Hai mai provato a contare le stelle?

di nigatsu no yuki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa ***
Capitolo 2: *** Intreccio ***
Capitolo 3: *** Chiusura ***



Capitolo 1
*** Premessa ***


La storia ha partecipato al contest "AU contest – Wherever we are" indetto da Emmastarr sul forum di efp
e si è classificata al III° posto!
[Pacchetto fantasia #viaggio spaziale
Qui il link del contest]







 
Hai mai provato a contare le stelle?
 
 




1. Premessa

 
Molto tempo prima, in tempi così antichi che nei vecchi archivi digitalizzati bisognava tornare indietro di ere, l’uomo aveva esplorato per la prima volta lo spazio.
Era nella natura umana esplorare. Porsi quei limiti quasi irraggiungibili, in termini di spazio, superarli poi, solo per prefissarne altri. 
Vi si accompagnava la genuina curiosità verso l’ignoto, verso la novità. 
Vi si accompagnava il potere e l’uomo ne era così spesso soggiogato.
C’erano state le prime missioni spaziali, c’erano stati i primi uomini su altri pianeti.
L’avanzamento tecnologico aveva portato la vita umana su altri mondi. E così l’uomo aveva popolato il sistema solare, avamposti umani erano nati su Marte e sulle lune dei grandi pianeti gassosi.
Ma non bastava.
Le navi diventavano più potenti, i tempi si dimezzavano, la tecnologia avanzava, la Terra veniva abbandonata. Si arrivò ad una completa colonizzazione della galassia da parte dell’uomo: sui pianeti più diversi, dagli ecosistemi più vari. 
Poi era entrato in gioco il potere.
Le altre forme di vita erano tutte inferiori all’uomo. I pianeti erano abitati da animali stranissimi, alcuni semplicemente da microrganismi: tutti vennero conquistati, alcuni si estinsero. L'uomo rimaneva l'unico essere senziente della galassia, il suo dominio era incontrastato su essa.
 
Vi fu una prima repubblica galattica: vedeva un capo pianeta per ogni pianeta abitabile, seduto intorno ad un tavolo con i suoi pari a discutere del bene e della politica della galassia.
Ma i giochi di potere si susseguivano ricorrenti, infiniti, insaziabili.
Vi erano stati più tiranni, più dittature militari. La pace non si era mai realmente vista.
Poi erano arrivati i cinque generali che, in un decennio, si erano impossessati della galassia eliminando qualsiasi oppositore, imponendo un regime di controllo e obbedienza che per trecentocinquanta anni aveva imposto la propria idea. Un giovane governo, irremovibile, autoritario.Ingiusto. Tirannico. In cerca di un'utopia irrealizzabile.
Che aveva fatto nascere una resistenza.
E Hajime ricordava le storie di suo nonno, quando da giovane, era diventato uno dei ribelli, quando gli raccontava le sue vecchie avventure, in giro nello spazio, mentre cercava di scappare agli incrociatori galattici.
Hajime era nato in una famiglia di ribelli, in uno dei pianeti esterni dove lo stato galattico non arrivava e adesso, dall'età di diciotto anni, era diventato capitano di una nave e aveva compiuto ciò per cui suo nonno e sua mamma avevano sempre lottato.
Combattere lo stato, rovesciare la dittatura, liberare la galassia.
 

«Quanto credi in questa storia?»
La domanda era aleggiata prima tra i corridoi semivuoti della torre di lancio tre, appena fuori dalla città di Aomina, nel pianeta natale di Hajime. Si rincorreva tra i giovani cadetti pronti ad intraprendere le loro missioni in giro per la galassia.
E ora, il ragazzo, la sentiva di nuovo lì, sulla sua nave spaziale. 
Era una domanda che nessuno del suo equipaggio si era posto ad alta voce, fino a quel momento. Forse perché gli uomini erano rimasti colpiti. Forse spaventati, dalla sicurezza del loro capitano, quando si era offerto volontario per quella missione.
Se di missione si poteva parlare, alla fine.
Hajime si voltò verso il suo ingegnere e meccanico, la curiosità era dipinta sul suo viso e, forse, sembrava anche un po' imbarazzato per quella domanda.
«Ma come, Watari, nessuno ti ha avvisato della novità? Il nostro caro capitano è completamente impazzito!»
«Sai, credo sia colpa di quella strana epidemia che ha colpito la luna di Riot-3, hanno tutti cominciato a vedere fantasmi»
Hajime lanciò un’occhiataccia ai suoi piloti che se la ridevano alla grande, intenti ad ascoltare la conversazione, attenti a non perdersi una parola. Anche loro, alla fine, erano curiosi delle motivazioni che li avevano spinti ad intraprendere quel viaggio.
«Tacete entrambi» intimò Hajime «o vi abbandono sul primo pianete inabitabile che incroceremo»
Hanamaki e Matsukawa continuarono a ridacchiare divertiti, ma tornarono a guardar fuori verso il buio infinito dello spazio aperto. «Calibriamo le coordinate per il salto nell’iperspazio» annunciò il primo. «Conviene che tu vada a controllare il motore ausiliario Watari, faceva storie già prima di partire» disse il secondo.
Iwaizumi fece segno all’interpellato perché eseguisse l’ordine del pilota, aggiungendo «Arrivati nel sistema periferico spiegherò a tutti voi i dettagli della missione, non temere» assicurò.
Ad Hajime non piaceva tenere il suo equipaggio all’oscuro delle sue vere intenzioni, si era sempre considerato una persona giusta. Magari burbera, in alcuni casi, come ai suoi piloti spesso piaceva ricordargli.
Proveniva da una famiglia di capitani di navi spaziali, era forse partito avvantaggiato, dato che a diciotto anni aveva già una sua nave, ma lui sapeva bene che tutto quello se l’era sudato. Aveva frequentato l’accademia come i ragazzi della sua età e si era impegnato al massimo per ricevere dei voti che avrebbero fatto felice suo padre, che gli avrebbero permesso un buon punteggio nell’addestramento.
Aveva la sua nave da poco e aveva deciso di arruolare tutti giovani ragazzi, che provenivano dalla sua classe all’accademia, nonostante molti avessero visto la cosa come uno spreco di risorse.
Si faranno solo ammazzare.
E perderanno la nave nella loro prima missione.
Non era accaduto, anzi si erano quasi fatti un nome tra le file dei ribelli.
L’equipaggio dopotutto era affiatato, quei ragazzi erano anche giovani, ma si conoscevano da tempo e cooperavano in modo incredibile, sembrando una macchina ben oleata.
Hajime era certo il capitano, ma si fidava dei suoi compagni: insieme a loro prendeva le sue decisioni, o in alcuni casi, come quello, si adoperava perché tutti quanti capissero i suoi intenti. Non voleva che pensassero che lui fosse un tiranno che decideva al posto degli altri.
Per queste porcate basta già lo Stato Galattico si ritrovò a pensare sospirando appena e chiudendo gli occhi.
«Appena saremo nel sistema St-899 fermate la nave nell’orbita del pianeta gassoso più grande, stabilizzate la gravità e mandate un messaggio alla base, poi farò una riunione per spiegarvi i dettagli» disse Hajime lasciando la sala comandi, mentre Hanamaki e Matsukawa rispondevano in coro «Sì signore.»
Il capitano si diresse verso la sala di controllo, ignorando il tono canzonatorio dei piloti chiedendosi ancora perché quei due non cominciavano a rispettare le gerarchie. Potevano anche permetterselo lì, sulla nave, ma se poi finivano per sconfinare quando erano davanti ai generali di alto rango, le cose si complicavano.
Arrivato nella sala di controllo si lasciò sedere davanti al computer centrale «Tempo stimato del viaggio nell’iperspazio?» domandò.
Il computer si accese illuminandosi di azzurro «Tempo stimato: ventidue minuti e trenta secondi rimanenti» rispose.
«Visualizza il rapporto della missione» continuò Hajime.
«Caricamento dati missione “Primo sguardo”» replicò il computer iniziando ad aprire documenti su documenti riguardanti la missione.
Hajime si stropicciò gli occhi accusando per la prima volta nella giornata l’assenza di sonno. Guardò il display Tempo sul computer: su Riot-4, il suo pianeta natale, era passata da poco la mezzanotte, ed erano partiti da almeno quattro ore.
Spesso si chiedeva come aveva fatto l’uomo ad abituarsi ai tempi diversi che scorrevano sui diversi pianeti. Lui era abituato a mantenere i ritmi del suo pianeta natale, spesso però, muovendosi in giro per la galassia passava troppe ore senza sonno, mischiando il giorno con la notte. Alla fine lì, nello spazio, era sempre notte e lui non poteva certo passare il suo tempo a dormire.
Sbadigliò ancora, così si alzò, diretto ad un armadietto alle sue spalle; trafficò con vari barattoli fino a trovare quello che cercava. Prese due pillole, sicuro che per le successive dieci ore non avrebbe chiuso occhio e che quindi gli fossero assolutamente necessarie.
Tornò al suo posto: i documenti erano stati caricati e quelli principali venivano riflessi sullo schermo azzurro del computer.
Hajime si sedette e fissò le parole che spiccavano, scritte in caratteri più grandi, evidenziate in rosso.
“Top secret” “Missione spaziale Primo Sguardo” “Umanità in pericolo!”
Senza che se ne accorgesse la sua mente tornò indietro di una decina di anni, dei ricordi indelebili nella sua mente riaffiorarono e lui non poté che non seguirne il flusso.
 
«Oh Hajime-chan sei tornato! Andiamo che la cena è quasi pronta.»
Correva verso casa di sua nonna, l'involucro biocompatibile stretto sotto il braccio. Era riuscito a catturate quel raro esemplare di Libellula Mutaforma Stagionale vicino alla sorgente calda, era il suo premio e se lo sarebbe tenuto ben stretto.

 
«Lo sai che i nomi di tutti gli animali derivano dai primitivi animali della Terra, vero? »
«Certo nonna, me lo ripeti sempre» assicurò Hajime continuando a mangiare con gusto i frutti viola degli alberi ibridi. «Le vere libellule sulla terra avevano solo sei zampe e non così tante ali e poi erano più grandi di questa» concluse indicando la sua preda, piccola come un'unghia che nel suo contenitore stava pigramente poggiata su una foglia.
La nonna rise «Non solo gli animali anche gli alberi da frutto son tutti, in qualche modo derivanti dalla Terra, quello che stai mangiando tempo fa si chiamava mela.»
«Ed era gialla» concluse felice il bambino ridendo.

 
«Nonna mi racconti ancora della Terra?»
La donna rise «È strano sai, gli altri bambini chiedono storie di fantasia, di mostri ed eroi»
«Ma la storia della terra parla dei primi piloti e loro erano come eroi, vorrei diventare come loro!»
L'anziana donna sorrise deliziata dall'ardore che era racchiuso nelle parole del nipotino.

«Su, siediti qui e ascolta» continuò indicando il tappeto scuro ai suoi piedi, raggiunto in un istante dal bambino «allora, dimmi un po', a scuola dicono in che anno ci furono le prime esplorazioni per cercare nuovi pianeti al di fuori del sistema solare?»
«Lo so, lo so!» esclamò Hajime «il libro dice intorno all'anno 4000, ma non è così, vero nonna?»
«Esatto, quasi mille anni prima, quando una delle innumerevoli guerre stava per portare all'estinzione l'umanità e per rendere completamente inabitabile la terra a causa delle radiazioni sprigionate dalle bombe, si decise per un progetto segreto.»
«La missione Primo Sguardo!»
La donna rise «Vedo che ti ricordi molto bene questa storia piccolo» disse «allora quante navi partirono?»
«Dieci navi spaziali grandissime» rispose prontamente Hajime aprendo entrambe le mani, mimando il numero dieci «e l'equipaggio era di cinquanta astronauti per nave» aggiunge chiudendo in successione cinque dita «e portavano con loro tanti, tanti, tanti embi... embiri...»
«Embrioni, Hajime» lo corresse la nonna «come tanti piccoli bambini da crescere che avrebbero popolato i nuovi mondi.»
Il bambino annuì in modo energico «E dopo?»
«Dieci navi partirono, verso punti remoti della galassia, verso pianeti o lune studiati dei potenti telescopi, erano mondi potenzialmente abitabili per noi umani, ma solo tre di queste navi arrivarono a destinazione, solo su tre nuovi pianeti continuò la vita umana.»
La donna prese un respiro, dal ripiano fluttuante alla sua destra prese i due bicchieri pieni di succo viola porgendone uno al nipote, ed iniziando a bere dal suo «Il problema a cui i nostri avi non avevano pensato, mandando lontano da loro, per migliaia di anni luce quegli uomini, era che avrebbero trovato un ambiente ostile all’uomo, nonostante il pianeta fosse abitabile.»
«Si sono evoluti!» interruppe questa volta Hajime, le labbra segnate di viola.
«Esatto. L’ambiente ostile li ha cambiati profondamente, avevano pochi mezzi per rendere il pianeta uguale alla Terra che avevano lasciato, hanno quindi permesso a questo di cambiare loro»
«Ma con noi non è successo nonna.»
«Certo piccolo, i nostri antenati, quando mille anni dopo le missioni Primo Sguardo partirono, cambiarono a loro vantaggio i pianeti conquistati, noi siamo gli stessi umani che lasciarono la terra più di trentamila anni fa, loro invece, evolvendo diventarono quasi alieni.»
«Come si trasformarono?»
«Il primo pianeta raggiunto era quasi completamente ricoperto di acqua, l’aria del tutto irrespirabile, l’ossigeno si trovava solo disciolto nelle acque, così modificarono con potenti macchine il loro DNA perché potessero adattarsi all’ambiente e diventarono come dei pesci.»
«Gli uomini-pesce!» esclamò contento Hajime «avevano le branchie sul collo una lunga pinna sulla schiena e mani e piedi palmati, vero?»
«Molto bene» si congratulò la nonna sorridendogli «andiamo finisci il suo succo però.»
Il bambino si apprestò a finire il suo bicchiere.
«Il secondo pianeta, fu uno sbaglio, scelto solo per la sua atmosfera completamente respirabile, ma gassoso. Nella sfortuna però qualcosa non andò storto: il nucleo del pianeta era completamente ferroso, al di sopra di questo aleggiavano masse di gas come quelle dei grandi pianeti, ma l’atmosfera si estendeva per chilometri e chilometri al di sopra della superficie gassosa, e quel grande nucleo ferroso era come una calamita. Aveva attirato tanti asteroidi che pigri galleggiavano nel cielo di questo pianeta. Sugli asteroidi iniziarono a crescere piante a scorrere fiumi: erano un luogo perfetto. Gli umani però dovettero modificarsi per resistere alla rarefazione dell’aria e dovevano spostarsi da un asteroide all’altro quindi…»
«Quindi si fecero crescere le ali!» rispose Hajime.
«Molto bene. Le ali e una lunga coda come timone, le loro ossa si alleggerirono e svilupparono più di due polmoni per sopperire all’aria mancante ad alte quote.»
«E il terzo nonna? Racconta, è il mio preferito!»
«Il terzo era il pianeta desertico» iniziò la donna con un sorriso «l’acqua scorreva solo nel sottosuolo e l’aria era irrespirabile, tranne che nelle oasi. Nelle oasi c’era il grande totem di pietra, alla sua sommità cresceva un albero, il guardiano dell’oasi. Creava ossigeno e permetteva all’acqua di sgorgare in superficie; gli umani dovettero venire a patti con ogni totem prima di stabilirsi nell’oasi. Non si sa che cambiamenti abbiano impresso al loro DNA, non lo divulgarono mai, ma si pensa siano riusciti a comunicare con i totem, e vivere sotto la loro protezione.»
«Io li immagino con la pelle verde e gli occhi gialli, tipo grandi lucertole della Terra.»
La nonna sorrise «Chi lo sa? Magari sono davvero come li immagini tu.»
Hajime si alzò in piedi convinto «Voglio incontrare gli alieni che erano umani un giorno, ritroverò i loro pianeti, dovranno sentirsi davvero soli!»
«Nessuno li ha mai trovati piccolo mio» rispose amaramente la donna «immagino si siano dimenticati di essere ancora in parte umani, ormai sono solo alieni, ma sai cosa si dice?»
«Cosa?»
«Che chiedano aiuto al cielo, che chiedano all’universo di farli rincontrare con noi, come fratelli che non si vedono da tanto» la donna aveva un sorriso nostalgico dipinto sul volto.
Hajime le afferrò una mano, la guardò fisso nei vecchi e saggi occhi mentre il sole calava definitivamente dietro le montagne, mentre le prime due lune apparivano «Te lo prometto nonna io li troverò, e dirò loro che non sono più soli»
La donna sorrise posandogli una mano sulla guancia «Spero che potrai far avverare il tuo sogno Hajime-chan…»
 
Hajime ritornò al presente quando lo schermo davanti a sé lampeggiò dicendogli che mancavano cinque minuti all’arrivo dell’astronave.
Tornò a stropicciarsi gli occhi e a sospirare; i suoi genitori avevano sempre scoraggiato sua nonna dal raccontargli certe fantasticherie su qualcosa che probabilmente non era mai accaduto.
Sua nonna era morta cinque anni prima. Qualche mese dopo era arrivata voce che lo Stato Galattico aveva trovato il primo pianeta della missione Primo Sguardo, e così i primi alieni senzienti della galassia, alieni che una volta erano umani.
Gli alieni erano stati uccisi quasi tutti, ne avevano prelevati una trentina e trasportati in una zona protetta, in uno dei sistemi centrali. Il pianeta era stato distrutto, in quanto simbolo di un’era decadente, inferiore, dimenticata.
Poi appena sei mesi prima era trapelata un’informazione tramite le spie ribelli: si diceva che lo Stato avesse trovato il terzo pianeta.
Hajime non avrebbe mai potuto rinunciare a quella missione, un salvataggio.
Il grido disperato di quei popoli a lui era arrivato forte e chiaro, era una triste melodia che viaggiava per l’universo. Proprio come aveva sempre pensato sua nonna.
 

