Show me all the things that I shouldn't know

di Seth_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** Chapter 1 ***
Capitolo 3: *** Chapter 2 ***
Capitolo 4: *** Chapter 3 ***
Capitolo 5: *** Chapter 4 ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


In anticipo, ringrazio @Sabrii_Lewis, per la lettura di tutti i capitoli, per la correzione, e per la continua enfasi che mi trasmette.
Mi fai bene Sabrina, ti ringrazio.

Inoltre, terrei dire ai lettori, di non prendere troppo alla leggera questa storia. Perché che voi lo crediate o meno, questa è la MIA storia. –letteralmente-
Qui dentro (in ordine sparso, ovviamente) ci sono persone vere, storie vere, veri problemi, veri stadi della mia vita che ho affrontato. E non solo. Amici di vecchia data, che ora non posso dire di conoscere più. False amiche. Vere amiche.
Alcol, droga, paura, sesso.
Abbiamo passato di tutto ed in tempi diversi.
Abbiamo solo diciassette anni. Chi poco più, chi poco meno.
E siamo ancora qui.
Quindi, per chiunque stesse passando un periodo difficile, voglio ricordare una cosa: NON ESISTE NESSUN CAZZO DI PRINCIPE AZZURRO O FATA MADRINA.
Non ha senso affidarsi completamente a qualcuno.
Prendetevi tempo, pazienza, un bel film….fate quello che volete.
Non guarirete in due giorni, in pochi respiri…
Sarà tutto lento ed estenuate.
MA potete farcela.
Se vuoi che tutta quella merda finisca, devi prima essere sicuro di una cosa. La vuoi ancora? No.
C’è un modo per uscirne?
Sì.
C’è sempre un modo.
SEMPRE.









 
Show me all the things that I shouldn't know.

“Che stagione l'adolescenza. Senti di poter esser tutto e ancora non sei nulla e proprio questa è la ragione della tua onnipotenza mentale.” 
EUGENIO SCALFARI






Era stato imbarazzante, il viaggio con la zia travestita da fata, il sorriso poco normale di mia madre alla sua cognata “credo” impazzita, e lo sguardo commosso di mio padre quando mi guardò andar via di casa.
- Vedrai, dove andremo noi non ci saranno bulletti a far del male alle giovani ragazzine come te! - disse lei dopo essersi messa la cintura.

Partimmo a tutta velocità.

- Zia, non hai capito.. - dissi sbuffando, mentre guardavo i lampioni che correvano velocemente fuori dal mio finestrino - Quello era il mio ragazzo, e non mi ha mai fatto del male! - 

Lei non si scompose , e continuò a guidare ignorando il mio tono rotto dal pianto. 

Non volevo ricominciare, eppure, ero quasi sul punto di farlo.

Sbuffai, per quella che doveva essere la centesima volta, e fu solo con un piccolo schiamazzo di mia zia che mi degnai di guardarla. Infondo lei non mi aveva fatto nulla di male (a parte trascinarmi contro volontà in un posto in cui NON volevo andare).

- Mi sono dimenticata di prendere la tua valigia! - strillò, guardandomi per un secondo e mettendosi la mano davanti alla bocca preoccupata.
- Stai scherzando, vero?! - sbottai io alzando la voce.
- Si, infatti. - rispose lei ridacchiando, ed io ricordai che la valigia era stata caricata in macchina da mio padre, mentre io ero rimasta sul divano a subirmi il resoconto delle mie “malefatte” da mia mamma a mia zia. 

Le scappò una risatina che, anche se nasale, mi fece sorridere un poco. 
Infondo non era tanto male mia zia (capelli rosa ed ali da fata a parte)
- Okay va bene, sorrido - mi arresi lanciando un sorriso a metà fra il forzato ed il naturale, lei mi diede una piccola pacca sulla gamba.
- Così ti voglio! - mi incoraggiò. 

Poi rimasi in silenzio per il resto del viaggio, e lei fece lo stesso, forse per non gravare sulla situazione o forse perché non aveva proprio nulla da dirmi. 

Ma mi sembrava strano.. Infondo non la vedevo da quando avevo sei anni.

- Però io lo amo.. - bisbigliai incerta. Incerta se parlarne con lei fosse la scelta giusta. Perché.. Cavolo! Ero in macchina con una donna con un ridicolo vestito da fata ed i capelli tinti di magenta! 

Una fata detta da mia madre “dell’amore”. Una che ne sa, insomma. Anche se non mi aveva mai detto perché. Lei mi guardò con uno sguardo a metà fra l’apprensivo ed il scocciato, ed iniziai a mordicchiarmi il labbro dal nervoso.

All’inizio non rispose, ed io tornai quindi, a concentrarmi sul paesaggio. Avevamo lasciato la mia città da molto tempo, ed ora, ci dirigevamo in una cittadina nei pressi di Parigi. S’intravvedevano nel buio, le luci dei lampioni, delle insegne al neon di ristoranti e negozi. 

Mia zia prese il primo incrocio e svoltò a sinistra. 

Stavamo passando davanti a tante piccole villette a schiera, quando si fermò.

- Tu credi di amarlo.. - mi rispose spegnendo la macchina e togliendosi la cintura. Per un attimo la guardai allibita, era stata in silenzio tutto quel tempo per… quale motivo?

Lei uscì dall'auto, ed io feci lo stesso – Ho visto le sue, e vostre foto - disse - C’è qualcosa di magnetico e pericoloso in lui - continuò, aiutandomi con le valigie – Credo che.. Tutto sommato, prima o poi doveva finire. -

Io non risposi. Presi le mie valige ed aspettai che lei chiudesse il bagagliaio prima di salire i gradini della villetta. Ecco! Un’altra sputasentenze come mia madre. 

Ma che ne volevano sapere loro di come io e lui stavamo insieme? 

Erano presenti quando mi ha chiesto di stare insieme? Erano presenti quando mi ha chiesto di sposarlo? Quando mi ha detto “ti amo”? NO!!

Arrivammo, dopo pochi gradini, sotto un portico color mattone. 

Mentre salivamo le scale per andare in camera mia - Hai solo diciassette anni.. Cosa credi di amare? Lui? Puoi amare i vestiti, le scarpe... Ma ciò che provavate voi non era amore. Era affetto, e lui.. No. Non ti amava se ti ha lasciata andare così - sbuffò contrariata. 

Io misi piede in camera già irritata da ciò che aveva appena detto

- Ma che dici! Non lo conosci nemmeno! - sbuffai mettendo la valigia vicino al letto.

- Lo conosco abbastanza per dire che non faceva per te! - disse alzando un poco la voce, cosa che mi irritò alquanto le orecchie. 

Era IDENTICA a quella di mia madre, e ciò non andava affatto bene! 

Sperai in cuor mio che fossero due persone totalmente diverse. 

Mi sedetti sul letto e lei mi raggiunse schiarendosi la voce. Aspettai che iniziasse la paternale, invece, mi sorrise caldamente. - Tesoro.. Uno che ascolta musica metal, che aveva tagli sulle braccia, e che appena ti hanno rinchiusa in casa; cosa che tra parentesi non accetto nemmeno io, ti ha tradita per un’altra.. - canzonò. 

Io guardai dall'altra parte. 

No! Non volevo dicesse quelle cose su di lui. Non dopo tutto l’amore che avevo riposto in lui.

- E' confuso -

- Sei confusa tu. - sentii la sua mano calda sulla mia guancia, altrettanto bollente per il freddo discordo a cui dovevo sopravvivere e mi ritrassi - Lo ami? Ami davvero uno che sembra ti abbia preso in giro e basta? - 

Sorrisi a quel “sembra”, che disse come se si stesse sforzando di vederla con i miei occhi.. Cosa impossibile, perché no! Non riuscivo ad immaginare un universo dove le sue parole non corrispondevano i fatti. 

Sì. 

Me lo immaginavo a casa sua, tutto preoccupato che controllava il cellulare nella speranza di un mio messaggio, dopo aver scoperto che avevo cambiato casa, e che sarei rimasta lì per i miei ultimi anni di scuola... 

''Non voglio che tu ti distragga con amorelli inutili'' aveva strillato mia madre.

- E' comunque amore, no?- dissi guardando finalmente mia zia negli occhi. Mi sentivo improvvisamente accaldata, come se avessi bisogno della pioggia gelida, che però non si azzardava a scendere. 

Mia zia mi sorrise amorevolmente, prima di alzarsi dal letto, sistemarsi il vestito, ed avvicinarsi alla porta della mia stanza con passi lenti.

- Non è quello che tu credi, però. - disse poco prima di aprire la porta, ed uscire silenziosamente. Io mi lasciai cadere sulle morbide coperte, piangendo silenziosamente. 


Mi faceva male ciò che sentivo. Era come aver il cuore ancora pulsante sotto il peso di mille elefanti. E come il mio sorriso si era spento, lo seguì anche il mio corpo, addormentandosi sopra le coperte.


Mi svegliai con un tremendo mal di testa, sullo stereo “Chalk outline” di Three days grace. 

Non ricordavo nemmeno di averlo messo, o forse lo avevo fatto per poi riaddormentarmi. 

Fatto sta che mi svegliai con i capelli sconvolti, il trucco così sciolto da sembrare un panda, i jeans a terra, come il resto dei vestiti, ed una presenza ancora assillante sul cuore. 

Non ce la facevo più. 

Guardai fuori dalla finestra, ancora quel maledetto sole, che per fortuna, stava per tramontare, illuminando il cielo turchese di colori violacei e rosa, colori dell’amore che si mischiavano con il blu calando quella sfera di passione.

No, era tutto troppo vomitevolmente felice per me. 
Richiusi gli occhi rimanendo in intimo sopra le coperte, fino a quando non fu tutto buio. E fu con mio immensa felicità che vidi la luna appena sorta, appena aprii gli occhi. 

Non era piena, anzi, era quasi un minuscolo accenno, ma è facile amare la luna piena, quando questa è ricolma di potere. Io l’ammiravo per essere bellissima anche senza tre quarti di se stessa. 

Ed io?

Non osavo guardarmi allo specchio se non per truccarmi, in me sentivo il vomito appena vedevo il mio riflesso. Brutta, sporca, orribile, incompleta.

Mi sentivo questo.

Ero piccola ed insignificante rispetto alla luna.

Sospirai, ad occhi lucidi, e mi alzai dal letto per andare alla finestra. 

Indossai velocemente una maglietta, e poi eccomi. Appoggiata alla scrivania rosa che sarebbe diventata la “mia scrivania” da domani mattina fino alla fine dell’anno.

Sperai passasse presto.

Mi sporsi, stringendomi nella maglietta, e guardai giù. 

Guardai cosa mi aspettava sotto la mia finestra.

C’era un giardino che rincorreva l’appartamento.. Era ben curato, e solo una siepe tagliata rettangolare, riusciva a separare l’altra parte del giardino, confinante con una secondo appartamento. Davanti alla mia finestra si trovava infatti una terrazza che buttava in una stanza. 

Mi chiesi chi potesse essere il mio nuovo “vicino”, dato che a nemmeno due metri c’era già la sua terrazza. 

Qualcuno bussò alla porta ed io chiesi chi fossi, ed ovviamente, mi diedi della stupida quando mia zia dall'altra parte della porta mi rispose un divertito “ma se siamo solo io e te!”. 

Misi i jeans e gli aprii.

Era tutta sorridente, portava un pigiama largo, con disegnati cuori rosa su uno sfondo glicine che però, tutto sommato, le donava.

- Cosa c’è? - le chiesi.
- Non sei scesa per cena, così volevo avvisarti che ti ho preparato una tazza di tisana, miele, e biscotti appena sfornati nel caso avessi fame - la guardai sbalordita.

Quando mai qualcuno aveva fatto qualcosa di così carino per me? Mi sentivo imbarazzata, ma l’abbracciai ugualmente. Aveva un buon profumo, frutto della passione e menta. 
Mi sorrise, e io sorrisi di rimando, prima di scendere entrambe in salotto, accendere la tv e commentare i modelli delle pubblicità, mentre bevevamo te' con miele e biscotti.
Forse la zia, dopotutto, non era così male.




Angolo dell’autrice:
Allora, non so mai bene come utilizzare questo spazio, quindi penso lo utilizzerò per spiegare i personaggi che si presentano mano a mano nel corso della storia.
Vi intessa? Vi annoia?
Fatemelo sapere nei commenti.
Allora, ho tenuto come traccia principale il fatto che la protagonista deve ancora arrivare a scuola e che si è trasferita da poco a casa di sua zia. Mi sarebbe piaciuto scrivere altro, ma è un po’ quello che è capitato a me un anno e mezzo fa…quindi..scrivere di lei che cambia casa e che deve ricominciare tutto da zero…era spaventoso e maledettamente familiare.
Boh, forse è una stupidaggine, ma a me è piaciuto. Non è mai facile cambiare scuola…e poi è Dolce Flirt! La trama è quella, mi sarei sentita un pochino discinta a cambiarla…poi…mmmmh…fatemi sapere voi.
Fault Moore: figlia unica, occhi azzurri, capelli ricci e castani. Ha una strana ossessione per la luna, la musica  e per il mare, ama il turchese ed ogni genere di film (predilige il genere horror)
Aghata Moore: zia della protagonista da parte di padre, occhi magenta, capelli marroni (ora tinti di viola) lunghi e lisci. Era una donna rispettabile, ma dopo il suo secondo matrimonio, è impazzita. Pratica il culto del dio “Cupido” e canta in macchina con i finestrini abbassati.

 

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Capitolo 2
*** Chapter 1 ***


Show me all the things that I shouldn't know.


 
“Ogni cambiamento sembra orrendo a prima vista.”
ARTHUR BLOCH





- Ti accompagno a scuola, sei pronta? - mi disse tutta raggiante mia zia mentre mi infilavo le parigine bianche. 
Le scarpe che indossavo erano scomodissime, tanto che già immaginavo le vesciche ai lati dei mignoli e le piaghe rosse sul mio tanto amato tendine d’achille.

Sospirai, guardandomi ancora una volta allo specchio.
Ero tesa.
Tesa da far schifo e con lo sguardo spaventato.
Guardai il mio zaino grigio nell’angolo, pieno di graffette e spille di ogni genere, e vicino un plettro.. Un piccolo tesoro da cui non avrei mai voluto staccarmi. 


Volsi poi lo sguardo dentro il mio armadio. I miei calzini neri promettevano comodità e salvezza da quella tortura che portavo ai piedi, e dopo pochi secondi cedetti: presi i calzini e li infilai nello zaino.
- Come hai detto che si chiama il liceo? - chiesi alla zia, per prendere tempo mentre andavo alla ricerca delle all star nere sotto il letto. 

Avevo intenzione di cambiarmi scarpe appena arrivata a scuola?
Assolutamente sì.


- Dolce Amoris! - canticchiò lei.

Che nome stupido.

Mi sistemai la maglietta a mezze maniche a righine bianche e grigie, che misi dentro la gonna nera a ruota e mi guardai allo specchio. 
Niente da fare. Ero un disastro.

A partire da quel ciuffo satanico in cima alla mia testa fino alle ridicole parigine. 

- Muoviti o farai tardi! - disse lei, mentre guardai ancora quel maledetto ciuffo ribelle per poi prendere di corsa la cartella mentre aprivo la porta. Mia zia sorrise, ed io ricambiai.


La scuola era grande, a cinque piani, e a soli due incroci da casa mia.
Il sogno di ogni studente.

A destra c’era un’enorme palestra, mentre dietro il liceo, un gigantesco campo da calcio, situato al limitare di una zona verde protetta. 
Sentii la zia parlare con voce nostalgica, di come lei avesse passato gli anni più belli della sua vita, in quel liceo. E anche di una possibile iscrizione a qualche club pomeridiano. 

Smisi di ascoltare quando vidi la macchina fermarsi davanti alla scuola e mia zia incoraggiarmi a scendere. Presi un profondo respiro, e scesi dalla macchina rosa e gialla di mia zia.

Cosa c’è di più imbarazzante che essere la “nuova” in una scuola di una piccola città dove tutti sanno tutto di tutti?

Probabilmente, essere la “nuova” in questione, con una zia che nonostante abiti ad uno sputo da scuola, ti accompagna con la sua minuscola e stupida macchinetta elettrica rosa e gialla.

