His secrets' keeper.

di daisyssins
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** In The ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Prologo.
 

Erano le due di notte quando bussò alla mia porta per quella che, poi, sarebbe stata l'ultima volta. Solo che io allora mica lo sapevo. Quella notte mi limitai ad ascoltare i tre colpi secchi contro la porta, lasciandomi scappare un sospiro scocciato, anche se in realtà ero felice. Ero sempre felice, quando veniva Ashton. Ed Ashton non veniva quasi mai, quindi quella notte – dopo aver dato uno sguardo all'orologio e constatato che erano le due – la preoccupazione si impossessò di me, facendo tremare la mia mano che, svelta, aprì la porta bianca e rovinata del mio appartamento.
Stetti per un attimo lì, nell'oscurità, a cercare di indovinare qualcosa dei lineamenti che tanto mi piacevano, anche se a lui non lo avrei detto mai: il profilo del naso dritto, i capelli dorati tenuti indietro da una bandana rossa, gli occhi verdi screziati di miele che, col buio, sembravano scuri, si confondevano con la notte. Accennai un sorriso. Era bello, Ashton, ma i suoi occhi erano sempre così freddi, e le sue labbra sorridevano così di rado, ed io gli volevo bene, ma bene davvero, e lui questo non lo sapeva. Che avrei fatto qualsiasi cosa, perché sorridesse di più. Ovviamente non glielo avrei detto mai.
«Allora? Che c'hai di così importante da rompermi alle due di notte?» esordii, fingendomi più scocciata di quanto realmente fossi. Era così che funzionava, con lui. Alla durezza era abituato, era la gentilezza che gli creava qualche problema.
Lui scrollò le spalle. «E dai come la fai lunga te, eh» si lamentò con una smorfia. «Uno non può neanche venirti a trovare? Tanto lo so che eri sul letto a non far nulla, che non dormi mai, tu. Dai, mi fai entrare o stiamo qui tutta la notte?»
Abbassai la testa, ridendo tra me e me. Certe cose non sarebbero mai cambiate. La sua bandana rossa, per esempio, o l'odore di nicotina dei suoi vestiti. Tra queste cose c'era di sicuro il suo atteggiamento spavaldo, sfacciato, strafottente, che invece nascondeva la persona migliore che avessi mai conosciuto. Che poi non ci fosse tanta brava gente da conoscere, nella periferia di Melbourne, era un altro discorso. Mi scostai aprendo di più la porta, incoraggiandolo ad entrare con un cenno della testa. Lui borbottò un “era ora” tra i denti che gli guadagnò uno schiaffo dietro la nuca da parte mia, per poi sgusciare in fretta all'interno dell'appartamento e correre a gettarsi sul divano un po' vecchio e sfoderato, che gli aveva fatto da letto tante di quelle notti che non avrei saputo contarle. Io riempii una tazza di caffè nero, mi avvicinai e gliela porsi prima di prendere posto accanto a lui, accovacciandomi a gambe incrociate.
«Allora, adesso me lo dici com'è che sei qui a quest'ora?» ripetei paziente.
«Come se l'orario fosse mai stato un problema.»
«Sto aspettando.»
Ashton sospirò. Gettò un'occhiata veloce al di là della finestra, verso la strada buia, poi tornò a piantare il suo sguardo nel mio, con aria circospetta. «Non riuscivo a dormire.» esalò poi, prendendo un lungo sorso dalla tazza.
Se fosse stato chiunque altro ci avrei creduto. Se fosse stata, per esempio, Becky, la mia migliore amica, avrei saputo cosa fare: prendere una coperta, un bicchiere d'acqua e dieci gocce di valeriana, e poi cederle il mio letto fino al mattino dopo. Ma lui era Ashton, e con lui non sapevo mai cosa fare. L'ultima volta lo avevo visto un mese e mezzo prima, ad una corsa clandestina di moto al “canyon”, il ritrovo così definito perché solitario e circondato da montagne brulle.
Lui era Ashton, e “non riuscivo a dormire” non era una scusa, perché non dormiva mai neanche lui, e mai era neanche stato un problema. Lui era Ashton, e non si sarebbe mai presentato a casa mia, nel bel mezzo della notte per giunta, perché non riusciva a dormire.
Afferrai un cuscino azzurro, il primo che capitò, e glielo lanciai contro. Provai a buttarla sul ridere, quella volta, che se avessi affrontato la questione con troppa serietà avrei ottenuto solo il suo solito silenzio.
«Trovane una migliore, capo, questa non funziona.» lo presi in giro, fingendo una risata che risultò naturale, che strappò un sorriso anche a lui.
Si strinse nelle spalle, scuotendo la testa. «Non c'è un motivo particolare, a dire il vero. Stavo camminando per strada e ho visto la luce della tua stanza accesa, e la finestra aperta. Avevo solo voglia di vederti.» mi rivolse uno sguardo breve, prima di proiettarlo di nuovo oltre i vetri.
Annuii. Insistere non avrebbe portato a nulla. Sapevo che neanche quella era la verità, o magari non tutta, ma con Ashton era così, ed io lo sapevo: dovevi accontentarti delle briciole che ti dava, quel minimo indispensabile per non farti morire di fame, e se non ti fosse andato bene non avresti ricevuto più neanche quello. Quindi, ancora una volta, accettai le sue parole per buone e dissi che sarei stata bene così, con mille dubbi e lui che non mi guardava, e una tazza vuota che – il mattino dopo – sarebbe rimasta come unica testimone della sua presenza in casa mia, quella notte.
Ashton mi lanciò un lungo sguardo dubbioso, carico di tensione, poi – lentamente, come temendo di spaventarmi – si allungò sul divano, distendendosi con la testa sulle mie gambe. Mi lanciò un'ulteriore occhiata: “va bene?”.
Non risposi alla sua domanda muta. Non lo sapevo, se andava bene. Sapevo solo che la cosa più giusta da fare fu, in quel momento, lasciare che chiudesse gli occhi e si addormentasse, mentre io gli accarezzavo i capelli e mi chiedevo, guardando fuori, cosa lui vedesse in quella notte come tante altre.
Quella fu l'ultima volta che lo vidi.
Questa, signori, è la storia di come Ashton Irwin è morto.




