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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 1) *** Capitolo 2: *** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 2) *** Capitolo 3: *** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 3) *** Capitolo 4: *** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 4) *** Capitolo 5: *** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 5) *** Capitolo 6: *** Episodio 2 - Game Over (Parte 1) ***
Capitolo 1 *** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 1) ***
EPISODIO 1
IL GIOCO DELLA
MORTE
(PARTE I)
L’auto di pattuglia
percorreva la Ocean Avenue a bassa velocità, fendendo
con la luce di posizione gli alberi e i sentieri cespugliosi del Prospect Park alla ricerca di improbabili segnali di
allarme.
Era stata
una nottata molto tranquilla, e tutto lasciava supporre che il sole sarebbe
sorto di lì a breve senza il sopraggiungere di qualsivoglia imprevisto.
«Qui è
tutto tranquillo» brontolò l’agente alla guida. «Avanti, torniamocene in
centrale. Non vedo l’ora di buttarmi a letto.»
«Aspetta»
gli disse in quella il suo partner. «Mi sembra di aver visto qualcosa.»
«E ti
pareva.»
L’autista
in verità non aveva nessuna voglia di fermarsi, convinto com’era che il suo
socio avesse avuto solo l’ultima delle sue tante sviste dettate dal fervore
giovanile, ma alla fine il pivellino la ebbe vinta, e la macchina, tornata
indietro, si fermò al limitare del parco, quindi i due agenti scesero dal
veicolo avventurandosi lungo il sentiero.
«Vedi?»
disse però beffardo quando, malgrado tutto, le loro torce seguitarono ad
illuminare solo un’infinita distesa di alberi. «Un bel mucchio di niente.»
E invece
i fatti gli diedero torto, perché proprio in quel momento anche lui poté notare
una figura scura, difficilmente distinguibile, che si aggirava poco distante
tra un gruppo di cespugli e bassi alberi vicino alle zone relax che si
affacciavano sulla duckisland.
«E
quello chi cavolo è?» si domandò, dal momento che la torcia del collega, per
quanto potente, non arrivava ad illuminarlo distintamente.
Poteva
trattarsi di tante cose, ma le ipotesi più accreditate erano o qualche drogato
perso nei fumi di chissà quale porcheria o un senzatetto impegnato a rovistare
in cerca di qualcosa di utile: in ogni caso, niente per cui valesse anche solo
un altro passo.
«Avanti,
andiamocene» mugugnò ancora l’autista. «Il nostro turno finisce tra venti
minuti.»
Ma il
cadetto non aveva alcuna intenzione di sfigurare nei suoi primi giorni di
servizio, anche a costo di rendersi antipatico ad un capopattuglia svogliato;
così, di slancio, riprese a camminare, avvicinandosi non senza cautela allo
sconosciuto.
Benché
non potesse vederlo bene, nascosto com’era tra le fronde, dovette fare solo
pochi metri per capire che si trattava di una donna, e che in quel momento gli
stava dando le spalle.
«Signora,
và tutto bene?»
Non vi
fu risposta; poi però, avvicinandosi ancora di più, il giovane si avvide anche
di un’altra cosa, assai più insolita, e cioè che quella donna, oltre che
sporca, era anche completamente nuda.
E allora,
il suo tono di voce cambiò radicalmente: dopotutto, per quanto alle prime armi,
gli era già capitato di incontrare gente di quel tipo.
«Ehi,
tu!» gridò cercando di illuminare il meglio possibile i capelli sudici e
bagnati di quella spiantata. «Sarà anche estate, ma questo non ti autorizza a
girare nuda per il parco! Vieni fuori da lì!».
La donna
non rispose, né diede segno di aver capito, e allora l’agente si mosse in
avanti senza smettere di tenerla puntata la torcia addosso. Aveva già preso le
manette, e stava per afferrarle una spalla e costringerla fuori da quel
cespuglio, quando finalmente la donna, lentamente si girò, piantando i suoi
occhi bianchi contro il poliziotto, che restò pietrificato.
Un
animale sventrato sarebbe risultato meno raccapricciante; lo squarcio che aveva
sullo stomaco era tale che alla luce della torcia sembrava quasi di scorgere
gli intestini, per non parlare dei molti altri tagli più o meno profondi che le
coprivano le braccia, il tronco e perfino la faccia.
Il
giovane restò paralizzato, trattenendo a stento i conati di vomito, e prima che
potesse trovare la forza di muoversi quella poveraccia stramazzò a terra, come
un burattino cui erano stati tagliati i fili.
Come
riuscì a recuperare l'autocontrollo provò a tastarle il polso, ma era
perfettamente inutile, e allora afferrò la ricetrasmittente.
«Quattro-Sette-Sette a Centrale! Mandate subito un'ambulanza
al Prospect Park, agli imbarcaderi per la Duck Island!»
Tutte le mattine, prima di
recarsi al lavoro, all’Agente Speciale Derek Norway
piaceva scacciare via i torpori della notte con una buona mezz’ora di footing
lungo i marciapiedi tutto attorno alla sua abitazione, una casa a tre piani ad
Harlem.
Malgrado
la posizione piuttosto centrale rispetto al centro nevralgico di Manhattan la
rivoluzione urbanistica e la riqualificazione culturale ne avevano fatto una
zona piuttosto tranquilla, dove raramente accadeva qualcosa, ma evidentemente
quella era destinata ad essere una giornata particolare.
Derek
era quasi arrivato sotto casa, giusto in tempo per lavare via con una doccia il
sudore della corsa prima di raggiungere l’ufficio, la maglietta kaki zuppa e i
cortissimi capelli scuri imperlati, quando sul marciapiede sul lato opposto un
balordo in skateboard si avvicinò ad una coppia di anziani in passeggiata,
sfilando violentemente la borsetta alla donna per poi darsela a gambe.
«Al
ladro, fermatelo!» urlò la signora
Derek,
anche se quasi sfiatato, si rimise subito a correre, e mentre correva le sue
gambe andarono circondandosi di un bagliore vermiglio.
«Flash move!» urlò, e come se il tempo tutto attorno a lui si
fosse fermato percorse la distanza che lo separava dal bersaglio in un batter
d’occhio, avventandosi fulmineo sul ladro e buttandolo a terra dopo averlo
immobilizzato.
«Hai
scelto il posto sbagliato per venire a rubacchiare, amico!» gridò stringendogli
con forza i polsi ed avvolgendoli in una specie di legaccio luminoso, più
efficace di un paio di manette.
Aveva
appena restituito il maltolto alla proprietaria, ricevendo in cambio infiniti
ringraziamenti, quando il trillare di un telefono sembrò risuonare direttamente
all’interno della testa del detective, il quale, agitando un dito nell’aria,
fece comparire davanti a sé una specie di finestra olografica simile in tutto e
per tutto al monitor di un computer.
«Norway.»
Il
borseggiatore ammanettato non sentì niente, probabilmente perché la
conversazione stava avvenendo a livello telepatico.
«D’accordo,
arrivo subito» concluse, stavolta a voce, il detective.
E dal
momento che di poliziotti o volanti di ronda non si vedeva alcuna traccia,
Derek non ebbe altra scelta che trascinare a forza quel ladruncolo fin sulla
porta della sua casa, legandolo alla ringhiera della scala d’ingresso
materializzando dal nulla un altro di quei nastri luminosi.
«Aspettami
buono qui. Giusto il tempo di farmi una doccia e ti sbatto in cella.»
Ogni volta che la MAB
veniva chiamata sulla scena di un crimine era raro che qualcuno della squadra
si presentasse sul posto prima del detective Jane Paloski;
trentaquattro anni, di cui cinque passati nell’NSA, di Jane si diceva che fosse
solita pensare alle cose dopo averle fatte, guidata da un’irruenza e da una
intraprendenza cui però non mancava quella giusta dose di buon senso tale da
permetterle di non cacciarsi mai in guai dai quali poi non sapesse uscire.
La sua
immagine, a prima vista, lasciava un po’ spiazzati, per via dei corti capelli
biondi, chiaro segno della sua discendenza siberiana, che spiccavano su di
carnagione più scura, dai toni olivastri, tipicamente portoricana.
«E
quello chi è?» domandò, non senza quel suo cipiglio un po’ spaccone, vedendo il
suo collega Norway arrivare sulla scena del crimine
con un ragazzetto afroamericano ammanettato sul sedile posteriore della sua
vecchia Chrysler.
«Niente
di che. Un banditello che ha pensato bene di
scipparmi sotto casa.»
«E te lo
sei portato fin qui da Harlem?»
«Avanti,
cosa abbiamo?»
«Femmina,
caucasica. Età stimata, trent’anni. L’ha trovata una pattuglia alle cinque di
questa mattina.»
«È una
strega?»
«Bella
domanda. Non siamo ancora riusciti a stabilirlo. Non aveva niente addosso,
neppure i vestiti, e stiamo ancora aspettando Takikawa.»
«Allora
perché hanno chiamato noi?»
«Forse
per lo stato in cui è ridotta. Appena la vedrai, capirai.»
Poco
prima che raggiungessero i cespugli venne loro incontro Jonas
O’Bryan, il veterano della squadra; aveva più esperienza lui nel contrasto alle
attività magiche criminali di chiunque altro, forse perché era l’unico tra
tutti i suoi compagni ad aver avuto dei trascorsi in polizia prima di entrare a
far parte della MAB.
«Scusa
il ritardo, Jonas» si giustificò subito Derek. «Ho
avuto qualche problema.»
«Scuse
accettate. Vieni.»
Quando
finalmente l’agente si ritrovò a tu per tu con la vittima, persino la sua
decennale esperienza nei Navy Seal fu messa a dura
prova.
Il corpo
era riverso su di un fianco, completamente nudo, e alcuni insetti avevano già
iniziato a banchettare con le interiora fuoriuscite dallo squarcio.
«Abbiamo
qualche informazione?» domandò accucciandosi accanto alla vittima
«Le
impronte non sono in archivio, dal che risulta che non ha precedenti di alcun
tipo» rispose Jane. «Abbiamo anche interrogato alcuni frequentatori abituali
del parco e gli abitanti dei dintorni. Ma nessuno l’ha riconosciuta.»
«È strano.
Il sangue qua attorno e sul cadavere è decisamente troppo poco per ferite di
questo genere.»
«Stando
al racconto dell’agente che l’ha trovata, camminava ancora quando la pattuglia
è arrivata qui» rispose O’Bryan. «Ma quasi mi risulta difficile crederlo viste
le sue condizioni.»
«Se
fosse una maga avrebbe un senso» ipotizzò Jane. «Qualche esperimento o giochino
magico andato male.»
«Non
sarebbe la prima volta» rispose l’attempato irlandese. «Cinque anni fa a
Providence un tizio ha camminato per quasi tre ore per la città con l’intestino
di fuori, seminando budella per tutto il centro cittadino per poi crollare
morto proprio davanti ad una scuola.»
«Un
sovraccarico magico può fare questo ed altro!» esclamò il dottor Takikawa arrivando in quel momento sulla scena del crimine,
i capelli neri e corti pettinati con la riga e i buffi occhiali rotondi a
svettare sul volto paffuto.
«Comodo Dean, comodo» lo ammonì Derek. «Tanto qui non c’è niente da fare.»
«Forse
voi della sezione investigativa avete l’orario fisso e le ferie pagate, ma io
mi sono fatto la nottata per finire di redigere i rapporti per la procura, e
quando è arrivata la chiamata dai tuoi amici stavo giusto per concedermi
qualche ora di sonno.
Quindi
risparmiami le tue solite battute.»
Senza aggiungere
altro il dottore si mise subito al lavoro, e come prima cosa, chiusi gli occhi,
sospese la propria mano sul volto della vittima, materializzandone
immediatamente un’immagine olografica tridimensionale davanti a sé, oltre ad
una incalcolabile quantità di dati medici.
«Nessun
riscontro nell’archivio internazionale» sentenziò dopo qualche secondo. «O è
una strega senza autorizzazione o un essere umano. Io propendo per la seconda
ipotesi. Ad una prima analisi l’M-Code sembra abbastanza sviluppato, ma non
così tanto da permettere l’uso della magia.»
«Però
questo riporta a galla la domanda di prima» osservò O’Bryan. «Come ha fatto
questa povera disgraziata a camminare per chissà quanto tempo con gli intestini
di fuori senza l’aiuto di un qualche potere magico a sostenerla?»
«Chi
l’ha uccisa forse ha fatto sparire il sangue per cercare di depistarci» pensò
Jane. «Può darsi che a conti fatti l’omicidio non sia avvenuto poi così lontano
da qui.»
«Ma
allora perché l’assassino avrebbe dovuto permetterle di girare liberamente per
il parco, con il rischio di essere sorpreso? Morente com’era avrebbe fatto
prima a finirla.»
Takikawa nel
mentre stava ancora lavorando sui dati che aveva raccolto, e d’un tratto la sua
espressione solitamente così sicura e sornione, si caricò di stupore.
«Signori,
qui mi sa che abbiamo un problema.»
«Sarebbe?»
chiese O’Bryan
«Abbiamo
acclarato che non può trattarsi della strega. E
allora, qualcuno dovrebbe spiegarmi come mai il livello di Risonanza
nell’organismo di questa donna supera abbondantemente i 300.»
I tre
agenti lo guardarono attoniti, per poi rivolgere nuovamente gli sguardi verso
la vittima.
Una
risonanza pari a trecento era propria solo di alcuni tra i migliori stregoni in
circolazione, ed era assolutamente impossibile che un normale essere umano
potesse avere dentro di sé un potere simile.
Chi
diavolo era quella ragazza?
La sede della MAB di New
York, nel cuore di Midtown, era stata inaugurata da appena tre anni, prima dei
quali la squadra si era vista costretta a “subappaltare” un piano del locale
quartier generale dell’FBI.
Gli
abitanti di New York potevano anche dirsi fortunati, perché escludendo
Washington nessun’altra città dell’eastcoast poteva vantare una squadra MAB così numerosa e, tutto
sommato, ben organizzata.
Il
caposquadra di New York si chiamava Kay Hodgson, ed
era forse l’unico essere umano sulla faccia della Terra a comandare una squadra
MAB; dall’alto dei suoi cinquantadue anni aveva visto con i suoi occhi l’era
del cambiamento, vivendo sulla propria pelle il passaggio dalla vecchia alla
nuova civiltà, e le rughe che scavavano il suo volto, solo parzialmente
nascoste dai folti baffi scuri, sembravano quasi voler testimoniare le prove
che doveva aver sopportato per emergere in un mondo in cui la padronanza della
magia era tutto.
«Qualche
notizia sulla sconosciuta del parco?» domandò Hodgson
entrando nella grande sala rettangolare che ospitava gli uffici dei suoi
detective e volgendo lo sguardo alla foto del cadavere appiccicata sulla
lavagna.
«Per ora
niente di niente» rispose Norway.
«Nessuno
dei residenti con cui abbiamo potuto parlare finora dice di averla mai vista» proseguì
Jason «E nessuno l’ha riconosciuta.»
«Infine,
secondo Takikawa, il livello di Risonanza residuo non
combacia con l’effettiva struttura del suo M-Code» concluse Jane. «Quattro anni
nella MAB, e questa è la prima volta che mi capita una cosa del genere.»
«Rianimazione»
disse una voce alle loro spalle, spingendo tutti e quattro a volgere lo sguardo
verso l’ingresso.
Dinnanzi
a loro, senza che se ne fossero accorti, era comparsa una giovane cadetta che
ancora odorava di liceo, uniforme blu dei graduati dell’accademia di magia
pulita e ordinata come appena comprata, capelli corti di un castano molto chiaro,
e una 9mm tirata a lucido alla cintura ascellare.
«Una
fonte di magia molto potente inserito all’interno di un corpo morto, abbastanza
potente da riportarlo in vita.»
Poi,
accortasi del modo in cui era fissata, piegò le labbra in un sorriso
imbarazzato.
«Scusate.
Helen Trevor. Sono stata assegnata a questo ufficio a partire da stamattina.»
«Ah già,
la novellina» rispose saccente Jane. «Hai scelto il momento migliore.»
«Forse
sono rimasto indietro con i corsi di aggiornamento» osservò Norway.
«Ma rianimazione e negromanzia non può funzionare sui corpi degli esseri umani.»
«Ecco
spiegato perché il corpo è ridotto in quelle condizioni. Qualcuno ha cercato di
rianimarlo ricorrendo alla negromanzia, ma dopo un po’ l’energia introdotta
all’interno, non potendo contare su di un’appropriata valvola di sfogo, è
esplosa violentemente provocando gli effetti che vedete. Quando poi l’energia
residua si è esaurita del tutto, il corpo è definitivamente morto. Se così
vogliamo dire.»