Salutai la suddetta zia, ed entrai nell’atrio, che assomigliava molto più ad un lunghissimo corridoio affiancato da armadietti viola sbiadito. 

Le pareti erano di un tenue lillà che doveva essere stato tremendamente acceso nei secoli precedenti. Perché sono abbastanza sicura che questa scuola non sia così recente.

Le porte aperte, dello stesso colore degli armadietti, che sorpassai molto velocemente, fino ad arrivare alla fine del corridoio, dove vidi una donna anziana. 

Una donna che non potrò scordare MAI.

Quest’essere, era vestita in rosa, con dei fogli in mano ed un’acconciatura argentea stranamente impeccabile. 
Orecchini di perle erano abbinati alla collana che portava al collo, ed al suo fianco, un Corgi dall’aspetto strafottente se ne stava lì a guardarmi divertito. 
La donna sorrideva, distorcendo le sue rughe in un espressione simpatica, che mi mise di buon umore. 
Fuori da casa mia, mi ero ripromessa, che avrei cercato di abolire i pregiudizi, e quella donna ed il suo stupido cane, non sembravano poi nemmeno tanto male.

– Buon giorno signorina Fault, e benvenuta al liceo Dolce Amoris. - disse - Spero che si ambienterà bene ed in fretta nella nuova scuola! Ora, se vuole seguirmi, avrei un paio di fogli da farle firmare, oltre a presentarla alla sua nuova classe. - 
Io annuii. Non senza un brivido quando aveva detto “nuova classe”. 

Era come se un mattone mi fosse caduto in testa dal cielo.
Non una secchiata di acqua gelida, un mattone. 

Avevo sentito le mie ossa diventare polvere, la pelle raggrinzirsi come quella di quella vecchiaccia ed il mio stomaco gorgogliare acido dalla tensione.

Cercai di distrarmi, eseguendo firme meccaniche ogni volta che mi passava un foglio.

- Le consiglio di passare dall’assistente delegato, Nathaniel Harvard, per verificare che il suo dossier di iscrizione sia completo - disse lei, ed io annuii
- Uhm…Si certo. E dove potrei trovarlo?- chiesi con tono dolce mentre questa mi guardava con fare improvvisamente sospettoso

- Credo sia nella sala delegati - disse indispettita, ed io le sorrisi raggiante. 

Una cosa che avevo imparato dalla vita?
Quando una vecchia si indispettisce, sorridi.

- Grazie mille, a dopo! - la salutai girando a destra, cercando riparo in un altro corridoio a caso, che scoprii conducesse ad altre sei porte. 

No, non andava bene per niente. 

Iniziai ad aprire le porte chiuse, che scoprii essere bagni, ed una sala professori. Effettivamente, quando la Preside mi aveva detto di andare a cercare quel “Nathaniel”, aveva omesso di dirmi dove si trovasse la sala delegati.

Seguii la porta in fondo al corridoio, e quando l’aprii, un leggero venticello ed un sole accecante mi presentarono uno splendido giardino. 

Sbattei gli occhi più volte, cercando di capire come potessi trovarmi in quel paradiso, ma tutte le spiegazioni sembravano puntare ad uno scherzo del destino.

La mia vecchia scuola era un inferno di mattoni e risate, di fogli strappati e mozziconi di sigarette.

Non la rimpiangevo affatto.

Non rimpiangevo il cortile fatto di mattoni e prese in giro, o di ragazzine spinte negli angoli, prese per i capelli, e picchiate.

Ma questo. Sembrava.. un paradiso!
Una situazione irreale, impossibile.

Perché il Liceo Dolce Amoris poteva pure avere un nome ridicolo, ma il giardino, valeva undicimila nomi ridicoli. 

C’erano alberi in fiore, piante e cespugli di tutti i tipi, uccellini di ogni specie, ed un profumo di gelsomino che mi entrò nelle narici in modo invasivo e maledettamente sorprendente. Era perfetto.

Stranamente perfetto.

- Non è reale. - commentai ad alta voce. 

E dovevo anche aver camminato senza accorgermene perché girandomi non trovai nemmeno la porta da cui ero uscita. 

Mi ero persa.
E non me ne fregava niente.

Ero sotto un albero dalla folta chioma verde, e tutto mi sembrava essere incredibilmente bello. Mi sedetti su una panchina, guardandomi attorno. 

Non c’era nessuno.. O almeno sembrava.
Il giardino sembrava così tremendamente desolato, eppure così vivo.

Perché quel sogno era tanto ignorato?

Credevo di essere sola, in quel paradiso, e continuai a pensarlo per un paio di minuti, fino a quando non scorsi una figura dai capelli rossi.

- Hey! - lo chiamai alzandomi ed avvicinandomi. 
Lui si fermò a guardarmi. Aveva una giacca di pelle, una maglietta rossa come i suoi capelli (esilarante devo ammetterlo) e dei jeans neri. 

Un individuo così nella mia scuola sarebbe stato subito preso di mira.

Non solo per i lineamenti sottili ed i suoi capelli rosso fuoco lunghi poco sopra le spalle…ma anche per il suo smalto nero rovinato. Seriamente, perchè mai avrebbe dovuto mettersi lo smalto, un ragazzo??

Sorrisi al suo sguardo da duro, cercando di scioglierlo, ma non successe nulla.

Come sempre.

Allora anche quell’angolo di paradiso aveva la sua macchia nera.

- Ciao! Sono nuova.. Sapresti dirmi dove si trova la sala delegati? - attesi risposta, ma i suoi occhi non cambiarono di una virgola, così come la sua espressione.
- Sì- disse solo continuando a fissarmi senza dire niente. 
Io dondolai sulle gambe aspettando una risposta e spostando lo sguardo altrove….ma nulla.
- E me lo potresti dire? - chiesi cercando di rimanere calma, mentre lui fece una specie di smorfia a metà fra dolore interno e disgusto
- E a quale scopo? - disse. 

Alla fine sbuffai. Eccolo qui, il solito spaccone che invece di darti una mano fa il figo comportandosi da ribelle. 

Nella mia vita ne avevo visti sinceramente troppi.

- Fa niente! Se non lo sapevi bastava dirlo. - sbuffai girandomi e ritornando alla ricerca della porta da cui ero uscita, mimando un 'ciao' con la mano senza nemmeno controllare che mi stesse guardando.

Infondo non era importante, ma era per fare buon viso a cattivo gioco.

Ed eccomi di ritorno in quel corridoio, ormai era un chiodo fisso il mio.

Il corridoio era ancora deserto, ad eccezione di una ragazza. 

Aveva tutta l’aria di essere di fretta, con la cartella ai piedi, e la testa dentro l’armadietto. 

Indossava dei jeans sbiaditi, ed una camicetta bianca legata alla vita, aveva i capelli biondi raccolti in una treccia disordinata, ed una collana di perle. 

Aveva tutta l’aria di essere una brava ragazza.

- Ehm… Ciao? - salutai, lei si girò, guardandomi stranita, ed io abbozzai un sorriso. 

- Emh.. Tu chi sei?- chiese confusa. 

Era come quando incontri un parente che non sapevi di avere, che comincia a raccontarti anedoti sulla tua vita da piccola, e tu annuisci come se ricordassi.

- Mi chiamo Fault, sono nuova. Cerco la sala delegati ma… Non so dove sia. - ammisi.

- Oh! Ma certo, vieni con me! - disse sorridendo.

Davvero? 
Lei mi aveva davvero preso sotto braccio trascinandomi nella mistica sala delegati? 

Un sogno che si stava realizzando, ecco cos’era. 

- Oh, a proposito, mi chiamo Sabrina! - si fermò porgendomi la mano, che strinsi.

- Sabrina, credimi, sei il mio angelo! -
La sentii ridacchiare divertita. - Come mai? -

Feci per rispondere, ma lei aprì la prima porta davanti a noi e mi ci fiondò dentro 
- Facciamo che me lo dici poi.. Io ora devo andare, a dopo!- salutò per poi andarsene.

La guardai correre via, per poi girarmi ad osservare la famosa sala delegati. 

Era una stanza non molto grande, un tavolo circolare in legno dalle vaste dimensioni e dei fogli sopra. Delle sedioline viola, ed un ragazzo biondo che raccoglieva dei fogli cadutigli per terra.

La prima cosa che vidi di lui era il suo sedere.

Cerchiamo di capirci: era accovacciato a terra che raccoglieva dei fogli, ed aveva proprio il sedere puntato verso di me. 


Trattenni una risata.

- Serve una mano? - chiesi. Lo vidi annuire e mi chinai per aiutarlo a raccoglierli 

- Ehm..sto cercando Nathaniel, il segretario delegato, per controllare il mio dossier. - dissi, e il ragazzo dagli occhi d’orati mi sorrise raggiante
- Sono io, ti stavo aspettando. - 
Non so perché, ma il modo in cui lo disse… Mi piacque! Mi sentivo come nel posto giusto al momento giusto.
La sua voce calda e armoniosa rispecchiava i suoi vestiti impeccabili, ed il suo profumo di lavanda.

Ci alzammo, ed io diedi a lui i fogli raccolti.

- Oh, ed è.. tutto a posto? - chiesi, lui sorrise, prima di rabbuiarsi improvvisamente.
- Veramente no - rispose - Mancano la foto tessera, una graffetta ed una firma qui. - nel dirlo mi porse una penna, ed io iniziai a firmare.

Quella sua strana meccanicità, mi ricordò quando nella mia scuola mi ero fatta eleggere rappresentante di classe e, strano ma vero, quei tempi mi mancavano.

Odiavo la continua carta da firmare, ma preferivo di gran lunga avere un nome importante per la carica che occupavo, piuttosto che un nome importante per il ragazzo che avevo.

- Hai già dato i soldi dell’iscrizione? - chiese, e io scrollai le spalle ridandogli la penna, che lui mise nel taschino nella camicia bianca.
Avrei voluto dirgli che avrebbe macchiato quella camicia con l’inchiostro, che avrebbe fatto sicuramente un casino blu su quel tessuto bianco perché il tappino lo avevo ancora in mano io.
Però, piuttosto che ridarglielo, lo strinsi nel pugno della mano, e lo nascosi nella tasca dello zaino, mentre tiravo fuori il cellulare

- Non lo so. Mando un messaggio a mia zia e ti so dire - dissi. 

L’ambiente profumava di lavanda e carta appena stampata, un odore buonissimo, che riconobbi essere il suo.
Nathaniel, il signor delegato, seppur un biondino che dava l'impressione di essere 'tutto studio e lavoro', sembrava un tipo davvero affascinante.

Ovvio, nella mia testa solo un nome ed un profumo erano nel mio cervello e nel mio cuore, ma anche il suo faceva la sua magra figura.

- Fai con calma.. - disse Nathaniel mentre sistemava i fogli in una cartellina gialla, mentre io dal mio zaino estrassi il diario, e ne tirai fuori una fototessera.
Quella stupida foto rappresentava una ragazza dal viso dolce, i capell lisci e castani, ed un sorriso tirato, che forse, aveva visto giorni migliori.

Ricordavo quel giorno.

Dovevo fare le foto per il nuovo anno, e mia madre mi aveva trascinata in una di quelle cabine dove ti scattano una decina di foto ripugnanti.

E io ero venuta esattamente così. Ripugnante.

Perfino una tarantola avrebbe vomitato se avesse visto quella foto

La porsi, quindi, a Nathaniel con riluttanza.

Non mi andava di vedere un’altra persona guardare la sottoscritta, poi la ragazza nella foto, e storcere la bocca.

Non ci assomigliavamo per niente.

Ma a screditare le mie convinzioni, Nathaniel sorrise. Ancora.

- Sei venuta bene - disse, e io scossi la testa.
- Ti prego.. E' il sorriso più tirato che abbiano mai immortalato. -
- Può essere.. - ammise.

Stemmo in silenzio, a guardarci mentre l’uno distoglieva lo sguardo dall’altra e viceversa.

Imbarazzo.

Quel momento, però, fu spezzato dalla vibrazione del mio telefono, che più che una vibrazione sembrava un terremoto di magnitudo otto.
“OPS” recitava il messaggio.
Imprecai.

- Dice che se n’è dimenticata. - risposi, mentre iniziavo a cercare in giro per la cartella
- Hai spiccioli? - chiese lui
- Ora vedo. - risposi mentre frugavo intimamente nel mio zaino. 
All’interno avevo portato il pelouche che lui mi aveva regalato, e non volevo lo si sapesse in giro. 
Infondo.. Chi porterebbe mai un pupazzo a scuola a diciassette anni? 

Quando sul fondo trovai delle piccole superfici fredde a me note, gli sorrisi. 
- Signor delegato, oggi è il suo giorno fortunato! - ridacchiai tirando fuori le monete. 

Le contai, ed erano perfette. 

Feci per dargliele, quando vidi il suo improvviso cambio d’umore, era seccato. 

- C’è qualcosa che non va? - chiesi discretamente. Lui sospirò, prima di prendere i soldi 
-E' che non mi piace essere chiamato così. Nathaniel va più che bene - rispose. 

Io annuii ancora confusa, ma non feci domande.
- Okay… Scusa. -
- Allora..ci vediamo in classe? -
- Sì - sorrisi. Feci per indietreggiare fino alla porta, quando mi ricordai di un fattore importante. 
Non sapevo in quale classe ero. 

- Ehm.. Non so dov’è. - risposi candidamente, ridacchiando. 

Lui sorrise radioso, prima di depositare le carte ed uscire con me dall’aula

- Non vedevo l’ora di uscire di lì! - disse sorridente, io lo seguii.

- Felice di essere il tuo lasciapassare per la libertà, allora! - risposi, e lui rise, fino a quando non trovammo la mia nuova aula, dove tra l’altro, ci aspettava la preside.

Dicono che il primo giorno di scuola sia il peggiore, quello dove l’ansia ti corrode l’anima e scopri subito chi possono essere i tuoi probabili nemici.

Ebbene. Hanno ragione.

Durante la mia presentazione, una biondina senza cervello e le sue amiche hanno iniziato a farmi domande scomode, imbarazzanti, a chiedere sempre più cose di me.
Per poi iniziare a ridere.

Ma.. Cos’avrei dovuto fare?

Perfino il ragazzo dai capelli rossi che poco prima avevo incontrato in giardino aveva riso.

Ero lo zimbello della classe?
Sembrava proprio di sì.


Ed esattamente come un cane, io me n’ero tornata al mio posto. Un cane.

Ed esattamente come un cane vagabondo, finite le lezioni, che avevo deciso di fermarmi più tempo a scuola, nel giardino. 
Per godermi quell’assordante meraviglia che tanto contrastava la mia giornata di merda.

In quel momento, avevo decisamente voglia di una sigaretta.

Avevo voglia di bruciare tutta l’ansia che non mi permetteva di respirare, e se possibile, bruciare assieme a lei.
Sbuffai, lo facevo troppe volte, effettivamente..
Da que giorno disastroso,  quelle grida perpetue, e quelle occhiatacce maligne, non avevo smesso un secondo di sbuffare.
Continuavo a stare male, continuavo a peggiorare.

Una sigaretta.
Pensavo, che una sigaretta avrebbe alleviato tutti i miei problemi. Non che fumassi sempr,e non ncora in quello stadio vizioso e terribile, ma più si avvicinava a me l'opportunità di smettere, più io ne volevo una.

Che strano.

Avevo sempre criticato mio padre per il suo vizio, per i polmini grigi, che le lastre avevano trovato. E quella tosse grassa, quel fiatone, quel colore grigiastro che strava prendendo la sua pelle...non aiutavano.

Mi ero promessa che mai avrei permesso di diventare come lui.
Ma ero caduta nel vizio.
Era bastata una persona soltanto, un'idea sbagliata, un amore ingenuo, ed io ero caduta.

Mi chiedevo anche, se l'idea di puro, di perfezione, di purificazione, che quella scuola prometteva, non fosse solo la bella menzogna che nascondeva un'atroce verità.
Sarei mai uscita dal mi circolo?
Mi sarei mai disintossicata veramente?
Sarei cambiata io?
...
Ma cambiata rispetto a cosa?

La testa sembrava scoppiare. Nomi, date, avvenimenti che per me erano stati importanti, persone, che per me erano state importanti, ora non c'erano più.
Mi sentivo persa.
E non sapevo se sentirmi così fosse un bene o un male.

