M.A.B.

di Carlos Olivera
(/viewuser.php?uid=4135)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 1) ***
Capitolo 2: *** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 2) ***
Capitolo 3: *** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 3) ***
Capitolo 4: *** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 4) ***
Capitolo 5: *** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 5) ***
Capitolo 6: *** Episodio 2 - Game Over (Parte 1) ***



Capitolo 1
*** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 1) ***


EPISODIO 1

IL GIOCO DELLA MORTE

(PARTE I)

 

 

L’auto di pattuglia percorreva la Ocean Avenue a bassa velocità, fendendo con la luce di posizione gli alberi e i sentieri cespugliosi del Prospect Park alla ricerca di improbabili segnali di allarme.

Era stata una nottata molto tranquilla, e tutto lasciava supporre che il sole sarebbe sorto di lì a breve senza il sopraggiungere di qualsivoglia imprevisto.

«Qui è tutto tranquillo» brontolò l’agente alla guida. «Avanti, torniamocene in centrale. Non vedo l’ora di buttarmi a letto.»

«Aspetta» gli disse in quella il suo partner. «Mi sembra di aver visto qualcosa.»

«E ti pareva.»

L’autista in verità non aveva nessuna voglia di fermarsi, convinto com’era che il suo socio avesse avuto solo l’ultima delle sue tante sviste dettate dal fervore giovanile, ma alla fine il pivellino la ebbe vinta, e la macchina, tornata indietro, si fermò al limitare del parco, quindi i due agenti scesero dal veicolo avventurandosi lungo il sentiero.

«Vedi?» disse però beffardo quando, malgrado tutto, le loro torce seguitarono ad illuminare solo un’infinita distesa di alberi. «Un bel mucchio di niente.»

E invece i fatti gli diedero torto, perché proprio in quel momento anche lui poté notare una figura scura, difficilmente distinguibile, che si aggirava poco distante tra un gruppo di cespugli e bassi alberi vicino alle zone relax che si affacciavano sulla duck island.

«E quello chi cavolo è?» si domandò, dal momento che la torcia del collega, per quanto potente, non arrivava ad illuminarlo distintamente.

Poteva trattarsi di tante cose, ma le ipotesi più accreditate erano o qualche drogato perso nei fumi di chissà quale porcheria o un senzatetto impegnato a rovistare in cerca di qualcosa di utile: in ogni caso, niente per cui valesse anche solo un altro passo.

«Avanti, andiamocene» mugugnò ancora l’autista. «Il nostro turno finisce tra venti minuti.»

Ma il cadetto non aveva alcuna intenzione di sfigurare nei suoi primi giorni di servizio, anche a costo di rendersi antipatico ad un capopattuglia svogliato; così, di slancio, riprese a camminare, avvicinandosi non senza cautela allo sconosciuto.

Benché non potesse vederlo bene, nascosto com’era tra le fronde, dovette fare solo pochi metri per capire che si trattava di una donna, e che in quel momento gli stava dando le spalle.

«Signora, và tutto bene?»

Non vi fu risposta; poi però, avvicinandosi ancora di più, il giovane si avvide anche di un’altra cosa, assai più insolita, e cioè che quella donna, oltre che sporca, era anche completamente nuda.

E allora, il suo tono di voce cambiò radicalmente: dopotutto, per quanto alle prime armi, gli era già capitato di incontrare gente di quel tipo.

«Ehi, tu!» gridò cercando di illuminare il meglio possibile i capelli sudici e bagnati di quella spiantata. «Sarà anche estate, ma questo non ti autorizza a girare nuda per il parco! Vieni fuori da lì!».

La donna non rispose, né diede segno di aver capito, e allora l’agente si mosse in avanti senza smettere di tenerla puntata la torcia addosso. Aveva già preso le manette, e stava per afferrarle una spalla e costringerla fuori da quel cespuglio, quando finalmente la donna, lentamente si girò, piantando i suoi occhi bianchi contro il poliziotto, che restò pietrificato.

Un animale sventrato sarebbe risultato meno raccapricciante; lo squarcio che aveva sullo stomaco era tale che alla luce della torcia sembrava quasi di scorgere gli intestini, per non parlare dei molti altri tagli più o meno profondi che le coprivano le braccia, il tronco e perfino la faccia.

Il giovane restò paralizzato, trattenendo a stento i conati di vomito, e prima che potesse trovare la forza di muoversi quella poveraccia stramazzò a terra, come un burattino cui erano stati tagliati i fili.

Come riuscì a recuperare l'autocontrollo provò a tastarle il polso, ma era perfettamente inutile, e allora afferrò la ricetrasmittente.

«Quattro-Sette-Sette a Centrale! Mandate subito un'ambulanza al Prospect Park, agli imbarcaderi per la Duck Island!»

 

Tutte le mattine, prima di recarsi al lavoro, all’Agente Speciale Derek Norway piaceva scacciare via i torpori della notte con una buona mezz’ora di footing lungo i marciapiedi tutto attorno alla sua abitazione, una casa a tre piani ad Harlem.

Malgrado la posizione piuttosto centrale rispetto al centro nevralgico di Manhattan la rivoluzione urbanistica e la riqualificazione culturale ne avevano fatto una zona piuttosto tranquilla, dove raramente accadeva qualcosa, ma evidentemente quella era destinata ad essere una giornata particolare.

Derek era quasi arrivato sotto casa, giusto in tempo per lavare via con una doccia il sudore della corsa prima di raggiungere l’ufficio, la maglietta kaki zuppa e i cortissimi capelli scuri imperlati, quando sul marciapiede sul lato opposto un balordo in skateboard si avvicinò ad una coppia di anziani in passeggiata, sfilando violentemente la borsetta alla donna per poi darsela a gambe.

«Al ladro, fermatelo!» urlò la signora

Derek, anche se quasi sfiatato, si rimise subito a correre, e mentre correva le sue gambe andarono circondandosi di un bagliore vermiglio.

«Flash move!» urlò, e come se il tempo tutto attorno a lui si fosse fermato percorse la distanza che lo separava dal bersaglio in un batter d’occhio, avventandosi fulmineo sul ladro e buttandolo a terra dopo averlo immobilizzato.

«Hai scelto il posto sbagliato per venire a rubacchiare, amico!» gridò stringendogli con forza i polsi ed avvolgendoli in una specie di legaccio luminoso, più efficace di un paio di manette.

Aveva appena restituito il maltolto alla proprietaria, ricevendo in cambio infiniti ringraziamenti, quando il trillare di un telefono sembrò risuonare direttamente all’interno della testa del detective, il quale, agitando un dito nell’aria, fece comparire davanti a sé una specie di finestra olografica simile in tutto e per tutto al monitor di un computer.

«Norway

Il borseggiatore ammanettato non sentì niente, probabilmente perché la conversazione stava avvenendo a livello telepatico.

«D’accordo, arrivo subito» concluse, stavolta a voce, il detective.

E dal momento che di poliziotti o volanti di ronda non si vedeva alcuna traccia, Derek non ebbe altra scelta che trascinare a forza quel ladruncolo fin sulla porta della sua casa, legandolo alla ringhiera della scala d’ingresso materializzando dal nulla un altro di quei nastri luminosi.

«Aspettami buono qui. Giusto il tempo di farmi una doccia e ti sbatto in cella.»

 

Ogni volta che la MAB veniva chiamata sulla scena di un crimine era raro che qualcuno della squadra si presentasse sul posto prima del detective Jane Paloski; trentaquattro anni, di cui cinque passati nell’NSA, di Jane si diceva che fosse solita pensare alle cose dopo averle fatte, guidata da un’irruenza e da una intraprendenza cui però non mancava quella giusta dose di buon senso tale da permetterle di non cacciarsi mai in guai dai quali poi non sapesse uscire.

La sua immagine, a prima vista, lasciava un po’ spiazzati, per via dei corti capelli biondi, chiaro segno della sua discendenza siberiana, che spiccavano su di carnagione più scura, dai toni olivastri, tipicamente portoricana.

«E quello chi è?» domandò, non senza quel suo cipiglio un po’ spaccone, vedendo il suo collega Norway arrivare sulla scena del crimine con un ragazzetto afroamericano ammanettato sul sedile posteriore della sua vecchia Chrysler.

«Niente di che. Un banditello che ha pensato bene di scipparmi sotto casa.»

«E te lo sei portato fin qui da Harlem?»

«Avanti, cosa abbiamo?»

«Femmina, caucasica. Età stimata, trent’anni. L’ha trovata una pattuglia alle cinque di questa mattina.»

«È una strega?»

«Bella domanda. Non siamo ancora riusciti a stabilirlo. Non aveva niente addosso, neppure i vestiti, e stiamo ancora aspettando Takikawa

«Allora perché hanno chiamato noi?»

«Forse per lo stato in cui è ridotta. Appena la vedrai, capirai.»

Poco prima che raggiungessero i cespugli venne loro incontro Jonas O’Bryan, il veterano della squadra; aveva più esperienza lui nel contrasto alle attività magiche criminali di chiunque altro, forse perché era l’unico tra tutti i suoi compagni ad aver avuto dei trascorsi in polizia prima di entrare a far parte della MAB.

«Scusa il ritardo, Jonas» si giustificò subito Derek. «Ho avuto qualche problema.»

«Scuse accettate. Vieni.»

Quando finalmente l’agente si ritrovò a tu per tu con la vittima, persino la sua decennale esperienza nei Navy Seal fu messa a dura prova.

Il corpo era riverso su di un fianco, completamente nudo, e alcuni insetti avevano già iniziato a banchettare con le interiora fuoriuscite dallo squarcio.

«Abbiamo qualche informazione?» domandò accucciandosi accanto alla vittima

«Le impronte non sono in archivio, dal che risulta che non ha precedenti di alcun tipo» rispose Jane. «Abbiamo anche interrogato alcuni frequentatori abituali del parco e gli abitanti dei dintorni. Ma nessuno l’ha riconosciuta.»

«È strano. Il sangue qua attorno e sul cadavere è decisamente troppo poco per ferite di questo genere.»

«Stando al racconto dell’agente che l’ha trovata, camminava ancora quando la pattuglia è arrivata qui» rispose O’Bryan. «Ma quasi mi risulta difficile crederlo viste le sue condizioni.»

«Se fosse una maga avrebbe un senso» ipotizzò Jane. «Qualche esperimento o giochino magico andato male.»

«Non sarebbe la prima volta» rispose l’attempato irlandese. «Cinque anni fa a Providence un tizio ha camminato per quasi tre ore per la città con l’intestino di fuori, seminando budella per tutto il centro cittadino per poi crollare morto proprio davanti ad una scuola.»

«Un sovraccarico magico può fare questo ed altro!» esclamò il dottor Takikawa arrivando in quel momento sulla scena del crimine, i capelli neri e corti pettinati con la riga e i buffi occhiali rotondi a svettare sul volto paffuto.

«Comodo Dean, comodo» lo ammonì Derek. «Tanto qui non c’è niente da fare.»

«Forse voi della sezione investigativa avete l’orario fisso e le ferie pagate, ma io mi sono fatto la nottata per finire di redigere i rapporti per la procura, e quando è arrivata la chiamata dai tuoi amici stavo giusto per concedermi qualche ora di sonno.

Quindi risparmiami le tue solite battute.»

Senza aggiungere altro il dottore si mise subito al lavoro, e come prima cosa, chiusi gli occhi, sospese la propria mano sul volto della vittima, materializzandone immediatamente un’immagine olografica tridimensionale davanti a sé, oltre ad una incalcolabile quantità di dati medici.

«Nessun riscontro nell’archivio internazionale» sentenziò dopo qualche secondo. «O è una strega senza autorizzazione o un essere umano. Io propendo per la seconda ipotesi. Ad una prima analisi l’M-Code sembra abbastanza sviluppato, ma non così tanto da permettere l’uso della magia.»

«Però questo riporta a galla la domanda di prima» osservò O’Bryan. «Come ha fatto questa povera disgraziata a camminare per chissà quanto tempo con gli intestini di fuori senza l’aiuto di un qualche potere magico a sostenerla?»

«Chi l’ha uccisa forse ha fatto sparire il sangue per cercare di depistarci» pensò Jane. «Può darsi che a conti fatti l’omicidio non sia avvenuto poi così lontano da qui.»

«Ma allora perché l’assassino avrebbe dovuto permetterle di girare liberamente per il parco, con il rischio di essere sorpreso? Morente com’era avrebbe fatto prima a finirla.»

Takikawa nel mentre stava ancora lavorando sui dati che aveva raccolto, e d’un tratto la sua espressione solitamente così sicura e sornione, si caricò di stupore.

«Signori, qui mi sa che abbiamo un problema.»

«Sarebbe?» chiese O’Bryan

«Abbiamo acclarato che non può trattarsi della strega. E allora, qualcuno dovrebbe spiegarmi come mai il livello di Risonanza nell’organismo di questa donna supera abbondantemente i 300.»

I tre agenti lo guardarono attoniti, per poi rivolgere nuovamente gli sguardi verso la vittima.

Una risonanza pari a trecento era propria solo di alcuni tra i migliori stregoni in circolazione, ed era assolutamente impossibile che un normale essere umano potesse avere dentro di sé un potere simile.

Chi diavolo era quella ragazza?

 

La sede della MAB di New York, nel cuore di Midtown, era stata inaugurata da appena tre anni, prima dei quali la squadra si era vista costretta a “subappaltare” un piano del locale quartier generale dell’FBI.

Gli abitanti di New York potevano anche dirsi fortunati, perché escludendo Washington nessun’altra città dell’east coast poteva vantare una squadra MAB così numerosa e, tutto sommato, ben organizzata.

Il caposquadra di New York si chiamava Kay Hodgson, ed era forse l’unico essere umano sulla faccia della Terra a comandare una squadra MAB; dall’alto dei suoi cinquantadue anni aveva visto con i suoi occhi l’era del cambiamento, vivendo sulla propria pelle il passaggio dalla vecchia alla nuova civiltà, e le rughe che scavavano il suo volto, solo parzialmente nascoste dai folti baffi scuri, sembravano quasi voler testimoniare le prove che doveva aver sopportato per emergere in un mondo in cui la padronanza della magia era tutto.

«Qualche notizia sulla sconosciuta del parco?» domandò Hodgson entrando nella grande sala rettangolare che ospitava gli uffici dei suoi detective e volgendo lo sguardo alla foto del cadavere appiccicata sulla lavagna.

«Per ora niente di niente» rispose Norway.

«Nessuno dei residenti con cui abbiamo potuto parlare finora dice di averla mai vista» proseguì Jason «E nessuno l’ha riconosciuta.»

«Infine, secondo Takikawa, il livello di Risonanza residuo non combacia con l’effettiva struttura del suo M-Code» concluse Jane. «Quattro anni nella MAB, e questa è la prima volta che mi capita una cosa del genere.»

«Rianimazione» disse una voce alle loro spalle, spingendo tutti e quattro a volgere lo sguardo verso l’ingresso.

Dinnanzi a loro, senza che se ne fossero accorti, era comparsa una giovane cadetta che ancora odorava di liceo, uniforme blu dei graduati dell’accademia di magia pulita e ordinata come appena comprata, capelli corti di un castano molto chiaro, e una 9mm tirata a lucido alla cintura ascellare.

«Una fonte di magia molto potente inserito all’interno di un corpo morto, abbastanza potente da riportarlo in vita.»

Poi, accortasi del modo in cui era fissata, piegò le labbra in un sorriso imbarazzato.

«Scusate. Helen Trevor. Sono stata assegnata a questo ufficio a partire da stamattina.»

«Ah già, la novellina» rispose saccente Jane. «Hai scelto il momento migliore.»

«Forse sono rimasto indietro con i corsi di aggiornamento» osservò Norway. «Ma rianimazione e negromanzia non può funzionare sui corpi degli esseri umani.»

«Ecco spiegato perché il corpo è ridotto in quelle condizioni. Qualcuno ha cercato di rianimarlo ricorrendo alla negromanzia, ma dopo un po’ l’energia introdotta all’interno, non potendo contare su di un’appropriata valvola di sfogo, è esplosa violentemente provocando gli effetti che vedete. Quando poi l’energia residua si è esaurita del tutto, il corpo è definitivamente morto. Se così vogliamo dire.»