«Ma per
quale motivo uno stregone dovrebbe prendersi il disturbo di rianimare un corpo
morto» le domandò O’Bryan quasi con tono di sfida, commettendo un atto
illegale, se sa fin dal principio che il suo tentativo è destinato a fallire?»
«Non
saprei? Prestigio? Studi antropologici? Il semplice gusto del macabro?
La magia
è una scienza che si evolve di giorno in giorno, e quello che abbiamo scoperto
fino ad oggi non è che la punta dell’iceberg delle sue effettive potenzialità.
Nuove scoperte vengono fatte ogni giorno, e la corsa all’ultima novità
coinvolge tutti i possibili settori umani.»
«Giocare
con i cadaveri come si gioca con le bambole è quanto di più immorale ed
antietico si possa immaginare» replicò quasi seccato Norway.
«E mi viene male al pensiero che qualcuno possa pensare di usare la magia per
qualcosa del genere.»
«Non mi
fraintenda, detective. Non condivido quello che questa persona ha fatto. Dico
solo che probabilmente, secondo lui, ne valeva la pena.»
Derek e
gli altri girarono quindi nuovamente gli sguardi, stavolta in direzione del
comandante, che dopo un attimo di apparente indecisione si riscosse.
«Facciamo
un controllo in archivio. Cercate gente che abbia già svolto pratiche simili, e
vedete se qualcuno di loro vive nella zona in cui abbiamo trovato il corpo.»
In quella,
un giovane sulla trentina, capelli arancio fuoco e fare goliardico, entrò tutto
baldanzoso nell’ufficio, sventolando la cartella che aveva in mano come fosse
stata una bandiera della vittoria.
«Buone
notizie, gente!» esclamò giocondo, salvo poi ammutolirsi di fronte alla nuova
arrivata. «E questa gentile signorina chi è?»
«Non cominciare
come tuo solito, Foch» lo ammonì Jane
«Accidenti
agente Paloski, siamo proprio di cattivo umore oggi.»
«Solo
quando ti vedo.»
«Ok, ok.
Lasciamo perdere» anche se prima di chiuderla definitivamente quello strambo
giovane non mancò di sfiorare con un dito la guancia della nuova arrivata. «Sei
proprio un bel bocconcino. Quanti anni hai, ventuno?»
«La
detective Trevor da oggi lavorerà con noi» tagliò corto Norway.
«Quindi ora dacci un taglio o tornerai a servire fiocchi d’avena nel refettorio
di Rikers.»
«La
giornata non è cominciata nel modo migliore Kristen,
non renderla ancora meno piacevole» disse O’Bryan. «O devo ricordarti per l’ennesima
volta il protocollo sui detenuti stregoni riqualificati? Avanti, cos’hai per
noi?»
«D’accordo,
per oggi la goliardia la mettiamo da parte.
Comunque
sia, ho fatto una ricerca sulla vostra Cenerentola squartata inserendo la foto negli
archivi della motorizzazione, e credo proprio di avere fatto centro.»
Presa una
scheda di memoria il giovane la inserì quindi nel lettore del proiettore appeso
alla parete, su cui iniziarono a scorrere migliaia di immagini.
«E la
vincitrice è…» disse un attimo prima che l’elenco
smettesse di scorrere. «Lucy Ferrazzani. Ventinove
anni, 650 di Pelton Avenue, Staten
Island.»
«Ferrazzani!?» disse Norway
spalancando gli occhi. «Non sarà per caso…»
«Indovinato.
È la figlia del professor Giulio Ferrazzani.»
«Ma non
ha senso» disse O’Bryan. «Qui risulta che è ancora viva e vegeta.»
«O forse
qualcuno vuole far credere che sia ancora così» ammiccò Jane
«Il
padre insegna alla Carter University. È uno dei dieci ricercatori di
stregoneria più popolari al mondo.
Questo e
altro dovrebbe essere capace di fare con tutte le sue conoscenze in materia.»
I quattro
membri della squadra si guardarono tra di loro, mentre tutto attorno si
diffondeva uno strano silenzio.
«D’accordo»
ordinò Hogdson. «Derek e Jonas,
voi due andate a parlare con il padre della ragazza. Scoprite cosa sa. Jane e Kristen, voi invece provate a sentire i senzatetto e gli
altri frequentatori abituali della zona dove abbiamo trovato il corpo. Qualcuno
deve pure aver visto qualcosa.»
«Perché devo
sorbirmi sempre io questo malato di mente?» bofonchiò a voce neanche troppo
bassa il detective Paloski mentre usciva
«Ti
adoro quando fai così, tesoro.»
Prima che
anche Derek e Jonas uscissero, però, il capitano il
fermò.
«Aspettate»
disse, e indicò . «Portatevi anche lei.»
La ragazza
restò un momento basita, ma poi, alla seconda sollecitazione del detective Norway, gli si accodò sorridendo come una bambina davanti
alla gelateria.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
E dopo tante storie ambientate su
Celestis, eccone una che invece si svolge sulla cara vecchia terra.
Più che una storia, si tratta di una sorta
di fantasia. Mettendo da parte per una volta tutte le atmosfere fantascientifiche
e futuristiche della saga originale, ho voluto creare qualcosa che ricalcasse
le classiche serie tv in sitle CSI, Criminal Minds e via discorrendo, con una squadra di polizia che
investiga su crimini magici in una New York alternativa, ma pur sempre
contemporanea.
Per ora si tratterà di una sorta di Pilot, con una storia autoconclusiva divisa in quattro
parti.
Capitolo 2 *** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 2) ***
EPISODIO 1
IL GIOCO DELLA
MORTE
(PARTE II)
Il professor Ferrazzani abitava in una di quelle case che solo un
luminare della stregoneria laureatosi a pieni voti nell’Università della Magia
di Parigi avrebbe potuto permettersi.
Si era
trasferito a New York dopo il matrimonio, e da allora era diventato uno dei
principali referenti del mondo della stregoneria americana, contribuendo a
riempire almeno in parte il solco profondo tra gli Stati Uniti e l’Europa in
materia di competenza magica.
La sua
bella villa in legno mattoni rossi, circondata da una palizzata bianca, e con
una grande quercia a svettare imponente al centro del giardino, si trovava in
una delle zone più eleganti di Staten Island.
E fu
proprio in giardino che Derek, Jonas ed Helen
trovarono il professore, intento a curare una delle aiuole fiorite che
cingevano il portico della casa.
«Professor
Ferrazzani?»
L’uomo,
chinato, si girò verso di loro, dandosi una rapida ripulita appena notò
l’apparire austero e rispettabile dei suoi ospiti.
A
vederlo così non aveva proprio l’aria di una persona che aveva rivoluzionato
completamente il modo di intendere la stregoneria in America, con la pelata e
gli occhiali di legno chiaro, eppure sia Derek che Helen, quando furono viso a
viso, non mancarono di rivolgerli un lieve, rispettoso inchino, come era usanza
comune tra colo che praticavano le arti magiche.
«Non
serve fare tutte queste cerimonie» disse lui con un sorriso. «Ormai è parecchio
tempo che non esercito più la stregoneria.»
«Professore,
io sono l’agente Norway della MAB. Questi sono i miei
colleghi, O’Bryan e Trevor.
Vorremmo
parlare con lei di sua figlia.»
«Lucy?»
rispose lui come perplesso. «Cosa le è capitato? Vi prego, ditemi che non si
tratta di qualcosa di serio.»
I tre
agenti si guardarono tra di loro, e i loro sguardi purtroppo non lasciavano
intendere nulla di buono.
«Professore»
disse Norway quasi balbettando. «Sono costretto a
dirglielo. Abbiamo trovato il corpo di sua figlia al Prospect
Park a Brooklyn, questa mattina all’alba.»
Per un
attimo il professore sembrò sul punto di svenire, poi però parve riconquistare
l’autocontrollo, sistemandosi gli occhiali e girando nervosamente la testa a
destra e a sinistra.
«Ci… ci dev’essere un errore. Mia
figlia è viva e vegeta.»
I tre
agenti non si scomposero più di tanto; negare l’evidenza era una reazione
normale e del tutto comprensibile ad un padre cui veniva detto di aver appena
perso la sua unica figlia.
«Professore,
la foto di sua figlia è stata riconosciuta dal nostro sistema di
identificazione. È sicuramente lei.»
«No, voi
non capite. Mia figlia è uscita di casa un’ora fa.»
Stavolta,
Derek e i suoi compagni rimasero di sasso.
«Come,
prego!?» domandò O’Bryan.
«Lucy è
uscita per andare a correre. L’ho vista coi miei occhi, e l’ho anche salutata.»
Neanche
a farlo apposta, proprio in quel momento una giovane ragazza in pantaloncini
attillati e maglietta da aerobica giunse dal viale e valicò il cancello,
togliendosi con l’asciugamano leggero avvolto attorno al collo il sudore dalla
fronte.
Vedendola
così, coi capelli biondo scuro annodati poco sotto le punte e la corporatura
ben scolpita, sembrava esservi quasi una curiosa, per quanto velata somiglianza
tra la nuova venuta e l’agente Trevor.
Quando
fu davanti a loro, i tre agenti restarono di sasso: non c’era alcun dubbio,
quella ragazza era uguale identica a quella che avevano visto distesa sul
tavolo delle autopsie.
«Scusa
papà, ci ho messo più del previsto.» disse togliendosi la fascia inzuppata
dalla fronte
«Tesoro,
questi signori sono della MAB.»
«Mio
Dio. È forse successo qualcosa?»
«Beh, effettivamente…»
replicò incredulo O’Bryan, per poi mostrare loro l’immagine della ragazza di
Brooklyn su di una finestra olografica appositamente aperta. «Questa è la
ragazza che si trova attualmente al nostro obitorio.
Concorderà
con noi che somiglia molto a sua figlia, professore.»
«Non
parlerei di somiglianza» rispose lui ad occhi spalancati. «Sono praticamente
identiche.»
Il
professore si accigliò, quindi fece un cenno alla figlia.
«Tesoro,
è quasi ora di lezione. È meglio se ti prepari.»
«Hai
ragione, papà. Se posso andare…»
«Sì,
ovviamente» rispose Derek ancora allibito.
A quel
punto il professore seguì con lo sguardo la figlia fino a che questa non
scomparve dietro la porta di casa, quindi, toltosi gli occhiali, guardò un
altro momento la sconosciuta della foto, distogliendo però gli occhi quasi
subito.
«Fa
quasi rabbrividire. Se non avessi saputo dove si trovava esattamente mia
figlia, probabilmente anche avrei confuso questa poveretta per lei.»
«Lei è
un professore di stregoneria» esordì il detective Trevor. «Che interpretazione
potrebbe dare per una cosa del genere?»
«La
risposta più logica sarebbe il pensare ad una coincidenza, ma sono io il primo
a credere che una tale somiglianza non può essere casuale.»
«Pensa
che potrebbero averla clonata?» chiese allora Derek
«Le
tecniche di clonazione magica non si sono ancora perfezionate fino a questo
punto.»
«E gli
incantesimi che permettono di modificare l’aspetto esteriore delle persone?»
ipotizzò O’Bryan
«Può
darsi, ma anche così la somiglianza è di un livello molto alto. Se di questo si
tratta, chiunque sia stato deve essere in possesso di considerevoli conoscenze
magiche.»
Un
attimo dopo il trillare di un telefono interruppe la conversazione, e O’Bryan,
appartatosi, si portò una mano all’orecchio, confabulando alcuni secondi per
poi tornare dai compagni.
«Era il
capo. Dobbiamo tornare alla centrale. Pare ci siano delle novità importanti.»
A quel
punto i tre agenti si congedarono, senza mancare però di dare istruzioni al
professore di rimanere reperibile in caso di ulteriori necessità.
Anche Jane e Kristen non avevano avuto molta fortuna.
Dopo
aver speso quasi due ore ad interrogare sbandati, senzatetto e persino
prostitute alla ricerca di informazioni non erano stati in grado di trovare un
solo testimone che avesse visto qualcosa di utile.
Per
fortuna, una buona notizia li attendeva al ritorno in centrale.
«Andate
subito alla sala autopsie» li accolse Hodgson prima
ancora che avessero il tempo di fare rapporto. «Dean ha qualcosa di molto
importante per la vostra indagine.»
Quindi,
i due si affrettarono a raggiungere Takikawa nel suo
piccolo regno sotterraneo, seduto al suo sgabello preferito ed intento a
giochicchiare con una curiosa statuetta a forma di gatto grande non più di
qualche centimetro, rappresentato seduto e con la zampa destra sollevata come a
voler salutare.
«Un
gatto!?» esordì Foch
«Non un
gatto qualsiasi» rispose sornione il dottore. «Un manekineko. Un gatto della fortuna.»
«Perché
stiamo parlando di gatti?» domandò allora Jane
«Perché
è grazie a questo bel micino di plastica che ora sono in grado di darvi alcune
importanti informazioni atte a sbrogliare questa matassa sempre più intricata.»
«Quando
hai finito di dare fiato alla bocca ti spiacerebbe provare a spiegarci perché
ci hai fatti venire qui?»
«D’accordo,
se volete rinunciare a farvi una cultura per me và più che bene» replicò il
dottore fingendosi offeso e decidendosi, finalmente, a raggiungere il corpo
della sconosciuta sul tavolo operatorio. «Quello che davvero dovete sapere è
che questi gatti hanno una particolarità. La loro zampa mobile oscilla in
presenza di qualunque emanazione magica.»
«E
questo come dovrebbe aiutarci?» chiese Foch quasi
provocatorio.
Takikawa
rispose con un sorriso beffardo, quindi poggiò la sua statuetta proprio accanto
al volto del cadavere; incredibilmente, dopo qualche secondo, la zampetta
destra cominciò ad oscillare avanti e indietro, aumentando sempre più la sua
andatura, fino a raggiungere un ritmo costante di una oscillazione circa al
secondo.
«E
questo che significa!?» esclamò Jane
«Me lo
sono domandato anch’io. Questo corpo a prima vista è stato privato di qualunque
residuo magico, e come da procedura ho eseguito un ulteriore drenaggio subito
prima di dare inizio all’autopsia.
Quindi,
come si spiega questo paradosso?»
«Sei tu
il dottore» rispose Foch
«Beh, ci
ho pensato per un po’, poi mi sono ricordato di una cosa. Certi incantesimi,
come quelli studiati per la modificazione del corpo, non lasciano dietro di sé
uno spettro energetico, e anche qualora venga effettuato un drenaggio i
cambiamenti fisici visibili non vengono rivelati.»
«Quindi,
qualcuno ha cambiato i connotati a questa donna?»
«E
chiunque sia stato è stato anche parecchio furbo» disse il dottore mostrando i
polpastrelli della vittima. «Ha modificato anche le impronte digitali. Per
questo la ricerca in archivio non ha dato risultati.»
«E
dunque? Come facciamo a scoprire chi è realmente questa donna?»
Di nuovo
Takikawa piegò le labbra in uno di quei sorrisetti
che Jane odiava ancora di più del dover lavorare con uno come Kristen, quindi, chiusi gli occhi, poggiò una mano sul
volto della vittima, il quale, sotto gli occhi dei due agenti, nel giro di
pochi secondi iniziò lentamente a trasformarsi, mentre l’energia presente nella
stanza aumentava al punto di far tintinnare i portelli metallici delle celle
frigorifere e ribaltare alcune delle action figure
che adornavano ogni singolo ripiano delle stanza.
Quando,
dopo poco, tutto cessò, i tratti della vittima erano radicalmente cambiati; i
capelli castano chiari erano diventati di un biondo innaturale, palesemente
tinto, e i lineamenti si erano fatti più grezzi, meno femminei.
«E
questa chi è?» domandò Foch non senza un certo stupore
«Per
fortuna, stavolta sono in grado di risponderti con certezza» rispose il dottore
focalizzando l’attenzione dei due detective sul vicino monitor. «La
ricostruzione facciale non è logicamente perfetta, ma ho comunque ottenuto un
riscontro.»
E
infatti, stavolta il database diede una risposta affermativa al riconoscimento
facciale.
«Eccola
qui. Molly Tips, di Tarrytown,
New York. Ventitre anni, piccoli precedenti per furto e detenzione di droga.
Viveva nel Queens. I genitori ne hanno denunciato la
scomparsa sei mesi fa.»
«Perché
una sbandata del Queens dovrebbe finire cadavere in
un parco di Brooklyn con i connotati di una ragazza di buona famiglia di Staten Island?»
«I miei
complimenti, detective Foch. È riuscito ad inserire
ben tre distretti di New York in una sola frase. Possiamo sperare di arrivare a
quattro?»
«Un
giorno o l’altro ti dirò dove puoi infilartelo questo tuo umorismo da quattro
soldi, sottospecie di nerd.»
