Avengers: Amethyst

di _Nix
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


Avengers: Amethyst

Finding redemption is never easy
but it's always possible to those who really want to get it.

 
Apro la grata del condotto di areazione in cui mi trovo, per poi poggiarla accanto a me.
Sporgo le gambe oltre il quadrato dal quale si accede alla stanza sottostante e mi lascio cadere, facendo scorrere la corda metallica che esce dalla mia cintura, fino a trovarmi davanti ad un pannello di controllo.
La stanza in cui ho fatto irruzione è buia ma grazie agli occhiali ad infrarossi che indosso, ho una visione più che chiara di ciò che mi circonda.
Estraggo da una tasca della tuta nera una chiavetta USB contenente un virus in grado di disattivare ogni tipo di allarme che, sono sicura, è stato ideato per proteggere ciò per cui sono qui.
Eppure mi stupisco dell'assenza di ulteriore sicurezza, considerando l'importanza e la pericolosità di quest' oggetto se dovesse cadere nella mani sbagliate.
Come quelle dell'Amethyst, per intenderci.
Spero vivamente che non arrivi nessuna guardia, mentre compio il mio lavoro: non riuscirei sicuramente ad uccidere un uomo, quindi dovrei lasciar perdere ed andarmene… e a quel punto, quella ad essere uccisa, sarei io.
Inserisco la chiave USB nell'apposita entrata del pannello ed aspetto che il virus informatico faccia il suo lavoro.
Mi guardo intorno, nel frattempo; eccolo lì, il motivo di questa intrusione, all'interno di una teca quadrata in vetro.
Ha una forma rettangolare, grande quasi come il palmo della mia mano ed è sottilissima.
Capisco all'istante che è una matrice informatica, una di quelle di ultima generazione tra l'altro.
Deve essere un oggetto molto delicato; ora capisco il perché di tante precauzioni e preoccupazioni da parte dell'associazione per cui la sto rubando, prima che la mia missione iniziasse.
Quando mi accorgo che il virus ha finalmente compiuto il suo lavoro, estraggo la chiavetta USB e la rimetto nella tasca della tuta, per poi concentrare la mia attenzione alla matrice nella teca.
Il virus informatico avrà anche disattivato gli allarmi della teca, ma per quelli sul pavimento (rilevatori di peso, ingegnoso non è vero?) non posso fare nulla e mi vedo quindi costretta ad operare sospesa a mezz'aria.
Sollevo con delicatezza la teca di vetro e la tengo sotto braccio, per poi afferrare con due dita della mano libera la matrice ed estrarla dal suo “contenitore”, portandomela poi davanti la faccia per analizzarla. Non ho mai capito nulla di informatica, non ho idea di come funzioni una matrice o a cosa serva; a dirla tutta, fino a due ore fa, non sapevo neppure cosa fosse una matrice ma sono più che certa che, per avere la scritta STARK sul dorso ed essere rinchiusa in una base supersegreta, deve essere oggetto di una certa importanza.
È proprio mentre rifletto su questa cosa che, improvvisamente, la porta della stanza si apre ed entrano dei soldati, con tanto di armi cariche e pronte a spararmi.
«Merda» sussurro mentre loro mi intimano di lasciar andare il dispositivo.
Inserisco la matrice in un contenitore apposito e la faccio scivolare nella tasca del giubbino di pelle, afferro un fumogeno dalla mia cintura multi-tasking e lo lascio cadere ai piedi dei soldati.
Come avevo previsto, l'allarme scatta immediatamente: una sirena suona avvisando tutti dell'effrazione avvenuta.
Okay, forse non è stata la migliore delle idee far scattare l'allarme ma non ho avuto altra scelta; in più, considerando l'arrivo dei tre soldati, trovo veramente difficile da credere il fatto che gli uomini non abbiamo messo in allarme l'intera base.
Premo il bottone sulla cintura accanto all’entrata della corda che inizia subito a ritirarsi, sollevandomi fino a farmi arrivare al condotto di areazione da cui sono entrata.