«Continuo a pensare che tutta la pubblicità su questa faccenda fatta dallo Stato, sia stata per spaventarci» ripeté ancora Matsukawa grattandosi il mento.
Hajime sospirò, aver spiegato al suo equipaggio le sue vere intenzioni doveva averli resi ancora più scettici.
«E chi ci dice che non sia una trappola?» ringhiò ad un certo punto Kyoutani «magari ci hanno attirati qui per farci saltare in aria!»
«Quando mai Iwaizumi ci ha trascinati in una trappola?» intervenne Kindaichi «ce la siamo sempre cavata egregiamente in ogni situazione.»
Decisamente, gli stava tutto sfuggendo di mano, perché in quel momento tutto l’equipaggio iniziò a battibeccare, come i peggiori ragazzini da accademia.
«Ohi!» tuonò Hajime, cosa che fece calare il silenzio «mi dispiace non avervi messo al corrente prima delle mie vere intenzioni, ma ipotizzando che questa storia sia vera, sapete cosa rischiamo?»
Ci fu silenzio per qualche altro secondo, poi Yahaba prese la parola «Se questa storia è vera, un pianeta rischia la distruzione, e ci sono in ballo probabilmente migliaia di vite.»
«Esatto» replicò Hajime «aderiamo alla causa dei ribelli perché non è pensabile che lo Stato faccia quello che vuole calpestando le vite delle persone a proprio piacimento. Avete ragione mi spingono motivazioni personali, da bambino fantasticavo spesso su questi… alieni» preferì non parlare di sua nonna «ma prima di ciò a muovermi è il senso di giustizia, un mondo non deve scomparire per i capricci dello Stato» prese fiato fissando negli occhi i suoi uomini «ma questo non posso farlo senza di voi, lo sapete meglio di me.»
Dalle loro espressioni sapeva di averli conquistati, nonostante Kyoutani continuasse a guardarlo in cagnesco, Hajime si ritrovò a pensare che era davvero fortunato ad essere in quella squadra.
«Insomma in ogni caso, avremo riconoscimenti e gloria, andasse bene» ruppe il silenzio Matsukawa con un sorriso sghembo. Fu prontamente ripreso da Hanamaki che gli tirò un pugno sul braccio «Bella frase, complimenti!» sbottò.
«Io ci sto!» disse Kindaichi, che forse era stato l’unico ad essere d’accordo dall’inizio.
«Sì, va bene» disse Watari.
«Anche io» aggiunse Kunimi.
«Conta su di me, capitano» annuì Yahaba.
«Se ci lasciamo le penne, ti ammazzo» ringhiò Kyoutani contro il medico e biologo di bordo che si apprestò a tirargli un pugno sulla schiena «Riuscirai mai a rispettare la gerarchia? Glielo devi al capitano» sbottò Yahaba di rimando.
Ma Iwaizumi aveva letto approvazione nello sguardo arrabbiato del biondo, nonostante lo nascondesse sotto l’espressione perennemente furiosa.
«Bene» disse Hajime «tiratori andate in posizione, nel caso lo Stato abbia voglia di farsi vedere.»
Kindaichi, Kunimi e Kyoutani annuirono andando verso le loro posizioni.
«Computer aziona il radar, ricerca forme di vita superiori in questo sistema» continuò «e voi due» disse adocchiando i due piloti «tracciatemi una rotta sicura appena avremmo il punto giusto.»
«Certo, mamma» replicarono in coro Matsukawa e Hanamaki sparendo verso la loro postazione prima che Iwaizumi decidesse di prendere entrambi a calci.
«Watari il reattore come è messo?» continuò.
«L’ho aggiustato e ricalibrato il sistema di avviamento» rispose «devo solo fare un’accensione manuale nel caso uno dei motori generali si spenga» si diresse verso la sala macchine senza aspettare l’ordine.
Hajime allora si rivolse di nuovo al computer «Hai trovato il pianeta? Mandami le immagini.» L’ologramma di un pianeta dai toni arancioni apparì in mezzo alla stanza «Yahaba analizza tutti i dati che arrivano, voglio sapere tutto, dall’atmosfera, alla composizione del suolo, ai microorganismi più piccoli rilevabili dal radar.»
«Sì signore» Yahaba iniziò ad analizzare subito i dati e Hajime lo lasciò al suo lavoro.
 

C’era qualcosa di strano.
Era impossibile non notarlo, sebbene nessuno dei componenti dell’equipaggio avesse mai visto quel pianeta. Era l’emisfero settentrionale ad avere il maggior numero di oasi, così aveva detto il computer dopo aver analizzato il pianeta poco prima, e proprio da lì sembrava come se si fossero formati degli strani fenomeni atmosferici neri; risalivano in alto, oscurando quasi del tutto la vista della superficie del pianeta.
«Analisi dell’aria completata: non si tratta di fenomeni naturali, sono il risultato di… incendi» lesse Yahaba, mentre la sua voce si affievoliva sul finale.
Si sentì un’imprecazione di Kyoutani dai microfoni che collegavano la sala di pilotaggio alle celle con i cannoni ad alta energia dei tiratori.
«Sono arrivati prima di noi» sussurrò Watari.
«Dannazione!» esalò Hajime voltandosi con rabbia verso il computer «scansiona la superficie, traccia una rotta dove trovi la più alta percentuale di forme di vita superiori» ordinò alla macchina «voi portateci lì in dieci minuti.»
«Ricevuto» risposero i piloti.
Erano arrivati tardi. Iwaizumi aveva davvero voglia di prendere a pugni il portellone di accesso al corridoio principale, fino a farsi male, fosse solo servito a qualcosa. Si era imbarcato nella missione e mai aveva pensato di trovarsi davanti quel muro sbarrato. Le spie dicevano che lo Stato non ne aveva ancora scoperto le coordinate esatte, loro erano lì per un salvataggio. Allora perché quello si era dovuto trasformare in un…
«Superficie analizzata. Più alta percentuale di forme di vita superiori alle coordinate latitudine 45 gradi nord, longitudine 7,5 gradi ovest. Numero approssimativo: diciotto essere alieni-umanoidi.»
In una strage?
«Partite» ordinò Hajime.
I due piloti non persero altro tempo, la nave accese i motori al massimo uscendo dall’orbita intorno al pianeta alieno, spingendosi all’interno dell’atmosfera.
Iwaizumi cercò di ragionare in fretta: lo Stato li aveva preceduti, e lui non poteva che pensare al primo pianeta delle missioni Primo Sguardo. Perché non avevano distrutto anche quello, dato che erano di sicuro già stati lì? Che fosse sul serio una trappola?
Non poteva lasciare nulla al caso, una volta scesi sul pianeta avrebbero dovuto agire con prontezza.
«Tiratori mi ricevete?» chiese il capitano.
«Sì» risposero i tre quasi all’unisono.
«Bene, Kindaichi e Kyoutani vi voglio sulla nave, mantenere il radar attivo, sparate a qualsiasi cosa si avvicina a noi, di sicuro non saranno dei nostri e dovrete avvertirmi di qualsiasi movimento sospetto, intesi?»
«Sì capitano» risposero i due.
«Kunimi tu scendi con me Yahaba, Matsukawa e Hanamaki, cercate questi diciotto superstiti, li voglio caricati sulla nave, Watari tu rimani su qui nella sala piloti e manderai aggiornamenti alla base, va bene?»
«Affermativo» risposero tutti.
«Rettifica di calcolo» annunciò il computer «sono quindici le forme di vita superiore calcolate nell’area indicata. Condizioni vitali di dieci: critiche»
Avevano davvero troppo poco tempo.
 

La prima cosa che lo colpì, una volta che la nave mise piede sul pianeta furono i colori.
Il suo pianeta natale era cupo: molto simile alla Terra certo, ma pioveva quasi sempre, la vegetazione era rigogliosa a quasi tutta che variava dai toni del verde scuso al blu, il terreno e il cielo grigi.
Il cielo lì era arancione, il che probabilmente poteva attribuirlo agli incendi, il sole stava calando e quel pianeta aveva un’unica luna, che si rifletteva nel cielo, era di colore un rosso vivo. I colori intorno a sé erano caldi: il terreno marrone chiaro, l’erba era gialla, ma non sembrava affatto secca, vi erano innumerevoli alberi e arbusti che non aveva mai visto, tutti che passavano dai toni dell’arancio, del rosa, dell’indaco chiaro.
Ma quello che attirò per primo il suo sguardo fu il totem di pietra: ora che ci era davanti vedeva con chiarezza tutto quello che sua nonna cercava di mostrargli con le sue storie. Era un albero enorme, il suo tronco era quasi del tutto fatto di roccia grigia con luminose venature azzurre a percorrerla. Sembravano quasi incise da un artista, non riusciva a credere che quei disegni fossero naturali.
Le radici del totem erano anch’esse di pietra, si disperdevano come una corona tutto intorno al mastodontico tronco dell’albero, sembravano scomparire nella terra, poi riaffioravano e si alzavano a creare massi di roccia azzurra alti parecchi metri. Alcuni erano incavati, come delle case; da altri si aprivano delle crepe da cui fuoriusciva acqua cristallina che creava piccole pozze.
Il totem di alzava verso il cielo per centinaia di metri: le sue fronde ricadevano verso il basso, come lunghe liane. Le foglie erano azzurre come le venature della roccia.
Quando gli umani misero piede sulla superficie si alzò il vento: un vento caldo che sembrava provenire dall’albero totem.
Iwaizumi si bloccò prima di fare un passo, costringendo i suoi compagni a fare lo stesso. Le tute erano ermetiche e l’ossigeno arrivava ai loro polmoni senza problemi, nonostante secondo l’analisi del computer l’aria lì fosse respirabile.
«Computer analizza di nuovo l’aria» sussurrò il capitano.
«Analisi in corso» annunciò il computer, ci mise meno di un minuto a dare il suo responso «analisi immutata, aumentati livelli di una biomolecola sconosciuta portata dal vento, non sembra essere letale.»
Hajime non si fidò per nulla.
«Che succede?» chiese Hanamaki.
Il capitano non gli rispose, si piegò su un ginocchio e parlò prima al computer «Prendi campioni di questa biomolecola, voglio che la analizzi.»
«Iwaizumi che stai facendo?» continuò Matsukawa.
«Siamo qui per aiutare» urlò in quel momento Hajime «hai chiesto aiuto, siamo qui per salvare i tuoi figli.»
Il suo equipaggio lo guardava come se fosse impazzito. E forse lui lo era davvero, ma quell’albero, quell’essere senziente che aveva ora davanti, doveva sapere che erano lì senza cattive intenzioni. Probabilmente di umani ne aveva visti di un solo tipo, e la creatura sarebbe stata pronta a proteggersi, a proteggere.
«Il totem» spiegò Iwaizumi rialzandosi in piedi, mentre il computer gli comunicava che i livelli di biomolecola erano aumentati, così come il vento «è un essere vivo e senziente, non fate nulla che possa renderlo aggressivo.»
Nessuno sembrava convinto di quello che aveva appena detto.
«Cercate i feriti e portateli a bordo, Yahaba appena arriviamo con i primi inizia ad assisterli come meglio puoi.»
«Dobbiamo solo sperare che siano abbastanza umani perché i farmaci abbiano effetto» sussurrò l’altro demotivato.
 

C'erano attimi di vita quotidiana, calpestati, distrutti, bruciati, ovunque.
Gli esseri abitanti di quel pianeta avevano lasciato le loro impronte, Hajime riusciva a vedere la vita nascosta dal massacro che era avvenuto da poco.
Trovò i primi cadaveri dopo quasi dieci minuti di marcia: aveva aggirato una grande radice del totem alta almeno quattro metri e spessa il triplo al cui interno erano state scavate vere e proprie abitazioni. Le porte erano state scardinate o bruciate, l'interno devastato. 
Dietro queste case si apriva un campo di alta e fine erba arancione, lì aveva visto il primo corpo. Aveva riconosciuto l'aspetto umanoide, una coda anche, il resto era troppo carbonizzato per definirne altri particolari.
«Computer isola l'aria all'esterno» disse a denti stretti Iwaizumi «aumenta l'ossigeno.»
«Tuta sigillata, ossigeno già al massimo» replicò il computer.
Allora la puzza di morte è nella mia testa pensò lui evitando di guardare ancora il corpo e passando oltre.
Il tronco del totem aveva un diametro di almeno cinquanta metri e Hajime era quasi sicuro che i rami più alti fossero distanti dalla terra più di quattrocento metri, ci mise parecchio tempo ad esplorare una piccola parte dell'oasi.
Ebbe la certezza che tutta quella era opera dello Stato quando trovò in una distesa bruciata anche qualche corpo umano, le classiche tute dei soldati assaltatori, delle armi al plasma abbandonate vicino ai corpi.
Non aveva trovato sopravvissuti, l'odore della morte cominciava a dargli alla testa, stava per chiedere al computer di dargli ubicazioni più precise per ritrovare i superstiti quando in lontananza, di nuovo vicino alle radici, vide un bagliore azzurro pulsante.
Ne fu attratto immediatamente. Si fece largo tra bassi arbusti violacei che rilasciavano pollini alieni al suo passaggio, passò di nuovo vicino a case sventrate, fino ad arrivare alla sorgente di quella luce.
Una radice più grossa delle altre aveva scavato al suo interno, dall’acqua presumibilmente, una specie di stalagmite, un obelisco: si rifletteva sulla piccola polla l'acqua, che sgorgava anch'essa dalla roccia della radice. Era quell'obelisco a brillare di quell'avvolgente luce azzurra.
Voleva avvicinarsi ancora, voleva sfiorarne la superficie perfetta.
Inciampò in qualcosa e non cadde a terra ritrovando all’ultimo l’equilibrio: solo in quel momento riuscì a mettere a fuoco i contorni di quella scena. Ammassati vicino a quell'obelisco luminescente c'erano decine di corpi.
Hajime non riusciva a decifrarne i contorni carbonizzati, ma dalle dimensioni capì che la maggior parte dovevano essere bambini.
Sentì le gambe cedergli e la luce divenne più intensa, si appoggiò alla pietra che pulsava alla sua sinistra, a ritmo con l'obelisco, veloce come il suo cuore.
Non poteva dire di non averne viste tante nella sua breve vita, erano in guerra da prima che lui nascesse, lui stesso aveva ucciso, ma ora era diverso.
Quel posto era puro, indifeso. Non avrebbe dovuto conoscere quella devastazione, quella morte. L'aria cominciava a mancargli e strizzò gli occhi perché iniziava a sentir le lacrime offuscargli la vista. Quelli lì riuniti erano quasi tutti bambini, come si poteva?
«Mi dispiace...» sussurrò Hajime piano.
L'obelisco brillò con più forza per un'ultima volta, poi si spense, mentre dopo qualche istante anche l'acqua smise si sgorgare dalla radice.
Era morto.
«Ca...tano?»
Non aveva trovato sopravvissuti, era tardi.
«Iwaizumi!»
Era Hanamaki, urlava e la sua voce risuonava chiara nel casco del capitano.
«Ci sono» disse piano Hajime rimettendosi in piedi, voltando le spalle a quella scena.
«Abbiamo trovato dei superstiti, ma i radar hanno visto movimento sospetto all'apice opposto del pianeta, dobbiamo andarcene ora.»
Si riscosse Iwaizumi, non era certo il momento per lasciarsi andare, doveva rimanere vigile e impassibile, aveva una missione da portare a termine, ormai per il totem era tardi.
«Quanti?» chiese solo il capitano, iniziando a correre verso la loro nave.
«Cinque vedette dello Stato» lo informò Matsukawa «e i superstiti sono tre.»
 