-allora novellina, com’è stato il tuo primo giorno? - chiese qualcuno dietro di me. Era uvoce decisa, mascolina, tremendamente affascinante, mi girai, ero sempre stata molto sensibile ai suoni, alle impressioni vocali, alle parole...quella voce per me era stata un tuono nel bel mezzo di una tempesta.
Di quelli che appaiono dal nulla, facendo tacere il casino attorno a te.


Girandomi trovai il ragazzo dai capelli rossi.
E tra le labbra stringeva proprio una tanto agognata sigaretta.

- Hai voglia di sfottere? - chiesi mentre fissavo le sue labbra. Lui ghignò. Il suo non era un sorriso.

Non era limpido come Nathaniel, ma nemmeno falso come quello di Ambra, la stronza che mi aveva deriso.

Il rosso si sedette accanto a me, sulla panchina, e tirò fuori l’accendino con cui iniziò a giocare, se lo passava fra le dita, lo accendeva, e lasciava andare la fiamma.
Il vento portava verso destra la fiamma, e più volte fu capace di scottarsi. Eppure, il suo sguardo non abbandonava l'accendino. Continuava a farlo, a scottarsi, a spostare i pollice più velocemente lontano dalla boccuccia dell'accendino.

Rimanemmo lì per un po'.
A guardare la fiamma spostarsi, forse a chiederci perchè stavamo perfettamente fermi a gauradre la fiamma spostarsi.
Ma senza dire niente.

Fu lui a rompere il ghiaccio per primo, e questo mi sorprese.

Avevo sempre incominciato tutto io.


- Senti nuova arrivata, hai da fare? - chiese rimanendo sul vago, io sospirai, sciogliendo i capelli che in classe avevo legato in un codino veloce. Negai con la testa, e lui mise via l’accendino alzandosi in piedi

- Ti porto in un posto. - disse solo. Io mi alzai e lo seguii.

Seguii quel ragazzo dentro la porta antincendio nascosta agli studenti, e salimmo le scale all’interno della scuola facendo piano, mi spiegò che non dovevamo essere visti.

Mi tenne sempre dietro di lui, e quando si accertava che il corridoio era libero, avanzavamo.

Nessuna fottuta parola superflua.

Quando raggiungemmo un’altra porta molto spessa e di ferro, lui tirò fuori un mazzetto di chiave, guardandosi attorno per non essere visto, poi, velocemente, girò la chiave nella toppa, e spinse la porta.

Ci trovavamo sul tetto della scuola.

Da quella posizione potevo vedere ogni cosa, e notai una cosa che non avevo visto quando ero arrivata la sera prima.

A pochi metri da casa mia c’era il mare.

Ad occhio e croce saranno stati pochi chilometri, ma a pochi edifici dietro le villette a schiera dove abitavo, c’era la spiaggia ed il mare

- Ti piace? - chiese il rosso dietro di me, annuii

- Si vede tutto - dissi iniziando a sorridere

Ero vicina al mare.
Ero vicina a quella fonte salina che tanto amavo.
Al richiamo delle onde

Al mito della pace e della guerra fusi in un solo punto blu. Il mare

E poi l’oceano.
Ero così vicina…

Una nuvola di fumo dall’odore conosciuto entrò nella mia visuale, oscurando ciò che i miei occhi vedevano, stava fumando una sigaretta.

- Ottima constatazione.. - disse, prima di appoggiare il sedere alla ringhiera ed espirare ancora fumo

- Grazie. Tu sei? - chiesi, lui annuì lentamente, prima di pormi la mano.

Notai le nocche screpolate ed un anello in metallo, freddo, e doloroso, quando ricambiai la stretta di mano.

- Castiel Earst - la sua voce era calda, così come la mano. Trasmetteva uno strano senso di pace.

Sorrisi.

- Fault Moore -

Le nostre mani erano così strane messe a confronto. La sua, grande e slanciata, sembrava ancora più grande mentre stringeva la mia, piccola e paffutella.

Erano completamente diverse.
Eppure così belle messe assieme.
Pensai a quanto strani fossero quei pensieri.


Il mio cuore apparteneva a Victor, la mia anima alle sue promesse, e così sarebbe stato per sempre.

Sempre.

Però le mani di Castiel sembravano così maledettamente sicure..

Una parte di me avrebbe voluto avvicinarsi ancora di più. Ma sapendo che era sbagliato, lasciai la sua mano.


Ma non il suo calore.






Angolo della scrittrice:
buonasera a tutti :D
Allora…come andiamo? Mi dispiace, so che il capitolo può risultare noiosetto…ma davvero, tra: scuola, lavoro, ragazzo, famiglia, e migliori amiche..non ho avuto un attimo di pace! Passiamo quindi ai ringraziamenti!
Voglio ringraziare @LiliFantasy per aver recensito il prologo (davvero, non me lo aspettavo) e @Sabrii_Lewis per aver pensato alla correzione e rilettura NON SOLO del Prologo, ma anche di questo PRIMO capitolo (anche a te, sei fantastica)
Spero di aver detto tutto...
Wait..
Ed ora passiamo ai personaggi:
Sabrina Allen: Capelli biondo scuro, occhi verdi tendenti al marrone, ha sedici anni, e va per i diciassette, ama leggere, giocare ai videogames e praticare sport. Va d'accordo con tutti, ed è davvero simpatica, ma se si passa da starle simpatica, ad antipatica, diventa tremendamente acida. (Dimmi se ho sbagliato qualcosa XD)
Nathaniel Harvard: Capelli biondo miele, occhi ambrati, è mediamente alto ed è il primo della classe..o della scuola…
è IL SEGRETARIO DELEGATO del Liceo Dolce Amoris, un liceo non specificato nella tanto dimenticata Le Havre (per chi non lo sapesse, in Francia). Ama i romanzi polizieschi ed i gatti. Segretamente innamorato di Melody che pare non ricambiare, ci prova con tutte le ragazze che abbiano i suoi connotati.
Castiel Earst: Capelli neri (decolorati e poi tinti di un rosso ketchup), occhi grigi, mediamente alto, è stato bocciato un anno ed ora si ritrova in classe con i “più piccoli”. Ama il suo cane, la sua chitarra e NON TOCCATE LA SUA COLLEZIONE DI ALBUM.
SPERO DI AVER DETTO TUTTO XD
Ed al prossimo capitolo!


Seth_

 

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Capitolo 3
*** Chapter 2 ***


Show me all the things that I shouldn't know.
 
"Il senso di colpa è un fenomeno assurdo: non sono mai i colpevoli a soffrirne. Spesso sono le vittime a farsene carico, solo perché occorre che qualcuno se ne faccia carico."
 
Amélie Nothomb
  





Le settimane erano poi volate leggiadre come una petroliera.

Mi sembrava di morire.

Alla fine della prima settimana, in particolare, mi sentivo sgonfia, come se tutta la poca energia che mi era rimasta, fosse volata via.

Questo credo fosse dovuto alle cinque ore passate a rincorrere il Corgi della preside, o forse a conoscere maggior parte dei miei compagni di classe e ritrovare un anello di nonhocapitocosa per far riappacificare nonohocapitochi a Rosalya, una ragazza del quinto anno dai lunghi capelli decolorati di bianco.
-Fault!-

E così la quarta settimana di scuola era ricominciata.

-ciao Nathaniel- non ero neanche arrivata a scuola, e già c’era Nathaniel con il fiatone ed i capelli tutti spettinati dal vento.
i solito occhi ambra brillavano di preoccupazione e gioia, e mi chiedevo seriamente, perché fossero le uniche due emozioni che trapelavano sul suo viso.

Buon dio, cos’aveva quel tipo contro la sacrosanta pace interiore?

Da quando ero arrivata non aveva fatto altro che affibbiarmi tutti i compitini che a lui non andava di fare, o “non aveva tempo” di fare..
Nemmeno glielo avessi chiesto!

Sbuffai, ed eccolo la:
Il sorriso colpevole e l’arrossamento del volto, principalmente verso le tempie, poteva benissimo essere vista la vena sul collo gonfiarsi, e la classica goccia di sudore cadere dalla fronte.
Come faceva a sudare così tanto e non puzzare mai?

C’era un bagno di servizio nell’ufficio delegati?

Non me lo spiegavo.
 -c’è qualcosa che non va?- chiesi già sapendo che la risposta sarebbe stata affermativa.
-volevo chiederti un favore- sputò fuori nemmeno si trattasse di un peso enorme.
In effetti, disse quella frase talmente tanto velocemente che faticai a capire cosa volesse dirmi.
Si aggiustò la cravattina blu al collo, e poi espirò.
-Tranquillo Nathaniel, respira.- bofonchiai, mi mostrò un foglio da compilare, senza però darmelo o farmi capire di cosa si trattasse.
-ma prima devi accettare- disse
Io, da brava stupida quale sono, sorrisi.
 
In verità non mi dispiaceva affatto essere d’aiuto, ogni volta avevo la speranza vana che sarei stata premiata. Che qualcuno mi avrebbe ammirata, che si
sarebbero congratularsi con me.

In quella scuola era possibile.

Quindi perché non provare? Mi chiedevo sempre, ed anche se alla fine mi ritrovavo con la schiena spezzata ed i compiti arretrati, ero felice.

Come fosse “tutto al suo posto”.

-cos’è?- chiesi, lui alzò le sopracciglia speranzoso, ed io sbuffai -okay, ci posso provare-
-bene, dovresti far firmare questa assenza a Castiel-

Castiel.

Quel nome mi fece sorridere.

Avrei dovuto correre da Castiel, vederlo, passarci del tempo…e fargli firmare un’assenza.

Per i primi due secondi fui euforica, ero incredibilmente felice.

Poi tutto cessò, quando ripensai alle parole di Castiel.

E sapevo che lui odiava portare le giustificazioni delle assenze.

-perché io?- dissi, non volevo suonasse come un “no, scordatelo!” ma forse era l’impressione che avevo fatto, data la sua faccia contrariata.
-ieri vi ho visti assieme e pensavo andaste d’accordo- spiegò, io annuii.
In effetti passavamo molto tempo assieme, dopo il mio primo giorno di scuola.

Castiel si era rivelato essere un buon ascoltatore, sebbene non facesse domande, ed io una persona…interessante, a detta sua.

Sentivo ancora le stupide farfalle nello stomaco dopo quella confessione.

Interessante, Castiel Earst mi trovava interessante.

Scrollai le spalle -mi sopporta-
-è già tanto- rispose, ed io seppi che quella risposta stava per un faticoso “non sopporta nessuno e nessuno lo sopporta”. Capii che Nathaniel, per quanto si sforzasse, non sarebbe mai andato d’accordo con lui. In cuor mio, questo mi rallegrò. Mi sentivo speciale. Mi sentivo importante, ed unica, come avessi il mio posto da qualche parte –io e lui non andiamo esattamente d’accordo, per questo non vuole proprio sentir ragione di giustificare- spiegò, io annuii. Troppo gonfia nel mio ego per dire di no. Per fare la parte della ragazza disponibile. Per fare la bella che avrebbe trasformato la bestia.
-bene, ci parlerò- dissi prendendo il foglietto. Nathaniel sorrise, dirigendosi all’interno della scuola
-sei un angelo- urlò prima di entrare nella scuola, io ridacchiai
-deve ancora firmarla!-
Nathaniel mi fece cenno di “okay” con il pollice ed io scossi la testa.

Ero largamente in anticipo quel giorno. Praticamente io e Nathaniel eravamo arrivati insieme ai bidelli per aprire la scuola, entrai anche io, andando verso la zona che sapevo fosse frequentata quasi esclusivamente solo da Castiel.

Con mia enorme sorpresa era già li.

Perché Castiel era già lì?

Era seduto sulle gradinate in cemento e non appena mi vide nascose un giornale dal vecchio aspetto.
-Castiel- provai a dire, lui mi guardò di sbiego, accendendosi rapidamente una sigaretta, sorrisi, prendendo aria e coraggio. Gli mostrai il pezzo di carta –Nathaniel mi ha chiesto se-
-no-
-ma-
-no.-

Fu la conversazione più chiara, completa e veloce che ebbi nell’arco della mia vita.

-almeno dimmi perché! Ho fatto tanta strada solo per uno stupido pezzo di carta infondo- dissi sospirando, e sventolai il suddetto pezzo di carta davanti ai suoi occhi. Lui guardò me, il pezzo di carta e poi di nuovo me. Tutto in lui gridava noia e stanchezza.

Si, ma stanco di cosa?

-fammi un favore, fatti i cazzi tuoi, e dì a Nathaniel che non firmo la sua cazzo di giustificazione- sputò fuori con astio. Io lo guardai sorpresa, ferita, avvilita.

Perché si comportava così con me?

Guardai verso il basso in cerca di un appiglio, qualcosa a cui appendermi, una scusa qualsiasi per potergli parlare ancora..magari convincerlo a firmare.
Ma fu una doccia fredda.

Guardai i suoi occhi grigi.

Non mi stavano chiedendo scusa, mi stavano chiedendo di lasciarlo solo, per non lasciarmi ferire più.

Sospirando, me ne andai.

 
Mi sentivo sconfitta. Era come se tutti i miei castelli di sabbia fossero crollati. Castiel li aveva demoliti. Castiel aveva preso le mie illusioni e non gli aveva dato tempo di radicarsi. Le aveva estirpate.

Il problema non era tanto questo, però. Aveva fatto bene, infondo, era giusto che io non mi illudessi più di tanto…volevo giocare alla bella che avrebbe salvato
la bestia…

Quando la bestia ero io.

Senza forze, mi trascinai per i corridoi, speravo di risparmiare energie per la sgridata del signor delegato. Alla fine però, arrivai davanti a lui, senza forze, senza coraggio.

Sconfitta.

Sconfitta da uno stupido "no".

Si, ma quanti ne avevo sentiti nella mia vita?

Ecco. Quel retrogusto amaro e pungente della negazione. Quel “no”. Che avevo sentito tante di quelle volte da voler poter fare indigestione.
Ricordavo quegli occhi verdi trafiggermi tante di quelle volte…non solo nella carne, anche nello spirito.

Guardavo Nathaniel parlare con una ragazza poco più bassa di lui –che voleva dire più alta di me-, magra, capelli lisci lunghi e castani. Occhi azzurri ed un look elegante. Vestiva come Nathaniel, stessi vestiti stirati alla perfezione, stessi occhi diligenti…

Mi avvicinai a loro, cercando di fare la faccia più dispiaciuta che possedessi nel mio repertorio, lui mi guardò, poi vide il foglio bianco, e si fece scuro in volto.
-ha detto di no- spiegai, lui con tono poco gentile cercò di strapparmelo di mano, ma io, lo portai lontano da lui -prima dimmi perché lui è così ostinato a non firmarla-
Nathaniel era combattuto. Mi guardava con occhi colmi d’astio e chiedendo, invece, gentilmente, a Melody di lasciarci soli, mi trascinò poco delicatamente dentro la sala delegati.
-è entrato in ritardo per colpa mia, gli avevo detto che non avrei segnato l’assenza ma ho dovuto farlo- spiegò.

Capii tutto.

Non era una coincidenza che Castiel si sentisse così solo, fosse diventato così scorbutico.

Castiel aveva cercato un approccio pacifico, aveva aiutato il suo opposto.

E questo aveva tradito la sua fiducia.

Fiducia.

-eh, ma allora sei un po’ uno stronzo- gli risposi io. Nathaniel divenne rosso di rabbia
-se non la firma la preside lo sospenderà, alla fine è per il suo bene- commentò. Io sbuffai. Stupide stronzate burocratiche.
Anche se Nathaniel era in torto, Castiel avrebbe dovuto allo stesso modo giustificare il ritardo -ora me la dai?- il biondo si avvicinò prendendo il foglio, che gli strappai di mano indietreggiando
-ho detto che ci penso io- sibilai.
Il delegato abbassò lo sguardo, chiudendo poi gli occhi ed aggiustandosi la cravatta celeste
-fa’ come vuoi- disse. Io mi girai e me ne andai.

Trionfante?

Forse.

Avevo comunque scoperto cosa affliggeva Castiel.

Non era arrabbiato con me.

Ero tornata nel luogo di prima, ma Castiel non c’era. Avrei dovuto aspettarmelo, sapeva sarei tornata a cercarlo, per questo se n’era andato.

