, ma quando Talia non ha voglia di occuparsi dei dialoghi Shiva si deve accontentare di quello che le passa per la testa. È sempre stata meglio nei confronti fisici che in quelli verbali ed è forse questo il difetto che la relegherà per sempre al ruolo di spalla. Suo padre glielo ripete in continuazione.
Il braccio e la testa, Talia. Sii la testa e trovati il braccio.
Lei ha fatto di più: è diventata la testa e ha imparato a essere il braccio. Perché dipendere da qualcuno che potrebbe tradirti? Un buon capo non dovrebbe essere in grado di interpretare qualsiasi ruolo gli si presenti?
Noi siamo la più antica famiglia di Gotham City, Talia. Le fondamenta stesse di questa città poggiano sulle nostre spalle e un giorno sarai tu a sopportarne il peso.
La prima volta che le ha fatto questo discorso aveva nove anni e sua madre era appena morta. Suo padre l'ha portata davanti al camino e le ha spiegato che Gotham City è un meccanismo complesso in cui si muovono Luce e Buio; l'equilibrio che impedisce alla città di collassare su se stessa è retto dalla famiglia Al Ghul, simbolo di forza e potere. Talia è una principessa che sarà regina e, come tale, deve imparare i trucchi del mestiere per mantenere alto il nome della sua gloriosa famiglia.
È questo il legame che c'è tra lei e suo padre, per lo più: un contratto di affari stilato fin dalla sua nascita. Se sua madre fosse viva le cose potrebbero essere diverse, ma Talia non ha intenzione di lamentarsi per questo.
Un Al Ghul non si lamenta. Un Al Ghul si tempra nel dolore e ne fa la sua forza.
 
"Talia, sei tra noi?"
 
Il pestaggio di Nasone-a-patata ha perso di significato. Talia è chiaramente distratta da altri pensieri e se anche Shiva se n'è accorta significa che la faccenda è seria.
 
"Questo sfigato mi ha stancata," esordisce. "Andiamocene."
 
E poi, c'è anche l'altra questione. Quella che si contrappone perfettamente a suo padre; quella che le trancia lo stomaco di netto e la lascia sveglia di notte, nonostante i suoi pallidi tentativi di contrattacco.
Bruce…
No, fuori dalla mente. È uno di quei pensieri autodistruttivi che non portano da nessuna parte: suo padre li detesta e se dovesse scoprirli s'infurierebbe davvero. La verità è che non le importa nulla di suo padre, della sua famiglia o delle sue responsabilità, perché la presenza o l'assenza di Bruce Wayne è in grado di ribaltare completamente il suo umore e le sue giornate; potrebbe mollare tutto – scuola, titolo, obiettivi, tutto – e fuggire lontano, se soltanto lui glielo chiedesse.
Se soltanto lui me lo chiedesse.
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
Edward Nashton è sempre stato convinto di tre cose in tutta la sua vita: primo, il suo genio è inarrivabile; secondo, il mondo è un luogo illogico dove vivono delle specie sottosviluppate; terzo, lui ha avuto la sfortuna di nascere sul pianeta Terra per mero errore. Avrebbe potuto prendersela con Dio per questo abbaglio imperdonabile, se solo avesse creduto alla sua esistenza.
Ma ora, con le dita che schizzano sulla tastiera del portatile e il labbro inferiore arricciato in una smorfia di pura concentrazione, Edward Nashton dipana la fitta coltre che si è condensata davanti ai suoi occhi e finalmente capisce.
Non sono solo.
Una rivelazione tanto inaudita che deve ripeterla più volte per renderla reale.
Qualcun altro là fuori ha due dita di cervello in più.
Forse è proprio questa la causa dell'euforia che gli sconquassa il petto; una nuova energia gli scorre nelle vene e accende la sua monotona vita in un altrettanto monotono mondo. Sente di non riuscire a stare fermo; deve muoversi, deve agire; deve fare e fare e fare, assecondare questa nuova bellissima sensazione e cercare di farla durare il più a lungo possibile.
La tazza di caffè che si ferma davanti al suo naso aumenta il suo entusiasmo e per un attimo Edward Nashton si dimentica del grigio apatico che contraddistingue la sua esistenza.
Il caffè ha un odore più dolce del solito, oggi.
 
"Dio, Eddy… devi avvertire prima di sorridere," Vicki gli cede la tazza e sfoggia due occhi colmi di sorpresa – anche quelli sono più belli del solito, oggi. "Nessuno è abituato ai tuoi slanci emotivi."
 
Ora, Edward ha due opzioni: tornare al solito grugnito insofferente, o condividere la sua elettrizzante scoperta con lei.
La verità è che oggi Edward Nashton non ha molta voglia di rimuginare sui pro e i contro di ogni cosa; la verità è che oggi Edward Nashton vuole seguire l'istinto – un'altra novità che dovrebbe appuntare sul taccuino intitolato: 'Eventi incredibili che stanno ribaltando la vita di Edward Nygma Nashton'.
 
"Ha coperto le sue tracce!" esulta, stando attento a non far gocciolare la tazza di caffè – d'accordo che la sua sfera emotiva è più attiva del solito, ma le sue sinapsi cerebrali funzionano ancora egregiamente.
 
Vicki Vale sorseggia la sua tazza di caffè e si volta verso l'armadietto etichettato a suo nome: "Chi?"
"Il finto Jack Napier, ecco chi!" Edward ha gli occhi che brillano, "si è infiltrato nel database della scuola e ha coperto le sue tracce!"
"Ne parli come se fosse una cosa positiva."
"È una cosa positiva, Vicki," ribatte lui, beccandosi un'occhiata entusiasta da lei perché finalmente l'ha chiamata Vicki, "vuol dire che il nostro amico, chiunque sia, sa giocare bene le carte che ha."
 
Lei gli si avvicina e poggia una mano sulla sua spalla. Ha uno smalto nero laccato, una catenina d'argento attorno al polso e un profumo agrodolce che ricorda vagamente un frutteto d'arance.
I capelli voluminosi solleticano il collo di Edward, che ha chiuso gli occhi.
 
"E come facciamo a beccarlo se non lascia tracce?"
 
Dio, pensa Edward, speravo che lo chiedessi.

"Non ho detto che non lascia tracce," risponde saccente, dopo aver riaperto gli occhi, "ho detto che è bravo a coprirle. Ma se spera di fermarmi, si sbaglia di grosso."

