Sherazade

di Carla Marrone
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sherazade ***
Capitolo 2: *** Atena ***
Capitolo 3: *** Tre giorni dopo ***
Capitolo 4: *** Manigoldo e la grande abbuffata ***
Capitolo 5: *** Chiacchiere e sigarillos ***
Capitolo 6: *** Il viaggio segreto ***
Capitolo 7: *** L'avventura ha inizio... un'altra volta ***
Capitolo 8: *** Patto di sangue ***
Capitolo 9: *** Quasi come la scena del balcone...dico quasi ***
Capitolo 10: *** Cavaliere d'Atena ***



Capitolo 1
*** Sherazade ***


1.SHERAZADE

I gradini del Grande Tempio sembrano non finire mai. Accidenti! Devo vedere un tizio che si fa chiamare Gran Sacerdote… bello strambo. Spero solo che non sia un vecchio bavoso che vuole attaccar bottone.

Sono stata, letteralmente, reclutata. Il colpevole è un ragazzo, all’apparenza sulla ventina, abbigliato con una specie di tuta bianco-grigia ed un’ambigua placca di metallo legata da cinghie di cuoio alla spalla. Negli ultimi giorni è venuto spesso nel locale in cui mi esibisco. Sono una ballerina di danza orientale. Mi ha detto di essere “incaricato della circolazione di notizie” presso il Tempio. E, probabilmente, si aspettava che me la bevessi. Chissà quale sporca mansione svolge in realtà? Questo “luogo sacro” degli ateniesi mi puzza di brutto. E’ come se avesse una sorta di aura tutta bizzarra, o affascinante, o tutt’e due le cose, chissà. Comunque, Allen, (è questo il nome del messaggero), si presenta da me una notte, dopo lo spettacolo e mi pianta sotto il naso una strana ed alquanto sospetta pergamena. “Per caso, la sai leggere?” mi chiede subito dopo, trafelato e speranzoso. 

Gliela leggo. E’ tratta da un testo sanscrito. Credo sia originale, quindi, molto preziosa. Faccio attenzione a come la prendo tra le mani. E’ la lettera d’amore di un imperatore alla sua futura sposa. Il giovane appariva imbarazzato, mentre leggevo. Se è così puritano su certe cose, forse, una poi così cattiva persona non deve essere. Ci ho talmente tanto fatto il callo ad incontrare spostati, facendo questo lavoro, che ho praticamente perso la sensibilità. Dimenticavo di dirvi che sono una glottologa, esperta in lingue dell’antica Mesopotamia. Cosa che mi ha portato ad amare, e poi, apprendere la danza del ventre. 

“Non credevo potessi farlo davvero!- Mi ha detto al culmine della gioia. – il Gran Sacerdote sarà felice di saperlo. Allora posso contare sul tuo aiuto?” mi ha chiesto dopo un attimo di titubanza. Mi sono permessa di domandargli a cosa gli servisse il mio aiuto e lui mi ha risposto che non avrei dovuto far altro che tradurre una scrittura simile a quella che mi aveva propinato. Niente di ché, credo di poterlo fare, se ci tiene così tanto. Il modo in cui me l’ha proposto non mi è dispiaciuto del tutto. Si incontrano raramente persone così energiche e positive. Devo ammettere, però, che non avrei voluto mescolarmi troppo alla gente e agli affari di questi luoghi. Preferisco star lontana dai guai. E il Tempio mi puzza di guai.

Io non sono di qui. Un giorno mi sono avvicinata ad uno strano dipinto e, di punto in bianco, mi sono ritrovata qui. Niente più famiglia, niente amici, niente tecnologia! A volte, mi chiedo se, per caso, non sono capitata in un’altra dimensione. Ma, evito accuratamente di darmi la risposta. La cosa mi spaventa troppo. Davvero, non mi spiego perché, per quanto mi sforzi, non riesca a ricordare come sono finita qui. Sono convinta che, se soltanto riuscissi a ritrovare quel quadro… Su questo punto, ritornerò, indubbiamente, più avanti. Non abbiate paura. Comunque, mi sono adattata subito. A quanto pare, la gente che abita in questa parte della Grecia, non ha mai visto la danza orientale. Il ché, un po’ mi spaventa. Una sarta ha accettato di cucirmi dei costumi di scena, per il puro gusto di divertirsi a vedermi dei “cenci tanto strani” addosso mentre ballo. Mi sono sdebitata, che credete. Nel giro di una settimana, lavoravo già alla taverna di Zorba. Per fortuna, possiedono strumenti simili a quelli mediorientali, anche qui. Mi è bastato mostrare a un paio di musicisti spiantati qualche accordo, con la mia vaga conoscenza di darbuka e taksim e mi hanno colto al volo. Adesso sono Ivan e Paul i miei migliori amici. Ed anche, mi tocca ammetterlo, la mia nuova famiglia. Lavoriamo insieme alla taverna. Ci aiutiamo a vicenda. E questo mi rincuora. 

Ma per tornare a noi: Allen è venuto alla bettola, il giorno seguente, dicendomi che il Gran Sacerdote era pronto a ricevermi e che mi avrebbe condotto al Grande Tempio di Atene. C’è troppa roba dalle grandi dimensioni per i miei gusti. Grande errore seguirlo. Ma che ci volete fare, sono gentile. D’accordo, sono curiosa, va bene? 

 

Montiamo in cima a quello che mi appare come il milionesimo gradino. Davvero, capisco che a voi greci piaccia fare tutto in grande, ma questi gradini sono immensi. Ed anche infiniti. Ad un tratto, Allen si congela. Mi volto nella direzione in cui sta guardando, alla ricerca di una spiegazione. Che arriva subito, chiara e lampante. Dei tipi, vestiti con delle armature gialle, ci fissano da in fondo al cortile. Che strani… Tutti bei ragazzi, però. Se solo non avessero quelle armature. Vietato pensare male! Il giovane che è con me si prostra in un inchino rivolto a loro. I ragazzi dorati non dimostrano di averglielo visto fare. E non rispondono. Tutti molto simpatici, tra l’altro, devo dire. Io non li saluto. Punto e basta. S’incamminano, invece, verso una sala interna. 

Allen mi ha raccontato qualcosa sul Tempio venendo qui. L’ha fatto quando ha notato il mio stupore nel constatare che tutti i presenti del luogo sacro stavano combattendo, in una specie di arena. A quanto pare questi tizi, seppur poco simpatici, a differenza di Allen, sono dei veri e propri paladini dell’ordine e della giustizia. Quelli con le armature dorate, all’apparenza, solo dodici, (i meno simpatici), portano il rango più alto. Mmmm. Ma sarà oro vero? Altro non mi concerne. 

Ci dirigiamo anche noi verso lo stesso spazio chiuso. Per modo di dire. E’ talmente maestoso che sembra di stare all’aperto. Ma non appena metto piede sulla soglia, non è la disposizione della mobilia a colpirmi, come avrei creduto, ma quella degli esseri umani. Esseri umani? Siamo sicuri? Se ne stanno tutti ritti nella schiena con le facce abbassate e in silenzio (non credo nemmeno che sappiano parlare) in due ordinatissime file da sei. Ok, qui si rasenta la paranoia. Non mi piace la situazione. E se è così all’inizio, non oso immaginare gli sviluppi. Questo è il classico frangente in cui vorresti poter bussare ripetutamente e ponderatamente ad una porta. Che purtroppo, è già aperta. Mi faccio coraggio e do il primo passo avanti. Mi sento come una lillipuziana in un mondo di giganti. Sono alta solo un metro e cinquanta e secca come un chiodo. Mentre sfilo davanti agli eroi, noto i loro fisici scolpiti, le spalle grandi e la notevole altezza che pare accomunare tutti quanti, tranne uno. Apparentemente, il più giovane. Da lontano non sembravano così spaventosi. Adesso capisco perché il soffitto della stanza è così alto. Vedo Allen inginocchiarsi davanti a quello che ipotizzo essere il Patriarca. Per un qualche strano automatismo sono portata a farlo anch’io, quasi in sincrono. Allen tiene il mento schiacciato contro il petto di tanto piega la testa. Io mi limito a fissarmi la scarpa da ginnastica, corrispettiva al ginocchio sollevato. Indosso dei pantaloni alla turca con piccole righe verticali bianche, nere e rosse, una maglietta over-size bianca ed un ampio cardigan color fango, sormontato da una pashmina sabbia, lasciata morbida intorno al collo. Praticamente, una barbona in un mondo di nababbi. Ripeto: dovrebbero togliersi quelle dannate armature. So che posso suonare logorroica, ma mi farebbero davvero meno paura. Ed io, lo so, quando ho paura di qualcosa, butto tutto sulla scemenza, dicasi anche cazzeggio, più estremo. Temo per le loro orecchie…

“La signorina Sherazade, ipotizzo?” Una voce possente tuona sopra la mia testa. Ok, adesso me la faccio sotto. Ma mi viene automatico rispondere, apparentemente calma.

“Miranda è il mio vero nome. Sherazade è quello che uso quando mi esibisco.” Ebbene sì, ho una doppia identità, come i super eroi. La verità è che conciata così e con i miei lunghi capelli mori e mossi legati dal fermaglio, dietro la testa, quasi nessuno mi riconosce e a me conviene proprio di più. La verità: la gente non ha interesse ad identificare una ballerina mezza nuda con un maschiaccio troppo coperto. Suona molto “diva spezzata”, ma è così. Non ho fatto a tempo a dirlo ad Allen. Ci conosciamo da talmente poco.  

“Io sono il Patriarca di questo Tempio e loro sono i miei Cavalieri. – fico, si chiama Patriarca da solo! Quanto vorrei avere la sua autostima.- Immagino tu sappia perché sei stata portata qui.” Conclude infilando due sfere di ghiaccio nei miei occhi neri. No, sul serio…

“Perché so decifrare il sanscrito, giusto?” Mi accorgo che la mia voce vacilla. 

“Dunque è così che si chiama questa lingua?- sorride beffardo- è già un buon inizio.”

Mi prende per il culo? Forse lo fa a se stesso, tutto da solo. Mi tocca ammettere che mi sto rilassando man mano il tempo passa. E quando io mi rilasso, lo so, e credo che adesso lo sappiate anche voi. Esatto: cazzeggio! 

Mi accorgo, in un secondo durante il quale riesco a staccare gli occhi da quelli del Patriarca, di un piccolo tavolo di legno su cui sono posate diverse pergamene. 

“Quanto tempo pensi possa volertici per decifrarle tutte?” Mi domanda ancora, imperioso. Ed inquisitore, aggiungerei. 

“Quanto tempo ho?” Wow mi sento figa a fare questa domanda. Fa molto very professional. 

Avvicina il mento al collo e sorride ancora, sembrerebbe persino bonario. “Quanto te ne serve. Non siamo qui per metterti fretta, ma per collaborare.” 

Ho capito bene? Ha detto collaborare? Loro? Con me? Quindi, tutti questi bei ragazzi sarebbero a mia completa disposizione? Ok, basta con le domande. 

Non ricevendo una mia risposta, (scusate al momento sono un po’ persa nei meandri delle mie fantasie), conclude:- Lavorerai nella stanza adiacente questa, qualora tu avessi bisogno di protezione. –il suo tono si fa greve- hai rischiato che ti trovassero prima di noi. E qualora avessi bisogno, invece, di un supporto, diciamo, didattico, puoi recarti nella biblioteca di Dégel.-

Mi volto per cercare il soldato-bibliotecario di cui mi parla. Vedo un giovane dai lunghi capelli corvini chinare il capo. Dunque è lui. Mi inchino anch’io. Sono sempre più convinta che non sappiano parlare. Ma così disimparo anch’io. A pensarci bene, non c’è pericolo.  

E mi metto subito alla prova. “Immagino che dovrò lasciare il mio lavoro di ballerina alla locanda e vivere qui. Almeno a quanto ho capito.”

“Solo fin quando tutto non sarà concluso.” Grazie al cazzo. Il che mi porta a pensare che devo sbrigarmi. Voglio rivedere Ivan e Paul. Devo raccontargli tutto quanto. 

“Va bene- abbasso la testa rassegnata. Poi, dopo una breve pausa- cosa ho rischiato esattamente?”

Il Gran Sacerdote sospira profondamente. “Non so, con esattezza, come facessero a sapere della tua abilità. Sicuramente, stanno cercando persone come te… Quelle scritture ci indicheranno come arrivare ad un tesoro molto importante prima dei nostri nemici. Inutile dirti, che se quel tesoro, un’arma pericolosa, invero, dovesse cadere in mano ai nostri nemici, sarebbe nelle mani sbagliate.” Dice il tutto con lo stesso tono con cui chiederesti di passarti le zollette di zucchero da mettere nel tè. 

Un momento: io prima avevo una doppia identità come i super eroi… Adesso SONO un super eroe. Cioè, rasento l’eroismo, per dirla meglio. Ok, ci sto! Che mi frega, tanto qui sono praticamente in una botte di ferro. Non può accadermi assolutamente nulla. Che suonano un po’ come le ultime parole famose.

Ad ogni modo, sono felice.

“Va bene.- Dico tra il deciso e il rassegnato- In tal caso, non posso che aiutarvi volentieri.” 

“Molto bene- sentenzia soddisfatto il Patriarca- Allen ti mostrerà la stanza in cui potrai dormire.” 

Dormire? E chi vuole “dormire”! Devo lavorare alle pergamene. Essere un eroe è piacevole, ma sicuramente, stancante. Per questo voglio sbrigarmi a risolvere la faccenda. In realtà, sono fondamentalmente pigra… Sbriga in fretta oggi quello che non dovrai fare domani. Lo ripeto sempre a me stessa, è praticamente il mio motto. Perché i tuoi domani da fancazzista contano! Oddio, adesso sembra una pubblicità progresso. All’inverso, però. Una “pubblicità regresso”. Sto cazzeggiando, ma che ci posso fare, sono felice. E quando sono felice, lo so, lo sapete, lo sappiamo tutti. Possiamo continuare. 

Allen mi si avvicina, mi fa segno con un braccio di inginocchiarmi e poi, con lo stesso braccio, mi indica quando alzarmi ed inizia a condurmi via.

“C’è un’ultima cosa- il Patriarca sorride generoso- è da stamattina che camminate ed immagino non abbiate ancora mangiato. Permettetemi di proporvi di unirvi alla nostra umile cena.” 

Quanto mi piace quest’uomo. Se solo avesse qualche anno in meno… Aspettate tutti: io devo lavorare! Non ho tempo da sprecare in cose come il cibo. 

“Vorrei dare subito un’occhiata alle pergamene, se possibile. Più tardi, non mancherò di farle sapere- mi affretto a dire, cogliendo un suo sguardo- voi cenate pure.- Sento di doverci mettere della sana ironia per rompere tensione e ghiaccio. Due piccioni con una fava.- Sa, sono una ballerina, qualche pasto lo dovrò pur saltare, di tanto in tanto, diciamo, almeno una volta all’anno. Adesso sembro un attaccapanni senza i panni, ma qualche anno fa,- mi porto l’indice al mento e scandisco le parole pensierosa, quasi parlando tra me- la gente mi guardava come se non distinguesse il mio dritto dal rovescio.” 

Sento delle risa camuffate alle mie spalle. Mi volto. Un bellissimo ragazzo dai capelli neri e spettinati, alti sulla fronte, tenta invano di nascondere l’attacco di ridarella. Non sapranno parlare, ma almeno ridono. E delle mie battute, che è ancora meglio. Quanto vorrei avere più amici, ora che sono lontana da casa… Ma so che questo è un sogno impossibile.  Io e loro viviamo in due mondi diversi. Letteralmente.

Comunque il Patriarca lo fulmina con lo sguardo, e tanto basta a convincerlo a desistere.

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Capitolo 2
*** Atena ***


2.ATENA

Mi reco decisa nella stanza accanto, sicuramente, più umile e ristretta rispetto alla precedente, ma, comunque, confortevole. La mobilia scarseggia. Ci sono solo delle sedie ed una panca coperta da una specie di lenzuolo, probabilmente adibita a luogo di riposo temporaneo. Non posso certo supporre che dei soldati sappiano cosa sia un divano. E, anche se lo sapessero, non lo userebbero. Fa troppo mammoletta.

In una piccola libreria, sono appoggiati dei calamai, con tanto di piume d’oca. Che non imparerò mai ad usare, senza imbrattare un intero foglio, prima di moderare le macchie quanto basta per capire cosa scrivo, nel successivo. Forse, dovrei scrivere bianco su nero, invece che nero su bianco. Tecnica innovativa, ma fortemente più idonea alle mie attuali capacità.

Le mensole sembrano contenere, in prevalenza, documenti. Magari, più avanti, potrei dare una sbirciatina…

C’è anche del sale fissativo per inchiostro e dei bicchieri contenenti fluidi che, suppongo, siano utilizzati per pulire i pennini. Alla mia destra, un’ampia finestra senza tende. 

Nel guardarmi intorno, non mi rendo subito conto che Allen sta entrando nella camera, trasportando il tavolo su cui sono poggiate le pergamene. Ma, per fortuna, faccio a tempo ad afferrarne una, prima che cada a terra. 

“Lasciati aiutare.” Gli propongo. Ho gli occhi sgranati, per la paura che lasci scivolare altri scritti importanti, ma abbozzo un sorriso. 

“Non si preoccupi, signorina Miranda, ho fatto.” Risponde gentile, declinando il mio invito. La sua voce non sembra nemmeno affaticata. Ed il tavolo appare pesante. Questi cavalieri sono un portento. Se è così in gamba lui, che è un semplice messaggero, non oso immaginare i cavalieri d’oro, che stanno alle dirette dipendenze del Patriarca. Per non parlare dello stesso Patriarca. 

