Light of the day di Zappa (/viewuser.php?uid=168901)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Someone special ***
Capitolo 2: *** Waiting for love ***
Capitolo 3: *** Dancing in the night ***
Capitolo 4: *** Not Afraid ***
Capitolo 1 *** Someone special ***
In tutta la
sua vita, pensò, non aveva mai provato un così
strano sentimento
per una donna.
E lui ne
aveva avuta esperienza col genere femminile, negli anni.
<<
Usciamo assieme, questa sera. >>
Marlene era
stata semplice, concisa, diretta: niente di più semplice
aveva
pensato Skipper.
Un invito a
cena presso un tranquillo locale sulla Fifth Avenue, una cena
romantica e costellata dalle sue risate argentine, una passeggiata
assieme sulla battigia al porto, fino ad arrivare ad uno dei tanti
parchi di Manhattan.
<<
Posso offrirti un gelato? >>
Si erano
gustati il gelato al gusto di fragola su una panchina, sotto la luce
delle stelle. In lontananza proveniva la musica di un concerto e le
note risuonavano, tranquille, tra le fronde degli alberi.
<< È
bello qui... >> sussurrò la ragazza, ammirando
gli alberi tra
di loro.
Marlene era
di poche parole e lui ancora di più.
La osservò,
prendendo un altro po' di gelato dal cono, con un'occhiata veloce e
sfuggente.
Era
illuminata dalla luce fioca della luna, i raggi pacati ne carezzavano
il volto, accompagnando lo sbattere delle lunghe ciglia.
Marlene era
un'amica, una compagna, un supporto. Era un aiuto presente anche
quando non lo si chiedeva.
Marlene era
simpatica, gentile, lo era sempre con tutti. Anche con la gente che
non se lo meritava.
Marlene era
una ragazza semplice, non si vantava, non si metteva in mostra e
accompagnava sempre le sue giornata con una buona dose di
divertimento ed ironia.
Marlene
sapeva ascoltare il silenzio e mai migliore compagnia l'aveva
accompagnato quando si staccava dalla costante baraonda che creava
incessantemente la sua squadra di lavoro.
Marlene era
allegra, un raggio di vivacità e ottimismo nella sua visione
sempre
troppo realista nel mondo.
La vedeva,
ora, chiudere gli occhi marroni, ascoltando e facendosi cullare dalla
musica del concerto. Una spruzzata di lentiggini a colorarle il viso
sorridente.
Si alzò,
poi, all'improvviso, dalla panchina, cogliendolo leggermente di
sorpresa, presa dall'entusiasmo per la canzone che risuonava dal
palco in lontananza e, sotto le stelle, iniziò a ballare,
disinvolta.
Leggera,
aggraziata, avvolta da quel grazioso abitino blu che le arrivava
sopra le ginocchia, volteggiava con un sorriso sulle labbra mentre
sussurrava le parole della dolce melodia.
Skipper
accavallò le gambe fasciate dal completo nero che aveva
scelto per
l'occasione ma che, in fin dei conti, indossava sempre per lavoro: la
osservò assorto, come rapito, dal suo lento incedere sulla
ghiaia al
ritmo delle note.
Come una
farfalla, danzava leggera, per poi, fermarsi, e scoppiare una risata
sincera, divertita, sotto il suo sguardo leggermente perplesso.
Si
riaccomodò, poi, sulla panchina, vicina a lui, accavallando
anche
lei le gambe, in un sospiro deliziato.
Skipper la
osservò ancora, con i suoi profondi occhi blu, mentre si
sistemava
una ciocca dei suoi capelli ribelli dietro l'orecchio e sorrideva,
guardando le stelle.
Lo guardò,
poi, anche lei, specchiandosi con i suoi occhioni marroni nei suoi
sottili occhi blu: Marlene, forse, non era destinata ad essere solo
un'amica.
Sorrisero
entrambi di circostanza, avvicinandosi di più sulla panchina
per poi
chiudersi in un abbraccio.
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Capitolo 2 *** Waiting for love ***
Erano
davvero anni che non la vedeva.
L'aveva
sognata più volte, immaginando il suo sorriso, saggiando la
pienezza
delle sue labbra rosse, imbrigliandosi tra i fili dorati dei suoi
capelli, sostando sulle rive del mare placido dei suoi occhi.
Non si
sarebbe mai aspettato di ritrovarla alla centrale, una sera di
pioggia, in lacrime, seduta in ufficio davanti alla sua scrivania a
denunciare un furto.