Hai scelto il giocatore sbagliato con cui intavolare una battaglia di cervelli. Anzi, hai scelto il migliore.

"Certo," continua Edward, "la scuola ha un sistema di sicurezza tanto idiota che persino un neonato troverebbe la falla del server; ma il fatto che ci abbia pensato è davvero…"
Eccitante.
"Allarmante," termina Vicki per poi alzare le sopracciglia, "come la tua faccia in questo momento. Non sapevo del tuo feticismo per l'hackeraggio, Eddy."
Feticismo per l'intelligenza, mia cara.
Edward alza le spalle e stacca gli occhi dal computer: "È una sfida, Vicki. Pensa di essere furbo? Gli dimostrerò che sono più furbo di lui."
 
Vicki Vale strizza gli occhi e si concede una lunga risata. Edward vorrebbe chiederle cosa ci sia di tanto divertente, ma poi anche lui si lascia andare a un sorriso genuino e per la prima volta da moltissimo tempo, pensa che sia una splendida giornata.
 
"Fammi sapere se hai bisogno di una mano, partner," lo stuzzica Vicki una volta raggiunta la porta che dà sul corridoio, "non sono pratica di hacker, ma mi piacerebbe fare un altro interrogatorio a tappeto. È stato divertente."
 
Divertente non è la parola che userebbe lui, ma Vicki è già uscita dalla sua visuale e la prospettiva di questo misterioso confronto gli stuzzica la mente, tanto che alla fine Edward si scorda quello che voleva dire, il caffè e qualsiasi altra questione non implichi il computer[3].
Quando suonerà la campanella, Harold[4] passerà buona parte della prima ora a cercare il professor Nashton per tutto l'Arkham High School, per ricordargli della lezione di matematica che starà lentamente volgendo al termine nella più totale anarchia.

 

 
∞∞∞
 
 
 
"Lo sa, sir? Non è un comportamento che approvo."
 
Bruce Wayne, il muso voltato contro il finestrino, ripiomba improvvisamente nella realtà e concede un'alzata di spalle al suo maggiordomo.
 
"Quale comportamento?"
"Quello indifferente che ha adottato da qualche tempo a questa parte," risponde Alfred con le mani sul volante.
Bruce disegna dei cerchi sul finestrino appannato: "Indifferente?"
"È distratto," spiega il maggiordomo, "non ascolta ciò che le dico e si dimentica dei suoi impegni. Non aveva mai fatto tardi a scuola, prima d'ora."
"Sì, Alfred," risponde Bruce senza ascoltarlo, "lo farò più tardi."
"Le cose sono peggiori di quanto pensassi, sir."
 
Bruce annuisce al vuoto e la macchina precipita nuovamente nel silenzio. Alfred Pennyworth gli lancia un'occhiata, si schiarisce la voce un paio di volte e mentre insegue la curva della rotonda ci prova di nuovo.
 
"Non sono un esperto, signorino Bruce, ma credo che qualcosa non vada per il verso giusto."
 
Bruce Wayne è così incantato dal panorama nevoso di Gotham City che Alfred vorrebbe chiedergli cosa ci trovi di tanto interessante in qualche grattacielo sporco e dei fiocchi bianchi di puro freddo.
Probabilmente, non risponderebbe.
 
"Signorino Bruce?"
 
Silenzio. Silenzio. Silenzio.
Alfred sospira e pensa che gli adolescenti siano più complicati di una manovra militare per linee interne con munizioni contate[5].
 
"Bruce, c'è un motivo in particolare per cui io debba conversare amabilmente con il vuoto?"
 
Finalmente lo sguardo di Bruce Wayne si distoglie dalla città e si posa su di lui: "Niente di niente, Alfred."
"Ha fatto qualcosa che dovrei sapere, sir?"
Un ghigno che ricalca la sfrontatezza di sempre si fa strada sul volto di Bruce: "Sei preoccupato che possa combinare qualche cazzata?"
 
Parolacce. Un altro splendido regalo dell'adolescenza. Alfred fa una fatica immane a digerirle.
 
"Mi fido del suo buonsenso, sir, ma la prudenza non è mai troppa."
 
Qualcosa si agita nello sguardo di Bruce e precipita nel fondo dei suoi occhi: "Ti sorprenderebbe sapere quanto sono bravo a combinare cazzate."
 
Alfred nota al volo quello sguardo – noterebbe ovunque quello sguardo – e ne resta così sorpreso da non fare più domande. E in fondo, ha già la risposta che stava cercando: sì, Bruce ha qualcosa che non va. No, non si tratta di una questione spinosa come quella terribile zuffa nella mensa della scuola, però è qualcosa che lo turba, tanto da adottare quello sguardo, il più tenebroso, che gli ha visto al funerale dei suoi genitori e ogni tanto sfodera nelle notti di maggiore sconforto.
Alfred lo accarezza con un'altra occhiata e poi torna a guardare la strada.
 
In che cosa ti sei cacciato, Bruce?
 
"La conosco da quando è nato, sir: non c'è niente di lei che potrebbe sorprendermi."
 
E io come posso aiutarti?
 