Vide sparire l’oasi quasi al rallentatore: la loro partenza aveva alzato il vento che si insinuava fino agli alti rami del totem, muovendoli pigramente.
Osservò allontanarsi il tutto; abbandonare il pianeta fu straziante. Hajime non trovò nella sua mente, ancora scossa, un sinonimo migliore per le sensazioni che stava provando in quel momento.
L’albero, il totem, quell’essere vivente senziente, che da piccolo lo aveva sempre affascinato era morto davanti ai suoi occhi. Aveva brillato un’ultima volta in quel piccolo obelisco di roccia azzurra, probabilmente aveva assistito anche lui al massacro, forse non aveva potuto fare nulla.
Come te. La voce nella sua mente rimbombava cattiva, ma veritiera.
Erano arrivati tardi, forse avevano per poco scampato un’imboscata delle navi vedetta nemiche, in ogni caso quel viaggio, quella missione di speranza, non era assolutamente andata come se l’era immaginata, come l’aveva progettata.
«Capitano?» lo chiamo Yahaba.
Hajime si riscosse, i pensieri che vorticavano ancora veloci nella sua mente, la testa che continuava a pulsare, a fare male «Dimmi» rispose secco, forse troppo.
«Ecco, qui può aiutarmi Watari» disse il medico indicando i due esemplari femmina stesi sul tavolo dell’infermeria improvvisata che era diventato la stanza di studi biomolecolari della nave «dovresti parlare con il terzo superstite, stava bene, è scosso, ma forse possiamo capire cosa è successo.»
Iwaizumi si concesse uno sguardo alla bambina e alla vecchia circondate da monitor ed entrambe con un ago in un braccio: la seconda era vigile, ma non aveva aperto bocca e continuava a guardarli con paura, la bambina era ancora svenuta.
«Vado subito» disse Hajime «impiantatele un traduttore, non capisce cosa diciamo e immagino sia davvero spaventata» concluse indicando l’anziana.
Lasciò la camera diretto alla sala panoramica, era lì che avevano lasciato l’ultimo alieno trovato, l’unico che sembrava non aver subito niente di grave a parte una bruciatura superficiale ad una gamba che Yahaba si era già premunito di disinfettare e bendare.
Davanti al portellone principale digitò con mani tremanti il codice che apparve come ologrammi a sinistra sul muro grigio, poi la porta si aprì. Fece fatica ad individuare l’alieno: la sala panoramica di solito la usavano per le riunioni o quando ospitavano a bordo altri capi di navette spaziali. Era ovale e metà del muro, come il soffitto, era di metallo trasparente, permetteva la vista del buio spazio. Hanamaki gli aveva giurato che a lui quella sala dava una nauseante sensazione claustrofobica, sembrava di avere sopra la testa l’immensità dell’universo che ti schiacciava.
A lui piaceva: gli piaceva fissare le profondità ignote, da bambino avrebbe passato ore a decidere per ogni stella che vedeva, quale strana razza aliena ne avrebbe abitato i pianeti orbitanti intorno. Gli piaceva perché sentiva la voce dell’universo, la voce dell’uomo e la voce di tutti quegli altri essere che loro non avevano ancora scoperto, sentiva il loro canto, diceva sempre sua nonna. Ma in quell’istante non sentì nulla di quello, vi era solo un silenzio opprimente e claustrofobico, proprio come diceva Hanamaki.
L’alieno era rannicchiato nel posto più lontano dalla porta, ma sentendo questa aprirsi aveva alzato il volto di scatto, drizzandosi in piedi prontamente, cercando di non caricare troppo la gamba destra, fasciata da sopra il ginocchio alla caviglia, e fissandolo a metà tra lo spaventato e il furioso.
Hajime rimase immobile nel vederlo, incredulo, cercando di imprimersi nella mente i dettagli della sua forma. La pelle era chiara, non come da bambino lui se l’era immaginata, sarebbe quasi potuta sembrare umana, come la sua intera fisionomia, era praticamente uguale a lui escludendo qualche dettaglio, a cominciare dalla coda. Era lunga almeno quanto un suo braccio ricoperta di pelo dello stesso colore dei capelli, dal riflesso della sua schiena sul vetro in realtà vedeva che i capelli stessi, al posto di fermarsi alla base del capo, come quelli umani, scendevano giù per la spina dorsale, e immaginava si congiungessero con quelli della coda.
Sul capo aveva due antenne, spesse almeno come le dita, arricciate su loro stesse, come una molla; gli occhi erano grandi e luminosi, scuri da quel che riusciva a scorgere dalla distanza, e con le pupille verticali, di quello ne era certo. Da sotto i capelli castani sbucavano delle orecchie a punta. Il viso era armonioso e ben delineato. Indossava una tunica che lasciava il torace scoperto e riuscì a vederci sopra quello che sembrava un tatuaggio dalle forme sinuose, si arrampicava sull’addome e sul petto, ad arrivare alla clavicola destra. Era azzurro, come le venature che percorrevano la pietra del totem. Hajime si prese qualche istante a fissarlo ancora, somigliava davvero tanto ad un essere umano, eppure la coda, quelle orecchie, il disegno sulla sua pelle, gli conferivano un aspetto esotico e forte. Il suo sguardo era invece spezzato, e quello riuscì a vederlo nonostante la maschera di rabbia.
Lo trovò bellissimo.
Scacciò con convinzione quell’ultimo pensiero scuotendo la testa e decise di avvicinarsi.
L’alieno si appiattì di più contro la parete a quella sua mossa.
Hajime si bloccò, alzò le mani cercando di non fare movimenti bruschi «Non ti voglio far del male» disse lui, sapendo comunque che l’alieno non l’avrebbe capito, ma cercando in qualche modo di trasmettergli tranquillità con le sue parole.
L’alieno aprì la bocca e parlò, in un suono melodioso e incomprensibile.
«Computer» disse il capitano «traduci.»
«L’essere chiede chi sei» rispose prontamente il computer. L’alieno si spaventò nel sentire la voce robotica provenire dal nulla e cominciò a guardarsi intorno ancora più spaventato.
«Digli che siamo qui per salvarlo, e digli che deve prendere le capsule, attaccarne una dietro l’orecchio e l’altra su un dente, in modo che possa capire quello che dice» spiegò Hajime, e il computer tradusse subito per lui.
L’alieno ascoltò la voce robotica spiegargli cosa doveva fare, ma non si mosse continuando a guardare l’umano con diffidenza.
«Andiamo, non ti voglio fare del male» ripeté piano Hajime avvicinandosi a lui e tenendo in mano le due capsule. Lo guardò per lunghi istanti, senza muoversi, poi alla fine fece qualche traballante passo in avanti ed eseguì quello che gli era stato detto.
«Ora comprendi ciò che dico?» chiese Hajime una volta che le capsule furono posizionate.
Quello si spaventò nel notare che ora riusciva a capire «Sì» rispose piano, la sua stessa voce che usciva dal microfono della capsula posizionata in bocca.
«Benissimo, puoi stare tranquillo, non voglio farti alcun male» ripeté Hajime di nuovo, cercando di imprimerci tutta la fiducia di cui era capace «siamo venuti sul vostro pianeta per salvarvi, mi spiace non siamo arrivati in tempo.»
«Voi… voi cosa siete?» chiese l’essere continuando a fissarlo.
«Siamo esseri umani, siamo gli abitanti di questa galassia, voi siete gli alieni del terzo pianeta e discendete da noi umani» spiegò.
L’alieno lo guardò con occhi spalancati, probabilmente dargli quel genere di informazione, nella sua attuale situazione, poco stabile, non era stata forse una grande idea.
«Esistono altri mondi abitati?» rispose piano quello.
«Sì, ce ne sono moltissimi.»
«Perché ci avete fatto questo?» cambiò repentinamente discorso lui «sono arrivati giganteschi uccelli luccicanti e hanno iniziato a bruciare tutto, tutto il popolo… e la Gemma piangeva» si piegò in avanti portandosi una mano alla bocca, tremava.
Hajime fece un passo avanti, allungando una mano verso di lui e come risultato l'essere cercò di allontanarsi di scatto, finendo per cadere a terra.
Non tentò più ad avvicinarsi in quel modo, ma il capitano si inginocchiò a terra sospirando «Giuro, non ti voglio far del male» cercò di rassicurarlo di nuovo «la galassia è in guerra da centinaia di anni, lo Stato, così si chiama, ha attaccato il vostro pianeta. Loro hanno già devastato decine di mondi e noi cerchiamo di combatterli. Mi spiace, mi hanno mandato in missione sul vostro pianeta per riuscire da avvertirvi, a salvarvi in qualche modo» a verificare la vostra esistenza, ma quello non lo disse «non siamo arrivati in tempo, perdonaci.»
Chiedere scusa a quell'alieno non avrebbe cambiato nulla, ma Hajime sperava in qualche modo di redimersi, non per se stesso, ma per l'intera razza umana che aveva compiuto quello scempio. Sapeva che non sarebbe servito a niente comunque.
L'essere lo aveva fissato durante il suo discorso, senza davvero guardarlo, prese un respiro profondo «Sono piovuti giù dal cielo all'improvviso» iniziò «loro... avevano il fuoco e non potevamo scappare. Ho visto arrivare anche voi dopo, pensavo fossero tornati per finire il lavoro. Cosa mi succederà ora?»
«Ti porteremo al sicuro, non sarete più in pericolo lì, te lo prometto.»
Sorrise a quel punto «Mi hai salvato, grazie.»
Ma non ho salvato gli altri pensò amaramente Hajime, prima di concentrarsi su quel mezzo sorriso spezzato.
«Come ti chiami?» gli chiese.
La risposta non fu tradotta dalla capsula, era un nome lungo e quasi impronunciabile per lui.
«Computer cercami delle traduzioni» disse Hajime.
«Versione corrente di traduzione in base al significato, aggiornata alla più veritiera e breve: Oikawa Tooru.»
Oikawa, poteva pensare a lui con quel nome tradotto adesso, fissò il soffitto da cui proveniva la voce del computer, poi si rivolse di nuovo a lui «E tu come ti chiami?»
«Sono Iwaizumi Hajime» rispose.
«La tua strana voce di metallo crede che il mio nome sia difficile, ma anche il tuo lo è» ammise Oikawa, sembrava essersi calmato dopotutto.
«Forse» borbottò Hajime, il che fece sorridere di nuovo l'alieno.
Bellissimo.
«Ti va di raccontarmi bene cosa è successo, ci servirà qualsiasi informazione» disse Iwaizumi cercando di cancellare dalla mente quello che continuava a pensare.
Era strano ed inappropriato.
Il sorriso scomparve sul volto dell'altro che si trovò ad annuire stancamente, iniziando a raccontare.
 

La nave spaziale atterò ad Aomina appena un giorno dopo rispetto a quando era partita. Ma con lei non arrivarono anche le buone notizie attese dai ribelli.
Non c’era speranza, e quei messaggi di morte e distruzione avevano sempre lo spiacevole effetto collaterale di espandersi come una macchia tra i pianeti, gettando nella paura la popolazione.
Nonostante ciò l’equipaggio fu lodato a lungo per il loro, seppur piccolo, salvataggio.
Hajime non ci vedeva nulla di eroico in tutto quello, anzi avrebbe preferito non vederci nulla di eroico.
Ma prima che Oikawa venisse portato al centro medico specializzato, insieme all’anziana e alla bambina, gli si era avvicinato ancora. Questa volta nei suoi occhi aveva brillato la gratitudine.
Era rimasto senza parole nel mettere per la prima volta i piedi su un pianeta diverso dal suo, ma sembrava che stesse affrontando il tutto con molto coraggio, o almeno così pareva trasmettere.
E allora, poco prima di seguire i medici, aveva voluto regalare ad Hajime poche parole.
«Grazie per avermi salvato Iwa-chan» aveva sussurrato, cercando in tutti i modi di sorridere.
Iwaizumi si sarebbe arrabbiato in un’altra occasione, per il modo infantile in cui aveva storpiato il suo nome. Non aveva avuto modo, in ogni caso, di replicare nulla, aveva guardato il suo volto ancora una volta, decorato da quel sorriso così vero, da far male agli occhi, alle ossa, al cuore.
Allora, in quel momento, ci aveva visto qualcosa di eroico, in quella missione.
Dalle ceneri di quel pianeta distrutto e bruciato, era riuscito a salvare quel germoglio di vita e per un attimo, si era sentito la persona migliore della galassia.
Una singola vita nello sconfinato universo, ma quella vita forse, era abbastanza.























Angolino

Salve mondo, grazie per essere sopravvissuti fino in fondo :D
Qui di solito iniziano le mie giustificazione ed infatti proprio quelle stanno arrivando >///<
Il contest è stato solo una pretesa per tornare a scivere sul fandom, avrei voluto far ritorno con il botto e magari cambiare coppia... già, chi voglio prendere in giro? Perdonatemi gente, ma frano sempre più a fondo nell'inferno Iwaoi, non ci posso far nulla ;_;
Beh come già annunciato nell'introduzione questi saranno tre capitoli, il tema è un misto tra avvenuta e sci-fi, ci saranno alieni, navi spaziali e un po' di termini alla rinfusa tirati fuori dai miei film di fantascenza preferiti, che mi hanno aiutata per la stesura di queste pagine! Ho inventato i nomi dei pianeti, dei sistemi, spero di non aver inventato le regole della fisica alla base dei viaggi spaziali, ma essendo a conoscenza della mia ignoranza in materia (giuro nei prossimi capitoli mi rifaccio con termini medici che almeno quelli li conosco sì ma non frega a nessuno), chiedo preventivamente perdono! Potrei aver violato cinque o sei teoremi che regolano l'universo... ma la fisica mi odia ç_ç
Quindi nulla, come al solito spero di non essere scaduta nell'ooc (perché lo odio un sacco), ho aggiunto qualche nuovo personaggio giusto per dare una cornice alla storia, ma i principali saranno solo i carissimi membri del club di pallavolo dell'Aoba Jousai °w°
Spero di aver detto tutto, il prossimo capitolo lo pubblicherò nel weekend o al più tardi lunedì prossimo. Grazie a tutti quelli che sono arrivati a leggere fin qui, vi mando un graaaaande bacio *3*
Alla prossima!

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Capitolo 2
*** Intreccio ***


2. Intreccio 



«Ehi Tooru, allora sei pronto?»
I piedi penzolavano giù, verso l’alta erba arancione che ricopriva il campo dei frutti estivi.
Il cielo andava scurendosi, la luna era già sorta, i due soli gemelli stavano tramontando.
«Allora?»
Tooru frustò l’aria con la coda ridacchiando divertito e voltandosi verso suo nipote «Hai davanti a te il Re di quest’anno Takeru.»
«Wow» esclamò il bambino con un gran sorriso «io ti supererò quando sarà il mio turno però!»
Dall’albero campana su cui erano seduti iniziarono a disperdersi i pollini rossi che vorticarono verso il cielo sospinti dal vento.
«Vincerai quindi» ripeté Tooru fissando il cielo, l’estate era vicina, la corsa del Re sarebbe arrivata, Takeru sognava la gloria, per quando sarebbe arrivato il suo turno. 
Tooru, che si era allenato allo sfinimento per la tradizione più importante in onore della Gemma, non avrebbe fallito.
No, so che non fallirai.
“Ascoltami Gemma, vincerò” si ripeté ancora posando una mano su una delle radici della Gemma che arrivavano fin sopra l’albero campana “vincerò!” le venature della Gemma brillarono d’azzurro, così come il marchio sul suo torace.
«Oh Gemma, aiuta Tooru nella sua corsa, lo sai quanto si è impegnato, vero? E poi sennò chi lo sente, se non dimostrerà di essere il migliore?» Takeru aveva anch’esso posato le mani sulla radice e comunicava con la Gemma, il suo marchio che brillava.
«Dannato ragazzino non dire così!» si lagnò Tooru cercando di acchiapparlo, ma quello era già sceso dall’albero campana con un balzo ed era corso via ridendo.
Non lo inseguì, si perse a fissare il cielo ancora per un attimo, le stelle iniziavano ad illuminarsi sulla volta celeste, erano così lontane, così belle. Alzò le mani, come a sfiorarle.
«Perché continui a guardare le stelle?»
«È una cosa così stupida.»
Gli altri bambini avevano sempre riso di lui, ma a Tooru importava poco. Quello che c’era al di là della Gemma, del loro cielo, cos’era in realtà? C’erano altri mondi lontani? C’erano altri esseri?
L’universo lo chiamava e lui non poteva far altro che guardarlo, notarlo, ascoltarlo, gli piaceva sentir la sua storia, gli piaceva sussurrargli “Io so che c’è dell’altro”.
Quello superava tutto forse, le cattiverie degli altri bambini, il duro lavoro per la corsa del Re, la Gemma stessa.
“Avvera il mio desiderio Gemma.”
Mi dispiace, figlio mio, avrei dovuto ascoltarti ed esaudire il tuo desiderio in modo diverso, perdonami.
 