#NdA
Hey...
sì, sono di nuovo io. Avevo definitivamente lasciato EFP, infatti per più di un anno non ho scritto né letto altre fanfiction, e - per chi mi seguisse prima - mi dispiace di essere scomparsa così. Ho avuto bisogno dei miei spazi, del mio tempo per dedicarmi alla scuola e ad altro, e per un po' tutto il tempo passato qui è caduto nel dimenticatoio.
Poi è successo che, a scuola, mentre fantasticavo mi è venuta in mente una storia: nella mia testa c'era tutto, i personaggi e il loro carattere, il numero di capitoli, la fine. E quindi, dopo più di un anno, ho deciso di fare la pazzia di tornare a scrivere.
Dunque eccomi qui, con una nuova storia che spero possa incuriosirvi almeno un po', a dispetto del prologo breve: i personaggi qui saranno completamente diversi rispetto alle persone di cui ero solita raccontare nelle mie vecchie storie, e immagino questo lo noterete se vi andrà di leggere.
Penso che il nuovo capitolo non si farà attendere troppo, credo che farò come ho sempre fatto, un capitolo a settimana, se tutto va bene. Prometto di non abbandonare anche questa.
Un abbraccio, ringrazio chiunque sia arrivato fin qui, e tutti coloro che hanno letto.
Ida.xx

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Capitolo 2
*** In The ***


1. In The "Canyon" You Die



Giugno 2012.