«Ma per quale motivo uno stregone dovrebbe prendersi il disturbo di rianimare un corpo morto» le domandò O’Bryan quasi con tono di sfida, commettendo un atto illegale, se sa fin dal principio che il suo tentativo è destinato a fallire?»

«Non saprei? Prestigio? Studi antropologici? Il semplice gusto del macabro?

La magia è una scienza che si evolve di giorno in giorno, e quello che abbiamo scoperto fino ad oggi non è che la punta dell’iceberg delle sue effettive potenzialità. Nuove scoperte vengono fatte ogni giorno, e la corsa all’ultima novità coinvolge tutti i possibili settori umani.»

«Giocare con i cadaveri come si gioca con le bambole è quanto di più immorale ed antietico si possa immaginare» replicò quasi seccato Norway. «E mi viene male al pensiero che qualcuno possa pensare di usare la magia per qualcosa del genere.»

«Non mi fraintenda, detective. Non condivido quello che questa persona ha fatto. Dico solo che probabilmente, secondo lui, ne valeva la pena.»

Derek e gli altri girarono quindi nuovamente gli sguardi, stavolta in direzione del comandante, che dopo un attimo di apparente indecisione si riscosse.

«Facciamo un controllo in archivio. Cercate gente che abbia già svolto pratiche simili, e vedete se qualcuno di loro vive nella zona in cui abbiamo trovato il corpo.»

In quella, un giovane sulla trentina, capelli arancio fuoco e fare goliardico, entrò tutto baldanzoso nell’ufficio, sventolando la cartella che aveva in mano come fosse stata una bandiera della vittoria.

«Buone notizie, gente!» esclamò giocondo, salvo poi ammutolirsi di fronte alla nuova arrivata. «E questa gentile signorina chi è?»

«Non cominciare come tuo solito, Foch» lo ammonì Jane

«Accidenti agente Paloski, siamo proprio di cattivo umore oggi.»

«Solo quando ti vedo.»

«Ok, ok. Lasciamo perdere» anche se prima di chiuderla definitivamente quello strambo giovane non mancò di sfiorare con un dito la guancia della nuova arrivata. «Sei proprio un bel bocconcino. Quanti anni hai, ventuno?»

«La detective Trevor da oggi lavorerà con noi» tagliò corto Norway. «Quindi ora dacci un taglio o tornerai a servire fiocchi d’avena nel refettorio di Rikers

«La giornata non è cominciata nel modo migliore Kristen, non renderla ancora meno piacevole» disse O’Bryan. «O devo ricordarti per l’ennesima volta il protocollo sui detenuti stregoni riqualificati? Avanti, cos’hai per noi?»

«D’accordo, per oggi la goliardia la mettiamo da parte.

Comunque sia, ho fatto una ricerca sulla vostra Cenerentola squartata inserendo la foto negli archivi della motorizzazione, e credo proprio di avere fatto centro.»

Presa una scheda di memoria il giovane la inserì quindi nel lettore del proiettore appeso alla parete, su cui iniziarono a scorrere migliaia di immagini.

«E la vincitrice è…» disse un attimo prima che l’elenco smettesse di scorrere. «Lucy Ferrazzani. Ventinove anni, 650 di Pelton Avenue, Staten Island.»

«Ferrazzani!?» disse Norway spalancando gli occhi. «Non sarà per caso…»

«Indovinato. È la figlia del professor Giulio Ferrazzani

«Ma non ha senso» disse O’Bryan. «Qui risulta che è ancora viva e vegeta.»

«O forse qualcuno vuole far credere che sia ancora così» ammiccò Jane

«Il padre insegna alla Carter University. È uno dei dieci ricercatori di stregoneria più popolari al mondo.

Questo e altro dovrebbe essere capace di fare con tutte le sue conoscenze in materia.»

I quattro membri della squadra si guardarono tra di loro, mentre tutto attorno si diffondeva uno strano silenzio.

«D’accordo» ordinò Hogdson. «Derek e Jonas, voi due andate a parlare con il padre della ragazza. Scoprite cosa sa. Jane e Kristen, voi invece provate a sentire i senzatetto e gli altri frequentatori abituali della zona dove abbiamo trovato il corpo. Qualcuno deve pure aver visto qualcosa.»

«Perché devo sorbirmi sempre io questo malato di mente?» bofonchiò a voce neanche troppo bassa il detective Paloski mentre usciva

«Ti adoro quando fai così, tesoro.»

Prima che anche Derek e Jonas uscissero, però, il capitano il fermò.

«Aspettate» disse, e indicò . «Portatevi anche lei.»

La ragazza restò un momento basita, ma poi, alla seconda sollecitazione del detective Norway, gli si accodò sorridendo come una bambina davanti alla gelateria.

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

E dopo tante storie ambientate su Celestis, eccone una che invece si svolge sulla cara vecchia terra.

Più che una storia, si tratta di una sorta di fantasia. Mettendo da parte per una volta tutte le atmosfere fantascientifiche e futuristiche della saga originale, ho voluto creare qualcosa che ricalcasse le classiche serie tv in sitle CSI, Criminal Minds e via discorrendo, con una squadra di polizia che investiga su crimini magici in una New York alternativa, ma pur sempre contemporanea.

Per ora si tratterà di una sorta di Pilot, con una storia autoconclusiva divisa in quattro parti.

In futuro… chissà.

A presto!^_^

Carlos Olivera

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 2) ***


EPISODIO 1

IL GIOCO DELLA MORTE

(PARTE II)

 

 

Il professor Ferrazzani abitava in una di quelle case che solo un luminare della stregoneria laureatosi a pieni voti nell’Università della Magia di Parigi avrebbe potuto permettersi.

Si era trasferito a New York dopo il matrimonio, e da allora era diventato uno dei principali referenti del mondo della stregoneria americana, contribuendo a riempire almeno in parte il solco profondo tra gli Stati Uniti e l’Europa in materia di competenza magica.

La sua bella villa in legno mattoni rossi, circondata da una palizzata bianca, e con una grande quercia a svettare imponente al centro del giardino, si trovava in una delle zone più eleganti di Staten Island.

E fu proprio in giardino che Derek, Jonas ed Helen trovarono il professore, intento a curare una delle aiuole fiorite che cingevano il portico della casa.

«Professor Ferrazzani

L’uomo, chinato, si girò verso di loro, dandosi una rapida ripulita appena notò l’apparire austero e rispettabile dei suoi ospiti.

A vederlo così non aveva proprio l’aria di una persona che aveva rivoluzionato completamente il modo di intendere la stregoneria in America, con la pelata e gli occhiali di legno chiaro, eppure sia Derek che Helen, quando furono viso a viso, non mancarono di rivolgerli un lieve, rispettoso inchino, come era usanza comune tra colo che praticavano le arti magiche.

«Non serve fare tutte queste cerimonie» disse lui con un sorriso. «Ormai è parecchio tempo che non esercito più la stregoneria.»

«Professore, io sono l’agente Norway della MAB. Questi sono i miei colleghi, O’Bryan e Trevor.

Vorremmo parlare con lei di sua figlia.»

«Lucy?» rispose lui come perplesso. «Cosa le è capitato? Vi prego, ditemi che non si tratta di qualcosa di serio.»

I tre agenti si guardarono tra di loro, e i loro sguardi purtroppo non lasciavano intendere nulla di buono.

«Professore» disse Norway quasi balbettando. «Sono costretto a dirglielo. Abbiamo trovato il corpo di sua figlia al Prospect Park a Brooklyn, questa mattina all’alba.»

Per un attimo il professore sembrò sul punto di svenire, poi però parve riconquistare l’autocontrollo, sistemandosi gli occhiali e girando nervosamente la testa a destra e a sinistra.

«Ci… ci dev’essere un errore. Mia figlia è viva e vegeta.»

I tre agenti non si scomposero più di tanto; negare l’evidenza era una reazione normale e del tutto comprensibile ad un padre cui veniva detto di aver appena perso la sua unica figlia.

«Professore, la foto di sua figlia è stata riconosciuta dal nostro sistema di identificazione. È sicuramente lei.»

«No, voi non capite. Mia figlia è uscita di casa un’ora fa.»

Stavolta, Derek e i suoi compagni rimasero di sasso.

«Come, prego!?» domandò O’Bryan.

«Lucy è uscita per andare a correre. L’ho vista coi miei occhi, e l’ho anche salutata.»

Neanche a farlo apposta, proprio in quel momento una giovane ragazza in pantaloncini attillati e maglietta da aerobica giunse dal viale e valicò il cancello, togliendosi con l’asciugamano leggero avvolto attorno al collo il sudore dalla fronte.

Vedendola così, coi capelli biondo scuro annodati poco sotto le punte e la corporatura ben scolpita, sembrava esservi quasi una curiosa, per quanto velata somiglianza tra la nuova venuta e l’agente Trevor.

Quando fu davanti a loro, i tre agenti restarono di sasso: non c’era alcun dubbio, quella ragazza era uguale identica a quella che avevano visto distesa sul tavolo delle autopsie.

«Scusa papà, ci ho messo più del previsto.» disse togliendosi la fascia inzuppata dalla fronte

«Tesoro, questi signori sono della MAB.»

«Mio Dio. È forse successo qualcosa?»

«Beh, effettivamente…» replicò incredulo O’Bryan, per poi mostrare loro l’immagine della ragazza di Brooklyn su di una finestra olografica appositamente aperta. «Questa è la ragazza che si trova attualmente al nostro obitorio.

Concorderà con noi che somiglia molto a sua figlia, professore.»

«Non parlerei di somiglianza» rispose lui ad occhi spalancati. «Sono praticamente identiche.»

Il professore si accigliò, quindi fece un cenno alla figlia.

«Tesoro, è quasi ora di lezione. È meglio se ti prepari.»

«Hai ragione, papà. Se posso andare…»

«Sì, ovviamente» rispose Derek ancora allibito.

A quel punto il professore seguì con lo sguardo la figlia fino a che questa non scomparve dietro la porta di casa, quindi, toltosi gli occhiali, guardò un altro momento la sconosciuta della foto, distogliendo però gli occhi quasi subito.

«Fa quasi rabbrividire. Se non avessi saputo dove si trovava esattamente mia figlia, probabilmente anche avrei confuso questa poveretta per lei.»

«Lei è un professore di stregoneria» esordì il detective Trevor. «Che interpretazione potrebbe dare per una cosa del genere?»

«La risposta più logica sarebbe il pensare ad una coincidenza, ma sono io il primo a credere che una tale somiglianza non può essere casuale.»

«Pensa che potrebbero averla clonata?» chiese allora Derek

«Le tecniche di clonazione magica non si sono ancora perfezionate fino a questo punto.»

«E gli incantesimi che permettono di modificare l’aspetto esteriore delle persone?» ipotizzò O’Bryan

«Può darsi, ma anche così la somiglianza è di un livello molto alto. Se di questo si tratta, chiunque sia stato deve essere in possesso di considerevoli conoscenze magiche.»

Un attimo dopo il trillare di un telefono interruppe la conversazione, e O’Bryan, appartatosi, si portò una mano all’orecchio, confabulando alcuni secondi per poi tornare dai compagni.

«Era il capo. Dobbiamo tornare alla centrale. Pare ci siano delle novità importanti.»

A quel punto i tre agenti si congedarono, senza mancare però di dare istruzioni al professore di rimanere reperibile in caso di ulteriori necessità.

 

Anche Jane e Kristen non avevano avuto molta fortuna.

Dopo aver speso quasi due ore ad interrogare sbandati, senzatetto e persino prostitute alla ricerca di informazioni non erano stati in grado di trovare un solo testimone che avesse visto qualcosa di utile.

Per fortuna, una buona notizia li attendeva al ritorno in centrale.

«Andate subito alla sala autopsie» li accolse Hodgson prima ancora che avessero il tempo di fare rapporto. «Dean ha qualcosa di molto importante per la vostra indagine.»

Quindi, i due si affrettarono a raggiungere Takikawa nel suo piccolo regno sotterraneo, seduto al suo sgabello preferito ed intento a giochicchiare con una curiosa statuetta a forma di gatto grande non più di qualche centimetro, rappresentato seduto e con la zampa destra sollevata come a voler salutare.

«Un gatto!?» esordì Foch

«Non un gatto qualsiasi» rispose sornione il dottore. «Un maneki neko. Un gatto della fortuna.»

«Perché stiamo parlando di gatti?» domandò allora Jane

«Perché è grazie a questo bel micino di plastica che ora sono in grado di darvi alcune importanti informazioni atte a sbrogliare questa matassa sempre più intricata.»

«Quando hai finito di dare fiato alla bocca ti spiacerebbe provare a spiegarci perché ci hai fatti venire qui?»

«D’accordo, se volete rinunciare a farvi una cultura per me và più che bene» replicò il dottore fingendosi offeso e decidendosi, finalmente, a raggiungere il corpo della sconosciuta sul tavolo operatorio. «Quello che davvero dovete sapere è che questi gatti hanno una particolarità. La loro zampa mobile oscilla in presenza di qualunque emanazione magica.»

«E questo come dovrebbe aiutarci?» chiese Foch quasi provocatorio.

Takikawa rispose con un sorriso beffardo, quindi poggiò la sua statuetta proprio accanto al volto del cadavere; incredibilmente, dopo qualche secondo, la zampetta destra cominciò ad oscillare avanti e indietro, aumentando sempre più la sua andatura, fino a raggiungere un ritmo costante di una oscillazione circa al secondo.

«E questo che significa!?» esclamò Jane

«Me lo sono domandato anch’io. Questo corpo a prima vista è stato privato di qualunque residuo magico, e come da procedura ho eseguito un ulteriore drenaggio subito prima di dare inizio all’autopsia.

Quindi, come si spiega questo paradosso?»

«Sei tu il dottore» rispose Foch

«Beh, ci ho pensato per un po’, poi mi sono ricordato di una cosa. Certi incantesimi, come quelli studiati per la modificazione del corpo, non lasciano dietro di sé uno spettro energetico, e anche qualora venga effettuato un drenaggio i cambiamenti fisici visibili non vengono rivelati.»

«Quindi, qualcuno ha cambiato i connotati a questa donna?»

«E chiunque sia stato è stato anche parecchio furbo» disse il dottore mostrando i polpastrelli della vittima. «Ha modificato anche le impronte digitali. Per questo la ricerca in archivio non ha dato risultati.»

«E dunque? Come facciamo a scoprire chi è realmente questa donna?»

Di nuovo Takikawa piegò le labbra in uno di quei sorrisetti che Jane odiava ancora di più del dover lavorare con uno come Kristen, quindi, chiusi gli occhi, poggiò una mano sul volto della vittima, il quale, sotto gli occhi dei due agenti, nel giro di pochi secondi iniziò lentamente a trasformarsi, mentre l’energia presente nella stanza aumentava al punto di far tintinnare i portelli metallici delle celle frigorifere e ribaltare alcune delle action figure che adornavano ogni singolo ripiano delle stanza.

Quando, dopo poco, tutto cessò, i tratti della vittima erano radicalmente cambiati; i capelli castano chiari erano diventati di un biondo innaturale, palesemente tinto, e i lineamenti si erano fatti più grezzi, meno femminei.

«E questa chi è?» domandò Foch non senza un certo stupore

«Per fortuna, stavolta sono in grado di risponderti con certezza» rispose il dottore focalizzando l’attenzione dei due detective sul vicino monitor. «La ricostruzione facciale non è logicamente perfetta, ma ho comunque ottenuto un riscontro.»

E infatti, stavolta il database diede una risposta affermativa al riconoscimento facciale.

«Eccola qui. Molly Tips, di Tarrytown, New York. Ventitre anni, piccoli precedenti per furto e detenzione di droga. Viveva nel Queens. I genitori ne hanno denunciato la scomparsa sei mesi fa.»

«Perché una sbandata del Queens dovrebbe finire cadavere in un parco di Brooklyn con i connotati di una ragazza di buona famiglia di Staten Island?»

«I miei complimenti, detective Foch. È riuscito ad inserire ben tre distretti di New York in una sola frase. Possiamo sperare di arrivare a quattro?»

«Un giorno o l’altro ti dirò dove puoi infilartelo questo tuo umorismo da quattro soldi, sottospecie di nerd.»