Sospirai, e feci per andarmene, ero stanca di girare come una trottola.
Mi ero appena girata, quando una macchia scura catturò al mia attenzione-
Prima di uscire, mi chinai a raccogliere un taccuino scuro, di quelli con la molla, tutti scarabocchiati. Era così.

Non lo lessi, poteva essere qualcosa di molto privato, come un diarietto a caso, ma sapevo che comunque, apparteneva a qualcuno.
Mi dissi che se qualcuno avesse mai trovato un mio taccuino e l’avesse letto senza il mio consenso, mi sarei piuttosto inferocita, quindi non lo lessi.
Chiamatela paura del Karma, ma non mi andava che qualcuno facesse lo stesso con me.
Ci mancava anche quello..del resto.

Chiusi la pesante porta dietro di me, ed iniziai a cercare Castiel. Eravamo vicini di banco, quindi lo avrei visto comunque appena entrata in classe, ma preferivo parlargli di cose private prima dell’inizio delle lezioni.
Lo trovai in classe, infatti, intendo a giocare con il suo accendino, mentre se ne stava beatamente seduto con la schiena appoggiata al muro ed i piedi sulla mia sedia.

Odiavo quando lo faceva, e lui apposta, lo faceva di nuovo.
Aveva le cuffiette al massimo, sentivo chiaramente la musica dei Green Day pompare oltre il suo cervello ed arrivare fino alle mie orecchie, quasi nitidamente. Mi avvicinai, e gliene tolsi una di cattiveria.
-Nathaniel mi ha detto perché non la vuoi firmare- incominciai io.

Castiel bestemmiò, rimettendosi la cuffietta e se possibile, alzando il volume, allora gli strappai il cellulare dalle mani con tanto di cuffietta.

Ora avevo l’attenzione di un toro inferocito.

-ma non sai farti i cazzi tuoi??- sbraitò lui allungandosi per riprendersi le sue cose, io mi allontanai, sorridendo
-no- ridacchiai, lui rimase crucciato, ed io mi misi il cellulare con tanto di cuffiette nella tasca posteriore dei jeans. Lo guardai sospirando.

Castiel era un misto tra un leone ed un toro.
I leoni sono giocherelloni, placidi, ma ammalianti e pericolosi…i tori invece sono tranquilli fino a quando non li stuzzichi, dopo che li hai stuzzicati per bene, preparati a morire, perché loro ti calpestano senza pietà.

Castiel non sapeva gestire la rabbia.

Vorace ed indomabile, come il fuoco, non sapeva fermarsi quando era il momento.

Sospirai.

-ha detto che la preside ti sospenderà se non la porti..io una firma la farei, infondo sei maggiorenne- dissi. Castiel era combattuto.

Penso fosse indeciso se spaccarmi una sedia in faccia o dirmi la verità.

Per mia fortuna optò per la seconda.

-non doveva segnarmi quel ritardo. Ha sbagliato lui-

Mi passai una mano sul volto.

Cosa fare?

Insistere?

Non insistere?

Castiel era un osso duro, forse avrei fatto meglio a lasciare stare.

Sbuffai tirando fuori dalla tasca il suo cellulare e glie lo porsi, lui alzò un sopracciglio
-okay, non insisto- dissi
-davvero?- sembrava sorpreso.

Ero molto più sorpresa io di lui.

-hai ragione tu, lui doveva prendersi la responsabilità-

Da quando facevo pensieri così profondi?

Determinata, mai arresa..che stessi cambiando?

Impossibile, la Fault che conoscevo sarebbe andata fino in fondo a quella storia, a costo di inchiodare Castiel al muro e fargli firmare con il sangue quella stramaledettissima giustificazione.

Ma forse non avevo più le forze.

Castiel mi guardò perplesso, forse più dal mio silenzio che dalla mia decisione, eppure, ne sembrava sollevato.

Prese il telefono, ma non riaccese la musica, gli sorrisi timidamente, prima di girarmi ed andarmene, avevo un piede fuori dalla porta quando lo sentii sospirare sereno
-sapevo che avresti capito, piccoletta-

Mi concessi di guardarlo ed alzare un sopracciglio, insieme ad un angolo della mia bocca.

Che fine aveva fatto il mio completo e sincero sorriso?

Ero poi tornata da Nathaniel, non l’aveva affatto presa bene, infatti, quando gli avevo spiegato perché non era firmata la carta, si era alzato energicamente dalla sua sedia, e grugnando aveva preso il foglio, brontolando che ci avrebbe parlato da solo.

Alzai le mani al cielo, in segno di resa.

Un po’ mi dispiaceva, un po’ troppo a dire il vero, eppure una parte di me sogghignava vittoriosamente.

Mi sentivo in colpa, certo, ma nemmeno troppo.

Per una volta, non era così male essere me.

Quando rientrai nella mia classe, Nathaniel stava uscendo per tornare nel suo ufficio a fare ‘roba da delegati’, e quando posai lo sguardo sul rosso in primo banco, mi venne da ridere.
-l’hai mangiato vivo?- ridacchiai, lui mi seguì in una risatina strafottente, prima che il professore di lettere entrasse in classe, e tutti ci alzassimo come da prassi.
 
Eravamo in pausa, quando feci questa riflessione.

Castiel aveva un buon odore.

Non profumava certo come Nathaniel, ma non era male. Il suo profumo lo si poteva distinguere chiaramente.

Castiel sapeva di pioggia sull’asfalto, di sapone di Marsiglia, e dopobarba.

Mi ricordava tanto i pomeriggi passati sulle gradinate della villetta a schiera di mia nonna, durante i pomeriggi di pioggia.

Era tranquillo, relativamente tranquillo.
-la smetti di sbavare?- mi disse ridacchiando mentre cambiava canzone sul telefono.

Io e lui condividevamo le sue cuffiette, avendo in comune abbastanza artisti, e quindi ne approfittavamo per ascoltare musica durante le pause.

Sbuffai.
-non sto sbavando-

Castiel mi lanciò un’occhiata scettica, prima di ghignare
-ah no? Pulisciti il mento- la mia mano corse al mento.

Avevo davvero sbavato?

Pensano a lui ed al suo buon profumo?

Immediatamente mi tirai dritta con la schiena, mentre constatavo che il mio mento e la mia bocca fossero perfettamente asciutti
-ci sei cascata-
-figlio di-
-Fault?- il professore era tornato in classe, all’inizio pensai si trattasse del mio quasi insulto verso Castiel, ma quando vidi la crocchia della preside spuntare da dietro il professore, ebbi da ricredermi
-che hai fatto?- chiese Castiel in tono scherzoso, io mi alzai dalla sedia, scrollando le spalle.
Cosa voleva la preside da me? -ieri mi sono dimenticata una carta importantissima da farle firmare- disse non appena mi vide. Sospirai.

Non avevo fatto niente.

Ma perché me ne preoccupavo?

Ero lontana da Parigi, ero lontana da tutto ciò che avrebbe potuto farmi del male…perché quindi avere paura di una conseguenza?

Cos’avevo fatto?

La verità è che sentivo ancora su di me la sensazione di avere qualcosa in sospeso con qualcuno, e nel profondo, sapevo anche di cosa si trattasse.

Spalancai gli occhi, quando mi resi conto che la preside stava parlando, ed io non la stavo affatto ascoltando -nella nostra scuola, ogni studente dal terzo anno in su ha l’obbligo di iscriversi ad un corso, nella sua vecchia scuola aveva questa opportunità?- quella domanda era un tantino stretta, era come se stesse chiedendo “sa cos’è un corso?” ma poteva benissimo essere inteso come un elogio alla sua bravura di direttrice, lo si poteva dedurre dal sorrisetto fiero, nemmeno stesse dicendomi “scommetto che nelle altre scuole non si fa perché siete tutti plebei”.
Nel dubbio, annuii –i corsi erano facoltativi, e..pomeridiani solitamente-
-molto bene, noi abbiamo il corso di musica, di pittura, di calcolo, di basket, di giardinaggio, e per finire di chimica- spiegò. Io avevo già in meno il corso di musica, ma anche il disegno mi intrigava parecchio. Da piccola avevo sempre sognato di dipingere grandi tele, affinare la mia piccola dote…  -purtroppo lei, essendo nuova, ha possibilità di entrare solo o nel club di basket, o in quello di giardinaggio- disse.

Avrei tanto voluto picchiarla.

Perché elencarmi tutti i corsi se ne potevo scegliere solo due?
-basket- risposi seccata, lei, con il mio stesso tono, mi allungò un formulario
-firmi qui -
 
Quando ero tornata a casa, in largo anticipo, ero corsa in camera mia, ad accendere il computer portatile, unica fonte di tecnologia, oltre il cellulare, che mia zia aveva il consenso dei miei genitori di farmi usare. Ora che ci pensavo però, era davvero tanto tempo che non sentivo i miei genitori, non che mi dispiacesse, ma mi sentivo…sola.

Abbandonata.

Cercai di respirare, e ragionare lucidamente.

Perché avevo acceso il computer?

Facebook.

Dovevo mettermi in contatto con uno dei miei carnefici, avevo lasciato in sospeso un debito che avrei dovuto consegnare il prima possibile, e quel prima
possibile, purtroppo per me, era già passato.

Sospirando, digitai il sito sulla cache di google, ma questa si bloccò, mostrandomi il volto di un cane poliziotto stilizzato.

Il sito era bloccato.

-merda.- imprecai.

Se non potevo convincerlo a darmi più tempo..come potevo saldare il mio debito?

Purtroppo per me non si trattava di qualche centesimo che Iris doveva a Ambra per i soldi delle macchinette, ne’ di qualche favore che Kentin doveva a Peggy.

Iniziai a sudare.

Stava andando tutto a rotoli, lentamente, ed inesorabilmente.

Ero bloccata in casa di mia zia, e tristemente, mi ero giocata il mio unico biglietto di sola andata per la libertà..

Non me l’avrebbe mai fatta passare liscia.

Come si era preso la mia purezza.

Si sarebbe preso la mia vita.



Bestemmiai ripetutamente.

Le labbra pulsavano, bramavano nicotina ed il vetroso sapore di una bottiglia.

Le mani pulsavano, volevano dilaniare, fare del male, distruggere.

Mi passai quelle piccole armi tra i capelli ricci, sentendo la frustrazione salire, sentendo il cuore pompare più lentamente ma con più forza.

Quella era follia.
 

Era una lettera certificata dal diavolo per un’esornabile condanna a morte.




Angolo della scrittrice:
BUENOS TARDES! -Si scrive così, no?-
 Anyway, ciao a tutti!
Chiedo scusa per la mia assenza, ma mia mamma è rimasta bloccata a letto dalla pubblicazione del secondo capitolo a pochi giorni fa (le sono uscite due ernie), ed ho dovuto badare a cinque persone  (si, siamo davvero tanti..) e gestire un po’ casa.. (non è vero, non ero sola, ma comuqneu sono stata davvero brava!) e indovinate un po’? Ho ANCHE preso l’influenza!
Ave me!
Allora..Com’è? Piace? Schifa?
 
-lo ammetto, amo mettere le cose in corsivo (ecco, l'ho fatto di nuovo) amo mettere doppi sensi o sottilneare particolarmente una parola che me ha una valenza ambigua.. :3 -

Fino ad adesso ho ricevuto recensioni positive, quindi…deduco vada tutto bene ^^ comunque, chiedo scusa a tutti quelli che hanno recensito ma che non hanno avuto mai risposta, ma come scritto prima..sono un disastro..
Allora, intanto ringrazierei un paio di personcine :3
Tra cui Sabrii_Lewis (arrenditi, non smetterò MAI di ringraziarti), BerriesTart_LilacSweete e  ScribbleScrawl..che dire…sono commossa XD
Non mi aspettavo affatto recensioni positive, bensì critiche…o negative…insomma, so di non essere poi una grande scrittrice, ma…addirittura solo positive?? *^*
Comunque, prometto che tornerò a rispondere alla recensioni il PRIMA possibile (se scuola, lavoro e famiglia permettono..) e....niente! Vi lascio alla presentazione dei personaggi!

Melody Bell: Capelli lisci e marroni, occhi azzurri, di statura nella norma..è innamorata "segretamente" di Nathaniel e fa di tutto per conquistarlo, anche passare molto tempo con lui e dargli una mano nel suo ufficio. La sua migliore amica è Violet anche se spesso la considera quasi autistica ed incredibilmente immatura...spesso parla alle spalle delle persone, e per questo motivo, ha avuto problemi a socializzare al primo anno al Dolce Amoris.




p.s. c'è una non remota possibilità che la storia diventi una rossa..perchè...uhm...il mio ragazzo mi ha lasciata (a San Valentino. Perchè ve lo dico? Perchè così capite che razza di sfigata sono io e vi mettete il cuore in pace.. u.u ..davvero..c'è di peggio, e forse sono proprio io) e..tutti i miei ricordi più brutti sono spuntati fuori come funghi...o come insufficienze a matematica...COMUNQUE, essendo particolarmente depressa ho già scritto alcuni capitoli della "mia vita" parecchio duri e..non me la sento di lasciarli arancioni..
Ci vediamo prossimamente..



Seth_

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Capitolo 4
*** Chapter 3 ***



Show me all the things that Ishouldn't know.
 
 
“L'avvenire ci tormenta il passato ci trattiene il presente ci sfugge”
Gustave Flaubert




Quando aprii gli occhi la mattina avevo un gran mal di testa. 
Francamente non potevo nemmeno lontanamente comprendere quanto cazzo potesse farmi male la testa.

Non ero mai stata così male.

Le ragazze della mia età, o tutte le ragazze normali, avevano malesseri regolari, prendevano la pillola, andavano in discoteca, tradivano il loro ragazzo..
Ma a me non era permesso andare in discoteca.
Io non avevo bisogno di prendere la pillola.

Io non potevo stare male.

Dicevano tutti che ero delicata, ma solo io e qualcun altro sapevamo che non era così. Ero davvero molto resistente. Ero forte, quando volevo esserlo, quando dovevo lottare per la vita.
Per il resto ero la più inutile ed indifesa ragazzina della mia età.
Avevo le mani fredde, come sempre, e le posai sulla fronte bollente, cercando un briciolo di conforto. Era davvero una goduria. La sensazioni delle mie mani gelide che raffreddavano la mia fronte, e della mia fronte che riscaldava le mie mani lentamente.

Avrei voluto rimanere così per sempre.

Ero in diagonale, sul mio letto. I due cuscini erano appoggiati alla testiera in legno, così che la mia testa restasse in alto. Le coperte coprivano solo le gambe, ed indossavo unicamente una maglietta rosa ed un paio di mutande.

Perfetto.
Non mi serviva altro per stare bene.

A parte un corpo maschile di mia conoscenza che mi avrebbe potuta abbracciare e confortare tutta la notte, lasciando baci sul mio casino di testa.

Volevo solo questo.

Dopo anni ed anni di storia e soprusi ingiusti, l'uomo ha raggiunto la brillante idea che ‘il diritto alla felicità’ dovesse essere un diritto indiscutibile. 

Dunque, perché io non potevo essere felice?
Perché non ci riuscivo?
Perché non ne avevo le forze?

Sospirai, spostando la mano dalla mia fronte, e guardando il soffitto della mia camera. Guardavo annoiata quelle stelline fosforescenti colorate, appese al soffitto, constatando che alla luce del sole, non brillassero. Era ovvio.
Ma era ancora più ovvio che io fossi a letto, di mattina tarda, mentre il resto dei ragazzi della mia età erano a scuola ad ‘imparare’.

Mi alzai dal letto cercando la sveglia, sul comodino affianco a dove stavo poltrendo.
Erano le dieci e venti del mattino, e la mia classe, probabilmente, aveva appena visto entrare in classe la professoressa di scienze naturali. Non era male quella donna, ma non mi piaceva nemmeno. 

I denti sporgenti, i capelli crespi, le macchie della vecchiaia sulla pelle e quello strano modo di pronunciare le parole sputacchiando sui quaderni dei disgraziati in primo banco… alias, me e Castiel.

Castiel.