Avevo sempre pensato, come ogni studente, che la campanella dell’ultima ora fosse sì qualcosa di magico, ma che quando suonava per l’ultima volta, prima di lasciarti all’estate, il suo suono fosse addirittura poetico, soave.
In estate poteva accadere qualsiasi cosa.
Gli amori che non durano mai più di due mesi, le corse fino alla riva per poi accorgersi che il mare è troppo freddo, e desistere; le sbronze prese in spiaggia all’una di notte, con la luce lontana dei lampioni e un paio di chitarre per intrattenersi, e una sigaretta a riscaldarci dal vento leggero che sale dal mare.
Era il mio primo giorno effettivo di estate.
Sarebbe dovuto essere caldo, bello, con quell’atmosfera elettrizzante che preannuncia tutto, dall’odore polveroso dell’asfalto cotto al sole al profumo del mare, al sapore delle birre e il rumore dell’aereo che ti porterà lontano.
Era effettivamente estate per tutti, quel giorno. Non per me. Io guardavo il mio riflesso allo specchio, e i miei occhi erano cerchiati da pesanti occhiaie, ed erano gonfi e rossi. Nessuno, però, lo avrebbe saputo.
Non ero il tipo che si lamentava facilmente, e i fatti miei li tenevo per me, ma non per una facciata da “dura”, per far vedere di essere forte. Io li tenevo per me solo perché non avevo ancora trovato la “mia” persona. Sognatrice fino al midollo, con la testa fra le nuvole, sognavo ancora un amore da favola, e non quello del principe sul cavallo bianco che arrivava a salvare la principessa: anzi, io non ero affatto una principessa, non avevo bisogno di essere salvata da nulla se non da un’interrogazione difficile a scuola. No, il tipo di amore che io avevo in mente era diverso, era quello incondizionato e un po’ infantile, quell’amore libero che ti fa credere di poter volare.
Quel giorno però io non riuscivo a pensarci. Riuscivo solo a guardare il mio riflesso nello specchio, e il mio volto si scomponeva davanti a me e improvvisamente ero di nuovo bambina, e sorridevo mentre giocavo nel fango, e poi ero sull’altalena e di sicuro non avrei mai immaginato che un giorno anch’io sarei dovuta crescere.
Non avrei mai immaginato che, un giorno, quella che era sempre stata la mia famiglia perfetta, il mio angolo di paradiso, sarebbe scomparsa nell’oblio più totale.
Sospirai pesantemente, strofinando la felpa sugli occhi umidi, che lasciarono piccole tracce sul tessuto.
Mio padre se ne andava di casa. Mio padre, che da piccola mi aveva insegnato che dalle difficoltà non si scappa; l’uomo che mi era stato vicino quando volevo imparare ad andare in bici, ma non ci riuscivo, e mi aveva dato forza e il coraggio necessario a perseverare. Mio padre quello sorridente, mio padre lo svampito, l’uomo dei libri di psicologia e dell’ultima parola, dell’ultima carezza prima di andare a dormire.
Alla fine neanche lui aveva retto il colpo. E certamente, vivere in una città grande come Melbourne e dover affrontare il lutto di una persona cara non è facile. Lo sapevo io, che avevo perso qualcuno, come lui, che avevo perso mio fratello.
Era morto in una di quelle stupide corse clandestine di motociclette. Era morto al “canyon”, in mezzo alla polvere, in un luogo privo di natura, sotto gli occhi sgomenti di tutti quelli che puntavano su di lui, che in lui credevano. Il punto era che nessuno se la aspettava, questa cosa delle corse. Il nostro Ed era una persona tranquilla, credevamo. Lo studente modello, l’amico perfetto, capitano della squadra maschile di pallavolo del liceo. Prima di tutto, però, era la mia ancora: era il mio punto fisso, la persona alla quale mi rivolgevo quando combinavo le marachelle, e non sapevo come risolvere senza essere scoperta dai miei. Eppure io restavo. In quella casa così vuota, dove tutto urlava la sua assenza, dove il continuo cantare di mia madre si era trasformato in un silenzio assordante, io restavo. E ci sarei rimasta ancora per molto.
«Complimenti, papà» pensai tra me e me, accennando appena un sorriso «alla fine, hai visto? Ho imparato bene la tua lezione. Non sono io che scappo, papà. Io resto. Andrò avanti così.»
Uscii dal bagno cercando di fare il meno rumore possibile, chiudendomi lentamente la porta alle spalle, sperando di non svegliare mia madre.
Eppure, neanche un attimo dopo la sentii sussultare, e la sua voce sottile, bassa e tremula che sussurrava nel buio «Ed, sei tu? Eddie, sei tornato?».
Strinsi i pugni. Aspettai in silenzio l’attimo in cui si sarebbe accorta che no, non era mio fratello che andava in bagno nel cuore della notte perché sonnambulo, come accadeva spesso, e che non sarebbe accaduto mai più. E infatti arrivò in fretta il suo singhiozzo spezzato, e il rumore del suo pianto che soffocava nel cuscino. In questo era come me, mia madre. Cercava sempre di non far pesare agli altri i suoi problemi, piangeva da sola, e poi davanti a me tentava una facciata tranquilla, serena. Non voleva causarmi altro male. Ed io, ingrata, in quel momento riuscii solo ad arrabbiarmi con lei. Avrei voluto che reagisse, che la smettesse di illudersi e che andasse avanti. Ma non dissi nulla. Mi limitai a tornare nella mia stanza con il soffitto basso, e le travi a vista, raccogliendomi sul mio letto sfatto sul quale non dormivo da quasi trentasei ore.
La terza notte di veglia.