Detesta quando si fa tutto così complicato. Alfred Pennyworth ha sempre saputo che un Wayne sarebbe stato difficile da crescere, ma non pensava potesse essere così frustrante. Bruce Wayne ha l'isolamento intrinseco nel sangue, condito con cupezza e turbamento cronici e anche se Alfred sente che diventerà un grande uomo, per ora non può far altro che stringere i denti e sperare che quel momento arrivi in fretta. Possibilmente, senza troppi danni collaterali.
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
L'aria canta. Non l'aveva mai sentita cantare.
Aliti freschi s'intrufolano tra i suoi ciuffi e le spettinano i capelli rossicci – ha deciso di lasciarli sciolti per l'occasione: il modo in cui ricadono sulle spalle aveva sempre fatto impazzire suo padre ed è convinta che anche adesso possa fargli piacere.
Canta, sì, una melodia che ricorda rami che s'intrecciano, germogli che sbocciano, fiori che appassiscono.
Il cerchio della vita è tutto qui, nelle note malinconiche di questo quartetto di violini.
È una scena surreale quella che Pamela ha davanti a sé: non pensava che una bara potesse essere così grande, così catalizzante. Lo sguardo di tutti è attratto da quel coperchio di ciliegio, contornato da campanule e rose rosse - le può sentire gemere se chiude gli occhi e proprio per questo Pamela si premura di non farlo.
Si concentra sulla folla attorno a lei, che non fiata se non per qualche sospiro; poi si concentra sul prete e su come l'aria scompigli la sua tunica viola – mai come ora le è sembrato un colore tanto brutto. Dice qualcosa, il prete, ma Pamela Isley non lo sta davvero ascoltando e si limita a interpretare i suoi gesti, i suoi lineamenti rigidi, le occhiate languide che lancia a lei e ad Amina Franklin[6].
È la volta buona che te la fai andare a genio, Pamela. Proprio come papà avrebbe voluto.
Amina ha lo sguardo marmoreo, ermeticamente sigillato in un religioso silenzio. Ha rifiutato gli occhiali da sole scuri, il velo da lutto e qualsiasi altra cosa potesse coprirle il volto, come se fosse orgogliosa del suo dolore – come se sfidasse i presenti con i suoi occhi gonfi e gridasse guardate! Sono una fidanzata addolorata! Una fidanzata disperata!
Forse anche Pamela dovrebbe mostrare lo stesso tormento; sarebbe incredibilmente facile fare la parte della vittima – mio padre era un uomo buono, oh, così buono, e qualcuno l'ha ucciso, qualcuno di cattivo che ha dato fuoco al laboratorio e mi ha fatto tanto male.
Ma non le va. Non è così che lo riporterà indietro. La parte da recitare è già stata stabilita e non sarebbe gradita una deviazione dal copione originale.
Un incidente fatale. A questo si riduce la morte di suo padre: una fuga di gas nel laboratorio, una propagazione incontrollata di fiamme e un grande, unico boom.
 
Che incidente fatale.
 
Nessuno ha ritenuto opportuno chiedersi perché mai l'antincendio non sia scattato, oppure è Pamela che è perspicace per la sua età. Hanno giustificato persino il colore della sua pelle: "Un'esperienza traumatica", "pallida come un cencio," "terribile tragedia". Pamela si è sentita quasi soffocare da tutte queste supposizioni, dalle bugie e dagli occhi colmi di pietà che si è sentita addosso; ha rischiato la crisi isterica. Poi un albero le ha fatto le condoglianze. Non se l'è immaginato: una voce nodosa e profonda è partita dalla corteccia imbrunita di un albero e le ha fatto le condoglianze per la sua perdita. A quel punto Pamela avrebbe potuto cedere al crollo di nervi che cercava di annientarla da quando è cominciata tutta questa pagliacciata, invece ha deciso di assecondare quello che sentiva e l'ha ringraziato.
"Mi dispiace, sorella."
"Grazie, albero."
Surreale e inaspettato. Come il funerale di suo padre.
La situazione ti sta sfuggendo di mano, Pammy Pammy.
Un'altra osservazione perspicace, soprattutto quando si rende conto che le condoglianze dell'albero sono l'unica nota positiva della mattinata.
Questa è bella, Pam: tuo padre è morto e l'unica cosa che ti fa stare meglio è un albero.
Pamela storce il naso avvertendo l'odore marcio che aleggia nell'aria e lo sente sottopelle che è colpa dei fiori attorcigliati alla bara: stanno morendo. Il fioraio di fiducia aveva torto quando diceva che, una volta troncato il gambo, muoiono sul colpo. Stanno soffrendo, un dolore invisibile che soltanto lei riesce a cogliere e le provoca un fastidio mai provato prima.
Concentrati, Pamela: tuo padre è morto. Qualcuno l'ha ucciso.
Qualcuno con un nome ben preciso; con un volto ben preciso. Non potrebbe scordare gli zigomi aguzzi, gli occhietti da predatore e la lingua bislunga nemmeno se volesse. Li rivede continuamente sulla faccia dei passanti –appiccicati alla loro carne – che la guardano e la deridono. Anche adesso, mentre i singhiozzi sfuggono dalle labbra serrate di Amina Franklin e lasciano il posto a lacrime copiose.
Woodrue. Un nome che la fa rabbrividire.
Il grande campanile rintocca a morto e desta Pamela; per un momento le passa per la mente che la scuola è già cominciata, ma che potrebbe arrivare in tempo per l'ultima ora se scappasse adesso. Dovrebbe giustificare il ritardo, ma con il professor Tetch è facile inventare una scusa e passarla liscia; con Harleen non sarebbe così semplice, però. Alla sua bionda basterebbe un'occhiata per capire che qualcosa non va come dovrebbe.
Harleen… ci crederesti mai se te lo raccontassi?
La bara si lascia andare sul tappeto di terra scavato per l'occasione e produce un tonfo attutito; alla piccola folla fuggono altri sospiri e i fiori, là sotto, piangono. Hanno una voce stridula che stiletta il cuore di Pamela – i loro lamenti le ricordano il laboratorio, e le fiamme, e il siero, e il dolore, e…
Woodrue, pensa Pamela, stringendo i pugni e i denti, la pagherai per questo.
Dovunque tu sia, la pagherai.
La sua condanna è pregna di veleno e la investe di un'adrenalina improvvisa: fargliela pagare. Perché non ci ha pensato prima? Perché adesso sembra una questione così semplice?
Che importa la vita di un reietto in confronto a quella di mio padre? In confronto a quella del mio giardino?
Pamela Isley si lascia sfuggire un sorrisetto accennato che stona con l'apatia di quel funerale malinconico. All'improvviso, cambia tutto.
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
Selina Kyle usa lo stivale per schiacciare il mozzicone della sigaretta e con esso tutta la sua frustrazione.
L'intervallo sta per finire e ha appena deciso che si prenderà un bonus per fumare un'altra sigaretta e farci scappare anche un cappuccino; ne ha davvero bisogno. Nicotina e caffeina: le migliori amiche contro la noia. E lei è decisamente annoiata.
Non sei costretta a fingere anche con te stessa, Selina. Stare male per qualcuno non è una debolezza.
S'infila una mano tra i capelli liscissimi e ignora categoricamente i suoi stessi pensieri, come se da questo dipendesse la sua vita: a nessuno importa della verità, men che meno a lei. Ha sempre gestito ogni situazione e questa non sarà da meno. Salta giù dal muretto e sta per imboccare il portone principale dell'Arkham High School quando dall'angolo spunta una figura.
 
"Selina Kyle?"
 