«Una
ricostruzione come questa richiede una buona dose di esperienza ed abilità» osservò
Jane. «Chi e perché dovrebbe dannarsi tanto a fare una cosa del genere?»
«Ben
sapendo che è destinata a fallire» riprese Takikawa
portando nuovamente l’attenzione sul cadavere. «Questo tipo di incantesimi può
essere applicato indistintamente su maghi ed esseri umani. Quello che realmente
l’ha uccisa è stato il resto.»
«Di che
stai parlando?»
«Oltre a
ricostruirle il volto, l’autore di questo…
esperimento, se così vogliamo dire, ha cercato di inserire in lei anche una
personalità, affinché si sostituisse a quella originale. Una sorta di lavaggio
del cervello, se mi passate il termine. Ma dal momento che la nostra qui
presente signorina Tips non era dotata di un M-Code
sufficientemente sviluppato, una tale quantità di potere magico inserito
forzatamente nel suo corpo alla fine ha provocato un rigetto, che l’ha uccisa.
Viste le
circostanze, è già una fortuna che non sia diventata un’EDA.»
Tutti e
tre fissarono quindi per l’ennesima volta il volto della ragazza, ciascuno
perso nei propri pensieri.
Quando, poco dopo
mezzogiorno, Derek e gli altri tornarono in centrale, erano già stati
ragguagliati via telefono delle ultime novità circa la reale identità della
vittima, ma al secondo briefing della giornata, più che delle risposte, ad
attenderli c’erano solo nuove domande.
«Allora,
ricapitoliamo» disse Foch per cercare di riordinare
le idee. «Qualcuno si diverte a clonare una ragazzetta di buona famiglia di Staten Island, ma per qualche motivo il nostro clone
finisce in mille pezzi per poi farsi una passeggiata fino a un parco di
Brooklyn con le interiora di fuori dove finalmente tira le cuoia.»
«Direi
che questo escluse l’ipotesi della negromanzia» ipotizzò O’Bryan. «Anche
ipotizzando che Molly fosse viva quando è finita nelle mani dello stregone, se
il suo scopo era solo quello di fare esperimenti sulla rianimazione dei corpi
che senso aveva alterarle l’aspetto fisico?»
«D’accordo,
partiamo dalla prima domanda» disse Jane. «Prima ancora del perché, dovremmo
chiederci dove e come l’aspetto di questa ragazza sia stato alterato con la
magia.»
«Centri
che fanno questo genere di lavori ce ne sono parecchi in città» rispose Helen.
«La risposta può essere in uno di quelli.»
«Abbiamo
già indagato in questo senso» rispose subito O’Bryan. «Nessun centro di
chirurgia magica né alcuno studio privato ha mai avuto a che fare con Molly Tips, né ha ricevuto richiesta di effettuare un intervento
metamorfico sul modello di Lucy Ferrazzani.»
«Ma ci
sono anche persone che svolgono questo lavoro clandestinamente.»
I
detective si fissarono tra di loro, realizzando la fondatezza dell’affermazione
della loro nuova collega.
«Il
padre ha detto che la figlia è piuttosto famosa» disse Derek come a voler
rafforzare l’ipotesi. «Ha giocato nella squadra di volley dell’università, ed è
anche apparsa su alcuni siti internet. Forse qualche maniaco l’ha vista e ha
cercato di averne una copia per sé.»
«Con le
conoscenze di cui è a disposizione, non è escluso che l’assassino possa aver
alterato le fattezze di Molly Tips tutto da solo»
disse Hogdson. «Ma tanto vale fare un tentativo.»
Bastò
una breve ricerca nel database della polizia di New York per avere un
riscontro.
«Ho
qualcosa di interessante» disse Jane facendo comparire sul monitor il volto di
un afroamericano sulla quarantina. «Dustin Fletcher. Vive a Brooklyn. Ci sono
parecchie segnalazioni a suo carico per interventi illegali di alterazione
fisica, inoltre è segnalato come NAW.
E
indovinate un po’? Vive a meno di tre isolati dal luogo del ritrovamento.»
«È una
pista» disse Derek. «Andiamo a parlare con lui.»
L’ultima residenza nota di
Dustin Fletches era un vecchio condominio in Albemarle Road, uno di quei posti che bastava guardarli per
capire che era meglio girare al largo.
Derek e
Jane, una volta entrati, dovettero usare mezzi un po’ persuasivi per convincere
il portiere a rivelare quale fosse l’appartamento del sospettato, e quando lo
raggiunsero, al terzo piano dell’edificio, bussarono come di consuetudine.
«Dustin
Fletcher, MAB! Apri la porta.»
Un
istante dopo, dall’interno, si udì uno straziante urlo di donna, e allora i due
agenti, armatisi, sfondarono la porta con un calcio, penetrando all’interno.
L’abitazione
era un vero letamaio, sporca e trascurata, e nella sala seduta su di una sedia
malmessa, Derek e Jane trovarono una donna sui cinquant’anni, con il volto
fumante nascosto dietro le mani ed un uomo, probabilmente il marito,
inginocchiato accanto a lei nel tentativo di arrecarle conforto.
«Che è
successo?» chiese Jane
«Le
stava praticando un incantesimo di alterazione, e quando voi avete bussato è
scappato via senza interromperlo!»
«Dov’è
adesso?»
«È
andato in camera da letto.»
I due
agenti raggiunsero velocemente la stanza, aprendo la porta giusto in tempo per
vedere il sospettato uscire dalla finestra e correre giù dalla scala
antincendio.
«Fermo!»
Senza
indugio Derek si lanciò al suo inseguimento, mentre Jane, dopo un attimo di
indecisione, tornò invece da dove era venuta, non prima però di aver richiesto
un’ambulanza per la vittima dell’incantesimo fallito.
Come si
accorse di essere inseguito Fletcher saltò immediatamente giù dalla scala,
usando le sue abilità di mago per attutire la caduta, ed altrettanto fece Norway.
Ebbe
così inizio un lungo inseguimento, con guardia e ladro che sembravano impegnati
in un gioco magico nel tentativo di superarsi a vicenda; grazie alle loro
capacità i due superarono strade, scavalcarono reti, e persino corsero in
verticale lungo muri o altri ostacoli, ma per quanto Fletcher ci provasse Norway riusciva sempre e comunque a stargli dietro.
Sarebbero
andati avanti così per molto tempo, se alla fine il sospettato, svoltato un
angolo, non si fosse trovato davanti il detective Paloski,
che senza indugio sparò due colpi simili a globi di luce dalla sua pistola
centrandolo in pieno petto; non vi furono né sangue né ferite apparenti, ma ciò
nonostante Fletcher si ritrovò immediatamente a terra, immobile e rannicchiato
in posizione fetale come paralizzato.
«Cazzo,
che male!» imprecò cercando inutilmente di muoversi. «Che mi hai fatto, brutta
schifosa?»
«Essere
un mago ha i suoi lati negativi. Basta una scarica di energia velenosa per
mandare in tilt il tuo M-Code, e con esso tutto il tuo sistema nervoso.»
«Tranquillo,
però» disse Norway arrivandogli appresso ed
ammanettandolo. «Non è letale. Dopotutto, ne hai di cose da spiegare.»
Fletcher si riprese prima
ancora di arrivare in centrale, venendo quindi immediatamente rinchiuso nella
sala interrogatori assieme a Derek, di cui si diceva che sarebbe stato capace
di far parlare perfino Gheddafi con le sue abilità e il suo metodo coercitivo.
A dargli
manforte, come molte altre volte, il detective Paloski.
«Sei in
un mare di guai, Fletcher» esordì Derek sedendosi di fronte a lui. «Esercizio
della magia senza licenza e abuso della professione magica, senza contare le
lesioni aggravate.»
«Quella
poveraccia probabilmente rimarrà sfigurata a vita per le tue abilità da quattro
soldi.» rincalzò Jane
«È solo
colpa vostra» rispose lui strafottente. «Se non mi foste piombati in casa a
quel modo, le cose sarebbero andate diversamente.»
«Puoi
rigirare la frittata finché ti pare» gli rispose a tono Norway.
«Resta il fatto che qui ce n’è abbastanza per sbatterti in prigione per una
dozzina d’anni. Se poi ci aggiungiamo l’accusa di omicidio la situazione per te
diventa non esattamente rosea.»
«Omicidio!?»
replicò il sospettato con aria perplessa. «Che omicidio?»
Jane
allora gli sbatté davanti la foto della scena del crimine, suscitando in lui un
visibile senso di disgusto.
«L’omicidio
di questa ragazza. Il processo di alterazione a cui è stata sottoposta è stato
così pesante da ucciderla, e sai una cosa? È stata trovata a pochi chilometri
da quel cesso che ti vanti di chiamare studio.
Non lo
sapevi che una simile quantità di energia è letale per un essere umano?»
«Ehi un
momento, non scherziamo. Io questa qui non l’ho mai vista.»
«Ah sì?»
rispose Jane mostrandogli invece la foto “vera” di Molly Tips.
«E questa invece? Questi erano i suoi veri connotati, prima che tu ti mettessi
a giocare all’allegro chirurgo.
Quindi,
ora, te lo chiedo di nuovo. Qualcuno ti ha mai pagato per eseguire un
incantesimo metamorfico su questa ragazza?»
«Vi
ripeto che io questa tizia non l’ho mai vista. E se volete posso anche
provarvelo.»
I due
detective saltarono sul posto.
«Come
sarebbe a dire che puoi provarlo?» chiese Jane
«Non
così in fretta. Prima voglio un accordo. Che cosa mi offrite se vi aiuto?»
«Tu
comincia a parlare» lo imbeccò Derek. «Se poi la tua storia ci sembrerà
convincente, potremo sempre chiedere al procuratore di mettere una buona parola
per te.»
Fletcher
tergiversò, indeciso sul da farsi, ma alla fine si convinse.
«C’è una
chiavetta per computer nel mio studio. Lì dentro ci sono informazioni su tutti
i clienti che ho avuto, incluse le loro foto prima e dopo i miei…
lavoretti.»
«Perché
tenere foto dei tuoi pazienti?» domandò ancora il detective Paloski.
«Sono la prova del tuo lavoro sporco.»
«Così
non possono darsela a gambe prima di avermi pagato. Inoltre tra i miei clienti
ci sono persone che… come posso dire…
non hanno esattamente la coscienza a posto. Pensavo che un domani potessero
tornarmi utili, e a quanto pare non mi sbagliavo.
Controllate
se non mi credete.»
I due
detective si guardarono, quindi, raccolte le foto, si avviarono verso l’uscita.
«Prega
per te che sia vero» disse Derek prima di lasciare la stanza.
La chiavetta era già stata
portata in centrale assieme a molte altre prove, così analizzarla fu molto
facile e veloce.
Sfortunatamente,
le notizie che furono trovate al suo interno non erano incoraggianti.
«Sembra
che quel mago da strapazzo abbia detto la verità dopotutto» disse Foch scorrendo le immagini dei clienti di Fletcher.
«Malversatori, rapinatori, stupratori. Questo archivio farà venire un orgasmo
alla polizia di New York. Sfortunatamente però, non c’è alcuna traccia di
informazioni riguardanti Molly Tips o Lucy Ferrazzani.»
«Forse
sta solo giocando con noi» ipotizzò Helen. «Il corpo è stato trovato
stamattina. Se l’intervento è avvenuto ieri o addirittura stanotte, può darsi
che non abbia ancora avuto il tempo di inserire i dati.»
«Lo
escludo» disse Takikawa entrando nell’ufficio
succhiando rumorosamente un cartoccio di noodles del
ristorante cinese all’angolo. «Gli incantesimi metamorfici non lasciano tracce
evidenti, ma il processo di alterazione della personalità è molto più
complesso, e l’analisi delle particelle energetiche che sono riuscito ad isolare
parla chiaro.
L’aspetto
e la personalità della vittima erano state alterate già da qualche settimana
quando si è verificato il rigetto.»
«Il che ci
riporta al punto di partenza» disse mesta Jane
In
quella O’Bryan, seduto alla sua scrivania, rispose ad una telefonata, e dal
tono che assunse rapidamente il suo sguardo i suoi colleghi compresero che non
c’erano buone notizie.
«D’accordo,
arriviamo.» disse, con un filo di voce, posando la cornetta
«Che è
successo?» chiese Foch
Ma
niente poteva prepararli a ciò che stavano per sentire.
Capitolo 3 *** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 3) ***
EPISODIO 1
IL GIOCO DELLA
MORTE
(PARTE III)
La chiamata era arrivata da
un vicolo sudicio nel Queens.
La
polizia aveva effettuato una retata contro un gruppo di spacciatori, e per puro
caso, inseguendo e bloccando uno dei sospettati, uno degli agenti aveva notato
uno strano sacco gettato malamente all’interno di un cassonetto, ed era stato
sufficiente aprirlo perché dal suo interno apparisse il volto, deformato dalla
decomposizione ma ancora riconoscibile, di una giovane donna.
Quando
Derek e gli altri arrivarono sul posto il corpo era già stato estratto e
adagiato a terra, e a tutti bastò uno sguardo per capire che si trattava
veramente di un’altra, ulteriore Lucy Ferrazzani.
Anche la
causa della morte appariva simile a quella della vittima di Brooklyn, con lo
squarcio nel ventre a fare bella mostra di sé, anche se stavolta la ferita
appariva molto meno orrenda della precedente.
«E con
questa siamo a tre» commentò O’Bryan.
«Aspetta
a dirlo» osservò Derek. «Stavolta potrebbe essere quella vera.»
«Ne
dubito» rispose il detective che coordinava le indagini per la polizia. «Se la
storia che mi avete raccontato è vera, stamattina la presunta vittima era
ancora viva e vegeta. Questo cadavere invece ha come minimo tre settimane.»
«Il che
fa risalire questa morte a prima di quella di Molly Tips»
disse Jane. «Forse l’assassino aveva rapito Molly già da diverso tempo, e
quando questo clone è morto ha tentato di ripetere l’esperimento, ottenendo
però gli stessi risultati.»
In
quella il grido di una voce famigliare attirò l’attenzione degli agenti, e
Derek, alzati gli occhi, distinse tra la folla il professor Ferrazzani
che cercava furiosamente di farsi largo tra gli agenti.
«Lasciatelo»
disse quindi ai poliziotti, ottenendo di fargli varcare i nastri
«Detective,
la prego, mi dica che non è lei!»
«Stia
tranquillo, non è sua figlia» lo rassicurò. «È morta da almeno una settimana.»
«Grazie
al cielo. Questa situazione sta diventando paradossale. Da dove saltano fuori
tutti questi cloni della mia Lucy?»
«Vorrei
tanto saperlo anch’io, professore. Ora però dobbiamo preoccuparci di sua
figlia. È evidente che qualcuno è molto interessato a Lucy, e che non riuscendo
a sostituirla con dei cloni ora tenterà di appropriarsi dell’originale.»
«Ha
ragione. La chiamo subito!»
Il
professore si portò un dito all’orecchio, e dopo pochi secondi iniziò subito a
parlare.
«Lucy,
sono papà. Dove ti trovi? All’università? No, ascolta, lascia perdere tutto.
Torna subito a casa.
Non commentare,
poi ti spiego.»
Poi,
d’improvviso, l’espressione del professore cambiò, e con essa il suo tono di
voce, che si fece terrorizzato e sconvolto.
«Lucy,
che succede? Lucy!»
«Che sta
succedendo?» domandò Derek
«Ascolti!»
replicò Ferrazzani toccandogli la fronte con un dito
Nella
testa del detective si palesarono allora rumori concitati, di lotta, sovrastati
dalle urla strazianti di una ragazza, ma prima che Derek potesse anche solo
pensare di domandare qualcosa o capire cosa stesse succedendo il legame mentale
si ruppe, e tutto tacque nuovamente.
Un nome,
però, si stampò nella sua mente: Peter. E fu l’ultima parola che sentì prima
che il silenzio inghiottisse ogni cosa.
I due
uomini si guardarono ugualmente atterriti.
«L’hanno
presa! Hanno preso mia figlia!»
«Mantenga
la calma, la ritroveremo» rispose Derek, che subito dopo chiamò a sé tutti i
suoi collaboratori per informarli di quanto accaduto. «Chiamate la centrale,
subito!»
In un mondo in cui la
maggior parte degli stregoni preferivano ricorrere al nuovo sistema integrativo
che permetteva di comunicare a livello telepatico usando gli invisibili flussi
di energia che percorrevano la Terra da una parte all’altra come un’immensa
rete piuttosto che ai normali telefoni, non era facile in questi casi riuscire
a tracciare una chiamata.
Per
fortuna la scuola di magia di New York era dotata dei più moderni sistemi di
sorveglianza, ma date le circostanze non c’era tempo per ricorrere ai metodi
convenzionali.