Kowalski
deglutì ancora una volta, alzando lo sguardo dal verbale che
aveva
attentamente compilato, per lanciare un'occhiata alla
donna che, sospirando, si asciugava le lacrime.
Le
gocce continuavano a scendere, lente, inerti,
lungo le guance e si accorse di trattenere il fiato nell'osservare il
loro percorso lungo il collo affusolato e la piega dei seni.
La
vide ravvivarsi nuovamente i capelli, mordendosi malinconica
un labbro. Si strinse poi nel cappotto e non alzò ancora lo
sguardo
da terra.
<< Il
suo caso verrà preso in considerazione dai nostri agenti e
già
domani un'unità verrà per il primo sopralluogo
sul luogo del furto. Firmi qui, per favore >> pronunciò,
con tono
professionale.
Le allungò
i documenti da firmare per la dichiarazione di denuncia riuscendo,
finalmente, ad attirare la sua attenzione.
Si trovò a
porgerle la penna con una mano leggermente tremante,
mentre i loro sguardi, entrambi azzurri dei più puro colore
dei
mari, si intrecciarono.
Doris fu la
prima a rifuggire, immediata, il suo sguardo, firmando velocemente e,
dopo averlo ringraziato sommessamente, prendere la porta.
Kowalski
rimase nella solitudine dell'ufficio a fissare l'uscita.
Fuori
pioveva, insistentemente.
Stava
rasettando la scrivania in ufficio, sistemando verbali, documenti e
appunti nel cassetto, dove teneva la pistola d'ordinanza e il
distintivo che finirono nella tasca del cappotto, tra scartoffie
varie.
I compagni
di squadra avevano finito il turno già da qualche ora e lui,
come
qualche volta capitava, era rimasto più a lungo in ufficio per
terminare qualche ricerca o controllare alcuni risultati dalle
indagini.
Peter, il
piccolo soldato del gruppo, spesso, si preoccupava di offrirgli un
thé prima di rincasare, raccomandandogli di terminare presto
il suo
lavoro, cosa che non accadeva mai, visto l'ora tarda che si era fatta
anche quella sera.
Lanciando
un'ultima occhiata all'orologio che ticchettava sul muro, prese il
cappotto e si avviò all'uscita, salutando gli altri colleghi
seduti
alla sala operativa della centrale di polizia.
Si ritrovò
nella notte, sotto la scrosciante acqua di New York.
<<
Kowalski... >>
Lo
raggiunse, improvvisa, una voce flebile.
Si voltò,
trovandosela davanti, stretta nel suo cappotto e sciarpa, sotto
l'ombrello, che lo fissava, silenziosa. Si costrinse ad ignorare il
nuovo tuffo al cuore che gli provocò. La pioggia la
circondava,
pitturandola come un quadro impressionista.
La raggiunse
lentamente sotto il suo ombrello, riparandosi dall'acqua che
scendeva, senza mai staccare gli occhi dai suoi.
Si fissarono
per interminabili secondi, rivivendo, improvvisamente, tutti i
momenti che li avevano uniti per anni: una vita passata a prendersi
delicatamente per mano per camminare insieme e a nascondersi dietro
una timidezza costante, soprattutto da parte di lui.
La pioggia
di New York carezzò le figure di due amanti uniti, infine,
in un
bacio, il primo di tanti.
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Capitolo 3 *** Dancing in the night ***
Nessuno
è mai stato un ballerino provetto: sulla pista ci si scatena
come più si è capaci, sentendo e inglobando il
ritmo elettronico, che infuria come una tempesta tra le ossa, per
buttarlo fuori tutto d'un fiato in mosse improvvisate o imitate da
qualche grande star. Alle volte si vedono tipi fuori di testa, che
canticchiano le note con voce stonata per poi proiettarsi sulla pista
da ballo credendosi John Travolta, quando finiscono solo per travolgere
gli altri ballerini mandandoli dritti all'ospedale.
Ma vi erano
anche tipi eccezionali: Julien, ad esempio, che, per quanto fosse
l'essere più petulante, fastidioso, infantile, egoista e
sciocco di tutta New York City, aveva la danza che gli scorreva al
posto del sangue.
Era
guizzante, spigliato, un concentrato di energia che passeggiava sulle
note con eleganza. Era uno spettacolo vederlo all'opera: quando si
muoveva era in sintonia con la canzone, tanto che, sembrava un maestro
d'orchestra che, con le sue spettacolari mosse, dirigeva l'armonia dei
suoni.