 
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - -

 
Dopo la missione di salvataggio del terzo pianeta Primo Sguardo Hajime e il suo equipaggio erano ripartiti immediatamente.
I tempi, per quelli come loro, non erano mai adatti ai festeggiamenti, avevano il loro lavoro, avevano la loro guerra.
Il comando centrale dei ribelli li aveva inviati nei sistemi di confine, dove gli scontri contro le navi dello Stato erano qualcosa di quotidiano.
A pagarne le conseguenze erano, spesso, pianeti che venivano saccheggiati di risorse, disinfestati da qualsiasi forma vivente, uomini compresi; spesso distrutti dagli incrociatori con cannoni al plasma denso.
Tutti sulla nave spaziale capitanata da Iwaizumi, sapevano che era così che la guerra riduceva la galassia.
«Ma non possiamo chiudere gli occhi» ripeteva spesso Kunimi «anche se siamo abituati a vedere questa violenza continuamente, non deve diventare la normalità. La galassia non si merita tutta questa distruzione per mano nostra, né di ricevere solo come commento finale "Tanto è normale" da parte dei carnefici.»
Hajime vedeva che il giovane ragazzo fosse quello con l'animo più sensibile lì a bordo. Trovava conforto e coraggio quando ripensava alle sue parole.
La sua saggezza potrebbe salvare i mondi che sono sull'orlo del collasso.
Ma agli umani non era mai piaciuto ascoltare, era meglio l'impulsività, portava più spesso alla conquista del potere.
Quella storia era fin troppo vecchia e già troppe volte sentita, quando ci pensava finiva per annoiarsi e per spronarsi allo stesso tempo. Non capiva come fosse in grado di tirar fuori due sentimenti così contrastanti per quella faccenda.
Erano rimasti nei sistemi di confine per quasi tre mesi, solo a vedere la morte.
Non poteva continuare così: la resistenza era in piedi da una cinquantina di anni e il risultato quale era stato? Un sesto della galassia liberato certo, ma non riuscivano a fare di meglio. Lo Stato aveva fonti migliori, energie migliori, più uomini. Era da una decina di anni che si era arrivato ad un simil-compromesso tra le due fazioni: lo Stato avrebbe lasciato perdere i ribelli a patto che questi non intralciassero il loro piano. Ma le richieste di aiuto dai pianeti soggiogati al loro volere arrivavano di continuo. Quella finta pace spesso non bastava e quando finiva, come in quel caso, in combattimenti galattici, ci andavano di mezzo innocenti e floridi pianeti. A volte i ribelli vincevano certo, ma liberare tutta la galassia? Sembrava solo un bel sogno.
Atterrarono nella pista proprio dietro al palazzo militare: era lì che tutte le squadre che appartenevano alla divisione del sistema St-116 alloggiavano. Quasi tutti gli equipaggi erano o di quel sistema o dei due più vicini, Hajime sapeva ad esempio che Kyoutani e Kindaichi venivano dal sistema St-114, mentre Yahaba e Watari erano del pianeta Riot-2, io secondo più grande del loro sistema. Lui, Hanamaki, Matsukawa e Kunimi erano invece nati lì, su Riot-4, gli ultimi due erano proprio della capitale.
In ogni caso, da qualunque pianeta o sistema uno venisse, se faceva parte di un equipaggio si aveva davvero poco tempo libero per tornare a casa, quindi era stato creato il palazzo militare, dove loro vivevano in attesa di partire di nuovo ed immergersi nello spazio.
«Sono arrivati i rapporti dettagliati sul pianeta Primo Sguardo 3» disse Matsukawa, visualizzando l’ologramma delle notizie recenti dal polsino computerizzato.
«Hanno deciso di chiamarlo così, alla fine?» brontolò Hanamaki «potevano inventarsi di meglio» concluse sbadigliando.
«Ci darò un’occhiata appena arrivato in stanza» disse Hajime.
I tre stavano percorrendo il corridoio principale dopo aver fatto rapporto ai piani alti. Avevano appena superato la sala addestramenti quando Matsukawa si bloccò; stava continuando a leggere il rapporto.
«Che succede?» chiese preoccupato Hanamaki, una stilla di ansia intrisa nella sua espressione mentre guardava il co-pilota.
«La bambina» spiegò piano lui «non sono riusciti a salvarla»
Hajime strinse i pugni trattenendo il respiro. La bambina era la più grave dei tre quando si erano lasciati alle spalle il pianeta Primo Sguardo 3, ma sapeva, sperava, che sarebbero riusciti a salvarla.
Forse se fossero arrivati prima, se l’avessero trovata in condizioni migliori…
«Ma gli altri due stanno bene» continuò Matsukawa «la donna è ancora scossa e data l’età ha lasciato l’ospedale solo la scorsa settimana, l’hanno sistemata vicino al centro ricerche, come era prevedibile.»
«E l’altro?» chiese di getto Hajime, alzando lo sguardo.
«Vediamo…» l’altro fece scorrere il dito sull’ologramma «dimesso già da due mesi, è stato al centro ricerche per una settimana intera» spiegò, poi gli scintillarono gli occhi «adesso è qui.»
«Qui?» chiese sorpreso il capitano «davvero?»
Matsukawa indicò solo alle spalle dei due compagni che si girarono all’unisono.
Era cambiato.
Fu la prima cosa che colpì Hajime, aveva trovato un ragazzo dall’espressione vuota e dagli occhi spaventati, una delle tante vittime di quell’inutile guerra; mentre ora aveva davanti un giovane con sguardo fermo e fiero che sventolava una mano sorridendo.
«Ehilà» salutò contento.
Quella fragilità sembrava esser sparita.
«Oh guarda, ti sei ripreso proprio bene.»
«È un piacere rivederti.»
I due piloti lo salutarono altrettanto sorridenti, Hajime invece rimase zitto a fissarlo.
«Iwa-chan, tu non mi saluti?» montò su un’espressione offesa guardandolo a sua volta.
Il capitano fece solo in tempo a sentire i due piloti soffocare le risate, colpa di quel dannato nomignolo, ne era certo, poi li fulminò entrambi. Riuscirono a scappare in tempo solo perché il polsino di Hanamaki iniziò a lampeggiare, la chiamata in corso era da Watari.
«Oh beh mi sa che il propulsore d’emergenza ha deciso di funzionare di nuovo» disse, poi fece segno al compagno.
«È stato un piacere rivederti» disse Matsukawa ad Oikawa «capitano, ti faremo rapporto dopo.»
I due se ne andarono, e il loro dannato sorrisetto irritò Hajime fin troppo.
Fu però costretto a concentrarsi di nuovo sull’alieno che continuava a guardarlo indignato. Non aveva più i suoi abiti tradizionali, era vestito come un qualunque membro di un equipaggio intergalattico, certo dovevano aver modificato la tuta perché riusciva ad intravedere alle sue spalle la coda. Una linea perfettamente verticale divideva le sue sopracciglia sottili, gli occhi scuri enigmatici.
«Quindi stai bene» riuscì a dire Iwaizumi, il silenzio come quello lo metteva a disagio.
Oikawa sorrise divertito «Sei così felice di rivedermi che sei senza parole, Iwa-chan?» chiese divertito.
Hajime gli lanciò un’occhiataccia «Non chiamarmi così, è imbarazzante» borbottò.
«Ma è un soprannome come un altro» replicò lui «puoi darne uno anche a me, se vuoi»
Troppo sicuro di sé, era davvero la stessa persona che aveva salvato tre mesi prima?
Sospirò «Perché questa strana fissa?»
Era davvero tutta lì la conversazione che riusciva a fare con un alieno, a cui indubbiamente aveva pensato molto nell’ultimo periodo? Hajime era una persona pratica, non gli piaceva perdersi in tante parole, da bambino amava sognare, crescendo aveva incominciato a vedere la realtà con occhi concreti. I discorsi futili di sicuro non facevano per lui, ma in quel caso…
Oikawa gli si avvicinò fino a trovarsi di fronte a lui, sempre sorridendo, fin quando si aprì una crepa nel suo volto, Hajime rivide quel ragazzo spaventato e tremendamente umano, durò un istante, poi tornò ad essere l’alieno perfetto, col suo perfetto sorriso, che aveva davanti.
«Dovrei ancora ringraziarti» disse «anche se Mei-chan non…» si fermò soppesando le parole «io e la nonnina siamo salvi, tutto grazie a te e alla tua squadra.»
Iwaizumi abbassò appena lo sguardo «Era la nostra missione» spiegò «ma avremmo dovuto far di più.»
Oikawa sorrise poi inaspettatamente prese una sua mano e la strinse forte tra le sue, per poi portarsela alla fronte e poggiarvela per qualche istante «Grazie» sussurrò di nuovo.
Hajime rimase sorpreso da quel gesto, ma immaginò fosse un’usanza del suo popolo, ringraziare in quel modo.
Si schiarì la voce dopo un attimo di imbarazzo «Quindi che ci fai qui?» chiese.
«Mi hanno detto che posso stare dove voglio» rispose lui «mi hanno visitato molto all’inizio, forse per cercare di capire cosa i nostri corpi hanno di diverso dai vostri. Ora posso far quello che desidero, mi hanno dato una stanza qui, e mi piace guardare i guerrieri che si allenano.»
Hajime non li avrebbe mai definiti guerrieri, ma soldati, ma non indagò meglio sulle parole dell’altro «Stai imparando la nostra lingua?»
Annuì con vigore «Sì ho anche studiato molto, ho scoperto che la lingua che parlavo a casa deriva da un dialetto che usavate voi umani tantissimo tempo fa» spiegò «è stato divertente, e io lo sapevo…»
«Cosa?» chiese Iwaizumi curioso.
Tooru lo guardò divertito, poi senza preavviso gli afferrò un polso e cominciò a trascinarlo «Vieni Iwa-chan, ti faccio vedere.»
Ancora con sto Iwa-chan pensò Iwaizumi quasi infastidito, ma non oppose resistenza e si lasciò trascinare chissà dove.
Non fecero molta strada, oltre la sala di addestramento c’era una porta di metallo trasparente che dava sul giardino interno del palazzo, Oikawa non superò la porta, ma rimase fermo davanti ad essa ed indicò il cielo.
«Da piccolo» iniziò «guardavo sempre il cielo e mi dicevo che doveva esserci qualcun altro… forse l’ho desiderato troppo, per questo il mio popolo» si fermò e Hajime lo rivide di nuovo, nascosto dietro quel sorriso fin troppo sforzato c’era il suo vero sguardo, ancora triste, ancora spaventato «nonostante questo voi mi avete salvato, quindi esistete, avevo ragione.»
Aveva un caro prezzo ammettere quelle parole per lui, Hajime lo poteva immaginare, ma per la prima volta si sentì davvero vicino a quell’alieno. Probabilmente da bambini avevano fissato entrambi il cielo cercando di vedere più in là.
Quella dannata guerra li aveva fatti incontrare, l’universo aveva deciso per far sì che forse, in piccola parte, il sogno di entrambi si avverasse.
Hajime rimase a qualche passo da lui senza dir nulla, indugiò lì a fissare il cielo ancora per un po’.
 

Rimasero nella capitale per qualche settimana, Hajime dovette presentarsi a parecchie riunioni, come il suo rango richiedeva e per un breve periodo l'intero equipaggio si concesse una pausa.
Dal sangue e dalla guerra.
Yahaba sparì trasferendosi al centro ricerche, Oikawa gli disse che voleva soprassedere agli esami effettuati alla nonnina. I tre tiratori si allenarono soprattutto con i cannoni, Kindaichi diceva sempre che una buona mira si manteneva con duro allenamento.
A trattare fin troppo bene la loro nave Ace era rimasto Watari, che l'aveva lucidata da cima a fondo.
Matsukawa e Hanamaki avevano mantenuto il loro solito comportamento da bambini troppo cresciuti, e chissà come mai Oikawa con loro si trovava dannatamente bene. Hajime infatti aveva cominciato a non sopportarli tutti e tre.
In quel momento si trovava nella sala addestramento: uno dei requisiti fondamentali per i soldati, capitano o pilota o quant'altro, era il combattimento corpo a corpo.
Matsukawa parò il suo fendente dall'alto con un movimento più lento, ma efficacie.
Avevano molti tipi di armi, di solito preferivano averne di più modelli, fucili al plasma compresso associati ad armi a corto raggio; era sempre la scelta migliore se ti ritrovavi troppo vicino un nemico.
Erano armi a compressione di materia: venivano tenute legate alla cintura come cilindri non più lunghi di venti centimetri, una volta attivati si espandevano. Erano spesso delle semplici lance a doppia punta, volendo potevano essere coltelli.
Hajime tentò un nuovo affondo, ma questa volta andò a vuoto, il sudore gli imperlava la fronte, era stravolto.
«Sono curioso di vedere chi vomita per primo» disse Hanamaki seduto poco distante dalla pedana fluttuante dove i due si allenavano.
Hajime alzò gli occhi al cielo, ma non replicò anche perché Matsukawa fece scattare la sua arma che si ricompattò «Davvero, ora basta capitano, sono stravolto.»
Anche l'altro lo era, non ebbe nulla da obbiettare, si sedette lasciando penzolare le gambe al di fuori della pedana.
Un robot assistente arrivò in un attimo portando due bottigliette piene di soluzione defaticante, un misto di biomolecole utili dopo intensi sforzi fisici, disciolte in acqua.
«La prossima volta concedi la rivincita a Kyoutani, ha più resistenza di me» si lamentò il pilota sedendosi accanto ad Hanamaki e iniziando a bere grandi sorsate della bevanda.
Hajime ricordò come Kyoutani tentasse qualsiasi sfida fisica per mettersi alla prova contro di lui: combattimento, corsa, persino braccio di ferro. Ma non era riuscito a batterlo neanche una volta, come Yahaba spesso ripeteva.
Sorrise, lo vedeva come un modo sempre nuovo per spronarsi, quell'atteggiamento del ragazzo più giovane, e ricordando come aveva fatto fatica ad ambientarsi e a star dietro ai ritmi dell'equipaggio, non poteva che esserne felice.
Che i piloti avessero paura di lui, ad Hajime non importava.
La porta della sala addestramento si aprì in quel momento, fece il suo ingresso Oikawa.
«Iwa-chan! Makki! Mattsun! Vi state allenando?» esclamò salutandoli.
Questi dannati soprannomi pensò di nuovo Hajime, esasperato.
«Ohi Oikawa, come va?» chiese Hanamaki, solo perché Matsukawa cercava ancora di regolarizzare il respiro.
«Che cattivi, potevate chiamarmi» borbottò l'alieno.
E ovviamente quelle parole fecero scattare i due piloti, che videro davvero vicina, la libertà dalla morsa di Iwaizumi e dai suoi addestramenti massacranti.
Come volevasi dimostrare pensò proprio il capitano quando vide i due dileguarsi con una scusa inventata di sana pianta. Ma non si scoraggiò, aveva ancora abbastanza forze per continuare per un po’, almeno finché non fosse sceso il sole e salite in cielo le due lune.
Oikawa si sedette al bordo della pedana anti-gravitaria a fissarlo con interesse, tanto che dopo due affondi con la lama Hajime si bloccò per prestargli attenzione «Vuoi stare qui a squadrarmi tutto il tempo?» borbottò, lasciando trapelare dal suo tono una punta di imbarazzo.
«Non ti piace essere al centro dell’attenzione, Iwa-chan?» chiese lui divertito dalla sua reazione.
Sbuffò «Odio il pubblico» disse «quindi o ti lasci sfidare oppure ci rivediamo più tardi.»
L’altro era già balzato in piedi, andato a prendere un’arma, facendola scattare, cosicché si espandesse, prendendo la forma di una lancia.
Hajime però guardò il suo entusiasmo con un pizzico di scetticismo «Sei addestrato ad usare armi?» chiese per sincerarsene.
Lui annuì «È praticamente obbligatorio per i Primi» spiegò.
Ma Iwaizumi lo guardò interrogativo, così Tooru dovette spiegarsi meglio «Il popolo vive sotto la protezione della Gemma ed è diviso in più gruppi, in base ai lavori, i Primi sono la classe dei guerrieri che proteggono il popolo e vanno a caccia degli animali più feroci che vivono tra una Gemma e l’altra.»
Una casta militare tradusse nella sua testa Hajime riuscendo ad intendere a cosa l’altro si riferisse «Bene allora non ci andrò piano con te» decretò.
L’alieno rise divertito «Sono proprio curioso di vedere quanto sei bravo Iwa-chan.»
Fu divertente, ma anche educativo, avevano due stili totalmente diversi. Hajime notò che Oikawa tendeva a parare e schivare i suoi colpi, si ritrovò dopo mezz’ora buona con il fiatone, e aveva colpito l’avversario appena due volte. A quel punto fu l’alieno a sopraffarlo e a vincere la sfida.
Ovviamente la cosa lo fece imbestialire, perché alla fine, anche lui era tremendamente competitivo.
«Contro un Eduiari non avresti scampo combattendo così Iwa-chan, devi sfiancarlo a fondo e poi colpire, attaccandolo con quella forza bruta perderesti una gamba e poi lui ti mangerebbe la coda» Oikawa si sedette a terra ridendo, riprendendo fiato; sembrava felice, tranquillo, sembrava che l’orrore fosse sparito dai suoi occhi.
«Primo: cosa sarebbe un Eduiari? Secondo: io non ho una coda. E terzo: la prossima volta penserò io a staccare la tua» ribatté Iwaizumi lanciandogli un’occhiataccia.
«Non sai perdere, Iwa-chan?» ghignò divertito, l’espressione da schiaffi.
«Giuro che ti prendo a calci» sbottò di rimando il ragazzo.
«Che rude!» rise l’alieno, per nulla spaventato dalle sue parole «comunque un Eduiari è una delle bestie che vive nei territori morti tra le gemme, è difficile da cacciare.»
Hajime sospirò e si sedette accanto a lui passandogli una bottiglietta «Bevi, ti farà bene» borbottò.
Almeno questa volta non ebbe da ridire nulla e accettò l’offerta in silenzio.
Spiando la sua espressione Iwaizumi si accorse di una crepa nella sua espressione felice, una crepa nella maschera.
«Non dovrei tirarli fuori questi argomenti, vero?» chiese, quasi a se stesso, poi si girò a guardarlo «non vuoi parlare del tuo pianeta» era un’affermazione.
Il sorriso di Oikawa si distese per un attimo, poi tornò quello, quasi falso, di poco prima «Mi fa piacere raccontarti com’era la mia vita» disse «saresti potuto venire prima, a trovarmi, ti avrei portato per tutto il villaggio, fin sopra la Gemma, anche a lei saresti piaciuto Iwa-chan» disse.
Iwaizumi distolse lo sguardo, improvvisamente imbarazzato. Quel anche, detto con estrema delicatezza, lo rese inquieto «Non avevi amici? Non sembri certo il tipo che preferisce star solo.»
Lui fissò un punto lontano davanti a sé «Mmmh no, non avevo tanti amici» spiegò con leggerezza, come se la cosa non lo toccasse affatto «voi siete davvero simpatici invece.»
Più conosceva l’alieno, più non riusciva a capirlo: quel suo stano carattere aveva mille sfaccettature.
Gli aveva raccontato, in quel viaggio disperato quando si erano conosciuti, che le uniche due persone della sua famiglia erano sua sorella e suo nipote, ma Hajime non aveva chiesto dettagli su di loro, in fondo non erano tra i sopravvissuti, e poteva immaginare tutto senza che l’altro tirasse fuori altri discorsi dolorosi. E di tutti gli altri suoi racconti, spesso legati alla vita di tutti i giorni, che aveva potuto sentire in quelle settimane, in effetti non aveva mai ascoltato nomi diversi da quello del nipote o della sorella.
Era solo.
Lo era in quel momento, lo era stato anche prima che Iwaizumi lo conoscesse, prima che l’umanità devastasse il suo mondo.
Eppure, in quel modo così bizzarro e contorto, per lui era stato facile avvicinarsi ad Oikawa, ci si trovava stranamente bene insieme, nonostante spesso facesse commenti inopportuni o lo prendesse velatamente in giro. Era strano certo, ma a lui non dispiaceva.
«Qui stai conoscendo tantissime persone» disse allora Hajime «e sembra che tu piaccia a tutti.»
«Spero non sia solo perché sono diverso, la novità rara» fece una smorfia sulle ultime parole.
«Hai sentito qualcuno dirlo?» domandò.
Voltò il viso indignato, intenzionato a non rispondere.
Così Hajime si ritrovò a sospirare «Non tutti hanno le stesse idee» disse alla fine «ma se davvero ricerchi dei compagni, amici, perché non chiedi che ti lascino venire sulla mia nave? Il mio equipaggio ne sarebbe felice.»
Oikawa lo guardò con ritrovato interesse «E andremmo ad esplorare e salvare altri pianeti?»
«Beh è più o meno quello che facciamo» spiegò «ci sono spesso anche missioni prettamente commerciali, a volte anche diplomatiche»
«Sarebbe bellissimo» cinguettò lui, di colpo tornato felice, e Iwaizumi ne fu contento, non capiva perché non riuscisse proprio a reggere quel suo sguardo spezzato.
«E tu Iwa-chan?» chiese poi.
«Io cosa?»
«Tu saresti felice se potessi venire con te, sulla tua nave?»
Hajime dovette reprimere un insulto sul nascere, che però poi venne fuori spontaneo quando Oikawa aggiunse, vantandosi in modo spudorato “dopotutto sono famoso adesso”.
«Che cattivo!» accusò l’alieno quando Hajime, con poco tatto gli tirò una gomitata, e continuò a ricevere incessanti lamentele dall’altro per il resto del pomeriggio.
 

 
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Era il migliore.
Tooru cercava in qualche modo, infantile certo, di convincersi che fosse così. Ma era evidente, inconfutabile.
Non era stato il migliore. Forse non lo sarebbe mai stato.
Si era allenato per una vita per poter sostenere al meglio la corsa del Re, la corsa che avrebbe decretato il miglior giovane tra la classe dei Primi, una corsa che poteva costare la vita.
Aveva messo tutto se stesso in quegli allenamenti, ma forse non aveva fatto abbastanza.
Se doveva scontrarsi contro qualcuno privilegiato in partenza, qualcuno che grazie al talento naturale era considerato un genio, era allora che il suo allenamento, il suo mettercela tutta, non valevano più nulla.
Non si vergognava a pensarlo, ma aveva pianto frustato e furioso ogni sua lacrima una volta finito il tutto. Avrebbe dovuto essere grato perché era ancora in vita, come gli precisava ogni volta sua sorella, ma lui non ce la faceva.
Guardava dietro di sé e vedeva solo fallimento, se provava a guardare avanti vedeva solo nero.
Inutile. E a quanto pareva, non abbastanza degno.
Si ritrovava a chiedere alla Gemma cosa avesse sbagliato. Nella notte da solo, ne sfiorava l’arcana pietra, sentendo i segni sul petto scaldarsi e brillare, la domanda incastrata nella gola “Se fossi stato abbastanza?”
 