Ritiro del tutto la corda metallica e la blocco, iniziando poi a gattonare per i passaggi stretti, fino ad arrivare di fronte alla grata d'uscita.
La sfondo con un calcio, esco dal condotto e rimetto apposto la grata, per poi iniziare a correre verso il nascondiglio dove ho lasciato la mia moto.
Per un momento credo sul serio di potercela fare, ma mi devo ricredere (e soprattutto maledire), quando due braccia muscolose ricoperte da un tessuto azzurro mi circondano la vita è mi sollevano da terra, ponendo così fine alla mia corsa.
«Non ti hanno insegnato che rubare è sbagliato, tesoro?» pronuncia colui che mi tiene ferma.
Sento un respiro caldo sull'orecchio e rabbrividisco.
No, tutti ma non lui.
Merda.

In questo momento, seduta su una sedia davanti ad un tavolo al centro di una stanza, ammanettata e con una luce accecante puntata in faccia, quasi rimpiango l'oppressiva oscurità che mi è stata compagna fino a più o meno un'ora fa.
Tiro verso di me il braccio destro, l'unico ammanettato alla sbarra sotto al tavolo, senza un motivo preciso; è da più di mezz'ora che sono chiusa qua dentro in attesa che qualcuno arrivi e, sinceramente, mi sto annoiando.
La stanza in cui mi trovo non è molto grande, le pareti grigio metallo luccicano e al soffitto è appesa una lampada che scende sopra la mia testa. Appeso ad alla parete alla mia destra, infine, c'è uno specchio. Come se non sapessi che in realtà dietro ad esso lui ed altri agenti mi stanno fissando, cercando di capire le mie intenzioni.
Sorrido smielata verso il vetro ed alzo il dito medio in direzione di esso.
Sono sicura che adesso lui stia ruotando gli occhi, pensando a quanto io, in questo momento, sia infantile.
Poggio la mano sul tavolo e inizio a sbattere le dita su di esso ritmicamente, per poi concentrarmi sulla figura che lo specchio riflette.
Ho gli occhi leggermente arrossati a causa della stanchezza e i capelli castani sono raccolti in una coda che ormai non può più essere considerata tale; tutta colpa del "grande eroe" che mi ha agguantata all'uscita della base militare e mi ha spettinata mentre cercavo di sfuggire alla sua presa ferrea per andare a vendere la matrice al mio compratore.
Oh, Dio! La matrice!
Inserisco velocemente la mano nella tasca del giacchino, in cerca dell'oggetto: non c'è.
«Cercavi questa?»
Nick Fury entra nella stanza e appoggia la matrice sul tavolo con la stessa delicatezza di un elefante, incrocia le braccia al petto e mi guarda fisso.
Il fatto che abbia una benda sull'occhio sinistro rende tutto ancora più imbarazzante ed inquietante.
 Nick Fury è sempre stato bravo a farmi sentire a disagio, o a farmi pentire di aver fatto qualcosa.
Dannata benda!
Incrocio braccia e gambe e lo guardo di rimando, facendo finta di nulla (o almeno provandoci).
«Ti sei infiltrata in una base militare dello S.H.I.E.L.D, hai impiantato un virus nel sistema di sicurezza, messo fuori gioco per almeno tre mesi due guardie e provato a rubare una matrice di ultima generazione che, come immagino tu già sappia, potrebbe causare una guerra, se finisse nelle mani sbagliate. -mi accusa, appoggiando entrambe le mani al tavolino- Sta volta hai davvero esagerato, Regan» conclude poi, abbassando la testa e scuotendola leggermente.
Non parlo e non solo per il fatto che non so cosa dire a mia discolpa: mi hanno colta in flagrante, parlando potrei solo peggiorare la mia situazione.
‘Ti ricordiamo che tutto quello che dirai potrà e verrà usato contro di te’, preferisco stare zitta, grazie.
«Avevi un così grande potenziale» continua l'uomo, sospirando rumorosamente ed allontanandosi dal tavolo.