Così
intervenne Foch, il quale oltre che per esercizio
abusivo della stregoneria aveva avuto dei precedenti con la polizia anche per
aver curiosato in diversi sistemi protetti tra multinazionali, corporazioni
varie e persino forze armate, ma servirono quasi tre ore per riuscire ad avere
accesso all’archivio della sorveglianza.
Bastarono
pochi minuti per trovare il momento fatidico, che per una fortuita coincidenza
si era consumato proprio davanti ad una delle telecamere di sorveglianza.
«Eccola»
disse Derek indicando Lucy intenta a percorrere un porticato arioso ma isolato
ai margini del parco della scuola.
A
giudicare dall’ora e dal dito che la ragazza aveva poggiato sull’orecchio,
doveva trattarsi proprio del momento del rapimento; e infatti, dopo qualche
attimo, un giovane, apparentemente della sua età, le si parò dinnanzi,
scambiando alcune parole concitate con lei per poi afferrarla violentemente,
colpirla alla fronte con il palmo della mano e trascinarla, apparentemente
svenuta, dentro al vicoletto da cui era venuto.
I
detective seguirono la scena in silenzio, intenti a cercare il più piccolo
elemento che potesse aiutarli a chiarire l’identità dell’aggressore, il quale era
stato bene attento a dare sempre le spalle alla telecamera, così da non rendere
visibile il proprio volto, nascondendosi oltretutto dietro ad un cappello da
baseball e un voluminoso cappotto con un curioso disegno a teschio sulla
schiena.
«Abbiamo
immagini del volto del sequestratore?» domandò O’Bryan
«Nessuna,
purtroppo. All’interno del vicolo non ci sono telecamere, e quella che riprende
l’ingresso del parcheggio del campus, sfiga nera, era in riparazione.»
«Il
custode ha detto che la macchina era una vecchia De Ville del ’94 grigio scuro,
ma non è riuscito a leggere la targa né a vedere in volto l’aggressore» disse
Jane. «Abbiamo diramato un ordine di ricerca per tutti i modelli
corrispondenti, ma ce ne saranno migliaia solo a Manhattan.»
«Hanno
un bel coraggio a chiamarlo sistema di prim’ordine» mugugnò Derek. «Comunque,
dobbiamo trovare qualcosa.»
Purtroppo, anche dopo aver
speso tutta la sera e buona parte della notte a guardare e riguardare non solo
quelle immagini, ma anche tutte quelle che era stato possibile mettere insieme
sia all’interno del campus che nelle zone immediatamente attigue, la squadra
non fu in grado di giungere a nessuna conclusione significativa.
Tutto
ciò che era stato possibile stabilire era l’identità della nuova vittima, una
certa Teresa Stegen, una prostituta trentunenne
scomparsa da alcuni mesi ma che nessuno, a cominciare dalla polizia, si era
preso la briga di cercare.
A turno
Derek e gli altri si erano concessi qualche ora di riposo nella stanzetta
attigua agli uffici, ma dopo oltre ventiquattro ore di lavoro ininterrotto,
constatando anche la mancanza di progressi, i nervi di tutti erano ormai sul
punto di cedere.
«Abbiamo
visto questi filmati almeno cento volte» mugugnò sconsolato Foch
sorseggiando un po’ del caffè che Helen aveva caritatevolmente portato per
tutti i suoi colleghi. «Stiamo girando in tondo.»
«Sveglia,
pivello» lo imbeccò Derek, di rientro dai suoi quarantacinque minuti di sonno,
dando un calcio alla sua sedia che per poco non lo mandò gambe all’aria. «Non
abbiamo tempo per riposare.»
«Però,
anche se mi secca ammetterlo» sospirò Jane. «Devo riconoscere che l’avanzo di
galera ha ragione. Questo tizio è stato davvero attento a non lasciare indizi,
e quel poco che siamo riusciti a mettere insieme dallo screening delle immagini
non corrisponde a nessuno stupratore, predatore sessuale o maniaco noto alla
polizia.»
«Dalle
analisi del computer è venuto fuori qualcosa?» domandò O’Bryan come se sapesse
già la risposta.
«Solo
scambi di messaggi con amiche e compagni di università» rispose Helen. «Niente
sulla casella postale, sul suo blog o sui social network che faccia pensare
all’attività di uno stakler.»
«Posso darvelo
io il nome che cercate» disse il professor Ferrazzani
comparendo sull’uscio dell’ufficio.
Aveva
gli occhi rossi, il volto consumato, e bastava guardarlo per capire che non
aveva dormito; senza dire altro, il professore fece qualche passo avanti,
gettando sul tavolo interattivo una chiavetta e una pila di fogli.
«Cosa
sono?»
«Li ho
trovati nella casella telematica universitaria di mia figlia.
A quanto
pare quel maledetto non aveva perso il vizio.»
«Di chi
sta parlando?» chiese Derek
«Peter.
Peter Walcott. Frequentava uno dei miei corsi. Sono
ormai quasi sei anni che la tormenta, fin da quando si sono conosciuti quando
lei è entrata all’università.
È un
perdigiorno e un poco di buono, che in due anni di studi non ha mai preso
nessun voto sopra il diciotto, per quei pochi che è riuscito ad ottenere.
Inoltre,
so per certo che ha seguito un corso di stregoneria anatomica, lo so perché il
suo professore me ne ha parlato; pare fosse l’unico in cui eccelleva.»
I
detective si guardarono tra di loro, passandosi a vicenda le lettere e
sospirando dubbiosi.
«Grazie
della segnalazione, professore» rispose Derek quasi balbettando «Condurremo
un’indagine, e le faremo sapere.»
«Come
sarebbe a dire che farete un’indagine?» sbraitò il professore. «Vi ho appena
dato il nome del rapitore di mia figlia! Quindi ora prenda i suoi uomini e la
trovi!»
«Cerchi
di capire, professor Ferrazzani» intervenne Hogdson. «Non possiamo arrestare una persona solo sulla
base di pochi messaggi farneticanti. Dobbiamo avere qualche prova in più.»
Il
professore, trattenuto da Jane, sembrò calmarsi, ma quando fu lasciato andare
si avvicinò, quasi minaccioso, a Norway, fissandolo
dritto negl’occhi.
«Sappiate
che se succede qualcosa a mia figlia, farò causa all’agenzia, e a Lei in
special modo. Voi pensate che amministrare la magia in una città come New York
sia difficile? Dovreste vedere cosa succede altrove. A Porto Rico per esempio.
Mi basta una telefonata per spedirvi tutti a sventare riti vodoo
o fatture di malasorte in qualche isola dei Caraibi, e allora sì capirete fino
a quali abissi di mostruosità può arrivare questa pratica ultramillenaria.
Se lo
ricordi bene, detective.»
Quindi,
detto questo, il professore se ne andò, lasciando Derek e gli altri immersi in
un lungo, angoscioso silenzio.
«Proviamo
a fare un controllo su questo Peter Walcott» si
riscosse infine Norway. «Vediamo se salta fuori
qualcosa.»
Qualcuno dei presenti aveva
ben chiaro in mente quanto i giudizi di un padre verso il compagno o spasimante
della propria figlia potessero risultare il più delle volte affrettati, o
addirittura assolutamente sbagliati, ma in questo particolare caso il professor
Ferrazzani sembrava averci visto lungo, oltre che
giusto.
«Santo
cielo, questo tizio si è dato da fare» commentò O’Bryan sciorinando i dati contenuti
negli archivi della polizia. «Peter Walcott, ventisei
anni. Detenzione e spaccio di droga, rissa, aggressione aggravata.
Si è
fatto anche un periodo in prigione.»
«È stato
buttato fuori dalla scuola di magia a vent’anni» lesse Jane sul dossier che
aveva in mano, camminando su e giù per la stanza. «Da allora non ha fatto altro
che cacciarsi nei guai.
Come ha
fatto quella santarellina a innamorarsi di uno così?»
«Il
fascino dell’uomo ruspante e sopra le righe» tagliò corto Jason. «Ne so
qualcosa. Molte ragazze perdono la testa per tipi così. Perché poi, ancora non
lo so.»
«Però
sembra che suo padre la pensasse diversamente» lesse Derek. «Due anni fa, dopo
varie denunce, ha ottenuto una ordinanza del giudice che gli imponeva di stare
trecento metri dalla figlia, ma l’ha violata tre volte nel giro di un mese, e
alla terza è finito dentro. Condannato a diciotto mesi.»
«Mi
sembra tanto per un’accusa di questo tipo» obiettò Helen
«Mai
mettersi contro un professore di stregoneria con amici importanti» tagliò corto
Jane. «Ad ogni modo, sembra aver imparato la lezione. Anche dopo che è stato
rilasciato sei mesi fa, non ci sono più state segnalazioni a suo carico.»
«Anche
le e-mail e i messaggi sulla sua casella di posta universitaria sono cessati
dopo l’arresto» osservò Foch analizzando il contenuto
della chiavetta. «Almeno fino a oggi. L’ultima e-mail infatti risale proprio a
ieri mattina.»
«Hai
detto che è fuori dai sei mesi» rimuginò Derek. «Se non sbaglio la vittima del Queens è scomparsa proprio in quel periodo.»
«Cominciò
a pensare che il padre abbia ragione su di lui» disse Jane.
«Questa
cosa è interessante» intervenne ancora Foch. «Sentite
cosa ha scritto nella sua ultima e-mail, quella di ieri mattina: “Ho cercato di non pensare più a te, ma la
verità è che ormai le nostre vite sono legate a doppio filo dal destino.
Credevo che avere al mio fianco qualcuno che avesse il tuo stesso viso mi
avrebbe fatto stare meglio, ma ora mi rendo conto che non è così. Tu sei
l’unica, e devo averti tutta per me. Perciò sarai mia, anima e corpo, in un
modo o nell’altro.”»
I
detective ammutolirono, ma il direttore, riavutosi, riportò subito tutti alla
realtà.
«Abbiamo
un indirizzo di questo Peter?»
«L’indirizzo
riportato sui documenti del carcere appartiene ad un palazzo del South Bronx
che nel frattempo è stato abbattuto» rispose Foch
controllando i dati «e da quando è uscito non risulta che abbia usato né
bancomat né carte di credito.
Nulla
che ci permetta di risalire al suo nuovo domicilio.»
«Non ci
rimane che la televisione. Chiamo subito il Direttore Generale a Washington, e
gli chiederò il permesso di rilasciare una conferenza stampa. Con un po’ di
fortuna, qualcuno riuscirà a dirci dove trovarlo.»
«Ma se Walcott scopre che gli siamo addosso potrebbe avere tutto
il tempo di sparire, o peggio ancora di fare del male a Lucy.» obiettò Jason
«Dirameremo
solo una richiesta di aiuto riguardo una ragazza scomparsa, senza fare
riferimento all’identità del rapitore.
A questo
punto, è l’unica alternativa che ci resta.»
Ricorrere alla stampa, e
soprattutto a quella di New York, era sempre un rischio.
I
giornalisti andavano pazzi per qualunque questione inerente all’uso illegale
della magia o al lavoro della MAB, e se per di più nel caso era coinvolta la
figlia di un famoso docente di stregoneria era come invitare dei bambini in
pasticceria.
In
verità le maggiori testate e redazioni dovevano avere già subodorato qualcosa,
perché prima ancora che, iniziata la conferenza, il direttore Hogdson avesse avuto il tempo di aprire bocca, era stato
immediatamente tempestato di domande riguardo ad uno o più cadaveri ritrovati
con i connotati alterati.
Per
fortuna, se non altro, la mossa si rivelò vincente.
In un
primo momento vi furono i soliti falsi allarmi e le segnalazioni di qualche
mitomane in cerca dei suoi cinque minuti di gloria, ma poi, la mattina dopo di
buon’ora, arrivò alla stazione di polizia la telefonata di un’anziana signora
che abitava in una palazzina sulla 54ma strada e che asseriva di aver visto la
ragazza scomparsa in compagnia di un giovane uomo che, dalla descrizione,
somigliava molto a Peter Walcott.
La testimonianza
fu giudicata credibile, e Derek e Jane, di ritorno da una obbligata notte di
riposo, vennero subito inviati sul posto.
«Sì, è
lei» disse la signora, sull’uscio di casa, vedendo la foto di Lucy. «Era in
compagnia di Peter.»
«Ha
detto Peter?» saltò sul posto Derek
«Sì,
Peter Walcott. Un caro ragazzo. Mi aiuta spesso con
la spesa e và a prendermi la pensione. Il suo appartamento è il trentaquattro,
proprio alla fine del corridoio.
Ma è
forse successo qualcosa?»
«Grazie,
signora» tagliò corto il detective, che seguito dalla sua partner raggiunse
armi in pugno l’appartamento indicato, sfondando la porta senza neppure
intimare al proprietario di aprirla.
Considerato
il posto e la zona, per non parlare del padrone di casa, quel semplice bilocale
non era tenuto troppo male, ma nella stanza da letto, dove Derek e Jane
sorpresero Peter, i due trovarono a dire poco un vero supermercato della droga,
tra anfetamine, sonniferi e varie altre porcherie.
E Peter Walcott doveva averne ingerita parecchia di quella roba, perché
dopo essere saltato dalla paura sul suo letto come sentì la porta di casa
andare in frantumi non ebbe neppure il tempo di scendere dal letto, prima che
Derek gli fosse addosso.
«E voi
chi siete?» domandò con gli occhi fuori dalle orbite e un alito che avrebbe
ubriacato anche il più incallito dei bevitori. «Che ci fate in casa mia?»
«Siamo
della MAB. E tu sei in un mare di guai, Peter Walcott.»
«Ma di
che state parlando? Che guai?»
«Non far
finta di non sapere. Dov’è Lucy?»
«Lucy? Che
c’entra Lucy? Io non ne so niente.»
Ma i
fatti sembravano dargli torto, perché oltre alla droga e alle siringhe, su di
una sedia, faceva bella mostra di sé anche un cappotto dall’aspetto
inconfondibile.
«E questo
come me lo spieghi?»
«Non è
mio! Non l’ho mai visto prima!»
Ma una
seconda prova, la più orribile, li aspettava nel bagno, tanto che perfino Jane,
aperto l’uscio, rimase per qualche secondo come pietrificata, lo sguardo
attonito e la bocca spalancata.
«Derek…» ebbe la forza di mormorare
Il partner
quindi la raggiunse, e la sua reazione fu la stessa.
Lucy Ferrazzani, se di lei si trattava, era nella vasca, nuda,
le braccia e le gambe lasciate a penzolare all’esterno; difficile dire cosa l’avesse
uccisa, se l’acqua in cui era immersa o il contenuto delle siringhe disseminate
sul pavimento, ma una cosa era certa: era morta.
E le
brutte notizie, purtroppo, non erano ancora finite.
Dopo averla
tirata velocemente fuori dalla vasca, constatandone il decesso, Jane provò a
passare una mano sul suo volto, i cui tratti però, anche dopo diversi
tentativi, seguitarono a rimanere inalterati, dimostrando di essere autentici.
«Sì, è
lei» disse con la voce rotta dalla rabbia e dal dolore
Peter,
però, sembrava ugualmente sconvolto, anche se era difficile capire se si stesse
davvero rendendo conto della situazione in cui si trovava, stordito com’era
dalle schifezze che aveva in corpo.
«Io… io non c’entro. Non so cosa sia successo…»
Ma erano
solo parole al vento per Derek, che dovette fare appello a tutto il suo
autocontrollo per non venir meno alla sua etica di agente di polizia.
«Peter Walcott!» disse mettendogli le manette. «Sei in arresto per
utilizzo illegale della stregoneria, e per l’omicidio di Molly Tips, Teresa Stegen e Lucy Ferrazzani.»
Capitolo 4 *** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 4) ***
EPISODIO 1
IL GIOCO DELLA
MORTE
(PARTE IV)
Forse, in cuor suo, il
professor Ferrazzani aveva capito che quella
situazione era destinata a finire nel peggiore dei modi, ed intimamente si era
già preparato al peggio.
Per
questo, quando nella sala autopsie si trovò di fronte al corpo senza vita,
stavolta quello vero, della sua unica figlia, il suo volto rimase immobile, di
pietra, stupendo persino un cinico pragmatico come Takikawa.
«Mi
dispiace» disse il Direttore, che date le circostanze aveva voluto sostituire
Derek in quell’ingrata tradizione
Il
professore non rispose, passando una mano sulla fronte pallida della ragazza,
mentre nei suoi occhi, finalmente, sembrava comparire un barlume di pianto.
«Alla
fine, quel maledetto ci è riuscito a portarmela via» mormorò, per poi voltarsi
gelido verso Hogdson. «Dovete sbattere quel bastardo
in cella per il resto dei suoi giorni.»
«Ha la
mia parola che lo faremo.»