Ma neanche
Rico era tanto male.
Abituato ai
ritmi pressanti e veloci del Heavy Metal, mai nessuno avrebbe pensato
che un cultore dei Metallica come lui fosse stato a suo agio in una
discoteca di musica elettronica, ma Rico era proprio così.
Aitante, scatenato, ballava a ritmo delle casse, muovendosi maestro,
sulla pista.
Era davvero
bravo Rico, pensava la dolce Perky, dal suo bancone al bar, mentre
lucidava qualche bicchiere e lo osservava muoversi troneggiante tra gli
altri ballerini.
Sospirò,
andando a posare un altro bicchiere alla fila degli altri.
I camerieri
servivano cocktail e pietanze agli ospiti.
La musica
pompava forte nelle casse mentre lei osservava con i suoi occhi celeste
Rico, che impazzava radioso sulla pista, accompagnato da numerose
ragazze che gli giravano attorno come attratte da una succulenta mela.
Perché,
davvero, Rico era molto attraente, soprattutto per lei: quando era
arrivata per la prima volta a servire al locale Madagascar's King, di
cui Julien era titolare, e l'aveva visto in una delle tante serate di
festa, ne era rimasta abbagliata.
Alto,
prestante, capelli sparati con un taglio alla Moicana, occhi verde mare
elettrici e sorriso accompagnato da una leggera cicatrice sulla guancia
destra, faceva molto da "cattivo ragazzo" e di sicuro, il suo
temperamento da "cavaliere oscuro", non l'aveva aiutata a toglierselo
dalla testa.
Ma, in fin
dei conti, pensò Perky, legandosi i capelli dorati in una
leggera ed improvvisata coda di cavallo, lui non avrebbe mai posato gli
occhi su una come lei.
Era timida,
molto bella assai, ma sempre in ombra rispetto alle ragazze focose che
lo circondavano ogni giorno.
Sbuffò
amareggiata, tornando a lucidare bicchieri fino a quando si
avvicinò al bancone una figura, andandosi a sedere in uno
dei numerosi sgabelli al bar.
<<
Ciao >>
Perky
alzò gli occhi dall'ennesimo bicchiere per ritrovarsi,
improvvisamente, catapultata in occhi verde mare.
Rimase
qualche istante con la bocca aperta ad osservare Rico che, davanti a
lei, la guardava, enigmatico, con un sorrisetto divertito sulla faccia.
Non le
aveva mai rivolto la parola da quando lavorava lì, chiedendo
di essere sempre servito dagli altri colleghi.
<<
Ho detto "ciao" >>
Sorrise
allora l'uomo, portandosi una patatina alla bocca e avvicinandosi
maggiormente a lei che, da dietro il bancone, lo osservava ancora
interdetta.
Confusa
spostò lo sguardo dai suoi occhi a dietro l'uomo dove vide,
con sorpresa, numerose ragazze che, braccia conserte e sguardo
incattivito, la guardavano arrabbiate, come se avesse rubato loro un
gustoso dolcetto. Sorrise, allora, gongolando interiormente, e
tornò a guardare Rico che, nel frattempo, si era portato una
sigaretta alle labbra prendendone ampi respiri.
<<
Ciao >> rispose, allora, sorridendo timidamente all'uomo
che sembrò sorridere alla sua retrosia.
<<
Come ti chiami? >>
<<
Perky >>
<<
Rico >> le porse gentilmente la mano, per poi portarsi
dolcemente la sua, affusolata, alle labbra e depositarne un evanescente
bacio.
Sorrise
imbarazzata, ritirando la mano e si schiarì la voce sotto il
suo sguardo divertito.
<<
Ti manca ancora molto da lavorare? Sarai stanca, immagino...
>>
Cercò
di non trovare malizia nella sua voce e rispose, cercando di darsi un
contegno.
<<
Tra circa una mezz'ora ho finito. Intanto, posso offrirti qualcosa?
>>
Rico, che
non le aveva mai staccato gli occhi di dosso, dopo averla osservata per
bene, le rispose.
<<
Vorrei te >>
Lo
guardò confusa per un secondo.
Cosa
intendeva, si ritrovò poi a chiedersi, ammirando i suoi
occhi verdi mentre qualche ciuffo ribelle gli cadeva sulla fronte.
<<
In che senso? >>
Lo vide
ghignare, compiaciuto, per poi leccarsi le labbra coperte in parte
dallo sfregio che aveva sul collo.