 
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La decisione, quella di permettere ad Oikawa, di unirsi all’equipaggio di Hajime, non fu accolta con il massimo dell’entusiasmo.
Il giovane capitano in ogni caso riuscì a strappare il consenso alle alte cariche militari, a cui spettava la decisione.
Ma quell’esperimento, come alcuni lo avevano definito, durò poco.
Furono mandati in missione, ci rimasero poco più di quattro mesi. Oikawa non se la cavò affatto male, la tecnologia non era il suo forte certo, per forza di cose, provenendo da un pianeta nettamente più arretrato. Ma si ritrovò interessato agli studi di Yahaba e quando ci fu l’abbordaggio di una nave dello Stato riuscì a combattere con una furia e un’eleganza tremendamente efficaci.
Ritornati alla base, dopo quel lungo periodo, fu richiamato dai piani alti, e Hajime ebbe quasi la certezza che la sua abilità speciale ne fu la causa.
Successe durate l’unico scontro fisico che dovettero combattere: Hajime ricordava bene la scena. Oikawa brandiva la lunga lancia con maestria, facendosi largo tra i nemici, evitando per poco gli spari ogni volta. Poi, fulmineo, un soldato dello Stato fu dietro di lui e Iwaizumi ebbe solo il tempo di avvertirlo urlando.
Oikawa sparì, letteralmente, davanti ai suoi occhi.
Era una dannata abilità mimetica di cui non aveva detto nulla. Riusciva a rendersi completamente invisibile.
«È difficile da padroneggiare, è la prima volta che mi capita consciamente.»
«No, solo alcuni della mia specie ci riuscivano, si tramanda tra le famiglie dei Primi.»
«Ma non è così particolare! Alcuni riescono a svilupparla anche da più piccoli… sai, quelli speciali.»
Aveva sentito astio nella sua voce, in quell’ultima frase, ma aveva deciso di non indagare oltre. Era già abbastanza infuriato perché quell’idiota si era dimenticato si riferire qualcosa di così importante.
Aveva dovuto far rapporto, e i generali ribelli, scoperta questa particolarità avevano deciso, seduta stante, di convocare Oikawa. Hajime non fu per nulla tranquillo della piega che l’intera faccenda stava prendendo.
 

C’erano sempre stati compiti, tra i membri dei ribelli, più pericolosi di altri.
Essere a bordo di una nave spaziale, far parte dell’esercito di per sé, non era qualcosa da poco.
Hajime, sebbene fosse ancora giovane, come il suo equipaggio, ricordava già una decina di occasioni in cui avevano rischiato la vita. Una volta erano stati addirittura agganciati e catturati da una nave nemica, solo l’intervento di altri due incrociatori ribelli li avevano salvati. Hanamaki aveva ricevuto, come ricordo di quella missione, una frattura biossea* della gamba sinistra, a Kunimi avevano dovuto asportare la milza. Per il resto erano stati fin troppo fortunati, e in quel mondo la fortuna girava raramente dalla parte giusta, lui lo sapeva fin troppo bene.
C’era forse una missione che metteva a rischio la vita, molto più di quanto non lo facesse essere semplici militari di stanza su navi spaziali.
«Non sono d’accordo, non lo sono per nulla.»
«Oh andiamo Iwa-chan, hai davvero così poca fiducia in me?»
«Non è affatto una questione di fiducia» Hajime si voltò a guardarlo ripensando che quello era lo stesso posto dove avevano parlato la prima volta, neanche un anno prima, le stesse stelle a farvi da cornice, mentre le loro parole si disperdevano nell’universo «e che è pericoloso.»
Tooru sorrise deliziato, ad Iwaizumi venne voglia di prenderlo a pugni, avrebbe detto qualcosa di infinitamente stupido, ne era certo «Non sono un bambino, ma noto una certa preoccupazione da parte tua?»
Hajime ringhiò, ma non lo ammise.
Oikawa rise cristallino, le antenne sul suo capo vibrarono «Non devi esserlo Iwa-chan, so badare a me stesso» iniziò «e poi se posso aiutarvi in qualche modo, sarò felice di farlo.»
Iwaizumi era sicuro che l’alieno potesse benissimo aiutare la causa dei ribelli rimanendo nel suo equipaggio, aveva le capacità e avrebbe avuto l’addestramento necessario a breve. Rimanendo abbastanza vicino a lui da essere protetto.
Non riusciva ad ammetterlo neanche a se stesso, ma era terrorizzato dall’idea che gli capitasse qualcosa.
«Sei una mia responsabilità» sussurrò piano il capitano, la frase sfuggita dalle labbra prima che potesse fermarla. Ovviamente fu accompagnata da un’espressione sorpresa da parte di Oikawa e dal rossore sul viso di Hajime.
Tooru si sentì scaldare da quelle parole, dette quasi per sbaglio, e sorrise, questa volta davvero, come raramente gli capitava di fare «Non mi succederà nulla Iwa-chan, ti prometto che tornerò senza neanche un graffio» assicurò.
Hajime non si voltò verso di lui, troppo imbarazzato per muovere un singolo muscolo, ma quando sentì la mano dell’altro stringere la sua, non poté che, istintivamente, stringerla a sua volta.
Non parlarono più per tutto il viaggio, una promessa era stata fatta, non serviva altro.
 

Spia nei territori nemici.
Perché i capi della ribellione puntassero sull’abilità di rendersi completamente invisibile, agli occhi umani, di Oikawa, Hajime non lo sapeva.
Lesse un rapporto che spiegava in dettaglio come l’alieno potesse anche eludere i controlli termici, abbassando la sua temperatura corporea a piacimento.
Ma perché spingerlo in territorio ostile? Era tra gli ultimi della sua specie e lo spedivano così vicino al nemico che probabilmente non vedeva l’ora di cancellare la sua razza dall’universo.
Dentro sé sapeva che non aveva pensato all’intera faccenda con pensiero razionale. Si sforzava per riuscirci, ma gli era impossibile.
A poco servirono le rassicurazioni dai membri dell’equipaggio, ci provò anche Kyoutani. Era inquieto, intrattabile, in ansia per quell’essere che ora si trovava chissà dove, a migliaia di anni luce da lui. Poteva essere morto, e quel pensiero lo traeva in fallo a volte nei lunghi giorni che sembravano non passare.
Non capiva. Non capiva cosa gli stava succedendo.
Il tempo passò, la sua ansia si placò quel poco, nonostante rimase nascosta in lui, pronta a fargli visita quando meno se lo aspettava.
Dai rapporti, si diceva che il lavoro di Oikawa fosse eccellente, era riuscito ad infiltrarsi tra le gerarchie di uno dei pianeti contesi, aveva trovato documenti e dati importanti, aveva spedito tutto ai ribelli che erano riusciti a spazzar via un plotone di incrociatori dello Stato, dopo aver scoperto il loro punto debole nel sistema di difesa a scudo riflettente.
Iwaizumi apprendeva con gioia i successi di Oikawa, anche se lui rimaneva in missione. Sperò con tutto se stesso che quello che stava facendo placasse quella sua voglia di sdebitarsi con i ribelli e forse anche un po’ della sua sete di vendetta, che gli aveva confidato, nutriva nei confronti dello Stato.
Hajime non poteva negarlo, lo aveva conosciuto ancora più a fondo in quei mesi passati in missione insieme: Oikawa gli aveva raccontato ancora e ancora del suo pianeta.
Dalla fioritura della Gemma, una volta ogni cinque anni, delle orde di animali selvaggi che si abbattevano sempre con più frequenza nel territorio della foresta sacra, dei Gihonu che combattevano per nidificare tra le fronde più robuste della Gemma, della Festa della Preghiera, che le notti calde riempiva il villaggio di luce azzurra, quella delle venature delle radici di pietra, mista a quella che i loro strani segni sul petto emettevano.
Gli aveva anche raccontato della corsa del Re, a cui lui aveva partecipato e che, per poco, non aveva richiesto la sua vita in cambio. Hajime non chiese altro su quella corsa, Oikawa quando ne raccontava si incupiva e arrabbiava. E Iwaizumi aveva capito che le emozioni più profonde dell’alieno difficilmente venivano a galla da sole. Aveva cercato più volte di arpionarle a forza e portarle in superficie, ma avevano finito per litigare.
Hajime aveva compreso che Oikawa avrebbe continuato a nascondergli la parte più profonda del suo animo, ma lui avrebbe comunque continuato a scavare.
Era innegabile, si erano avvicinati, ma nessuno dei due aveva ancora capito quanto tutto quello fosse davvero pericoloso.
 

Hajime aspettava fuori dal centro medico ormai da due ore. Prima aveva macinato metri su metri, consumandosi gli stivali, davanti all’entrata; quando sfinito si era appoggiato contro il muro nulla era cambiato.
Fremeva di rabbia. Era il sentimento principale che provava al momento, era diventata incontenibile quella rabbia, nonostante sapesse quanto fosse ingiusta.
Erano tornati da un incarico commerciale dal sistema St-97 appena tre giorni prima; non aveva potuto forzare i tempi, il lavoro e la missione veniva prima di tutto.
Appena atterrati su Riot-4 aveva saputo i dettagli, ma si era potuto ritagliare del tempo libero solo dopo tre estenuanti ed eterne riunioni speciali.
Da quando la missione è passata in secondo piano?
Scacciò quella voce dalla sua testa, prima che lo facesse sentire in colpa, la sua mente era già abbastanza incasinata, senza che si mettesse anche il rimorso.
«Capitano Iwaizumi?»
Non si era neanche accorto che un medico si era avvicinato a lui; guardò la donna con sguardo frastornato, annuendo appena.
«Sta bene, la sta aspettando nel giardino sul tetto» spiegò la dottoressa «non ha riportato gravi danni fisici, l’infezione alla gamba era circoscritta nell’area del ginocchio, non ha toccato componenti ossee o articolari, ma credo sia anche merito della sua spiccata capacità di guarigione.»
Hajime la ascoltava senza sentirla davvero, la donna dovette capirlo, perché con un sorriso mesto lo invitò a seguirla fin al giardino pensile.
Era seduto su una delle rocce della cascata, fissava l’acqua scrociare placida; il ragazzo allora lo raggiunse in silenzio in pochi passi.
Oikawa si accorse di lui e lo guardò prima sorpreso, poi un sorriso si fece largo sul suo volto «Iwa-chan!» esclamò «sono felice di rivederti.»
Hajime guardò oltre il suo sorriso e i suoi occhi vigili, si fermò appena sulla sua gamba fasciata e allora non si trattenne, perché il panico e la rabbia erano stati troppi, e lui con quelle emozioni non voleva averci più a che fare, non se lo colpivano così in prima persona.
Con poco garbo lo afferrò per il colletto della giacca che indossava in quel momento, attirandolo a sé, trattenendo a stento il calcio che aveva voglia di rifilargli «Che me ne faccio delle tue inutili promesse eh, Culokawa?» gli ringhiò addosso, senza riuscire a frenare gli insulti.
Oikawa rimase sbalordito di fronte a quell’atteggiamento, gli occhi spalancati lo guardavano confusi, il che fece solo infuriare di più Hajime.
«Questo per te significa tornare senza un graffio?» strinse più forte la presa sul suo colletto.
Inaspettatamente lo sguardo dell’alieno si addolcì, cosa che lasciò Iwaizumi interdetto.
«Iwa-chan, non dirmi che…»
«Sì, razza di coglione, era in pensiero per te, tu non hai idea di quanto lo sia stato» sbraitò ancora Hajime, solo per poi pentirsene neanche un secondo dopo. Come riusciva quell’idiota a fargli tirare fuori pensieri che non avrebbe ammesso neanche sotto tortura?
Oikawa richiuse la bocca che aveva lasciato aperta dalla sorpresa e abbassò lo sguardo, sembrava che quelle parole lo avessero colpito e fatto piombare con i piedi a terra, nella realtà.
«Mi dispiace» sussurrò appena, una mano che si posò sulle dita strette di Hajime sui suoi vestiti «avrei preferito non farmi male, credimi, mi sono lasciato prendere la mano, ho cercato di strafare e questo è il risultato» ammise, forse più a se stesso che all’altro.
Iwaizumi lasciò lentamente la presa sul colletto dell’altro, facendo un mezzo passo indietro, riacquistando una debita distanza, perché improvvisamente l’aria sembrava essersi rarefatta. Abbastanza lontano da lui riuscì a respirare di nuovo, senza smettere di fissarlo «Non osare farlo mai più, hai capito?» ordinò Hajime, lo sguardo basso.
«Non voglio che Iwa-chan si tormenti per me ancora» spiegò Oikawa «potresti smettere di preoccuparti?»
Non ci riesco!
Hajime alzò lo sguardo, l’ira che montava di nuovo, ma Oikawa non lo guardava, i suoi occhi fuggivano, i suoi occhi erano tornati improvvisamente fragili.
«No» rispose solo l’umano, non riusciva ad aggiungere altro.
Tooru riportò lo sguardo su di lui e traballante ricolmò il passo che prima li aveva divisi: poggiò le mani sul collo di Iwaizumi e avvicinò le loro fronti fino a farle sfiorare.
Hajime sentì il panico salire dentro sé con un’impennata che gli fece pulsare dolorosamente la testa; in qualsiasi altro frangente avrebbe allontanato qualcuno che gli si avvicinava in quel modo bruscamente, ma era paralizzato. Il battito del suo cuore gli rimbombava nelle orecchie.
«Non ne vale la pena» sussurrò Oikawa, aveva gli occhi chiusi «ero ad un passo dalle informazioni a cui davo la caccia da quasi due mesi, ci ero così vicino eppure… a quanto pare neanche questa volta sono stato il migliore, succede sempre così, non sono mai abbastanza. Quindi Iwa-chan non devi preoccuparti per me, io non ne valgo la pena»
Probabilmente avrebbe aggiunto altro, forse un’altra ammissione di una colpa che non aveva, un’altra insicurezza scappata via per sbaglio, un’altra crepa. La maschera era praticamente infranta, Iwaizumi riusciva a vedere sotto cos’era Oikawa, cos’era oltre ai sorrisi finti o sfrontati, oltre la sicurezza e la curiosità.
Era spezzato. Era esattamente come la sua maschera, in frantumi.
Hajime aveva cercato in tutti i modi di ricomporlo, lo aveva sempre intravisto e sempre, inconsciamente, aveva cercato di arginare la sua rottura. Ma quella era già avvenuta, lui l’aveva solo nascosta.
Non si pentì di aver bloccato quel flusso di parole false, anche se terribilmente convinte. Aveva colmato lo spazio tra di loro attirando Oikawa a sé in un bacio.
A guardarlo da fuori, quando ci avrebbe ripensato a mente lucida, aveva capito quanto quel gesto fosse sbagliato. Anche se in quel momento gli sembrò la cosa migliore e più giusta, che avesse fatto nella sua vita.
 

- - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
 

Fuoco dal cielo.
Bruciava tutto, bruciava ovunque, bruciava le persone.
Era a caccia qualche ora prima, anche se le prede sembravano essersi volatilizzate nel folto della foresta rossa. L’alta erbaluce, che brillava di arancione puro, era continuamente sferzata da vento forte.
Qualche giorno prima tutto il villaggio si era accorto che doveva esser successo qualcosa alla citta sotto la Gemma vicina, era stata quella nube grigia, come una cicatrice sul volto del cielo, a rendere inquieti gli animali, a rendere inquieti loro.
Aveva corso.
Era tornato nel villaggio solo per vederlo bruciare.
Degli esseri con vestiti blu e con la testa a forma di sfera trasparente sputavano fuoco dalle mani.
Ecco i tuoi alieni, Tooru.
La testa esplose in un mare di scintille, non riusciva a far nulla che non fosse stringere i pugni e fissare quelle scene.
Uno degli esseri si avvicinò a lui, tirò fuori una specie di cilindro nero con un manico, fu l’istinto a salvarlo, ad urlargli di lanciarsi di lato, ad evitare quel proiettile luccicante.
L’essere gli fu addosso, brandiva una lunga lancia.
Non ebbe tempo di pensare, il suo corpo si mosse per lui, evitando il primo fendente riuscì a colpirlo sul petto, aprendovi uno squarcio, da cui iniziò a fuoriuscirne un sangue fin troppo liquido e rosso. L’essere stramazzò a terra in un lungo lamento, poi non si alzò più.
Gli veniva da vomitare.
Lo stimolo fu più forte degli altri quando iniziò a vedere i primi cadaveri carbonizzati.
Poi fu di nuovo l’istinto a svegliarlo, vide davanti agli occhi chiusi il volto di sua sorella e quello di Takeru. Fece uno scatto avanti, iniziando a correre. 
Li avrebbe trovati, li avrebbe salvati.
Un forte gemito si sparse nell’aria. La Gemma aveva iniziato a piangere.










*Per frattura biossea si intende una frattura doppia a tibia e perone, ossa presenti nella gamba.















Angolino

Sono tornata e proprio nel weekend come previsto :D
Faccio partire qualche precisazione qui sotto, non avevo voglia di riempire di asterischi il capitolo, andava bene giusto vicino al termine più o meno medico, dato che non è intuibile se non si conosce la materia ^//^"
Il capitolo è diviso e vediamo per la prima volta il pov di Tooru, e il suo pov ho sempre cercato di evitarlo nelle storie perché ho paura di non riuscire a renderlo bene ;_; ma per questo lascio i commenti a voi!
I nomi degli animali alieni sono inventati di sana pianta, com'era prevedibile.
La sorella di Tooru non avrà mai nome, anche perché non si sa ancora se in effetti lui abbia una sorella o un fratello più grande.