Grazie a Dio, pensa Selina: distrazioni.
Si volta verso il nuovo interlocutore e si scontra con il volto appuntito di Jonathan Crane. Per un attimo resta interdetta – Crane non le ha mai rivolto la parola prima d'ora – ma poi decide d'infischiarsene.
 
"Hai cinque minuti di tempo prima che io giri i tacchi," risponde, con più insolenza di quanto vorrebbe. "Che cosa vuoi?"
 
Jonathan inchioda gli occhi su di lei e Selina percepisce una formicolante sensazione di disagio che parte dagli occhi ghiacciati di lui e si ferma al centro esatto del suo petto. Si sente esposta, come se lui riuscisse a scavare sotto l'apparenza per afferrare i segreti che nasconde persino a se stessa. Non le piace che qualcuno metta il naso nella sua intimità. Non le piace per niente.
 
Sta sinceramente pensando di assestargli una bella unghiata sulla guancia quando Jonathan si appoggia al muro e comincia a parlare.
 
"Girano certe voci, su di te."
 
Selina si acciglia. Piega le labbra e mostra i denti: "Non dovresti fidarti dei pettegolezzi."
Lui ruota la testa di lato e sistema meglio gli occhiali: "Dicono che tu sia brava a risolvere i problemi della gente…"
"Come ho detto, non dovresti fidarti dei pettegolezzi."
Jonathan alza di nuovo lo sguardo – occhi ghiacciati: "… con la giusta ricompensa."
 
Selina si concede uno sbuffo teatrale e si fa più vicina. Arriva davanti al suo volto e con un sorriso sfrontato poggia una mano sul muro. Le unghie laccate di rosso sfiorano l'orecchio di Crane.
 
"Hai tutta l'aria di propormi dei loschi affari, Jonny."
 
Esattamente quello che mi ci vuole.
 
"Ho bisogno che recuperi qualcosa per me."
"Hai dimenticato la merenda a casa?"
Jonathan fa una smorfia che Selina traduce a fatica come un sorriso: "Qualcosa del genere."
 
Lei arriccia le labbra, alza un sopracciglio e studia brevemente la situazione: quanto può divertirsi e, soprattutto, quanto può ricavarci?
 
"Girano voci anche su di te, sai?" risponde alla fine, con tono carezzevole. "Sui motivi che ti hanno spinto a venire in questa scuola."
"Nemmeno tu dovresti fidarti dei pettegolezzi," ribatte lui, ma Selina non demorde.
 
"Dicono ci siano di mezzo delle erbe speciali…"
 
Jonathan Crane irrigidisce le spalle e il suo volto diventa livido. Lo sguardo si affila, gli occhi si strizzano e quando risponde la sua voce è calma, ma trasuda una collera che prende Selina in contropiede.
 
"Io non sono uno spacciatore," scandisce, "non ho niente da spartire con quegli smidollati."
 
La rabbia di Jonathan è un grumo isterico che rotola fuori dalle sue labbra serrate e Selina ne è intimorita.
Perché ti scaldi tanto?
Vorrebbe chiederglielo, ma il suo fiuto le consiglia di non rischiare. Un disagio insolito rosicchia il suo stomaco e la lascia in balia di una semplice constatazione: Jonathan Crane ha qualcosa che non va. Una o due rotelle che non funzionano nel modo giusto.
Ma sono tutti matti, in questa dannata città?
Prende seriamente in considerazione l'idea di tirarsi fuori dall'impiccio e accampare una scusa per dargli forfait. Potrebbe inventare qualsiasi cosa e sembrare comunque credibile, ha soltanto l'imbarazzo della scelta. Tuttavia un altro pensiero va a prudere in fondo alla nuca. Un solletico fastidioso che le sussurra parole severe.
Fregatene, Selina. Gli affari sono affari e tu hai una collana di diamanti da comprare.
È una valida obiezione, ma è quasi certa che aiutando Jonathan Crane farà qualcosa di sbagliato e questo la blocca.
Da quando in qua fare la cosa giusta rientra nei tuoi interessi?
Una domanda interessante e molto scomoda. Da quando? Non ne ha idea, ma sa per certo di chi è la colpa.
Bruce Wayne è un capitolo chiuso, Selina. Fare la parte dell'eroina non cambierà le cose.
Selina abbassa lo sguardo e scalcia un sasso con lo stivale. Bruce ha avuto una terribile influenza su di lei e non è qualcosa che si dimentica facilmente. Il principe di Gotham è un concentrato di rabbia e rimorso perennemente in bilico sul burrone delle scelte sbagliate e se Selina l'ha capito è perché ha riconosciuto se stessa nel riflesso tentennante di Bruce. Se lui restava a galla, lei restava a galla, questa era l'auspicio che l'aveva pervasa. Dopo quella notte per le strade di Gotham, abbracciati e soli sotto la pioggia, si era convinta che lui potesse essere la persona giusta con cui condividere la solitudine. Sarebbe stata disposta a limare alcuni aspetti del suo carattere, per far funzionare la cosa. Ci ha provato, a dirla tutta. Non è stato abbastanza.
Quindi ora non devi più niente a nessuno. Vecchia te, vecchie abitudini. E fanculo anche a Bruce Wayne.
 
"Allora," miagola infine, esibendo un sorriso impertinente. "Parlando del mio compenso…"
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
Sono anni che aspetta questo momento.
Finalmente, finalmente, finalmente, finalmente.
Anni che aspetta la figura compiaciuta del preside Arkham sorriderle in questo modo e stringerle la mano – è una presa forte e sicura che la rende estremamente orgogliosa.
 
"La signorina Vale mi ha detto cose incredibili su di lei, Dawes," dice.
 
Cose incredibili? Cose incredibili.
 
"Sono certo che saprà far brillare questa scuola."
"Farò del mio meglio, signore."
 
Rettifica: è una vita che aspetta questo momento. È il primo passo verso il mondo dell'arte, verso la realizzazione del suo sogno più grande; già s'immagina infilata in un tailleur grigio alle prese con mostre, musei, convegni, riunioni. È una visione perfetta.
Torna con i piedi per terra, Rachel: è soltanto un ballo.
Eppure lei sente che è più di questo. I balli scolastici realizzati ad hoc entrano nella storia – e se ogni cosa va come deve andare, lei può essere annoverata nella lista delle persone che sanno il fatto loro. Potrebbe liberarsi per sempre della sua eterna etichetta da sfigata e questo è un motivo più che valido per essere tanto euforici.
 