È in quel momento che non riesco a fare a meno di parlare, non ho mai sopportato questo tipo di discorsi.
«Potenziale per cosa? Fare la fine di mio padre!?» chiedo pungente, sporgendomi leggermente in avanti.
Fury volta nuovamente lo sguardo su di me, assottigliandolo: «Tuo padre era un eccellente agente. Ha salvato il mondo, Regan» mi dice, addolcendo il tono per l'ultima frase.
«Mio padre è morto, Nick -gli rispondo a tono, fissandolo dritto negli occhi- Avrà anche salvato il mondo ma ha lasciato sola me. Gli altri saranno anche sani e salvi ma nessuno ha pensato a come potessi stare io. Ho perso mio padre, non uno stupido braccialetto!» continuo ed è proprio quando sento gli occhi pizzicare a causa delle lacrime che minacciano di uscire che interrompo il mio discorso.
Nick Fury mi guarda ed annuisce, non sa cosa dire e la cosa mi destabilizza parecchio.
«La pena per un reato federale come quello che tu hai commesso, prevede l'internamento a vita del soggetto. -continua poi, incrociando nuovamente le braccia al petto- Volevo un gran bene a tuo padre e quando gli ho promesso che mi sarei preso cura di te, maledetto il giorno in cui l'ho fatto, non avevo di certo preso in considerazione che tu potessi prendere questa strada. Ma, poiché sono un uomo di parola e voglio onorare la promessa fatta a tuo padre, ti darò un'altra possibilità: l'ultima.» precisa infine, serio.
Un barlume di speranza si accende nei miei occhi, sono sicura che anche l'uomo davanti a me se ne accorge perché, per quanto possa provare a nasconderlo, sono comunque riuscita ad intravedere l'accenno di un sorriso sul suo volto.
Per quanto possa disprezzare lui, il suo lavoro e lo S.H.I.E.L.D, devo ammettere che passare il resto della vita dietro delle sbarre non è esattamente ciò a cui aspiro di più e che quindi farei di tutto pur di evitarlo.
Fury avvicina la bocca al colletto del suo cappotto di pelle: «Fatelo entrare» ordina poi.
Fare entrare chi, di preciso?
Neanche cinque secondi dopo la porta della stanza in cui si sta svolgendo questa "felice rimpatriata" si apre e fa la sua comparsa la causa della mia rovina.
I capelli biondicci sono fissati con un po' di gel, gli occhi azzurri si spostano prima su Fury e subito dopo su di me mentre un accenno di sorriso si va a formare sulla pelle chiara del volto, accompagnato da due fossette.
Le spalle larghe e il petto muscoloso sono fasciati da una maglietta bianca e su di esso poggiando due braccia incrociate che farebbero invidia a chiunque.
Sulla medesima maglia, infine, una catenina in metallo pende dal suo collo e termina con un piastrina di riconoscimento simile a quella dei Marines.
Ah, io l'ho sempre detto che Captain America è un gran figo.
«Capitano, le presento Regan Sanners. Regan, lui è Steve Rogers. -ci presenta Fury e io sarei tentata di dirgli che so bene chi è il ragazzo davanti a me ma- Sarai affidata a lui e con lui sconterai la punizione che ti verrà affidata».
Punizione? E che sono una bambina?
Spalanco gli occhi incredula, scosto di scatto la sedia dal tavolo e mi alzo in piedi, puntanti le mani sulla superficie fredda: «Non ho bisogno di una balia» protesto, spostando lo sguardo sul biondo accanto a Fury, rimanendo confusa dal fatto che anche lui sembra alquanto sorpreso dalla notizia.
«Avevamo parlato di allenare un agente preparato, non di fare da tutore ad una ragazzina» specifica quest'ultimo, rivolgendosi al direttore esecutivo dello S.H.I.E.L.D.
«Ma chi credi di essere, non sono una ragazzina. -preciso, puntando il dito contro di lui- Ho appena due anni meno di te, eroe!».