Mi affretto a raccogliere con delicatezza tutti i testi sanscriti per tenerli al sicuro, prima che Allen sistemi il tavolo accanto alla finestra, rischiando, di nuovo, di farli cadere. Sono, in tutto, cinque. Sembrerò strana, ma non vedo l’ora di tradurli. D’altronde, l’interesse è lecito. E’ il mio lavoro. Senza tralasciare il piccolo dettaglio che, ne va della salvezza del mondo. Almeno credo sia quello che fa questa gente: salvare il mondo. Ora che ci penso bene, credo di aver parlato ad alcuni clienti del locale, dove mi esibisco, dei miei studi sulle lingue antiche. Certo, non avrei mai immaginato che, simili informazioni sarebbero potute essere utilizzate contro di me. O, peggio, contro l'intera umanità. Ma, non posso fare a meno di sentirmi in colpa. Per tanto, lavorerò sodo per aiutare i Cavalieri. Il Patriarca ha riposto la massima fiducia in me. Ragione in più per sentirmi motivata. Non mi è mai capitato, prima d'ora, che qualcuno mi domandasse aiuto per una cosa di simile importanza. Una parte di me gli è grata, per averlo fatto. L'altra, vorrebbe tanto dei documenti falsi ed un biglietto di sola andata per l'Antartide.  

“Grazie Allen. Sei stato gentilissimo. Magari tutti gli uomini fossero come te!” Gli butto lì un complimento, mentre srotolo una delle pergamene e mi avvio verso il tavolo, per appoggiarla. Mi serve un calamaio per tenerla ferma. Ne cerco uno vuoto. Trovarlo mi porta via pochi secondi. Quando mi volto, noto che Allen è ancora paonazzo. Non credo, tuttavia, sia per lo sforzo. Probabilmente, è avvampato quando l’ho ringraziato. Infatti, balbetta un:- Ho solo spostato un tavolo, in fondo.- ed aggiunge, calmandosi un po’- se hai bisogno di me, sono nella biblioteca di Dégel, nell’undicesima casa. Quella che ti ho mostrato venendo qui.”

“Grazie ancora. Ma puoi stare tranquillo. A quanto vedo- dico leggendo qualche riga- mi ci vorrà solo un po’ di tempo e impegno; nient’altro. L’unica cosa che mi serve ora, è di rimanere sola con questi gioielli d’antichità.- gli strizzo l’occhio- il sogno di ogni glottologo, praticamente.” 

Allen si inchina cortesemente e, in un attimo, sparisce fuori dalla porta, dopo avermi augurato buon lavoro. 

Non mi disturbo nemmeno a chiuderla, la porta. Tanto, qui, regna un silenzio di tomba. 

Ok, al lavoro! Per prima cosa, devo capire cosa mi ritrovo davanti. 

Due delle pergamene sono di facile lettura e, ad una prima occhiata, apparirebbero come una cronaca storica. Ci sono delle date. Un diario? Le altre due, sono scritte in una lingua simile al sanscrito, per tanto, più difficili da tradurre. Accanto alle parole, si vedono spesso dei puntini, ad un occhio inesperto, messi a caso. Ma io so che non è così. Mi ricordano l’arabo moderno. Mmmm. Potrebbe volermici più di quanto credessi. Anche perché, è l’ultima pergamena a darmi da pensare: vi sono dei disegni seguiti da brevi frasi, all’apparenza codificate. Le lettere somigliano a ideogrammi complessi. Si tratta, probabilmente, dell’unione di più parole in un unico simbolo. Sono tutte parole che conosco, ma, decifrarle, sarà un po’ come risolvere una sorta di rebus. Senza contare che non capisco ancora l’utilizzo dei disegni. Non ne ho mai visti di simili…

“Signorina, mi scusi?” Una voce infantile e cristallina mi riporta alla realtà. Alzo lo sguardo. Una ragazzina dagli strani capelli, di un colore che non saprei definire, mi osserva intenta e apprensiva. E’ molto graziosa. Ha grandi occhi verde-azzurro e, per qualche astrusa ragione, mi riesce quasi difficile sostenere il suo sguardo. La prima persona, in questo mondo, col quale mi è capitata una cosa simile, è stato il Patriarca. Nella mia dimensione, mi era successo una sola volta, alla prima esibizione, in un teatro importante, con la compagnia di danza. Lo sguardo delle persone era talmente penetrante che quasi mi bruciava. Poi, ci ho fatto l’abitudine. Ecco, se potessi definire quello che provo adesso, davanti a questa ragazzina, direi che è come la sensazione di essere sotto esame. Oddio, ieri ho sognato che dovevo dare l’esame di etnologia all’università! Ma, allora, il mondo ce l’ha con me. 

“Ciao, dimmi tutto.” Le sorrido bonaria, dopo un attimo di esitazione. 

La giovane si copre la bocca con una mano, poi, arrossisce un po’. Ma qui non si può proprio parlare con qualcuno senza farlo avvampare? Dico sul serio, diventa imbarazzante anche per me. E io sono dura da mettere a disagio.  

“Eri talmente concentrata che non mi hai sentito quando ti chiamavo prima…” O, almeno, ipotizzo abbia detto questo, perché la mano camuffava i suoni che le uscivano dalla bocca. Pare decidere di aver coperto abbastanza il suo bel viso, così, sposta il braccio quel tanto che basta per rivelare un dolce sorrisetto da bambina. 

“Davvero?- faccio preoccupata- mi avevi già parlato ed io non ti ho risposto? Mi spiace…” Non è una novità, per me. Anche a casa, quando studio glottologia, entro completamente nel mio mondo, tanto da non notare più ciò che mi circonda. 

“Mn, non fa niente, vuol dire che tieni molto al tuo lavoro, no?” Piega la testa di lato e punta un incerto indice verso la scrivania. 

“Beh,- ok, per quanto ami i complimenti, devo ammettere che il suo candore ci è riuscito a mettermi a disagio. Come dire, non so cosa rispondere. – fa parte della mia sfera di interessi. Mi cattura. Non ti siedi?” Chiedo, infine, riuscendo a cambiare discorso.

La giovane prende posto di fronte a me alla scrivania. E mi fissa. 

“Tu sei una traduttrice?” Si risolve, infine, a domandarmi. Stavolta, non arrossisce. Meno male. 

“Nel posto dal quale vengo, sì. Diciamo che è quello che vorrei fare nella vita. Ma, qui, svolgo un altro lavoro.” Le sorrido.

“Quale lavoro? Se posso chiedere…” A quanto pare, la ragazzina è curiosa come una scimmietta.  E nonostante l’evidente timidezza che, tuttavia, sembra non essere sufficiente a frenarla. 

“Sono una ballerina.” Le rispondo tentando di sembrare il più modesta e normale possibile. Non vorrei mai darle uno shock. 

Lei sembra resuscitare ed accendersi di vita, come fosse la prima volta. “Davvero? Mi piacerebbe tantissimo vederti danzare!- appare pensierosa per qualche momento- Magari, potremmo organizzare qualcosa qui al Tempio.” Mi propone, infine, euforica. 

Non vorrei darle una delusione, ma… “Non saprei, qui sono quasi tutti uomini- mi gratto la testa, indecisa- non vorrei essere mal interpretata. Sai, ho questo lavoro importante da svolgere…” E spero che, sentendo l’aggettivo “importante”, decida di lasciarmi finire quello che stavo facendo, dopo essersi congedata. 

“Mal interpretata?” Sgrana quegli occhioni che sembrano due tappini dello yogurt e reclina di nuovo la testina nell’altra direzione. Ho come la sensazione di trovarmi davanti ad una tela bianca. Decorata con tante nuvolette rosa, fiorellini ed unicorni. Onestamente, non saprei come spiegarle. Quali parole scelgo? Dimostra di essere più piccola di me, di almeno dieci anni. Anche se mi fanno tutti più giovane, io ho venticinque anni. Forse, potrei provare a dirglielo. Magari, perderebbe interesse in me. 

Decido, invece, di cambiare argomento. “Tu lavori qui al Tempio? Sei un cavaliere?”

Scuote la testa, poi, si scusa. “Non ti ho chiesto ancora come ti chiami.” 

“Miranda.” Le sorrido. Sono contenta che siamo riuscite ad uscire dalla zona “argomenti a luci rosse”. Non mi sembrava il caso di trattarli con una bambina. 

Saputo il mio nome, si rianima e, apparentemente senza motivo, diventa di nuovo rossa come un semaforo. 

Capisco il perché, non appena balbetta un:- A-a-llora siamo amiche, Miranda? Possiamo?- 

Mi viene da ridere mentre le rispondo un genuino “certo”! Cosa ci fa una ragazzina del genere qui al Tempio? Deve sentirsi parecchio sola… 

“Sono contenta. Allora, ti lascio al tuo lavoro, buona fortuna.” Annuisce un paio di volte, poi, coprendosi il più adorabile dei sorrisi con una mano si alza dalla sedia e fa per andarsene. Arrivata alla soglia della porta, mi saluta con l’altra mano. 

“Non mi hai ancora detto come ti chiami tu, però!” Le faccio notare, canzonandola un po’. 

Per qualche astrusa ragione, il suo volto, si fa improvvisamente triste ed io ho come l’impressione di aver toccato l’argomento sbagliato. Per quale disperata ragione una persona tanto gioviale dovrebbe incupirsi quando gli si chiede come si chiama? 

“Io sono Sasha, puoi chiamarmi così, se vuoi. – abbassa il volto- anche se tutti, qui, mi chiamano Signora Atena…” 

Oh cazzo! Adesso capisco tutto. Allen mi ha detto che a capo del Tempio non vi è il Gran Sacerdote, come io pensavo, bensì, una donna ritenuta la reincarnazione della dea Atena. Quindi, è lei… 

“Avresti dovuto dirmelo subito, Sasha. Mi sarei rivolta a te con maggior rispetto.” Le dico alzandomi dalla sedia e protendendomi un po’ in avanti. 

Mi sorride, mesta. “E’ proprio per questo che non te l’ho detto.” 

Un silenzio carico di riflessioni crolla su di noi, dopo l’ultima affermazione della Dea. 

E’ lei stessa a romperlo. “Hai detto che non sei di qui? Da dove vieni?” 

Adesso tocca a me la faccia cupa. Riprendo posto sulla sedia. “Per quanto strano possa sembrarti, mi sono ritrovata qui dopo essere entrata in un quadro.” Se questa gente crede alla reincarnazione, crederanno pure in una sorta di magia che mi ha condotto qui. 

La sua espressione, ora, è stupefatta. “Io credo che il tuo essere qui sia un segno del destino.” Appunto. 

La mia faccia deve proprio virare sul depresso spinto, perché la giovane divinità si sente in dovere di dirmi:- Non temere, troveremo insieme il modo di riportarti a casa tua.”-   

Chissà, magari lei può davvero riuscirci. “Grazie, Sasha. E’ gentile da parte tua.” 

Stavolta, le sue gote si fanno rosa quasi impercettibilmente. “Adesso devo andare a studiare. Buon lavoro, Miranda. Ciao.” Mi fa un cenno con la manina. 

“Buon lavoro anche a te, Sasha.” 

La ragazza sparisce oltre la porta ed io rimango nuovamente sola. Mi fa piacere, comunque, avere un “compagno di studi”. O, per meglio dire, qualcuno che svolge il mio stesso compito, in simultanea, pur non stando con me. Se si preoccupano che abbia un’istruzione, probabilmente, non si approfittano semplicemente di lei. Forse, tengono davvero molto alla propria, delicata, gentile guida spirituale.

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Capitolo 3
*** Tre giorni dopo ***


 

3.TRE GIORNI DOPO 

Ho detto ad Allen che avevo ultimato le traduzioni. Così, senza neanche avere il tempo di rivedere il tutto un’ultima volta, mi ritrovo davanti ai dodici Cavalieri ed al Gran Sacerdote, con tanto di presenza della dea Atena in persona. A quanto pare, in questo momento non deve studiare. O, forse, è sembrato a tutti necessario che presiedesse alla spiegazione relativa le pergamene. Lei è il “grande capo”, in fondo, deve essere informata circa ogni singola missione. 

Ed eccomi, dietro al suddetto tavolo ligneo, circondata da scartoffie, “nell’aula magna” a spiegare come una maestrina. L’attenzione di tutti è incentrata su di me. Per quanto ami vedere le persone pendere dalle mie labbra, devo ammettere che, l’attuale situazione mi crea non poca tensione. E se avessi sbagliato qualcosa? So che non c’è tempo da perdere, anche se mi hanno detto che sarebbero stati collaborativi. D’altronde, non credo che i nostri nemici aspetteranno che rilegga quanto ho scritto, in cerca di punteggiatura mancante e vari refusi, per condurre il mondo alla sua rovina. Quindi, mi faccio coraggio e cerco di spiegare il tutto nella maniera più breve ed esauriente possibile. Cacchio, l’ho proprio presa sul serio questa faccenda! Non avrei mai creduto. Di solito, l’unica cosa che leggo seriamente, nonostante la passione per le lingue antiche, è il menù del ristorante… 

“Dunque, comincerò col dirvi che le prime due pergamene che ho tradotto erano relativamente semplici. E questo è un bene. Tuttavia, non contenevano informazioni particolarmente utili. Si tratta del diario personale di un antico imperatore. – prendo delle pagine e le sollevo, di modo che siano visibili a tutti- Su questi fogli ho scritto la traduzione delle cronache imperiali per intero, nel caso foste interessati. Trattano di uno scrigno raro, che l’uomo voleva regalare alla sua futura sposa. L’imperatore – abbasso il capo e mi porto per un attimo due dita alla bocca, come imponendomi di misurare bene le parole. Spero non l’abbiano scambiato per un rutto soffocato. Forse, no, dato che è da quando ho iniziato a svolgere il lavoro richiestomi, che non mangio. – aveva scoperto che l’oggetto citato aveva proprietà, come definirle,- cerco le parole adatte, che non esistono - paranormali. Chiunque lo aprisse, veniva inondato di un vigore immane, che ampliava le sue capacità, per un determinato lasso di tempo. – a questo punto, le espressioni sulle facce dei cavalieri si fanno, se possibile, ancora più serie. Riesco a cogliere dei mormorii preoccupati, provenire dal fondo della gola di alcuni di loro. – Per questo motivo, il sovrano, fece costruire un labirinto, irto di pericoli, nel quale racchiuse lo scrigno. Ed arriviamo così, alle altre due pergamene. Sono scritte in una lingua popolare, diciamo, un dialetto, simile al sanscrito. Probabilmente, l’imperatore voleva essere sicuro che solo una persona che conoscesse bene la sua lingua e la sua cultura potesse averne accesso. Sapeva, evidentemente, che un conflitto, dovuto al possesso dell’oggetto magico, avrebbe potuto accendersi anche a distanza di millenni, tanto è preziosa la posta in gioco. Ora, devo ammettere che tradurre queste due ultime scritture mi è stato piuttosto difficile, ma utile, in compenso, a capire che l’ultima pergamena è una mappa.” E qui, finalmente prendo fiato. Decido di lasciare il tempo ai guerrieri di immagazzinare la mole di informazioni fornitegli. 

“Quindi,- prende la parola il più giovane tra i Cavalieri d’oro- l’arma che stiamo cercando è in realtà uno scrigno? E per trovarla dobbiamo seguire la mappa che è attualmente in nostro possesso?” Di solito, le persone che hanno il dono della sintesi mi piacciono. Ma così, il ragazzino vanifica tutto il mio articolato lavoro di illustrazione del problema. 

Rilancio con una seconda manche. “E’ la prima volta che vedo una mappa disegnata così. – Srotolo la pergamena e gliela mostro. – Per interpretarla è necessario leggere le due pagine scritte nel loro dialetto. – Metto via il primo foglio e gli indico una parola scritta sul secondo, che tiro fuori. – Come puoi vedere, intorno a parecchie parole ci sono dei puntini. Come nell’arabo moderno. Ma, non trattandosi, in questo caso, di quella lingua, mi sono chiesta a cosa potessero servire. La spiegazione lampante mi è giunta quando ho provato ad inserire le parole dentro a dei quadrati. – Il mocciosetto, lo chiamo così, perché è evidente che è più piccolo di me, mi sta fissando come se si aspettasse di veder sbucare un’aureola dietro la mia testa, da un momento all’altro. Se solo avessi il mio iPhone, farei partire “like a virgin” di Madonna. – Si tratta di frecce direzionali belle e buone!” Esclamo infine.   

“Frecce?” Mi interrompe un soldato dai capelli castani lunghi fino alle spalle. Sembra indeciso tra il preoccuparsi o l’essere genuinamente interessato. 

“Esatto, anche se non ne hanno la forma. Inserendo, come vi dicevo, i simboli in quadrati disegnati da noi, si evince che, il puntino, messo in alto a destra, ci indicherà che dobbiamo proseguire a nord, prendendo il sentiero alla nostra destra, per esempio. Comunque, non temete, ho tradotto anche la mappa.” Dico, mostrandogli un ennesimo foglio, pieno di disegni, appunti e schemi. 

“Dunque, - sentenzia il Patriarca – non ci resta che andare a recuperare il tesoro. – s’interrompe per un attimo, poi, mi chiede anticipando quello che già stavo per dirgli – C’è dell’altro?” 

“In effetti, sì. – rispondo. La mia espressione si fa accigliata. – Avrete sicuramente notato che esiste un’unica mappa, ma ben due pergamene che indicano come seguirla. – il Patriarca strizza gli occhi. Ed io so, per certo, che quanto sto per dire è probabilmente ciò a cui lui sta pensando, in questo momento. – Una delle due pergamene potrebbe contenere informazioni false, volte a attirarvi in una trappola, in un luogo in cui non vi è alcun tesoro. Oppure…” Lascio a metà la frase, mentre rifletto attentamente su quanto segue nel mio discorso. 

“Oppure, Miranda?” La voce dolce di Sasha interrompe il mio pensare intensamente, senza mettermi realmente fretta. E’ quasi come se la ragazza volesse, più che altro, accertarsi fossi ancora con loro.