Non appena Jeremiah Arkham si allontana, Harvey le viene in contro con il sorriso. Prova a cominciare una conversazione ma Rachel è così emozionata da saltargli al collo e baciarlo ovunque.
 
"È successo qualcosa o sei soltanto felice di vedermi?"
"Sono nel comitato!" un altro bacio, un altro abbraccio, Harvey quasi soffoca sotto tanto affetto. "Nel comitato del ballo!"
Alla fine Rachel è colta dall'imbarazzante idea che il preside Arkham possa essere ancora nei paraggi e decide di staccarsi da Harvey e riprendere un comportamento degno di questo nome.
Non riesce a smettere di sorridere, però. Harvey non può fare a meno di guardarla e pensare che splenda.
 
"Il ballo invernale?" chiede lui, condizionato dalla sua allegria.
Rachel annuisce, stringe le spalle e porta le mani al petto: "Sono a capo del comitato. Tutte le decisioni spettano a me. L'organizzazione, l'allestimento, la musica… Harvey, te lo immagini?"
 
Sì, pensa Harvey. E sarà magnifico.
 
"Te l'avevo detto che avevi qualcosa di speciale," risponde, puntellandole la fronte con l'indice.
Lei sorride e Harvey non ricorda qualcosa di più bello: "Però, mi devi promettere una cosa," aggiunge.
"Che cosa?" chiede lei.
Lui le scocca un bacio sui capelli: "Ci sarà anche l'alcool."
 
La risata cristallina di Rachel è contagiosa e alla fine anche lui si lascia andare.
 
"Ma se non lo reggi nemmeno, l'alcool!"
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
"Ti racconto una storiella, Harley, vuoi?"
 
Harley inarca la schiena e mugugna in risposta. I capelli biondi sfuggono dall'elastico sfilacciato e scivolano sul suo viso, si spargono sul banco vuoto di questa classe vuota – la pausa pranzo è sempre stata il momento perfetto per allontanarsi dalle aule e scrollarsi di dosso la fatica, eppure ora lei non riesce a pensare a un modo migliore per svagarsi.
Ha gli occhi chiusi – e l'espressione contratta, e le guance rosse, e il respiro affannato – e non se ne accorge.
 
"Non è una delle migliori, bambolina. Ma vedrò di renderla più... eccitante."
 
Tutto attorno a lei è fuoco.
Lava incandescente le scorre lungo il corpo e si concentra sotto le mani sicure di Mr J – dita che premono e accarezzano e pizzicano e graffiano e
 
"Ah!…"
Harley contorce le dita dei piedi.
Mio… Dio.
 
"Lo prendo per un sì!" esulta lui, poi schiocca la lingua e si blocca a mezz'aria; Harley vorrebbe dirgli di continuare, di andare fino in fondo, ma dalle sue labbra esce solo un altro mugugno.
"Allora," comincia lui e insieme alla sua voce ripartono anche le sue mani, si avventano su Harley e stuzzicano il suo corpo – i suoi sensi. "C'è questo piccolo arlecchino che… veramente non fa nulla di particolarmente rilevante. Beh, a parte ficcare il naso dappertutto…"
 
Dappertutto, fa eco Harley. Sei dappertutto.
 
Mr J ride e le sue dita scorrono lungo la coscia contratta di lei: "È un bel cosino, il piccolo arlecchino. Deve ancora migliorare, ma basta toccare i punti giusti."
 
Ad Harley sfugge un altro gemito che allunga il sorriso di Mr J.
Sono una marionetta in estasi.
Il corpo non risponde più ai suoi comandi: è mosso da un piacere primordiale e selvaggio, una moltitudine di voglie che si muove per conto suo. È imbambolata e attonita per tutto quello che sta vivendo – sul suo corpo, nella sua mente. Non si sarebbe mai aspettata un trattamento così… accomodante. Mr J ha le mani ferme e rigide, ma nei suoi gesti c'è una morbidezza che la meraviglia.
 
Harley sa come andrà a finire: lividi di vittoria e morsi di possesso. Violenza che crea appagamento. Dolore che crea piacere. Dominanza che crea assuefazione. E la dominanza già c'è, trasuda dai movimenti calcolati di Mr J, dal suo corpo sopra di lei, dalle sue dita ostinate – sta giocando, la stuzzica per dimostrarle che qualsiasi cosa abbia mai provato lui farà di meglio.
Harley strizza gli occhi e non vede l'ora che Mr J perda il controllo.
Ho pregato per questo momento, Mr J. Non sai quanto l'ho fatto.
 
La lingua di lui striscia lungo il collo di Harley e lei sente le cicatrici sfiorarle le guance. Ruvide e profonde. Ruvide e magnifiche. Allunga istintivamente una mano per carezzarle, seguirne la linea e arrivare alle sue labbra, ma Mr J le intercetta il polso e la blocca al banco. Harley si lascia sfuggire un altro gemito.
Il controllo è tutto tuo. Io sono tutta tua. Fammi quello che vuoi prima che mi renda conto di quello che sei.
 
Mr J obbedisce e le soffia sul collo: "Il difetto del piccolo arlecchino è che non si fida di quello che sente. Ha bisogno di risposte, poverino, di certezze. Ma non è così che si fa. No, no, no…"
 
L'altra mano di Mr J risale la pelle calda di Harley e si ferma sul suo collo – un gesto abituale che però la eccita ancora di più.
Perché non lo stringi, Mr J?
 
"Harley, lo sai qual è il dramma del piccolo arlecchino?"
 
N-non lo so ma tu dimmelo, tu continua a t-tenermi stretta, c-continua e non fermarti… non…
 
"Semplice: restare incastrata in due costumi che non stanno bene insieme."
 
Harley apre gli occhi e sente all'improvviso qualcosa di stonato. Il tono di Mr J, forse? Deve accertarsene, quindi quando lui smette di toccarla e si avvicina a un soffio dalle sue labbra con gli occhi fissi nei suoi, Harley sente di essersi risvegliata da un sogno.
 
"Etichette, Harley," riprende lui, "sei sottomessa alle etichette. Carina e gentile, studiosa e pulita. Tutto quello che volete, signori, Harleen Quinzel è qui per voi!" piega la testa di lato e sorride solo per via delle cicatrici. "Definizioni, limiti. Giusto e sbagliato. Identità costruite. Tu vuoi sapere se puoi fidarti di quello che c'è dopo…"
 
Lei sbatte le palpebre e deglutisce.
 