«Una ricostruzione come questa richiede una buona dose di esperienza ed abilità» osservò Jane. «Chi e perché dovrebbe dannarsi tanto a fare una cosa del genere?»

«Ben sapendo che è destinata a fallire» riprese Takikawa portando nuovamente l’attenzione sul cadavere. «Questo tipo di incantesimi può essere applicato indistintamente su maghi ed esseri umani. Quello che realmente l’ha uccisa è stato il resto.»

«Di che stai parlando?»

«Oltre a ricostruirle il volto, l’autore di questo… esperimento, se così vogliamo dire, ha cercato di inserire in lei anche una personalità, affinché si sostituisse a quella originale. Una sorta di lavaggio del cervello, se mi passate il termine. Ma dal momento che la nostra qui presente signorina Tips non era dotata di un M-Code sufficientemente sviluppato, una tale quantità di potere magico inserito forzatamente nel suo corpo alla fine ha provocato un rigetto, che l’ha uccisa.

Viste le circostanze, è già una fortuna che non sia diventata un’EDA.»

Tutti e tre fissarono quindi per l’ennesima volta il volto della ragazza, ciascuno perso nei propri pensieri.

 

Quando, poco dopo mezzogiorno, Derek e gli altri tornarono in centrale, erano già stati ragguagliati via telefono delle ultime novità circa la reale identità della vittima, ma al secondo briefing della giornata, più che delle risposte, ad attenderli c’erano solo nuove domande.

«Allora, ricapitoliamo» disse Foch per cercare di riordinare le idee. «Qualcuno si diverte a clonare una ragazzetta di buona famiglia di Staten Island, ma per qualche motivo il nostro clone finisce in mille pezzi per poi farsi una passeggiata fino a un parco di Brooklyn con le interiora di fuori dove finalmente tira le cuoia.»

«Direi che questo escluse l’ipotesi della negromanzia» ipotizzò O’Bryan. «Anche ipotizzando che Molly fosse viva quando è finita nelle mani dello stregone, se il suo scopo era solo quello di fare esperimenti sulla rianimazione dei corpi che senso aveva alterarle l’aspetto fisico?»

«D’accordo, partiamo dalla prima domanda» disse Jane. «Prima ancora del perché, dovremmo chiederci dove e come l’aspetto di questa ragazza sia stato alterato con la magia.»

«Centri che fanno questo genere di lavori ce ne sono parecchi in città» rispose Helen. «La risposta può essere in uno di quelli.»

«Abbiamo già indagato in questo senso» rispose subito O’Bryan. «Nessun centro di chirurgia magica né alcuno studio privato ha mai avuto a che fare con Molly Tips, né ha ricevuto richiesta di effettuare un intervento metamorfico sul modello di Lucy Ferrazzani

«Ma ci sono anche persone che svolgono questo lavoro clandestinamente.»

I detective si fissarono tra di loro, realizzando la fondatezza dell’affermazione della loro nuova collega.

«Il padre ha detto che la figlia è piuttosto famosa» disse Derek come a voler rafforzare l’ipotesi. «Ha giocato nella squadra di volley dell’università, ed è anche apparsa su alcuni siti internet. Forse qualche maniaco l’ha vista e ha cercato di averne una copia per sé.»

«Con le conoscenze di cui è a disposizione, non è escluso che l’assassino possa aver alterato le fattezze di Molly Tips tutto da solo» disse Hogdson. «Ma tanto vale fare un tentativo.»

Bastò una breve ricerca nel database della polizia di New York per avere un riscontro.

«Ho qualcosa di interessante» disse Jane facendo comparire sul monitor il volto di un afroamericano sulla quarantina. «Dustin Fletcher. Vive a Brooklyn. Ci sono parecchie segnalazioni a suo carico per interventi illegali di alterazione fisica, inoltre è segnalato come NAW.

E indovinate un po’? Vive a meno di tre isolati dal luogo del ritrovamento.»

«È una pista» disse Derek. «Andiamo a parlare con lui.»

 

L’ultima residenza nota di Dustin Fletches era un vecchio condominio in Albemarle Road, uno di quei posti che bastava guardarli per capire che era meglio girare al largo.

Derek e Jane, una volta entrati, dovettero usare mezzi un po’ persuasivi per convincere il portiere a rivelare quale fosse l’appartamento del sospettato, e quando lo raggiunsero, al terzo piano dell’edificio, bussarono come di consuetudine.

«Dustin Fletcher, MAB! Apri la porta.»

Un istante dopo, dall’interno, si udì uno straziante urlo di donna, e allora i due agenti, armatisi, sfondarono la porta con un calcio, penetrando all’interno.

L’abitazione era un vero letamaio, sporca e trascurata, e nella sala seduta su di una sedia malmessa, Derek e Jane trovarono una donna sui cinquant’anni, con il volto fumante nascosto dietro le mani ed un uomo, probabilmente il marito, inginocchiato accanto a lei nel tentativo di arrecarle conforto.

«Che è successo?» chiese Jane

«Le stava praticando un incantesimo di alterazione, e quando voi avete bussato è scappato via senza interromperlo!»

«Dov’è adesso?»

«È andato in camera da letto.»

I due agenti raggiunsero velocemente la stanza, aprendo la porta giusto in tempo per vedere il sospettato uscire dalla finestra e correre giù dalla scala antincendio.

«Fermo!»

Senza indugio Derek si lanciò al suo inseguimento, mentre Jane, dopo un attimo di indecisione, tornò invece da dove era venuta, non prima però di aver richiesto un’ambulanza per la vittima dell’incantesimo fallito.

Come si accorse di essere inseguito Fletcher saltò immediatamente giù dalla scala, usando le sue abilità di mago per attutire la caduta, ed altrettanto fece Norway.

Ebbe così inizio un lungo inseguimento, con guardia e ladro che sembravano impegnati in un gioco magico nel tentativo di superarsi a vicenda; grazie alle loro capacità i due superarono strade, scavalcarono reti, e persino corsero in verticale lungo muri o altri ostacoli, ma per quanto Fletcher ci provasse Norway riusciva sempre e comunque a stargli dietro.

Sarebbero andati avanti così per molto tempo, se alla fine il sospettato, svoltato un angolo, non si fosse trovato davanti il detective Paloski, che senza indugio sparò due colpi simili a globi di luce dalla sua pistola centrandolo in pieno petto; non vi furono né sangue né ferite apparenti, ma ciò nonostante Fletcher si ritrovò immediatamente a terra, immobile e rannicchiato in posizione fetale come paralizzato.

«Cazzo, che male!» imprecò cercando inutilmente di muoversi. «Che mi hai fatto, brutta schifosa?»

«Essere un mago ha i suoi lati negativi. Basta una scarica di energia velenosa per mandare in tilt il tuo M-Code, e con esso tutto il tuo sistema nervoso.»

«Tranquillo, però» disse Norway arrivandogli appresso ed ammanettandolo. «Non è letale. Dopotutto, ne hai di cose da spiegare.»

 

Fletcher si riprese prima ancora di arrivare in centrale, venendo quindi immediatamente rinchiuso nella sala interrogatori assieme a Derek, di cui si diceva che sarebbe stato capace di far parlare perfino Gheddafi con le sue abilità e il suo metodo coercitivo.

A dargli manforte, come molte altre volte, il detective Paloski.

«Sei in un mare di guai, Fletcher» esordì Derek sedendosi di fronte a lui. «Esercizio della magia senza licenza e abuso della professione magica, senza contare le lesioni aggravate.»

«Quella poveraccia probabilmente rimarrà sfigurata a vita per le tue abilità da quattro soldi.» rincalzò Jane

«È solo colpa vostra» rispose lui strafottente. «Se non mi foste piombati in casa a quel modo, le cose sarebbero andate diversamente.»

«Puoi rigirare la frittata finché ti pare» gli rispose a tono Norway. «Resta il fatto che qui ce n’è abbastanza per sbatterti in prigione per una dozzina d’anni. Se poi ci aggiungiamo l’accusa di omicidio la situazione per te diventa non esattamente rosea.»

«Omicidio!?» replicò il sospettato con aria perplessa. «Che omicidio?»

Jane allora gli sbatté davanti la foto della scena del crimine, suscitando in lui un visibile senso di disgusto.

«L’omicidio di questa ragazza. Il processo di alterazione a cui è stata sottoposta è stato così pesante da ucciderla, e sai una cosa? È stata trovata a pochi chilometri da quel cesso che ti vanti di chiamare studio.

Non lo sapevi che una simile quantità di energia è letale per un essere umano?»

«Ehi un momento, non scherziamo. Io questa qui non l’ho mai vista.»

«Ah sì?» rispose Jane mostrandogli invece la foto “vera” di Molly Tips. «E questa invece? Questi erano i suoi veri connotati, prima che tu ti mettessi a giocare all’allegro chirurgo.

Quindi, ora, te lo chiedo di nuovo. Qualcuno ti ha mai pagato per eseguire un incantesimo metamorfico su questa ragazza?»

«Vi ripeto che io questa tizia non l’ho mai vista. E se volete posso anche provarvelo.»

I due detective saltarono sul posto.

«Come sarebbe a dire che puoi provarlo?» chiese Jane

«Non così in fretta. Prima voglio un accordo. Che cosa mi offrite se vi aiuto?»

«Tu comincia a parlare» lo imbeccò Derek. «Se poi la tua storia ci sembrerà convincente, potremo sempre chiedere al procuratore di mettere una buona parola per te.»

Fletcher tergiversò, indeciso sul da farsi, ma alla fine si convinse.

«C’è una chiavetta per computer nel mio studio. Lì dentro ci sono informazioni su tutti i clienti che ho avuto, incluse le loro foto prima e dopo i miei… lavoretti.»

«Perché tenere foto dei tuoi pazienti?» domandò ancora il detective Paloski. «Sono la prova del tuo lavoro sporco.»

«Così non possono darsela a gambe prima di avermi pagato. Inoltre tra i miei clienti ci sono persone che… come posso dire… non hanno esattamente la coscienza a posto. Pensavo che un domani potessero tornarmi utili, e a quanto pare non mi sbagliavo.

Controllate se non mi credete.»

I due detective si guardarono, quindi, raccolte le foto, si avviarono verso l’uscita.

«Prega per te che sia vero» disse Derek prima di lasciare la stanza.

 

La chiavetta era già stata portata in centrale assieme a molte altre prove, così analizzarla fu molto facile e veloce.

Sfortunatamente, le notizie che furono trovate al suo interno non erano incoraggianti.

«Sembra che quel mago da strapazzo abbia detto la verità dopotutto» disse Foch scorrendo le immagini dei clienti di Fletcher. «Malversatori, rapinatori, stupratori. Questo archivio farà venire un orgasmo alla polizia di New York. Sfortunatamente però, non c’è alcuna traccia di informazioni riguardanti Molly Tips o Lucy Ferrazzani

«Forse sta solo giocando con noi» ipotizzò Helen. «Il corpo è stato trovato stamattina. Se l’intervento è avvenuto ieri o addirittura stanotte, può darsi che non abbia ancora avuto il tempo di inserire i dati.»

«Lo escludo» disse Takikawa entrando nell’ufficio succhiando rumorosamente un cartoccio di noodles del ristorante cinese all’angolo. «Gli incantesimi metamorfici non lasciano tracce evidenti, ma il processo di alterazione della personalità è molto più complesso, e l’analisi delle particelle energetiche che sono riuscito ad isolare parla chiaro.

L’aspetto e la personalità della vittima erano state alterate già da qualche settimana quando si è verificato il rigetto.»

«Il che ci riporta al punto di partenza» disse mesta Jane

In quella O’Bryan, seduto alla sua scrivania, rispose ad una telefonata, e dal tono che assunse rapidamente il suo sguardo i suoi colleghi compresero che non c’erano buone notizie.

«D’accordo, arriviamo.» disse, con un filo di voce, posando la cornetta

«Che è successo?» chiese Foch

Ma niente poteva prepararli a ciò che stavano per sentire.

«Ne hanno trovata un’altra.

Un’altra Lucy Ferrazzani

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 3) ***


EPISODIO 1

IL GIOCO DELLA MORTE

(PARTE III)

 

 

La chiamata era arrivata da un vicolo sudicio nel Queens.

La polizia aveva effettuato una retata contro un gruppo di spacciatori, e per puro caso, inseguendo e bloccando uno dei sospettati, uno degli agenti aveva notato uno strano sacco gettato malamente all’interno di un cassonetto, ed era stato sufficiente aprirlo perché dal suo interno apparisse il volto, deformato dalla decomposizione ma ancora riconoscibile, di una giovane donna.

Quando Derek e gli altri arrivarono sul posto il corpo era già stato estratto e adagiato a terra, e a tutti bastò uno sguardo per capire che si trattava veramente di un’altra, ulteriore Lucy Ferrazzani.

Anche la causa della morte appariva simile a quella della vittima di Brooklyn, con lo squarcio nel ventre a fare bella mostra di sé, anche se stavolta la ferita appariva molto meno orrenda della precedente.

«E con questa siamo a tre» commentò O’Bryan.

«Aspetta a dirlo» osservò Derek. «Stavolta potrebbe essere quella vera.»

«Ne dubito» rispose il detective che coordinava le indagini per la polizia. «Se la storia che mi avete raccontato è vera, stamattina la presunta vittima era ancora viva e vegeta. Questo cadavere invece ha come minimo tre settimane.»

«Il che fa risalire questa morte a prima di quella di Molly Tips» disse Jane. «Forse l’assassino aveva rapito Molly già da diverso tempo, e quando questo clone è morto ha tentato di ripetere l’esperimento, ottenendo però gli stessi risultati.»

In quella il grido di una voce famigliare attirò l’attenzione degli agenti, e Derek, alzati gli occhi, distinse tra la folla il professor Ferrazzani che cercava furiosamente di farsi largo tra gli agenti.

«Lasciatelo» disse quindi ai poliziotti, ottenendo di fargli varcare i nastri

«Detective, la prego, mi dica che non è lei!»

«Stia tranquillo, non è sua figlia» lo rassicurò. «È morta da almeno una settimana.»

«Grazie al cielo. Questa situazione sta diventando paradossale. Da dove saltano fuori tutti questi cloni della mia Lucy?»

«Vorrei tanto saperlo anch’io, professore. Ora però dobbiamo preoccuparci di sua figlia. È evidente che qualcuno è molto interessato a Lucy, e che non riuscendo a sostituirla con dei cloni ora tenterà di appropriarsi dell’originale.»

«Ha ragione. La chiamo subito!»

Il professore si portò un dito all’orecchio, e dopo pochi secondi iniziò subito a parlare.

«Lucy, sono papà. Dove ti trovi? All’università? No, ascolta, lascia perdere tutto. Torna subito a casa.

Non commentare, poi ti spiego.»

Poi, d’improvviso, l’espressione del professore cambiò, e con essa il suo tono di voce, che si fece terrorizzato e sconvolto.

«Lucy, che succede? Lucy!»

«Che sta succedendo?» domandò Derek

«Ascolti!» replicò Ferrazzani toccandogli la fronte con un dito

Nella testa del detective si palesarono allora rumori concitati, di lotta, sovrastati dalle urla strazianti di una ragazza, ma prima che Derek potesse anche solo pensare di domandare qualcosa o capire cosa stesse succedendo il legame mentale si ruppe, e tutto tacque nuovamente.

Un nome, però, si stampò nella sua mente: Peter. E fu l’ultima parola che sentì prima che il silenzio inghiottisse ogni cosa.

I due uomini si guardarono ugualmente atterriti.

«L’hanno presa! Hanno preso mia figlia!»

«Mantenga la calma, la ritroveremo» rispose Derek, che subito dopo chiamò a sé tutti i suoi collaboratori per informarli di quanto accaduto. «Chiamate la centrale, subito!»

 

In un mondo in cui la maggior parte degli stregoni preferivano ricorrere al nuovo sistema integrativo che permetteva di comunicare a livello telepatico usando gli invisibili flussi di energia che percorrevano la Terra da una parte all’altra come un’immensa rete piuttosto che ai normali telefoni, non era facile in questi casi riuscire a tracciare una chiamata.

Per fortuna la scuola di magia di New York era dotata dei più moderni sistemi di sorveglianza, ma date le circostanze non c’era tempo per ricorrere ai metodi convenzionali.