Tiro un respiro profondo, quindi, parlo. “Potrebbe esistere un’altra mappa, anche se dubito vi sia un altro tesoro. Nel diario dell’imperatore non è menzionato. – prima che me lo domandino, glielo dirò io – Suggerirei di cominciare a seguire questa. – prendo una pergamena e la indico – Accanto ai disegni, sulla  mappa, vi sono degli ideogrammi complessi, scomponibili in più parole. Si tratta di nomi di stanze di un luogo chiamato “la Fortezza”. Inutile dirvi, a questo punto, che tali stanze sono citate in questa pergamena, scritta in lingua popolare.” 

“Sull’altra pergamena scritta in lingua popolare non se ne fa menzione?” Stavolta è il soldato che mi hanno detto chiamarsi Dégel a prendere la parola. Ha una voce piuttosto grave, per un aspetto così delicato. Oggi indossa degli occhiali rotondi, simili ai miei da lettura. A proposito, quanto vorrei avere i miei occhiali da lettura qui e adesso! Potrei aggiustarmeli sul naso mentre parlo, con gesto disinvolto, stile relatore all’università. Un momento. Mi ha fatto una domanda. 

“No, non vengono menzionate.” Chiedo mentalmente scusa per la tardiva risposta, ma ho un certo languore. E quando io ho un certo languore, forse lo immaginerete, cazzeggio! 

“Posso visionare i tuoi appunti?” Mi chiede in seguito. Ma come parla questo? 

“Li ho scritti apposta…”

Il giovane non se lo fa dire due volte. Chiede con lo sguardo l’approvazione del Patriarca e, ricevutala in forma di un cenno del capo, si muove verso il tavolo dietro il quale mi sono barricata. I suoi compagni lo seguono a ruota. Dégel esamina i miei scritti leggendo in fretta. Avevo immaginato i soldati essere meno colti. A quanto pare, lui è la secchia del gruppo. Ma come potevo immaginarlo, ha gli occhiali, oggi, va bene, ma la gobba, i brufoli, le braccine rachitiche? Oddio, il mio cazzeggio peggiora. Forse, sono solo contenta di aver portato a termine il mio lavoro. O, forse, è davvero perché ho tanta fame e non un semplice languore? Un momento, da quanto tempo è che non mangio? 

“Il Gran Sacerdote non ti ha detto chi stiamo combattendo, giusto?” La voce del ragazzino dall’armatura dorata mi riporta alla realtà. 

“No.” Ammetto con un filo di voce. Devo avere proprio una faccia stralunata, in questo momento, perché il moccioso annuisce due volte e mi guarda pensieroso prima di parlare. 

“I nostri nemici sono gli Specter, l’armata di Hades. Sono molto potenti e pericolosi.”

Ho capito bene, ha detto Specter? E Hades, il dio dell’oltretomba? Non scherziamo. Anche se, ad occhio e croce, direi che non è esattamente quello che sta facendo. Non ho mai visto un ragazzino con la faccia così seria. Adesso sono costretta a darmi un tono anch’io, per non essere da meno. Purtroppo, ho esaurito tutta la mia serietà con la spiegazione delle scritture sanscrite, quindi, non mi resta che il cazzeggio. Scommetto che gli Specter, o come diavolo si chiamano, hanno l’armatura nera, stile darkettoni. Magari, hanno anche le borchie. 

“Indossano – prosegue il piccolo – delle armature nere come la pece. Se ne vedi uno, scappa subito più veloce che puoi.” Appunto. Già me li immagino, truccati come i Kiss. Quasi, quasi, gli chiedo se hanno le borchie. Mentre sono in procinto di aprir bocca per sparare la prima minchiata di quest’oggi, il ragazzo con i capelli spettinati, che ha riso alla mia battuta, qualche giorno fa, pianta una mano sulla testa del giovane cavaliere e proclama:- Non ti metterai mica a fare il maestrino anche tu, Regulus! Cos’è, vuoi fare colpo?- 

Prima che io possa dichiarare la mia vera età, (non quella che mi accomunerebbe a Sasha e Regulus), il soldatino mi si presenta mentre sposta, con malagrazia, la mano dell’altro dalla sua calotta cranica. 

“Ti chiedo scusa, mi sono rivolto a te senza, prima, presentarmi. – Quante cerimonie, questi cavalieri! Ma, d’altronde, lo dice la parola stessa: Cavalieri. – Io sono Regulus del Leone.” 

Gli porgo la mano. Dopo averla osservata per diversi secondi, afferra il concetto e la prende. Stritolandola. 

“Io, lo sai già, sono Miranda. Wow! – Esclamo, subito dopo, fingendomi estasiata – Credo che tu mi abbia appena rotto tutte le dita. Non oso immaginare quale trattamento riservi ai tuoi nemici!” 

Ca va sans dire, il ragazzino avvampa e balbetta un:- S-scusa, ho stretto troppo forte?- 

L’altro cavaliere esplode in una risata bomba. Mi fanno male i timpani. Come fa a non dare fastidio a lui che ride? Forse, sarà l’elmetto a proteggerlo dagli ultrasuoni che emette. Indossa una sorta di buffa frontiera con delle “zampe di ragno” che spuntano fuori. O, almeno, è quello che sembrano a me. Chissà se i suoi arti si attaccano ai muri... Potrebbe essere lo spider-man dell’antica Grecia. Di sicuro, spaventa i nemici. Quelli con un minimo di senso dell’estetica, se non altro. Ah, dimenticavo, gli Specter si vestono da emo. In tal caso, gli sembrerà tutto persino troppo normale. 

“Questo tizio – dice con rinnovata malagrazia – è Manigoldo del Cancro.” Quindi, è così che si chiama il simpaticone. Quale genitore sano di mente darebbe un nome simile al proprio figlio? E se si trattasse di uno pseudonimo? Forse, il tizio che ama ridere se l’è scelto come “nome d’arte”. E, così fosse, perché? “Manigoldo” non ha esattamente un’accezione positiva. Sento come la necessità di non indagare troppo. Almeno, ho scoperto che potrebbe essere italiano, proprio come me. Quasi, quasi, glielo dico mentre mi presento.  

Dunque, se quello piccolo, con la vocina da bambino, mi ha quasi rotto una mano, quello grande col vocione, per logica conseguenza, dovrebbe farmi crollare il braccio. Mentre pondero se tendergli timidamente la manina, oppure no, Dégel richiama i due soldati all’ordine chiedendogli di concentrarsi sulla lettura delle pergamene. Gli porge una carta a testa. Altri, arrivati prima, hanno già ultimato la lettura.

“Perché non leggi tu per tutti, visto che ti piace tanto? Io detesto questo genere di cose. E’ noioso ed inutile!”

Molto maturo, complimenti. Manigoldo si gratta un orecchio e tiene il mento sollevato, mentre parla con una smorfia sguaiata, stampata sulla faccia. E io che cosa ho lavorato a fare, allora? 

“E cosa avrebbe lavorato a fare, dunque, Miranda?” Appunto, molte grazie. Tra secchie, ce la intendiamo.

Prima che possa verificarsi una sommossa simil-crociata, pongo una domanda che mi preme fare da molto tempo. “Io avrei un ultimo dubbio, comunque. – tutti i cavalieri si volgono, nuovamente, verso di me. Quasi mi dispiace doverlo chiedere. Ma, al diavolo l’orgoglio. Qui si tratta di assoluta necessità. – Qualcuno ha, per caso, qualcosa da mangiare?”          

Inutile dirlo, Manigoldo scoppia a ridere.

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Capitolo 4
*** Manigoldo e la grande abbuffata ***


4.MANIGOLDO E LA GRANDE ABBUFFATA

Tutto quello che mi riesce di vedere, quando sollevo, per qualche attimo, la testa dal piatto, sono le facce allibite ed oltraggiate dei miei cavallereschi commensali. Addento un cosciotto di pollo. Ebbene sì, mangio più di un uomo. E ho ancora fame. Passo all’agnello. Quanto mi dispiace per questa piccola, graziosa creatura. La gusterò con contrizione, in religioso silenzio. Se parlo, sputo tutto quello con cui mi sono foderata la bocca, tra l’altro. Buone le patate.

Sasha mi saluta con timido gesto della mano ed un sorriso. Lei mangerà assieme alle sue ancelle, in una stanza a parte. Alzo il braccio e lo sventolo nella sua direzione. Osservando la mia mano, noto che cola grasso. Quindi, la porto, da sopra la mia testa, alla bocca. Mi lecco le dita, così faccio una pausa. E’ un tortino di verdure quello? Me lo avvicino, sottraendolo alla portata di un omaccione dai lunghi capelli bianchi. Per cenare, i cavalieri si sono tolti l’armatura. Queste verdure sono cotte e salate a puntino. Ci sarà del pan grattato nella farcitura? Come dicevo, senza l’armatura mi fanno meno impressione e riesco a nutrirmi in assoluto relax. I miei occhi puntano il formaggio. Ha un aspetto delizioso. Vieni dalla mamma. Mi ingozzo con l’ultimo pezzo di crostata salata e allungo la mano verso il vassoio dei formaggi. 

“Avevi proprio fame, eh?- mi dice l’omaccione – ma stai tranquilla, non c’è bisogno che ti affretti, qui ce n’è abbastanza per sfamare un esercito!” E’ il caso di dirlo. Mai rancio fu più appetitoso. L’omone ride di gusto, col suo grosso petto. Mi guarda come se fosse fiero di me. O forse, porge il suo addio al cibo che gli ho sottratto. Infatti, non sono d’accordo che basti per tutti. Per esempio, il formaggio è già quasi finito. Manigoldo, poi, mangia quasi più di me. Dico “quasi”, perché, ogni tanto si impalla a fissarmi con ilarità. Tutti gli altri sembrano semplicemente sconvolti. Chissà se c’è del miele? Sul formaggio fresco sta da dio. Un momento, ho una domanda più importante da porre. Alzo la testa e mi blocco, quasi fossi diventata di pietra. Metto persino giù la forchetta. I cavalieri mi imitano e prendono a guardarmi con rinnovato stupore, chiaramente aspettandosi che io mi decida a pronunciarmi, come suggerito dalla mia postura seriosa. Non vola una mosca…

“Aro, q gnogno a ohi?” 

Strabuzzano gli occhi. Dégel china il capo da un lato.  

Deglutisco e ripeto. “Allen, che giorno è, oggi?” 

“Venerdì ventitré…” Mi dice con un fil di voce, lo sguardo alquanto perplesso. 

Quando mi sono chiusa nella stanzetta a svolgere le traduzioni era martedì venti. 

“Mi passi le mele cotte, per cortesia?” Manigoldo si mette una mano davanti alla bocca, ma lo sento ridere benissimo, comunque. Il bastardo. Cosa ridi, se anche tu hai lo stomaco come un silos? Ci mancava soltanto che si riempisse a badilate. Pensandoci bene, ho visto un imbuto, appeso ad una parete, all’ingresso della mensa. Chissà se le mele cotte ci passano?   

Allen, che era seduto in fondo alla tavolata, diligentemente, si alza, tenendo tra le mani il vassoio che gli ho richiesto e mi si avvicina. Giunto a pochi passi da me, sembra esitare. Mi sento in dovere di incoraggiarlo. 

“Non temere, caro, non mangerò anche te.” 

Il cavaliere del Cancro esplode in un’altra risata bomba, mentre Allen, deposita il piatto delle mele cotte, sul tavolo, davanti a me, con la faccia paonazza. Si vergogna per me? Almeno, qualcuno che si vergogna c’è. Sono passati tre giorni, dall’ultima volta che ho mangiato. Devo recuperare. Non c’è nulla di cui essere imbarazzati. 

“Allora andiamo, Asmita?” Il cavaliere dai capelli marroni richiama l’attenzione di un ragazzo biondo che si alza e lo segue in fondo alla stanza. Prima di allontanarsi butta uno sguardo nella mia direzione, sorridendo bonario. Sembrerebbe un tipo placido. Se non altro, durante questa parca mensa, ho scoperto che i cavalieri di Atena sanno parlare. 

Il Patriarca ha ordinato a Dohko e Asmita di svolgere la missione volta al ritrovamento dello scrigno. Li osservo caricarsi sulle spalle dei giganteschi cubi di pietra. Credo contengano le loro armature, o, per meglio dire, lo spero. Stai a vedere che i soldati si tengono in esercizio, portando sulle spalle degli zaini di marmo. Per tanto, se non si tratta di puro sport, ipotizzo che dentro i suddetti “zaini” ci sia qualcosa che gli serve. Certo, vuoti erano troppo leggeri… Io avrei bisogno di mettere in bocca qualcosa, ad ogni passo che faccio, se dovessi portarmi addosso uno di quei cosi. Per recuperare dalla fatica, s’intende. Non lo faccio per golosità. Buone queste mele cotte. Lo zucchero di canna, che gli si è sciolto sopra, sembra caramello. Temo mi vedrò costretta a leccarmi di nuovo le dita. Non c’è un dolce? Capisco che le mele lo siano, già di loro, ma non è la stessa cosa. La frutta è frutta. Il dolce è dolce. Il fatto è che mi sento mancare le forze solo a vedere Dohko e Asmita confabulare intorno ai miei appunti, mentre si allontanano nel corridoio. Metto insieme le ultime energie rimastemi e faccio mente locale. Quello dai capelli biondi è Asmita, quindi, il moro, di conseguenza, è Dohko. Sembra che gli stia leggendo quello che ho scritto. Come mai? Sarà ben capace di farlo da solo, no? Forse, non sa leggere. E se fosse cieco? Certo, come no! Combatte e segue passo, passo il suo compagno nel corridoio senza sbattergli addosso. La versione "antica Grecia" di Daredevil. A volte, penso cose davvero strane.

Comunque, l’eco delle frasi che ho composto, che mi giunge dal corridoio, mi rievoca un gran senso di stanchezza. Come ho fatto a non crollare, rimanendo sempre sveglia per tre giorni di seguito? Spero solo di aver scritto qualcosa di sensato. Cribbio, spero almeno di non aver trasposto dei puri deliri. Un piccolo riposino non mi farebbe male. Però, non posso mettermi a dormire adesso, dopo tutto quello che, ammettiamolo, ho mangiato. Quanto bastava per riprendermi, tuttavia. Ammettiamo anche questo. Non si dovrebbe mai essere troppo duri con sé stessi. 

Credo che farò quattro passi qui intorno, prima di chiedere dov’è la mia stanza. E, finalmente, mi concederò il meritato riposo. Mi voglio svegliare lunedì ventisei. Ecco, adesso voi penserete che non penso ad altro che i meri piaceri terreni. Nella fatti specie, penserete che, se non mangio, dormo e viceversa. Un po’ come Garfield. Ma che c’è di male, dico io. Il gatto Garfield è un puro, nonostante sia pigro e mangione. Si gode semplicemente la vita, come me. Una pura. Mi avete forse sentito nominare l’argomento sesso, nonostante gli ammassi di muscoli di cui sono circondata in questo momento? Ok, adesso l’ho fatto… Forse è meglio che mi concentri sulla mia passeggiata della salute. Mi alzo in piedi, mentre mi strofino le mani con il tovagliolo. 

“Ma come, ti dai già per vinta, Miranda? Mi aspettavo molto di più da te.” Nonostante il signore mastodontico mi stia sfottendo, non posso fare a meno di trovarlo simpatico. 

“Anche se è gigantesco, anche lo stomaco di Pantagruel ha una sua fine. – Ride. Gli strizzo l’occhio – Lei è il signor?” 

“Aldebaran del Toro, mia cara signorina.” Raddrizza la schiena e incrocia le braccia davanti a sé. Gli porgo la mano che prende subito. Meno male, qualcuno che non avvampa quando ti presenti. 

“Mi deve scusare per la mano un po’ unta. – Dico imbarazzata. Forse non avrei dovuto stringergli la mano. Oramai, però, è tardi. – Ma la cena era così deliziosa che le posate, in certi momenti, mi sono sembrate superflue.” Rido come una cretina. Ecco, sono stanca e cazzeggio.

“Me ne sono accorto, signorina Miranda. Sembra proprio che tu abbia gustato fino all’ultimo boccone.” Fa di nuovo quella risata di petto che mi manda in visibilio. 

“E sempre con rinnovato ardore! - Aggiungo euforica. – Comunque, non mi preoccuperei più di tanto per l’unto.  – Mi passo le mani aperte più volte intorno al corpo, senza appoggiarle. - Posso sempre fare a meno di mettere la crema idratante stasera.” Stavolta, ridono anche gli altri. Non tutti, però. Alcuni mi squadrano, indecisi sul da farsi. Ci sono poi quelli che mi sorridono come se mi compatissero, i miei preferiti. Manigoldo ed Aldebaran sono gli unici due a cui vedo un’ espressione completamente rilassata. Sbaglio, o al cavaliere del Cancro brillano persino gli occhi?

Il Toro prende il suo bicchiere e lo alza. “Proporrei un brindisi ad un’altra vittoria contro gli Specter! – si volta a guardarmi e gli angoli della sua bocca si alzano vistosamente verso l’alto – Grazie alla nostra esperta di lingue, Miranda.” Wow, qui si beve. Riprendo posto sulla sedia. Mentre penso che si dice “glottologa” e non, “esperta di lingue”, mi approprio, distrattamente, della bottiglia di vino rosso ed inizio a versarmene un po’. 

“I bambini della tua età non dovrebbero bere alcolici.” Mi rimprovera il mio amico del Toro.

Finalmente, posso dirlo:- Io ho venticinque anni.- Mi guardo intorno. E’ crollato il silenzio per qualche attimo e alcune persone mi fissano sbigottite. Manigoldo, più di tutti. Ed, infatti, è il primo a prendere parola. “Sei più vecchia di me di due anni – vecchia… che brutto aggettivo. – Avrei giurato fossi della stessa età del moccioso qui presente – volge rapido il capo, un paio di volte, nella direzione di Regulus, che lo squadra, contrito.” 

“Io non sono un moccioso. – Il ragazzino mi guarda negli occhi. Cosa vuole? Sto dicendo la verità! – Comunque, è vero. Sembri molto più giovane.” 