Steve Rogers mi fissa e sorride: «Teoricamente hai ben settantacinque anni meno di me quindi sì, sei una ragazzina» dice, tornando poi a parlottare con Fury.
Adesso gli tiro una sedia.
«Teoricamente, appunto!» vorrei urlargli, aggiungendo magari anche un «e meno male» ma mi trattengo quando Nick Fury si decide finalmente a dare delle spiegazioni a me e a Capitan BeiBicipiti.
«Ho parlato di allenare un’agente preparato e così sarà. -inizia, spostando lo sguardo tra me e il ragazzo- Prima che abbandonasse lo S.H.I.E.L.D, Regan era tra le migliori del suo corso e probabilmente lo è ancora, considerando la facilità con cui si è introdotta nella nostra base».
Mormorò un «Modestamente, grazie», sorridendo smielata ma all'occhiata di fuoco che mi rifila il "man in black", decido di non continuare la frase e di alzare le spalle.
«Dovrai allenarla affinché passi il suo esame finale e diventi a tutti gli effetti un agente dello S.H.I.E.L.D» finisce poi la sua spiegazione.
Ancora una volta spalanco gli occhi: «Cosa?!» grido incredula.
Non può farlo davvero.
«O questo o l'ergastolo, Regan, a te la scelta» Fury mi offre questa chance ma sono sicura che sotto ci sia un tranello.
«L'ergastolo, grazie» gli sorrido, piegando leggermente la testa di lato.
Nick Fury mi guarda sconsolato: «Degli agenti hanno già provveduto a trasferire i tuoi averi a casa del Capitano Rogers» e con questa frase conclude la nostra amorevole chiacchierata e se ne va, uscendo dalla stanza.
Rimango a bocca aperta: non solo dovrò allenarmi per diventare carne da macello, ma dovrò anche vivere insieme a Captain America.
Okay, questa parte non mi dispiace particolarmente, devo ammetterlo ma il fine ultimo di questa convivenza forzata (perché alla fine di questo si tratta), è la cosa che più ho cercato di evitare negli ultimi sei anni.
«Io, ehm, ti lascio sola qualche minuto. Partiamo appena te la senti» mi informa Rogers, avvicinandosi e porgendomi una chiave di piccole dimensioni che probabilmente apre le manette con cui sono ancora legata al tavolo.
Lo squadro mentre esce dalla stanza, non riuscendo a non fermarmi ad una certa altezza del suo corpo.
Alla fine, considerando i capi di imputazione e tutte le altri variabili, devo ammettere che mi non mi è andata poi così male.

 
Prima o poi sarebbe dovuto accadere: questa storia non poteva rimanere nel mio computer per sempre.
E’ la prima storia che scrivo in questo fandom e che pubblico (il mio computer è strapieno di storie non pubblicate che credo rimarranno lì ahaha) e temo veramente che ne uscirà un obbrobrio ahahah
In questa storia ci sono molti riferimenti al film The Avengers ma per il resto è un’opera completamente inventata da me così; come il personaggio principale: Regan, che è anche la narratrice della storia.
Spero davvero che la storia possa piacervi o come minimo che possa non farvi completamente schifo, quindi... fatemi sapere che ne pensate, ecco ahahah
Wow, come prima presentazione fa veramente pena, iniziamo bene ahahah
Bene, io credo di aver detto tutto!
Alla prossima!
_Nix

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Capitolo 2
*** 2 ***


 
2
 
 
L’appartamento di Steve Rogers, al terzo piano di una palazzina nel Lower East Side di Manhattan, è molto più diverso da come me lo ero immaginato.
Una volta aperta la porta d’ingresso mi sarei aspettata di trovarmi di fronte ad un piccolo museo personale dedicato alle vicende storiche ed eroiche del grande Captain America: cuscini rivestiti con federe patriottiche, manichini dei vari costumi di Captain America, quadri contenenti foto ingiallite e vecchi articoli di giornale, e bandiere americane svolazzanti sul balcone.
E invece, una volta essere entrata nel bilocale del ragazzo mi sorprendo della sua semplicità ed essenzialità.