Quindi,
i due agenti lasciarono la sala, ma prima che il direttore se ne andasse Takikawa lo prese da parte.
«Non ha
niente da rimproverarsi. E neppure Derek e gli altri. Secondo l’autopsia quella
poveretta è morta meno di tre ore dopo il rapimento, ben prima che scoprissimo
il coinvolgimento di Walcott.»
«Questo
non ci esenta dalle nostre colpe» tagliò corto Samuel.
Derek aveva saggiato molte
volte l’orribile sensazione di veder morire qualcuno, sia come agente della MAB
che come soldato; eppure, per un motivo che non gli riusciva di capire, quella
morte aveva un sapore diverso, e mentre fissava attraverso il vetro lo sguardo
basso e smarrito di Peter Walcott, seduto da solo
nella piccola stanza degli interrogatori, sentiva agitarsi dentro di lui delle
strane sensazioni.
L’aprirsi
della porta alle sue spalle interruppe i suoi pensieri, e in un certo senso non
fu sorpreso nel veder entrare, oltre a Jane, anche il Procuratore Distrettuale Janice Rizzo, rinchiusa come sempre nel suo abito firmato
da mille dollari che avrebbe fatto morire d’invidia qualunque donna di
Manhattan.
«Sei
anche più in anticipo del solito, Janice» sorrise
quasi beffardo. «Non abbiamo ancora cominciato.»
«Hai
provato a dare un’occhiata fuori? Per entrare ho dovuto farmi strada tra due
ali di giornalisti impazziti. Vorrei tanto mettere le mani sul disgraziato che
ha fatto trapelare l’identità della vittima.
Prima
chiudiamo questo caso e meglio è. Allora, ha confessato?»
«Assolutamente
nulla. Dice di non ricordare niente.»
«Con
tutta la roba che aveva in corpo non mi sorprende» commentò Jane. «Aveva tante
di quelle droghe nel sangue che se non fosse stato per i suoi poteri di
stregone sarebbe sicuramente morto.»
«Purtroppo
Lucy non è stata così fortunata» osservò, mesta e schietta, il procuratore.
«Abbiamo i filmati, il giubbotto e il cappello usati durante il sequestro, un
testimone che dice di averlo visto spedire l’ultima e-mail alla vittima da un
internet caffè a due passi dal campus. Infine, soprattutto, abbiamo il cadavere
nel suo appartamento.»
«È
questo il problema» replicò Derek. «Nelle prime due scene del crimine non c’era
assolutamente nulla. Niente impronte, niente tracce. Nulla che potesse condurci
a lui. Poi, d’un tratto, si mette a fare errori a raffica, facendosi
identificare e arrestare come un dilettante.
Non lo
so, mi sembra troppo facile.»
«A volte
la spiegazione più facile è anche quella più giusta. Non sarebbe il primo
maniaco psicopatico che la fa franca mille volte per poi venire preso per degli
errori grossolani.
Dobbiamo
chiuderla il più presto possibile, prima che la situazione ci sfugga di mano e
la stampa ci faccia a pezzi.
Ha già
chiesto un avvocato?»
«Non
ancora.»
«Una
confessione renderebbe tutto più facile. Torchiatelo per bene.»
Quando Derek e Jane
entrarono nella stanza, Peter li scrutò entrambi con sguardo assente,
stralunato, quasi non si fosse ancora reso conto della situazione in cui si
trovava, anche se a prima vista l’effetto delle droghe, grazie anche ai farmaci
disintossicanti, sembrava essere passato.
«Sentite»
si affrettò a dire prima ancora che i due agenti potessero sedersi. «Io non so
cosa stia succedendo qui, ma una cosa è certa: non sono stato io ad uccidere
Lucy!»
«Parole
grosse, se dette da uno che fino a mezz’ora fa non ricordava neanche come si
cammina» obiettò schietto Derek. «Per non parlare del fatto che Lucy è stata
trovata proprio nel bagno di casa tua.»
«Drogata
e strangolata» intervenne Jane gettandogli davanti le foto della scena del
crimine. «E tu con le droghe hai una cera famigliarità se non sbaglio.»
«Sentite,
vi posso giurare che io non c’entro nulla. L’ultima cosa che ricordo è che
stavo tornando dal lavoro. Stavo camminando in direzione della monorotaia, e
subito dopo mi sono ritrovato nel mio letto con voi che mi puntavate le
pistole.
Di
quello che è successo in questo lasso di tempo io non ne ho la più pallida
idea!»
«Considerando
la mole di schifezze che avevi in corpo, non mi sorprende che tu non riesca a
ricordare nulla.
Cos’è,
stravolto dalla consapevolezza di non essere capace di clonare Lucy ti sei
fatto senza sosta fino a che non ti è venuta la folle idea di rapirla?
E poi
che è successo? Lei si ribellava, e allora per tenerla buona hai imbottito
anche lei fino a spappolarle il cervello?»
«Ma come
ve lo devo dire, io Lucy non la vedevo da due anni! Da quando quello stronzo di
suo padre mi ha rovinato la vita!»
«Piuttosto
te la sei rovinata da solo. Violazione dell’obbligo di distanza, spaccio di
droga, esercizio illegale della magia. Solo per questo, e contando i
precedenti, rischi da sette a dieci anni, ma se ci aggiungiamo l’omicidio sarai
già fortunato se te la caverai con trenta.»
«Vi ho
detto e vi ripeto che non l’ho uccisa io. Figurarsi se mi sarei più avvicinato
a lei dopo tutto quello che ho dovuto passare a causa di suo padre.»
«Non
devi piacergli molto» disse sarcastica Jane. «Chissà perché.»
«Quello
ce l’ha con me da quando ho iniziato a frequentare sua figlia.»
«Se io
fossi un luminare di stregoneria» replicò Derek. «Ammetto che non sarei felice
di vedere mia figlia che se la intende con uno che, oltre a sniffare come un
pazzo, si è anche fatto buttare fuori dallo stesso campus dove insegnava.»
«Quella
è una storia ridicola. Chiedete a chi volete. A quell’epoca stavo con una
ragazza del mio stesso anno. Ci siamo appartati in uno stanzino e ci hanno
beccati. Ma lei era la figlia di un consigliere, mentre io un povero signor
nessuno del New Jersey. Morale della favola, lei è stata solo multata, mentre
io sono stato buttato fuori.»
«E
allora Lucy che cos’era? Il tuo lasciapassare per rientrare dalla porta di
servizio?»
«No,
questo non è vero. Io amavo Lucy, e lei amava me. Suo padre la teneva al
guinzaglio. Casa, scuola e studio, non vedeva altro. Sono stato io a farle
vedere cosa c’era al di là della siepe, a mostrarle il mondo, e lei me ne era
grata.
E a
quello stronzo del professore non andava bene, così ha alzato la cornetta e io
sono finito in prigione. Avete idea di che cosa significhi non avere un futuro?
Ero uno studente alla scuola di magia, ora quando pulisco i cessi della metro.»
«Se non
vedevi più Lucy da tutto questo tempo, come mai era nel tuo bagno morta di
overdose.»
«Ve l’ho
già ripetuto mille volte! Non! Lo! So! Ho smesso di pensare a lei mentre stavo
ancora dietro le sbarre!»
«Ora
basta. Voglio un avvocato» disse prima di trincerarsi dietro ad un muro di
silenzio.
Janice, coadiuvata dal capo Hogdson,
aveva seguito l’interrogatorio per tutto il tempo, ed entrambi non nascosero la
propria insoddisfazione quando Derek e Jane, al risuonare della parola magica,
erano stati costretti ad abbandonare il campo senza una confessione.
«Peccato,
ero convinta che sarebbe crollato.» commentò Janice
«In ogni
caso, ora che ha chiesto un avvocato non possiamo più fare niente finché non
arriva» commentò Jane. «E francamente dubito che dirà qualcos’altro.»
«E se
stesse dicendo la verità?» chiese Derek provocatorio. «Non ci pensate?»
«So già
dove vuoi arrivare, e non te lo permetterò» lo bloccò il procuratore. «Non
abbiamo il tempo di andare a caccia di farfalle.
Mi
sembra chiaro a questo punto che la confessione non arriverà. Appena arriva
l’avvocato formalizzerò i capi d’accusa e andremo a processo.»
Detto
questo Janice se ne andò, ma l’atmosfera nella stanza
rimase la stessa.
«Direttore,
il mio istinto mi dice che c’è dell’altro.»
«Purtroppo,
anche se mi secca ammetterlo, ha ragione lei. Con la stampa che ci tiene
d’occhio, non possiamo perdere troppo tempo a inseguire false piste.»
Helen si rese subito conto,
notando i musi lunghi dei suoi due colleghi al ritorno in ufficio, che qualcosa
non era andato per il verso giusto, ma ciò nonostante decise di metterli
comunque al corrente di ciò che aveva appena scoperto.
«Stavo
facendo un controllo sul passato del professore. Lo sapevate che la moglie è
deceduta in un incidente stradale all’incirca un anno fa?»
«E
questo cosa potrebbe c’entrare con il caso?» intervenne O’Bryan
«Secondo
i quotidiani, anche la figlia era rimasta coinvolta, sembra anche in modo
piuttosto serio.»
«E
allora?»
«Mio
fratello ha avuto un incidente d’auto quando aveva diciotto anni, e ne ha
impiegati quasi tre per recuperare completamente. Invece Lucy non mi è sembrata
per nulla il tipo di persona appena uscita da un lungo ricovero e conseguente
riabilitazione.»
«Forse i
danni riportati non erano così gravi. O forse il talento magico del padre,
oltre al suo, hanno contribuito. Non dimentichiamoci che stiamo parlando di un
luminare.»
«E
comunque, ormai non è più un problema nostro» tagliò corto, seccato, Derek
«Che
vuole dire?» domandò Helen
«Il
procuratore è stato chiaro. Da questo momento la palla passa a loro, e sembra
abbiano tutte le intenzioni di processare Peter.»
«Ma
potrebbe essere innocente. A questo non ci pensate?»
«Le
prove sono contro di lui» replicò Jane. «E per alcuni ciò è sufficiente.»
«E se ci
stessimo sbagliando?»
«Se
cominci a farti di questi pensieri già al tuo primo caso, non durerai molto a
lungo qui dentro.» disse Derek allungando stancamente la mano verso il caffè
sul suo tavolo
«E
quindi ora che cosa si fa?» replicò Helen a denti stretti. «Ci mettiamo una
pietra sopra e andiamo avanti come se niente fosse?»
«Esattamente.»
A quel
punto, palesemente contrariata, la ragazza raccolse il proprio zaino e si avviò
verso l’uscita.
«Dove
vai?» chiese Foch, che arrivava in quel momento
«A casa.
Mi è venuto il mal di stomaco.»
In realtà Helen aveva
tutt’altra destinazione in mente.
Su
internet, tra i vari articoli che parlavano dell’incidente, la giovane detective
era stata in grado di trovarne uno che menzionava anche l’ospedale in cui madre
e figlia erano state portate dopo l’incidente.
Uscita
dall’ufficio, vi si recò subito, riuscendo anche ad incontrare il medico che
aveva avuto in cura Lucy nel corso della sua lunga degenza, un giovane dottore
di nome Luke Valentine che, per un tragico scherzo
del destino, era stato anche allievo del professore.
«Non
avrei mai immaginato che un giorno sarei stato proprio io a dover comunicare a
quel brav’uomo la morte di sua moglie.» osservò mestamente il dottor Valentine camminando, con Helen al seguito, lungo un
corridoio del reparto di traumatologia
«Può
raccontarmi esattamente cos’è successo?»
«I
dettagli precisi non li conosco, ma doveva essersi trattato di un incidete
davvero spaventoso. Per la moglie del dottore, rottura della quarta vertebra
cervicale, e morte praticamente istantanea. Lucy invece è sopravvissuta, ma non
è stata comunque fortunata: oltre a varie fratture e lesioni interne, ha
riportato un trauma esteso al cervello. Siamo riusciti a salvarle la vita, ma
subito dopo l’intervento è caduta in coma.»
«C’erano
possibilità che si riprendesse?»
«All’incirca
una su mille. Ma è evidente che ogni tanto i miracoli accadono. Sarà stata
l’aria di casa.»
«L’aria
di casa!? Che intende dire?»
«Che
Lucy è stata qui solo per poche settimane, dopodiché il professore ha ottenuto
di farla trasferire a casa sua a Staten Island.
In
realtà non sapevo neppure che si fosse svegliata, e ad essere onesti faccio
ancora fatica a crederci.»
Helen si
bloccò, guadagnandosi un’occhiata perplessa da parte del dottore, mentre uno
strano formicolio le si arrampicava lungo la schiena.
«Detective?»
«Mi
scusi. Sarebbe possibile vedere la sua cartella clinica?»
«Mi
dispiace, non posso farlo. È secretata, e senza l’autorizzazione del giudice mi
è impossibile accontentarla.»
«Capisco»
rispose lei con un sorriso di circostanze. «Grazie comunque.»
Ancora una volta, però, Helen
non aveva intenzione di arrendersi, e senza esitazioni si diresse nell’archivio
dell’ospedale, dove di turno c’era un’anziana infermiera di colore dall’aria svogliata
e intransigente.
«Eccola
qui» disse tornando con una cartella. «Lucy Ferrazzani.»
Helen
però ebbe appena il tempo di leggere il nome scritto sul cartoncino giallo
prima che il documento le venisse tolto da sotto gli occhi con gesto
insolitamente repentino.
«Non è
proprio possibile dargli un’occhiata?» domandò allora la ragazza girando la
testa da un lato, e piegando le labbra in un sorriso da denuncia. «Per favore.»
La
voluminosa inserviente quasi si ritrasse, come intimorita, ma per fortuna
proprio in quel momento giunse lo squillare dell’interfono a salvarla.
«Non si
potrebbe» disse facendo tintinnare le sue unghie palesemente finte sul bancone.
«Però, se io ora rispondessi al telefono… e
accidentalmente dimenticassi la cartella qui… non
sarebbe certo un problema…»
Helen
sorrise ancora una volta, quindi, nell’istante stesso in cui la donna lasciò il
fascicolo per rispondere, immediatamente lo afferrò, facendo scorrere
velocemente tutti i fogli, le radiografie e i referti medici e fotografandoli
uno di seguito all’altro con l’ausilio del suo computer da polso.
«Grazie…» mormorò impercettibile mentre se ne andava, e
ricevendo in cambio un segno di complicità.
Quindi, prima
ancora di lasciare l’ospedale e rimettersi in macchina, telefonò a Takikawa, cogliendolo proprio mentre era sul punto di
realizzare la parte più complessa del suo nuovo modellino, che per lo spavento
gli cadde dalla scrivania andando irrimediabilmente perduto.
«Dottor Takikawa, le sto mandando i dati di una cartella clinica.
Potrebbe confrontarli con il corpo di Lucy Ferrazzani
che è nel suo laboratorio?»
«Che
cosa!? E a che scopo?»
«Ora non
ho tempo di spiegarglielo. Ma la prego, lo faccia. Potrebbe essere molto
importante.»
«Si può
sapere in che razza di situazione si sta mettendo, detective Trevor? Non le
sembra troppo al suo primo incarico?»
«È in
gioco la vita di una persona. Non voglio lasciare nulla di intentato. La
richiamo.» e senza dire altro chiuse la conversazione, lasciando Takikawa con l’espressione sbigottita e gli occhiali in
fondo al naso.
Rimontata in macchina,
Helen si spostò a Staten Island, raggiungendo la casa
del dottor Ferrazzani.
In
realtà non aveva ancora un’idea chiara del perché fosse lì, o di cosa stesse
facendo. Tutto quello che sapeva era che le era stato insegnato a non dare mai
nulla per scontato, e ad andare sempre e comunque alla radice di ogni problema,
anche a costo di rischiare in prima persona.
Bussò
alla porta, ma nessuno rispose, benché gli scuri fossero aperti e,
dall’interno, giungesse il rumore della televisione.
«Professore?»
disse dinnanzi all’uscio ancora chiuso. «Sono il detective Trevor. Ci siamo
parlati l’altro giorno. Vorrei farle qualche altra domanda, se per lei non è un
problema.»
Di nuovo,
non giunse alcuna risposta, e allora la ragazza, seppur con molta titubanza,
provò a girare il pomo della porta, scoprendo non senza sorpresa che era
aperta.
All’interno
non c’era nessuno, e tolta la telecronaca dell’incontro tra il Washington e i Giants di New York regnava un silenzio irreale, quasi
spaventoso.
La casa
era molto ben tenuta, e sulle pareti, come in un ricercato museo della scienza,
facevano mostra di sé tutti i diplomi, i titoli accademici, i premi
internazionali vinti dal professore nella sua lunga ed invidiabile carriera,
con una foto di famiglia di almeno un decennio prima ai piedi del Lincoln Memorial a svettare sulle altre, non fosse altro per la
pregiata cornice in cui era riposta.