Così intervenne Foch, il quale oltre che per esercizio abusivo della stregoneria aveva avuto dei precedenti con la polizia anche per aver curiosato in diversi sistemi protetti tra multinazionali, corporazioni varie e persino forze armate, ma servirono quasi tre ore per riuscire ad avere accesso all’archivio della sorveglianza.

Bastarono pochi minuti per trovare il momento fatidico, che per una fortuita coincidenza si era consumato proprio davanti ad una delle telecamere di sorveglianza.

«Eccola» disse Derek indicando Lucy intenta a percorrere un porticato arioso ma isolato ai margini del parco della scuola.

A giudicare dall’ora e dal dito che la ragazza aveva poggiato sull’orecchio, doveva trattarsi proprio del momento del rapimento; e infatti, dopo qualche attimo, un giovane, apparentemente della sua età, le si parò dinnanzi, scambiando alcune parole concitate con lei per poi afferrarla violentemente, colpirla alla fronte con il palmo della mano e trascinarla, apparentemente svenuta, dentro al vicoletto da cui era venuto.

I detective seguirono la scena in silenzio, intenti a cercare il più piccolo elemento che potesse aiutarli a chiarire l’identità dell’aggressore, il quale era stato bene attento a dare sempre le spalle alla telecamera, così da non rendere visibile il proprio volto, nascondendosi oltretutto dietro ad un cappello da baseball e un voluminoso cappotto con un curioso disegno a teschio sulla schiena.

«Abbiamo immagini del volto del sequestratore?» domandò O’Bryan

«Nessuna, purtroppo. All’interno del vicolo non ci sono telecamere, e quella che riprende l’ingresso del parcheggio del campus, sfiga nera, era in riparazione.»

«Il custode ha detto che la macchina era una vecchia De Ville del ’94 grigio scuro, ma non è riuscito a leggere la targa né a vedere in volto l’aggressore» disse Jane. «Abbiamo diramato un ordine di ricerca per tutti i modelli corrispondenti, ma ce ne saranno migliaia solo a Manhattan.»

«Hanno un bel coraggio a chiamarlo sistema di prim’ordine» mugugnò Derek. «Comunque, dobbiamo trovare qualcosa.»

 

Purtroppo, anche dopo aver speso tutta la sera e buona parte della notte a guardare e riguardare non solo quelle immagini, ma anche tutte quelle che era stato possibile mettere insieme sia all’interno del campus che nelle zone immediatamente attigue, la squadra non fu in grado di giungere a nessuna conclusione significativa.

Tutto ciò che era stato possibile stabilire era l’identità della nuova vittima, una certa Teresa Stegen, una prostituta trentunenne scomparsa da alcuni mesi ma che nessuno, a cominciare dalla polizia, si era preso la briga di cercare.

A turno Derek e gli altri si erano concessi qualche ora di riposo nella stanzetta attigua agli uffici, ma dopo oltre ventiquattro ore di lavoro ininterrotto, constatando anche la mancanza di progressi, i nervi di tutti erano ormai sul punto di cedere.

«Abbiamo visto questi filmati almeno cento volte» mugugnò sconsolato Foch sorseggiando un po’ del caffè che Helen aveva caritatevolmente portato per tutti i suoi colleghi. «Stiamo girando in tondo.»

«Sveglia, pivello» lo imbeccò Derek, di rientro dai suoi quarantacinque minuti di sonno, dando un calcio alla sua sedia che per poco non lo mandò gambe all’aria. «Non abbiamo tempo per riposare.»

«Però, anche se mi secca ammetterlo» sospirò Jane. «Devo riconoscere che l’avanzo di galera ha ragione. Questo tizio è stato davvero attento a non lasciare indizi, e quel poco che siamo riusciti a mettere insieme dallo screening delle immagini non corrisponde a nessuno stupratore, predatore sessuale o maniaco noto alla polizia.»

«Dalle analisi del computer è venuto fuori qualcosa?» domandò O’Bryan come se sapesse già la risposta.

«Solo scambi di messaggi con amiche e compagni di università» rispose Helen. «Niente sulla casella postale, sul suo blog o sui social network che faccia pensare all’attività di uno stakler.»

«Posso darvelo io il nome che cercate» disse il professor Ferrazzani comparendo sull’uscio dell’ufficio.

Aveva gli occhi rossi, il volto consumato, e bastava guardarlo per capire che non aveva dormito; senza dire altro, il professore fece qualche passo avanti, gettando sul tavolo interattivo una chiavetta e una pila di fogli.

«Cosa sono?»

«Li ho trovati nella casella telematica universitaria di mia figlia.

A quanto pare quel maledetto non aveva perso il vizio.»

«Di chi sta parlando?» chiese Derek

«Peter. Peter Walcott. Frequentava uno dei miei corsi. Sono ormai quasi sei anni che la tormenta, fin da quando si sono conosciuti quando lei è entrata all’università.

È un perdigiorno e un poco di buono, che in due anni di studi non ha mai preso nessun voto sopra il diciotto, per quei pochi che è riuscito ad ottenere.

Inoltre, so per certo che ha seguito un corso di stregoneria anatomica, lo so perché il suo professore me ne ha parlato; pare fosse l’unico in cui eccelleva.»

I detective si guardarono tra di loro, passandosi a vicenda le lettere e sospirando dubbiosi.

«Grazie della segnalazione, professore» rispose Derek quasi balbettando «Condurremo un’indagine, e le faremo sapere.»

«Come sarebbe a dire che farete un’indagine?» sbraitò il professore. «Vi ho appena dato il nome del rapitore di mia figlia! Quindi ora prenda i suoi uomini e la trovi!»

«Cerchi di capire, professor Ferrazzani» intervenne Hogdson. «Non possiamo arrestare una persona solo sulla base di pochi messaggi farneticanti. Dobbiamo avere qualche prova in più.»

Il professore, trattenuto da Jane, sembrò calmarsi, ma quando fu lasciato andare si avvicinò, quasi minaccioso, a Norway, fissandolo dritto negl’occhi.

«Sappiate che se succede qualcosa a mia figlia, farò causa all’agenzia, e a Lei in special modo. Voi pensate che amministrare la magia in una città come New York sia difficile? Dovreste vedere cosa succede altrove. A Porto Rico per esempio. Mi basta una telefonata per spedirvi tutti a sventare riti vodoo o fatture di malasorte in qualche isola dei Caraibi, e allora sì capirete fino a quali abissi di mostruosità può arrivare questa pratica ultramillenaria.

Se lo ricordi bene, detective.»

Quindi, detto questo, il professore se ne andò, lasciando Derek e gli altri immersi in un lungo, angoscioso silenzio.

«Proviamo a fare un controllo su questo Peter Walcott» si riscosse infine Norway. «Vediamo se salta fuori qualcosa.»

 

Qualcuno dei presenti aveva ben chiaro in mente quanto i giudizi di un padre verso il compagno o spasimante della propria figlia potessero risultare il più delle volte affrettati, o addirittura assolutamente sbagliati, ma in questo particolare caso il professor Ferrazzani sembrava averci visto lungo, oltre che giusto.

«Santo cielo, questo tizio si è dato da fare» commentò O’Bryan sciorinando i dati contenuti negli archivi della polizia. «Peter Walcott, ventisei anni. Detenzione e spaccio di droga, rissa, aggressione aggravata.

Si è fatto anche un periodo in prigione.»

«È stato buttato fuori dalla scuola di magia a vent’anni» lesse Jane sul dossier che aveva in mano, camminando su e giù per la stanza. «Da allora non ha fatto altro che cacciarsi nei guai.

Come ha fatto quella santarellina a innamorarsi di uno così?»

«Il fascino dell’uomo ruspante e sopra le righe» tagliò corto Jason. «Ne so qualcosa. Molte ragazze perdono la testa per tipi così. Perché poi, ancora non lo so.»

«Però sembra che suo padre la pensasse diversamente» lesse Derek. «Due anni fa, dopo varie denunce, ha ottenuto una ordinanza del giudice che gli imponeva di stare trecento metri dalla figlia, ma l’ha violata tre volte nel giro di un mese, e alla terza è finito dentro. Condannato a diciotto mesi.»

«Mi sembra tanto per un’accusa di questo tipo» obiettò Helen

«Mai mettersi contro un professore di stregoneria con amici importanti» tagliò corto Jane. «Ad ogni modo, sembra aver imparato la lezione. Anche dopo che è stato rilasciato sei mesi fa, non ci sono più state segnalazioni a suo carico.»

«Anche le e-mail e i messaggi sulla sua casella di posta universitaria sono cessati dopo l’arresto» osservò Foch analizzando il contenuto della chiavetta. «Almeno fino a oggi. L’ultima e-mail infatti risale proprio a ieri mattina.»

«Hai detto che è fuori dai sei mesi» rimuginò Derek. «Se non sbaglio la vittima del Queens è scomparsa proprio in quel periodo.»

«Cominciò a pensare che il padre abbia ragione su di lui» disse Jane.

«Questa cosa è interessante» intervenne ancora Foch. «Sentite cosa ha scritto nella sua ultima e-mail, quella di ieri mattina: “Ho cercato di non pensare più a te, ma la verità è che ormai le nostre vite sono legate a doppio filo dal destino. Credevo che avere al mio fianco qualcuno che avesse il tuo stesso viso mi avrebbe fatto stare meglio, ma ora mi rendo conto che non è così. Tu sei l’unica, e devo averti tutta per me. Perciò sarai mia, anima e corpo, in un modo o nell’altro.”»

I detective ammutolirono, ma il direttore, riavutosi, riportò subito tutti alla realtà.

«Abbiamo un indirizzo di questo Peter?»

«L’indirizzo riportato sui documenti del carcere appartiene ad un palazzo del South Bronx che nel frattempo è stato abbattuto» rispose Foch controllando i dati «e da quando è uscito non risulta che abbia usato né bancomat né carte di credito.

Nulla che ci permetta di risalire al suo nuovo domicilio.»

«Non ci rimane che la televisione. Chiamo subito il Direttore Generale a Washington, e gli chiederò il permesso di rilasciare una conferenza stampa. Con un po’ di fortuna, qualcuno riuscirà a dirci dove trovarlo.»

«Ma se Walcott scopre che gli siamo addosso potrebbe avere tutto il tempo di sparire, o peggio ancora di fare del male a Lucy.» obiettò Jason

«Dirameremo solo una richiesta di aiuto riguardo una ragazza scomparsa, senza fare riferimento all’identità del rapitore.

A questo punto, è l’unica alternativa che ci resta.»

 

Ricorrere alla stampa, e soprattutto a quella di New York, era sempre un rischio.

I giornalisti andavano pazzi per qualunque questione inerente all’uso illegale della magia o al lavoro della MAB, e se per di più nel caso era coinvolta la figlia di un famoso docente di stregoneria era come invitare dei bambini in pasticceria.

In verità le maggiori testate e redazioni dovevano avere già subodorato qualcosa, perché prima ancora che, iniziata la conferenza, il direttore Hogdson avesse avuto il tempo di aprire bocca, era stato immediatamente tempestato di domande riguardo ad uno o più cadaveri ritrovati con i connotati alterati.

Per fortuna, se non altro, la mossa si rivelò vincente.

In un primo momento vi furono i soliti falsi allarmi e le segnalazioni di qualche mitomane in cerca dei suoi cinque minuti di gloria, ma poi, la mattina dopo di buon’ora, arrivò alla stazione di polizia la telefonata di un’anziana signora che abitava in una palazzina sulla 54ma strada e che asseriva di aver visto la ragazza scomparsa in compagnia di un giovane uomo che, dalla descrizione, somigliava molto a Peter Walcott.

La testimonianza fu giudicata credibile, e Derek e Jane, di ritorno da una obbligata notte di riposo, vennero subito inviati sul posto.

«Sì, è lei» disse la signora, sull’uscio di casa, vedendo la foto di Lucy. «Era in compagnia di Peter.»

«Ha detto Peter?» saltò sul posto Derek

«Sì, Peter Walcott. Un caro ragazzo. Mi aiuta spesso con la spesa e và a prendermi la pensione. Il suo appartamento è il trentaquattro, proprio alla fine del corridoio.

Ma è forse successo qualcosa?»

«Grazie, signora» tagliò corto il detective, che seguito dalla sua partner raggiunse armi in pugno l’appartamento indicato, sfondando la porta senza neppure intimare al proprietario di aprirla.

Considerato il posto e la zona, per non parlare del padrone di casa, quel semplice bilocale non era tenuto troppo male, ma nella stanza da letto, dove Derek e Jane sorpresero Peter, i due trovarono a dire poco un vero supermercato della droga, tra anfetamine, sonniferi e varie altre porcherie.

E Peter Walcott doveva averne ingerita parecchia di quella roba, perché dopo essere saltato dalla paura sul suo letto come sentì la porta di casa andare in frantumi non ebbe neppure il tempo di scendere dal letto, prima che Derek gli fosse addosso.

«E voi chi siete?» domandò con gli occhi fuori dalle orbite e un alito che avrebbe ubriacato anche il più incallito dei bevitori. «Che ci fate in casa mia?»

«Siamo della MAB. E tu sei in un mare di guai, Peter Walcott

«Ma di che state parlando? Che guai?»

«Non far finta di non sapere. Dov’è Lucy?»

«Lucy? Che c’entra Lucy? Io non ne so niente.»

Ma i fatti sembravano dargli torto, perché oltre alla droga e alle siringhe, su di una sedia, faceva bella mostra di sé anche un cappotto dall’aspetto inconfondibile.

«E questo come me lo spieghi?»

«Non è mio! Non l’ho mai visto prima!»

Ma una seconda prova, la più orribile, li aspettava nel bagno, tanto che perfino Jane, aperto l’uscio, rimase per qualche secondo come pietrificata, lo sguardo attonito e la bocca spalancata.

«Derek…» ebbe la forza di mormorare

Il partner quindi la raggiunse, e la sua reazione fu la stessa.

Lucy Ferrazzani, se di lei si trattava, era nella vasca, nuda, le braccia e le gambe lasciate a penzolare all’esterno; difficile dire cosa l’avesse uccisa, se l’acqua in cui era immersa o il contenuto delle siringhe disseminate sul pavimento, ma una cosa era certa: era morta.

E le brutte notizie, purtroppo, non erano ancora finite.

Dopo averla tirata velocemente fuori dalla vasca, constatandone il decesso, Jane provò a passare una mano sul suo volto, i cui tratti però, anche dopo diversi tentativi, seguitarono a rimanere inalterati, dimostrando di essere autentici.

«Sì, è lei» disse con la voce rotta dalla rabbia e dal dolore

Peter, però, sembrava ugualmente sconvolto, anche se era difficile capire se si stesse davvero rendendo conto della situazione in cui si trovava, stordito com’era dalle schifezze che aveva in corpo.

«Io… io non c’entro. Non so cosa sia successo…»

Ma erano solo parole al vento per Derek, che dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non venir meno alla sua etica di agente di polizia.

«Peter Walcott!» disse mettendogli le manette. «Sei in arresto per utilizzo illegale della stregoneria, e per l’omicidio di Molly Tips, Teresa Stegen e Lucy Ferrazzani

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 4) ***


EPISODIO 1

IL GIOCO DELLA MORTE

(PARTE IV)

 

 

Forse, in cuor suo, il professor Ferrazzani aveva capito che quella situazione era destinata a finire nel peggiore dei modi, ed intimamente si era già preparato al peggio.

Per questo, quando nella sala autopsie si trovò di fronte al corpo senza vita, stavolta quello vero, della sua unica figlia, il suo volto rimase immobile, di pietra, stupendo persino un cinico pragmatico come Takikawa.

«Mi dispiace» disse il Direttore, che date le circostanze aveva voluto sostituire Derek in quell’ingrata tradizione

Il professore non rispose, passando una mano sulla fronte pallida della ragazza, mentre nei suoi occhi, finalmente, sembrava comparire un barlume di pianto.

«Alla fine, quel maledetto ci è riuscito a portarmela via» mormorò, per poi voltarsi gelido verso Hogdson. «Dovete sbattere quel bastardo in cella per il resto dei suoi giorni.»

«Ha la mia parola che lo faremo.»