Davanti a me si presenta una triplice visuale, alla mia sinistra addossato alla parete c’è un divano a tre piazze e davanti ad esso un mobiletto sul quale è poggiata la televisione.
Alla mia destra invece, la prima cosa che noto è il tavolo da pranzo in vetro circondato da sei sedie e, dietro ad esso, l’area cottura.
Davanti a me, infine, intravedo dalla porta aperta quella che deve essere la stanza da letto di Steve.
«Carino» commento piano, muovendo alcuni passi dentro il salotto.
«Sì, è piuttosto accogliente -concorda Rogers mentre lascia cadere le chiavi di casa dentro un recipiente sulla mensola accanto alla porta- Allora, immagino tu sia stanca» continua poi, avvicinandosi al divano e piegandosi sulle ginocchia, per poi infilare una mano sotto il mobile.
Con un rapido movimento questo si apre, fino a diventare una sorta letto.
«Dormirò qui?» chiedo, indicandolo.
Non che non mi vada bene, al contrario!
Un letto così spazioso me lo sogno la notte, nella mia condizione.
«Non.. Non va bene?» mi chiede Steve, puntandomi addosso lo sguardo e grattandosi la testa con le mani, confuso.
Spalanco gli occhi e balbetto un «No! No, affatto, è perfetto! Perfetto, sì» di cui mi pento non appena vedo sul volto del ragazzo nascere un sorriso furbo.
«Vado a preparare qualcosa da bere –annuncia poi, avviandosi verso la cucina- Thè o caffè?» mi chiede, mentre apre l’anta della credenza.
«Oh, ehm, thé, grazie. Non riesco a dormire se bevo il caffè a quest’ora» spiego gesticolando leggermente per poi sedermi sul divano-letto e darmi una manata sulla fronte sussurrando uno «Scema».
Steve annuisce, mettendo l’acqua a scaldare e prendendo due tazze bianche, per poi appoggiarle sul ripiano della cucina.
Si avvicina al tavolo e sposta due sedie, invitandomi poi ad avvicinarmi e sedermi su una di quelle.
Annuisco e mi alzo, dirigendomi verso di lui; nel tragitto che ci separa mi sento più osservata di un quadro ad una mostra e tutto ciò mi destabilizza parecchio.
Mi siedo, unendo le mani tra le gambe e stringendole tra le cosce, in imbarazzo.
In imbarazzo? Io sono in imbarazzo? Tutto ciò non ha senso.
Non sono mai stata in imbarazzo, neanche quando al liceo ero costretta ad uscire con una mia amica ed il ragazzo –facendo ovviamente da terzo incomodo- o quando, puntualmente, i due finivano per pomiciare tutta la serata.
Steve mi raggiuge poco dopo stringendo tra le mani due tazze fumanti di thè, per poi poggiarne una davanti a me sul tavolo mentre mi si siede accanto, dicendo un: «Ecco a te», accompagnato da un sorriso che riuscirebbe a far sciogliere perfino Nick Fury in persona.
Chiudo la mano intorno al manico della tazza e la porto alla bocca, prendendo un sorso del liquido chiaro e battendo piano il piede a terra, in attesa che accada qualcosa.
Volto leggermente lo sguardo su Steve trovandolo nella mia stessa situazione.
Magnifico. Davvero magnifico.
«Sembra che non riusciamo a rompere il ghiaccio eh? –mi dice, ridacchiando leggermente- Eppure dovrei essere un esperto» conclude, schiarendosi poi la voce.
Aggrotto le sopracciglia mentre un sorriso involontario si apre sulle mie labbra: «Cos’era, una battuta?» ridacchio poi, allontanando la tazza dalla bocca e poggiandola nuovamente sul tavolo.
Steve mi imita, grattandosi piano la testa e sorridendo divertito.
E’ una cosa che fa spesso, grattarsi la testa. Specialmente quando si trova in situazioni di imbarazzo –lieve o forte che sia- o di confusione. Il Capitano è stressato e anche parecchio, sembra. Studiare psicologia alla fine è servito a qualcosa.