Eppure,
Helen sentiva che c’era qualcosa di strano in quella casa, qualcosa di nascosto
che, per quanto osservasse, sfuggiva alla sua attenzione.
«Ocus Magno» disse allora abbassando le palpebre.
Quando le
risollevò, i suoi occhi, da verdi, divennero di un colore azzurro luccicante,
permettendole in questo modo di percepire ogni cosa che le stava attorno in un
modo tutto nuovo.
In questo
modo, avventuratasi nel corridoio che dal salotto portava alla sala da pranzo,
riuscì a notare una porta, abilmente nascosta nel muro e apparentemente invisibile,
protetta da un incantesimo occultante.
Un sortilegio
così ben congeniato avrebbe rappresentato una sfida per chiunque, ma non per
una maga originaria come lei, che infatti ne ebbe ragione in meno di dieci
secondi.
La porta,
una volta aperta, rivelò dietro di sé una scala che scendeva verso il basso, ed
Helen, estratta istintivamente la pistola, vi si avventurò, sorda alle
esortazioni della sua mente che la invitavano a non fare qualcosa di così
avventato.
La discesa
fu molto lunga, ma alla fine la ragazza si ritrovò in una specie di piccola
stanza circolare, il cui pavimento, nero e traslucido, era interamente
ricoperto di formule magiche e simboli arcani. Al centro, realizzato in marmo e
acciaio, c’era un tavolo, una via di mezzo tra un altare ed un tavolo
operatorio, e le macchie rosse di cui era ricoperto in più punti erano a dir
poco inequivocabili.
Di colpo
la prese un moto di paura, nonché la sensazione tangibile di essere nei guai.
Ma era
troppo tardi. E neppure una maga del suo calibro poteva salvarsi da un attacco
a sorpresa.
Qualcuno,
arrivandole alle spalle, le sfiorò il collo con un dito, e lei, prima ancora di
rendersene conto, si arrese ad una inarrestabile stanchezza.
Derek aveva imparato più e
più volte cosa volesse dire pestare i piedi a qualcuno più in alto di lui, ma
neanche la ferma, e per certi versi ottusa determinazione di Janice poteva tacitare del tutto la sua coscienza.
Il pensiero
era sempre lo stesso, e per tutta la giornata non aveva fatto che assillarlo,
togliendogli la concentrazione necessaria per prestare attenzione all’innumerevole
quantità di altri casi impilati sulla sua scrivania.
«Quanto
ancora intendi fare quella faccia da cane bastonato?» gli chiese provocatorio Foch
«Smettila,
non sono proprio dell’umore.»
«Ecco perché
non mi è mai andata a genio la polizia. Troppa burocrazia. Qui come là fuori,
la regola è sempre la stessa. Chi ha più stellette comanda.»
«Se vuoi
possiamo sempre rimandarti a Rikers.»
«Purtroppo,
non possiamo farci niente» commentò O’Bryan. «D’altra parte, non si può non
ammettere che le prove sono tutte contro Peter Walcott.
Deciderà
la giuria. Come sempre del resto.»
In realtà
Derek era preoccupato anche e soprattutto per Helen.
Sapeva quanto
la tipica irruenza dei cadetti potesse risultare pericolosa se incanalata nella
direzione sbagliata, e temeva ciò che quella testa matta avrebbe potuto fare.
Neanche a
farlo apposta, in quel momento squillò proprio l’interfono sulla scrivania di
Helen, e Derek, quasi svogliato, rispose.
«Norway… ah, sei tu Takikawa… no,
Helen non c’è…»
Poi,
però, la sua espressione mutò dal giorno alla notte, cogliendo di sorpresa
tutti i suoi colleghi.
«Come
hai detto, scusa?»
«Questo corpo non è quello
di Lucy Ferrazzani.» esordì Shawn
prima ancora che Derek potesse varcare la porta della sala autopsie
«Ancora?
Stai diventando monotono.»
«La mia
monotonia non ha importanza. Piuttosto dovreste ringraziare quella scheggia
impazzita di Helen. È stata lei a procurarmi le cartelle cliniche della vera
Lucy Ferrazzani.»
«E
allora? Che hai scoperto?»
«Qualcosa
che in tutta onestà ha scioccato anche me. Secondo queste cartelle cliniche,
nell’incidente in cui rimase coinvolta Lucy riportò varie fratture di diversa
gravità, tra cui si segnalano una rottura scomposta dell’avambraccio sinistro e
una frattura cranica che ha provocato il trauma al cervello.
Ho eseguito
un ulteriore controllo su questo corpo, e con mio grande stupore non ho trovato
nessuno dei traumi sopraccitati.»
«Forse
sono stati guariti con la magia.»
«C’è un
limite a quello che la stregoneria medica è in grado di fare. Si può aiutare una
frattura a ricomporsi, o una emorragia cerebrale a riassorbirsi, ma resterebbero
comunque dei segni che, con le attuali conoscenze magiche, nessun incantesimo
sarebbe in grado di sanare, e che richiederebbero molto più tempo per
scomparire naturalmente.
E di
questi segni, ripeto, non ne ho trovato traccia.»
Derek a quel
punto sentì un famigliare, e per niente poco rassicurante, tremore alle
ginocchia.
«Ma,
Jane aveva eseguito uno screening di riconoscimento, ed è risultato negativo.»
«Lo so. Ci
ho provato anch’io. Poi mi sono accorto di questo.»
Takikawa
passò il palmo sul volto della vittima, ma come una piccola sfera di luce si
materializzò nello spazio tra la mano e il corpo questa si dissolse
immediatamente, lasciando Derek completamente sbigottito.
«Ma cosa…»
«Sì
chiama magno deceptio. Un incantesimo progettato per
dissipare e annullare qualsiasi tentativo di alterazione magica su di un
qualunque corpo inanimato. La durata del suo potere è limitata, ma a meno di
non cercarla appositamente è impossibile da individuare.»
«Non ne
avevo mai sentito parlare» mormorò il detective sentendosi venire i sudori
freddi. «È molto comune?»
«Non direi
proprio. È un incantesimo di una complessità allucinante. Nemmeno io riuscirei
ad eseguirlo. Francamente, credo che gli esperti in tutto il mondo capaci di
creare un magno deceptio di questo livello si contino
sulle dita di due mani.»
«E…» balbettò Derek come se sapesse già la risposta. «E
quanti di questi al momento risiedono a New York?»
«Uno.»
rispose gelido Takikawa.
Derek abbassò
gli occhi, e se non fosse stato per la drammaticità della situazione si sarebbe
preso a schiaffi.
«Dov’è
ora Helen?»
«È
quello che speravo mi dicessi tu. Ho provato a contattarla sia al telefono che
tramite contatto telepatico, ma non ho ottenuto alcuna risposta.»
E a quel
punto, negli occhi di Derek, comparve qualcosa che Takikawa,
nei molti anni spesi accanto a lui, non era più abituato a vedere: paura.
«Cristo!»
strillò correndo fuori e prendendo nel contempo il suo cellulare. «Jane, chiama
la SWAT! Massima priorità!»
In meno di un’ora un’intera
divisione di SWAT aveva circondato la casa del professor Ferrazzani,
ma su esplicito ordine delle alte sfere, e obbedendo al protocollo circa la
neutralizzazione degli obiettivi magici di Classe Uno, il comandante del gruppo
tenne i propri uomini in stato di attesa fino all’arrivo degli agenti della MAB.
Derek
scese dalla macchina prima ancora che questa si fosse fermata, il giubbotto
antiproiettile già addosso e la pistola in mano.
«Capitano
Mayer, squadra SWAT!» disse il caposquadra andandogli vicino
«Qual è la
situazione?»
«Nessun
movimento all’interno, e nessuna risposta al telefono. O si è barricato o non c’è
nessuno.»
«Fate
molta attenzione» disse Jane. «L’obiettivo è uno stregone di livello assoluto. Solo
il cielo sa cosa potrebbe esserci lì dentro.»
«Non
perdiamo altro tempo» ordinò Derek. «Facciamo irruzione.»
Rapidamente,
i vari gruppi di SWAT, ognuno comandato da un membro dell’Agenzia, circondarono
la casa, e a Derek, accompagnato sia da Jane che dal caposquadra Mayer, toccò
fare irruzione dalla porta.
«MAB,
nessuno si muova!» urlò dopo che l’uscio venne abbattuto.
In meno
di dieci secondi la casa venne quasi interamente battuta, ma, come era
prevedibile, del professore, e soprattutto di Helen, non vi era neanche l’ombra.
«Libero!»
dissero uno dopo l’altro i vari capisquadra.
L’ultima
zona da perlustrare era il soggiorno, ma come Derek, Jane e gli SWAT mossero un
piede al suo interno una sfera di luce comparve al centro della stanza, e sia
sulle pareti, ma anche sui loro stessi corpi, iniziarono a comparire
innumerevoli simboli magici, mentre quel globo diventava sempre più grande e
minaccioso.
«Oh,
cazzo...» mormorò il detective Norway vedendo i segni
sul suo braccio. «Una barriera concussiva, tutti
fuori!»
Una
barriera concussiva, nella sua semplicità, poteva
rivelarsi un incantesimo terribilmente pericoloso.
Esplodeva
a contatto, come una mina, e non causava danni né a persone né a cose; in
compenso però, rilasciava, improvvisamente e con violenza una grande, enorme
quantità di energia attingendola dall'ambiente circostante. Per un essere umano
aveva un effetto non molto superiore a quello di una scarica di teaser, ma per
qualunque stregone venutosi a trovare nei suoi pressi poteva essere
un'esperienza estremamente dolorosa, se non addirittura mortale.
Tutti gli
agenti, alcuni mollando addirittura le armi, corsero verso l’uscita più vicina,
ed un secondo dopo che l’ultimo di loro fu uscito una specie di bomba di luce
riempì tutto l’edificio, propagandosi per miglia e miglia in ogni direzione
tramite le finestre, mentre l’intera Staten Island
rimaneva per interminabili secondi completamente al buio.
Capitolo 5 *** Episodio 1 - Il Gioco della Morte (Parte 5) ***
EPISODIO 1
IL GIOCO DELLA
MORTE
(PARTE V)
La barriera concessiva era
stata così potente da mandare in corto circuito il sistema elettrico di tutta
l’isola, ma per un qualche miracolo voluto dal cielo non vi erano stati né
morti né feriti gravi.
Della
squadra MAB l’unico un po’ provato era stato O’Brian, che trovandosi vicino ad
una finestra al momento della deflagrazione aveva subito uno shock magico
piuttosto serio, ma i paramedici, nel portarlo via assieme ad alcuni altri SWAT
feriti, avevano subito precisato che non si trattava di niente di serio.
Tuttavia,
la situazione si presentava comunque drammatica, e Derek e gli altri, tornati
in centrale, si erano immediatamente rimessi al lavoro, nella speranza di
scoprire quanto prima dove il professore avesse portato Helen.
«D’accordo,
la ringrazio» disse Jane riattaccando l’ennesima telefonata. «Niente da fare. Ferrazzani non è né all’università, né in nessun altro dei
luoghi che è solito frequentare.»
«Niente
anche da amici e conoscenti» disse Foch.
«Porti e
aeroporti sono sotto controllo, e la sua foto è su tutti i notiziari. Eppure,
ciò nonostante, fino adesso non c’è stata nessuna segnalazione. Sembra svanito
nel nulla.»
«Quello
sarà pure un mago, ma non esiste che possa scomparire» sbottò Derek.
«Controlliamo tutto. Telecamere stradali, passaggi ai caselli, ogni cosa! Se ha
lasciato Staten Island non può certo averlo fatto a
piedi!»
Furono
rapidamente recuperate le immagini delle telecamere piazzate su tutti i ponti
che collegavano Staten Island a New York e al New
Jersey, oltre a quelle degli imbarcaderi e persino delle piattaforme per i
dirigibili da turismo, ma neppure una intera unità di analisti sarebbe stata in
grado di analizzare quella gigantesca mole di immagini nelle poche ore che
Derek e i suoi sentivano di avere per poter salvare la loro collega.
«Il
primo cadavere è stato trovato a Brooklyn» ipotizzò ad un certo punto Foch. «Concentriamo le ricerche sul Ponte di Ferrazzano, e vediamo se ne veniamo a capo.»
Non era
granché come ipotesi, ma a quel punto ogni secondo era prezioso.
Prima ancora di poter
aprire gli occhi, nel momento in cui riprese i sensi Helen sentì di avere sopra
di sé una luce molto forte; ed infatti, come riuscì faticosamente a sollevare
le palpebre, dovette abbassarle quasi subito, accecata dal potente bagliore
della sfera globulare che volteggiava pulsante sopra di lei.
Il
tavolo su cui era distesa, nuda e coperta da un telo bianco, si trovava
all’interno di quella che sembrava una versione ancora più grande del cerchio
per incantesimi che aveva trovato nello scantinato del professore, a sua volta
collocato dentro una costruzione all’apparenza molto vecchia e compromessa,
simile ad un magazzino.
Pur
sapendo intimamente che era inutile provò ad alzarsi, accorgendosi però che,
fatta eccezione per il collo e la testa, il suo intero corpo era completamente
immobilizzato, di sicuro prigioniero di qualche incantesimo costrittivo.
Una
nuova luce, più fioca, la spinse a girare quindi gli occhi alla propria
sinistra, e ciò che vide la lasciò interdetta. Rinchiusa in una teca, come un
reperto, ed immersa interamente in una specie di liquido amniotico iridescente,
c’era una giovane ragazza dai tratti famigliari, il volto immobile e il
colorito ceruleo. Gli stessi tratti che, quasi senza sorpresa, vide riflessi
nel vetro del contenitore, ben diversi da quelli che era solita scorgere
all’interno di uno specchio.
«È quella
sua figlia, non è vero?» domandò sentendo un rumore di passi che si
avvicinavano
Pallido,
quasi camminando a fatica, il professor Ferrazzani
emerse dal buio tutto attorno, un grosso tomo in una mano ed un bisturi
scintillante nell’altra.
«Mai
entrare nella casa di un sospettato da soli. Non gliel’hanno insegnato
all’accademia, detective?»
«E
quella che abbiamo trovato ieri?»
«Solo
un’altra sosia. L’ultima. Il suo destino era comunque segnato. Aveva già
iniziato a mostrare i primi sintomi.»
«È a
questo che serviva il pentacolo a casa sua. A curarle quando iniziano a
rigettare.»
«Per
due, tre, anche cinque volte si può arginare il processo, ma alla lunga esso
diventa ingestibile»
Il
professore le girò attorno, quindi, raggiunto un vecchio tavolo arrugginito, vi
posò sopra il libro, prendendo a sfogliarlo e a consultarlo con molta
attenzione.
«Cosa è
successo alla prima vittima? Quella di Brooklyn?»
«Aveva
avuto un rigetto. Uno serio. Il pentacolo di casa mia non era sufficiente per
stabilizzarla. Ma sembrava recuperabile. Così ho provato a portarla qui, ma
prima che potessi fare qualcosa ha avuto un collasso definitivo, e poco dopo
aver completato l’estrazione l’energia residua l’ha tenuta in vita abbastanza a
lungo da poter scappare.»
«E non
ha fatto in tempo a recuperarla a causa dell’arrivo di quella pattuglia, dico
bene?»
Il
professore incuneò la testa tra le spalle, e restando in silenzio ricominciò a
sfogliare il suo libro.
Anche se il Ponte di Ferrazzano era dotato di telecamere lungo tutto il suo
percorso in entrambe le direzioni, non era facile localizzare una macchina o
una persona specifiche, soprattutto se la persona in questione aveva dimostrato
una tale abilità nel trasformismo.
Ma
intanto i secondi, i minuti, le ore correvano, e a distanza di molto tempo
dalla scomparsa della loro giovane collega Derek e il resto della squadra non
erano ancora riusciti a venire a capo di nulla.
«Continuate
a cercare!» continuava a ordinare Derek visionando a propria volta quintali di
filmati
«Quell’uomo
ha tutta la polizia di New York e del New Jersey sulle sue tracce, prima o poi
salterà fuori» provò a rassicurarlo Jane. «E di sicuro non può prendere né un
treno né un aereo.»
«Non credo
che voglia lasciare il Paese. Deve ancora completare il suo lavoro. E se non lo
troviamo prima che lo faccia, per Helen sarà la fine.»
Poi,
finalmente, la fortuna girò lo sguardo verso di loro.
«Ho
qualcosa!» strillò d’un tratto Foch, portando immediatamente
l’attenzione di tutti sul monitor.