<<
Hai capito bene in che senso. Ti aspetto questa sera quando hai finito,
qui fuori. Abbiamo a bere qualcosa assieme, ti va? >>
Poi, un
occhiolino, e lo vide alzarsi dalla sedia e dirigersi all'uscita,
aspirando dalla sua sigaretta.
Le spalle
larghe avvolte dalla camicia incorniciavano un colpo equilibrato, non
troppo alto ma possente, mentre si riappropriava della giacca e la
lasciava penzolare dalla spalla destra. Uscì dal locale per
lasciarsi dietro una leggera scia di fumo.
Si accorse
di essere rimasta fino a quel momento con il fiato sospeso e, quando
riacquistò contatto con la realtà, si
ritrovò osservata da almeno una ventina di ragazze che,
borsetta alla mano, la guardavano in cagnesco, per poi dirigersi,
furiose, anche loro all'uscita.
Sorrise,
allora, radiosa.
Doveva sbrigarsi a finire di
lavorare perché, poi, lui, il suo futuro, l'aspettava fuori dal locale.
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Capitolo 4 *** Not Afraid ***
Lo guardava minaccioso, come se lo avesse assalito da un momento
all'altro.
Fermo, immobile sulla scrivania di legno, era pericolosamente vicino
al suo caffè amaro senza zucchero e, pensò, se ci
fosse riuscito,
glielo avrebbe volentieri rovesciato in testa, giusto
per
fargliela pagare.
Si fissarono entrambi: l'uno attraverso i suoi occhi blu mare,
che ora erano in burrasca, e l'altro sempre immobile, fermo al suo
posto, appoggiato sulla scrivania a faccia in giù.
Mai
sottovalutare il nemico,
questo aveva imparato Skipper dopo il servizio nei Marines
nelle missioni in Kosovo e Iraq.
Anche se può sembrare calmo, in realtà, nasconde
le più oscure
trame per sorprenderti.
Ma perché, poi, ce l'aveva con lui e sembrava guardarlo,
scrollando
la testa, come se avesse commesso chissà quale crimine?
Era
stata necessità,
non maleducazione, la sua.
<< Non l'hai ancora chiamata per scusarti?
>>
Lo raggiunse la voce del giovane agente Peter che, entrato in
ufficio, gli aveva posato dei documenti sulla sua scrivania e si era
messa a scrutarlo con i suoi occhioni azzurri limpido.
Skipper sembrò un attimo risvegliarsi dal coma che lo aveva
avvolto
per dei lunghi minuti e si passò la mano sulla faccia per
poi
scompigliarsi la zazzera corta nera. Sospirò.
<< No... >>
Prese
in mano il nemico in questione e controllò il registro delle
chiamate: tre
chiamate rifiutate.
Tutte con lo stesso, dolce,
nome.
<< Ma perché? >>
Sbuffò, all'insistenza a tratti infantile, a tratti
così premurosa,
del giovane soldato e gli rifilò un'occhiataccia.
<< Avresti potuto mandarle almeno un messaggio, sarebbe
stato
cortese da parte tua >>
Lo osservò incrociare le braccia al petto e mettergli il
muso,
gonfiando le guance che, paffute, incorniciavano il suo visetto
così
fresco ma anche delicato, sotto la frangetta bionda.
Piccolo,
giovane, inesperto soldato,
pensò fra sé e sé.
<< Non credo che sarebbe stata una buona idea.
>>
<< Secondo me, invece, hai semplicemente paura, Skipper
>>
Portò lo sguardo, incredulo, sul giovane agente che
ridacchiava modesto, guardandolo con i suoi occhioni color del cielo
primaverile.
<< Cos-cosa? >>
Il piccolo Peter scoppiò, allora, a ridere, non riuscendo
più a
trattenersi e lo lasciò, poco dopo, solo nel suo ufficio,
confondendosi tra il via vai di agenti e militari che gremivano la
centrale.
Il
detective riportò lo sguardo sul suo smartphone
che, fino a quel momento, non aveva abbandonato la sua mano e che,
questa volta, lo guardava, inerte.
Un attacco di nervosismo lo costrinse a lanciare malamente il telefono
sulla scrivania andando, però, a colpire il bicchiere di
caffè che,
indolente, si abbandonò sui fogli e documenti che
affollavano il
tavolo. Tra qualche imprecazione, afferrò, di fretta, dei fazzoletti per pulire il
liquido che, ormai, bagnava anche parte del pavimento.