Ogni volta la stessa storia. E questa, pare una di quelle volte in cui non so cosa dire. Mi sento in imbarazzo quando tutti mi fissano, come se mi esaminassero. E’ peggio che andare dal dottore. “Signora, sua figlia non ha fatto un patto col demonio, è semplicemente una nana.” Mi sembra di sentirgli dire, tutte le volte che ipotizzo una mia visita dal medico, da bambina, insieme a mia madre. Ma, mi riprendo subito e porto l’argomento esattamente dove voglio.   

“Tanto meglio. Vuol dire che posso brindare con voi!” Sollevo il mio calice, sorrido pimpante e me lo porto alla bocca, senza esitazione. Gli altri mi imitano. 

Beviamo tutti uno o due bicchieri, poi, la sala da pranzo inizia a svuotarsi. E’ il momento perfetto per uscire a passeggio.    

L’aria frizzante della sera mi frusta le guance, calde come uova sode, raffreddandole. Ora che ci  penso, non credo di aver assaggiato la frittata. 

Non so esattamente dove sto andando. Non conosco per niente questo posto. Al momento, credo di trovarmi, più o meno, nei pressi della quinta casa. O, almeno, c’è un cinque, in numero romano, scritto sopra. Un momento. E’, per caso, un tamburo quello che sento? Dal suono, si direbbe simile ad una tabla egiziana. Questa non posso perdermela. L’ultima volta che ho ballato è stato tre giorni fa, in un contesto totalmente diverso. Ero alla taverna di Zorba con Ivan, il mio fulgido, riccioluto suonatore di Taksim russo. E c’era anche Paul, l’altro mio musicista, inglese, nel suo caso. Lui mi fa le percussioni. Sento la necessità di svagarmi un po’, quindi, mi tolgo i vestiti ed inizio a ballare. Per chi se lo stesse chiedendo, non sono così ubriaca. Sotto la montagna di tessuto, dal quale sono coperta, ci sono i miei costumi di scena. Quando Allen è venuto a prendermi non mi ha neanche dato il tempo di cambiarmi. Ed avevo appena finito di esibirmi. 

Indosso un reggiseno nero molto coprente, decorato con borchie e monete ed un pantaloncino dello stesso colore. Tiro fuori dalla tasca la mia cintura rossa, dalle tintinnanti decorazioni dorate e la allaccio intorno ai fianchi. Improvviso una pista da ballo nel cortile in cui mi trovo. 

Non sono più Miranda, la glottologa. Ora sono Sherazade. 

Un passo egiziano frontale, uno laterale. Mi porto le mani prima sulla testa, sciogliendomi i capelli, poi, in vita. Uso le braccia come fossero una cornice nella quale racchiudere la mia figura. Sbatto i capelli a destra e sinistra mentre eseguo un Khaliji, seguito, subito dopo da uno shimmy. Faccio suonare le monetine a tempo col tamburo. Un cerchio ampio coi fianchi, le mie mani si incrociano sotto l’ombelico, un’onda con la pancia e… Ma c’è qualcuno sopra il tetto della quinta casa? 

Mi congelo. Ad occhio e croce, direi che quello è Manigoldo, il simpaticone. Non mi sono mai sentita tanto in imbarazzo in vita mia. Va bene, d’abitudine io mi esibisco, ma, stavolta, non era voluto. E’ diverso. Credevo di stare da sola con me stessa.

Il ragazzo mi squadra con un sorriso che va da un orecchio all’altro. E mi fa pure l’applauso mentre raccolgo in fretta i miei vestiti e scappo. Non lo so nemmeno io perché ho tutta questa fretta di svanire nel nulla. Non è da me. Normalmente, farei un inchino, per poi continuare a ballare, con rinnovato vigore. Il fatto è che adesso non so cosa fare. Il frangente è talmente diverso dal solito… 

Giunta al sicuro, nei pressi della mensa, mi rivesto il più velocemente possibile, nascosta dietro una colonna, vicino alla porta d’ingresso, sul retro. Se qualcuno mi vedesse in pantaloncini e reggiseno, rischierei di dare ulteriore scandalo. Finisco di avvolgermi la sciarpa intorno al collo. Adesso sono presentabile. Non appena entro, scorgo Allen in procinto di andar via. Ha tra le mani una pila di documenti e si sta muovendo in direzione opposta alla mia. Perfetto, era proprio lui che cercavo. Lo raggiungo di corsa. 

“Miranda. Dov’eri finita?” Mi chiede.

“Sono stata a fare quattro passi. Mi mostreresti la mia stanza, per cortesia? Ho proprio bisogno di una bella dormita.”

“Certo. Seguimi.” 

“Hai bisogno di aiuto a trasportare quelle carte?” Propongo con cortesia. 

“Tranquilla. Sono leggere.” 

Raggiungiamo il mio alloggio. Prima di congedarsi, Allen mi chiede se va tutto bene. “Sei silenziosa.” Aggiunge.

“Sono solo un po’ stanca.” Lo rassicuro. Di certo, non mi metto a raccontargli della mia figuraccia con Manigoldo. 

“E’ accettabile. Hai lavorato per tre giorni senza sosta. – mi sorride. – Vedrai che, quando ti sveglierai domani, ti sentirai nuova.” 

“Lo spero proprio. – Mi stropiccio il viso con le mani. – Grazie per avermi mostrato la camera. Buona notte Allen.” Gli appoggio delicatamente una mano sulla spalla. Non ho più energie. 

“Buona notte, Miranda.” 

Entro. Ci sono solo un piccolo letto, una finestra ed un baule. Sembra la cella di un monastero. Ma come faranno i cavalieri ad entrare in un giaciglio che sembra troppo piccolo anche a me? Sarà che, a casa mia, nel mio mondo, dormivo in un letto a due piazze. Del baule, va, però, detto, non saprei proprio che farmene. Nonostante l’arredamento minimale, qualcosa di superfluo c’è. 

Qui con me, non ho nulla.

A casa avevo tutto quello che si può desiderare. Familiari, amici, comodità, che, la gente di questo mondo non riesce neppure a sognare. Almeno, prima, avevo Ivan e Paul. Adesso sono completamente sola. Devo assolutamente trovare il modo di tornare a casa. Se fossi Lessie, forse, mi riuscirebbe più semplice. Magari, ci penserò domani. Adesso voglio solo dormire. 

Mi stendo sul letto e mi addormento quasi all’istante. Il sorriso a duecentoquaranta denti di Manigoldo, l’ultimo flash di queste tre lunghe giornate a baluginarmi nella memoria.

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Capitolo 5
*** Chiacchiere e sigarillos ***


5.CHIACCHIERE E SIGARILLOS  

Il mattino seguente mi sveglio con una gran voglia di urlare a mia madre di smetterla di sbattere tappeti, aprire porte e finestre e usare l’aspirapolvere. Poi, quando riacquisto maggiore lucidità, faccio presente a me stessa che, nel mondo in cui mi trovo attualmente, l’aspirapolvere non sanno ancora cos’è. Devo assolutamente scoprire da dove vengono questi fastidiosi rumori. Non che, lo scoprirlo, possa farli cessare. Dubito di trovare, nell’esercito della dea Atena, qualche individuo abbastanza mingherlino, da poterlo malmenare, per fargli cessare la sua chiassosa attività. Mi metto a sedere. Il letto di casa mia è, indubbiamente, più comodo. Dannazione, persino il giaciglio che ho sul pavimento della cantina, alla taverna di Zorba è più morbido! Qui sembra di dormire sui sassi. Ho male dappertutto. Se non altro, ho riposato. Cerco il fermaglio per capelli che ho lanciato per terra ieri sera, prima di addormentarmi. Mentre mi faccio il solito chignon disordinato, sbircio fuori dalla finestra. E comprendo il perché di tutto quel gran baccano. Apparentemente, si sta ricostruendo un’ala del tempio. Mi chiedo cosa possa essere stato a farla a pezzi. Gli Specter? Ieri, al buio e stanca com’ero, non avevo notato nulla. 

Mi butto addosso cardigan e sciarpa e mi dirigo fuori dalla mia camera. Non so esattamente dove andrò, ma visto che, al momento, la mia collaborazione non è più richiesta, credo che ne approfitterò per esplorare un po’ il luogo, alla luce del giorno. Ieri, il piccolo incidente con Manigoldo ha ostacolato la mia passeggiata. Passerò la giornata a sforzarmi di non pensarci, lo so già. 

Il gruppo di cellette, nel quale mi hanno ospitata, da su di un bellissimo viale alberato. Lo percorro tutto, fin quando, non giungo ad un punto panoramico. Sotto di me c’è l’arena, dove i cavalieri si allenano. Li osservo intenta e colpita. Compiono acrobazie incredibili e la loro bravura nelle arti marziali è pressoché encomiabile. Non oso pensare a cosa riescano a fare i guerrieri dalle armature dorate. Io ho seguito un corso di karate per parecchi anni, ma non arrivo neanche lontanamente al livello dei soldati che vedo davanti a me. E sto parlando di quelli che non indossano nemmeno l’armatura. La loro sì che si può definire una vita di sacrifici. Io non ho più la mia famiglia con me, è vero, ma, rispetto a loro, sono stata trattata coi guanti. Mi hanno persino invitata a mangiare alla loro stessa mensa. Per non parlare del permettermi di dormire fin quando ho voluto. 

Il mio sguardo è catturato da una combattente, particolarmente agile. E forte, a quanto pare. Colpisce con  talmente tanta potenza il suo avversario, con un semplice gancio, da farlo arretrare di parecchi metri. Wow! Io non ci riuscirei neanche se ingoiassi un container di spinaci. Tutto questo movimento fisico, anche se altrui, mi fa venire una gran voglia di battere la fiacca. Infilo le mani nelle tasche e ne tiro fuori un sigariglio ed il mio accendino. Inspiro una boccata di puro veleno e, non senza pensare alle dannose conseguenze del mio operato, espiro. Un giorno o l’altro, devo smettere. Il fatto è che i sigari, qui in Grecia, hanno un odore a dir poco ipnotico. Le sigarette che fumavo nel mio mondo non sono nulla in confronto. Mi tocca anche ammettere che, “il gesto”, ha il potere di calmarmi i nervi che mi vengono a stare qui, un ambiente così diverso da quello che avevo scelto per me. Ne ho bisogno per rassicurarmi, inoltre, non mi accendo un sigariglio da quando ho iniziato a svolgere le traduzioni. Che, per me, è quasi un record. 

“Le ragazze carine non dovrebbero fumare!” Riconosco la voce di Manigoldo. Che vanifica ogni mio sforzo per stare rilassata. Mi volto nella direzione da cui mi giunge la sua voce possente e canzonatoria e lo vedo risalire i gradini dell’arena. Indossa l’armatura. E’ davvero un peccato che qui non abbiano ancora inventato gli occhiali da sole, data la potente rifrazione di questo dannato sole, sul gingillo che il tizio si porta addosso. Viene verso di me, ma, si blocca a qualche passo di distanza. Inspiro una boccata di fumo ed espiro. 

“Elencami, per favore, tutte le connessioni che ci sarebbero tra la bruttezza e il fumare. E, ti avverto, non vale dire fumare è brutto. Comunque, se ne vuoi una, serviti pure.” Gli allungo la scatolina dei mini-sigari. Lui finge di non vederla. Scommetto che non sa cosa rispondermi. Appoggio una mano sul fianco, mentre continuo a portarmi l’altra alla bocca. 

Digrigna vistosamente i denti. Ma quanti ne ha? Secondo me, più del normale. “Bè, sai, il fumo uccide e veder morire una ragazza carina è meno piacevole che veder morire un vecchio, orrendo, vizioso.” Mi devo ricredere. Questo essere sa sempre, esattamente cosa dire. E mi sembra pure un po’ stronzo. 

Decido di cambiare discorso, volgendolo a mio vantaggio. “Grazie per il doppio complimento.” Gli sorrido con aria furba. Sbaglio, o ha detto “carina” per ben due volte? 

Il ventitreenne volge il viso dall’altro lato e si massaggia la nuca. Non l’avrò mica messo in imbarazzo? Non ci provare, con le tipe, se poi non sai che pesci prendere, dico io!  

Ma, ritorna pronto alla carica. Anche se mi parla senza guardarmi. “Sai com’è, dopo la tua esibizione esclusiva di ieri, non posso fare a meno di complimentarmi.” Adesso l’imbarazzo tocca a me e la faccia furba, a lui. 

Mi sposto su di un terreno più neutro. “Ho sentito il suono di una tabla e non ho potuto resistere alla tentazione di ballare.” Ammetto, con tono falso piatto. 

“Una… cosa?” Il giovane guerriero mi domanda spiegazioni. 

“Un tamburo egiziano. – apro la mano, libera dalla sigaretta, davanti a me e scandisco bene le parole. - L’ho sentito ieri, dalla quinta casa. Qualcuno lo suonava, qui all’arena.”  

Manigoldo lancia indietro la testa, come se si stesse, improvvisamente, ricordando di qualcosa. “Un cavaliere di nome Eliran lo usa come arma.” Mi informa. 

Sono incredula. “Per fare cosa? Rimbecillire i nemici, o farli stancare a furia di ballare? - Manigoldo ride. Tanto per cambiare. – Certo, una volta esausti, non dev’essere un problema sbattergli in testa il tamburo come colpo di grazia…” Concludo, non appena il giovane me ne da l’opportunità. 

Il mio interlocutore si appoggia il pollice sulla punta del naso e mi guarda beffardo. “Diciamo che è, più o meno, una cosa così.” Sguaina tutti i denti. “Non ti ho vista stamattina alla mensa.” Continua, poi. 

Faccio una smorfia disgustata. “Appena sveglia non ho tanto appetito. Ma mi rifaccio più tardi, sta tranquillo. Non devi temere l’invasione delle cavallette.” Gli strappo un altro sorriso.

Un momento di silenzio, durante il quale l’atmosfera cambia completamente, segue il nostro vivace scambio di battute. 

Manigoldo rompe il ghiaccio, con una frase che non mi sarei mai aspettata potesse uscire dalla sua bocca. 

“I tuoi genitori devono essere molto orgogliosi di avere una figlia così colta.” Mi fa questo enorme complimento, con lo stesso tono piatto, con cui ordineresti da bere al ristorante. Stavolta, avvampo io. 

“Mia madre si è fatta carico della mia istruzione. Quindi, credo sia contenta dei risultati che le porto. Mio padre, invece, non saprei. Non lo vedo da dieci anni, tre mesi e due settimane.” Ho cercato di imitare il suo tono calmo, ma, io che conosco bene la mia voce, come i miei sentimenti, so di non esserci riuscita.

Quando trovo il coraggio di voltarmi verso il ragazzo, mi ritrovo, puntato addosso, lo sguardo più intimo che qualcuno mi abbia mai rivolto. Perché cazzo non parla, adesso? 

Per fortuna, qualcosa che noto, oltre le spalle del mio interlocutore, fa virare la nostra attenzione su un altro fronte. 

“Ma quelli non sono mica Asmita e Dohko?” Chiedo preoccupata, allungando il collo. 

Manigoldo si volta e, notati i suoi compagni, decide giunto il momento di darsi agli urli da straccivendoli. “Allora siete ancora vivi, eh? – solleva un braccio all’aria – Spero abbiate portato qualche bel pensiero dal vostro viaggetto!” Parecchi soldati dell’arena interrompono il loro allenamento e prendono a guardarci. Sembra che tutto quello che riesce a fare il cavaliere d’oro del Cancro sia attirare l’attenzione. Per fortuna, anche quella delle persone cui si stava rivolgendo. 

Dohko solleva una pergamena sopra la testa e gli risponde:- Puoi dirlo forte, venite nella sala del consiglio!- E, detto questo, s’incammina su per la scalinata di marmo bianco che ivi conduce. 

“Andiamo.” Mi dice, senza voltarsi a guardarmi, il giovane guerriero.

Giungiamo alla presenza del Gran Sacerdote e c’ inchiniamo. L’anziano uomo mi fa cenno di alzarmi. A parte me e Manigoldo, nella stanza c’è anche un uomo dai lunghi e crespi capelli biondi con gli occhi color nocciola. Anche se indossa l’armatura d’oro, come gli altri, prima di adesso, l’avevo notato a malapena. Così come mi rendo conto, ormai tardi, delle condizioni in cui versa la salute dei due cavalieri che rientrano dalla missione. I loro vestimenti sono crepati in alcuni punti e, come peggior cosa, macchiati di sangue. I due, tuttavia, non sembrano scomporsi più di tanto. Rimangono chinati, in una posizione completamente statica. I loro volti hanno un aspetto placido. Incredibile. Hanno incontrato dei nemici abbastanza forti da riuscire a frantumare delle armature d’oro puro. Gli Specter sono davvero così potenti? Comincio seriamente ad avere paura. 

“Ottimo lavoro, Dohko e Asmita. - Dice il Patriarca. – Come puoi vedere, Miranda, la tua teoria era corretta. Esistono due mappe. – Srotola la pergamena che i due guerrieri gli avevano consegnato e me la mostra. – Qual è il tuo parere, ora?” 

Osservo con attenzione il foglio, poi, tiro un profondo respiro. “Posso tradurre questa mappa con facilità, ora che conosco l’altra. Credo che questa corrisponda alla seconda scrittura in lingua popolare, quella su cui non avevamo riscontro. Aggiungerei anche che, questa volta, ci condurrà allo scrigno.” Annuisco due o tre volte per l’impazienza. Non vedo l’ora che mi consegni la pergamena che ha in mano, per poter verificare se la mia sparata ha almeno un fondo di verità.  

Come previsto, la trasposizione non mi porta via più di mezza giornata. Quanto ipotizzato si rivela esatto. Adesso, dovrebbe essere possibile arrivare al tesoro, indicato dalla seconda mappa. Lo faccio presente al Gran Sacerdote, il quale incarica Manigoldo e Shion, il ragazzo che avevo visto nell’Aula Magna, poche ore prima, di recarsi sul luogo e recuperare lo scrigno magico.