Quindi, i due agenti lasciarono la sala, ma prima che il direttore se ne andasse Takikawa lo prese da parte.

«Non ha niente da rimproverarsi. E neppure Derek e gli altri. Secondo l’autopsia quella poveretta è morta meno di tre ore dopo il rapimento, ben prima che scoprissimo il coinvolgimento di Walcott

«Questo non ci esenta dalle nostre colpe» tagliò corto Samuel.

 

Derek aveva saggiato molte volte l’orribile sensazione di veder morire qualcuno, sia come agente della MAB che come soldato; eppure, per un motivo che non gli riusciva di capire, quella morte aveva un sapore diverso, e mentre fissava attraverso il vetro lo sguardo basso e smarrito di Peter Walcott, seduto da solo nella piccola stanza degli interrogatori, sentiva agitarsi dentro di lui delle strane sensazioni.

L’aprirsi della porta alle sue spalle interruppe i suoi pensieri, e in un certo senso non fu sorpreso nel veder entrare, oltre a Jane, anche il Procuratore Distrettuale Janice Rizzo, rinchiusa come sempre nel suo abito firmato da mille dollari che avrebbe fatto morire d’invidia qualunque donna di Manhattan.

«Sei anche più in anticipo del solito, Janice» sorrise quasi beffardo. «Non abbiamo ancora cominciato.»

«Hai provato a dare un’occhiata fuori? Per entrare ho dovuto farmi strada tra due ali di giornalisti impazziti. Vorrei tanto mettere le mani sul disgraziato che ha fatto trapelare l’identità della vittima.

Prima chiudiamo questo caso e meglio è. Allora, ha confessato?»

«Assolutamente nulla. Dice di non ricordare niente.»

«Con tutta la roba che aveva in corpo non mi sorprende» commentò Jane. «Aveva tante di quelle droghe nel sangue che se non fosse stato per i suoi poteri di stregone sarebbe sicuramente morto.»

«Purtroppo Lucy non è stata così fortunata» osservò, mesta e schietta, il procuratore. «Abbiamo i filmati, il giubbotto e il cappello usati durante il sequestro, un testimone che dice di averlo visto spedire l’ultima e-mail alla vittima da un internet caffè a due passi dal campus. Infine, soprattutto, abbiamo il cadavere nel suo appartamento.»

«È questo il problema» replicò Derek. «Nelle prime due scene del crimine non c’era assolutamente nulla. Niente impronte, niente tracce. Nulla che potesse condurci a lui. Poi, d’un tratto, si mette a fare errori a raffica, facendosi identificare e arrestare come un dilettante.

Non lo so, mi sembra troppo facile.»

«A volte la spiegazione più facile è anche quella più giusta. Non sarebbe il primo maniaco psicopatico che la fa franca mille volte per poi venire preso per degli errori grossolani.

Dobbiamo chiuderla il più presto possibile, prima che la situazione ci sfugga di mano e la stampa ci faccia a pezzi.

Ha già chiesto un avvocato?»

«Non ancora.»

«Una confessione renderebbe tutto più facile. Torchiatelo per bene.»

 

Quando Derek e Jane entrarono nella stanza, Peter li scrutò entrambi con sguardo assente, stralunato, quasi non si fosse ancora reso conto della situazione in cui si trovava, anche se a prima vista l’effetto delle droghe, grazie anche ai farmaci disintossicanti, sembrava essere passato.

«Sentite» si affrettò a dire prima ancora che i due agenti potessero sedersi. «Io non so cosa stia succedendo qui, ma una cosa è certa: non sono stato io ad uccidere Lucy!»

«Parole grosse, se dette da uno che fino a mezz’ora fa non ricordava neanche come si cammina» obiettò schietto Derek. «Per non parlare del fatto che Lucy è stata trovata proprio nel bagno di casa tua.»

«Drogata e strangolata» intervenne Jane gettandogli davanti le foto della scena del crimine. «E tu con le droghe hai una cera famigliarità se non sbaglio.»

«Sentite, vi posso giurare che io non c’entro nulla. L’ultima cosa che ricordo è che stavo tornando dal lavoro. Stavo camminando in direzione della monorotaia, e subito dopo mi sono ritrovato nel mio letto con voi che mi puntavate le pistole.

Di quello che è successo in questo lasso di tempo io non ne ho la più pallida idea!»

«Considerando la mole di schifezze che avevi in corpo, non mi sorprende che tu non riesca a ricordare nulla.

Cos’è, stravolto dalla consapevolezza di non essere capace di clonare Lucy ti sei fatto senza sosta fino a che non ti è venuta la folle idea di rapirla?

E poi che è successo? Lei si ribellava, e allora per tenerla buona hai imbottito anche lei fino a spappolarle il cervello?»

«Ma come ve lo devo dire, io Lucy non la vedevo da due anni! Da quando quello stronzo di suo padre mi ha rovinato la vita!»

«Piuttosto te la sei rovinata da solo. Violazione dell’obbligo di distanza, spaccio di droga, esercizio illegale della magia. Solo per questo, e contando i precedenti, rischi da sette a dieci anni, ma se ci aggiungiamo l’omicidio sarai già fortunato se te la caverai con trenta.»

«Vi ho detto e vi ripeto che non l’ho uccisa io. Figurarsi se mi sarei più avvicinato a lei dopo tutto quello che ho dovuto passare a causa di suo padre.»

«Non devi piacergli molto» disse sarcastica Jane. «Chissà perché.»

«Quello ce l’ha con me da quando ho iniziato a frequentare sua figlia.»

«Se io fossi un luminare di stregoneria» replicò Derek. «Ammetto che non sarei felice di vedere mia figlia che se la intende con uno che, oltre a sniffare come un pazzo, si è anche fatto buttare fuori dallo stesso campus dove insegnava.»

«Quella è una storia ridicola. Chiedete a chi volete. A quell’epoca stavo con una ragazza del mio stesso anno. Ci siamo appartati in uno stanzino e ci hanno beccati. Ma lei era la figlia di un consigliere, mentre io un povero signor nessuno del New Jersey. Morale della favola, lei è stata solo multata, mentre io sono stato buttato fuori.»

«E allora Lucy che cos’era? Il tuo lasciapassare per rientrare dalla porta di servizio?»

«No, questo non è vero. Io amavo Lucy, e lei amava me. Suo padre la teneva al guinzaglio. Casa, scuola e studio, non vedeva altro. Sono stato io a farle vedere cosa c’era al di là della siepe, a mostrarle il mondo, e lei me ne era grata.

E a quello stronzo del professore non andava bene, così ha alzato la cornetta e io sono finito in prigione. Avete idea di che cosa significhi non avere un futuro? Ero uno studente alla scuola di magia, ora quando pulisco i cessi della metro.»

«Se non vedevi più Lucy da tutto questo tempo, come mai era nel tuo bagno morta di overdose.»

«Ve l’ho già ripetuto mille volte! Non! Lo! So! Ho smesso di pensare a lei mentre stavo ancora dietro le sbarre!»

«Ora basta. Voglio un avvocato» disse prima di trincerarsi dietro ad un muro di silenzio.

 

Janice, coadiuvata dal capo Hogdson, aveva seguito l’interrogatorio per tutto il tempo, ed entrambi non nascosero la propria insoddisfazione quando Derek e Jane, al risuonare della parola magica, erano stati costretti ad abbandonare il campo senza una confessione.

«Peccato, ero convinta che sarebbe crollato.» commentò Janice

«In ogni caso, ora che ha chiesto un avvocato non possiamo più fare niente finché non arriva» commentò Jane. «E francamente dubito che dirà qualcos’altro.»

«E se stesse dicendo la verità?» chiese Derek provocatorio. «Non ci pensate?»

«So già dove vuoi arrivare, e non te lo permetterò» lo bloccò il procuratore. «Non abbiamo il tempo di andare a caccia di farfalle.

Mi sembra chiaro a questo punto che la confessione non arriverà. Appena arriva l’avvocato formalizzerò i capi d’accusa e andremo a processo.»

Detto questo Janice se ne andò, ma l’atmosfera nella stanza rimase la stessa.

«Direttore, il mio istinto mi dice che c’è dell’altro.»

«Purtroppo, anche se mi secca ammetterlo, ha ragione lei. Con la stampa che ci tiene d’occhio, non possiamo perdere troppo tempo a inseguire false piste.»

 

Helen si rese subito conto, notando i musi lunghi dei suoi due colleghi al ritorno in ufficio, che qualcosa non era andato per il verso giusto, ma ciò nonostante decise di metterli comunque al corrente di ciò che aveva appena scoperto.

«Stavo facendo un controllo sul passato del professore. Lo sapevate che la moglie è deceduta in un incidente stradale all’incirca un anno fa?»

«E questo cosa potrebbe c’entrare con il caso?» intervenne O’Bryan

«Secondo i quotidiani, anche la figlia era rimasta coinvolta, sembra anche in modo piuttosto serio.»

«E allora?»

«Mio fratello ha avuto un incidente d’auto quando aveva diciotto anni, e ne ha impiegati quasi tre per recuperare completamente. Invece Lucy non mi è sembrata per nulla il tipo di persona appena uscita da un lungo ricovero e conseguente riabilitazione.»

«Forse i danni riportati non erano così gravi. O forse il talento magico del padre, oltre al suo, hanno contribuito. Non dimentichiamoci che stiamo parlando di un luminare.»

«E comunque, ormai non è più un problema nostro» tagliò corto, seccato, Derek

«Che vuole dire?» domandò Helen

«Il procuratore è stato chiaro. Da questo momento la palla passa a loro, e sembra abbiano tutte le intenzioni di processare Peter.»

«Ma potrebbe essere innocente. A questo non ci pensate?»

«Le prove sono contro di lui» replicò Jane. «E per alcuni ciò è sufficiente.»

«E se ci stessimo sbagliando?»

«Se cominci a farti di questi pensieri già al tuo primo caso, non durerai molto a lungo qui dentro.» disse Derek allungando stancamente la mano verso il caffè sul suo tavolo

«E quindi ora che cosa si fa?» replicò Helen a denti stretti. «Ci mettiamo una pietra sopra e andiamo avanti come se niente fosse?»

«Esattamente.»

A quel punto, palesemente contrariata, la ragazza raccolse il proprio zaino e si avviò verso l’uscita.

«Dove vai?» chiese Foch, che arrivava in quel momento

«A casa. Mi è venuto il mal di stomaco.»

 

In realtà Helen aveva tutt’altra destinazione in mente.

Su internet, tra i vari articoli che parlavano dell’incidente, la giovane detective era stata in grado di trovarne uno che menzionava anche l’ospedale in cui madre e figlia erano state portate dopo l’incidente.

Uscita dall’ufficio, vi si recò subito, riuscendo anche ad incontrare il medico che aveva avuto in cura Lucy nel corso della sua lunga degenza, un giovane dottore di nome Luke Valentine che, per un tragico scherzo del destino, era stato anche allievo del professore.

«Non avrei mai immaginato che un giorno sarei stato proprio io a dover comunicare a quel brav’uomo la morte di sua moglie.» osservò mestamente il dottor Valentine camminando, con Helen al seguito, lungo un corridoio del reparto di traumatologia

«Può raccontarmi esattamente cos’è successo?»

«I dettagli precisi non li conosco, ma doveva essersi trattato di un incidete davvero spaventoso. Per la moglie del dottore, rottura della quarta vertebra cervicale, e morte praticamente istantanea. Lucy invece è sopravvissuta, ma non è stata comunque fortunata: oltre a varie fratture e lesioni interne, ha riportato un trauma esteso al cervello. Siamo riusciti a salvarle la vita, ma subito dopo l’intervento è caduta in coma.»

«C’erano possibilità che si riprendesse?»

«All’incirca una su mille. Ma è evidente che ogni tanto i miracoli accadono. Sarà stata l’aria di casa.»

«L’aria di casa!? Che intende dire?»

«Che Lucy è stata qui solo per poche settimane, dopodiché il professore ha ottenuto di farla trasferire a casa sua a Staten Island.

In realtà non sapevo neppure che si fosse svegliata, e ad essere onesti faccio ancora fatica a crederci.»

Helen si bloccò, guadagnandosi un’occhiata perplessa da parte del dottore, mentre uno strano formicolio le si arrampicava lungo la schiena.

«Detective?»

«Mi scusi. Sarebbe possibile vedere la sua cartella clinica?»

«Mi dispiace, non posso farlo. È secretata, e senza l’autorizzazione del giudice mi è impossibile accontentarla.»

«Capisco» rispose lei con un sorriso di circostanze. «Grazie comunque.»

 

Ancora una volta, però, Helen non aveva intenzione di arrendersi, e senza esitazioni si diresse nell’archivio dell’ospedale, dove di turno c’era un’anziana infermiera di colore dall’aria svogliata e intransigente.

«Eccola qui» disse tornando con una cartella. «Lucy Ferrazzani

Helen però ebbe appena il tempo di leggere il nome scritto sul cartoncino giallo prima che il documento le venisse tolto da sotto gli occhi con gesto insolitamente repentino.

«Non è proprio possibile dargli un’occhiata?» domandò allora la ragazza girando la testa da un lato, e piegando le labbra in un sorriso da denuncia. «Per favore.»

La voluminosa inserviente quasi si ritrasse, come intimorita, ma per fortuna proprio in quel momento giunse lo squillare dell’interfono a salvarla.

«Non si potrebbe» disse facendo tintinnare le sue unghie palesemente finte sul bancone. «Però, se io ora rispondessi al telefono… e accidentalmente dimenticassi la cartella qui… non sarebbe certo un problema…»

Helen sorrise ancora una volta, quindi, nell’istante stesso in cui la donna lasciò il fascicolo per rispondere, immediatamente lo afferrò, facendo scorrere velocemente tutti i fogli, le radiografie e i referti medici e fotografandoli uno di seguito all’altro con l’ausilio del suo computer da polso.

«Grazie…» mormorò impercettibile mentre se ne andava, e ricevendo in cambio un segno di complicità.

Quindi, prima ancora di lasciare l’ospedale e rimettersi in macchina, telefonò a Takikawa, cogliendolo proprio mentre era sul punto di realizzare la parte più complessa del suo nuovo modellino, che per lo spavento gli cadde dalla scrivania andando irrimediabilmente perduto.

«Dottor Takikawa, le sto mandando i dati di una cartella clinica. Potrebbe confrontarli con il corpo di Lucy Ferrazzani che è nel suo laboratorio?»

«Che cosa!? E a che scopo?»

«Ora non ho tempo di spiegarglielo. Ma la prego, lo faccia. Potrebbe essere molto importante.»

«Si può sapere in che razza di situazione si sta mettendo, detective Trevor? Non le sembra troppo al suo primo incarico?»

«È in gioco la vita di una persona. Non voglio lasciare nulla di intentato. La richiamo.» e senza dire altro chiuse la conversazione, lasciando Takikawa con l’espressione sbigottita e gli occhiali in fondo al naso.

 

Rimontata in macchina, Helen si spostò a Staten Island, raggiungendo la casa del dottor Ferrazzani.

In realtà non aveva ancora un’idea chiara del perché fosse lì, o di cosa stesse facendo. Tutto quello che sapeva era che le era stato insegnato a non dare mai nulla per scontato, e ad andare sempre e comunque alla radice di ogni problema, anche a costo di rischiare in prima persona.

Bussò alla porta, ma nessuno rispose, benché gli scuri fossero aperti e, dall’interno, giungesse il rumore della televisione.

«Professore?» disse dinnanzi all’uscio ancora chiuso. «Sono il detective Trevor. Ci siamo parlati l’altro giorno. Vorrei farle qualche altra domanda, se per lei non è un problema.»

Di nuovo, non giunse alcuna risposta, e allora la ragazza, seppur con molta titubanza, provò a girare il pomo della porta, scoprendo non senza sorpresa che era aperta.

All’interno non c’era nessuno, e tolta la telecronaca dell’incontro tra il Washington e i Giants di New York regnava un silenzio irreale, quasi spaventoso.

La casa era molto ben tenuta, e sulle pareti, come in un ricercato museo della scienza, facevano mostra di sé tutti i diplomi, i titoli accademici, i premi internazionali vinti dal professore nella sua lunga ed invidiabile carriera, con una foto di famiglia di almeno un decennio prima ai piedi del Lincoln Memorial a svettare sulle altre, non fosse altro per la pregiata cornice in cui era riposta.