"Ma questo non c'è scritto nei tuoi libri da dottoressa, vero?"
 
Sì. No. Io…
Harley ripiomba in una realtà che non è bella come quando l'aveva lasciata.
Un mucchio di domande accalca l'anticamera del suo cervello e le arrotola la lingua: quando l'ha scoperta? Come ha fatto? Perché ha capito tutto subito?
Dovrebbe davvero smetterla di tentare di fregarlo: Mr J legge le persone con uno sguardo e lei gli è troppo vicina per sperare di nascondersi.
 
"Sto cercando il modo migliore per essere come te," replica, gli occhi luccicanti che trasudano insicurezza.
"Non esiste modo migliore del lasciarsi andare, tortina. Un balzo e tutto è più bello."
 
Mr J ne parla con innocenza, una delicatezza innaturale che fluisce nella piccola carezza che le concede sulla guancia. E Harley sente lo stomaco pesante quando ricambia la dolcezza senza che lui si opponga. È docile, Mr J, nei suoi occhi legge la viva speranza di risposte. Harley fa scivolare le dita sui capelli mossi di lui e sente la sua domanda taciuta.
Salti con me, Arlecchino?
Voglio farlo, Pasticcino, ma non è così facile.
 
Prende un bel respiro e si prepara ad affrontarlo: "Ho paura," ammette, "ho tanta paura. Perché io ti amo ma non sono sicura di quello che succederà. E sono stanca di non sapere cosa fare, di dover stare attenta a quello che dico o che faccio, di avere paura di te, per te. Voglio che le cose siano semplici. È chiedere troppo?"
 
Mr J la guarda in silenzio, poi la lingua scivola sulla sua cicatrice: "Semplici," ripete, l'astio impregna la sua voce, "Harleen Quinzel vuole le cose semplici. Harleen Quinzel non vuole faticare, non vuole scoprire cosa c'è al di là del muro. Vuole tutto e subito, Harleen Quinzel. Storie banali che si ripetono all'infinito. Forse potevi essere diversa, ma hai troppa paura per provarci… troppa paura…"
 
Un tic nervoso arriccia il naso di Mr J. Con uno scatto si rimette in piedi e la butta giù dal banco. Harley atterra a pancia in giù e istintivamente si sistema i vestiti che ha addosso.
 
"Il mio arlecchino non ha mai paura, puttanella imbrogliona. Sa esattamente cosa fare e quando farlo, senza rendere conto a nessuno. Balla la sua musica e si diverte fino a morirne!"
 
Mr J ribalta il banco dietro di lui e sbatte una sedia contro la lavagna. Harley guarda i suoi gesti rabbiosi e prima ancora di avere paura si sente in colpa. Ha rovinato tutto. È palese la delusione di Mr J. Forse anche lui aveva bisogno di certezze – inconsapevolmente. Forse era il suo modo per dimostrarle il suo amore e lei ha rovinato tutto. Sente un pugno all'altezza dello stomaco ma s'impone di ricacciare indietro le lacrime. Se piange adesso, è certa che lui la ucciderà.
Te ne importa qualcosa, Harley?
No, ma non accetta di vederlo ancora più arrabbiato per colpa sua.
 
"Sparisci dalla mia vista!" Mr J fa avanti e indietro come una bestia in gabbia, le dardeggia un'occhiata truce e poi sbatte i pugni su un altro banco. "Tu sei un falso, un rifiuto, un insetto schifoso!"
No, Mr J, ti prego no, non farlo…
 
Ma lui lo fa: ribalta un altro banco e si ferma soltanto per guardarla dall'alto al basso con disgusto. Spalanca le labbra e sputa veleno, scandisce ogni parola con una lentezza violenta e calibrata: "Non vale la pena nemmeno ucciderti, Harleen Quinzel. Farò finta che tu non sia mai esistita. Non penserò a nessuna barzelletta per te, non ti farò nessun regalo speciale, non proverò a renderti migliore. Un fantasma come tutti gli altri. Peggio degli altri."
 
Crack. Harleen Quinzel avverte chiaramente il suo cuore creparsi nel mezzo e stillare sangue incandescente. Non tenta di ribattere – è troppo sconvolta per farlo.
 
"Che succede qui?"
 
Corre. Prima ancora di capire chi si sia intromesso, si volta di scatto e scappa il più lontano possibile da lì, da quelle accuse rabbiose, da se stessa. Sente lo sguardo rovente di Mr J sulle sue spalle – morsi profondi che recidono la carne e tutto quello che resta attaccato al cuore – e Harleen corre più veloce. Deve andarsene, sente che non riesce a respirare. Ha bisogno di aria, di spazio, di luce. Qui è tutto troppo stretto: la scuola si accartoccia su di lei e le soffoca i polmoni, le spappola il cervello, le sbriciola le ossa, le stritola il cuore.
Pamela… dove sei?
Nemmeno lei potrà aiutarla, non questa volta. Il dolore è troppo acuto e troppo grande, inghiotte qualsiasi tipo di speranza che s'intravede in lontananza: è sola, per la prima volta da moltissimo tempo. Come quando sua madre è morta e suo padre ha aumentato i turni in ospedale, lasciandola in balia dell'assenza; come quando quell'uomo l'ha aggredita nel vicolo e lei ha pensato che fosse finita. Anche adesso è finita, è il suo cuore a ulularlo.
L'hai perso, Harley! L'hai perso perché sei debole e non te lo meriti!
Sola e abbandonata, il freddo pungente s'insinua nel suo corpo, la congela e la opprime. Sussurra parole spregevoli, accuse fondate che la ingoiano tutta intera.
Sei un insetto schifoso, sei un rifiuto e un imbroglio, sei l'ombra di un arlecchino che non ballerà mai più – che non l'ha mai fatto.
Spalanca le porte dell'Arkham High School e si aggrappa all'immensa quercia che troneggia nel cortile, il respiro affannato, le guance rosse e gonfie, gli occhi strizzati e i polmoni a secco. Mangia l'aria a bocca piena, conficca le unghie nella corteccia marcia che le finisce sottopelle.
Non vale la pena nemmeno ucciderti. Conti meno di zero.
Improvvisamente, l'aria gelata sbatte sulla sua faccia trafelata e lei realizza di essere senza giacca in mezzo alla neve. Fiocchi lenti piovono su di lei, scivolano sulle sue guance e si fermano agli angoli delle labbra.
Harley non se ne accorge e sfoga tutta la sua frustrazione in un pianto isterico che le inebetisce i sensi. È il cuore che sanguina, freddo e ammaccato, triste e solo, e quando Harleen avverte la suoneria del suo telefono vibrare nel vento sta piangendo da dieci minuti buoni.
 