«Già, pessima vero? –mi sorride lasciando cadere il braccio sulla coscia, stringendosi poi piano il ginocchio- Non sono mai stato bravo, con le battute».
«Oh, allora siamo fortunati –affermo con sicurezza, mettendomi dritta sulla sedia- Le battute sono una mia specialità» concludo, sorridendo appena.
«Si, ho notato durante il colloquio con Fury» ridacchia, scuotendo appena la testa e afferrando nuovamente la tazza, per poi portarsela alla bocca.
Lo imito, prendo un sorso di thè e appoggia la tazza sulle cosce, stringendola con entrambe le mani: «Deve essere dura» dico, spinta da una non so quale forza, o curiosità che sia, interiore puntando lo sguardo su di lui.
«Cosa?» mi domanda, leggermente perplesso.
«Tutto questo. Vivere in mondo che... non è più il tuo».
Steve mi guarda e sorride appena, per poi abbassare la testa: «Quando ero congelato il mondo era in guerra, mi sveglio e tutti dicono che abbiamo vinto ma non che cosa abbiamo perso –dice, restando con lo sguardo piantato sulle sue mani, unite davanti alla ginocchia su cui poggiano le braccia- E’ abbastanza sconvolgente, sì» ammette poi, tornando con lo sguardo su di me.
Annuisco, prendendo l’ultimo sorso di thé e poggiando poi la tazza sul tavolo: «Io, ehm, credo che andrò a dormire» gli dico, facendo strusciare le mani sulle cosce ancora fasciate dalla tuta in kevlar attillata.
Steve annuisce, blaterando un «Certo, certo» per poi afferrare entrambe le tazze ed infilarle nel lavandino.
«Allora, mh, buonanotte» dico, in quella che sembra più una domanda che un’affermazione.
Il Capitano borbotta un «buonanotte» di rimando, grattandosi la testa e sorridendo imbarazzato, per poi darmi di spalle e allontanarsi verso la sua camera da letto.
Lo squadro, partendo dalle spalle larghe percorrendo poi la schiena muscolosa, fino a fermarmi con lo sguardo sul suo fondoschiena.
E’ più forte di me, non posso farci niente. Anche perché, siamo obbiettivi, il suo è oggettivamente un gran bel sedere.
Sorrido furba, slacciandomi la tuta per infilarmi il pigiama e mettermi sotto le coperte.
Oh sì, mi è andata proprio bene.
 
La mia schiena sbatte violentemente a terra, seppur l’impatto sia stato attutito dal materassino blu posto sotto di me.
Mugugno dolorante, aprendo le braccia sul materassino e chiudendo gli occhi, stanca.
Questa notte avrò dormito sì e no tre ore, probabilmente neanche tutte di fila; questa mattina, invece, mi sono svegliata ad un orario improponibile per chiunque (specialmente per una come me che è abituata a dormire almeno otto ore al giorno), grazie ad un assordante assolo di Tom DeLonge.
Direttamente dalla playlist personalizzata di Steve Rogers, signori!
In effetti, non è stato uno dei miei risvegli migliori.
«Regan».
Mi rendo conto di essermi appisolata sul materassino blu quando la voce del sopracitato mi fa aprire gli occhi, lasciandomi alla vista del volto del Capitano che mi fissa, dall’alto del suo metro e novanta, accanto a me.
Se tutti i risvegli fossero così, potrei anche pensare di svegliarmi tutti i giorni ad un orario improponibile.
«Ti senti bene?» mi chiede, piegando una gamba e poggiando il ginocchio a terra, accanto al mio fianco, per poi chinarsi col busto leggermente verso di me.
«S..sì» balbetto, piantando i gomiti per terra, alzando il busto e sorridendo leggermente, per poi ripetere un fermo e convinto «Sì».
Steve annuisce, si alza e mi tende una mano, per aiutarmi ad alzarmi; cosa in cui forse mette un po’ troppa forza, visto che mi ritrovo praticamente catapultata addosso al suo petto.