Per un secondo mi chiesi se si stesse annoiando in classe da solo, senza nessuno da tormentare. Forse aveva appoggiato lo zaino sul mio posto, anzi, scuramente lo aveva fatto. Aveva poi fatto passare le cuffiette sotto il felpone grigio, dentro la manica, fino a tenerla nella mano. La prof aveva iniziato a parlare,e lui aveva appoggiato la testa sulla mano, fingendosi interessato, mentre in realtà, ascoltava la musica. Una cosa sicuramente da Castiel.

In quel momento, avrei tanto desiderato vestirmi ed andare a scuola, per non essere sola, per poter stare con lui.

Mi vergognai.
Era per questo motivo che interrompevo i miei pensieri depressi? Per… lui?

Scossi la testa imprecando. Dovevo imparare a diventare più forte, per me stessa, non per gli altri. Non serviva forse a questo il mio ‘esilio’?
Ah no, il mio esilio serviva per ‘imparare la lezione’, una lezione che non serviva imparare perché ero consapevole di ciò che avevo fatto, di quanto grave fosse stato tradire la mia famiglia in quel modo.
Ecco, i sensi di colpa mi tormentavano anche a Le Havre, come non fosse abbastanza.

Mi alzai dal letto, e lentamente, mi comportai come si trattasse di una comune domenica mattina a Le Havre. ''Non pensare a Parigi, non pensare a Parigi'' mi ripetevo mentalmente, pesando inevitabilmente alla mia familiare Parigi.



La domenica mattina mi svegliavo sempre tardi. 
''Non prima delle dieci'' diceva mia mamma il sabato sera, ma io puntualmente, mi svegliavo all’una passata.

Avrei tanto voluto avere un sonno normale, riposato, rifocillatore, ma non era così.
Dopo l’una di notte, i miei genitori crollavano in un sonno davvero pesante, tanto pesante, da non sentire la porta blindata aprirsi e chiudersi.

Chiamavamo l’ascensore, tenendo sotto braccio il cappotto, e le chiavi chiuse, strette, nel pugno della mano destra, mentre con la sinistra, accendevo le luci delle scale.
Abitavo al terzo piano di un condominio a tre scale, ed era difficile passare inosservati di giorno. 

Tutti sapevano tutto di tutti.
Tutti parlavano.
Tutti stavano zitti al momento giusto.

Tenevo le scarpe fuori dalla porta di casa, e le indossavo dentro ascensore, mentre questo raggiungeva il piano zero. 

Mi ero sempre meravigliata della sua lentezza a salire e scendere. Tre minuti totali. Effettivamente, avrei impiegato meno tempo a scendere le scale a piedi, ma avrei fatto molto più rumore, qualcuno avrebbe guardato dallo spioncino, ed avrebbe parlato.

Questo sarebbe poi accaduto un lunedì mattina, il giorno libero di mia mamma, durante il quale il vicino della seconda scala, andò da mia madre e le dirà dove mi ha vista.. Ma prima..

Ero scesa dall’ascensore, ed avevo fatto il corridoio al buio, per evitare che l’accensione della luce svegliasse qualcuno.
Avevo aperto il portone principale cigolante lentamente, ed avevo aperto il cancelletto esterno con il pulsante accanto al portone da cui stavo uscendo.

Guardai la strada.

Le macchine erano rade, ma passavano ancora. 
Ogni volta ci pensavo: ''dove vanno quelle persone? Stanno tornando a casa? Stanno andando via? Non hanno una casa dove tornare? Perché sono fuori a quest’ora?''

Poi però, mi rendevo conto dell’assurdità dei miei pensieri, anche io ero fuori a quell’ora. Perché?
Non dovevo starmene nel mio letto a dormire come tutte le ragazze normali della mia età?

Uscita dal cancelletto guardai a sinistra ed a destra, prima di scendere dal marciapiede ed attraversare la strada, per raggiungere quello della casa di fronte alla mia. 

Girai a sinistra, e percorsi quasi dieci metri, prima di girare a destra, e percorrerne altri cento.

Era una strada normale, tagliata da un cornicione con dell’erba verde florida, illuminata solo dalla luce dei lampioni. Io stavo sul marciapiede di destra, aspettando la macchina rossa che mi sarebbe venuta a prendere.

- Avanti Joe, dove sei? - mi chiedevo camminando. Andai avanti.

Joe mi aveva sempre detto di non aspettarlo in un punto, destava sospetti. 
Perciò dovevo camminare fino a che non lo vedevo arrivare, poi lui avrebbe accostato, ed io sarei salita in macchina.

Quando mi sedetti lo guardai sorridente, come sempre del resto,
lui mi disse mi allacciarmi la cintura, ed io non lo feci.

- Non ti importa di fare un incidente? - mi chiese, io ridacchiai con voce bassa, mi sentivo bella quando lo facevo. Mi sentivo grande.
Lui sbuffò, guardando sempre la strada.
- Se facessimo un incidente, cosa penserebbe il tuo ragazzo? - disse – Se facessi un incidente, cosa penserebbe di te? Perché ti trovavi nella mia macchina? - 
- Penso sarebbe più preoccupato per la mia salute. -
- Ne sei sicura? -

Allacciai la cintura.

- Anche se io indossassi una cintura, non credo che se tu facessi un incidente potrei tornarmene a casa tanto facilmente, sarei ferita, e sarebbe impossibile nascondere l’incidente. -
- Allora scappa di casa - propose lui, e io sorrisi. 

Sarebbe stato bello. 
Non sapevo perché, ma solo l’idea di stare lontana da casa mi rendeva felice. 

– Lascia tutto, scappa di casa, nasconditi dal tuo ragazzo…e spiegagli come ti sei ridotta così. - 

Detto questo stetti zitta per il resto del viaggio. Ecco perché Joe era il capo, ecco perché era Joe a gestire la mia vita, ecco perché era Joe che mi era venuto a prendere in macchina.

Era Joe quello responsabile, io ero solo il suo giocattolo per giocare, quando si annoiava. Quando si sentiva bisognoso di fare la parte del ragazzo adultero e protettivo. Ecco.

Joe era un vulcano dormiente, pericoloso ed esplosivo, ma questo, lo avrei imparato dopo.




Ho sempre avuto la brutta abitudine di fare la doccia calda. 
Talmente tanto calda che quando prendo il sapone per il colpo e lo applico ho una scarica di freddo improvvisa.

Successe anche quella volta.

Ebbi una scarica di freddo tanto forte da far inturgidire la pelle fino alla base della nuca, dove sentii i miei capelli rizzarsi.

Perché i miei capelli dovevano rispecchiare il casino che avevo in testa?

Avevo sempre amato fare la doccia, anche se dopo poco mi si stancavano gambe e braccia, anche se dopo ero costretta ad uscire da quel piacevole torpore e diventare un pezzo di ghiaccio avvolto da un accappatoio verde mentre stavo seduta sul water ad aspettare il nulla.

Seduta sul water, guardavo la macchia scura del tappeto celeste diventare più larga, mentre i miei piedi piccoli si asciugavano diventando gelidi. Tenevo le mani incrociate sotto le ascelle, ed uno stupido turbante bianco a raccogliere l’acqua in eccesso dai capelli.

Mi piaceva stare da sola.

Quando sei da solo non devi rispettare i tempi di nessuno, hai tutto il tempo per te, solo per te.
Puoi fare le tue cose, puoi trovare il tempo per ciò di cui hai davvero bisogno, anche se si tratta solamente di pensieri depressi.

Perché era questo che stavo facendo, no?
Montagne di pensieri depressi. 
Di pensieri depressi che non servivano assolutamente a niente se non a deprimermi di più.
Perché io li avevo già fatti questi pensieri, giusto?



Sentivo un gran caldo, la vista era offuscata ed una spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco andava pizzicando la gola.

Volevo vomitare.

Un ragazzo dai capelli neri affianco a me beveva da una stupida lattina vuota.
L’avevo vuotata io.
E faceva strani versi con il culo.
Parlava con il suo vero volto.

Poi c’era una ragazza dai capelli castani, lei rideva sguaiatamente mentre cercava di raccogliere le scarpe cadute per terra.
Aveva messo i tacchi, ma si sa, sui tacchi è difficile camminare, specialmente da ubriachi..
Rideva, e cadeva a carponi, rifacendo il gesto mentre si alzava. Che stupida.

Ed io ridevo.

Non tanto di lei, ma della situazione..
Lei che si era tolta le scarpe per camminare meglio ora vomitava in un angolo, colpa di tutte le volte che si era piegata, ed il ragazzo moro guardava insistentemente il muro affianco alla ragazza, come ci fosse qualcosa di speciale.

Era bianco.
Ed incrostrato di..cacca di piccioni.
Non c’era niente di interessante, ma mi sembrava divertente.
E così ridevo.

Ridevo e sudavo, in pace con me stessa, mentre dimenticavo quanto tutto stesse lentamente andando a puttane.




Asciugavo i capelli a testa in giù, usando il phon al massimo, e fregandomene delle mani che si seccavano, delle punte dei capelli che si spezzavano.
Amavo avere il vento fra i capelli.
Amano ricordare il mio passato squallido quando mi asciugavo i capelli.

Lo faccio tutt’ora.



- Fault, dovrei dirti una cosa - mi disse mia zia, mentre prendevo un biscotto alla cannella dalla teglia. 

Mi girai constatando che quel biscotto mi sarebbe andato di traverso prima o dopo, perché il suo viso era tremendamente cupo, e sembrava pronta a farmi un discorso lungo e stressante, non reagii. 

- Mi hanno offerto una proposta di lavoro a Parigi, ed io dovrei.. Trasferirmi lì se mi prendono. Oppure prendere il treno tutte le mattine ed andare lì. - prese una pausa, mentre mi faceva digerire quelle parole.

Parigi.
Casa mia.
Lei avrebbe dovuto trasferirsi li. 
Ed io con lei. 
Sarei stata maledettamente vicina a casa mia, anzi, forse ci sarei anche tornata. 
Deglutii. 

- Sarebbero due o tre ore di treno.. - disse lei, come per scusarsi, come per farmi capire che ci sarebbe stata un’unica probabile soluzione, la prima che aveva detto.
Temetti il peggio. 

Mia zia capì subito quanto non mi andava di tornare a Parigi.
''In quell’inferno?? Stiamo scherzando?!''

- Però ci sarebbe un signore... Un caro amico che sarebbe disposto a venire tutti i giorni a controllare il tuo stato di salute, a portare la spesa.. -

Mia zia parlava incessantemente delle cose che quest’uomo avrebbe fatto in casa mia.
Mia?
Mia.
La sentivo mia.

Ormai erano mesi che ci abitavo, e mia zia aveva dolcemente sostituito quel vuoto lasciato dai miei genitori. Un solo vuoto era stato colmato, ora si riapriva quella ferita?

- Ma.. Che lavoro vai a fare? Non ce n’è uno qui?-
- Beh.. Sì. Ma a Parigi prenderei il doppio, e potrei permettermi di mantenerti meglio di adesso. -
- Ma adesso sto bene! -
- Oh, piccola Fault. -

''Non sono piccola!'' avrei voluto urlare, 
purtroppo la mia voce non uscì dalla gola, e mi limitai a tenere le labbra serrate.

- Non ho molta scelta… Non c’è nessuno di cui mi fido abbastanza da lasciarti completamente in affidamento. - spiegò - Io domani mattina parto, e vado a vedere il posto… Se tutto va bene dico di si e… Troveremo un modo. - aggiunse.


Misi in bocca il biscotto e masticai, sempre rimanendo appoggiata al mobile della cucina. Perché diavolo doveva farsi tutto più complicato? 

- Perché non credo che tu voglia tornare a Parigi adesso. -

Parigi.
Mi stava offrendo l’opportunità di tornare a casa.
Casa.
La mia vera casa.
Dai genitori che mi avevano gettata tra le braccia di una vecchia zia.
Dalle persone che non vedevo da mesi, che mi avevano sempre guidata verso le strade più tortuose, più buie.
Da Joe, dai soldi che non avevo e che gli dovevo.
Da Victor, e dal suo terribile silenzio.
Dalla memoria.
Dai miei errori.
Dal mio passato.

C’era una possibilità concreta che io potessi riappacificarmi con il mio passato…
Ma lo volevo davvero?
Tutto sommato non mi andava poi così male a Le Havre..
Le Havre era la mia nuova casa, ora.
Ed io non volevo andare da nessun’altra parte.



Tornata in camera e mi sdraiai sul letto, fingendo che la mia pelle ricoperta dalla canotta bianca ed avvolta dai pantaloni grigi della tuta fosse asciutta sicuramente avevo lasciato aloni più scuri dell’acqua sul sedere, ed in mezzo alle cosce. 
Ma ero a casa da sola, e di quello non mi preoccupavo più di tanto.

Mia zia era a Parigi quella mattina.
Da distesa a pancia in su, mi trovai a girarmi su un fianco, mentre infilavo i piedi sotto le coperte, per cercare calore.

Chiusi gli occhi.



Aprii gli occhi, rendendomi conto che il corpo al mio fianco era ancora caldo. 
Mi strinsi di più a quel corpo, ignorando il sudore che iniziava a spuntare fuori.

- Ho caldo. - disse lui. 
Lo ignorai. 
– Ho.. Caldo. - disse di nuovo.

Mi alzai sui gomiti, guardandolo dall’alto, mentre i capelli ricadevano scompostamente sul viso, sulla schiena, accarezzando le braccia…amavo quella sensazione.
- Lo so. - dissi – Ma voglio starti abbracciata. Anche se hai caldo. -
- Non puoi aspettare che il calore passi? -
- Non puoi mettere via Flippy Bird mentre stai a casa della tua ragazza? - sbottai mettendomi seduta. 

Lui serrò le labbra in una linea sottile continuando a giorcare. Affondato.

- Che noiosa. - disse lui sbuffando.

Perché un vetro graffiato è affascinante, mentre un cuore graffiato è da buttare?

Mi sporsi in avanti, strappandogli il telefono dalle mani ed appoggiandolo a terra, sul mio scendiletto indaco, quando tornai a guardare il suo viso, era scuro in volto.

- Sei una scassa palle. -
- Mi hai scelta tu. -
- Mai stata scelta peggiore. - disse con freddezza dandomi la schiena. 

Sentii gli occhi pungermi, per diventare lucidi
- So che mi ami comunque. - dissi ostentando sicurezza.

Come mai non ero poi così sicura? Forse il tradimento di settembre, forse il tradimento di aprile, forse tutti quei cazzo di tradimenti che non dovevano esserci stati, ma che lui aveva compiuto lo stesso?
Ma se voleva altre donne, perché non mi lasciava?

Una parte di me credeva che se ogni volta si fosse scusato credendosi pentito, si sarebbero trattati di piccoli episodi da dimenticare.
Ma io non riuscivo a dimenticarli, non ci riuscivo no.

- Sto scherzando, idiota. - disse lui girandosi di nuovo e guardandomi negli occhi.
Perché i tuoi sembrano così risolti e pacifici? Perché, nonostante tutto, non mi fanno paura?
- Come fai a dire certe cose con… Leggerezza? - chiesi
- Sono bugie, è facile. - spiegò.

Bugie.

Sì, era facile mentire, ma.. 
A me le bugie pesavano. Mi facevano male, mi riempivano il petto di massi che non avrei mai voluto sopportare. Non faceva per me, per niente. Ma non avevo davvero voglia di pensare a tutto ciò che avevo fatto, a tutte le bugie che avevo detto.

Victor sembrò intuire i miei pensieri, perché per uno stupido attimo mi guardò perplesso 
- Tu non menti mai? - chiese, scossi la testa.

Ovvio che si.

- Solo se si tratta del nostro rapporto. - dissi, alludendo alle bugie perpetue che raccontavo ai miei genitori per poterlo incontrare
- A me? Hai mai detto stronzate? - chiese, io scossi la testa.

Sì.
Sì, gli avevo detto una montagna di cazzate. 

Come quella volta che avevo detto che tornavo a casa sempre prima delle sei perché mia mamma era preoccupata per me, quando in realtà passavo da Joe a montare i video.

Come quella volta che spogliandomi aveva visto le gambe interamente ricoperte di lividi, così come le braccia e l’addome, gli avevo spiegato che dei ragazzi, fuori dalla scuola, mi avevano picchiata; invece, era stato proprio Joe a ridurmi in quello stato.