Ok precisazioni finite spero, nel dubbio se mi fossi dimenticata qualcosa, mi rifarò nelle note dell'ultimo capitolo, che spoiler ahahah arriverò il prossimo weekend 'w'
E per finire un ringraziemento speciale ha chi ha messo la storia tra le preferite e seguite, e a chi mi ha fatto sapere cosa ne pensa :3 mi avete resa felice felice ;_;
Quindi ancora grazie per aver letto la storia e lo sclero il commento qui a fondo, ci vediamo al prossimo aggiornameto!
Alla prossima c:

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Capitolo 3
*** Chiusura ***


3.Chiusura

 
Quando parlavano di lui, di solito, l’aggettivo più utilizzato era concreto. Buffo, in fondo, se pensava quanto da bambino gli piacesse fantasticare su mondi lontani, grandi missioni spaziali e alieni spaventosi. Da ragazzino, appena entrato in accademia, lo avevano spinto grandi ideali: giustizia e libertà. Era qualcosa in cui i ribelli avevano sempre creduto, vero? Liberare la galassia dalla tirannia dello Stato.
Crescendo aveva capito che la visione idilliaca che aveva, della sua parte di mondo, non era tale. Anche i ribelli avevano compiuto atti non così nobili, molti di loro erano spinti solo dalla sete di potere. Aveva imparato come quello fosse un circolo vizioso: quando non hai nulla, sono i grandi ideali a guidarti; quando trionfi, quando inizia ad annidarsi nelle idee umane il potere, gli ideali venivano pian piano abbandonati.
Aveva visto le cose cambiare davanti ai suoi occhi, ma si era sempre mantenuto sulla retta via, su quella che lui riteneva la retta via. Aveva reclutato il suo equipaggio di conseguenza e aveva accettato le missioni, con ipocrisia forse, che gli erano sempre sembrate eticamente più corrette.
Il comandante supremo dei ribelli era un uomo rigido e severo, ma di buon cuore. Aveva limitato, durante il suo mandato ciò che aveva sempre spaventato Hajime, ovvero il potere dei vigilanti, coloro che si occupavano dei prigionieri di guerra.
Aveva sentito parlare di torture, studiando il passato dei ribelli, quando all’origine della loro storia erano qualcosa di assolutamente normale.
Dall’inizio del suo mandato, il comandante, aveva cercato quindi di abolire quel potere.
“Vogliamo epurare la galassia dal male? A che serve allora comportarsi come i carnefici?”
Hajime aveva una stima profonda il lui, a lui si era ispirato quando, finita l’accademia, si era promesso che avrebbe sempre e solo combattuto per il bene. Aveva quindi accantonato in un angolo i suoi sogni di bambino, senza dimenticarsi della promessa fatta a sua nonna, e aveva cercato di esprimere in fatti i suoi ideali.
Aveva un equipaggio. E aveva quel suo carattere innato da leader che lo aveva sempre aiutato. Spronava i suoi, manteneva la mente lucida nei momenti critici, sapeva rapportarsi al meglio con i superiori, eseguire gli ordini, ma anche far valere il suo giudizio.
Teneva ai suoi uomini, voleva loro bene, quasi fossero fratelli.
Ciò che lo spaventava di più, che sempre lo aveva spaventato era perdere qualcuno di caro. Poteva immaginare che il tutto derivasse dalla perdita di sua madre, grande capitano spaziale, che morì in missione quando lui aveva appena quattro anni.
Spesso aveva perso dei compagni, ragazzi che come lui avevano intrapreso la sua carriera, ogni volta cercava di sotterrare dentro sé la rabbia e la tristezza che quelle morti portavano.
“Hajime è proprio un bravo bambino, dopo quello che è successo alla sua mamma, riesce ad avere quello sguardo fiero e a non versare una lacrima.”
Le emozioni erano sconsigliate: perdere qualcosa faceva male, ma in ballo c’era la missione e così tante vite, potevi lasciarti distrarre? No.
Sapeva di non aver un carattere facile, per mantenere la sua compostezza aveva limato i suoi sentimenti. Quando Kunimi era quasi morto, era stato in angoscia, quei sentimenti soffocati erano traboccati fuori. Quando aveva visto puntare un fucile al plasma alla tempia di Matsukawa e premere il grilletto si era sentito morire; l’arma era scarica allora, il compagno si era salvato.
La rabbia, quella che non poteva compromettere una missione, era sgorgata come un fiume, abbattendosi sul soldato dello Stato.
“Dovresti piangere Hajime-chan, non puoi pensare di trattenere tutto. Un giorno altrimenti non sarai più in grado di contenerli, quei sentimenti, e quando usciranno tutti fuori, ricostruire il muro che li teneva imprigionati sarà impossibile. Piangerai quando i tuoi amici staranno male, ti arrabbierai contro le ingiustizie, anche se questo vuol dire disobbedire ad un superiore e amerai, così tanto che forse, ti farà solo male”.
 

Era cambiato tutto e niente, dipendeva dalla prospettiva con cui si guardava la situazione.
All’esterno, nei comportamenti che si erano susseguiti a quell’avvenimento, nulla era variato. Hajime era tornato nel palazzo di addestramento, aveva rivisto Oikawa qualche giorno più tardi, completamente ristabilito, che gli aveva parlato come se nulla fosse successo.
All’interno, una buona metà delle sue convinzioni, erano crollate. Era stata la prima volta che aveva permesso alle emozioni di prendere in quel modo il sopravvento su di sé. Era sempre riuscito a controllarle, ma adesso? Adesso bastava quell’insopportabile alieno per far franare il suo castello mentale, che con fatica aveva costruito negli anni, solo per autodifesa. Perché la missione lo prevedeva, perché la guerra lo prevedeva.
Non riusciva a non pensare a quel… no, la sua mente si rifiutava di dargli un nome.
È solo un bacio, doveva accadere prima o poi.
Non aveva mai avuto né la voglia né il tempo di immischiarsi in quel genere di faccende sentimentali dove si trovava solo inappropriato. Sapeva che prima o poi avrebbe incontrato qualcuno, una ragazza, aveva sempre pensato, con cui passare dei bei momenti, costruire ricordi, metter su una famiglia.
Anzi quella era l’idea che non riusciva a togliere dalla testa di suo padre, a ben pensarci lui non voleva una famiglia. Non voleva qualcuno che avrebbe potuto abbandonare per una missione non andata nel verso giusto.
Ma di sicuro non si aspettava quello.
Non un ragazzo, non un alieno.
Più ci pensava più il mal di testa montava.
Forse vedendola in modo più calmo e razionale la totale assenza di reazioni, negative o positive da parte di Oikawa, non lo scoraggiava. Avrebbe potuto respingerlo e cominciare ad evitarlo.
Invece lo incontrava nel palazzo e lo salutava sorridendo, lo trovava a mensa e lo salutava sorridendo, si allenavano insieme agli altri e prima di andare via lo salutava sorridendo.
Era stato l’istinto a muoverlo, non trovava un’altra giustificazione per se stesso. Ripensava alle prime impressioni che aveva formulato sull’alieno e quella sua reazione forse, non gli sembrava neanche così bizzarra.
In qualche strano modo Oikawa… gli piaceva? E non nello stesso senso il cui gli piacevano i suoi amici dell’equipaggio, ma in un modo nuovo che non voleva indagare perché ne era terribilmente spaventato?
Erano buone domande, a cui poteva rispondere affermativamente ad entrambe, sebbene faticasse ad accettarlo.
«Iwa-chan!»
Proprio l’ultima persona che voleva incontrare.
Era all’interno della nave quando quei pensieri l’avevano colto in fallo, stava ricalibrando i sistemi e impostando le nuove rotte, sarebbero partiti l’indomani.
«Ah!» esclamò Oikawa guardando i dati della rotta sullo schermo «siete già in partenza?» chiese.
Hajime annuì e basta, senza staccare gli occhi dagli schermi fluttuanti, senza aver il coraggio di incontrare il suo sguardo. Era la prima volta che erano soli con la possibilità di poter intavolare una conversazione seria, da quando era successo.
«Mi terranno qui per un’altra settimana» si lagnò quello sbuffando.
Iwaizumi non rispose come avrebbe fatto di solito, ovvero intimandogli di smetterla di lamentarsi e pensare a far guarire per bene la sua testa vuota. Quindi alla fine qualcosa era cambiato, il suo rapporto con l’alieno si era incrinato.
«Beh visto che sei qui da solo, volevo proprio parlarti prima che partissi» riprese.
La mano di Hajime si bloccò a mezz’aria, a qualche centimetro dall’ologramma proiettato davanti a lui. E Oikawa se ne accorse.
«Non è nulla di ciò che…»
«Mi dispiace» lo interruppe Iwaizumi, anche se di voltarsi a guardarlo proprio non ne aveva la forza «non so perché l’ho fatto, vorrei solo…»
«Iwa-chan fammi finire!» sbottò Oikawa, pestando un piede, la voce vibrava, sembrava davvero offeso «insomma sono solo sorpreso.»
Quando sbirciò sconvolto verso di lui, Hajime notò che l’alieno oltre ad avere il volto rosso, si erano dipinte dello stesso colore anche le orecchie a punta e le antenne sul capo; la coda stava sferzando l’aria, lasciando trasparire il suo disagio.
«Non era mai capitato, tutto qui» spiegò piano «nessuno ha mai tenuto tanto a me, da preoccuparsi di come stavo, nessuno esclusa mia sorella.»
Stava cercando di sviare il discorso forse, voleva alleggerire il pesante imbarazzo che era calato su di loro. Iwaizumi non proferì parola, capì che era meglio star zitto quella volta, ascoltare tutti i pensieri dell’altro. Per una volta che aveva deciso di esternare quello che pensava davvero.
 «E poi insomma…» si bloccò lasciando la bocca semi aperta, aggrottando le sopracciglia, le parole incastrate in gola «io non avrei mai pensato che…» si bloccò ancora.
Hajime era sicuro che se avesse aperto bocca lui tutto quello non sarebbe finito al meglio, avrebbe potuto rovinare ogni cosa, anzi ne era quasi sicuro.
«Oh al diavolo.» Oikawa gli fu addosso prima che potesse prevederlo, le labbra premute forte contro quelle di Hajime che rimase sconvolto da quel gesto. Tutto si sarebbe aspettato tranne quello, probabilmente era solo ciò che aveva sperato.
Sentì l’alieno allacciare le braccia intorno al suo collo, gli fu ancora, se possibile, più vicino, approfondendo quel bacio.
Se quello era il modo di Oikawa di spiegarsi, si poteva dire che l’umano avesse capito cosa sentisse, che alla fine quel primo bacio nel giardino, della settimana prima non era stata un’idea così spaventosa e sbagliata.
Forse tutto quello, che gli scaldava il cuore e l’animo in maniera così stranamente dolce, non era sbagliato.
Forse.
 

«Kyoutani dannazione, centra l’obbiettivo!»
Sentì nell’orecchio rimbombare un ringhio del tiratore, mentre un altro colpo centrò la nave, la sua nave! Era da fin troppo tempo che non se la vedevano così brutta.
«Watari, rapporto danni?» chiese Hajime voltandosi a guardarlo.
«Ho mandato fuori dei droni che richiuderanno le brecce più grosse, ma hanno colpito il terzo motore» spiegò continuando a fissare i dati che scorrevano veloci, proiettati come ologrammi dal suo polsino «devo andare a vedere se riesco a farlo ripartire e tirar su di nuovo gli scudi.»
Quello era il problema principale: i cinque caccia dello Stato erano piccoli e sfuggenti e la prima cosa che erano riusciti a colpire della nave erano i sistemi che controllavano gli scudi riflettenti.
Iwaizumi marciò verso la cabina di comando, imprecando quando un nuovo colpo fece tremare la nave. Hanamaki e Matsukawa erano accerchiati dalle solite spie luminose, che sembravano impazzite, entrambi fin troppo concentrati, mentre si erano messi nella scia di uno degli ultimi tre caccia rimasti.
«Tiratori!» esclamò Hajime.
«L’ho agganciato» sentì la voce di Kunimi provenire dall’auricolare e un secondo dopo il caccia stava esplodendo, colpito dal cannone al plasma.
«Vai così!» esultò Hanamaki «ne mancano ancora due di questi bastardi.»
«Capitano!» era Watari «sono riuscito a ripristinare il collegamento, gli scudi saranno operativi fra trenta secondi»
Una volta rialzati gli scudi non fu difficile sbarazzarsi degli ultimi due nemici rimasti, anche se il calcolo danni non fu così positivo.
«Ci costerà tanto rimetterla in carreggiata» disse Watari «tornati a casa dovrò lavorarci per un po’, hanno completamente fuso il terzo motore, per adesso possiamo usare l’ausiliario, sperando di non incontrare altri scocciatori.»
«Andiamo la nostra Ace ha visto di peggio» replicò Matsukawa riferendosi alla loro nave, carezzandone il pannello di controllo.
«Vi concederò una vacanza allora» disse Hajime.
I due piloti esultarono e anche Watari sorrise felice.
«Ora mantenete la rotta, non voglio che ci avviciniamo ancora, i sensori arriveranno comunque sulla superficie e ci daranno i dati che vogliamo.»
«Sì capitano!»
Iwaizumi lasciò la sala di comando diretto al laboratorio, dove trovò Yahaba che, chino sul computer, stava già incrociando i dati.
«Siamo quasi a destinazione» lo avvertì Hajime.
Quello si riscosse «Sì, ho già caricato l’ultimo rapporto» spiegò «ma sarebbe stato meglio atterrarci sul pianeta.»
Iwaizumi sospirò, lo sapeva bene anche lui, ma non immaginava come avrebbe reagito. Tornare su quel pianeta, rivivere quella disperazione, forse non era pronto.
«Lo so, ma è fin troppo pericoloso, non voglio rischiare più di quanto non abbiamo già fatto oggi» ammise il capitano «intanto possiamo avere abbastanza informazioni da qui.»
«Bene, le carico subito, i sensori sono già attivi» rispose prontamente Yahaba e Hajime si preparò a sentire quanto era cambiato in quel pianeta dopo il loro anno di assenza.
«Computer avvia l’analisi» disse il biologo.
«Analisi avviata, dati in arrivo» rispose il computer, mentre iniziava a far scorrere sullo schermo tutte le informazioni ricevute.
«Composizione atmosferica non variata» iniziò Yahaba a leggere «composizione del terreno presenta minime variazioni, iniziano ad abbassarsi le percentuali di molecole organiche. Morfologia del paesaggio variata: gli alberi Gemma sono quasi tutti morti, le oasi stanno morendo con loro, la sabbia inizia a ricoprire tutto» si bloccò.
Hajime distolse lo sguardo imprecando dentro di sé.
Stava morendo. Il pianeta di Oikawa stava morendo.
«Analizza le probabili cause» ordinò Yahaba per poi voltarsi verso il capitano «Oikawa mi aveva raccontato che la Gemma è alla base degli ecosistemi delle oasi, in qualche modo proteggeva tutta la flora e la fauna dalla sabbia.»
«L’aria è respirabile solo grazie alla Gemma» aggiunse Hajime «era l’unica a poter creare ossigeno, è strano che i valori atmosferici non siano cambiati.»
«Ne sapremo di più dall’analisi approfondita, in ogni caso non è detto che sia spacciato il pianeta»
Iwaizumi sospirò, quando aveva detto ad Oikawa che li avevano mandati in missione a controllare i movimenti attorno al pianeta Primo Sguardo 3 lui si era ostinato nell’andare con loro. Ma di sicuro non glielo avrebbero permesso, dato che anche lui aveva il suo lavoro da svolgere, in più Hajime, che si aspettava un risultato simile a quello che aveva avuto davanti agli occhi con quel rapporto, non voleva farlo assistere. Non voleva che rivivesse quegli attimi terribili, chiudendosi ancora più in se stesso, senza lasciargli la possibilità di raggiungerlo e aiutarlo.
Forse negli ultimi tempi le cose erano un po’ mutate: Hajime era sceso a patti con se stesso, aveva solo in parte ammesso quello che provava per l’altro.
E Oikawa era rimasto quello di sempre: tremendamente insopportabile, con addosso la stessa maschera, determinato e combattivo. Solo che a volte Hajime riusciva a veder oltre lo specchio che si costruiva davanti. Vedeva i vetri rotti che avevano sempre tappezzato il suo animo e in ogni modo cercava di rimetterli insieme.
Che fosse insultandolo e prendendolo a calci quando si lagnava troppo, o baciandolo piano quando lo vedeva triste e depresso.
«Forse è stata davvero una buona idea non permettergli di accompagnarci» riprese Yahaba «ne avrebbe sofferto.»
«Credimi è stato difficile mantenerlo buono» ammise Hajime «ma è meglio così.»
Se il pianeta stava davvero morendo, era sicuro che l’alieno non sarebbe stato pronto a ricevere quella notizia. Non dopo tutto l’orrore che aveva passato, non se era trascorso così poco tempo e le ferite sanguinavano ancora.
 

 
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L’istinto, lo aveva svegliato, ma ora doveva cercar di dar ascolto alla mente. Doveva cercare di evitare con lo sguardo i corpi riversi a terra, doveva evitare gli alieni.
E doveva continuare a correre.
Era veloce dopotutto, era allenato, eppure le gambe erano pesanti, nel naso l’odore di fumo era troppo forte.
Poi si sentì chiamare e fermò la sua corsa disperata fissandosi i piedi che avevano cominciato a sanguinare.
Qualcuno correva verso di lui stringendo in braccio una bambina che Tooru riconobbe subito: abitavano appena più a sud nella loro stessa radice della Gemma.
«Mei-chan» sussurrò guardandola.
Era il padre che correva verso di lui stringendola a sé «Tooru» sussurrò l’uomo «sono dietro di me, mi hanno inseguito.»
Quella bambina era solita giocare con Takeru, già da quando erano molto piccoli.
«Arrivo ora da casa e…» si bloccò «ce ne sono troppi.»
Takeru le aveva insegnato ad arrampicarsi sugli alberi campana.
«Ti prego prendila e andate verso la Scala Sacra, lì non riusciranno a raggiungervi.»
Tooru alzò gli occhi su di lui «Mia sorella e Takeru, devo andare a loro» spiegò come se fosse la cosa più naturale del monto, mantenendo un tono così distaccato che a stento riconobbe la sua stessa voce.
«Tooru…» l’uomo lo guardava con un’infinita tristezza mista ad ansia «non è rimasto più nulla.»
Avrebbe voluto urlare.
La vista cominciò ad appannarsi, le lacrime a rigargli le guance. Tutto il male che aveva provato fino a quel momento fu nulla rispetto a quello che sentì lacerargli il petto in quell’istante.
Poi degli spari e si ritrovò con in braccio la bambina.
L’uomo davanti a sé gli poggiò una mano sul petto, il suo marchio brillò d’azzurro come quello di Tooru «Scappate, io li attirerò» disse semplicemente, una nuova strana forza nella voce, la forza della consapevolezza che sacrificando la sua vita, avrebbe salvato la figlia «proteggila, ti prego.»
L’uomo cose via, iniziando ad urlare, Tooru scappò dalla parte opposta, stringendo a sé la bambina, continuando a piangere.
I piedi non gli facevano più male, ora nulla aveva senso, se non rispettare quell’ultima volontà che gli era stata donata: l’avrebbe protetta.
Quando arrivò al grande tronco della Gemma vi poggiò una mano sopra “Aiutami” chiese solo.
Un varco si aprì nel tronco, un varco che conduceva alla Scala Sacra. Percorsa fino alla cima, sempre dai saggi del villaggio, si poteva arrivare tra le fronde della Gemma, a raccoglierne i frutti miracolosi.
Tooru entrò rimanendo a pochi passi dal varco che si richiuse subito, si lasciò cadere a terra, le lacrime ormai secche sul suo volto, Mei-chan che respirava appena stretta a lui, il suo animo distrutto, in schegge taglienti che non smettevano di far male.
Pregò per un tempo indefinito, pregò la Gemma che tutto quello fosse solo un sogno, pregò perché la bambina potesse star bene.
Ma nessuno gli rispose questa volta, questa volta il silenzio e il buio lo inghiottivano fino a mozzargli il respiro in gola. Perse i sensi, ma poco prima di chiudere gli occhi fu quasi sicuro di sentire il varco riaprirsi e di vedere di nuovo il cielo stellato.
 