Quando vedo il cavaliere del Cancro allontanarsi, mi rendo conto di non riuscire a staccare gli occhi dalla sua schiena, così, quasi senza volerlo, mi ritrovo ad augurargli buona fortuna. Il giovane si arresta, per un attimo, e, senza voltarsi completamente, mi regala uno dei suoi sorrisi gioviali e grotteschi. “Non c’è Specter che possa tenermi testa.” Mi rassicura, con la sua voce profonda. Io ho fatto quel che potevo. Il resto, ora, sta agli eroi. 

Mi reco alla mensa, poi, vado per direttissima a dormire. Voglio svegliarmi domani e scoprire che tutto è andato per il meglio. Che i Cavalieri non sono feriti e lo scrigno è al sicuro nella stanza di Sasha. Certo, a dirla tutta, l’ideale sarebbe se mi svegliassi nel letto a due piazze della mia cameretta.

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Capitolo 6
*** Il viaggio segreto ***


6.IL VIAGGIO SEGRETO  

Mi sveglio, nel cuore della notte, infastidita da un bussare incessante alla mia porta. Sulle prime, non capendo bene che ora fosse, avevo creduto il rumore provenire dal cantiere. Ma poi, ho dovuto fare mente locale. Tutti dormono, a quest’ora. Deve, per forza, trattarsi di qualcuno che ha bisogno di me. Vado ad aprire, non senza un minimo di timore, per scoprire la dea Atena in persona, sull’uscio della mia camera. 

“Sasha? – mi stropiccio gli occhi, cercando di rendere la mia mente più lucida. – C’è qualcosa che non va, ti servo?” 

La ragazza scuote lentamente il capo. “Stai tranquilla Miranda, va tutto bene. Ho trovato il modo di farti tornare a casa.” Ora, sul “va tutto bene”, sono d’accordo. Sullo “stai tranquilla”, un po’ meno. Voglio dire, cazzo, se sto davvero per tornare a casa, in questo frangente, è come se avessi vinto alla lotteria. Sono sicura voi possiate capirmi. Non credevo sarebbe mai accaduto. 

“Dici sul serio? – incrocio le dita delle mani e me le porto davanti alla bocca. Ho le lacrime agli occhi. – Grazie Sasha. Sarò per sempre in debito con te.”

“Tu hai fatto molto per noi. Considera il debito già estinto.” 

Sono così felice della notizia che quasi dimentico. “Mi è possibile salutare due persone che lavorano alla locanda con me prima di partire?” Chiedo con tono quasi supplichevole.

Atena esprime nuovamente con dei gesti il suo diniego. “Temo tu debba partire subito. Non abbiamo molto tempo. – abbassa lo sguardo. – Inoltre, nessuno deve sapere che appartieni ad un’altra dimensione. E’ più sicuro per tutti.” Mi squadra intensamente coi suoi occhi verde acqua, come se volesse sottopormi ad una prova di coraggio. Che io accetto. Infatti, annuisco col capo, un’unica volta e senza esitare. Seguo Sasha fuori dalla stanza, dopo essermi vestita in fretta e furia. Su una cosa, se non altro avevo ragione. Io provengo davvero da un mondo parallelo. Tutto quello che devo fare adesso, però, è evitare di pensarci, per non crearmi ulteriore angoscia. 

Fino a metà tragitto, non parliamo. Almeno, fin quando non decido di non farcela più a reggere. Sono troppo nervosa, ho bisogno di distrarmi dall’ansia da anticipazione. Così, mi rivolgo alla giovane divinità con la prima domanda che mi viene in mente:- Stanno bene Manigoldo e… Shion, giusto? Com’è andata la missione?- 

“Non hanno riportato ferite gravi.” Il che significa che sono comunque feriti. Questo, normalmente, dovrebbe preoccupare. Già, dimentico sempre che quelle con cui ho a che fare sono persone speciali. Ciò che ferisce una persona normale, non è che una carezza per loro. “E, grazie a te, hanno trovato lo Scrigno in poco tempo. - continua la ragazzina, con tono sollevato nella voce. – Adesso ci sarà possibile imprigionare Hypnos e Tanathos, gli dei gemelli a capo degli Specter, al suo interno. Se tutto andrà per il meglio, s’intende…” 

“Sono felice che la missione sia andata bene. – scuoto velocemente il capo, poi, lo volgo verso Sasha. Credo di aver immagazzinato con un po’ di ritardo l’ultima informazione fornitami. La quale, ha un ché di scioccante. – Il dio del sonno e quello della morte, vuoi dire loro?”

“Esattamente.” Stavolta, la voce della giovane è grave. Non invidio davvero i cavalieri. Nel mio mondo i soldati combattono guerre devastanti e sanguinose, ma, se non altro, non devono vedersela con presenze sovrannaturali. Il che mi porta a pormi un dubbio. 

“Come mai, sia Dohko e Asmita che Manigoldo e Shion hanno riportato lesioni? Non avrebbero dovuto incontrare nemici, sul loro cammino. Ho tradotto le pergamene più in fretta che potevo… Forse, gli Specter sono comunque riusciti a precedermi?” 

“E’ più facile che li abbiano seguiti. Non aspettavano altro che vederli uscire dal Tempio, per poter scoprire il luogo segreto, indicato dalle antiche scritture. Una volta raggiunta la Fortezza, li hanno attaccati, per tentare d’impadronirsi del tesoro.” Mi risponde Sasha. Adesso è tutto chiaro. 

“Questo perché loro sapevano che io sono qui. Erano anche al corrente del fatto che potevo decifrare le scritture.” Guardo Atena negli occhi. Lei si limita a restituirmi lo sguardo. “Ho rischiato davvero grosso, adesso me ne rendo conto. Sono proprio felice di poter ritornare a casa. Grazie Sasha.” 

“Mi hai già ringraziata, Miranda. Comunque, non temere – mi poggia una mano sulla spalla – I miei Cavalieri non avrebbero mai permesso che ti accadesse qualcosa di brutto.” 

“Nonostante ciò… tu come fai a non avere paura? Anche la tua vita è costantemente in pericolo.” Non ho potuto trattenermi, ho dovuto chiederglielo. 

“Siamo arrivati.” Mi dice con voce tenue. Non risponderà alla mia domanda. Ma, va bene così, la risposta sarebbe stata scontata. Lo so bene che anche lei, seppur dotata di grandi poteri spirituali, ha paura. E’ solo una ragazzina, dopotutto. Per certe cose, non si è mai completamente pronti. Le persone convinte che le cose ci capitino, per volontà del destino, solo quando si è pronti a riceverle, mi hanno fatto sempre un po’ ridere. Si raccontano un gran mare di fesserie. Tutto solo per placare l’ansia, con parole fittizie. 

Mi guardo intorno. Siamo nel punto più alto del Tempio, all’interno di una sorta di gazebo. Alle nostre spalle, una gigantesca statua della dea Atena. Averla davanti a me, in carne ed ossa, proprio in questo momento, mi crea un misto di ilarità e fierezza.

Scorgo una figura davanti a me, indossa abiti scuri e nella notte non distinguo bene i lineamenti del suo corpo e del volto. Credo abbia i capelli lunghi, di un colore nitido. Devo aspettare di essergli più vicina per potermene sincerare con chiarezza.

Si tratta di un giovane, dalla liscia capigliatura biondo-oro. E’ piuttosto grazioso ed ha una fisionomia delicata. Da lontano, credevo fosse una donna. Questo, perché credo abbia, su per giù, la stessa età di Sasha. Indossa una tunica nera dalle ampie maniche bordate d’oro. Una allure misteriosa emana dal suo corpo e, dal modo in cui si guardano negli occhi, comprendo che lui ed Atena si conoscono molto bene. 

“Questo ragazzo si chiama Alone ed ha dipinto il quadro magico, che ti ha condotta qui.” 

Bene. Sembra io abbia trovato la persona giusta da usare come punching-ball. Con tutto lo stress accumulato negli ultimi giorni, non mi farebbe affatto male. 

Il mio tira-graffi mi parla con voce suadente e composta. “Avvicinati alla tela. E’ il modo per tornare a casa. Una volta rientrata, distruggerò il dipinto, di modo che tu non debba mai più venire a trovarti in una simile situazione.” 

Quindi, sta accadendo davvero. Tornerò nel mio mondo. Do qualche passo verso il quadro, poi, mi blocco. Detesto lasciare le cose a metà, ma non ho altra scelta. 

“Sasha. Potresti dire ad Allen di andare a parlare con Ivan e Paul, alla locanda di Zorba? Lavoravano con me ed immagino vogliano sapere perché non mi sono più fatta viva da un giorno all’altro.”

“Certo, glielo riferirò. Mi spiace tu non possa dirglielo di persona, però…” La giovane dea abbassa lo sguardo, colpevole. 

“Ah! Un’ultima cosa. – tiro fuori dalla tasca l’accendino e la scatolina di sigarillos e li metto nelle mani di Sasha. – Dì a Manigoldo che non ne ho più bisogno.” 

La giovane annuisce. 

E adesso, tocca a me. Tiro un respiro profondo. Cammino lentamente verso la tela. Ho paura, ma mi impongo di non fermare il passo. Poco prima di scontrarmi col dipinto, allungo una mano davanti a me ed una luce bianca mi attraversa. Adesso capisco come si sente il foglio quando lo passano allo scanner. Poco prima che tutto quello che mi circonda svanisca in una nuvola confusa e sbiadita, sento parlare i due ragazzi alle mie spalle. 

“Quello che è accaduto oggi, in realtà non è mai accaduto.” 

“Grazie infinite, Alone. So quanto è stato difficile per te. E vuol dire molto.” 

La visione davanti ai miei occhi cambia completamente. Mi ritrovo in una stanza, circondata di statue ed affreschi. Quello che sto osservando, raffigura il tempio di Atena. Ma cosa…? 

“Miranda, insomma! Non posso mica mettermi ad urlare. Siamo in un museo, per Diana. Ah, ah! Ho fatto una battuta.” Mi volto in direzione della voce sopraggiuntami. La mia amica Giulia mi squadra severa a pochi centimetri. Ora ricordo. Eravamo andate a vedere il museo d’arte Greca. Quindi, sono a casa. Cioè, non proprio, dato che sono in un museo, in città e io vivo in una normale abitazione in paese. Però, il concetto è quello, sono tornata! 

“Ma che fai, non mi ascolti neanche se ti urlo nell’orecchio?!” 

“S-s-scusa Giulia. Dicevi?” Tento di fingere l’attitudine più normale e tranquilla che mi riesce. 

“Che, per quanto mi riguarda, io ho visto abbastanza. Ho una discreta fame e devo comprare il giornale a mio nonno. Non riesce a fumare il sigaro se, intanto, non legge il giornale.” 

Per automatismo, mi porto la mano alla tasca. I miei sigarillos non ci sono. I miei ricordi più recenti cominciano a riaffiorare e sono sicura di essermeli messi in tasca prima di lasciare casa, per venire qui. 

“Allora, - incalza Giulia. – Ce ne andiamo?” 

Giulia è l’unica persona che io conosca che riesce a mangiare più di me. Ed è anche piuttosto pericolosa, quando le prende il “colpo di fame”. Ai guidatori insonni, prende un rischioso desiderio di dormire, a lei, capita col bisogno di cibo.

“Per me va bene.” La abbraccio. Sono così felice. Adesso sono al sicuro.

In realtà, lo sono sempre stata. Quasi non riesco a credere che tutta questa lunga avventura sia avvenuta nella mia mente, nel giro di pochi secondi. Ho creduto di vivere mesi nell’antica Grecia, mentre la mia migliore amica, mi domandava se mi andava di uscire a mangiare un boccone. Incredibile. Quasi non riesco a credere sia successo davvero. 

“Ehilà, piano con lo slancio lesbico. Va bene che i greci erano libertini, ma la gente ci sta guardando.” Giulia mi rimprovera, in forma di battuta ed io rientro nei ranghi. 

Usciamo dal museo e raggiungiamo l’edicola più vicina. Giulia acquista il quotidiano, mentre, la mia attenzione è catturata da ben altro. Non è mica Dohko, il cavaliere, disegnato sulla copertina di questo albo? L’armatura è inconfondibile. 

Lo osservo meglio. Si tratta di un fumetto giapponese intitolato “Lost Canvas”, la tela perduta. Sembra narrare la storia di alcuni guerrieri che combattono in un tempio sacro. Mi accorgo di avere il mento penzoloni, quando la mia amica me lo risistema in sede con un dito. 

“Credevo non leggessi più questa roba dai tempi del liceo. – Esclama. – Allora, che fai, lo prendi?” Mi chiede distratta, mentre è intenta a pagare il suo giornale. Mi ricordo, solo in questo momento, che ha fretta di andare a mangiare. Prima, ero completamente rapita nel mio piccolo mondo interiore. 

Pago il fumetto e seguo Giulia in macchina. Lo apro ed inizio a leggerlo, non appena preso posto sul sedile.

Ho come l’impressione che questa storia mi appassionerà parecchio.

 

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Capitolo 7
*** L'avventura ha inizio... un'altra volta ***


7. L’AVVENTURA HA INIZIO… UN’ALTRA VOLTA

Non appena a casa, ho iniziato la procedura di soffocamento ai danni di mia madre. L’ho abbracciata, per dieci minuti buoni. Nel frattempo, ho annusato accuratamente il suo odore. Non le ho chiesto se si era fatta la doccia.

E’ stato quel profumo, misto agli aromi della nostra cucina a convincermi definitivamente di essere tornata. La casa, intesa come “le persone che ci vivono dentro”, è il rifugio. Ogni parte di esso si porta dietro sensazioni olfattive, visive e tattili strettamente collegate alle interazioni con la gente che vi abita. 

Ad ogni modo, mia madre è riuscita a liberarsi quando ha ritenuto troppo irritante il fatto che io respirassi aria a pieni polmoni, mentre lei rantolava. Mi ha suggerito di andare a salutare un po’ anche la nonna. Mossa tattica. 

Mi reco in salotto, dove vedo la nonna intenta a guardare il solito talk show. Mi è mancata tanto e glielo dico. Lei ride. Nella nostra normale routine, parole come queste non ce le diciamo, non ce n’è bisogno. Per questo, è importante che loro non sappiano che, negli ultimi mesi, ho vissuto in modo completamente diverso. Non mi crederebbero, se gli dicessi che, in pochi secondi, ho vissuto un’ intera vita parallela in un altro mondo. Anzi, farebbero di più: mi manderebbero per direttissima da uno strizza cervelli. Ed io non voglio fornirgli ragione alcuna per preoccuparsi.

Mentre racconto, o, per meglio dire, invento (non ricordo nulla del museo) quello che ho visto, mi ingozzo di tutte le porcherie che riesco a trovare in casa. Ho già pranzato con Giulia, ma, le merendine alla crema mi mancavano tanto. Quasi come la nonna. Forse, dovrei preoccuparmi per la mia integrità morale. 

“Credevo fossi stata al museo, non a correre la Maratona di New York.” Mia madre mi fissa severa, con le mani poggiate sui fianchi. Quanto la amo. Quanto mi mancava. Non posso esattamente dire lo stesso del suo sarcasmo, ma le sorrido raggiante, comunque. Il che, forse, la insospettisce un pochino. 

Improvvisamente, il modo in cui mi guarda mangiare mi riporta alla mente la cena con i Cavalieri, alla mensa dell’esercito.

Sento il bisogno di stare un po’ da sola, adesso. 

Salgo di sopra e mi faccio una tanto agognata doccia. Finalmente, un po’ di pulizia come dico io. Asciugati i capelli e scoperto che so ancora come si utilizza un phon, mi butto sul letto e mi leggo il manga che ho comprato. I personaggi corrispondono perfettamente alle persone che ho incontrato nell’altra dimensione. Quindi, la vita vera in un mondo distante dal nostro, potrebbe essere un’opera di pura fantasia nel nostro mondo. Se tanto mi da tanto, nell’antica Grecia dell’altro spazio temporale, ci potrebbe essere un romanzo che parla della mia vita. Troppo narcisista? Effettivamente… E poi, sarebbe una noia mortale, tutto quello che faccio è studiare, dormire e mangiare. Qualche volta ballo, ma dubito che la cosa servirebbe a rendere tanto più movimentate le cose. Ed eccomi di nuovo a pensare a loro. Nella fattispecie, adesso, sto pensando al mio pubblico, fatto di clienti della locanda di Zorba. In quell’altro posto, ero molto più attiva. Certo, dovevo sbarcare il lunario tutta da sola. 

Se non altro, leggere questo albo mi sta aiutando a capire un sacco di cose sul mondo in cui ho vissuto fino a poco fa. La cosa non mi serve a molto, ora che sono qui, ma sono curiosa. Ad esempio, ho scoperto che Asmita è davvero cieco, come avevo ipotizzato. Questo fumetto è quasi tutto dedicato a lui. Pare abbia dei sensi sviluppatissimi, più delle altre persone, per sopperire alla mancanza della vista. Non so fino a che punto credere a quello che sto leggendo. Qui, dice che i Cavalieri hanno dei super poteri straordinari, direttamente collegati al Cosmo, che pare albergare dentro i loro spiriti. Sarà veramente così anche nell’altro mondo? 

Ho ultimato la mia lettura. Sull’ultima pagina, c’è una pubblicità. Dice che il singolo dell’ending di Lost Canvas è visionabile su You Tube. S’intitola “Hana no kusari”, catena di fiori. Decido di ascoltarlo, non so neanch’io il perché. Di solito, la musica giapponese non mi fa impazzire. 

Mi ritrovo, invece, ad ascoltarlo ben quattro volte. Mia madre ed i vicini mi avranno odiato. Mi casca persino una lacrima. Forse, perché il brano ha un ché di nostalgico. Ma, io so il vero motivo. La tristezza delle note mi fa pensare alla vita dura delle persone che ho incontrato, mentre la dolcezza della voce della cantante mi ricorda Sasha. La mia piccola, grande Atena. Sbaglio, o qui si diventa emotivi? Quasi, quasi, mi trucco gli occhi di nero e corro a comprarmi una lametta. 