È un messaggio di suo padre – Harleen aveva dimenticato di averne uno. Dice che vuole che lei sia la prima a saperlo; che non è ancora ufficiale ma che presto le cose saranno definitive. Informazioni che attraversano i suoi occhi ma non arrivano davvero alla mente. Il mondo è attutito dal suo dolore e Harleen non riesce a distinguere nulla: colori, odori, sapori. Un grumo secco di grigio spento è incastrato nei suoi occhi. Harleen non è sicura di riuscire a toglierlo – né ora, né mai.
Un altro squillo del cellulare, Harleen si concentra un po' di più. Ignora i pensieri, il cuore, il cervello, fissa gli occhi sulle lettere che compaiono sul display – riesce a metterle in fila.
"Si può ben sperare," dice il messaggio, ma Harleen non capisce di cosa stia parlando. Quando arriva in fondo al testo, però, spalanca gli occhi e le labbra; i muscoli s'irrigidiscono e lei resta impietrita – sentimenti che non ci sono, emozioni cristallizzate in una sorpresa inaspettata.
 
"Ce l'ha fatta," dice suo padre. "Jack Ryder si sveglierà."
 
E nonostante la neve sporca che dovrebbe risollevarle l'umore, nonostante il cuore dilaniato che dovrebbe sentirsi più leggero e nonostante il sorriso morto che dovrebbe incresparle le labbra screpolate, Harleen smette di respirare.
 
 
 
∞∞∞
 
 
 
Vicki Vale ha la spiacevole sensazione di sentirsi piccola.
Di tornare a essere la bambina con le trecce e le lentiggini che si nascondeva sotto le coperte per non sentire le grida di mamma e papà in salotto[7].
Osserva con circospezione il ragazzo che ha davanti e pensa che sia la prima volta che si ritrovano faccia a faccia dopo tutto quello che è successo.
Le cicatrici sono davvero tremende come ricordava. Vicki deglutisce e distoglie lo sguardo – da quelle, dai suoi occhi, dalla terribile rabbia nera che incendia il suo sguardo.
 
"Non sono permessi atti di vandalismo nell'Istituto," comincia, le mani irrigidite e il tono duro. Sa che è una frase scontata ma sente il bisogno di puntualizzare, perché il ragazzo che ha davanti la intimorisce e lei deve sembrare forte, deve sembrare determinata e fiera e per niente preoccupata.
Fingi come farebbe Eddy.
No, forse lui non avrebbe bisogno di fingere, forse sarebbe contento di questo confronto perché potrebbe colmare la sua curiosità. Anche lei ne ha una voglia matta, ma il buonsenso le consiglia prudenza: non ci sono prove ma Jack Ryder è finito in ospedale per colpa di quel ragazzo – e questo è un motivo più che valido per ritenerlo pericoloso.
 
Lui la studia con volto serio. Cammina lentamente fino alla cattedra e fa scivolare la mano sulla superficie del tavolo. Quando ruota la testa di lato, Vicki intravede un sorriso: "Lei è quella nuova, vero? Quella che piace tanto alla piccola Rachel…"
 
Quel ragazzo è amico di Rachel Dawes?
 
Vicki Vale capisce che la faccenda sia più complicata di così, ma non si prende il tempo per indagare: "Cosa è successo con Harleen Quinzel?"
Un lampo di rabbia guizza sul volto del ragazzo ma scompare subito dopo. I segni del suo cedimento sono un sorriso incrinato e occhi in fiamme: "Errori di calcolo. A volte vedi le persone come vorresti che fossero e non come sono per davvero," ruota la testa dall'altra parte, alza gli occhi al cielo e sfoggia un sorriso più largo – come se la sua mente avesse appena abbandonato un pensiero scomodo per concentrarsi su qualcos'altro.

"Le è mai capitato?"

Vicki sente il freddo filtrare dalle finestre e avvinghiarsi attorno alle ossa. Il ragazzo non ha mai abbassato lo sguardo per un singolo istante, sfidando la sua autorità con un'impertinenza sfacciata e questo la infastidisce; Vicki coglie la furia cieca dietro la calma piatta del suo sguardo – come se fosse un predatore che gioca con la vittima prima di balzarle alla gola.
Come può metterla tanto a disagio con la sua sola presenza?
 
"Anche Jack Ryder è un errore di calcolo?" ribatte, il tono aggressivo di chi deve difendersi. "O forse lo è Jack Napier?"
 
Se nominando Jack Ryder il volto del ragazzo era rimasto impassibile, con Jack Napier la questione cambia: aggrotta le sopracciglia impercettibilmente e Vicki ha la prova di averlo colto di sorpresa. Il ragazzo con le cicatrici è un agglomerato di rabbia e impulsività che si veste di un autocontrollo che non gli appartiene – Vicki se ne accorge quando lui distende di nuovo i lineamenti e le concede un sorriso caino che ha il sapore di ferro e sangue.
 
"Jack, Jack, Jack. Ne ho abbastanza del nome 'Jack'. Mi ricorda tanto un imprenditore immobiliare, e io odio gli imprenditori immobiliari. Si fanno sempre gli affari degli altri… come lei."
 
Vicki legge tra le righe e cerca di capire se quella minaccia velata sia abbastanza per sporgere denuncia, ma deve rassegnarsi al fatto che quel ragazzo, oltre che essere spaventoso, è anche estremamente scaltro.
Il che peggiora la situazione.
Un imprenditore immobiliare… non è la prima volta che ne sento parlare in questi giorni…
Ancora una volta, si costringe a rimandare a dopo qualsiasi tipo di indagine.
 
"Il furto d'identità è un reato," continua Vicki, "e non sarebbe difficile per me provare che tu sia colpevole."
Lui si lascia sfuggire un risolino e Vicki capisce di aver perso terreno: "Il preside Arkham non è il tipo da mettere a rischio la reputazione della sua scuola per piccoli scherzi che non danno fastidio a nessuno."
 