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Tooru si tirò su annaspando, alla ricerca di aria, portandosi una mano al petto dove il marchio aveva cominciato a brillare, illuminando appena le lenzuola del suo letto.
Iniziò a prendere grossi respiri, cercando di calmarsi.
Solo un sogno.
Anzi, solo un altro degli innumerevoli incubi che lo tormentavano quasi ogni notte.
Prima, quando nulla era ancora successo, non aveva mai fatto incubi. Di notte sognava le stelle, le guardava e le contava.
Probabilmente nulla gli avrebbe riportato quella tranquillità, quella vita che gli era stata strappata.
Mise i piedi a terra, inquieto; no, non sarebbe riuscito a riprendere sonno. Non con l’odore di fumo e sangue ancora incastrato nella mente, non dopo quello che, nell’ultima settimana, si era aggiunto al pensante macigno che portava nel cuore.
Si chiese come avrebbe fatto a superare tutto quello che gli era capitato se fosse stato solo. E appena il suo cervello formulò quella domanda i suoi piedi si mossero da soli andando verso la risposta.
Si rivestì velocemente abbandonando la sua stanza, la meta ben prefissata nella mente.
Era così stupido, non aveva mai avuto bisogno di chiedere aiuto, non aveva mai voluto farlo. Aveva sempre sotterrato ogni cosa dentro sé, quasi dimenticandosi di far vedere il suo vero io, nasconderlo dietro la maschera era sempre stata la scelta migliore. In quel modo anche se gli altri bambini lo insultavano, lui resisteva e piangeva poi da solo, anche se, dopo essersi allenato per anni, non era riuscito a trionfare nella corsa del Re.
Perché quindi adesso non ce la faceva?
Si sentì debole ed inutile, anche quando arrivò davanti alla stanza e iniziò a battere la porta con un pugno chiuso. I ricordi tornarono prepotenti a far breccia nel suo pensiero, quando lui aveva solo voglia di dimenticare. L’unico momento in cui riusciva a trovar pace e a provar sana nostalgia di casa era quando raccontava a Yahaba o a Iwa-chan del suo pianeta, perdendosi in piccoli dettagli come il colore dei fiori che crescevano nella fitta erbaluce arancione o dei fini ricami delle radici della Gemma che brillavano ogni volta che voleva comunicare con lui.
«Iwa-chan» sussurrò lasciando la mano aperta sulla porta senza più la forza di bussare ancora.
Hajime si era svegliato a causa dei rumori forti. Riuscì a capire che provenivano dalla porta, qualcuno stava bussando.
Ringhiò qualche insulto dentro di sé, chi diavolo doveva svegliarlo in quel modo così tardi?
Raggiunse la porta, facendola scattare e questa si aprì. Aveva già pronta la sfuriata verso chiunque si sarebbe trovato davanti, ma la voce gli si bloccò.
Gli sembrò di tornare indietro a più di un anno prima, trovò davanti a sé la stessa espressione, gli stessi occhi spaventati che in qualche modo imploravano aiuto.
«Oikawa?» chiese preoccupato «che cosa…?»
L’alieno non lo lasciò finire e gli fu addosso imprigionandolo in un abbraccio disperato, poggiando la fronte sulla sua spalla.
«Ohi» provò di nuovo Iwaizumi «che succede?» provò a chiedere con più gentilezza.
Ma Oikawa non rispose, si strinse solo più a lui. Hajime sospirò preoccupato, ma non cercò di forzare oltre, in ogni caso l’altro se tirava su il muro, sarebbe stato impossibile vederci oltre.
Passarono un tempo indefinito, lì in piedi; Hajime riuscì a sentire il respiro dell’altro calmarsi pian piano, come la sua stretta. Il cuore invece continuava a galoppare nel suo petto, quello lo sentiva chiaramente.
«Iwa-chan» sussurrò alla fine Oikawa, allontanandosi appena, sfuggendo al suo sguardo.
«Mi dici che succede? Vieni a notte fonda cercando di buttar giù la mia porta a pugni e…» iniziò Hajime.
«Ho avuto un incubo» ammise l’altro, sempre lo sguardo basso.
Fuggiva, in ogni momento fuggiva. Hajime pensava a tutte le volte che aveva dovuto strappargli di bocca le parole, solo per riuscire a capire cosa gli passasse per la testa. Parlava spesso del lavoro di spia, raccontava aneddoti della sua vecchia vita e condiva il tutto con un sacco di idiozie di cui Iwaizumi avrebbe sinceramente fatto a meno. Ma si bloccava quando gli chiedeva come stesse, quando voleva davvero capire come gli passava in mente.
Ci stava ancora lavorando, in un anno aveva fatto progressi, ma a volte gli sembrava che quel guscio ogni volta che finiva in frantumi, si ricostruiva sempre più forte, saldo e impenetrabile.
Oikawa fissava ancora il pavimento, concentrato su qualcosa che lui non riusciva a cogliere, lontano.
Hajime non riuscì a trattenersi «Mi fai solo incazzare quando fai così» sbottò.
L’alieno, colto l’astio nella sua voce, alzò lo sguardo fissandolo indignato.
«Ora mi guardi in faccia allora?» riprese Iwaizumi ancora arrabbiato «dannazione io non riesco a capirti, perché ti è così difficile fidarti e raccontarmi cosa c’è davvero che non va?»
Sapeva che non era una buona idea tirar fuori tutto quello, l’altro poteva non prenderla bene. Ma Hajime non riusciva a decide cosa lo facesse star peggio: continuare a vederlo così distante o litigarci.
«Non ci riesco» rispose piano lui «è difficile, farebbe venir a galla una parte di me che odio… quella debole e patetica.»
Era sincero, lo capì dall’espressione dipinta nei suoi occhi, dal marchio sul suo petto, che si intravedeva appena sotto la maglia a collo largo, brillava.
«Stronzate» sbottò a quel punto Iwaizumi «in tutto questo tempo, quando sono riuscito a scorgere dietro questo muro che costruisci per difenderti da tutto e tutti ho solo visto una persona spezzata.»
Oikawa trasalì, alzando appena gli occhi su di lui.
«E di sicuro questo non significa che sei debole o patetico» esclamò «nessuno può sapere cosa hai passato, nessuno può minimamente immaginarlo o giudicare, uscirne ammaccato è il minimo. Dici di non aver vinto la tua corse del Re? Da quanto mi hai raccontato non mi sembra proprio tu abbia fallito, sei sopravvissuto.»
«Non è abbastanza!»
«Eri solo!» replicò Hajime «non sei partito avvantaggiato perché non hai questo dannato talento naturale che ti ossessiona, ma hai faticato per i tuoi risultati e ora hai tutti noi. Qui stai dando il meglio di te, metti a rischio la tua vita per qualcuno che non è la tua gente e sei bravo in quello che fai. Non è colpa tua se quella missione della scorsa settimana è fallita, se quegli uomini sono morti.»
Spalancò gli occhi e Iwaizumi capì di aver centrano appieno il problema, quindi non si fermò «Non puoi pensare di far tutto da solo, fidati dei tuoi compagni, e se non ci riesci, fidati di me» concluse.
«Ti odio Iwa-chan» bisbigliò lui «riesci sempre a dire le cose giuste.»
«Non è così difficile leggere dentro quella tua testa vuota» mentì l’umano sentendo la tensione allentarsi pian piano.
«Cattivo» si lagnò Oikawa, poi sospirò «ho sognato Mei-chan, ho rivisto quel giorno, tutta quella morte, e mi è tornata in mente la missione fallita» ammise alla fine.
Hajime sospirò «Non è tutto caricato sulle tue spalle» gli disse «non puoi pensare di addossarti tutte le colpe.»
L’altro sorrise amaramente, il suo sguardo diceva che non avrebbe seguito quel suo consiglio in ogni caso, che avrebbe continuato a far di testa sua «Ma tu ci sarai per me, vero Iwa-chan? Ad aiutarmi, come fai sempre.»
La domanda non prevedeva una risposta, anche perché questa sarebbe stata più che scontata da parte di Hajime, e poi perché Oikawa gli si avvicinò di nuovo, questa volta posandogli le mani sul volto per avvicinarlo a sé e baciarlo.
Gli lasciò chiudere lì la conversazione, mentre sentiva le sue mani sfiorargli piano il corpo, superando i vestiti.
Capì quanto Oikawa avesse bisogno di lui e Hajime promise a se stesso che gli sarebbe stato accanto fino a quando l’altro avrebbe voluto. Non glielo disse però, tenne per sé quella promessa, l’avrebbe custodita con gelosia e gioia. Si trovò a ripensare all’universo e a quelle stelle che Tooru aveva sempre guardato da lontano mentre lui le esplorava una per una. Il loro richiamo li aveva fatti incontrare, aveva portato gioia, ma anche molta tristezza e Hajime, mai come quella volta, si trovò a ringraziarle per avergli concesso di conoscerlo.
 

«È tutto pronto capitano, puoi anche lasciar finire a noi i preparativi minori.»
«Anche perché se non te ne vai adesso, tempo dieci minuti e ti verrà una crisi isterica.»
«Che poi non ti sembra strano? Da quando si fa prendere così tanto dall’ansia?»
«Hai ragione! Non è neanche qualcosa di così grave.»
«Vi sento» sbottò Iwaizumi chiudendo l’ologramma che elencava gli ultimi verbali delle missioni svolte e voltandosi per fronteggiare i due piloti «è tardi potreste anche voi continuare domani» concesse alla fine.
«Non manca molto» iniziò Matsukawa.
«E non ci sforzeremo troppo, promesso» concluse Hanamaki.
Hajime sospirò, capì che probabilmente negli ultimi tempi era stato fin troppo apprensivo con tutto il suo equipaggio. E senza ombra di dubbio ognuno di loro se ne era accorto, anche se nessuno aveva chiesto spiegazioni. Era meglio così, perché Hajime non sapeva proprio cosa dire a riguardo.
Avevano di nuovo rischiato molto in una missione: erano rientrati appena il giorno prima. Kindaichi aveva tre coste incrinate, si era scontrato con un soldato dello Stato particolarmente grosso, quando l’aveva sbattuto contro la lamiera della nave la sua gabbia toracica ne aveva risentito.
A Yahaba era andata peggio: una delle lance nemiche gli aveva trapassato una coscia. Non aveva perso troppo sangue, ma sarebbe stato tenuto in osservazione almeno un’altra settimana.
Quando arrivò al centro medico trovò i due compagni allettati e con loro anche Kunimi, Watari e Kyoutani, a dimostrare che alla fine, non era l’unico ad essere stato in pensiero per quella missione non andata al meglio.
«Stiamo perdendo colpi, capitano» riuscì a dire Yahaba trattenendo una risata, la gamba era fasciata, la ferita già richiusa, i tessuti guariti.
«Abbiamo una media bassa quest’anno in effetti» continuò Watari.
«Siamo sempre stati sopra la media, questo non influirà sull’opinione che hanno di noi» assicurò Hajime.
C’erano classifiche per gli equipaggi, il che promuoveva la competitività tra i vari team. Era una sorta di gara tra i ragazzi usciti dalla stessa accademia, una vecchia tradizione che risaliva ai primi ribelli.
«Sono loro ad esser diventati più forti» disse a quel punto Kunimi, distraendolo dai suoi pensieri «e hanno più risorse di noi, come sempre.»
Calò il silenzio, in fondo era risaputo.
Una battaglia vana? Per chi ci credeva, come loro, non era così. Era una battaglia difficile, a cui avevano votato le loro anime. Pensare che fosse inutile non era contemplato, Iwaizumi non voleva contemplarlo.
Furono mandati via i visitatori poco dopo, arrivò un medico per ricontrollare i due feriti e sbatter fuori un davvero poco entusiasta Kyoutani, insieme a tutti gli altri.
Appena fuori dall’edificio Hajime incontrò Oikawa.
«Iwa-chan!» cinguettò lui andandogli incontro, mentre Iwaizumi lasciava che il resto dell’equipaggio lo precedesse.
«Come mai qui?» chiese il capitano guardando sospettoso l’alieno.
Lui negò scuotendo le mani «Sto benissimo Iwa-chan, tranquillo» assicurò lui leggendo alla perfezione i suoi pensieri «sono venuto a trovare la nonnina, non è stata molto bene nell’ultimo periodo.»
Hajime annuì assimilata l’informazione, poi aprì la bocca per chiedergli se stava meglio adesso, ma Oikawa lo anticipò «Mi accompagni un posto Iwa-chan?» chiese piano.
Iwaizumi cercò di indagare la sua espressione, ma non vi scorse nulla di strano, sembrava tranquillo e rilassato, nessuna nube ad offuscare il suo sguardo.
Sospirò «Nulla di strano però? Non mi voglio cacciare nei guai per colpa tua.»
«Hai così poca fiducia? E poi sei sempre cattivo» si lamentò l’altro, ma poi ghignò divertito, afferrò la sua mano e lo trascinò lontano.
Riconobbe le intenzioni di Oikawa quando si fermò al limitare del bosco, avevano aggirato la pista di atterraggio cinque, e l’alieno si fermò solo davanti alla vecchia torre di controllo.
Hajime ricordava che quando aveva incominciato l’accademia era successo un incidente: la torre, già in dismissione, era stata colpita in un atterraggio di fortuna da una delle navi dei ribelli. Era in piedi per miracolo e da allora era stata abbandonata.
Chissà perché non si stupì affatto quando vide Oikawa iniziare ad arrampicarsi sulla scaletta di ferro quasi del tutto arrugginita, diretto con ogni probabilità alla sommità della torre.
E quindi dovette seguirlo arrampicandosi a sua volta sui gradini deteriorati fino alla cima.
L’alieno si era sdraiato sul tetto della torre e fissava il cielo, Hajime lo imitò.
«Quindi perché siamo qui?» domandò dopo fin troppo silenzio.
«Volevo rivedere le stelle in tranquillità» spiegò lui «sono diverse da quelle che ornavano il cielo di casa.»
Hajime sbirciò verso di lui e nel suo sguardo notò un pizzico di nostalgia «Le stelle sono le stesse, le vedi solo da un’altra prospettiva» gli spiegò.
«Hai mai provato a contarle tutte, Iwa-chan?» il nomignolo scivolò tra le sue labbra quasi come una carezza.
«Da bambino» ammise «poi ho capito che era impossibile.»
Oikawa non rispose, rimase a fissare il cielo, perdendocisi dentro.
«Ho sempre pensato ci fosse qualcosa di strano in me, ero sempre l’unico a fissare il cielo, a sentire la voce delle stelle» riprese l’alieno «poi ho capito che l’universo e le stelle parlano a tutti, per essere visti, ascoltati, notati, ma solo alcuni riescono a comprenderli sul serio. Quindi forse Iwa-chan era destino che ci conoscessimo.»
«Non ci credo» sussurrò Iwaizumi «non ci credo nel destino. Ma forse posso ringraziare le stelle perché mi hanno permesso di incontrarti.»
Si accese piano una tenue luce azzurra. Hajime si voltò verso Oikawa, la luce, prevedibilmente, veniva dal marchio sul suo petto e così si concesse un sorriso divertito «Quello permette di leggerti fin troppo bene» gli disse.
«Iwa-chan non rovinare il momento, hai appena detto qualcosa di così carino» si lagnò lui.
«Sta zitto» sbottò Hajime che diceva tutto tranne cose carine.
Si sentì stringere la mano e ricambiò la stretta lasciandosi andare ad un sorriso.
Si sentiva bene, come non si sentiva da diverso tempo.
Non importava del resto, tutto sembrava lontano: le missioni che si accavallavano, la guerra sempre alle porte, suo padre che gli avrebbe presentato l’ennesima ragazza su cui poteva “prendere in considerazione l’idea di uscirci seriamente e magari sposarla”.
Non c’era nulla. E nella felicità chissà perché sentì qualcosa all’altezza del petto, fargli male.
 