Joe, era colpa sua se mentivo così tanto. Era colpa di ciò che io facevo per lui che non riuscivo a dormire la notte, a stare tranquilla, ad avere paura del buio.
Non avevo più paura del buio, perché avevo paura di qualcos’altro, di qualcuno che mi avrebbe fatto più male di un fantasma, o di uno spettro.

JOE.

Joe era il mio fantasma, il mio spettro, era il mio incubo fatto carne che mi veniva a prendere ogni sera.

- No. - menti, cercai di ignorare la sensazione di fastidio quando vidi Victor prendere in mano il telefono.
C’era qualcosa che avrei potuto fare per attirare la sua attenzione? Una dichiarazione, pensai, cosa c’era di più intimo e puro?
– Perché ti amo.-

Ma io non ero pura, e ciò che facevamo non era più intimo, come le prime volte, sempre se per lui, intime, lo erano mai state.

Lo schermo illuminò il suo volto, e quella fastidiosa musichetta ripartì, insieme al gioco
- Meglio così. - disse lui, io chiusi gli occhi, asciugandomi velocemente una lacrima che era uscita rigandomi la guancia.

Perché faceva così male?

Mi alzai dal letto, superandolo, mentre velocemente mi rivestivo ed andavo in bagno per lavarmi.

- Fault? - mi chiamò dalla mia stanza Vic, io velocemente tornai indietro, sperando in qualche scusa, magari in un momento di dolcezza.

Presi al volo il preservativo chiuso, e lo guardai allibita.
- Dato che sei in piedi, buttalo. - chiarì lui. 

Io feci retro font, con il preservativo annodato in mano. 
Lo buttai nel water, e spinsi il pulsante. 

Presi un grosso respiro, e mi lasciai sfuggire un singhiozzo, per poi soffiarmi il naso energeticamente.
Speravo che con quel rumore, lui non avesse sentito i miei singhiozzi. Perché non avrei mai voluto fargli vedere quanto ero rotta, quanto cazzo stavo male. 

Avrei preferito mille volte vedere lui soffrire. Vedere soffrire lui e Joe. Ed andarmene.

Perché mi dicevo che senza di loro sarei potuta morire, ma poi, pensavo, che sarei potuta morire anche con loro.

Quando ero tornata nella stanza. Victor aveva messo via il cellulare, e guardava curioso alcuni miei disegni.. 

– Ti ho mai detto che sei davvero brava a disegnare? - disse, io annuii. 
Non me lo aveva mai detto chiaramente, però me lo aveva fatto capire, incollando i miei disegni al muro bianco della sua parete, e tappezzandola interamente. 

Sotto la sua parete c’era il letto, dove lui dormiva e suonava. Mi diceva che era quello il posto preferito della stanza, ed era proprio lì che amava suonare, proprio sotto ai miei disegni. 

In un certo senso, mi sentivo davvero lusingata da queste sue parole. Mi facevano sentire importante. Poi però, ripensavo alle ragazze che oltre a me c’erano state in quella stanza, alle ragazze che lui aveva scopato senza pensare al dolore che avrebbe mai potuto causarmi. 

– Vorrei tatuarmi un tuo disegno, un giorno. - disse. 
Io sorrisi sarcasticamente, pensando, che non aveva molto senso ciò che lui mi diceva.

Mi tradiva, scusandosi, per poi rifarlo.

Era sempre stato così, passava da una ragazza all’altra, da un corpo all’altro, da un disegno perfetto ad un altro più perfetto. Sarebbe mai stato in grado di tenersi un mio ricordo, sulla pelle, per il resto della sua vita? Scossi la testa

- I tatuaggi sono permanenti. - dissi, come se non lo sapesse.
- E sarà bello in modo permanente. -
- Dovresti esserne convinto. -

Dissi sedendomi sul mio letto, mentre spostavo i miei capelli su una spalla sola, raccogliendoli in una coda di fortuna. Non avevo affatto voglia di essere bella per lui, non avevo affatto voglia di contare qualcosa per qualcuno che dopo pochi mesi mi avrebbe lasciata.

Ma io avrei lasciato mai lui?
No.

Lo guardai implorante, sapevo che non poteva percepire il flusso dei miei pensieri, ma sapevo anche che un qualsiasi altro essere umano dotato di intelletto avrebbe capito che mi sentivo a pezzi.
E l’unico pezzo di cui mi importava davvero qualcosa se ne fregava di me.

Vorrei ricordare che Victor, quel giorno, mi guardò preoccupato, prendendomi il volto tra le mani mentre mi baciava teneramente. Vorrei ricordarlo, perché forse, era l’unica cosa di cui avevo bisogno al momento. Ma non successe, lui mi guardò determinato, mentre io seguivo la sua stupida idea alzando un sopracciglio.

- Lo sono. - disse con una certa nota di convinzione ed offesa, mentre io mi toglievo sbrigativamente i pantaloni infilandomi di nuovo sotto le coperte. 

Lui pensò, probabilmente, che io non avessi sentito la sua risposta, 
e quindi la ripetè, stavolta con meno convinzione.

Eccola, la crepa che sentivo, la crepa che era stata coperta da montagne di bugie.

Non ne era davvero convinto, lui credeva solamente di poterlo fare, perché si trattava di lui. 
Si sopravvalutava in una maniera così infantile, che mi sarebbe potuto dimostrargli, ritorcendogli contro tutti i suoi tradimenti, quanto si sbagliava.

Lo guardai scettica, sarcastica, e magari anche un po’ inviperita. 
- Terresti un mio disegno sul corpo, per il resto della tua vita? Davvero?! -

Lui aggrottò le sopracciglia, guardandomi stupido ed offeso.
La crepa di allargava.

- Che hai? - chiese quasi oltraggiato. 
Odiavo quel tono di voce. Odiavo quando si rendeva conto di quanto fossi arrabbiata per causa sua, ma lui, piuttosto che cercare di capirmi ed ammettere il suo errore, cercava di capirmi, facendomi capire che era colpa mia se stavo male.

Era colpa mia se me la prendevo così tanto.
Era solo colpa mia.

- Niente. - sbuffai dandogli la schiena, in quel momento non avrei mai voluto ingaggiare uno scontro con lui, solo stare tranquilla a letto, a dormire. Mi sentivo così stanca ed arrabbiata.

Lui aveva alzato di poco il tono di voce, chiedendomi stupidamente il motivo del mio comportamento, ma io avevo scosso le spalle, rispondendo in modo spiccio, veloce. 
Non avevo affatto voglia di averci a che fare. Non era una litigata ciò che stavo cercando.

- E allora perché mi tratti così? - chiese lui tutto d’un tratto, io mi girai alzandomi sulle braccia, mentre lo fissavo truce. Davvero?!
- Tu cos’hai fatto fino ad adesso? - chiesi retoricamente, senza lasciarlo parlare. 

Francamente, trovavo che avesse parlato pure troppo, che mi avesse trattato anche troppo male.
Perché faceva così? Perché faceva così solo con me? Perché era convinto, che alla fine, avrei ceduto? In quell’attimo di rabbia, risposi acidamente, tappandogli la bocca con la mano, per non farlo parlare. 

- Hai giocato con il tuo fottutissimo gioco ignorandomi come niente. Continua pure, ora che voglio solo dormire! - dissi.

Lui mi leccò la mano, ed io in tutta risposta me la pulii su di lui, che mi fece distendere ancora sul letto, posizionandosi sopra di me.

Sapevo come disarcionarlo, ma non lo feci, aspettavo un’uscita brillante, una dichiarazione d’amore, una qualche illuminazione divina. Ma le mie aspettative furono calpestate ancora una volta

- Sei gelosa di un gioco? - disse lui, prima di baciarmi. Io lo lasciai fare, cedendo ancora.
- Ti odio quando fai così. - dissi lasciandolo sorridere, prima di baciarmi ancora, ed ancora, prima di insinuare le sue mani fredde sotto la mia canotta bianca.


Avevo ceduto, e molto probabilmente, non ci sarebbe mai stata l’ultima volta. 
Avrei sempre ceduto per prima, perché di lottare, non avevo la minima intenzione. 
Io lottavo già per la vita, tutte le sere, perché dovevo lottare per l’amore, ora che avevo lui?
Perché lui era mio, giusto? Lui mi apparteneva così come io appartenevo a lui, giusto?




Quando chiusi gli occhi, per qualche minuto, non mi ero affatto accorta di averli tenuti aperti tutto quel tempo. Dopo qualche secondo, decisi di riaprirli, quella sembrava proprio una giornata ‘no’, una di quelle che non fai altro che annaspare tra i ricordi alla ricerca di un attimo di felicità, che però, non ottieni. 

Quando li riaprii, mi resi conto che il mio cellulare vibrava, e che qualcuno bussava alla mia finestra.

Non mi ero accorta di quei rumori, forse perché la mia testa era molto impegnata a soffocarmi con sensi di colpa e momenti di debolezza, cosa che incideva sul casino del mio cuore, che pareva momentaneamente assente.

Dove sei, ora che hai la possibilità di ricominciare?

Mi alzai lentamente dal letto, guardando sbalordita la mia finestra, che aprii subito dopo aver realizzato chi fosse la persona alla mia finestra.
Questo entrò, rovesciando aggraziatamente tutte le cose sulla mia scrivania.

- Ma perché dalla finestra?? - gli chiesi.

Castiel alzò le spalle, chiudendo la finestra dietro di se, mentre poggiava sulla scrivania lo zaino che prima portava su una spalla.

- Al campanello non rispondevi, e quando sono tornato a casa ho realizzato che abbiamo i balconi attaccati. - spiegò. 

Io mi piegai a terra per raccogliere fogli e penne che aveva rovesciato a terra, e lui mi aiutò sistemando il porta gioie, il mio quaderno degli scarabocchi ed il cellulare. 

- Ho rovesciato tutto. - ammise, e io la presi come una sottospecie di scusa, come se mi stesse dicendo ‘scusa se ho rovesciato tutto’, quindi annuii, spiegando che non era successo niente di importante.

Non ancora.







Angolo dell'autrice:

Ciao a tutti!
Chiedo scusa per il mio immenso ritardo, ma ho avuto un sacco da fare con la scuola ed una montagna di problemi da affrontare con i miei compagni di classe. Dunque, spero che il capitolo non sia stato troppo noioso, ma avevo idea di presentare un po’ meglio il passato di Fault, prima di passare a miglior vita iniziare le vere avventure a Le Havre.
Dunque, essendo un capitolo di ricordi sparsi, non vi chiedo di tenere tutto a mente, non sono ricordi particolarmente incisivi sulla vita della protagonista, ma se dovessi raccontarli tutti, credo che la mia testa esploderebbe, quindi, ho messo questi per presentarvi (all’incirca) i personaggi ‘cattivi’ della storia, che sarebbero Joe e Victor. So che non sono stati ben definiti nel capitolo, ma..la verità è che non saprei come definirli. Sono persone reali, che non ho mai ben capito come cazzo avessero intenzione di comportarsi…perciò…questo.
Due persone descritte e mosse in base ai miei ricordi, che possono non rispecchiare fedelmente chi fossero quelle persone nella realtà.

Inoltre, i miei peggiori ricordi di affacciano proprio su un periodo confuso della mia vita. Sono successe uno sfacelo di cose, e non…ricordo molto bene nemmeno io come mi sono trovata in determinate situazioni… questo è quanto; ora, logicamente, capirete perché non ci sarà nessuna descrizione dei due personaggi menzionati prima.
Lascerò che siate voi a descriverli (mentalmente), a dare loro una scheda identificativa.
A presto.

Seth_
 

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Capitolo 5
*** Chapter 4 ***


Show me all the things that I shouldn't know.

 
"E il fulmine si vanterà della sua opera."
Bill Manhire
 
 
 

Alzai un sopracciglio incredula. 

Forse avevo sentito male, forse non avevo capito bene cosa aveva detto.

Forse avevo ancora della schiuma di sapone nelle orecchie.

Sbattei più volte le ciglia, focalizzandomi su chi avevo davanti. 
Uno come lui poteva davvero fare una cosa simile? Poteva davvero dire una cosa simile?

Forse era possibile, forse era solo la mia depressione a parlare. Forse ascoltare musica triste, rintanarmi sotto le coperte, e cercare di non piangere su vecchi ricordi mi stava rovinando.

Certo, era sicuramente quello.

Chiunque era capace di fare quello che stava facendo lui, chiunque poteva farlo, perfino io, Joe e Victor. Chiunque poteva svegliarsi una mattina e decidere di farlo.
Sì, e allora perché sembrava così strano?

Suonava come una canzone già sentita, bellissima, di cui ricordi le parole, ma ti sembra strano ricordarle.

- Ne sei sicuro? - gli risposi togliendo la cuffietta dall’orecchio. Lui assunse un’espressione piuttosto normale, prima di alzare le spalle.
- Non te lo chiederei, altrimenti - disse lui togliendosi la cuffietta e spegnendo la musica dal telefono.

Rimanemmo a guardarci per un po’, seduti sul letto, io con le gambe incrociate, i capelli ricci sciolti che solleticavano la pelle nuda delle spalle, e le mani a tenere dei fogli spiegazzati. Castiel aveva la schiena appoggiata al muro, il telefono in mano, e la bustina del tabacco nella tasca, che lentamente, tirava fuori.

- Non puoi fumare in camera mia - gli dissi. Lui sbuffò. Prima di dire che allora saremmo andati fuori a fumare. Annuii, dicendogli che mi sarei vestita prima. Aprii l’armadio, quindi, e tirai fuori una camicia a quadri, che legai alla vita, nel caso avesse fatto freddo ed avevo preso un paio di jeans un po’ larghi. Li gettai sul letto, e lo guardai
- Dovrei cambiarmi -

Castiel alzò lo sguardo su di me, poi sui pantaloni, infine sorrise malizioso.

- Non vuoi cambiarti davanti a me? - disse. 

Io sorrisi maliziosa, e lo guardai alzando un sopracciglio in segno di sfida. Non avrei mai perso contro di lui.
- Ti piacerebbe - sospirai poco lontana dal suo viso.

Ricordavo quanto faceva male, era straziante.


Il suo viso a pochi centimetri dal mio, il suo fiato caldo, che iniziavo a non sopportare, il suo sguardo freddo.

Come potevano due occhi azzurri trasmettere un tale gelo? Nemmeno i miei erano così freddi quando ero arrabbiata, e pensare, che lui mi stava solo chiedendo come stavo.

Mi alzai, guardandolo con più finta sicurezza potevo inscenare, mentre annuivo 
– Sto bene - risposi, tenendomi una mano sullo stomaco. Non faceva poi così male, gli dissi.
Era straziante, pensai.
- Chi cazzo è stato?? - chiese lui rabbioso dandomi le spalle improvvisamente. 
Faceva male. Cazzo, se faceva male. 
Non lo guardai direttamente, fissai il vuoto nella sua schiena muscolosa, i muscoli tendersi.
- Allora?? Chi cazzo l’ha colpita così forte? - chiese lui. Io sospirai, girandomi per andarmene. Il mio piano era andare verso gli spogliatoi, fare finta di niente, dire che non era poi niente, se mi avesse interpellata. Fargli credere che stavo bene, dopotutto, era stato solo un colpo leggermente più forte degli altri.
Joe mi prese per il braccio strattonandomi forte. Era stupido, si lamentava che qualcuno mi facesse del male, quando lui era il primo a farlo. Mi sentivo ridicola. Stavano guardando tutti. La puttanella di Joe, era stata colpita, ed ora qualcuno avrebbe dovuto parlare, qualcuno avrebbe dovuto pagare.

Ma nessuno lo avrebbe fatto.

Nel branco, si è più forti, si ha il sostegno di qualcuno, si è parte di qualcosa, ci si sente più forti. 

Ci si sente diversi.

Io non mi sentivo diversa.

- Dimmi chi cazzo è stato! - disse lui. Lo fissai negli occhi, ignorando quanto stesse facendo male, quanto mi sentiva strano sentire il mio braccio pulsare.
- Non lo ricordo - dissi, mentendo. Lunghi capelli neri, raccolti in una treccia, occhi nocciola, sorriso colpevole, sopracciglia aggrottate. Un’espressione vittoriosa, lunghe unghie sporche di pelle e sangue. Fango, sotto le mie unghie. Avevo stretto un po’ troppo forte il tappoeto sotto di me.

Ora era tutto strappato, mentre mi tirava, avevo sentito pezzi di me staccarsi.