E’ ancora presto, ma decido di mettermi, comunque, a letto. Il che si rivela essere la scelta sbagliata. 

Faccio uno strano sogno: mi trovo in uno spazio grigio e sbiadito e, proprio davanti ai miei piedi, c’è una pozzanghera nera. Non so per quale astruso motivo, decido di avvicinarmici. Di colpo, l’acqua, prima scura, si accende di una luce perlata. Ed io mi ci tuffo dentro. Nel momento esatto in cui i miei piedi toccano il liquido luminescente, il mio corpo si trasforma in una chiave. Poi, per fortuna, mi sveglio. Meglio tardi che mai. 

“Devo tornare lì.” E’ quello che riesco a dire, prima che il sonno abbia, di nuovo, la meglio su di me.

Ed eccomi di nuovo al museo. Non sono andata all’università, oggi, per venire alla mostra d’arte antica. Mossa poco geniale, dato che mi manca tanto così alla tesi di laurea. Ma, ho come la costante sensazione che ci sia qualcosa che non va. Qualcosa di irrisolto nel “mondo di Lost Canvas”, come suggeritomi dal sogno di stanotte. 

Per tanto, ho deciso di tornare sul posto, in cui tutto ha avuto inizio. Mi ci è voluto un notevole sforzo di coraggio, comunque. I viaggi dimensionali, che, spero divenuti per me impossibili, non mi mandano esattamente in visibilio. Ho pagato ben diciassette euro per vedere quattro facce di bronzo ed altrettanti bassorilievi in marmo. Ho salutato la mia famiglia e gli amici come se non ci fosse un domani e, letteralmente, corso fino a raggiungere l’immagine del Partenone. Le persone, nel museo, mi hanno guardata male. Quelle che ho spintonato, più delle altre. Una centometrista, che gioca a bowling con la clientela di un museo, non è considerata esattamente normale. Al momento, non mi importa. C’è un’allegra comitiva di giapponesi, parcheggiata davanti all’opera che mi interessa. Tanto per cambiare, stanno scattando delle foto. Proprio ora che io ho fretta.

Mi aiuto con convulsi gesti delle mani e qualche parola di etrusco (non parlo giapponese) e gli spiego che non possono fare foto, altrimenti gli smalti si rovinano. Magari è pure vero. Non so cosa abbiano capito, ma se ne stanno andando. Forse, mi hanno presa per una guida turistica, perché, prima di allontanarsi, mi propongono un selfie tutti insieme. Faccio pure il benedetto selfie. Tutto purché spariscano, lasciandomi da sola per un attimo. Non lo so nemmeno io perché provo tutta questa impazienza. E’ come un impellente bisogno fisiologico. Devo soddisfarlo o mi sento male. 

Finalmente in santa pace. Il resto della sala è quasi deserto. Mi chiedo se funzionerà ancora. Il dipinto che mi ha fatta viaggiare attraverso lo spazio è stato distrutto… Tentar non nuoce, si dice così, giusto? 

Stringo tra le mani i miei due fan veli, giganteschi ventagli con un lungo e sottile pezzo di stoffa connesso all’estremità. Sasha ha detto che avrebbe voluto vedermi danzare, quindi, li ho portati con me, nella speranza che passassero attraverso il varco dimensionale. La coreografia che ballo con questi attrezzi è la mia preferita. Ero l’unica del mio corso a non averli ordinati on-line. Me li sono fatta fare a mano dalla nonna. Per cucirli, ha utilizzato degli scampoli di stoffa avanzati dal suo abito della prima comunione. Tengo molto a questi due oggetti. Spero di non rovinarli durante il viaggio. 

Ci siamo. Un respiro profondo, qualche passo in avanti. Tendo la mano verso il bassorilievo. Poi, la luce. Una luce tiepida ed accecante mi avvolge completamente. Sembra quasi avere un corpo, che mi soffoca fino a darmi le vertigini. Mi sto davvero pentendo di aver abbracciato mia madre così forte, ora che so cosa si prova.

La sensazione di stare passando attraverso un semplice metal detector rimpiazza ogni altra ed io mi sento più tranquilla. Durante gli altri due viaggi, non ero altrettanto lucida, ho notato molto meno cosa mi stesse accadendo. 

Sono contenta abbia funzionato. 

Riconosco subito il gazebo in cima al Grande Tempio. E’ da qui che sono partita per tornare a casa, l’ultima volta. Sento un fruscio alle mie spalle, accompagnato da un tintinnio metallico, come di campanelle. Mi volto. 

“Sasha?” 

Non appena scorgo la ragazza accompagnata dal Patriarca, Manigoldo e il Cavaliere d’oro dell’Ariete, controllo quello che ho in mano. I miei adorati fan veli sono arrivati sani e salvi. 

Sasha ha in mano uno scettro di forma circolare, con dei piccoli anelli attaccati tutt’intorno. Ha un’aria solenne, mentre mi guarda negli occhi. 

“Miranda, sei tornata… - si protrae verso di me ed allarga le braccia. - Sono contenta tu sia qui. – Il suo sorriso svanisce e la postura del corpo torna composta e seriosa. – A quanto pare, il tuo lavoro non era ancora concluso.” Mi dice. 

Sono confusa. “Come facevi a sapere che sarei arrivata qui? E, per Giove, come ho fatto io a ritornare? Credevo che il dipinto che mi ha condotta qui fosse stato distrutto!” Ecco, un minuto nell’antica Grecia e già bestemmio agli dei dell’Olimpo. Poco male, a casa mia faccio di peggio. 

“Ho percepito il tuo Cosmo e sono venuta ad accoglierti. – si porta una mano al cuore e mi guarda, apprensiva. – A quanto pare, il varco dimensionale non si è ancora completamente richiuso. – La sua espressone si fa, quanto mai, seria. – Ma, dovrai svolgere il tuo lavoro e tornare a casa, prima che la completa chiusura avvenga.” 

Sono sempre più confusa. “Non capisco, lo scrigno è stato recuperato, giusto? Cos’altro può mancare?” 

Atena abbassa il capo. “La chiave…” La stessa sensazione di completa idiozia, che ho provato, quando ho ritrovato le chiavi della mia macchina, nel frigorifero, si fa largo nella mia mente. Ha che serve avere uno scrigno magico se non sai come aprirlo? Assieme ad essa, i sensi di colpa. 

“Strano. Nelle pergamene che ho tradotto non si fa menzione di nessuna chiave.” Mi copro la bocca con una mano, mentre, assorta, ripenso a quello che ho scritto, nelle versioni. 

“Tu non hai colpe, Miranda – Sasha riesce, sempre, a leggermi nel cuore. Capisce esattamente cosa ho bisogno di sentirmi dire. Me la voglio portare nel mio mondo. La metto sul comodino a parlarmi, quando mi sveglio e davanti allo specchio, quando mi trucco in bagno. Sono sicura migliorerebbe molto la mia autostima. – L’Imperatore ha, probabilmente, scelto di tenere segreta l’esistenza della chiave. Era un uomo prudente. Aveva ben compreso la pericolosità dell’oggetto magico. Ho avuto una visione, stanotte. Ho visto una chiave fatta di luce all’interno della Fortezza. Per questo, so che esiste.” 

Sono stupefatta, non solo perché Sasha è riuscita a fare, in una sola notte, dormendo, un lavoro migliore del mio, che sono rimasta sveglia, per tre giorni di fila. Sono stupita, anche perché abbiamo fatto quasi lo stesso sogno. Che fosse una visione, anche la mia? Buffo, però, io non ho poteri spirituali, come lei. 

C’è un dubbio che mi preme togliermi. “Ma se, questo Imperatore era davvero così prudente, come mai non ha semplicemente distrutto lo scrigno?” 

Il Patriarca risponde alla mia domanda. “Si sta parlando di un oggetto carico di Cosmo, non è cosa facile sbarazzarsene.” 

“Ha probabilmente resistito ad ogni tentativo di romperlo.” Mi dice Shion. Che voce calma. Come ci riesce? L’argomento che stiamo trattando, a me procura la tachicardia. Lui, invece, sembra stia commentando un articolo di giornale, che spiega come preparare il tè indiano. 

“Ma dimmi di te, Miranda. Cosa ti ha spinta a rischiare tanto per tornare qui?” Mi chiede Sasha con un misto di interesse e preoccupazione sul volto. 

“Che tu ci creda o no, Sasha, ho sognato di trasformarmi in una chiave. – Faccio un respiro profondo. Parlare del sogno mi ha messo addosso una certa angoscia. Per non parlare, poi, dello sforzo fatto per rammentarlo. L’avevo quasi rimosso. – Quando mi sono svegliata, ho sentito come la necessità di provare a vedere se sarei riuscita a tornare qui.” Concludo, non senza un po’ d’imbarazzo. Non credo abbia del tutto senso quello che ho detto.

Per qualche istante, cala il silenzio. Tutti stiamo pensando a qualcosa. Questo è uno di quei casi in cui vorrei tanto saper leggere nel pensiero. Mi rassicurerebbe scoprire se pensano che, avere delle visioni, senza essere la reincarnazione di un dio, sia normale, o, se devo correre a rinchiudermi in una clinica. Esistono cliniche psichiatriche qui?

Grazie al cielo, Manigoldo decide di spezzare l’imbarazzo, con una delle sue sparate.  

“La verità è che non riuscivi a starmi lontana, ammettilo!” Alza il mento e mi sorride. 

Il Patriarca lo squadra in faccia ed il ragazzo si ammutolisce, dopo aver sobbalzato, per un attimo. 

Devo ammettere che, però, non ha tutti i torti. Adoro vedere come reagisce quando viene rimproverato a causa mia.

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Capitolo 8
*** Patto di sangue ***


8. PATTO DI SANGUE

Il Patriarca ordina a Manigoldo e Shion di tornare alla Fortezza e recuperare la parte mancante. Poi, aggiunge una certa cosa che mi lascia un po’ interdetta. 

“Tu andrai con loro, stavolta, Miranda. - Oh cazzo! E se incontriamo gli Specter? – All’interno della Fortezza vi sono delle iscrizioni murali che non sappiamo interpretare. Potrebbero suggerire come arrivare alla chiave. Per questo, la tua presenza è assolutamente necessaria. Se rifiutassi, i cavalieri sarebbero allo sbando in un luogo simile ad un labirinto ed irto di trabocchetti. Per tanto, spero vivamente che accetti.” 

Il capo del Grande Tempio che (quasi) mi supplica? Poco male, ci sono i Cavalieri con me, sono sicura che sapranno proteggermi. Non devo temere nulla. Nonostante ciò, sono un po’ titubante. Sul braccio di Shion c’è una cicatrice fresca piuttosto vistosa… Io ho una soglia di sopportazione del dolore e della fatica piuttosto bassa, anche di quelli altrui. Ho paura anche solo di restare ferita, pur riuscendo a sopravvivere. Penso sia normale. Voglio dire, io sono una persona normale. E questo dovrebbe spiegare tutto. 

Poi, il mio sguardo cade sulla faccia da schiaffi di Manigoldo, inginocchiato accanto a Shion ai piedi del Sacerdote. Si sta prendendo gioco di me. Mi guarda e se la ride sotto i baffi. 

“Accetto.” Tiè! 

“Allora è deciso, partirete non appena Shion avrà ultimato la riparazione delle armature.” Fermate il mondo, voglio scendere! Perché cazzo ho accettato? A sì, perché Manigoldo mi sfotteva. Allora, va bene.

Comunque, ho tutto il tempo di questo mondo per prepararmi psicologicamente. Probabilmente, ci vorranno giorni, prima che Shion riesca ad aggiustare dei vestimenti da battaglia d’oro zecchino.

Il Patriarca, che aveva preso ad allontanarsi, seguito dai due Cavalieri, si volta e si rivolge nuovamente a me. Sbaglio, o sta ridendo?

“Non temere, comunque, Miranda. Per proteggere entrambi sarebbe bastato Shion. Manigoldo verrà con voi solo perché ha tanto insistito.”

Manigoldo, a queste parole fa, letteralmente, un salto. Poi, si affretta a dire, mentre si gratta la testa convulsamente con una mano, l’altra aperta in una posizione rigida, lungo il fianco:- L-lo faccio perché tengo molto ad ultimare come si deve la missione che mi è stata comandata, maestro!- 

“Certo, Manigoldo, tutti sappiamo benissimo quanto tieni alle missioni.” Gli risponde il Patriarca, ma mi sembra vagamente sarcastico. Quindi, lui è il suo maestro. Se tanto mi da tanto, questo Manigoldo deve essere una sorta di pezzo da novanta. Lo guardo e cerco qualcosa da dirgli. Per la prima volta, lo vedo irreparabilmente in imbarazzo. Strano. 

Il pezzo da novanta, però, decide di sparire dalla circolazione, con un salto da far impallidire un campione olimpico di lungo e di alto, messi insieme. Si è completamente eclissato, giù dal parapetto. Sarà sopravvissuto? Non ho assistito ad un tentativo di suicidio, vero? 

Rimango indietro assieme a Sasha, la quale mi sia avvicina e mi parla con un filo di voce. Lo sguardo dolce ed un lieve sorriso sulle labbra. “Non so come ringraziarti, Miranda. Mi spiace, però, ho dovuto raccontargli che vieni da un altro mondo…” 

“Figurati, se non dispiace a voi di avere a che fare con una specie di extra terrestre!” Ridacchio. 

“Una specie di cosa?” La piccola sgrana gli occhi e socchiude le labbra. 

“Lascia perdere. – nella mia mente sorge un dubbio. – E quel ragazzo, Alone, giusto? Gli hai raccontato anche di lui? E' venuto al Tempio in segreto, vero?”

La giovane scuote la testa. Se possibile, abbassa ancora di più la voce. “Gli ho solo detto che si era aperto un varco dimensionale e che tu ci sei finita dentro. Non ho fatto menzione del quadro di Alone. – mi guarda seria e preoccupata. – Nessuno deve saperlo.” 

“D’accordo, allora sarà il nostro piccolo segreto.” Le strizzo l’occhio. Lei mi prende le mani, mi sorride e mi fa un piccolo inchino. 

“Shion è in fondo a quella scala, nel gazebo. – Mi indica un punto alla mia destra. - Puoi stare con lui, intanto che aspettate di partire. Fra poco, dovrebbe aver finito.” Mi sbagliavo, non ho affatto il tempo di prepararmi psicologicamente. E chi lo sapeva che per riparare un’armatura d’oro ci volesse tanto poco! 

“Io devo andare, ora. Ciao Miranda.” 

“Ciao, Sasha.” 

Mi reco nel gazebo e vorrei tanto non averlo fatto. Quello che vedo, mi lascia senza parole. Nel senso negativo del temine. Shion ha in mano gli attrezzi da lavoro e, fin qui, tutto bene. Tuttavia, ha dei tagli sulle braccia dai quali fuoriesce del sangue, che cola sulle armature. 

“Posso aiutarti?” Mi chiede come nulla fosse, senza staccare gli occhi dal suo lavoro. 

“N-no… Sasha mi ha detto di stare con te, intanto che aspettavo arrivasse il momento di partire. Ma credo che andrò da qualche altra parte. – Mi accorgo di stare facendo una faccia disgustata e mi sforzo di cambiare espressione. – Sai, non sopporto tanto la vista del sangue.” 

Finalmente, alza lo sguardo e me lo rivolge. Spalanca la bocca, poi, la richiude. “Mi dispiace. La signora Atena non ti ha detto che le armature vengono riparate in questo modo?” 

Intende dire, “svenando” il fabbro? “No, non me l’ha detto. Per questo, sono rimasta sorpresa.” 

“Le nostre armature sono come esseri viventi, per tanto, hanno bisogno di nutrimento per rifocillarsi. Quel nutrimento è il sangue, purtroppo.” Mi spiega con voce calma. I tagli sembrano non infastidirlo minimamente. Secondo me, se quelle armature esistessero nel mio mondo, per farle tornare in vita, basterebbe un panino del Mc Donald’s. Ehi, potrebbero provare a dargli la crostata salata della mensa! Quasi, quasi, glielo dico. No, meglio di no. 

“Vuoi dire che, con il tuo sangue, compi una specie di magia?” 

“Più o meno.” 

“Non potete utilizzare, che so, il sangue di un animale?” 

Shion abbassa la testa, poi, prende ad osservare la sua armatura allo stesso modo in cui io guardo la lasagna di mia madre. Come una figlia, una compagna, un’amante. Lo so, mi sono lasciata trasportare. 

“Ciò che il cavaliere indossa, solo dal cavaliere può essere riparato.” Wow, ha parlato come il grande Yoda! 

“Quindi, i legami tra voi cavalieri sono fortissimi.”

“Cosa intendi dire?” Probabilmente Shion non ha capito il mio ragionamento. Allora, siamo in due. 

Cerco di spiegare, più che altro a me stessa; magari, poi, Shion mi traduce, in un linguaggio comprensibile, il mio ragionamento.

“Voglio dire, che tu sei disposto a rischiare la tua salute, per proteggere il corpo di un compagno. Nell’armatura che Manigoldo indosserà, ci sarà una parte di te. Questo, un compagno non può ignorarlo. E’ come se foste legati da un patto di sangue. E’ un patto di sangue bello e buono!” Gesticolo con le mani, mentre guardo in alto, come ad aspettarmi che le parole scendano dal cielo. 

“Io faccio semplicemente il mio lavoro.” Shion ritorna tutto intento alla sua previa occupazione, senza aggiungere altro. 

Per qualche istante lo guardo lavorare, poi, decido che non ce la faccio più ed esco dalla stanza. Mi siedo sui gradini, a pochi passi da dove mi trovavo. Da questo punto, riesco a vedere il villaggio. Chissà come stanno Ivan e Paul? Mi piacerebbe tanto rivederli. Magari, scusarmi con loro di persona, per essere sparita. Ho portato con me i fan veli, apposta perché mi piacerebbe esibirmi per Atena, mentre loro suonano. Spero di poterli portare al tempio con me. Far uscire Sasha, credo sia impossibile. Mi lego la corda della custodia dei veli ad un passante del pantalone. Così non devo tenermeli tutto il tempo in mano. 