L’immagine
che apparve sullo schermo ritraeva una macchina, un modello piuttosto costoso
oltretutto, a bordo della quale vi erano un uomo e una donna; i tratti
dell’uomo, seduto al posto di guida, erano assolutamente comuni, mentre quelli
della sia compagna, a malapena visibile e seduta sul sedile posteriore come
assopita, erano ormai riconoscibili solo ad un’occhiata.
«Devono
essere loro» disse Derek
«Sono
loro. In base alla targa, quella risulta essere la macchina di Helen.»
«Allora
sta davvero andando a Brooklyn» disse Jane. «Ma non sappiamo ancora dove.»
«Allertiamo
le pattuglie. Facciamo cercare quella macchina.»
«Forse
non sarà necessario» rispose il direttore uscendo tutto trafelato dal suo
ufficio. «Ho ricevuto una chiamata da un amico del catasto. Pare che il
professore otto mesi fa abbia acquistato un vecchio magazzino in disuso vicino
alla 3rd avenue a Brooklyn, sulla 20ma strada.
Deposito
in contanti.»
I tre
agenti si guardarono tra di loro.
«Vicino
al parco!» strillò Derek, correndo verso l’uscita senza neanche mettersi la
giacca
«Chiamo
la SWAT!» provò a dire Jane
«Non c’è
tempo, sbrighiamoci!»
Helen provò in più
occasioni a liberarsi, ma quell’incantesimo costrittivo era di una fattura a
dir poco sopraffina, e pur rendendosi conto della situazione disperata in cui
si trovava cercava in ogni modo di farsi venire in mente una possibile via di
fuga.
Una cosa
la sapeva. Doveva guadagnare tempo.
«Era davvero
una ragazza bellissima» disse allora volgendo nuovamente gli occhi verso la
ragazza rinchiusa nella teca
«Non era
solo bella» rispose Ferrazzani con la voce che
tremava. «Era anche intelligente ed educata.
Amava la
storia, la letteratura, lo sport. In diciotto anni, non aveva mai dato un solo
problema, o un motivo per doverla redarguire.
Era la
migliore figlia che un padre potesse desiderare. Diceva di voler seguire le mie
orme. Per questo si era iscritta alla scuola di magia, pur sapendo che la sua
natura di umana non le avrebbe mai permesso di ottenere la licenza di
stregoneria.
Ma non
le importava. Voleva apprendere la magia comunque. E io ero così fiero di lei.»
D’un
tratto, il professore serrò i pugni, e tutto il suo corpo prese a tremare.
«Ma poi,
poi è arrivato lui. E lei non è più stata la stessa.»
«Intente
Peter Walcott, non è vero?»
Il suo
silenzio fu la più eloquente delle risposte.
«Io
l’avevo avvisata. Le avevo detto di guardarsi da quel tipo. Ma per la prima
volta in vita sua, non mi ha voluta ascoltare.
Quel
maledetto l’ha trascinata in un mondo da cui avevo sempre cercato di tenerla
lontana, e da quel momento lei ha iniziato a cambiare.
Marinava
le lezioni, rientrava tardi la sera, e se provavo a rimproverarla lei mi
rispondeva in modo sprezzante.
Sono
arrivato al punto di riconoscerla più. Le ho provate tutte per riuscire a
tenerlo lontano, ma anche dopo esserci riuscito la sua influenza malefica ormai
non poteva più essere cancellate.
Ha idea
di quante volte io sia dovuto andare a prenderla in qualche stazione di
polizia?
È
successo anche quel giorno. Io ero all’università, così è andata mia moglie.
Stavano tornando, erano ad un incrocio, quando un ubriaco al volante…»
Dovette
fermarsi, perché le lacrime e la voce rotta dai singhiozzi non gli permettevano
di proseguire.
«Mi
dispiace. Ma non è stata colpa di Peter.»
«Non è
stata colpa sua? Quel maledetto ha distrutto la mia famiglia! Se non fosse
entrato nelle nostre vite, se non avesse trascinato Lucy nel suo mondo, niente
di tutto questo sarebbe mai accaduto! E mia figlia sarebbe ancora…»
«È per
questo che lo ha incastrato?»
«È il
minimo che si meritava. Io quel giorno sono morto tanto quanto mia moglie, e
ciò nonostante quel bastardo se ne andava in giro impunito come se niente
fosse! Ha persino tentato di rivederla!»
«Allora
chi era il ragazzo che abbiamo visto nei video?»
«Un
cadavere qualsiasi prelevato dalla sala autopsie dell’università. Finito il
lavoro, l’ho rimesso al suo posto» e qui il professore si lasciò quasi scappare
una risata. «Io l’ho sempre detto che ci volevano più controlli.»
«E poi
cosa è successo?»
Di
nuovo, Ferrazzani esitò, togliendosi un attimo gli
occhiali e nascondendo il viso dietro le mani.
«Secondo
i dottori, le speranze che Lucy potesse risvegliarsi erano davvero minime.
Ma io la
conoscevo, e sapevo che avrebbe lottato per sopravvivere.
Per
stare con lei ho lasciato tutto il resto. L’ho anche riportata a casa. Volevo
che, al risveglio, vedesse un luogo a lei famigliare.
Ma poi… poi, una sera…»
«È stata
male all’improvviso?»
«L’avevo
sorvegliata per tutto il giorno, e mi sono addormentato. Ero talmente stanco
che non ho sentito nemmeno l’allarme dei macchinari, e quando me ne sono
accorto lei era…»
Le
lacrime, più copiose di prima, interruppero nuovamente il racconto, e malgrado
tutto anche Helen sentì venire da dentro di sé un moto di tristezza nel
rendersi conto di come la vita avesse voluto infierire su quel brav’uomo.
«Non
deve rimproverarsi, professore. Lei ha fatto tutto quello che poteva.»
«Non era
abbastanza! Non esiste che un uomo debba seppellire sia la propria moglie che
la propria figlia! Non potevo accettarlo!
Ma se
non altro, non sono arrivato troppo tardi. Quando ho capito cosa stava
succedendo il corpo di Lucy era già morto.
Ma la
sua mente, la sua coscienza, la sua stessa anima…
quelle erano ancora lì. Sono riuscito a preservarle. In quell’involucro senza
vita, mia figlia viveva ancora.
Tutto
quello che dovevo fare era riuscire a rimettere in moto il suo corpo, ma per
quanti tentativi facessi tutti i miei esperimenti cadevano nel vuoto.
Così, ho
capito che se non potevo rianimare un corpo, potevo trasferire la mente di mia
figlia in quello di una persona ancora in vita, un procedimento assai meno
complicato e di più facile attuazione.
E
funzionò. Purtroppo, la durata di queste esistenze secondarie era limitata.»
«È
normale. Un corpo umano non possiede un potere abbastanza grande da sopportare
a lungo un processo così invasivo.»
«Ma ora
le cose sono diverse. La verità è che non ho mai smesso di sperimentare. Ad
ogni nuovo impianto la vita di mia figlia si è allungata, e nel frattempo ho
cercato di adattare il mio incantesimo perché funzionasse anche sul corpo di un
mago.
E ora,
con il suo aiuto, posso dare a mia figlia una vera, nuova vita. Il suo codice
genetico è molto forte, oltre che molto simile al suo.»
«Ha
ucciso tutte quelle ragazze e usato i loro corpi solo per allungare di qualche
mese la vita di sua figlia?»
«Ragazze?
Che tipo di ragazze? Drogate, disadattate, persino barbone. Gente che aveva la
possibilità di vivere una vera vita, e l’ha gettata via. Io ho dato loro, anche
se per poco tempo, un’esistenza che non si sarebbero mai potute sognare.
Ai loro
corpi, almeno.
Ma ne
sono certo. So che questa volta la mente di Lucy si adatterà perfettamente.
Potremo continuare come se nulla fosse mai accaduto. Ricominceremo daccapo, e
con il tempo tutto tornerà come prima.»
«Non
succederà, professore. E lei lo sa.» rispose, con tutta la semplicità del
mondo, la detective, stampando un’espressione attonita e sconcertata sul volto
di Ferrazzani
«Che
cosa!?»
«Lei più
di ogni altro dovrebbe saperlo. Non importa quanto ardentemente ci si provi, o
quanto sapere si possieda. I morti non tornano in vita.»
«Mia
figlia non è morta!» urlò il professore colpendola con un violento ceffone.
«Lei è qui! Qui con me! E sulla mia anima, qui rimarrà! Farò tutto quello che è
in mio potere per salvarla, dovessi vendere la mia anima al diavolo!»
Quindi,
da un istante all’altro, il suo volto e la sua espressione si fecero immobili,
di pietra, mentre qualunque traccia di umana emozione sembrava scomparire dai
suoi occhi.
«Lucy
tornerà. E stavolta, lo farà per sempre. E sarai tu a darle questa
possibilità.»
Procedendo a sirene
spiegate, e rischiando anche di fare qualche incidente, Derek e il resto della
squadra raggiunsero il più velocemente possibile il magazzino indicato dal
direttore, e già il fatto di aver notato la macchina di Helen malamente coperta
da un telo lungo il marciapiede dall’altro lato della strada diede a tutti la
certezza di aver fatto centro.
Sfortunatamente,
quando pistole alla mano i tre agenti provarono ad avvicinarsi all’edificio,
andarono a scontrarsi contro una specie di muro invisibile, che dopo averli
bloccati arrivò anche a rigettarli indietro, buttandoli a terra.
«Maledizione,
una barriera!» tuonò Derek tentando inutilmente di abbatterla a pugni
«Lasciate
fare a me!» disse Foch.
I suoi
colleghi, dandogli fiducia, si fecero da parte, ed il giovane agente,
inginocchiatosi davanti al muro, giunse le mani come in preghiera, chiudendo
gli occhi, mentre tutto il suo corpo andava avvolgendosi di un bagliore rosso
fuoco.
«Oppositumquodmurum in mente est. Dispersio!»
A quel
punto, Foch non dovette fare altro che toccare la
barriera con un dito, e subito dopo questa, sotto gli occhi increduli di Jane e
Derek, si dissolse, scomparendo in un pulviscolo luminoso.
«Andiamo!».
All’interno, ormai era
tutto pronto.
D’un
tratto, il pentacolo magico iniziò a brillare, ed il professore, appoggiatosi
per un attimo sul tavolo come a sovrastare il tomo aperto sotto di sé, si volse
impassibile verso Helen, facendosi incontro a lei con il bisturi che
scintillava minaccioso nella sua mano. Anche il liquido nella teca si accese di
luce, mentre il corpo della vera Lucy tornava gradualmente ad assumere un
colorito più vivo.
«Basterà
una sola incisione. Poi, la mente e la coscienza di Lucy, viaggiando
all’interno del cerchio, entrerà nel tuo corpo, soppiantando velocemente la
coscienza originale.»
«Si
fermi, professore. Non è ancora troppo tardi. Può ancora impedire tutto
questo.»
«Gliel’ho
già detto. Io non ho intenzione di seppellire mia figlia.»
Detto
questo, prese ad avvicinarsi, sempre più minaccioso, quando all’improvviso il
portone del magazzino venne aperto violentemente, e Derek e i suoi compagni
fecero irruzione all’interno.
«Professor
Ferrazzani, MAB!» urlò il detective Norway puntandogli la pistola. «Getti subito quel bisturi!»
Colto di
sorpresa, il professore si bloccò, facendosi come di pietra, e forse anche per
questo il pentacolo magico sembrò perdere di efficacia, disperdendo buona parte
della sua luce.
«È
finita, professore!» lo ammonì Jane «Lasci quel bisturi ed esca dal pentacolo!
Subito!»
Ma Ferrazzani non parve determinato ad obbedire, seguitando a
restare immobile, l’espressione statica e la bocca socchiusa.
Giratosi
un attimo, volse gli occhi verso Derek, quasi a volerlo sfidare; quindi,
fulmineo, si portò sopra Helen, alzando il bisturi.
«Professore!»
urlò ancora Derek, anticipando tutti i suoi compagni nel prendere l’iniziativa.
Colpito
due volte, il professore cadde violentemente all’indietro, e a quel punto il
circolo magico si spense del tutto, mentre Helen riacquistava finalmente il
controllo del proprio corpo.
«Chiamate
un’ambulanza!» ordinò Derek vedendo i tratti alterati della sua nuova partner
«Sto
bene» li tranquillizzò lei.
Norway allora
provò a tastare il battito del professore, ma era chiaro che non c’era nulla da
fare.
«È
morto.»
Situato poco lontano dalla
sede dell’agenzia, il Montgomery’s Bar era il ritrovo
preferito di molti dei frequentatori abituali dell’edificio, ma anche dei
poliziotti della vicina stazione.
Anche
Helen vi si era recata spesso durante la gavetta in polizia, ma nessuno, a
cominciare dal proprietario Joe, ricordava di averla mai vista così abbattuta
come quella sera.
Era già
arrivata al suo terzo gin e tonic quando Derek, dopo
essere entrato ed averla scorta seduta al bancone, prese posto accanto a lei.
«Il solito»
ordinò.
Per
lungo tempo i due stettero in silenzio, almeno fin quando Joe non giunse a
portare a Derek il suo abituale doppio scotch, che tuttavia il detective esitò
a bere.
«Niente
male come primo caso» commentò, non senza un certo spirito, portandoselo
finalmente alla bocca. «I ragazzi della scientifica hanno trovato un complesso
sistema di approvvigionamento magico sotto il pavimento della fabbrica.
Probabilmente era quello a garantire un ricambio di energia costante al corpo
evitandone il disfacimento.»
«E ora
che cosa ne sarà di Lucy?» domandò la ragazza a capo chino
«Ho
parlato con il procuratore. Se si fosse dovuti andare al processo sarebbe stato
sicuramente un elemento di prova, ma visto com’è andata a finire è inutile
lasciarla rinchiusa lì dentro. Entro qualche giorno spegneranno tutto.»
A quel
punto, le labbra di Helen si piegarono in un sorriso quasi di rassegnazione.
«Forse
era quello che voleva. L’aveva detto che non avrebbe accettato di seppellire
sua figlia.»
Seguì un
nuovo silenzio, rotto solo dal tintinnare dei bicchieri sulla superficie di
legno.
«Un po’
capisco i sentimenti del professore, così come capisco Lucy. Quando si nasce in
determinate famiglie, tutti si aspettano un certo comportamento da parte tua, e
spesso chi si trova in queste situazioni non aspetta altro che di poter agire
diversamente, anche solo per poter provare a sé stesso di essere ancora in
grado di decidere autonomamente.
D’altra
parte però, deve essere brutto per un padre vedere la figlia di cui vai tanto
fiero inerpicarsi in una strada così pericolosa.»
«Non è
stata una bella esperienza, e posso assicurarti che non sarà l’ultima. La MAB
per tradizione si occupa di tutto ciò che trascende la concezione abituale di
normalità, e la magia di cui tutti vanno fieri noi spesso la vediamo per quello
che è realmente. Una forza che può assumere le forme più spaventose.»
«Credevo
di saperlo» sospirò lei. «Ma vederlo di persona è stato diverso» quindi lo
guardò, quasi a voler cercare un’ancora di salvezza. «Voi come fate? Come fate
a sopportare tutto questo?»
«Pensando
che ci sarà sempre un domani» le rispose lui. «Se dovessimo soffermarci su
tutto ciò che di orrendo e spaventoso il nostro lavoro ci mette davanti,
finiremmo tutti con l’impazzire. Anche se è difficile, devi avere la forza è la
volontà di voltare pagina. È così che si và avanti.»
Helen
portò allora nuovamente gli occhi sul suo bicchiere, stringendolo un po’ più
forte senza però dire nulla.
Capitolo 6 *** Episodio 2 - Game Over (Parte 1) ***
EPISODIO 2
GAME OVER
(PARTE I)
Non era raro che Chris Rowan facesse perdere il sonno ai propri vicini di
appartamento, ma quella notte si stava veramente passando il segno.
Benché
fossero ormai quasi le tre, dal suo alloggio provenivano senza sosta
schiamazzi, urla, esplosioni ed effetti sonori degni dei migliori film, e alla
fine Charlie Descott, con cui già altre volte Chris
si era ritrovato a discutere, decise che ne aveva
abbastanza.
«Ehi Rowan, hai intenzione di andare avanti così ancora per
molto?» tuonò, dopo essere uscito dal suo appartamento in boxer e canottiera,
battendo energicamente la porta del vicino. «Non so tu, ma io domani devo andare al lavoro!»
Ma non
giunse risposta, e neppure i rumori all’interno cessarono; e allora Charlie,
che non era certamente i più accomodante dei vicini,
perse la testa, e grazie anche alla sua considerevole stazza con un solo calcio
sfondò il battente entrando nell’appartamento.