Eppure, Helen sentiva che c’era qualcosa di strano in quella casa, qualcosa di nascosto che, per quanto osservasse, sfuggiva alla sua attenzione.

«Ocus Magno» disse allora abbassando le palpebre.

Quando le risollevò, i suoi occhi, da verdi, divennero di un colore azzurro luccicante, permettendole in questo modo di percepire ogni cosa che le stava attorno in un modo tutto nuovo.

In questo modo, avventuratasi nel corridoio che dal salotto portava alla sala da pranzo, riuscì a notare una porta, abilmente nascosta nel muro e apparentemente invisibile, protetta da un incantesimo occultante.

Un sortilegio così ben congeniato avrebbe rappresentato una sfida per chiunque, ma non per una maga originaria come lei, che infatti ne ebbe ragione in meno di dieci secondi.

La porta, una volta aperta, rivelò dietro di sé una scala che scendeva verso il basso, ed Helen, estratta istintivamente la pistola, vi si avventurò, sorda alle esortazioni della sua mente che la invitavano a non fare qualcosa di così avventato.

La discesa fu molto lunga, ma alla fine la ragazza si ritrovò in una specie di piccola stanza circolare, il cui pavimento, nero e traslucido, era interamente ricoperto di formule magiche e simboli arcani. Al centro, realizzato in marmo e acciaio, c’era un tavolo, una via di mezzo tra un altare ed un tavolo operatorio, e le macchie rosse di cui era ricoperto in più punti erano a dir poco inequivocabili.

Di colpo la prese un moto di paura, nonché la sensazione tangibile di essere nei guai.

Ma era troppo tardi. E neppure una maga del suo calibro poteva salvarsi da un attacco a sorpresa.

Qualcuno, arrivandole alle spalle, le sfiorò il collo con un dito, e lei, prima ancora di rendersene conto, si arrese ad una inarrestabile stanchezza.

 

Derek aveva imparato più e più volte cosa volesse dire pestare i piedi a qualcuno più in alto di lui, ma neanche la ferma, e per certi versi ottusa determinazione di Janice poteva tacitare del tutto la sua coscienza.

Il pensiero era sempre lo stesso, e per tutta la giornata non aveva fatto che assillarlo, togliendogli la concentrazione necessaria per prestare attenzione all’innumerevole quantità di altri casi impilati sulla sua scrivania.

«Quanto ancora intendi fare quella faccia da cane bastonato?» gli chiese provocatorio Foch

«Smettila, non sono proprio dell’umore.»

«Ecco perché non mi è mai andata a genio la polizia. Troppa burocrazia. Qui come là fuori, la regola è sempre la stessa. Chi ha più stellette comanda.»

«Se vuoi possiamo sempre rimandarti a Rikers

«Purtroppo, non possiamo farci niente» commentò O’Bryan. «D’altra parte, non si può non ammettere che le prove sono tutte contro Peter Walcott.

Deciderà la giuria. Come sempre del resto.»

In realtà Derek era preoccupato anche e soprattutto per Helen.

Sapeva quanto la tipica irruenza dei cadetti potesse risultare pericolosa se incanalata nella direzione sbagliata, e temeva ciò che quella testa matta avrebbe potuto fare.

Neanche a farlo apposta, in quel momento squillò proprio l’interfono sulla scrivania di Helen, e Derek, quasi svogliato, rispose.

«Norway… ah, sei tu Takikawa… no, Helen non c’è…»

Poi, però, la sua espressione mutò dal giorno alla notte, cogliendo di sorpresa tutti i suoi colleghi.

«Come hai detto, scusa?»

 

«Questo corpo non è quello di Lucy Ferrazzani.» esordì Shawn prima ancora che Derek potesse varcare la porta della sala autopsie

«Ancora? Stai diventando monotono.»

«La mia monotonia non ha importanza. Piuttosto dovreste ringraziare quella scheggia impazzita di Helen. È stata lei a procurarmi le cartelle cliniche della vera Lucy Ferrazzani

«E allora? Che hai scoperto?»

«Qualcosa che in tutta onestà ha scioccato anche me. Secondo queste cartelle cliniche, nell’incidente in cui rimase coinvolta Lucy riportò varie fratture di diversa gravità, tra cui si segnalano una rottura scomposta dell’avambraccio sinistro e una frattura cranica che ha provocato il trauma al cervello.

Ho eseguito un ulteriore controllo su questo corpo, e con mio grande stupore non ho trovato nessuno dei traumi sopraccitati.»

«Forse sono stati guariti con la magia.»

«C’è un limite a quello che la stregoneria medica è in grado di fare. Si può aiutare una frattura a ricomporsi, o una emorragia cerebrale a riassorbirsi, ma resterebbero comunque dei segni che, con le attuali conoscenze magiche, nessun incantesimo sarebbe in grado di sanare, e che richiederebbero molto più tempo per scomparire naturalmente.

E di questi segni, ripeto, non ne ho trovato traccia.»

Derek a quel punto sentì un famigliare, e per niente poco rassicurante, tremore alle ginocchia.

«Ma, Jane aveva eseguito uno screening di riconoscimento, ed è risultato negativo.»

«Lo so. Ci ho provato anch’io. Poi mi sono accorto di questo.»

Takikawa passò il palmo sul volto della vittima, ma come una piccola sfera di luce si materializzò nello spazio tra la mano e il corpo questa si dissolse immediatamente, lasciando Derek completamente sbigottito.

«Ma cosa…»

«Sì chiama magno deceptio. Un incantesimo progettato per dissipare e annullare qualsiasi tentativo di alterazione magica su di un qualunque corpo inanimato. La durata del suo potere è limitata, ma a meno di non cercarla appositamente è impossibile da individuare.»

«Non ne avevo mai sentito parlare» mormorò il detective sentendosi venire i sudori freddi. «È molto comune?»

«Non direi proprio. È un incantesimo di una complessità allucinante. Nemmeno io riuscirei ad eseguirlo. Francamente, credo che gli esperti in tutto il mondo capaci di creare un magno deceptio di questo livello si contino sulle dita di due mani.»

«E…» balbettò Derek come se sapesse già la risposta. «E quanti di questi al momento risiedono a New York?»

«Uno.» rispose gelido Takikawa.

Derek abbassò gli occhi, e se non fosse stato per la drammaticità della situazione si sarebbe preso a schiaffi.

«Dov’è ora Helen?»

«È quello che speravo mi dicessi tu. Ho provato a contattarla sia al telefono che tramite contatto telepatico, ma non ho ottenuto alcuna risposta.»

E a quel punto, negli occhi di Derek, comparve qualcosa che Takikawa, nei molti anni spesi accanto a lui, non era più abituato a vedere: paura.

«Cristo!» strillò correndo fuori e prendendo nel contempo il suo cellulare. «Jane, chiama la SWAT! Massima priorità!»

 

In meno di un’ora un’intera divisione di SWAT aveva circondato la casa del professor Ferrazzani, ma su esplicito ordine delle alte sfere, e obbedendo al protocollo circa la neutralizzazione degli obiettivi magici di Classe Uno, il comandante del gruppo tenne i propri uomini in stato di attesa fino all’arrivo degli agenti della MAB.

Derek scese dalla macchina prima ancora che questa si fosse fermata, il giubbotto antiproiettile già addosso e la pistola in mano.

«Capitano Mayer, squadra SWAT!» disse il caposquadra andandogli vicino

«Qual è la situazione?»

«Nessun movimento all’interno, e nessuna risposta al telefono. O si è barricato o non c’è nessuno.»

«Fate molta attenzione» disse Jane. «L’obiettivo è uno stregone di livello assoluto. Solo il cielo sa cosa potrebbe esserci lì dentro.»

«Non perdiamo altro tempo» ordinò Derek. «Facciamo irruzione.»

Rapidamente, i vari gruppi di SWAT, ognuno comandato da un membro dell’Agenzia, circondarono la casa, e a Derek, accompagnato sia da Jane che dal caposquadra Mayer, toccò fare irruzione dalla porta.

«MAB, nessuno si muova!» urlò dopo che l’uscio venne abbattuto.

In meno di dieci secondi la casa venne quasi interamente battuta, ma, come era prevedibile, del professore, e soprattutto di Helen, non vi era neanche l’ombra.

«Libero!» dissero uno dopo l’altro i vari capisquadra.

L’ultima zona da perlustrare era il soggiorno, ma come Derek, Jane e gli SWAT mossero un piede al suo interno una sfera di luce comparve al centro della stanza, e sia sulle pareti, ma anche sui loro stessi corpi, iniziarono a comparire innumerevoli simboli magici, mentre quel globo diventava sempre più grande e minaccioso.

«Oh, cazzo...» mormorò il detective Norway vedendo i segni sul suo braccio. «Una barriera concussiva, tutti fuori!»

Una barriera concussiva, nella sua semplicità, poteva rivelarsi un incantesimo terribilmente pericoloso.

Esplodeva a contatto, come una mina, e non causava danni né a persone né a cose; in compenso però, rilasciava, improvvisamente e con violenza una grande, enorme quantità di energia attingendola dall'ambiente circostante. Per un essere umano aveva un effetto non molto superiore a quello di una scarica di teaser, ma per qualunque stregone venutosi a trovare nei suoi pressi poteva essere un'esperienza estremamente dolorosa, se non addirittura mortale.

Tutti gli agenti, alcuni mollando addirittura le armi, corsero verso l’uscita più vicina, ed un secondo dopo che l’ultimo di loro fu uscito una specie di bomba di luce riempì tutto l’edificio, propagandosi per miglia e miglia in ogni direzione tramite le finestre, mentre l’intera Staten Island rimaneva per interminabili secondi completamente al buio.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 5) ***


EPISODIO 1

IL GIOCO DELLA MORTE

(PARTE V)

 

 

La barriera concessiva era stata così potente da mandare in corto circuito il sistema elettrico di tutta l’isola, ma per un qualche miracolo voluto dal cielo non vi erano stati né morti né feriti gravi.

Della squadra MAB l’unico un po’ provato era stato O’Brian, che trovandosi vicino ad una finestra al momento della deflagrazione aveva subito uno shock magico piuttosto serio, ma i paramedici, nel portarlo via assieme ad alcuni altri SWAT feriti, avevano subito precisato che non si trattava di niente di serio.

Tuttavia, la situazione si presentava comunque drammatica, e Derek e gli altri, tornati in centrale, si erano immediatamente rimessi al lavoro, nella speranza di scoprire quanto prima dove il professore avesse portato Helen.

«D’accordo, la ringrazio» disse Jane riattaccando l’ennesima telefonata. «Niente da fare. Ferrazzani non è né all’università, né in nessun altro dei luoghi che è solito frequentare.»

«Niente anche da amici e conoscenti» disse Foch.

«Porti e aeroporti sono sotto controllo, e la sua foto è su tutti i notiziari. Eppure, ciò nonostante, fino adesso non c’è stata nessuna segnalazione. Sembra svanito nel nulla.»

«Quello sarà pure un mago, ma non esiste che possa scomparire» sbottò Derek. «Controlliamo tutto. Telecamere stradali, passaggi ai caselli, ogni cosa! Se ha lasciato Staten Island non può certo averlo fatto a piedi!»

Furono rapidamente recuperate le immagini delle telecamere piazzate su tutti i ponti che collegavano Staten Island a New York e al New Jersey, oltre a quelle degli imbarcaderi e persino delle piattaforme per i dirigibili da turismo, ma neppure una intera unità di analisti sarebbe stata in grado di analizzare quella gigantesca mole di immagini nelle poche ore che Derek e i suoi sentivano di avere per poter salvare la loro collega.

«Il primo cadavere è stato trovato a Brooklyn» ipotizzò ad un certo punto Foch. «Concentriamo le ricerche sul Ponte di Ferrazzano, e vediamo se ne veniamo a capo.»

Non era granché come ipotesi, ma a quel punto ogni secondo era prezioso.

 

Prima ancora di poter aprire gli occhi, nel momento in cui riprese i sensi Helen sentì di avere sopra di sé una luce molto forte; ed infatti, come riuscì faticosamente a sollevare le palpebre, dovette abbassarle quasi subito, accecata dal potente bagliore della sfera globulare che volteggiava pulsante sopra di lei.

Il tavolo su cui era distesa, nuda e coperta da un telo bianco, si trovava all’interno di quella che sembrava una versione ancora più grande del cerchio per incantesimi che aveva trovato nello scantinato del professore, a sua volta collocato dentro una costruzione all’apparenza molto vecchia e compromessa, simile ad un magazzino.

Pur sapendo intimamente che era inutile provò ad alzarsi, accorgendosi però che, fatta eccezione per il collo e la testa, il suo intero corpo era completamente immobilizzato, di sicuro prigioniero di qualche incantesimo costrittivo.

Una nuova luce, più fioca, la spinse a girare quindi gli occhi alla propria sinistra, e ciò che vide la lasciò interdetta. Rinchiusa in una teca, come un reperto, ed immersa interamente in una specie di liquido amniotico iridescente, c’era una giovane ragazza dai tratti famigliari, il volto immobile e il colorito ceruleo. Gli stessi tratti che, quasi senza sorpresa, vide riflessi nel vetro del contenitore, ben diversi da quelli che era solita scorgere all’interno di uno specchio.

«È quella sua figlia, non è vero?» domandò sentendo un rumore di passi che si avvicinavano

Pallido, quasi camminando a fatica, il professor Ferrazzani emerse dal buio tutto attorno, un grosso tomo in una mano ed un bisturi scintillante nell’altra.

«Mai entrare nella casa di un sospettato da soli. Non gliel’hanno insegnato all’accademia, detective?»

«E quella che abbiamo trovato ieri?»

«Solo un’altra sosia. L’ultima. Il suo destino era comunque segnato. Aveva già iniziato a mostrare i primi sintomi.»

«È a questo che serviva il pentacolo a casa sua. A curarle quando iniziano a rigettare.»

«Per due, tre, anche cinque volte si può arginare il processo, ma alla lunga esso diventa ingestibile»

Il professore le girò attorno, quindi, raggiunto un vecchio tavolo arrugginito, vi posò sopra il libro, prendendo a sfogliarlo e a consultarlo con molta attenzione.

«Cosa è successo alla prima vittima? Quella di Brooklyn?»

«Aveva avuto un rigetto. Uno serio. Il pentacolo di casa mia non era sufficiente per stabilizzarla. Ma sembrava recuperabile. Così ho provato a portarla qui, ma prima che potessi fare qualcosa ha avuto un collasso definitivo, e poco dopo aver completato l’estrazione l’energia residua l’ha tenuta in vita abbastanza a lungo da poter scappare.»

«E non ha fatto in tempo a recuperarla a causa dell’arrivo di quella pattuglia, dico bene?»

Il professore incuneò la testa tra le spalle, e restando in silenzio ricominciò a sfogliare il suo libro.

 

Anche se il Ponte di Ferrazzano era dotato di telecamere lungo tutto il suo percorso in entrambe le direzioni, non era facile localizzare una macchina o una persona specifiche, soprattutto se la persona in questione aveva dimostrato una tale abilità nel trasformismo.

Ma intanto i secondi, i minuti, le ore correvano, e a distanza di molto tempo dalla scomparsa della loro giovane collega Derek e il resto della squadra non erano ancora riusciti a venire a capo di nulla.

«Continuate a cercare!» continuava a ordinare Derek visionando a propria volta quintali di filmati

«Quell’uomo ha tutta la polizia di New York e del New Jersey sulle sue tracce, prima o poi salterà fuori» provò a rassicurarlo Jane. «E di sicuro non può prendere né un treno né un aereo.»

«Non credo che voglia lasciare il Paese. Deve ancora completare il suo lavoro. E se non lo troviamo prima che lo faccia, per Helen sarà la fine.»

Poi, finalmente, la fortuna girò lo sguardo verso di loro.

«Ho qualcosa!» strillò d’un tratto Foch, portando immediatamente l’attenzione di tutti sul monitor.