Sento un rumore alle mie spalle e mi volto. Shion sta uscendo, con due enormi cubi sulla schiena. 

“Hai già finito?” Mi sposto per lasciarlo passare.

“Sì. Sei pronta?” 

“Diciamo di sì…” Il mio tono non è esattamente entusiasta, devo riconoscerlo. 

Mi guarda intensamente come se volesse dirmi qualcosa. In quel momento, sopraggiunge Manigoldo, da chi sa quale altura. Sono contenta non sia morto, quando si è buttato giù dal balcone, prima. Atterra proprio davanti a noi e s’impossessa del suo “zaino”. A quanto pare, quella di apparire e scomparire saltando, è una sua abitudine. Spero di riuscire ad adattarmici. Stavolta, mi ha fatto prendere un colpo. Ho quasi ingoiato la mia lingua. 

“Con quell’ attitudine svogliata non andremo da nessuna parte. – Mi rimprovera. – Ti credevo più avventurosa.” 

“E io non credevo esistesse una chiave dello scrigno.” Manigoldo ha riso, possiamo partire. 

Raggiungiamo la Fortezza dopo una mezza giornata di cammino, a passo piuttosto sostenuto. Sono certa, tuttavia, che i due Cavalieri, che mi accompagnano, abbiano rallentato la loro andatura, per consentirmi di stare al passo. Di ciò, gli sono grata. Ora non me ne starei, in piedi, ancora relativamente carica di energie a studiare le iscrizioni murali, se avessimo corso, anche solo un po’ di più. Ma non esiste una qualche specie di genio della meccanica, in questo mondo? Che si sbrighi ad inventare le macchine! Anche gli autobus vanno ancora bene. Ah, già, in questo mondo, non esiste la meccanica. 

Conduco i cavalieri in una grande stanza, piena zeppa di disegni geometrici, che non so interpretare. L’intera Fortezza assomiglia molto ad un’immensa Zigurrat ed il suo interno è una specie di labirinto. Ho seguito tutte quelle scritte che sembravano portare ad un luogo importante, stando molto attenta ai segnali di pericolo. Probabilmente, se ne avessi anche solo ignorato uno, saremmo finiti dritti, dritti in una trappola.

E finalmente, in fondo alla sala, la vedo. 

“Guardate, è la chiave!” Indico un’oggetto luminescente grande, più o meno, quanto un mio braccio. E’ messa in verticale e sembra fluttuare nell’aria. Come nella visione di Sasha. 

“Io non vedo proprio nulla.” Mi dice Manigoldo. 

“Ma come? E’ proprio davanti a…” Un momento. E se la vedessi solo io? In tal caso, il mio sogno avrebbe un senso.  

“Miranda.” Shion chiama il mio nome con voce solenne. 

“Sì?” 

“Prendi la chiave e scappa.”

Non faccio a tempo a chiedere il perché, che una nuvola di fumo nero si materializza davanti a noi. Al suo interno, quello che ipotizzo essere uno Specter. Indossa, infatti, un’armatura nerissima. Certo, che sono parecchio vanitosi. Non  poteva arrivare e basta. No, aveva anche bisogno del fumo, come le rock star. 

“Non mi direte certo che non avete ancora trovato lo scrigno. – parla con voce roca, in tono acuto, deformando, con una smorfia, la sua faccia da bull dog. – Sarebbe proprio un peccato, se qualcuno ve lo portasse via proprio ora che ci siete così vicini…” 

Per fortuna, non ha capito che cerchiamo la chiave. Credo che, anche lui, non riesca a vederla. Bene.

“Io non vedo nessuno in grado di farlo.” Parla Manigoldo. 

In un attimo, lo Specter è sdraiato sul corpo di Manigoldo ed ha scavato una crepa nella sua armatura, all’altezza dello stomaco, con un pugno. Non sono neanche riuscita a seguire i suoi movimenti con lo sguardo. 

“Non avresti dovuto osare insultare Shaktish della Stella Nera. Non  c’è Specter più veloce di me. Siete tutti destinati a soccombere. – Poi, con voce profonda, aggiunge. – Comunque, non temete, non avrete neanche il tempo di accorgervene.” 

D’istinto, tiro fuori i miei fan veli ed inizio a sventolarli davanti alla sua faccia, per distrarre la sua attenzione da Manigoldo. Lo Specter fa un salto indietro. 

“Che cosa hai fatto, piccola bastarda! Mi hai bruciato gli occhi!” Strilla il nemico. Un lamento ferale insopportabile.  

Io? Davvero? Con i miei fan veli posso fare questo agli Specter? Non ne ero al corrente. Buono a sapersi. 

L’aggressore prende a lanciarsi per tutta la stanza, sbattendo contro i muri, a velocità supersonica. Così è impossibile prenderlo. Poi, ad un certo punto, sembra inciampare in qualcosa. Abbasso lo sguardo e scopro che quel qualcosa sono i miei veli. Sono avvolti tutt’intorno alle sue gambe e, come cosa ancor più strabiliante, la sua armatura si sta rompendo, nei punti in cui viene toccata dalla stoffa dei miei attrezzi. 

“Bel lavoro Miranda!” Mi dice Manigoldo, con un sorrisone.

“Non so come l’ho fatto, però l’ho fatto.” Gli rispondo, allibita. E aggiungerei anche che sono proprio figa. Accidentalmente, ma figa.  

“Adesso, però, direi che tocca a noi. Non pensi, Shion?” Il ragazzo annuisce. In sincrono, i due Cavalieri acquisiscono un assetto da combattimento e, presto, dalle loro mani inizia ad emanare un’intensa luce. Dorata, quella di Shion e bluastra, per Manigoldo. Lanciano i pugni contro lo Specter e, in un batter di ciglia, questo viene sbalzato contro la parete, dalla parte opposta della stanza. Dopo qualche secondo, svanisce nella stessa nuvola nera, nella quale era apparso. Non ho mai visto qualcosa di tanto incredibile in vita mia. 

“Presto, Miranda. Prendi la chiave ed andiamocene, prima che ne arrivino altri.” Mi ordina Shion. Non sembra minimamente provato da quanto ha appena fatto. Lo stesso, dicasi per Manigoldo, nonostante la ferita all’addome. 

Mi avvicino alla fonte di luce e m’inginocchio, incerta sul da farsi. Così, provo ad avvicinare cautamente le mani. Il luccichio si fa più intenso. 

“Oh, adesso la vedo anch’io.” Esclama Manigoldo. 

Nel giro di pochi secondi, la chiave svanisce tra le mie mani, disintegrandosi in una miriade di scintille. 

“E adesso? La chiave è sparita!” Urlo quasi, agitata. 

“Non temere. – mi tranquillizza Shion. – E’ perché ora ce l’hai tu.” 

Quindi, ora si troverebbe nel mio corpo? Spero che non mi facciano una gastroscopia per recuperarla. Forse, sono salva. Non credo l’abbiano ancora inventata, qui. 

“Andiamo.” Manigoldo mi tende la mano. 

Annuisco e la prendo. Mi sento stanca morta, ma so che dobbiamo sbrigarci. Gli Specter, probabilmente, sono in allarme.

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Capitolo 9
*** Quasi come la scena del balcone...dico quasi ***


9.QUASI COME LA SCENA DEL BALCONE… DICO QUASI

 

Non appena giunta al Tempio, scopro che, per la dea Atena, il da farsi è del tutto chiaro.

“Avvicina le tue mani allo scrigno.” Mi dice con voce dolce, porgendomi l’oggetto.

Nel momento esatto in cui le mie mani lo sfiorano, si spalanca, inondando di luce la sala del consiglio. Improvvisamente, tutta la stanchezza di questa lunga giornata svanisce nel nulla. Quindi, era vero, quello che dicevano le scritture sanscrite, sulla sua capacità di rinvigorire. Ciò che sono riuscita a provare, nel giro di pochi secondi, ha dell’incredibile. Io stessa non ci credo. Mi sento fresca come una rosa e piena di energie. Se oggetti come questi esistessero nel mio mondo, credo che l’aspro dibattito sulla marijuana officinale andrebbe a farsi benedire. Non ce ne sarebbe più bisogno. O, forse, no… Preferisco non saperlo. 

Come volevasi dimostrare, non sono riuscita a dormire. Ero troppo carica, ieri, dopo aver aperto lo scrigno. 

Così, mi vesto ed esco, di primo mattino, per recarmi al villaggio. Voglio andare a reclutare Ivan e Paul, per lo spettacolo di stasera, al Tempio. Sasha mi ha detto che ne sarebbe stata entusiasta, quando abbiamo parlato a tu per tu; dopo che i due guerrieri si sono congedati, assieme al Gran Sacerdote. 

Cammino, diretta alla taverna di Zorba, per le strade polverose del paesino, guardandomi intorno. Anche se sono stata a casa mia solo per un giorno, prima di tornare, mi tocca ammettere che cominciavo già a provare una sorta di nostalgia, per questi luoghi. D’altronde, ho vissuto qui, quasi tre mesi. Riconosco il balconcino bianco, tutto fiorito, di una ragazza che viene, spesso, a vedere le mie esibizioni. Adoro le case di qui. Sono un misto di marmo bianco, mattoncini di pietra e travature lignee. Un luogo del genere, nel mio mondo, verrebbe considerato “caratteristico”, se non, “pittoresco”. Per me, è, semplicemente, la seconda casa. Prima di adesso, non avevo mai vissuto, neanche per poco, da altre parti, se non casa mia. Non abbiamo abbastanza soldi, per viaggiare. Ogni tanto, però, andiamo a stare, per qualche giorno, in una pensioncina, vicino al mare. 

“Sherazade!” Riconosco l’accento inglese di Paul, alle mie spalle. 

Mi volto e vedo anche Ivan. Mi fa un cenno di saluto con la mano e mi dice: - Credevamo fossi tornata a casa tua, in Italia, tre giorni fa! Cosa ti porta di nuovo qui? – Riconosco una nota di sollievo e stupore nella sua monotona cadenza russa.

Non so come spiegargli. Quindi, qui, sono già passati tre giorni. “Sì, in effetti ero tornata, ma poi, sono venuta di nuovo qui, perché… - E, adesso, che mi invento? Ah, già, gli parlo dello spettacolo di stasera! -   C’era un’occasione troppo grande, che non potevo assolutamente perdermi. Ma, voglio che ci siate anche voi!” Spero vivamente che se la bevano. 

“Certo, certo, ti ricordi dei tuoi amici, solo quando ti servono. – Mi rimprovera Ivan. Ma, poi, aggiunge dell’altro. – Di che si tratta. Roba grossa?” 

 

“Ci puoi scommettere! – Ribatto e allargo le mani, come a misurare qualcosa che è troppo grande, da non riuscire neanche a reggerlo tra le braccia. – Sash…ops! La dea Atena, in persona, vuole che ci esibiamo per lei, stasera. Ci state?” Li guardo con un sorrisone, in fervente attesa delle loro reazioni. Che, giungono subito, esattamente come me le aspettavo. 

“Ci puoi giurare. – esclama Paul. – E’ da una vita che aspetto un’occasione così! Lei com’è, carina?” Mi domanda, infine, curioso.

“La ragazza più gnocca che tu possa immaginare, Paul.” 

“Allora, ci vengo e come. A che ora si va?”

“Non appena finiamo le prove.” Gli rispondo, ancora agitata per il grande annuncio che gli ho fatto.

“Ma scusa, - Ivan sembra in dubbio su qualcosa che ho detto. – come hai fatto ad andare e venire dall’Italia in soli tre giorni?” Dimenticavo, qui non esistono ancora i treni, men che meno, gli aerei. 

“Ho viaggiato con una nave molto veloce.” Mento spudoratamente, usando la prima balla che mi salta in testa. Se ci pensassi troppo, prima di rispondere, s’insospettirebbero. 

“Avrai sborsato una cifra esorbitante, Sherazade!” Mollami Ivan! Il suonatore di Taksim pel di carota è peggio di un mastino. Quando qualcosa non gli torna, continua ad indagare, fino a quando tutto non fa, esattamente, due più due. Una palla al piede. Per fortuna, Paul fa virare la conversazione su tutt’altro frangente. 

“A proposito di Tempio, cosa ti ci hanno portata a fare, lì?” Il ragazzo, adesso, appare visibilmente preoccupato. Anche Ivan si distoglie dalla sua paranoia sul prezzo della nave e prende a fissarmi con aria interessata. Dimenticavo di dirvi che loro mi chiamano esclusivamente col mio nome d’arte. E’ una cosa fra noi. 

“Avevano solo bisogno che traducessi loro una pergamena.” Butto lì, falsamente distratta. Fino a qui, credo di potergliela raccontare, ma non oltre. Perciò, sto bene attenta. Non voglio certo farli preoccupare per me, o svelargli informazioni top-secret.

Saputolo, comunque, i due sembrano perdere interesse e si concentrano sul chiedermi cose del tipo come sia il Tempio e quale pezzo portare stasera. 

Indosso una gonna a ruota, con due spacchi laterali, di organza, bianca, come i miei fan veli ed un reggiseno a frange, fatte di perle, dello stesso colore. Ho sciolto i capelli e, se possibile, li ho resi ancora più ricci, lavorandoli con un olio profumato. Tutto è perfetto, ora, devo solo concentrarmi sull’eseguire correttamente la coreografia, che, dovendolo ammettere, non è delle più semplici. Mi trovo nella stanza di Sasha. Ci siamo solo noi e le sue ancelle. Paul è al culmine della gioia. Ivan è sposato.  

La musica parte. Mi siedo a terra con le gambe di lato. Ho lasciato un fan velo a terra, lo raccoglierò col procedere della coreografia. L’altro, poggia sulla mia spalla e mi reggo l’estremità dietro la testa. Inizio a scuoterlo, a tempo con l’accordo lento e struggente di violino arabo. Lo sollevo continuando a tenerlo con entrambe le mani. La musica si fa più intensa e parte anche il tamburo. Lascio l’estremità del velo ed inizio a farlo vorticare intorno al mio corpo, avviluppandomi in esso. Raccolgo l’altro attrezzo ed inizio lentamente a salire in piedi. Prima una gamba, poi, l’altra. Nel mentre, lancio in avanti il tessuto e lo faccio ondeggiare. Compio un otto con le braccia, poi, mi porto dall’altro lato della stanza con uno shené. Un altro otto. Congiungo le braccia, poi, le riapro. Ripeto il giro, portandomi di nuovo al centro dell’abitazione. Incrocio le braccia, che continuano a muovere i veli, come fossero ali di fata, nel frattempo, compio un passo arabo, seguito, subito dopo, da un pivot. Lancio i miei oggetti a destra, sinistra, poi, di nuovo, destra, direzione verso la quale compio un giro tribal, lasciandoli fluttuare sopra la mia testa. Ripeto l’operazione a sinistra. La musica comincia a scendere d’intensità ed io mi riporto lentamente in posizione seduta, stavolta sulle ginocchia. Mentre mi abbasso, faccio salire le braccia e muovo i veli, imitando la ruota di un pavone. La musica cessa di colpo ed io lascio cadere le mani con un colpo secco. 

Le ragazze prendono ad applaudire ed io mi rendo conto di non aver sbagliato nulla. Sono felice. Anche Sasha lo sembra molto. Si sta spellando le mani. 

I miei due musicisti riprendono a suonare. Stavolta, si tratta di un pezzo ritmato da forti percussioni. Paul invita a danzare le ancelle, le quali, prima recalcitranti, si fanno coraggio e scendono in pista, incoraggiate da Sasha. Lei, però, non ballerà. Non credo possa farlo, nella sua posizione. Per questo, incita le sue servitrici a divertirsi anche per lei. L’atmosfera si fa divertita e gioiosa. Io, però, ho bisogno di una boccata d’aria fresca. Necessito di smaltire l’intensità del pezzo che ho ballato, restando, qualche momento, da sola. Sapendo che avrei danzato per Sasha, ci ho messo l’anima. 

Esco sul sagrato ed inalo a pieni polmoni. Quanto vorrei avere con me i miei sigarillos! Stupidamente, pensando di poter smettere, come nulla fosse, li ho regalati a Manigoldo. Ecco, adesso vorrei che Manigoldo fosse qui. Per i sigari, s’intende. 

Sento un rumore alle mie spalle e vedo un ramo d’albero cadere a terra, seguito da Manigoldo in persona. Ok… Questa cosa mette i brividi. Il ragazzo si rialza in piedi e prende a massaggiarsi una natica. 

“Come sono andata, Manigoldo?” Gli domando, impertinente. 

“Non sono riuscito a vedere abbastanza bene, c’erano troppe foglie davanti alla mia faccia. – Asserisce un po’ imbarazzato. Sembra non riesca a guardarmi, se non di sbieco, senza arrossire. – Comunque, mi pare bene. Ti hanno applaudita, no?” 

“Diciamo che non ho sbagliato nulla. E questo è già una specie di successo. - Gli faccio presente. – Posso avere un sigarillo?” Gli chiedo, poi, impaziente. 

“Ancora con questa storia? – Mi fa, canzonatorio. – Credevo di averti detto che non devi fumare!” 

Rispondo con altrettanta verve. “Certo, mi hai detto anche il perché.” 

Arrossisce di nuovo. Per un po’, cala il silenzio. 

“Come va la ferita alla pancia?” 

“Quale, quel graffietto? Sono già bello che guarito. – Il solito spaccone. – E Shion mi ha già anche riparato l’armatura.” 

“Buon per te. – Scherzo. – Un po’ meno per lui…” 

La mia ultima battutina lo fa volgere completamente verso di me. Pronuncia, nuovamente, una frase che, da una persona come lui, o, da una persona che, credo essere come lui, non mi sarei mai aspettata. 

“Tu sai sempre cosa dire, vero? – Fa una pausa – Come fai a parlare seriamente e, allo stesso tempo, sdrammatizzare sempre tutto così?” 