- Mi prendi per il culo?? - strinse più forte, se possibile. O forse ero io che mi sentivo sempre peggio. 
Eccola, la sensazione di capillari che si spezzano. Con la stessa facilità di come si spezza la venatura di una foglia. Fa lo stesso rumore. Ed anche se non lo si sente. Lo si avverte. 
– Ma dove cazzo credi di essere?? - Non lo so.

- Ora ti mi dici chi è stato, e risolviamo la cosa. - sibilò lui. Alzai la testa. Quando la avevo abbassata? Perché con lui era sempre una gara a chi si faceva più male? Perché non potevo io fare del male agli altri senza soffrirne?
Come facevano gli altri? Perché provocavano così tanto dolore senza ricevere niente in cambio? Perché succedeva solo a me?
- Fault, sei viola ovunque. Come cazzo credi di risolvere la cosa? - disse.
- Chiamerò un’amica, e mi farò ospitare. A scuola nessuno farà domande perché coprirò i lividi! -

Io starò bene. Pensai. 

Starò bene quando la smetterai di farmi del male, quando la smetterai di essere così ‘male’ per me. Perché sei tu il mio problema principale. 

Io e te, non dovremmo nemmeno guardarci in faccia.

Perché per te è facile ferire.
Per me no.

- Le diresti di questo posto? A lei lo spiegheresti come ti sei ridotta così? - chiese Joe.

Cosa avrei dovuto fare? Mentire anche a lui? Ancora? Mi volevo davvero così male? 

Ma cosa avrebbe fatto più male?

- Sì - risposi. 

Sentii qualcuno trattenere il fiato, qualcun altro inveire contro di me. 

Sapevo che qualcuno mi stava già maledicendo, e che qualcun altro stringeva i denti, sentendosi in qualche modo tradito. 
- Lo sa già. - dissi. 
Era vero, lei lo sapeva, lei non mi avrebbe mai fatto del male, non mi avrebbe mai tradito.

Non come io avevo tradito loro.

- Traditrice!- urlò Jasmine in mezzo alla folla. 

Quegli occhi nocciola, quei capelli legati in una treccia..

Joe mi mollò il braccio strattonandomi, ed io mi tirai indietro, andando verso gli spogliatoi. 
Verso l’uscita.

Un uscita talmente finta, che ricordava più una porta dipinta su un muro. In trappola, come un topo. Stavo andando verso un altro muro impenetrabile. Cosa c’era fuori dal muro? Chi mi stava aspettando? C’era qualcuno che mi aspettava? 

Joe iniziò a parlare ai membri del branco, alcuni venivano rassicurati, altri venivano calmati.
Scoppiò una rissa, che lui placcò.

Sentiva freddo. Si sentiva tradito anche lui.

Come ci si sente, quando stai andando in fiamme, ma la tua pelle si rizza come venuta a contatto con il ghiaccio?
Brucia uguale, vero?


- FAULT! - mi chiamò Joe, io mi girai su un piede, voltandomi velocemente verso di lui. E se mi avesse attaccata? Lo avrebbe mai fatto? 
A pochi passi da me, lui non dava segno di non volerlo fare. Mi avrebbe caricata partendo da un solo e veloce passo, immaginavo. Ma mi tradì con quell’espressione contrariata. 

- Non voglio un’altra mocciosa sulle spalle. - disse. Gelai.
- Vai alla tana, ne parliamo dopo - sbrigò con un gesto della mano. 

Io annuii, accelerando il passo.

Arrivata agli spogliatoi girai a destra, arrivando agli armadietti color acciaio, rovinati dal sudore, dall’umidità, dai colpi subiti.

- Paura del resto? - chiese una voce dal bagno.

Lei.
Occhi nocciola, pelle olivastra, lunghi e grossi capelli neri legati in una treccia.

Chiuse il rubinetto dell’acqua in un lento gesto. Lei era tranquilla. Asciugò le mani sulle gambe coperte dai leggins grigi, lasciando le macchie più scure, come le impronte di una tigre che segna il territorio.

- Io non ho paura di te. - dissi, e non era una bugia. 
Io non avevo realmente paura di lei, o di qualsiasi altra persona. 
Avevo paura di farmi del male, avevo paura che qualcuno mi avrebbe potuto fare del male.
E lo facevano.

Jasmine sorrise, avvicinandosi a me, io me ne andai, velocemente, verso sinistra, infilando la canotta, la felpa, lasciando le garze che mi ero sfilata dalle nocche sulla panca.
Non era mio compito pulire, il mio compito, per quel momento, era andarmene più velocemente possibile da lì.

- Ma.. Scappi? - ridacchiò la ragazza, io scossi la testa. 

No, il mio orgoglio avrebbe volentieri lasciato cadere lo zaino a terra, la giacca, anche la maglia, e sarei rimasta in piedi, a lasciarmi picchiare, a mostrargli che non sentivo niente di quello che lei mi stava facendo, che non sarebbe mai stato niente, il suo dolore, rispetto a quello che stavo sentendo dentro.

Ma i miei ematomi avevano il controllo delle mie gambe, camminavo, senza sapere dove avevo intenzione di andare, ma ogni posto sarebbe stato lo stesso, uguale, terribile. Ed io ne avevo abbastanza.
Mentre la testa mi imponeva di rimanere e combattere, il mio corpo strisciava verso un’uscita dipinta sul muro. Sospirai pesantemente, mentre, al contrario, velocemente aprivo la porta d’uscita.

E scappavo.




Sbattè più volta le ciglia, io anche.

- Ma stai bene?- chiese lui, annuii, allontanandomi lentamente.

No.
Per niente.
Come potevo stare bene? Io non stavo bene. 
Stavo affogando, ancora, non riuscivo ad uscire da quel buco in cui potevo ogni cosa sopra di me. Intrappolata, non potevo raggiungere le cose che vedevo, ma mi tormentavano.
Mi stava esplodendo la testa.
Aiutami.
Ti prego.


Indicai la porta con il pollice. 
- Aspettami di sotto, arrivo in un attimo- dissi mentre prendevo i pantaloni in mano e mi sedevo sul letto, sospirando. Castiel si alzò dal letto, senza dire una parola, ed uscì dalla stanza, proprio come avevo detto. 

Si girò una sola volta, a guardarmi, lo potevo vedere dal riflesso sulla finestra, ma non volevo girarmi, e guardarlo davvero. Non disse una parola, si girò, e chiuse la porta dietro di sé. Forse, mi dicevo, era meglio così.

Joe chiuse la porta della sua camera passandosi una mano fra i capelli, ci mise un po’ a girarsi, prima di guardarmi. Io chiusi gli occhi, sedendomi sul suo letto. Tremavo tutta, più che per la paura, per il dolore, ma avevo deciso di ignorarlo per un po’.

Joe si parò davanti a me - Guardami - disse alzandomi il mento con la mano. 
Io alzai un sopracciglio, spostando lo sguardo verso destra. I suoi trofei. Lui era un tipo da esibizione bello come il male, forte come un eroe.. peccato, mi dicevo, avesse un pessimo carattere ed una predisposizione malata per l’illegalità.

- Che ho fatto stavolta? - risposi acida, noncurante. Non che non sapessi ‘cosa’ avevo fatto, cosa avevo lasciato fare… ma volevo indisporlo un po’. In quel momento, non me ne importava assolutamente.

- Tu? Niente, è questo che mi preoccupa. - 
- E da quando ti preoccupi per una mocciosa? -

Joe lasciò il mio mento. Io mi sdraiai sul suo letto. Le sue parole avevano fatto male. 
Molto più male di quello che mi sarei dovuta aspettare. 

Io ero fidanzata, giusto? Perché le parole del mio capo mi ferivano così tanto? Forse ero solo paranoica, ma mi sembrava, che Joe fosse sul punto di esplodere, di fare una cosa che non avrebbe mai voluto fare.

Scoprii che avevo ragione, pochi minuti dopo.

Joe si sedette accanto a me. 
- Perché mi rispondi così? - chiese fingendosi dolce.
Io non risposi, costringendolo a continuare - Eh? - disse infatti, io sbuffai, sentendo che si avvicinava, spostandomi una ciocca di capelli dal collo. 

Si mise a baciarlo lentamente, proprio dove sentivo bruciare. Non potevo sapere cos’avevo, ma fingevo fosse un bruciore comune a tutti i lividi restanti sul mio corpo. Mise una mano sulla mia pancia, verso il basso. Joe amava tenere le mani sul mio grembo, ripeteva spesso ‘che era l’unica cosa che di una donna amava davvero’, e per mia sfortuna, io ero quella donna che avrebbe dovuto fargli giocare con il mio grembo. Non che non mi piacesse, quel momento di dolcezza, ma mi stava stretta. Stonava, con la rabbia inquietante che stava provando

-…Non me la sento. - dissi cercando di divincolarmi. 
Joe s’innervosì, prendendomi per i fianchi e tirandomi più verso di sè
- Di fare cosa? - ridacchiò. Quella non era una risata. - Vieni qui. -
- No, non mi va.. -

Sentii qualcosa incrinarsi, forse era solo il dolore generale a farmi parlare, ma io davvero, sentivo qualcosa incrinarsi. 
Boccheggiai, prima di capire che mi trovavo a pancia in su, con la mano di Joe a stringere la mia bocca, ed il suo braccio affianco alla mia testa.
Ringhiava,

- Tu non devi dire ‘non mi va’! -

Misi le mie mani sl suo polso, tringendo più forte che potevo.
Alla fine, la mia, era la stretta pari a quella di una farfalla.
Non contavo assolutamente niente.

- Tu non mi puoi comandare. - soffiai, e Joe si chinò sul mio viso.

Faceva male, averlo così vicino.

- Lo sto già facendo. - rispose serio.

Mi divincolai, sentendo le mie guance creparsi.
Quando prendi una farfalla per le ali, non le senti spezzarsi tra le tue dita?

Mi alzai dal letto, allontanandomi, mentre mi massaggiavo la guancia sinistra, quella presa peggio 
- Tu non mi avrai mai. Non sarò mai davvero parte del tuo branco. - dissi. 

Joe mi fulminò con lo sguardo. Nessuno doveva parlare male del suo branco, nessuno doveva insinuare che il branco non fosse reale.
Nel branco, ti senti più forte.
E lui aveva bisogno di sentirsi ‘più’ forte.

- E' anche il tuo - sibilò alzandosi lentamente dal letto. 
Si mise seduto, come se stesse aspettando qualcosa da me. 
Un momento di debolezza, un momento di tristezza.
Arrendevolezza.
Ma con lui non mi sarei mai arresa.
- No. - sibilai.

Silenzio.

Joe stette in silenzio, alzandosi dal letto e prendendo la felpa azzurra appoggiata alla sedia. 
Se la infilò velocemente, andando poi a recuperare le scarpe sotto il letto.
- Vestiti. Ti porto a casa. -

Strinsi i pugni, recuperando velocemente le scarpe ed infilandomele, superandolo 

- Non sei costretto. - biascicai accelerando il passo.

Joe lanciò qualcosa a terra, io mi girai, sorpresa dal rumore, da quel gesto. Era in piedi, con i pugni stretti, lo sguardo freddo, acceso dalla rabbia. Indicava la porta, con gesto di sfida.

- ALLORA VA’! - sussultai, facendo un passo indietro, mentre lui diventava livido di rabbia. 
I suoi occhi erano inquietanti, parevano vibrare, le iridi erano piccole e pungenti, le vene sul braccio erano in rilievo, e salivano sul collo, sulla tempia. 

-VATTENE!- urlò ancora. 

Io alzai la testa. Sentendo gli occhi farsi lucidi, le guancie diventare rosse. 
Avevo paura, non l’avevo mai visto così arrabbiato. Joe aveva un pessimo carattere, questo lo sapevano tutti, ma con me non si era mai arrabbiato. In mia presenza, Joe era sembre stato controllato, aveva sempre cercato di essere l’angelo del paradiso che tutti dicevano fosse. Ma quell’angelo, era caduto molti anni prima. Joe fumava di rabbia, ed io non ero in condizione di fronteggiarlo. Forse non lo sarei mai stata..

Scelsi di scappare, ancora.

Avevo certamente paura delle conseguenze, della rabbia di Joe. 
Avevo paura si mostrasse per quello che i maschi del branco dicevano che fosse.
Io non sarei potuta mai resistere.
Girai i tacchi, e camminai, aprendo la porta della sua camera e sbattendola dietro di me. 

Dopo quel gesto.
Corsi.

Il nostro primo, vero, litigio.
La prima volta che mi era stato permesso di andarmene. 
La prima volta che davvero me ne ero andata.

Però, non mi aspettavo fosse così, volevo essere felice, mentre attraversavo la porta della palestra, mentre venivo illuminata dalla luce dei lampioni, delle macchine, delle stelle che quasi non si vedevano.

Come la mia figura nella notte, le stelle non si vedevano.
Però, al contrario, le mie lacrime sì.

Perché faceva male? Perché soffrivo di quella liberazione? Perché stavo piangendo? 

Avevo un sacco di domande da pormi, e tutte finivano con quel nome ‘Joe’.
Avevo paura di lui, ma allo stesso tempo, stargli lontana, mi rendeva triste.

Mi rendeva triste che lui non fosse più il ragazzo controllato e gentile, e mi faceva paura questo lato di lui che non conoscevo.
Credevo di conoscerlo bene, ma evidentemente, lui conosceva meglio me.

Joe.



Mi presi la faccia tra le mani, cullandola lentamente, cercando di tranquillizzarmi. 
Perché Castiel mi faceva quell’effetto? Perché mi ricordava lui?
Mi distesi sul letto, inspirando a pieni polmoni.

Era strana quella somiglianza, quel modo di fare, quelle parole, quelle strane e dolci abitudini. Sospirai pesantemente, che anche Castiel fosse come Victor? Che anche lui stesse nascondendo qualcosa di brutto, che mi avrebbe spaventata?

Ero stanca di avere paura, in realtà, ero stanca un po’ di tutto. 
Anche a Le Havre, i ricordi mi tormentavano. 

Forse, mi dicevo, era ovvio. 
Cambiare casa, città, cambiare anche nome magari, non avrebbe cambiato essenzialmente niente. 

Perché non potevo cambiare la mia testa. Non potevo cambiare quello che c’era dentro

Ero solo una stupida ragazzina che cercava di fare l’adulta, giocavo con i grandi, senza sapere cosa stessi facendo davvero. 


Alla fine, la mia vita, era riassunta in quella citazione che avevo ritrovato pochi giorni prima nel testo di scuola: “un vaso di terracotta tra vasi di ferro”.

Scoraggiata ancora, mi alzai dal letto, spogliandomi velocemente, ricordandomi che qualcuno mi stava aspettando appena fuori da casa mia. Era stato un gesto molto carino, il suo, ed io per ricambiare lo stavo facendo aspettare.

Castiel era seduto sui gradini dopo la porta. 
Aveva la sigaretta fra le dita, guardava la strada dopo il giardinetto, poi, la sigaretta spariva dietro la sua testa.

Mi sedetti affianco a lui, stringendo fra le mani un proiettile affilato, vecchio, ma ancora lucido.
- E' un proiettile? - chiese lui indicandolo con la sigaretta, mentre sbuffava fumo grigio. Io annuii.

Piangevo per strada come un’idiota, pensando a quanto facesse male, non a quanto stessi male davvero.

Perché alla fine è questo il dolore, assillante, stupido, pensieroso, atroce. Potrei trovare un milione di aggettivi per descriverlo, tutti, farebbero pensare a qualcosa che ti chiude, come una campana di vetro. 

Ti isola dal mondo esterno. 
E c’è silenzio. 
C’è così tanto silenzio che sembra che la testa stia per esploderti. 
Inizi a chiederti quando finirà, quando potrai avvertire altro, qualsiasi altro tipo di altro. 
Andrebbe bene qualsiasi cosa. 

Mi fermai in mezzo alla strada, girandomi, cercando di vedere la macchina rossa di Joe.
Ma la strada, ora, era deserta. Si potevano solo sentire i miei sospiri mozzati, i miei passi sulla strada, i miei singhiozzi radi.

Ma io, di quel momento, sentivo solo il dolore.

Non era come quello al braccio, all’addome, alle gambe…ma faceva male uguale.
Faceva male esattamente come il resto del corpo. 
Dolorante, pulsante. 
Insostenibile. 