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«Ma certo la corsa del Re! Le conosci le regole, vero? Possono parteciparvi tutti i ragazzi che fanno parte dei Primi, per mettersi alla prova, per far vedere chi è il più forte. È praticamente una corsa intorno a tutto il perimetro della foresta sotto la chioma, dove l’aria della Gamma è quasi del tutto assente e tu respiri praticamente solo quella velenosa della sabbia infinita. Un giro intero e si rischia la vita, se riesci a concludere il percorso di solito perdi i sensi poco dopo, per il troppo veleno; allora i saggi percorrono la Scala Sacra fin alla fine ed arrivano tra le fronde della Gemma, dove puoi trovare i suoi frutti. Servono a salvare i partecipanti, certo se la Gemma ritiene che tu sia stato una buona persona e che tu abbia dato il meglio di te, in fondo la corsa non è obbligatoria, quindi devi essere motivato»
«E quindi chi vince?»
«Chi sopravvive, e chi arriva primo ovviamente! Ma sai si dice che in alcune generazioni nascano ragazzi particolarmente dotati, con un talento naturale fuori dal comune. Sono loro i veri vincitori, quando finiscono la corsa, al primo posto, stanno bene, non avranno bisogno dei frutti della Gemma, loro sono fortissimi e resistono anche al veleno della sabbia infinita!»
«Come si fa ad essere uno di loro?»
«Ci devi nascere, è un talento naturale che nessuno può eguagliare, neanche se ti allenasse con tutto te stesso. Detta così sembra quasi una terribile ingiustizia…»
 

 
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Era finita.
Nella mente di Hajime non veniva visualizzato altro se non quello. In più, riusciva a sentire voci che si accavallavano tra di loro: il comandante della spedizione che urlava all’interfono di abbandonare e tornare indietro, il computer che, con una cantilena ininterrotta, ripeteva i nomi dell’equipaggio delle due navi catturate, una voce dentro di lui che gli urlava di lanciarsi al salvataggio.
Aveva disobbedito agli ordini dei superiori, non ci aveva pensato due volte prima di lanciarsi all’inseguimento delle due navi mercantili che erano state agganciate da un incrociatore dello Stato.
I tiratori erano riusciti a neutralizzare qualche caccia nemico, ma poi si erano troppo avvicinati all’imponente nave, e il raggio magnetico era troppo potente perché riuscissero a fuggire, anche utilizzando l’ipervelocità.
Ma Hajime non aveva nessuna intenzione di fuggire.
Non era il suo piano principale farsi catturare, aveva sperato di arrivare prima, di interrompere il raggio magnetico sulle due navi, e permettere a tutti loro una via di fuga. Ma era arrivato tardi.
E ora aveva messo in mezzo l’interno equipaggio.
La sua mente capì che non poteva rimanere lì ad auto compiangersi. Aveva combinato un vero casino, e sapeva fin troppo bene quanto lo avrebbero punito una volta rientrato alla base.
Se fosse rientrato alla base.
All’interno di ogni nave da guerra come la loro c’era un sistema di autodistruzione. Era veloce, abbastanza potente da spazzar via l’intera nave e il suo equipaggio in qualche secondo.
Era la prassi quando venivano catturati, meglio quello che finire in una prigione dello Stato, subire interrogatori, che alla fine erano solo torture.
Su ogni nave militare erano custoditi file importanti per i ribelli: mappe, rotte commerciali, pianeti che ospitavano basi più popolate, o fabbriche di armi. Era quello che l’autodistruzione doveva anche salvare dagli occhi dello Stato.
Ma su ogni nave militare quei file potevano essere sbloccati solo dal capitano e la metà di quelli che trasportava la nave di Hajime erano falsi, una tecnica introdotta da poco, che si era rivelata parecchio efficacie.
Il capitano prese un respiro, il piano c’era quindi.
«Ascoltatemi» disse al suo equipaggio, la nave non aveva bisogno di esser pilotata, il raggio li stava attirando dentro la piattaforma di atterraggio dell’incrociatore «non dovete dire una parola, probabilmente vi porteranno in una cella e terranno me da parte per interrogarmi, non provocate incidenti» lanciò un’occhiata ammonitrice a Kyoutani «vi farò uscire in un lampo negoziando il nostro rilascio.»
Ci credeva davvero in quelle parole e pregò perché tutto il suo sangue freddo lo aiutasse in quella situazione critica. Non poteva lasciarsi sopraffare dai sentimenti, non in quel momento dato che erano stati proprio loro a mettere in pericolo tutti.
Strinse forte i pugni, il tessuto sintetico dei guanti scricchiolò.
Perdonatemi ragazzi.
 
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«Abbiamo un accordo quindi?»
Tooru lo odiava, e lo aveva lasciato trapelare in qualunque modo, prendendosi enormemente gioco del suo interlocutore, che probabilmente era abituato a quei dibattiti, era abituato ad averla vinta.
Il problema, nonostante avesse tenuto testa all’uomo in modo impeccabile, era che non poteva rifiutare l’offerta.
Aveva fatto un passo falso e ora fin troppa gente ci stava rimettendo. Lui ci stava rimettendo.
Ed era qualcosa che non poteva sopportare. Non lo faceva solo perché era in debito, ma sentiva dentro di sé il desiderio forte di proteggerlo per una volta, di essere lui quello forte.
Certo glielo doveva, ma lo doveva anche a se stesso, per dar prova di quei sentimenti.
Tooru ne avrebbero sofferto e anche lui ne avrebbe sofferto immensamente. Non sapeva, fino in fondo, a cosa stava andando incontro. Era sicuro che gli sarebbe mancato, gli sarebbe mancato come l’aria, come il suo pianeta, come le corse a cinque metri da terra sulle radici della Gemma che si illuminavano al suo passaggio.
Ma lui aveva la sua vita, la sua missione, sarebbe stato felice.
E Tooru si sarebbe adattato, sarebbe stato contento di aver fatto un’altra buona azione per una persona che amava.
Forse guardando le stelle avrebbe continuato a sentirlo vicino.
Alzò lo sguardo sul capitano dello Stato, cercò di dare un tono sicuro alla sua voce, ripetendosi che non importava quanto avrebbe sofferto per quello, era meglio così «Abbiamo un accordo!»
 
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«Ho visto davvero troppe azioni eroiche e coraggiose da parte dei tuoi compagni capitani. Una grande lealtà anche, navi che si lasciavano esplodere ancor prima che il raggio magnetico le agganciasse del tutto. Deduco quindi che tu sia un completo pazzo, capitano Iwaizumi.»
Lasciò che i velati insulti gli passassero sopra senza incrinare la sua espressione, la calma in quel caso era tutto ciò che poteva aiutarlo.
«I miei compagni sono stati catturati» si giustificò solo in quel modo, fissando impassibile il capitano dell’incrociatore dello Stato, che si era scomodato di venir a negoziare con lui.
«E qualche inutile vita vale i segreti del tuo rango e della tua nave?» domandò quello divertito.
Hajime sapeva che tutto ciò doveva divertirlo davvero molto, quelli come lui avrebbero preferito radere al suolo un intero pianeta abitato dalle proprie genti, pur di non lasciar trapelare nessun segreto. Quindi era sicurissimo che l’uomo lo considerasse solo un pazzo, e finché continuava a crederlo Hajime era abbastanza sicuro di poter rigirar la situazione a suo favore.
«La pensiamo in modo diverso, questo è ovvio» replicò Iwaizumi.
«Di sicuro» rispose il capitano «quindi elencami liberamente ciò che vorresti, ma sappi che potrò concederti quasi tutto, a patto che tu mi dia le informazioni che voglio.»
Le informazioni false sono tutte tue pensò Hajime compiaciuto, la negoziazione non stava andando male.
«Penso tu possa immaginarlo» disse «voglio che non venga fatto alcun male a nessun uomo del mio equipaggio, come anche a quelli che avete catturato delle due navi mercantili. Puoi avere tutte le informazioni che trasporto sulla mia nave, ma ci lascerai andar via tutti.»
Non era un’offerta che avrebbe rifiutato, non poteva farlo. Avere una trentina di prigionieri ribelli poteva anche essere qualcosa di utile, ma a confronto c’erano file segreti molto più importanti.
La vita di tre equipaggi a discapito di quella di un pianeta intero, di una base su un satellite sperduto, di progetti di armi forse più innovative.
Non poteva rifiutare.
E così Hajime avrebbe salvato tutti, anche se in primo luogo era stato lui stesso a metter i suoi uomini in pericolo.
Il capitano dello Stato bisbigliò nell’orecchio del suo secondo in comando qualcosa, questo annuì e poi uscì dalla sala degli interrogatori. Ad Hajime sembrò quasi che le manette intorno ai suoi polsi si fossero ristrette, e si ritrovò a deglutire piano.
«Va bene» disse l’uomo, adesso lo fissava divertito «avrai indietro i tuoi uomini e quelli trasportati dalle navi mercantili.»
Era fatta.
«Ma c’è qualcosa che trasportate che non è propriamente umano, vero?» chiese invece il capitano «qualcosa che credo terrò io, dato che i governanti dello Stato Galattico lo stavano cercando.»
Hajime sbiancò di colpo.
«Ne avevano salvati davvero pochi da quel pianeta inabitabile, e lo Stato tiene a preservale le specie minori. Andrà con i suoi simili nello spazio che abbiamo allestito loro, in un pianeta del sistema centrale. Credimi a molti piace vedere queste bestie rare nella ricostruzione umana dei loro habitat, fanno incassare non pochi soldi. E lo studio sul loro mutamento genetico si sta rivelando davvero interessante. Manca un ultimo pianeta da scoprire, e ritrovato quello lo Stato avrà in mano le tre razze non umane, ma senzienti, che popolano la galassia. Un bello zoo e un laboratorio di cavie notevole.»
Iwaizumi sentì una fitta allo stomaco e capì che era dovuta ad un colpo inferto con il calcio di un fucile da uno dei suoi carcerieri, si doveva essere alzato di scatto dopo quelle affermazioni, le manette stringevano e laceravano i polsi.
Il capitano ghignò «Qualcosa mi dice che ti hanno mandato proprio per recuperare l’alieno, non è così?» chiese «beh manderemo indietro ai cari ribelli soltanto inutili umani, voglio le informazioni che mi hai promesso capitano Iwaizumi, o troverò un modo molto meno carino per ottenerle da te.»
«Avevamo un accordo!» ringhiò Hajime «voglio portar via tutti, anche l’alieno.»
«L’alieno non va da nessuna parte, ora» gli avvicinò uno schermo piatto con i codici bloccati, quelli che servivano per accedere ai file della sua nave Ace.
Sentiva il cuore, furioso come lui in quell’istante, rimbombargli nelle orecchie, così tanto da fargli girare la testa. Non poteva essere quella la fine, non ci credeva e non voleva accettarlo.
Si era fatto catturare quasi apposta, aveva messo tutti in pericolo solo per riuscire a liberare Oikawa, che era sulla seconda nave mercantile, in incognito, diretto al pianeta dove avrebbe dovuto svolgere la sua missione.
La sua mente non riusciva ancora a venire a patti con quella che era la realtà, ma non avrebbe lasciato lì l’alieno ne era sicuro, avrebbe trovato un modo, un modo qualsiasi per…
«Ti lascio parlare con lui, capitano Iwaizumi» l’uomo davanti a sé tirò fuori quelle parole con disdegno, guardandolo con pietà e divertimento al tempo stesso «poi voglio quei file.»
 

«Iwa-chan.»
Oikawa fece il suo ingresso in quella piccola sala nascosta nei meandri dell’immenso incrociatore dello Stato mentre Iwaizumi aveva ancora le braccia legate dietro la schiena, le mani unite insieme da manette che ormai avevano leso fin troppo i suoi polsi.
Hajime alzò lo sguardo su di lui e quasi non gli sembrò vero vederlo lì davanti a sé, la linea del suo corpo che si stagliava decisa in controluce, il suo sguardo preoccupato che suscitava in lui le stesse emozioni di quando l’aveva scorto per la prima volta. Sembrava passata una vita, da quel primo momento in cui i loro cammini si erano incrociati e legati tra loro. Ora il filo era teso, lo strappo era inesorabilmente vicino.
Quando Oikawa gli fu di fronte si concesse di alzare lo sguardo su di lui e fare un sorriso stanco «Se non avessi le mani legate ti prenderei a pugni, idiota» sussurrò «perché sei qui?»
«Mi hanno detto che fra qualche ora vi avrebbero rilasciati» spiegò lui con un sorriso stanco «e io volevo salutarti.»
«Risparmiamelo ti prego, risparmia queste parole» sbottò Hajime.
«Cosa vuoi sentirti dire allora Iwa-chan?»
«Nulla sta zitto e fa parlare me. Non me ne vado di qui se non soddisfano le mie richieste e non darò loro nessuno dei file, torneremo tutti a Riot-4… tutti» la voce si spense sula finale.
«È stato tutto improvviso» Oikawa cambiò discorso, probabilmente non voleva dargli la risposta che Hajime temeva così tanto «il capitano pensava che la rotta fosse difficile, ma sicura. Ci hanno accerchiati in così poco tempo.»
«Dovevi nasconderti, potevi farlo e dovevi farlo» disse lui.
«Hanno la mia gente, sapevano come eludere il mimetismo, anche quello termico e mi hanno trovato» spiegò calmo l’altro.
Calò il silenzio e Hajime si stupì come in quel momento sembrava Oikawa quello forte tra i due.
Probabilmente lui lo era sempre stato, ma per Iwaizumi era più facile vedere la sua fragilità, cercare di proteggerla. Erano davanti ad una svolta e se da un lato il capitano umano aveva solo voglia di urlare e lasciare che le manette affondassero di più nei suoi polsi, l’alieno sembrava calmo.
Era venuto a patti con la situazione, era rassegnato, ma anche deciso.
Hajime si ritrovò a chiedersi cosa gli avessero detto, cosa gli avessero promesso per renderlo cosi quieto, se riusciva a soprassedere a quella che era evidentemente una sconfitta su tutti i fronti.
«Cosa… cosa ti hanno detto?» chiese Iwaizumi.
Quando Oikawa fece comparire il suo sorrisetto falso gli venne voglia di urlare «Non ti devi preoccupare Iwa-chan, non vi faranno del male, tornerete a casa, salvi.»
«Torni anche tu a casa con noi.»
«Io non ho più una casa.»
Quelle parole gli fecero davvero male.
«A Riot-4, quello non era un bel posto? Non ti sei sentito protetto, al sicuro?»
Sorrise amaramente «Lo ero, ma la mia casa è stata distrutta Iwa-chan, lo hai visto anche tu.»
Il respiro si fece aspro e amaro nella gola di Hajime, come aveva fatto a non accorgersi di quello? Era stato davvero male? Era davvero così pronto ad abbandonarlo?
Non sono stato abbastanza.
«Iwa-chan» Oikawa si chinò verso di lui, rimanendo in ginocchio alla sua altezza, poi poggiò una mano sul petto del capitano «lo sai che ti devo tutto. Non pensare che io sia stato male in questo anno e mezzo, mi hai salvato» si fermò soppesando le parole, mordendosi appena un labbro, sembrava indeciso se continuare o no «devi lasciarmi ricambiare il favore.»
Sì, gli avevano offerto un accordo.
«Se stai facendo qualche stronzata per me, io giuro…»
«No» assicurò strizzando un occhio «sto facendo quello che ritengo giusto, sai che non farei mai qualcosa di stupido.»
Gli avrebbe voluto tirare una testata e cancellargli dalla faccia quel sorriso insopportabile, invece si ritrovò ad essere grato di sentire il palmo della sua mano sul petto, di sentire il suo calore.
Si udì un colpo contro la porta, e lo sguardo di Oikawa tornò serio e triste.
«Sono così contento che sia stato tu quello che mi ha salvato e non ti dimenticherò per questo. Chiedevo alla Gemma di farmi incontrare gli alieni, guardavo le stelle pieno di aspettativa e aver incontrato te» sorrise «ne ho pagato un grave prezzo, forse questa è la mia punizione.»
Iwaizumi non capiva, non voleva capire, in quel momento avrebbe dato ogni cosa per tornare indietro di una settimana, per prenderlo a calci un’altra volta, per impedirgli di accettare quella missione, per poterlo stringere ancora.
«Oikawa…»
«Promettimi solo una cosa» lo interruppe «anche se è finita così, continuerai a guardare le stelle Hajime?»
Quindi finiva lì?
Iwaizumi rimase con gli occhi sbarrati mentre Oikawa si avvicinava a lui baciandolo per l’ultima volta.
Rivide le stelle nei suoi occhi e nel suo sorriso, poteva giurarlo. Lo sentì sussurrare parole nella sua lingua, che non riuscì a comprendere, ma che gli si conficcarono nell’animo.
Non poté far nulla se non vederlo lasciare la stanza, fissare un’ultima volta la sua figura che nell’ultimo periodo era l’unica cosa che riusciva ad attirare il suo sguardo, come neanche mai il cielo ci era riuscito.
Si ritrovò a sussurrare piano il suo nome quando ormai non poteva più sentirlo.

Dopo aver rilasciato le informazioni, quando tornò a capo della sua nave, quando si lasciò alle spalle l’incrociatore dello Stato, dopo aver salvato il suo equipaggio e quello dei due mercantili, mentre il vuoto sembrava risucchiare ogni cosa sentì di nuovo nella sua mente le parole di sua nonna.
“Quando le emozioni ti avranno sopraffatto Hajime-chan, quando farà male, non disperare. Il dolore fa parte di noi, tu lo sai, i ricordi sono il suo lascito e loro riescono a scaldarti il cuore e rallegrarti. Sono racchiusi nelle stelle, quindi tu continua a guardarle”.























Angolino

Salve a tutti! :D
... no, va bene, non c'è motivo di essere allegri, anche perché so per esperienza, che quello che rimane di più di una storia appena conclusa, è il finale. E questo finale è stato tragico da scrivere e terribile da rilegere.
Non odiatemi vi prego ;_; ancora prima di inziare questa storia aveva deciso di non includere un lieto fine, perdono T_T
E nonostante tutto eccoci qui, è finita! E stata la prima volta che mi sono cimentata in una mini-long, ovviamente il risultato mi soddisfa poco. Ho tagliato parti che avrei voluto approfondire, ma per forza di cose non ho potuto.
Diciamo che lavorare con i personaggi in una AU è sempre una buona sfida, mantenerne i caratteri e le interazioni tra di loro non è mai facile.
Come vi sono sembrati i due protagonisti? 
Ho cercato di dare il meglio di me per renderli credibili, spero di aver fatto un buon lavoro ^///^
Come al solito ho letto e riletto, se ci sono errori mi scuso profondamente e una volta finito il contest provvederò a correggerli!
Avrei altre tremila cose da dire, ma non voglio dilungarmi troppo qui sotto, quindi faccio partire un lungo sproloquio sui ringraziamenti, che ci stanno sempre!
Grazie a chi ha seguito la storia, chi l'ha letta ed è arrivato qui alla fine.
Grazie a chi mi ha fatto sapere che questa storia gli è piaciuta, i vostri commenti, i vostri appunti mi hanno riempita di gioia, anche perché non immaginavo sarebbe piaciuta così :')
Grazie alla giudicia organizzatrice del contest per aver creato, appunto un contest così bello, che mi ha ispirata un sacco!
Nulla, ho finito, ancora tante scuse a chiunque aspettasse un lieto fine ç_ç
Grazie mille gente, e alla prossima! (perché tanto su questo fandom ho messo radici :3)

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