“Perché, tu non fai la stessa cosa, forse? – Attendo qualche attimo anch’io, prima di continuare il mio discorso. Divengo seria, un’espressione malinconica stampata sulla faccia – Sai, quando ero una ragazzina avevo paura di parlare con le persone. Diventavo nervosa; mi sembrava di dover salire un’infinita rampa di scale, ogni volta che dovevo raccontare qualcosa di me agli altri. Poi, un giorno, ho scoperto che, a volte, quella rampa di scale può condurre ad un palcoscenico. Alcuni miei amici, si sono detti convinti che era meglio quando non parlavo, però!”  

E, all’improvviso, le sue labbra sono sulle mie. Sento il calore delle sue guance sul mio viso. Rimango immobile, stupefatta ed imbarazzata, senza saper decidere bene cosa fare. Accarezza le mie labbra, con le sue per qualche secondo, poi, si ritrae. 

“Sono d’accordo con loro, devo dire.” Mi guarda con un sorriso ingenuo ed imbarazzato. 

“N-non ho capito bene il concetto. Me lo potresti rispiegare?” Chiedo, letteralmente fervendo. 

“Incredibile. Anche in momenti come questi, riesci a fare il pagliaccio.”

Senza darmi modo e tempo di replicare, mi bacia un’altra volta. Stavolta, però, è più languido. Sento il suo respiro farsi più intenso ed accarezzarmi le gote. Ha gli occhi lucidi. Non potendone più di aspettare, decido di portare io stessa la cosa un po’ più in là. Nel momento esatto in cui la mia lingua tocca le sue labbra, Manigoldo scatta all’indietro. E’ rosso come un pomodoro e mi parla concitato. 

“N-non mi dirai che hai già fatto cose di questo tipo con altri ragazzi?!” 

“Bè, sai, ho venticinque anni…” Già, dimentico sempre che qui siamo nel passato. Le donne di quest’epoca sono meno emancipate. 

Adesso, mi fissa come fosse indeciso sul da farsi. Credo vada incoraggiato un pochino. Gli bacio il viso tre volte, avvicinandomi sempre di più alla bocca. Inutile dirlo, alla quarta, siamo di nuovo connessi. Provo un’altra volta. Stavolta, lui mi imita. Le nostre lingue si incontrano a metà strada e si accarezzano gentilmente, per qualche minuto, prima di lasciare che le labbra si massaggino a vicenda, nuovamente. Piccoli schiocchi, simili al crepitio di un fuoco emanano dalle nostre bocche. Poi, il bacio diviene liquido. Gli accarezzo il viso. Lui pone la sua mano aperta, dietro la mia schiena nuda. Un brivido pungente mi attraversa la colonna vertebrale. Lo abbraccio anch’io. 

“Miranda…” Sento il mio nome provenire dal fondo della sua gola ed incollarsi alla mia bocca. Mi piace la voce che sta facendo. Voglio sentirla ancora.

“Sherazade! Sei qui?” Ivan mi chiama a gran voce. Il solito guasta feste! Mai, come ora, mi è tanto dispiaciuto essere chiamata col mio nome d’arte.

Manigoldo ed io ci stacchiamo di colpo e, non senza una buona dose d’imbarazzo, cerchiamo di assumere una postura composta e disinvolta, insieme. Il tentativo di mischiare le due cose, deve essere risultato alquanto ridicolo, perché Ivan ci squadra perplesso. 

“Hai bisogno di qualcosa, Ivan?” 

“Sì, bè, le ragazze volevano sapere se potevi insegnargli qualche passo.” 

“Certo, arrivo subito.” 

Il rosso si avvia dentro ed io lo seguo a ruota. Giunta sulla soglia della stanza, mi volgo verso il ragazzo che osserva intento le mie spalle.

“Buona notte, Manigoldo.” 

“Tsk! – Ride sarcastico, ma, ha sul volto un’espressione alquanto soddisfatta. - Lo sapevo che finiva così.” Prima che io possa persino pensare di replicare, lo vedo sparire con un salto, oltre la recinzione del palazzo.

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Capitolo 10
*** Cavaliere d'Atena ***


10. CAVALIERE D’ATENA 

Anche stanotte, non sono riuscita a dormire. Sta diventando una dannata abitudine, da quando sono arrivata al Tempio. Ho pensato e ripensato a quanto successo con Manigoldo. Non che ci fosse molto a cui pensare, comunque. Diciamo che mi sono ritrovata a considerare che, quanto avvenuto, era un qualcosa che, probabilmente, avevo desiderato dal momento stesso in cui l’ho visto. Avevo fatto una delle mie solite battute cretine e lui aveva riso di gusto. Poi, non so come, non so perché, ci siamo avvicinati sempre di più, prima, scambiando qualche parola e poi… Arrossisco e mi copro col lenzuolo. Non riesco a capacitarmi del mio stesso comportamento. Sembro un’adolescente in calore. E che cacchio, Miranda, hai venticinque anni, per la miseria! Un po’ di contegno non guasterebbe. Per fortuna, non mi sta vedendo nessuno. 

Sento bussare alla porta. Ma che ore sono? 

Tanto sono sveglia. “Un momento, arrivo!” Strillo e mi butto giù dal “letto”. Mi vesto alla velocità della luce, sperando che alla porta ci sia Manigoldo. Magari, vuole parlarmi. Oddio, cosa vorrà dirmi? Che è stato tutto un errore? Io non apro. 

Invece, apro. Sono troppo curiosa. E, sulla soglia, compare Allen. 

“Scusa se ti ho svegliata, Miranda, ma la Signora Atena desidera vederti.” Mi informa diligente.

“Nessun disturbo, Allen.” 

La delusione che non si trattasse di Manigoldo mi blocca per qualche istante. Devo dare l’impressione di essere indecisa sul da farsi, perché Allen mi chiede se va tutto bene. 

“Hai, per caso, la febbre?” Mi domanda apprensivo.

“No, perché?”

“Sei rossa.” E ti pareva. Com’ero contenta, due minuti fa, quando ero convinta che nessuno avrebbe mai minimamente sospettato le mie paturnie amorose. 

E’ l’ora della “menzogna spudorata”. “No, è che mi sono stropicciata la faccia, quando mi hai svegliato. Per quello sono rossa.” 

Allen mi fa un piccolo inchino. “Mi spiace davvero. So che è molto presto, ma si tratta di una cosa di assoluta importanza.” 

“Non darti pena. Andiamo.” 

Raggiunta la sala del Consiglio, porgo i miei saluti alla dea ed al Gran Sacerdote, inchinandomi. Sasha mi dice di alzarmi in piedi. “Non c’è bisogno di essere tanto formali, con me, Miranda.” Aggiunge. 

“E’ meglio che si eserciti, per un futuro, non trovi?” Le fa osservare il Sacerdote. Quest’ultima frase non mi è stata del tutto chiara. Ma, non oso chiedere spiegazioni. Il contesto è troppo formale. Poi, ho come il sentore che stiano per giungere da sé. 

“Shion mi ha raccontato quello che hai fatto, alla Fortezza. Hai sconfitto uno Specter tutta da sola.” Sasha mi guarda ammirata. 

“Veramente, ci hanno pensato Shion e Manigoldo. Io l’ho solo fatto inciampare nei miei fan veli.” Replico, imbarazzata. 

“La gran parte delle persone normali non ci riesce.” Puntualizza il Sacerdote. 

Vedo la dea Atena fare un respiro profondo, poi parla lentamente, un’espressione di attesa sul volto. 

“Miranda, ho trovato la maniera di tenere aperto il varco spazio-temporale, che ti ha condotta qui, piazzando dei talismani magici alle sue estremità. – S’interrompe, per un attimo, come a voler sondare le mie reazioni. – Ora, se lo vuoi, sei libera di restare. Ma sappi, comunque, che potrai tornare quando lo vorrai. – Alza una mano. – Ma, potrai farlo una volta sola. Per tanto, pensaci bene. Una volta a casa, non potrai venire di nuovo qui.”

Questa storia mi puzza un po’. Certo, ora come ora, mi vengono in mente almeno un paio di motivi buoni per restare, ( il primo di essi, Manigoldo ) ma, non mi spiego perché me lo stiano dicendo la dea della guerra e il Patriarca del Grande Tempio. 

“Per quale motivo dovrei restare?” 

Un altro sospiro. “Per divenire un Cavaliere.” Mi dice Sasha, con tono solenne. 

Quest’ultima affermazione mi ha spiazzato. E’ indubbio, certo, che ho dei poteri. Mi tocca ammetterlo. Ma, la vita di un Cavaliere è molto dura. Posso davvero farcela? Tanto vale provare. Posso sempre tornare a casa mia e, una volta lì, riprendere la mia vita di sempre, esattamente dove l’ho lasciata. 

“Accetto.” Il mio cuore parla per me. Sasha mi sorride.

“Molto bene, comincerai oggi stesso. Shion ti sottoporrà ad una prova e, se la supererai, potrai divenire un Cavaliere.” M’informa il Patriarca. 

Vi prego, non ditemi che devo camminare sui tizzoni ardenti, o roba del genere! 

Il Sacerdote mi congeda ed Allen mi conduce nella foresta dietro al Tempio. Arrivati ad uno spiazzo erboso, si ferma. Una ragazza che non conosco e Shion si trovano lì, apparentemente in attesa. Sono qui per la mia prova, lo so. Il difficile viene ora. 

“Io vado, Miranda. Si occuperanno loro di te.” Occuperanno? In che senso? Quanto vorrei che Allen avesse optato per una diversa scelta dei vocaboli…

Sono talmente presa, ad osservare i miei due esaminatori, che non lo saluto neanche. So di essere logorroica, ma, vi prego, non ditemi che devo battermi, contro due persone, contemporaneamente e vincere. Anche affrontati uno alla volta, sarebbero troppo, per me. La ragazza, poi, mi fa più paura di Shion, così, a pelle.

“Credo che tu non conosca Yuzuriha.” Esordisce Shion.

“Piacere di conoscerti, Miranda.” Mi si presenta la ragazza. Non è, poi, così spaventosa.

“Ciao.” Le faccio un timido cenno con la mano. E’ normale che io non sappia cosa dire? No, non lo è. Me la sto, letteralmente, facendo sotto; dovrei cazzeggiare e, invece, ammutolisco. Potrebbe trattarsi di uno dei segni dell’Apocalisse. In tal caso, sarebbe chiaro che ho proprio dei poteri.  

Shion riprende la parola. “Yuzuriha possiede abilità simili alle tue. Come te, lei riesce ad infondere il suo Cosmo all’interno dello scialle che porta al collo e lo utilizza per neutralizzare i suoi nemici.” 

Fantastico, sbalorditivo! Un momento, posso farlo anch’io? Ah, sì, una volta l’ho fatto.

“Dovrai superare una prova, se vorrai divenire Cavaliere. – Shion mi indica due enormi massi. – Frantuma una di quelle rocce e sarai dei nostri. Yuzuriha ti mostrerà come fare.” 

Cosa, cosa? “I mei veli sono fatti di semplice organza, come posso fare a pezzi un sasso, utilizzandoli?” 

“Yuzuriha.” Le comanda il Cavaliere d’oro. 

La ragazza attacca una lunga manfrina sul Cosmo e le sue proprietà che si rispecchiano nell’animo umano. Poi, di punto in bianco, si toglie la pashmina e, con una semplice frustata, fa a pezzi una delle due rocce. Devo ammettere che, del discorso non ho capito niente, però, non posso certo fingere di non averle visto fare quello che ha fatto. Mi devo ricredere, è davvero spaventosa. 

I due mostri prendono a guardarmi come a volermi dire “adesso tocca a te” ed io non posso fare a meno di tentare. 

Estraggo i fan veli dalla loro custodia. Con tutta la forza che ho in corpo, li lancio contro il sasso ancora intatto. I due bastardi fluttuano elegantemente nell’aria, per poi posarsi delicatamente sul masso. Direi che ho fallito. 

“Ve lo dicevo – esclamo scocciata – sono troppo leggeri.” 

“Anche lo scialle di Yuzuriha lo è. Ricorda che hai rotto l’armatura di uno Specter. Riprova.” Mi fa presente Shion. Quindi, l’armatura degli Specter è più resistente delle rocce? Ma come avrò fatto? Adesso come adesso, sento che non riuscirei a distruggere quel sasso neanche usando un machete.

Poi, qualcosa in me scatta. Voglio tentare il tutto per tutto e provare a credere alle parole di Yuzuriha. Se il Cosmo si trova nella nostra anima ed è connesso all’universo, forse, quello che provo dentro può richiamarlo. 

Provo ad immaginare Sasha aggredita da uno Specter. Ripenso intensamente a Shaktish della Stella Nera, l’unico, tra i nostri nemici, che io abbia incontrato. Vedo chiaramente la sua espressione arrogante, il modo in cui, senza esitazione, si è scagliato contro Manigoldo e gli ha scavato un buco in pancia. Sento vibrare qualcosa dentro di me. E’ la rabbia contro gli aggressori spietati. Non ho mai provato simili emozioni in vita mia. Adesso capisco perché i veli mi sembrano leggeri. E’ perché, fino ad adesso, è così che è stato il mio spirito. Leggero, sfuggente. Ma non lo si può essere sempre. Prima o poi, una battaglia inizia, nella vita delle persone e bisogna affrontarla con coraggio, dando ad ogni cosa il giusto peso. Che, di per sé, è una forma di coraggio. 

Sento un rumore proprio davanti a me e sollevo il capo. Fino ad ora, ero immersa nel mio piccolo mondo interiore. Quasi come in trance.

Non posso crederci! La roccia, sulla quale avevo poggiato i miei veli d’organza, è in frantumi… All’interno del loro abbraccio mortale, una miriade di pietre sgretolate. 

Do uno strattone con le braccia e i fan veli, divenuti, di nuovo, molli, svolazzano verso di me. Si attorcigliano, ubbidienti, davanti ai miei piedi. Mai, come adesso, ho avuto il sentore che questi oggetti avessero una vita propria. Improvvisamente, mi ritrovo a ringraziare mentalmente la mia cara nonnina, per avermeli fatti con tanto amore. E’ quasi come se avesse infuso la sua forza e la sua volontà di proteggermi in essi. Sento che è così. In questo momento, in questo mondo, così lontano da casa, so di non essere sola. 

“A quanto pare, la nostra Dea Atena ha un nuovo Cavaliere. – Afferma Shion. Yuzuriha mi sorride. – Vieni con me, Miranda. Ti mostro il tuo maestro.”

“Credevo sareste stati voi, dato che la ragazza ha dei poteri simili ai miei.” Sono confusa. 

“E’ stato lui a proporsi come tuo insegnante di tecniche da battaglia.” 

“Lui chi?” Sono sempre più confusa. 

Shion non risponde e prende, invece, a camminare verso il profondo bosco. Non posso far altro che seguirlo. Mentre procediamo, faccio delle ipotesi su chi potrebbe essere il mio futuro maestro. Sasha, forse? Ma sa combattere, o, per meglio dire, ne ha il tempo? Forse, il Patriarca in persona. Certo, con tutto quello che ha da fare, si mette ad insegnare le arti marziali ad una mammoletta come me! La mia accozzaglia di pensieri sembra non avere fine. Poi, d’un tratto, i due Cavalieri si arrestano. Mi accorgo solo in questo momento di dove ci troviamo. Nel mezzo di un fitto sottobosco, da delle rocce, sgorga un ruscello, che si conclude in una cascata, in fondo alla valle. Tutt’intorno a noi, querce maestose. E’ un punto panoramico dalla vista mozzafiato. Riesco a vedere anche il Grande Tempio, incorniciato dalle fronde degli alberi. Il cielo, oggi, è di un azzurro nitido ed ostinato. Guardo verso l’alto, l’unica nuvola, candida come un agnellino, che fa capolino in questo blu chiaro senza fine. Mi sento in pace, qui. Una sensazione come questa, a casa mia, non l’avevo mai provata. Credo di aver fatto la scelta giusta, decidendo di fermarmi qui ancora per un po’. E’ la mia anima che me lo dice. Mi accorgo, così, forse, un po’ in ritardo, di non aver provato la minima fatica nel risalire il sentiero di montagna. Dunque, è questo che si prova, quando si stabilisce un contatto con il proprio Cosmo. Una sensazione di infinito, anche energetico, che si diffonde attraverso tutto il corpo. La cosa mi piace parecchio. E’ molto meglio delle snervanti lezioni di yoga che facevo qualche anno fa. Dovevo stare ferma, per delle mezz’ore, in posizioni, a dir poco, oscene, ad annusare la puzza di piedi degli altri praticanti, che si erano tolti i calzini. Il che, rendeva alquanto difficile il tanto sciorinato controllo della respirazione. Ahimè! 

“Ti aspetti, forse, che il tuo maestro cada dal cielo?” Sento la voce di Manigoldo, alle mie spalle. Mi volto ed avvampo. Speriamo non ci facciano caso. 

“Mi hanno detto di aspettarlo qui e, non sapendo cosa fare mi davo al bird-watching.” 

“Al cosa?” Mi chiedono in coro. Questi Cavalieri non abbandonano mai la coordinazione di gruppo. 

“Lasciate stare. – Schiaffeggio l’aria con una mano. – Piuttosto, quando arriva?” 

Manigoldo sguaina tutti i denti. “Ce l’hai davanti!” Esclama, in fine, trionfante. 

Che cosa? Lui e dico, lui, sarebbe il mio maestro! Non ci credo…

“Manigoldo. Posso avere un sigarillo, adesso? Ne ho davvero tanto bisogno.” 

“Non se ne parla. – Oh, non smette mai di ridere. – Ne avrai uno quando otterrai l’armatura di bronzo. Sempre che tu ci riesca.” 

Voglio prendere direttamente quella d’argento, così, magari mi da tutto il pacchetto. Vedrà di che pasta sono fatta. 

 Yuzuriha e Shion si congedano. Ora siamo soli. Manigoldo mi fa cenno spudoratamente con la mano di attaccarlo. 

La vera avventura ha inizio ora! 

 

 

Fine.

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