Tutto questo è imbarazzante, anche se in altre situazioni lo avrei etichettato in un modo…diverso.
«Bene –afferma dopo essersi schiarito la voce, allontanandosi leggermente- Riprendiamo» annuncia poi, flettendo leggermente le gambe e portando i pugni chiusi a coprirsi le tempie.
Oh, Dio. No, basta!
Ruoto gli occhi, sbuffando per poi assumere la stessa posizione del ragazzo seppur svogliatamente.
Il Capitano carica un colpo, indirizzandolo verso di me ma essendo più veloce riesco ad evitarlo, per poi imitare il ragazzo con la sua prima mossa.
Anche la mia però viene facilmente neutralizzata quando il braccio di Steve incontra il mio, bloccandolo quando il mio pugno è a pochi centimetri dal suo volto.
Con una rapida mossa, la sua mano afferra il mio polso, portandolo dietro la mia schiena mentre l’altra mi afferra il braccio e lo stringe alla vita.
Provo a muovermi e liberarmi, invano data la maggiore forza che ha il ragazzo su di me quindi finisco ben presto per arrendermi, con uno sbuffo stanco.
«Sei troppo impulsiva -afferma Steve, lasciandomi andare- Hai troppa fretta di finire ciò che hai iniziato, non ragioni!».
Incrocio le braccia al petto e mi stampo un sorriso smielato sulle labbra: «Sai, Cap, non è la prima volta che me lo dicono» affermo, muovendo alcuni passi verso di lui.
«Motivazione –afferma poi, poggiando le mani sui fianchi- Ti manca la motivazione», conclude infine.
Motivazione.
Sarei motivata se il mio istruttore avesse una ciambella al cioccolato in mano o una borsa di Chanel appesa al collo da strappargli!
Anche se, ora che guardo meglio Steve mentre si piega per uscire dal ring, mi rendo conto che potrei pure accontentarmi di strappargli la maglietta beige di dosso.
No, concentrati.
Steve mi fa segno di raggiungerlo accanto al sacco da boxe, ha le braccia incrociate al petto e lo sguardo serio.
Sbuffo, per poi scendere dal ring e avvicinarmi al ragazzo.
«Per oggi abbiamo finito, vai a farti la doccia» mi dice, puntando gli occhi azzurri nei miei.
Annuisco, chiudendo appena gli occhi e sospirando, per poi dare le spalle a Captain America e iniziare a camminare.
«Regan! –mi fermo, quando sento il Capitano che mi chiama, girandomi e stringendo le labbra- Se il tuo allenamento è condizionato da ciò che pensi dello S.H.I.E.L.D, e di Fury, forse dovremmo parlarne.» dice, avvicinandosi.
Alzo un sopracciglio, non capendo dove vuole arrivare; Steve prende un respiro profondo e «Fury mi ha parlato di tuo padre. –afferma, abbassando di poco lo sguardo- Mi dispiace per quello che è successo, ma non puoi sprecare un’opportunità come questa sol..».
Lo interrompo, stringendo gli occhi e aprendo di poco la bocca: «Sprecare un’opportunità?! –sbotto, avvicinandomi ancora di più- Quale opportunità, Steve?» domandò retorica, per poi riprendere a parlare quando lui cerca di rispondermi: «Non tutti hanno come unico obbiettivo nella vita il diventare un soldato perfetto, come te! Alcune persone hanno altre ambizioni e, sinceramente, per quanto riguarda mio padre, chi sei tu per dirmi che “dovremmo parlarne”? Te lo dirò brevemente: non sono cose che ti riguardano quindi, Capitan Pietà, cerca di farti gli affari tuoi!» sbotto, prima di andarmene definitivamente.
Solo mentre me ne vado mi rendo conto di aver fatto una scenata e di essermi comportata da bambina, ma ogni volta che qualcuno tira fuori la questione “Padre-S.H.I.E.L.D-Fury”, non riesco a trattenermi.
Nonostante il tempo passato, la ferita è ancora aperta.
E continua a sanguinare.

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