L’immagine che apparve sullo schermo ritraeva una macchina, un modello piuttosto costoso oltretutto, a bordo della quale vi erano un uomo e una donna; i tratti dell’uomo, seduto al posto di guida, erano assolutamente comuni, mentre quelli della sia compagna, a malapena visibile e seduta sul sedile posteriore come assopita, erano ormai riconoscibili solo ad un’occhiata.

«Devono essere loro» disse Derek

«Sono loro. In base alla targa, quella risulta essere la macchina di Helen.»

«Allora sta davvero andando a Brooklyn» disse Jane. «Ma non sappiamo ancora dove.»

«Allertiamo le pattuglie. Facciamo cercare quella macchina.»

«Forse non sarà necessario» rispose il direttore uscendo tutto trafelato dal suo ufficio. «Ho ricevuto una chiamata da un amico del catasto. Pare che il professore otto mesi fa abbia acquistato un vecchio magazzino in disuso vicino alla 3rd avenue a Brooklyn, sulla 20ma strada.

Deposito in contanti.»

I tre agenti si guardarono tra di loro.

«Vicino al parco!» strillò Derek, correndo verso l’uscita senza neanche mettersi la giacca

«Chiamo la SWAT!» provò a dire Jane

«Non c’è tempo, sbrighiamoci!»

 

Helen provò in più occasioni a liberarsi, ma quell’incantesimo costrittivo era di una fattura a dir poco sopraffina, e pur rendendosi conto della situazione disperata in cui si trovava cercava in ogni modo di farsi venire in mente una possibile via di fuga.

Una cosa la sapeva. Doveva guadagnare tempo.

«Era davvero una ragazza bellissima» disse allora volgendo nuovamente gli occhi verso la ragazza rinchiusa nella teca

«Non era solo bella» rispose Ferrazzani con la voce che tremava. «Era anche intelligente ed educata.

Amava la storia, la letteratura, lo sport. In diciotto anni, non aveva mai dato un solo problema, o un motivo per doverla redarguire.

Era la migliore figlia che un padre potesse desiderare. Diceva di voler seguire le mie orme. Per questo si era iscritta alla scuola di magia, pur sapendo che la sua natura di umana non le avrebbe mai permesso di ottenere la licenza di stregoneria.

Ma non le importava. Voleva apprendere la magia comunque. E io ero così fiero di lei.»

D’un tratto, il professore serrò i pugni, e tutto il suo corpo prese a tremare.

«Ma poi, poi è arrivato lui. E lei non è più stata la stessa.»

«Intente Peter Walcott, non è vero?»

Il suo silenzio fu la più eloquente delle risposte.

«Io l’avevo avvisata. Le avevo detto di guardarsi da quel tipo. Ma per la prima volta in vita sua, non mi ha voluta ascoltare.

Quel maledetto l’ha trascinata in un mondo da cui avevo sempre cercato di tenerla lontana, e da quel momento lei ha iniziato a cambiare.

Marinava le lezioni, rientrava tardi la sera, e se provavo a rimproverarla lei mi rispondeva in modo sprezzante.

Sono arrivato al punto di riconoscerla più. Le ho provate tutte per riuscire a tenerlo lontano, ma anche dopo esserci riuscito la sua influenza malefica ormai non poteva più essere cancellate.

Ha idea di quante volte io sia dovuto andare a prenderla in qualche stazione di polizia?

È successo anche quel giorno. Io ero all’università, così è andata mia moglie. Stavano tornando, erano ad un incrocio, quando un ubriaco al volante…»

Dovette fermarsi, perché le lacrime e la voce rotta dai singhiozzi non gli permettevano di proseguire.

«Mi dispiace. Ma non è stata colpa di Peter.»

«Non è stata colpa sua? Quel maledetto ha distrutto la mia famiglia! Se non fosse entrato nelle nostre vite, se non avesse trascinato Lucy nel suo mondo, niente di tutto questo sarebbe mai accaduto! E mia figlia sarebbe ancora…»

«È per questo che lo ha incastrato?»

«È il minimo che si meritava. Io quel giorno sono morto tanto quanto mia moglie, e ciò nonostante quel bastardo se ne andava in giro impunito come se niente fosse! Ha persino tentato di rivederla!»

«Allora chi era il ragazzo che abbiamo visto nei video?»

«Un cadavere qualsiasi prelevato dalla sala autopsie dell’università. Finito il lavoro, l’ho rimesso al suo posto» e qui il professore si lasciò quasi scappare una risata. «Io l’ho sempre detto che ci volevano più controlli.»

«E poi cosa è successo?»

Di nuovo, Ferrazzani esitò, togliendosi un attimo gli occhiali e nascondendo il viso dietro le mani.

«Secondo i dottori, le speranze che Lucy potesse risvegliarsi erano davvero minime.

Ma io la conoscevo, e sapevo che avrebbe lottato per sopravvivere.

Per stare con lei ho lasciato tutto il resto. L’ho anche riportata a casa. Volevo che, al risveglio, vedesse un luogo a lei famigliare.

Ma poi… poi, una sera…»

«È stata male all’improvviso?»

«L’avevo sorvegliata per tutto il giorno, e mi sono addormentato. Ero talmente stanco che non ho sentito nemmeno l’allarme dei macchinari, e quando me ne sono accorto lei era…»

Le lacrime, più copiose di prima, interruppero nuovamente il racconto, e malgrado tutto anche Helen sentì venire da dentro di sé un moto di tristezza nel rendersi conto di come la vita avesse voluto infierire su quel brav’uomo.

«Non deve rimproverarsi, professore. Lei ha fatto tutto quello che poteva.»

«Non era abbastanza! Non esiste che un uomo debba seppellire sia la propria moglie che la propria figlia! Non potevo accettarlo!

Ma se non altro, non sono arrivato troppo tardi. Quando ho capito cosa stava succedendo il corpo di Lucy era già morto.

Ma la sua mente, la sua coscienza, la sua stessa anima… quelle erano ancora lì. Sono riuscito a preservarle. In quell’involucro senza vita, mia figlia viveva ancora.

Tutto quello che dovevo fare era riuscire a rimettere in moto il suo corpo, ma per quanti tentativi facessi tutti i miei esperimenti cadevano nel vuoto.

Così, ho capito che se non potevo rianimare un corpo, potevo trasferire la mente di mia figlia in quello di una persona ancora in vita, un procedimento assai meno complicato e di più facile attuazione.

E funzionò. Purtroppo, la durata di queste esistenze secondarie era limitata.»

«È normale. Un corpo umano non possiede un potere abbastanza grande da sopportare a lungo un processo così invasivo.»

«Ma ora le cose sono diverse. La verità è che non ho mai smesso di sperimentare. Ad ogni nuovo impianto la vita di mia figlia si è allungata, e nel frattempo ho cercato di adattare il mio incantesimo perché funzionasse anche sul corpo di un mago.

E ora, con il suo aiuto, posso dare a mia figlia una vera, nuova vita. Il suo codice genetico è molto forte, oltre che molto simile al suo.»

«Ha ucciso tutte quelle ragazze e usato i loro corpi solo per allungare di qualche mese la vita di sua figlia?»

«Ragazze? Che tipo di ragazze? Drogate, disadattate, persino barbone. Gente che aveva la possibilità di vivere una vera vita, e l’ha gettata via. Io ho dato loro, anche se per poco tempo, un’esistenza che non si sarebbero mai potute sognare.

Ai loro corpi, almeno.

Ma ne sono certo. So che questa volta la mente di Lucy si adatterà perfettamente. Potremo continuare come se nulla fosse mai accaduto. Ricominceremo daccapo, e con il tempo tutto tornerà come prima.»

«Non succederà, professore. E lei lo sa.» rispose, con tutta la semplicità del mondo, la detective, stampando un’espressione attonita e sconcertata sul volto di Ferrazzani

«Che cosa!?»

«Lei più di ogni altro dovrebbe saperlo. Non importa quanto ardentemente ci si provi, o quanto sapere si possieda. I morti non tornano in vita.»

«Mia figlia non è morta!» urlò il professore colpendola con un violento ceffone. «Lei è qui! Qui con me! E sulla mia anima, qui rimarrà! Farò tutto quello che è in mio potere per salvarla, dovessi vendere la mia anima al diavolo!»

Quindi, da un istante all’altro, il suo volto e la sua espressione si fecero immobili, di pietra, mentre qualunque traccia di umana emozione sembrava scomparire dai suoi occhi.

«Lucy tornerà. E stavolta, lo farà per sempre. E sarai tu a darle questa possibilità.»

 

Procedendo a sirene spiegate, e rischiando anche di fare qualche incidente, Derek e il resto della squadra raggiunsero il più velocemente possibile il magazzino indicato dal direttore, e già il fatto di aver notato la macchina di Helen malamente coperta da un telo lungo il marciapiede dall’altro lato della strada diede a tutti la certezza di aver fatto centro.

Sfortunatamente, quando pistole alla mano i tre agenti provarono ad avvicinarsi all’edificio, andarono a scontrarsi contro una specie di muro invisibile, che dopo averli bloccati arrivò anche a rigettarli indietro, buttandoli a terra.

«Maledizione, una barriera!» tuonò Derek tentando inutilmente di abbatterla a pugni

«Lasciate fare a me!» disse Foch.

I suoi colleghi, dandogli fiducia, si fecero da parte, ed il giovane agente, inginocchiatosi davanti al muro, giunse le mani come in preghiera, chiudendo gli occhi, mentre tutto il suo corpo andava avvolgendosi di un bagliore rosso fuoco.

«Oppositum quod murum in mente est. Dispersio

A quel punto, Foch non dovette fare altro che toccare la barriera con un dito, e subito dopo questa, sotto gli occhi increduli di Jane e Derek, si dissolse, scomparendo in un pulviscolo luminoso.

«Andiamo!».

 

All’interno, ormai era tutto pronto.

D’un tratto, il pentacolo magico iniziò a brillare, ed il professore, appoggiatosi per un attimo sul tavolo come a sovrastare il tomo aperto sotto di sé, si volse impassibile verso Helen, facendosi incontro a lei con il bisturi che scintillava minaccioso nella sua mano. Anche il liquido nella teca si accese di luce, mentre il corpo della vera Lucy tornava gradualmente ad assumere un colorito più vivo.

«Basterà una sola incisione. Poi, la mente e la coscienza di Lucy, viaggiando all’interno del cerchio, entrerà nel tuo corpo, soppiantando velocemente la coscienza originale.»

«Si fermi, professore. Non è ancora troppo tardi. Può ancora impedire tutto questo.»

«Gliel’ho già detto. Io non ho intenzione di seppellire mia figlia.»

Detto questo, prese ad avvicinarsi, sempre più minaccioso, quando all’improvviso il portone del magazzino venne aperto violentemente, e Derek e i suoi compagni fecero irruzione all’interno.

«Professor Ferrazzani, MAB!» urlò il detective Norway puntandogli la pistola. «Getti subito quel bisturi!»

Colto di sorpresa, il professore si bloccò, facendosi come di pietra, e forse anche per questo il pentacolo magico sembrò perdere di efficacia, disperdendo buona parte della sua luce.

«È finita, professore!» lo ammonì Jane «Lasci quel bisturi ed esca dal pentacolo! Subito!»

Ma Ferrazzani non parve determinato ad obbedire, seguitando a restare immobile, l’espressione statica e la bocca socchiusa.

Giratosi un attimo, volse gli occhi verso Derek, quasi a volerlo sfidare; quindi, fulmineo, si portò sopra Helen, alzando il bisturi.

«Professore!» urlò ancora Derek, anticipando tutti i suoi compagni nel prendere l’iniziativa.

Colpito due volte, il professore cadde violentemente all’indietro, e a quel punto il circolo magico si spense del tutto, mentre Helen riacquistava finalmente il controllo del proprio corpo.

«Chiamate un’ambulanza!» ordinò Derek vedendo i tratti alterati della sua nuova partner

«Sto bene» li tranquillizzò lei.

Norway allora provò a tastare il battito del professore, ma era chiaro che non c’era nulla da fare.

«È morto.»

 

Situato poco lontano dalla sede dell’agenzia, il Montgomery’s Bar era il ritrovo preferito di molti dei frequentatori abituali dell’edificio, ma anche dei poliziotti della vicina stazione.

Anche Helen vi si era recata spesso durante la gavetta in polizia, ma nessuno, a cominciare dal proprietario Joe, ricordava di averla mai vista così abbattuta come quella sera.

Era già arrivata al suo terzo gin e tonic quando Derek, dopo essere entrato ed averla scorta seduta al bancone, prese posto accanto a lei.

«Il solito» ordinò.

Per lungo tempo i due stettero in silenzio, almeno fin quando Joe non giunse a portare a Derek il suo abituale doppio scotch, che tuttavia il detective esitò a bere.

«Niente male come primo caso» commentò, non senza un certo spirito, portandoselo finalmente alla bocca. «I ragazzi della scientifica hanno trovato un complesso sistema di approvvigionamento magico sotto il pavimento della fabbrica. Probabilmente era quello a garantire un ricambio di energia costante al corpo evitandone il disfacimento.»

«E ora che cosa ne sarà di Lucy?» domandò la ragazza a capo chino

«Ho parlato con il procuratore. Se si fosse dovuti andare al processo sarebbe stato sicuramente un elemento di prova, ma visto com’è andata a finire è inutile lasciarla rinchiusa lì dentro. Entro qualche giorno spegneranno tutto.»

A quel punto, le labbra di Helen si piegarono in un sorriso quasi di rassegnazione.

«Forse era quello che voleva. L’aveva detto che non avrebbe accettato di seppellire sua figlia.»

Seguì un nuovo silenzio, rotto solo dal tintinnare dei bicchieri sulla superficie di legno.

«Un po’ capisco i sentimenti del professore, così come capisco Lucy. Quando si nasce in determinate famiglie, tutti si aspettano un certo comportamento da parte tua, e spesso chi si trova in queste situazioni non aspetta altro che di poter agire diversamente, anche solo per poter provare a sé stesso di essere ancora in grado di decidere autonomamente.

D’altra parte però, deve essere brutto per un padre vedere la figlia di cui vai tanto fiero inerpicarsi in una strada così pericolosa.»

«Non è stata una bella esperienza, e posso assicurarti che non sarà l’ultima. La MAB per tradizione si occupa di tutto ciò che trascende la concezione abituale di normalità, e la magia di cui tutti vanno fieri noi spesso la vediamo per quello che è realmente. Una forza che può assumere le forme più spaventose.»

«Credevo di saperlo» sospirò lei. «Ma vederlo di persona è stato diverso» quindi lo guardò, quasi a voler cercare un’ancora di salvezza. «Voi come fate? Come fate a sopportare tutto questo?»

«Pensando che ci sarà sempre un domani» le rispose lui. «Se dovessimo soffermarci su tutto ciò che di orrendo e spaventoso il nostro lavoro ci mette davanti, finiremmo tutti con l’impazzire. Anche se è difficile, devi avere la forza è la volontà di voltare pagina. È così che si và avanti.»

Helen portò allora nuovamente gli occhi sul suo bicchiere, stringendolo un po’ più forte senza però dire nulla.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Episodio 2 - Game Over (Parte 1) ***


EPISODIO 2

GAME OVER

(PARTE I)

 

 

Non era raro che Chris Rowan facesse perdere il sonno ai propri vicini di appartamento, ma quella notte si stava veramente passando il segno.

Benché fossero ormai quasi le tre, dal suo alloggio provenivano senza sosta schiamazzi, urla, esplosioni ed effetti sonori degni dei migliori film, e alla fine Charlie Descott, con cui già altre volte Chris si era ritrovato a discutere, decise che ne aveva abbastanza.

«Ehi Rowan, hai intenzione di andare avanti così ancora per molto?» tuonò, dopo essere uscito dal suo appartamento in boxer e canottiera, battendo energicamente la porta del vicino. «Non so tu, ma io domani devo andare al lavoro!»

Ma non giunse risposta, e neppure i rumori all’interno cessarono; e allora Charlie, che non era certamente i più accomodante dei vicini, perse la testa, e grazie anche alla sua considerevole stazza con un solo calcio sfondò il battente entrando nell’appartamento.

Chris era in salotto, stravaccato di spalle sulla poltrona ludica con lo sguardo rivolto verso la finestra. Gli amplificatori attorno a lui erano tutti accesi, ma il fracasso, per quanto assordante, non sembrava dargli fastidio; probabilmente, con tutte le ore che passava a giocare, ormai non ci faceva neanche più caso.