Tremendamente vero. Tremendamente frustrante. Tremendamente ingiusto.
È lo stesso concetto che le ha fatto presente Edward prima ancora di cominciare tutta quella storia: Jeremiah Arkham non collaborerà. All'inizio aveva pensato che scherzasse – Arkham sembrava un uomo così perbene e così responsabile e aveva dato per scontato che si sarebbe fatto in quattro per il benessere dell'Istituto e dei suoi pellegrini. E a ben vedere, Jeremiah Arkham si fa davvero in quattro, ma solo per le questioni che interessano a lui – il resto tende a relegarlo alla segretaria o, addirittura, a lasciarlo sprofondare nel conveniente beneficio del dubbio.
Come dice sempre Eddy: prima l'apparenza e poi la sostanza.
Lui riesce sempre a ridere per questa ipocrisia ma lei non ci vede niente di divertente.
Così Vicki si ritrova senza niente in mano e la rabbia accresce il suo sconforto. Stringe i pugni e per un attimo ripensa a come era conciato il ragazzo con le cicatrici quando Bruce Wayne si era preso cura di lui. Non è nella sua indole provare piacere per il dolore altrui, ma deve ammettere che per oggi farà un'eccezione.
 
La campanella risuona nell'aula e il ragazzo ne approfitta per avvicinarsi all'uscita.

"È stata una chiacchierata interessante… la piccola Rachel aveva ragione."
 
Vicki Vale si ferma a guardarlo. Quando resta sola si prende un momento per ripensare a quello che è successo e capisce che per scrollarsi di dosso la sensazione schifosa di marcio che le è rimasta attaccata alla pelle dovrà fare una full immersion di letture di romanzi rosa.
 
 
 
 
 
 
The age of man is over
A darkness comes and all
These lessons that we've learned here
Have only just begun
 
We were the kings and the queens of promise
We were the phantoms of our selves.
Maybe the children of a lesser god
Between Heaven and Hell
 
Heaven and Hell
 
 
 
 
(Kings and Queens, 30 Seconds to Mars)
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell'autrice:
 
Sì, avete letto bene: ho aggiornato la storia. No, non sono morta. Sì, ci ho messo una vita e sì, avete tutto il diritto di essere infuriati. Potrei dire a mia discolpa che la real life è stata una vera carogna con me in questo periodo, ma sarebbe una giustificazione scialbissima quindi ho deciso che mi prenderò tutti i vostri insulti xD
 
Questo capitolo è un'offerta di pace xD Ho inserito tutti, proprio tutti, e ho posto le basi che serviranno per lo sprint finale – sì, ancora una volta avete letto bene: siamo quasi alla fine. La buona notizia è che ho abbozzato tutti i capitoli che mi mancano e mi resta soltanto di scriverli come si deve (non preoccupatevi: la mia ispirazione, puntuale come un orologio svizzero, è tornata in concomitanza con l'inizio dei parziali, quindi possiamo ben sperare).
Spero di aver fatto tutto bene in questo capitolo; di aver reso i personaggi per come li ho in testa. Mi sono accorta che non è sempre facile mostrare quello che si ha ben chiaro in mente. Harleen, per esempio, questa volta è stata la più difficile. In questo capitolo viene presa, spezzata, aggiustata, capovolta e spezzata di nuovo. Ci tengo a precisare che non sono monotona e che non mi fisso sempre sulle solite questioni: Harley oscilla tra due modi che non possono coesistere e la scelta non è facile, non è immediata. Ma Mr J non è conosciuto per la sua pazienza, quindi è chiaro che non ha intenzione di aspettarla.
 
Per il resto: Bruce è un peso morto in questo capitolo (l'ho odiato anche io) ma passerà presto.
 
Per quanto riguarda le note:
 
[1]: Lady Shiva. A essere sincera non ricordo se lei e Talia abbiano mai avuto una sorta di contatto; io me le sono sempre figurate bene insieme e quindi ho deciso di renderle il duo più tosto di tutto l'Arkham High School;
[2]: Kirk Langstrom aka Man-Bat. Lo so che Kirk è un personaggio molto più vecchio rispetto a tutti gli altri e che quindi relegarlo a adolescente sia una mossa azzardata, ma io l'ho adorato in Arkham Knight (non chiedetemi perché) e ho deciso di inserirlo. Oltretutto, la sua sordità era il pretesto perfetto per renderlo uno dei sollazzi di Talia e Shiva;
[3]: sinceramente, non so come diavolo faccia Mr J a introdursi in tutte le comunicazioni disponibili ogni volta che si gioca a un Arkham. In ogni gioco c'è il suo faccione sorridente in tutti i televisori e in ogni livello che lo riguarda la sua voce domina le radio. S'infila dappertutto, manco fosse Eddy. Così ho deciso di usare questa sua capacità innata e di sfruttarla a mio vantaggio;
[4]: Harold il bidello. È già apparso in uno scorso capitolo, ma non mi ci ero mai soffermata. In realtà, non è farina del mio sacco: Harold è veramente un personaggio di Batman – essendo io una frana patentata con i nomi, ho scritto su Google "personaggi secondari di Batman" e ho estratto a caso un nome dalla lista. Harold, per l'appunto. Non so nemmeno quale sia la sua vera parte nel mondo del pipistrello: per me resterà per sempre il bidello;
[5]: Alfred e un accenno al suo passato da militare, perché sì;
[6]: Amina. Stesso discorso di Harold: nome preso a caso dalla lista che è servito allo scopo. Una fidanzata in lutto che non è nemmeno mai esistita; 
[7]: l'infanzia di Vicki made by Always_Always. Sinceramente, non ho la più pallida idea di quale fosse la situazione familiare di Vicki Vale e mi sono dovuta arrangiare con la fantasia. E siccome in tutta la FF nessuno ha una famiglia felice, dovevo rispettare la tradizione (sono una persona terribile, lo so xD).
 
Eeee, niente, mi dispiace davvero per il ritardo (io vi avevo avvertiti!)
Grazie di cuore tutti voi che avete avuto pazienza. Grazie a chi ha recensito gli scorsi capitoli – chi recensirà in futuro. Grazie a tutti i lettori silenziosi e tutti quelli che hanno inserito la mia storia nelle preferite / seguite / ricordate.
Grazie, grazie, grazie.
 
Always_Always

 

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