C’era qualcosa, lo ammetto, che mi avrebbe dovuto far capire che non ero sola, che io ed il mio dolore avremmo avuto conforto in un paio di braccia, ma quelle braccia traditrici, avevano le spine. 

Ed io non mi fidavo.
Joe, Victor..

Ne avevo abbastanza.

Ne avevo abbastanza di tutto. 

Della scuola, della famiglia, di quei due.. 

Perché tutti provavano ad avermi? 

Imprigionarmi? 

Io sarei sempre stata altrove. 

Non avevo bisogno di nulla.

Avevo già lei.

La mia migliore amica.
E mi sarebbe bastata lei, per andare avanti all’infinito. Solo pensarla, mi fece sospirare, e trovare le forse per asciugarmi le lacrime, e così feci. 

Mi asciugai velocemente le guance, ed altrettanto velocemente, ripresi a camminare, stringendo nel pugno, un piccolo oggetto di metallo tirato fuori dalla tasca.


Girai il proiettile nella mano.
Volevo si conficcasse nella mia testa. 
A partire dalla tempia destra, fino alla sinistra. 
Doveva conficcarsi, passarla tutta, distruggere tutti i ricordi che c’erano dentro. 

Ogni cosa. 

- Non ricordo come si chiama, però questo tipo di proiettile lo chiamano proiettile fortunato. - spiegai, lui si portò la sigaretta alle labbra
- Che strano- sospirò. 

Io annuii, avevo detto la stessa cosa quando quelle parole erano state dette a me. 
Perché le ripetevo a lui? Non ne ero certa, molto probabilmente, non c’era nessun tipo di spiegazione metafisica. 

Forse ero solo ossessionata da alcuni oggetti. Forse quegli oggetti mi riempivano, e come un bambino con i suoi giocattoli, non potevo semplicemente farne a meno.

Lo guardai per qualche secondo, in silenzio, prima di aprire la bocca per prendere parola. Volevo parlarne con qualcuno, anche se questo qualcuno non poteva sapere nulla di me, del mio passato.

Però volevo che qualcuno lo sapesse.

Non che fosse importante, emozionante, fenomenale… Non avevo mai brillato in niente, e le mie sventure non erano nemmeno state mai così disastrose, da meritare di essere raccontate.

Ma volevo farlo lo stesso.

Castiel mi ammonì con lo sguardo, io inarcai un sopracciglio. 
- Non dirmelo. - disse spegnendo la sigaretta vicino al suo piede -non dirmi chi te l’ha dato. - spiegò di fronte al mio sguardo perplesso.

Mi chiesi il perché, e, tristemente, pensai che forse, non gli importava. Forse avevo davvero frainteso le sue parole, non si era preoccupato per me.

- Non voglio che tu ti metta a piangere mentre lo racconti.- disse lui ad un certo punto, io sbuffai, ridacchiando.

- Io non piangerei mai per una cosa simile. - mentii, forse, ripensandoci, non era troppo una bugia. 

Avevo già pianto, abbastanza, credevo di averne abbastanza. 
Di non poterlo fare più. 
Quindi, continuai, sollevata da quella confessione. 

- Grazie, per avermelo detto, prima-
- Cosa? -
- Che sei venuto perché eri preoccupato per me. - sorrisi, guardandolo.

Spalancò gli occhi grigi, ed iniziò a giocare con la punta dei capelli rossi, che gli nascondevano il volto. Ma potevo vedere, che si mordeva il labbro, che si sentiva in imbarazzo. Che stava arrossendo.

- Non l’ho detto. - bofonchiò, io lo spintonai con il gomito
- Ti… Imbarazza? -

Castiel sembrò riprendersi, leggermente meno rosso sulle gote, con lo sguardo dritto davanti a sé.
- Pff, nei tuoi sogni!- mi rispose. 

Sentii i miei occhi farsi lucidi, e le mie guance tirarsi sempre di più. 
Non riuscivo, in quel momento, a smettere di sorridere.

- Perché ti ha fatto piacere? - mi chiese, io sospirai, guardando il cancelletto marroncino davanti a noi. 
- Perché hai fatto qualcosa. Eri preoccupato e sei venuto a trovarmi. -
- Non ha senso parlare se non ci si può vedere. - si giustificò. -dovremmo tutti usare i sensi contemporaneamente, non un po’ alla volta. - continuò. -che senso ha sentirti al telefono, se non ti posso vedere?-
- Sei una specie in via d’estinzione, Castiel.- quelle parole parvero compiacerlo, perchè sorrise smisuratamente, gonfiando il petto e drizzando la schiena.
- Unico. - disse lui, indicandosi con la mano, come per dare ancora più senso al suo 'unico'. 

Scoppiai a ridere, e lui si finse offeso, chiedendomi perché ridevo di quella ovvietà. 
Sembrava strano, ma ero felice.

Fino a poco prima pensavo a quanto il dolore mi sembrava soffocare, ma poi, con lui, ero tornata a sorridere. Ed erano stati, forse, sorrisi nervosi, parole dette velocemente, un tramonto leggero, come la sfumatura di un acquarello, ma alla fine, eravamo tornati dentro casa, avevamo preparato delle cotolette al limone, delle patate al forno, un sacco di coca cola, e la nostra tavola era pronta. 

Lui aveva, giustamente, fatto dei commenti su quanto fossero dure le mie cotolette, e di quanto lui avrebbe saputo cucinarle meglio. Allora, ridendo, dandoci pugnetti ogni tanto, avevamo cucinato ancora, ed ancora. Fino ad essere completamente sazi.

Dopo una certa ora, mi chiese se quella sera mia zia sarebbe tornata, ed io, un po’ amaramente direi, risposi di no. Mi piaceva quella donna, dal primo momento che mi aveva accolta, fino alla sua partenza per cercare un nuovo lavoro. Inoltre…avevo sempre avuto paura di dormire da sola.

- E così rimarresti a dormire con me? - gli dissi, lui annuì asciugandosi le mani sul canovaccio mentre alzava le spalle, io sorrisi, ringraziandolo mentalmente per essersi offerto, mentre stavamo mangiando.

- I miei stanno spesso via per lavoro, quindi è normale per me stare a casa da solo.. Anche settimane- spiegò Castiel. 

Mi chiesi, come fosse possibile che un ragazzo di diciassette anni potesse stare a casa da solo per così tanto tempo. Non era illegale, o qualcosa di simile? Eppure lui sembrava così tranquillo, rilassato. 

Forse si era semplicemente abituato alla solitudine, o forse non glie ne importava poi molto. Un’altra parte di me, non escludeva l’ipotesi che Castiel avesse un suo branco, che a modo suo, facesse parte di un’altra grande famiglia.

Effettivamente, io non avevo mai scartato l’idea di dover appartenere per forza ad un branco.

Pensai a quanto gratificante fosse la sensazione di dire ‘io ho un branco’ ed a quanto Joe, aveva costruito la sua maschera, il suo ‘io’ su quell’idea. Forse era un’idea malsana, nel modo in cui Joe l’aveva applicata, ma mi convincevo sempre di più, che alle persone, un branco dove rintanarsi, servisse. 

Amici fidati, alleati, una seconda famiglia.

Qualcuno presente giorno e notte, qualcuno a cui non era impossibile niente, pur di proteggerti.
Al contrario, da solo, cosa eri in grado di fare?

- E non hai paura di.. chessò. Ladri, vandali, assassini..? - gli chiesi. 

Castiel masticò bene le mie parole, come se ne stesse cercando un senso. 
Come se uscite dalla mia bocca, dovessero avere un significato più profondo, di quello che sembravano apparentemente.

Mi squadrò per un po’, sorridendo alla fine della sua conclusione
- Hai paura del buio? - chiese sorridendo. 

Io guardai altrove fingendomi scocciata. 
In parte aveva capito. 

Ed anche se una parte di me era dispiaciuta per quella comprensione parziale, l’altra si diceva che ovviamente, lui non poteva sapere nulla del branco di Joe.

- Tsk, certo che no, solo che mi annoio, tutto qui. - mentii
- Invece scommetto che hai paura! - 

Una fastidiosa vocina nella mia testa ripeteva ‘beccata!’ e un’altra rideva di quell’ammissione infantile. Persino Castiel si divertiva dopo quella scoperte. Sbuffai.

- Scommetti male! - ribbattei scocciata dirigendomi verso il soggiorno. Ci eravamo accordati, che Castiel avrebbe dormito sul divano, quindi poco prima, mentre lui faceva i piatti, ero salita a prendere coperte pesanti e cuscini.

Ci sedemmo sul divano, ma non accendemmo la televisione. Forse, eravamo sazi anche per quello.
- Mangi un sacco. - disse lui distrattamente stiracchiandosi – Come fai a non essere grassa? -
- Correzione, io sono grassa. - 

Sì, ero grassa. Ero molto più grassa di quando facevo parte del branco. 
Quanto tempo che non partecipavo ad uno scontro? 
Quanto tempo che oziavo sul mio letto invece di lottare?
Più o meno un anno.

Più o meno da quando mi ero ritirata, per fare contento Victor, per scappare da Jasmine, dalla rabbia di Joe…
Più o meno da quando ero scappata.


Castiel sbuffò sarcastico, talché gli diedi un pugno sul braccio

- Sono una falsa magra! - dissi avvicinandomi a lui mentre appoggiavo le mani sulla sua spalla, ed il mio viso sulla sulle mie mani. Eravamo molto vicini, pensai, ma allo stesso tempo, mi rilassai. Non avevo da stargli lontana, eravamo solo io e lui a casa. Non dovevamo dimostrare nulla a nessuno. E poi…. Avevo bisogno di sentire il calore di un corpo accanto al mio.

Castiel guardava avanti a se, aveva acceso un caminetto, mentre cucinavo le prime cotolette. 
Diceva che quando era piccolo, a casa di suo nonno, ce n’era uno enorme, in giardino, e loro lo usavano per farci le grigliate. 

Io non avevo fatto molte grigliate con i miei nonni, ci avevo passato davvero poco tempo, eppure, abitavano a solo un’ora da casa mia. Mentre lui, a detta sua, prima di morire abitavano con loro.
Mi chiesi perché quando lo diceva sembrava così triste.

- Tu sei una falsa felice, è diverso. - chiarì il rosso. Mi sembrò assurdo.
-..Cosa? - feci per chiamarlo, quando iniziò a parlare lui, per primo
- Ti fingi felice, disponibile, sempre allegra… Ma non lo sei. - disse. –Anche a scuola. Quando aiuti gli altri.. si vede che ti sforzi- spiegò. 

Sentii l’aria venire meno, le mani tremare, la sudorazione aumentare. E mentre una voce, nel cuore, sembrava dirmi ‘è lui, è lui’ un’altra, nella testa, mi ammoniva ‘ricordati’ diceva, ed io, non potevo che sentirmi persa, seduta sul mio divano, a guardarlo.

Quegli occhi così grigi, quelle labbra che si muovevano velocemente, quelle parole che uscivano, aria, che non potevo sentire davvero.

- Aiuti gli altri, nella speranza di essere aiutata, ma nessuno lo farà. - continuò. 

Quelle parole mi parvero talmente tanto assurde, che sorrisi sarcastica. O forse no, non sapevo spiegare quello che provavo, e forse non saprei spiegarlo nemmeno adesso. Ma mi sentivo come se stesse dicendo delle assurdità, che però mi colpivano. 

Che stesse svelando nuove parti di me che non conoscevo? Poteva anche essere, comunque fosse, quelle nuovi parti di me non mi piacevano. Sembravo debole, piccola… insignificante. Ero davvero così?

– Quindi smettila di fare la finta gentile con chi non ti piace. - disse sbuffando. 

Stava chiaramente parlando di qualcuno che non piaceva a lui, ma non avrei mai saputo dire chi, essendo lui un ragazzo dal carattere piuttosto difficile, odiato da principalmente metà scuola. Avrei dovuto ricordarmi questo particolare più avanti: Castiel non piaceva a nessuno

E sebbene lo sapessi per i fatti, a parole, nessuno aveva mai avuto il coraggio di dirlo. Come se si sentissero in colpa. Come se sapessero di essere nel torto.

Senza che me ne accorgessi, eravamo vicini. Le mie mani sulla sua spalla, il suo volto a sfiorare il mio, la sua espressione corrucciata così vicina, da poter contare le rughe espressive del suo volto. La luce nei suoi occhi pareva vibrare, esatto. Castiel vibrava. Era una di quelle rare occasione, per cui chiunque si scioglierebbe. Quell’umanità, nei suoi occhi, quella naturalezza quasi innaturale per lo stereotipo che lui dava l’impressione di essere, era totalmente fuori luogo. Però mi piaceva.

E come un fulmine a ciel sereno, arrivò la rivelazione.
- Altrimenti confonderai le persone a cui piaci.

Silenzio.
Cazzo.

Deglutii a vuoto, sentendo il mio battito cardiaco aumentare, così come la sudorazione sulle mani, che per imbarazzo, si allontanarono fulmineamente dalla sua spalla, aggrappandosi alla superficie del divano. E c’era qualcosa di miracoloso in quell’accaduto: credevo che mai più, il mio cuore avrebbe battuto così forte per qualcuno che non era Victor.

E poi, l’ennesimo fulmine.
Mi era mai battuto così forte il cuore, con Victor?

Non riuscii nemmeno a pensare a quella risposta negativa, che mi spostai da Castiel, tenendo una mano davanti alla bocca.

- Non posso.. - dissi cercando di essere il più convinta possibile.  –io… Sono già fidanzata con un ragazzo… A Parigi.- spiegai. 

Non seppi spiegare il motivo, ma mi sentii morire.

Castiel aprì gli occhi, e li sbattè più volte, cercando di capire se stessi mentendo o meno, ma forse, il mio volto incrinato dal dolore, parlava per me. Cercai di sorridere, forse, avrebbe alleviato la tensione, ma la risposta fu alquanto scioccante. 

Castiel corrugò la fronte, prima di sporgersi in avanti e baciarmi.

E fu il bacio più deludente della mia vita.

Quando ci staccammo, sentii chiaramente il bisogno di baciarlo per davvero. Perché non era possibile che stesse ghignando soddisfatto di una mia reazione positiva al suo test. Non era possibile che si fosse tolto la felpa usandola come coperta mentre si sistemava comodamente sul mio divano.

- Allora sei una pessima fidanzata. -

Lo guardai scocciata, oltre ad avermi ingannata, ora prendeva in giro perfino il mio onore? Non potevo sopportarlo, lo guardai truce assumendo l’espressione più contrariata che conoscessi.
- Come prego?! - squittì senza nemmeno accorgermene. Non riuscivo a controllarmi, ogni fibra del mio corpo tremava oltraggiata dal suo comportamento e dalle sue parole.
- Quale fidanzata per bene vorrebbe mai baciare un altro ragazzo? -

Feci per ribattere qualcosa, ma le sue parole erano maledettamente vere. 
E di fronte ad una verità così lampante, non avevo da ribattere. 
Semplicemente, mi sembrava insensato tutto ciò. Ed aveva ragione.

Perché, semplicemente, non era possibile che mi avesse baciato a lato della bocca, per dimostrare a me, più che a se stesso, che ne volevo ancora. 
Che io volevo lui, e non Victor. 

Che cazzo di mente contorta era? Cosa voleva veramente da me?? 


Non dissi niente, semplicemente, mi alzai indignata dal divano, chiudendo la luce del salotto mentre salivo le scale per accedere alla mia stanza. Non appena aprii la porta della camera, lo sentii ridacchiare una ‘buonanotte’. Sbattei la porta.

Tsk, ormai era un rito farlo, quando ero nervosa.

Mi spogliai velocemente, infilandomi il pigiama e prendendo il mio pelouche preferito, infilandomi sotto le mie coperte, avrei voluto tanto scendere di sotto e picchiarlo, sbatterlo fuori da casa mia a calci, e barricarmi fino a dimenticare quello stupido gesto infantile.

Però, quella notte, la passai a toccarmi l’angolo delle labbra, sorridendo. E come une menomata mentale, più sorridevo, più mi scocciava farlo. E non potevo controllarlo.

Semplicemente, iniziavano davvero a starmi sui nervi. Lui ed il mio stupidissimo sorriso.

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