«Stammi a sentire, sottospecie di fissato, sono arcistufo di questi tuoi eccessi» imprecò Charlie facendoglisi incontro dopo aver staccato con forza la spina del sistema di gioco. «Non me ne frega niente se sei una specie di guru del tuo mondo malato, se sgarri ancora una volta giuro su Dio che…»

Come provò ad afferrargli il polso, questi scivolò inerme giù dal bracciolo, e fu allora che Charlie, fattosi muto per lo sgomento, si avvide di come il suo vicino avesse tutte le ragioni del mondo per non aver potuto ribattere all’ennesima protesta per schiamazzi.

 

Foch era talmente assorto in ciò che stava vedendo nel visore oculare piazzato sul volto, con l’espressione beata e il joystick di controllo in mano, che non si accorse di essere più solo in ufficio fino a quando qualcuno con un calcio non gli tolse letteralmente la poltrona da sotto il sedere, facendolo ruzzolare a terra con un tonfo secco che per poco non gli fece venire un infarto.

«Ma che diavolo…» sbraitò togliendosi il dispositivo. «Derek! Hai deciso di ammazzarmi per caso?»

«Quante altre volte dovremo farti il discorsetto sull’uso delle attrezzature dell’agenzia?»

«Ehi, il turno di notte è lungo, e qui non succede mai niente.»

«Buon per noi.» disse Jane entrando con il caffè in mano. «Ci sono tanti di quei problemi magici a New York che un po’ di quiete è quasi una benedizione per quest’ufficio.»

«Da quanto il Metodo Brennon è diventato di dominio pubblico» commentò Helen, già seduta alla sua scrivania. «Il numero di praticanti della magia è notevolmente aumentato, ma con esso sono aumentati anche i problemi.»

«E cosa ti aspettavi? Ormai senza la magia questo pianeta andrebbe in malora in un secondo.»

«Il fatto è che la magia non è un gioco. Noi stregoni ancestrali siamo educati fin da piccoli a imparare a controllarla fin dai tempi più antichi, ma là fuori c’è tanta gente che ne fa uso senza aver frequentato una sola ora di scuola preparatoria.»

«Grazie della lezione di sociologia» tagliò corto Foch. «Se non l’avessi notato, è per questo che ci sbattiamo tanto» quindi corse a prendere la giacca dall’attaccapanni. «O meglio, voi vi sbattete. Perché io adesso me ne vado a casa, consumo l’acqua calda, e affondo i postumi di questa nottata nel mio morbido letto. Saluti!»

Invece, non fece in tempo a valicare la porta scorrevole che il telefono sulla scrivania di Derek lo pietrificò, provocandogli un brivido famigliare e insopportabile.

«Arriviamo subito» disse il detective per poi richiamare all’ordine l’intera squadra. «Riposo rimandato, Foch.»

«E ti pareva.»

«Cos’abbiamo?» domandò Jane accodandosi al collega assieme al resto dei compagni.

«Mago morto nell’Upper West Side

O’Bryan scese dall’ascensore proprio mentre Derek e gli altri lo stavano raggiungendo.

«Sei in ritardo.» lo rimproverò Norway passandogli accanto, e ricevendo in cambio un’occhiata perplessa

«Buongiorno anche a te.» scherzò prima di tornare sui suoi passi.

 

Il luogo della segnalazione era un appartamento in un condominio della 96ma Strada, al sesto piano, un trilocale non particolarmente sfarzoso ma comunque arredato con mobilio di un certo pregio.

La vittima era in salotto, riversa su di una poltrona da videogiocatore circondata da ogni ben di Dio, dalle casse multi-stereo ai monitor di ultima generazione, il visore ancora calato sugli occhi e un paio di cuffie costose a penzolare da un bracciolo.

Una squadra della polizia aveva già eseguito i primi rilievi, ed era intenta a terminare il sopralluogo dell’appartamento; il detective incaricato delle indagini si chiamava Theodore Ramey, e benché molti agenti di polizia non saltassero di gioia nel vedere la MAB piombare su una loro scena del crimine l’ormai non più giovane detective non si scompose più di tanto quando uno dei suoi uomini appostati in corridoio gli introdusse Derek e il resto della squadra al gran completo.

«Detective Ramey.»

«Agente Norway» rispose lui col medesimo sorriso di complicità. «Avete fatto anche prima del solito.»

«Con quello che pagano, i contribuenti si meritano la massima celerità» replicò ironico Derek.

Entrambi portarono quindi l’attenzione sulla vittima.

«Mamma lo diceva sempre che i videogiochi fanno male» disse ironico Norway. «Chi è il morto?»

«Simon Tildman, ventinove anni. Era il padrone di casa. Un vicino è venuto a lamentarsi per il chiasso durante la notte, e siccome l’amico qui non rispondeva, ha sfondato la porta e l’ha trovato così.»

«Non vedo segni di lotta o ferite di alcun genere» osservò Jane. «Causa della morte?»

«Infarto, o così sembra.»

«A ventinove anni?» replicò O’Bryan

«Il medico legale parla di un collasso multiorgano, ma pare che a ucciderlo sia stata un’aritmia cardiaca con conseguente infarto. È morto in meno di trenta secondi.»

In quella Kristen, che aveva avuto non pochi problemi a trovare un parcheggio, raggiunse a sua volta la scena del crimine, sgranando gli occhi per la sorpresa nel momento in cui si trovò a tu per tu con la vittima, che nel frattempo era stata tolta dalla sedia e preparata per essere portata via dal coroner.

«Tildman!?»

«Lo conosci?»

«Certo che lo conosco. Come pure all’incirca un altro mezzo miliardo di persone in giro per il mondo.»

«Prego?» replicò O’Bryan

«Ah già. Dimenticavo che voi siete da un’altra era geologica.»

Solo allora Derek e gli altri fecero caso ai molti poster, quadri e disegni vari che tappezzavano la stanza, la maggior parte dei quali con raffigurato un personaggio smaccatamente fantasy in armatura bianca da cavaliere splendente ritratto nelle pose e nei contesti più disparati, con una lunga spada in una mano e uno scudo triangolare nell’altra.

Notandolo, anche qualche altro membro della squadra parve sobbalzare per lo stupore.

«Eccolo qui. Zondag il Leggendario. Uno dei Cinque Arcangeli di Myrthal.»

«Eh!?» piegò le labbra O’Bryan.

«Ora mi ricordo» disse allora Ramey. «È un videogioco online. Rage&Sword, dico bene?»

«Simon Tildman è stato il primo e unico giocatore a completare il Labirinto di Dalesid» proseguì Foch. «E nelle ultime due edizioni dei campionati del mondo ha letteralmente surclassato tutti i suoi avversari. Nel mondo di Rage&Sword è una specie di leggenda.»

 

Solitamente MAB e polizia non collaboravano alle indagini, in quanto se la prima subentrava l’operato della seconda, il più delle volte, risultava superfluo.

Tuttavia, prima di avviare una qualunque indagine, era necessario appurare che vi fosse un qualunque crimine su cui investigare, senza contare che non sempre il coinvolgimento di uno o più maghi era un motivo sufficiente per affidare un caso all’Agenzia.

Così, Ramey seguì Derek e la sua squadra al distretto, spulciando assieme a loro le prove raccolte sulla scena del crimine in attesa che dalla sala operatoria giungesse il referto autoptico.

«Vincitore di Azmech, Distruttore di Porgorath, Rovina di Unius, Maestro delle Cinque Arti, Signore delle Lune nuove, Re di Passomorto» leggeva Foch sulla pagina personale di Tildman sul sito web di Rage&Sword. «Ha collezionato più trofei lui in due anni che io in tutta una vita.»

«E ci mangiava?» replicò beffardo Derek dalla sua scrivania

«Che tu ci creda o no, sì» rispose Jane. «A quanto ne so, un campione di questo genere di giochi online, se legato ad un procuratore o iscritto a una federazione, può arrivare a guadagnare quanto una matricola NBA.»

«Essere pagati per giocare a un videogame?! È un’idiozia.»

«Sarà un’idiozia, ma muove parecchi soldi» commentò Ramey. «Il creatore di Rage&Sword, Philip Heybrun, è uno dei dieci uomini più ricchi del mondo, e il suo impero dei videogiochi è tra le prime cinque aziende in America sia per dipendenti che per fatturato.»

«I tempi del video-pong sono lontani, vecchio mio» rise Foch. «Comunque c’è qualcosa di strano. Dalle chat-room sembra che Zondag non si faceva vedere da un po’ nelle aree pubbliche del gioco, eppure stando ai dati di traffico sembra passasse online almeno dieci ore al giorno nelle ultime settimane.»

«Forse era impegnato in qualche dungeon particolarmente duro.» commentò Helen.

«Se è così, non voleva condividere la gloria. Sembra che ultimamente non si facesse vedere neppure dai suoi usuali compagni di party.»

Ad un certo punto, mentre frugava nelle chat, Foch notò qualcosa che parve attirare la sua attenzione, ma Derek e gli altri erano tutti troppo concentrati sui rispettivi terminali per accorgersene. In compenso, si accorsero del suo continuo sbadigliare, almeno per quella volta assolutamente comprensibile.

«Basta così» sentenziò infine Derek. «Va a casa prima di crollare sulla tastiera.»

«Con vivo piacere!» rispose lui recuperando la giacca dalla sedia e sfilando, con molta disinvoltura, una chiavetta dal computer. «Signori, buonanotte a tutti!»

Pochi minuti dopo che se n’era andato, però, Helen notò che il collega nella fretta aveva dimenticato sulla scrivania il proprio badge di agente, senza il quale gli sarebbe stato impossibile superare i controlli di sicurezza all’ingresso il giorno successivo.

«Foch, aspetta! Il tuo pass!»

Provò a corrergli dietro, ma nel tempo che impiegò a raggiungere l’atrio Kristen era già scomparso nella metropolitana del piazzale antistante l’edificio.

 

In realtà, se Foch aveva tanta fretta di andare a casa, non era certamente per il sonno o la voglia di dormire: non più almeno.

Nascosto tra le righe delle chat, sproloqui allucinati che solo un esperto Rage&Sword sarebbe stato capace di tradurre con un filo logico, e in particolare nelle conversazioni tenute da Zondag con alcuni dei suoi compagni più fidati, Kristen aveva trovato qualcosa, qualcosa di inaspettato e sconvolgente, che aveva acceso come un fuoco il suo spirito di giocatore.

Così, chiusosi nel suo appartamento di Brooklyn, piccolo ma sapientemente e fastosamente arredato con i proventi di anni di intrallazzi non proprio legali, si era immediatamente riattaccato al computer, bevendo caffè e fumando sigarette a ripetizione per restare sveglio.

Servirono molte ore di lavoro, cosa difficile da immaginare per qualcuno che come lui era stato capace di forzare i firewall dell’Hotel Plaza a undici anni per farci soggiornare i nonni in visita dall’Arkansas, ma alla fine i suoi sforzi parvero sortire i risultati sperati.

«E vai!» disse con un sorriso soddisfatto mentre una interminabile sequenza di numeri e lettere scorreva senza sosta sul monitor principale. «È stato più complicato del previsto, ma ci sono arrivato. Grazie  per quest’ultimo regalo, Zondag. Verrò a portarti i fiori in cimitero.»

Ora non restava altro che effettuare la prova diretta, quindi Foch, recuperata nuovamente la chiavetta, la inserì nella porta della poltrona neurale al centro del salotto; forse non era sofisticato e all’ultimo grido come quello del compianto Tildman, ma anche il sistema di interfaccia virtuale di Foch faceva la sua bella figura, senza contare che se l’era costruito, programmato e interfacciato da solo.

«Ci siamo» disse dopo aver avviato Rage&Sword e aver infilato il visore. «Sto arrivando, Zion.»

 

Se c’era una cosa che Jane non era felice di fare questa era sicuramente il fare un piacere a Foch.

Quando le era stato chiesto, o per meglio dire ordinato, di riportare il badge di servizio a Kristen sulla via di casa, aveva cercato vanamente di campare una scusa, ma considerando che era la sola della squadra ad abitare a Brooklyn alla fine non aveva avuto altra scelta che assecondare i suoi colleghi, e con il morale sotto i piedi si era diretta al condominio del collega.

In quanto veterana della squadra, era stata la prima a obiettare il giorno in cui il procuratore distrettuale, su spinta del capo della polizia, a sua volta incalzato dal sindaco per la penuria cronica di buoni agenti all’interno della MAB, aveva assegnato loro un criminale recidivo risocializzato che, trovatosi a ventisei anni a dover scegliere tra la una lunga pena detentiva e un lavoro “socialmente utile” aveva scelto di contrastare quelli che un tempo erano stati i suoi compagni di malefatte.

Foch era sicuramente un bravo agente, un hacker come se ne vedevano pochi, con un’esperienza invidiabile tanto nel mondo dei computer quanto in quello della stregoneria, ma sebbene inventiva, capacità e intuito non gli facessero difetto aveva dato prova in più occasioni di essere un individuo sostanzialmente inaffidabile, troppo incline a fare di testa sua e irrispettoso il più delle volte di qualunque forma di autorità.

E poi era un bambinone, infantile oltre misura, incapace di prendere con serietà anche le questioni più spinose, e questa era sicuramente la cosa che Jane detestava maggiormente di lui.

Parlargli era inutile, e peggio ancora arrabbiarsi, perché quella specie di casinista tutto sapeva fare fuorché prendere sul serio le lamentale o le obiezioni di qualcuno; più volte aveva detto di essersi unito alla MAB solo per causa di forza maggiore, e anche per questo motivo Jane riteneva che non vi fosse persona più inadatta per occuparsi di una questione talmente delicata come amministrare il corretto uso della magia in una società che cedeva fin troppo spesso al naturale desiderio di abusarne.

Se non altro, pensò mentre usciva dall’ascensore, avrebbe potuto fargli l’ennesima ramanzina, oltre a pretendere un congruo risarcimento per il servizio sotto forma di hamburger, patatine e pepsi l’indomani all’ora di pranzo.

«Ehi, nerd da computer!» esclamò battendo energicamente alla porta dell’appartamento. «La prossima volta, invece del badge, cerca di non dimenticarti la testa!»

Ma non giunse risposta.

Sulle prime Jane pensò che Foch stesse ancora dormendo, ma il brusio in sottofondo di una macchina da interfaccia in piena operatività fu la prova evidente che non era così.

«Non era poi così stanco, dopotutto» brontolò prima di ricominciare a battere. «Avanti, idiota! Esci dal mondo dei sogni e muoviti ad aprire!»

Poi, d’improvviso, si udì un colpo violento, come di qualcosa che crollava al suolo, seguito subito dopo da un terrificante silenzio.

«Kristen?» domandò Jane mentre le tempie le si riempivano di sudori freddi. «Kristen, non è divertente. Apri.»

Dal momento che la porta era blindata era perfettamente inutile tentare di abbatterla, ma fortunatamente alla fine tutto quel battere attirò l’attenzione della signora Wilson, l’anziana dirimpettaia di Kristen, che uscì per capire cosa stesse succedendo; Foch aveva parlato di lei in un paio di occasioni, e poiché aveva sottolineato come fosse solito affidarle la pulizia del proprio alloggio le chiese se avesse una chiave di riserva.

«Sì, ce l’ho. Ma che succede?»

«Presto, vada a prenderla!»

Incredula, ma anche un po’ spaventata, la signora corse a prendere la chiave, ed aperto l’uscio le due donne si trovarono davanti ad uno spettacolo sconvolgente.

Kristen era a terra, immobile, come a terra erano anche la poltrona e tutte le apparecchiature ad essa collegate, il visore ancora parzialmente calato sugli occhi e il volto pallido: sembrava morto.

«Oh, mio Dio!» urlò la signora Wilson quasi svenendo

Jane invece corse dal collega, inginocchiandosi davanti a lui a prendendolo tra le braccia dopo avergli tolto il visore; le labbra e le narici erano cianotiche, gli occhi aperti ma rivolti all’indietro, e un filo di saliva colava dalla bocca socchiusa.

«Presto, chiami un’ambulanza!»

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3231570