Chris
era in salotto, stravaccato di spalle sulla poltrona ludica con lo sguardo
rivolto verso la finestra. Gli amplificatori attorno a lui erano tutti accesi,
ma il fracasso, per quanto assordante, non sembrava dargli fastidio;
probabilmente, con tutte le ore che passava a giocare, ormai non ci faceva
neanche più caso.
«Stammi a sentire, sottospecie di fissato, sono arcistufo di questi
tuoi eccessi» imprecò Charlie facendoglisi incontro dopo aver staccato con
forza la spina del sistema di gioco. «Non me ne frega niente se sei una specie
di guru del tuo mondo malato, se sgarri ancora una
volta giuro su Dio che…»
Come
provò ad afferrargli il polso, questi scivolò inerme giù dal bracciolo, e fu
allora che Charlie, fattosi muto per lo sgomento, si avvide di come il suo
vicino avesse tutte le ragioni del mondo per non aver potuto ribattere
all’ennesima protesta per schiamazzi.
Foch era talmente assorto
in ciò che stava vedendo nel visore oculare piazzato sul volto, con
l’espressione beata e il joystick di controllo in
mano, che non si accorse di essere più solo in ufficio fino a quando qualcuno
con un calcio non gli tolse letteralmente la poltrona da sotto il sedere,
facendolo ruzzolare a terra con un tonfo secco che per poco non gli fece venire
un infarto.
«Ma che diavolo…» sbraitò togliendosi il dispositivo. «Derek! Hai deciso di ammazzarmi per caso?»
«Quante
altre volte dovremo farti il discorsetto sull’uso
delle attrezzature dell’agenzia?»
«Ehi, il
turno di notte è lungo, e qui non succede mai niente.»
«Buon
per noi.» disse Jane entrando con il caffè in mano. «Ci sono tanti di quei
problemi magici a New York che un po’ di quiete è quasi una benedizione per
quest’ufficio.»
«Da
quanto il Metodo Brennon è diventato di dominio pubblico» commentò Helen, già
seduta alla sua scrivania. «Il numero di praticanti della magia è notevolmente
aumentato, ma con esso sono aumentati anche i problemi.»
«E cosa ti
aspettavi? Ormai senza la magia questo pianeta andrebbe in malora in un
secondo.»
«Il fatto è
che la magia non è un gioco. Noi stregoni ancestrali
siamo educati fin da piccoli a imparare a controllarla fin dai tempi più
antichi, ma là fuori c’è tanta gente che ne fa uso senza aver frequentato una
sola ora di scuola preparatoria.»
«Grazie
della lezione di sociologia» tagliò corto Foch. «Se
non l’avessi notato, è per questo che ci sbattiamo tanto» quindi corse a
prendere la giacca dall’attaccapanni. «O meglio, voi
vi sbattete. Perché io adesso me ne vado a casa, consumo l’acqua calda, e
affondo i postumi di questa nottata nel mio morbido letto. Saluti!»
Invece,
non fece in tempo a valicare la porta scorrevole che il telefono sulla
scrivania di Derek lo pietrificò, provocandogli un brivido famigliare e
insopportabile.
«Arriviamo
subito» disse il detective per poi richiamare all’ordine l’intera squadra.
«Riposo rimandato, Foch.»
«E ti
pareva.»
«Cos’abbiamo?» domandò Jane accodandosi al collega assieme al
resto dei compagni.
«Magomortonell’Upper West Side.»
O’Bryan scese
dall’ascensore proprio mentre Derek e gli altri lo stavano raggiungendo.
«Sei in
ritardo.» lo rimproverò Norway passandogli accanto, e ricevendo in cambio
un’occhiata perplessa
«Buongiorno
anche a te.» scherzò prima di tornare sui suoi passi.
Il luogo della segnalazione
era un appartamento in un condominio della 96ma Strada, al sesto piano, un
trilocale non particolarmente sfarzoso ma comunque arredato con mobilio di un
certo pregio.
La
vittima era in salotto, riversa su di una poltrona da videogiocatore circondata
da ogni ben di Dio, dalle casse multi-stereo ai monitor di ultima generazione,
il visore ancora calato sugli occhi e un paio di cuffie costose a penzolare da
un bracciolo.
Una
squadra della polizia aveva già eseguito i primi rilievi, ed era intenta a
terminare il sopralluogo dell’appartamento; il detective incaricato delle
indagini si chiamava Theodore Ramey, e benché molti agenti di polizia non
saltassero di gioia nel vedere la MAB piombare su una loro scena del crimine
l’ormai non più giovane detective non si scompose più di tanto quando uno dei
suoi uomini appostati in corridoio gli introdusse Derek e il resto della
squadra al gran completo.
«Detective
Ramey.»
«Agente
Norway» rispose lui col medesimo sorriso di complicità. «Avete fatto anche
prima del solito.»
«Con
quello che pagano, i contribuenti si meritano la massima celerità» replicò
ironico Derek.
Entrambi
portarono quindi l’attenzione sulla vittima.
«Mamma
lo diceva sempre che i videogiochi fanno male» disse ironico Norway. «Chi è il
morto?»
«Simon
Tildman, ventinove anni. Era il padrone di casa. Un vicino è venuto a
lamentarsi per il chiasso durante la notte, e siccome l’amico qui non
rispondeva, ha sfondato la porta e l’ha trovato così.»
«Non
vedo segni di lotta o ferite di alcun genere» osservò Jane. «Causa della
morte?»
«Infarto,
o così sembra.»
«A
ventinove anni?» replicò O’Bryan
«Il medico
legale parla di un collasso multiorgano, ma pare che a ucciderlo sia stata
un’aritmia cardiaca con conseguente infarto. È morto in meno di trenta secondi.»
In
quella Kristen, che aveva avuto non pochi problemi a trovare un parcheggio,
raggiunse a sua volta la scena del crimine, sgranando gli occhi per la sorpresa
nel momento in cui si trovò a tu per tu con la vittima, che nel frattempo era
stata tolta dalla sedia e preparata per essere portata via dal coroner.
«Tildman!?»
«Lo
conosci?»
«Certo che lo
conosco. Come pure all’incirca un altro mezzo miliardo di
persone in giro per il mondo.»
«Prego?»
replicò O’Bryan
«Ah già.
Dimenticavo che voi siete da un’altra era geologica.»
Solo
allora Derek e gli altri fecero caso ai molti poster, quadri e disegni vari che
tappezzavano la stanza, la maggior parte dei quali con
raffigurato un personaggio smaccatamente fantasy in armatura bianca da
cavaliere splendente ritratto nelle pose e nei contesti più disparati, con una
lunga spada in una mano e uno scudo triangolare nell’altra.
Notandolo,
anche qualche altro membro della squadra parve sobbalzare per lo stupore.
«Eccolo qui. Zondag
il Leggendario. Uno dei Cinque Arcangeli di Myrthal.»
«Eh!?» piegò le labbra O’Bryan.
«Ora mi
ricordo» disse allora Ramey. «È un videogioco online. Rage&Sword,
dico bene?»
«Simon
Tildman è stato il primo e unico giocatore a completare il Labirinto di Dalesid» proseguì Foch. «E nelle
ultime due edizioni dei campionati del mondo ha letteralmente surclassato tutti
i suoi avversari. Nel mondo di Rage&Sword è una specie di leggenda.»
Solitamente MAB e polizia
non collaboravano alle indagini, in quanto se la prima
subentrava l’operato della seconda, il più delle volte, risultava superfluo.
Tuttavia,
prima di avviare una qualunque indagine, era necessario appurare che vi fosse
un qualunque crimine su cui investigare, senza contare che non sempre il
coinvolgimento di uno o più maghi era un motivo sufficiente per affidare un
caso all’Agenzia.
Così,
Ramey seguì Derek e la sua squadra al distretto, spulciando assieme a loro le
prove raccolte sulla scena del crimine in attesa che dalla sala operatoria
giungesse il referto autoptico.
«Vincitore
di Azmech, Distruttore di Porgorath,
Rovina di Unius, Maestro delle Cinque Arti, Signore
delle Lune nuove, Re di Passomorto» leggeva Foch
sulla pagina personale di Tildman sul sito web di Rage&Sword. «Ha
collezionato più trofei lui in due anni che io in tutta una vita.»
«E ci
mangiava?» replicò beffardo Derek dalla sua scrivania
«Che tu
ci creda o no, sì» rispose Jane. «A quanto ne so, un
campione di questo genere di giochi online, se legato ad
un procuratore o iscritto a una federazione, può arrivare a guadagnare quanto
una matricola NBA.»
«Essere
pagati per giocare a un videogame?! È un’idiozia.»
«Sarà
un’idiozia, ma muove parecchi soldi» commentò Ramey. «Il creatore di
Rage&Sword, Philip Heybrun, è uno dei dieci uomini più ricchi del mondo, e
il suo impero dei videogiochi è tra le prime cinque aziende in America sia per
dipendenti che per fatturato.»
«I tempi
del video-pong sono lontani, vecchio
mio» rise Foch. «Comunque c’è qualcosa di strano. Dalle chat-room sembra
che Zondag non si faceva vedere da un po’ nelle aree pubbliche del gioco,
eppure stando ai dati di traffico sembra passasse
online almeno dieci ore al giorno nelle ultime settimane.»
«Forse
era impegnato in qualche dungeon particolarmente
duro.» commentò Helen.
«Se è così,
non voleva condividere la gloria. Sembra che ultimamente non si facesse vedere
neppure dai suoi usuali compagni di party.»
Ad un certo
punto, mentre frugava nelle chat, Foch notò qualcosa che parve attirare la sua
attenzione, ma Derek e gli altri erano tutti troppo concentrati sui rispettivi
terminali per accorgersene. In compenso, si accorsero del suo continuo
sbadigliare, almeno per quella volta assolutamente comprensibile.
«Basta
così» sentenziò infine Derek. «Va a casa prima di crollare sulla tastiera.»
«Con
vivo piacere!» rispose lui recuperando la giacca dalla sedia e sfilando, con
molta disinvoltura, una chiavetta dal computer. «Signori, buonanotte a tutti!»
Pochi
minuti dopo che se n’era andato, però, Helen notò che il collega nella fretta
aveva dimenticato sulla scrivania il proprio badge di agente, senza il quale gli sarebbe stato impossibile superare i controlli di
sicurezza all’ingresso il giorno successivo.
«Foch,
aspetta! Il tuo pass!»
Provò a
corrergli dietro, ma nel tempo che impiegò a raggiungere l’atrio Kristen era
già scomparso nella metropolitana del piazzale antistante l’edificio.
In realtà, se Foch aveva
tanta fretta di andare a casa, non era certamente per il sonno o la voglia di
dormire: non più almeno.
Nascosto
tra le righe delle chat, sproloqui allucinati che solo un esperto
Rage&Sword sarebbe stato capace di tradurre con un filo logico, e in
particolare nelle conversazioni tenute da Zondag con alcuni dei suoi compagni
più fidati, Kristen aveva trovato qualcosa, qualcosa di inaspettato
e sconvolgente, che aveva acceso come un fuoco il suo spirito di giocatore.
Così,
chiusosi nel suo appartamento di Brooklyn, piccolo ma sapientemente e
fastosamente arredato con i proventi di anni di intrallazzi
non proprio legali, si era immediatamente riattaccato al computer, bevendo
caffè e fumando sigarette a ripetizione per restare sveglio.
Servirono
molte ore di lavoro, cosa difficile da immaginare per qualcuno che come lui era
stato capace di forzare i firewall dell’Hotel Plaza a
undici anni per farci soggiornare i nonni in visita dall’Arkansas, ma alla fine
i suoi sforzi parvero sortire i risultati sperati.
«E vai!»
disse con un sorriso soddisfatto mentre una interminabile
sequenza di numeri e lettere scorreva senza sosta sul monitor principale. «È stato più complicato del previsto, ma ci sono arrivato. Grazieper quest’ultimo
regalo, Zondag. Verrò a portarti i fiori in cimitero.»
Ora non
restava altro che effettuare la prova diretta, quindi
Foch, recuperata nuovamente la chiavetta, la inserì nella porta della poltrona
neurale al centro del salotto; forse non era sofisticato e all’ultimo grido
come quello del compianto Tildman, ma anche il sistema di interfaccia virtuale
di Foch faceva la sua bella figura, senza contare che se l’era costruito,
programmato e interfacciato da solo.
«Ci siamo»
disse dopo aver avviato Rage&Sword e aver infilato il visore. «Sto
arrivando, Zion.»
Se c’era una cosa che Jane
non era felice di fare questa era sicuramente il fare
un piacere a Foch.
Quando
le era stato chiesto, o per meglio dire ordinato, di riportare il badge di
servizio a Kristen sulla via di casa, aveva cercato vanamente di campare una
scusa, ma considerando che era la sola della squadra ad abitare a Brooklyn alla
fine non aveva avuto altra scelta che assecondare i suoi colleghi, e con il
morale sotto i piedi si era diretta al condominio del collega.
In quanto
veterana della squadra, era stata la prima a obiettare il giorno in cui il
procuratore distrettuale, su spinta del capo della polizia, a sua volta
incalzato dal sindaco per la penuria cronica di buoni agenti all’interno della
MAB, aveva assegnato loro un criminale recidivo risocializzato che, trovatosi a
ventisei anni a dover scegliere tra la una lunga pena detentiva e un lavoro “socialmente
utile” aveva scelto di contrastare quelli che un tempo erano stati i suoi
compagni di malefatte.
Foch era
sicuramente un bravo agente, un hacker come se ne
vedevano pochi, con un’esperienza invidiabile tanto nel mondo dei computer
quanto in quello della stregoneria, ma sebbene inventiva, capacità e intuito
non gli facessero difetto aveva dato prova in più occasioni di essere un
individuo sostanzialmente inaffidabile, troppo incline a fare di testa sua e
irrispettoso il più delle volte di qualunque forma di autorità.
E poi
era un bambinone, infantile oltre misura, incapace di prendere con serietà
anche le questioni più spinose, e questa era sicuramente la cosa che Jane
detestava maggiormente di lui.
Parlargli
era inutile, e peggio ancora arrabbiarsi, perché quella
specie di casinista tutto sapeva fare fuorché prendere sul serio le lamentale o
le obiezioni di qualcuno; più volte aveva detto di essersi unito alla MAB solo
per causa di forza maggiore, e anche per questo motivo Jane riteneva che non vi
fosse persona più inadatta per occuparsi di una questione talmente delicata
come amministrare il corretto uso della magia in una società che cedeva fin
troppo spesso al naturale desiderio di abusarne.
Se non
altro, pensò mentre usciva dall’ascensore, avrebbe potuto fargli l’ennesima
ramanzina, oltre a pretendere un congruo risarcimento per il servizio sotto forma
di hamburger, patatine e pepsi l’indomani all’ora di pranzo.
«Ehi,
nerd da computer!» esclamò battendo energicamente alla porta dell’appartamento.
«La prossima volta, invece del badge, cerca di non dimenticarti la testa!»
Ma non giunse
risposta.
Sulle prime
Jane pensò che Foch stesse ancora dormendo, ma il brusio in sottofondo di una
macchina da interfaccia in piena operatività fu la prova evidente che non era
così.
«Non era
poi così stanco, dopotutto» brontolò prima di ricominciare a battere. «Avanti, idiota! Esci dal mondo dei sogni e muoviti ad
aprire!»
Poi, d’improvviso,
si udì un colpo violento, come di qualcosa che crollava al suolo, seguito
subito dopo da un terrificante silenzio.
«Kristen?»
domandò Jane mentre le tempie le si riempivano di
sudori freddi. «Kristen, non è divertente. Apri.»
Dal momento che
la porta era blindata era perfettamente inutile tentare di abbatterla, ma
fortunatamente alla fine tutto quel battere attirò l’attenzione della signora Wilson,
l’anziana dirimpettaia di Kristen, che uscì per capire cosa stesse succedendo;
Foch aveva parlato di lei in un paio di occasioni, e poiché aveva sottolineato
come fosse solito affidarle la pulizia del proprio alloggio le chiese se avesse
una chiave di riserva.
«Sì, ce l’ho. Ma che succede?»
«Presto,
vada a prenderla!»
Incredula,
ma anche un po’ spaventata, la signora corse a prendere la chiave, ed aperto l’uscio le due donne si trovarono davanti ad uno spettacolo
sconvolgente.
Kristen
era a terra, immobile, come a terra erano anche la poltrona e tutte le
apparecchiature ad essa collegate, il visore ancora
parzialmente calato sugli occhi e il volto pallido: sembrava morto.
«Oh, mio
Dio!» urlò la signora Wilson quasi svenendo
Jane invece
corse dal collega, inginocchiandosi davanti a lui a prendendolo
tra le braccia dopo avergli tolto il visore; le labbra e le narici erano
cianotiche, gli occhi aperti ma rivolti all’indietro, e un filo di saliva
colava dalla bocca socchiusa.