Lanciando qualche improperio contro i Danesi,
cercò di
asciugare alla bell'e meglio i verbali che avevano fatto il bagno nel
caffè finché, riafferrato il
cellulare, si abbandonò
con un sospiro sulla sedia della scrivania.
Forse
Peter aveva ragione, era un codardo.
Un vile, che non sapeva neanche affrontare una ragazza alla quale
aveva dato buca all'appuntamento la sera prima per “motivi di
lavoro”.
E
il motivo era che non aveva avuto il coraggio
di presentarsi a casa sua, preferendo rifugiarsi in ufficio per lavorare anche
se, ovviamente, non aveva nulla da sbrigare alle otto di sera ed era rimasto tutta la sera a mugugnare sulla sua imbecillità.
Per
quanto il detective McGrafth odiasse sentirsi dare del codardo,
cosa che, lo sapevano tutti i colleghi, non gli si addiceva per niente, in quel
momento avrebbe preferito avere a che fare con una banda di
malviventi in uno dei peggiori vicoli del Bronx, in piena notte,
armati di tutto punto, con in mano solo un cacciavite, piuttosto che
avere a che fare con lei.
Si ritrovò, poi, improvvisamente, il telefono in mano mentre
questo
vibrava, concitato. Sullo schermo l'inconfondibile numero di Marlene.
Intorno colleghi e civili facevano via vai tra uffici e la sua
squadra, nella sala ristoro, parlava attorno a Kowalski e ad alcuni
documenti che teneva in mano.
Il telefono continuò a vibrare e non si accorse di star trattenendo
il fiato, fino a quando, il telefono lo informò che l'utente
aveva
rilasciato un messaggio in segreteria telefonica. Cliccò velocemente
sul tasto
per ascoltare il messaggio.
“Ciao
Skipper, sono io. Mi spiace ancora chiamarti, immagino tu sia
impegnato con il lavoro in ufficio ma, ci tenevo a sentirti.”
Se la immaginò mentre, con il suo taglio sbarazzino, si
sistemava il
ciuffo che le ricadeva ogni volta sulla fronte in una maniera diversa
da quella che voleva lei, cosa che la faceva terribilmente irritare.
“Volevo
dirti che ieri ti sei scordato che dovevamo trovarci. Mi sarebbe
piaciuto vederti ma immagino i tuoi impegni...”
Sbarrò gli occhi, ascoltando il suo tono pacato, quasi
intristito.
Allora non era arrabbiata!
Anzi, probabilmente, ci era rimasta anche male, pensò
sbuffando e
passandosi una mano tra i capelli neri.
“Ti
chiedo solo di informarmi se puoi, la prossima volta, e di
chiamarmi... quando vuoi. A presto.” concluse,
serafica, riattaccando la chiamata e lasciandolo con il telefono
ancora all'orecchio, perso nella sua voce.
Poggiò il telefono sulla scrivania, aggrottando le
sopracciglia, pensieroso. Lo
riafferrò, poi, velocemente e compose il suo numero. Si
alzò dalla
scrivania in tutta fretta e afferrò il cappotto per lasciare l'ufficio.
Aveva fatto i gradini a quattro a quattro per raggiungere il prima possibile la
sua porta, poi, ripreso fiato e sistematosi la cravatta, era rimasto
immobile, davanti all'entrata, incerto se suonare o meno.
La luce che illuminava il giroscale batteva contro i fiori che teneva
in mano.
Sorrise tra sé e sé per la sua incertezza e,
prendendo un sospiro,
suonò.
Dalla cucina la raggiunse il campanello che la costrinse ad andare ad
aprire alla porta, evitando il suo gatto norvegese che, pigro come al
solito, si spaparanzava sul pavimento del salotto, rischiando, non
poche volte, di farla inciampare, soprattutto quando era di fretta.
<< Ciao >>
Si ritrovò ad aprire a due occhi blu che, speranzosi, le
sorridevano
timidamente, mentre dei fiori profumavano l'aria.
<< Skipper... >>
<< Mi dispiace per ieri, non ho avuto il coraggio di
presentarmi. Mi conosci, sono... restio, alle volte. Mi spiace
>>
le sussurrò, mentre le porgeva dei fiori che aveva preso dal
fioraio, chiedendo i più belli che aveva.
Marlene, dapprima interdetta, osservò i fiori per poi
specchiarsi
nei suoi occhi che, le parvero, come tutte le volte che si
specchiava, sinceri e veri.
Con un sorriso lo fece accomodare in casa per, poi, chiudere,
felice, la porta dietro di sé.
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