 

 

 

«Come stai?»
Gli occhi chiari di Michael mi scandagliavano, come a voler cogliere qualche sintomo di pazzia o di un imminente crollo psicologico dal modo in cui avevo abbinato i colori quella mattina. E sì che il nero e il marrone non andrebbero accostati, però fino a quel punto…

Feci un sorrisetto e «In piedi» risposi ironicamente «anche se, sai? Mi piacerebbe sedermi. Stiamo camminando da mezz’ora.» lo guardai perplessa, incitandolo con lo sguardo a dirmi dove mi stesse portando.
Alle nostre spalle c’era solo vegetazione fitta, alla nostra destra il mare che batteva impetuoso contro la scogliera. Non mi aveva mai portato lì, Michael, e se lo stava facendo proprio quel giorno voleva dire che c’era qualcosa di davvero importante in mezzo.
Accompagnava sempre i suoi discorsi solenni con gesti altrettanto solenni. Come condividere con me uno dei posti che riteneva “suoi”: angoli che lui scopriva durante i suoi vagabondaggi, nascosti alla maggior parte delle persone, paradisiaci per una persona come lui.

Un solitario, e una persona intelligente; un amante del mare, e anche del rischio. Uno studente di biologia in continuo contrasto con il mondo intorno a lui. Una persona particolare, Michael, con i suoi capelli rosso fuoco e i piercing, e le t-shirt dei Green Day risalenti al periodo della sua prima adolescenza.
«Simpaticissima, Reb.» commentò con una smorfia.
«Simpatia è il mio secondo nome.»
«Non ne sono sorpreso» mi prese ancora in giro.
Continuava a guardare il sentiero, e poi il mare e ancora la strada già percorsa, ma mai me. Forse credeva non me ne fossi accorta, forse sperava non me ne accorgessi mai, forse sapeva che non mi sarebbe sfuggito: io mi limitai a piantare bene lo sguardo sul suo viso, cercando di cogliere una qualsiasi espressione che potesse portarmi alla comprensione di cosa gli passava per la testa. Michael scrollò le spalle come se avesse voluto scacciare via il mio sguardo insistente, poi fece spazio attraverso alcuni rami bassi, prima di arrestarsi.
Eravamo in una semplice pianura, di quelle verdi e splendenti che sembrano lontane da qualsiasi posto. Mi lanciò un breve sguardo, sorridendo.

«Cazzo, Michael, questo non dovevi tenermelo nascosto, è meraviglioso!» corsi un po’ più avanti, aprendo le braccia e lasciando che il sole mi inondasse.
Era bello sentire il calore addosso. Mi dava una parvenza di tranquillità, di felicità.
«Lo sapevo che ti sarebbe piaciuto. L’ho trovato la settimana scorsa.»
Annuii, poi mi voltai verso di lui. «Allora, ora mi dici di cosa devi parlarmi?»
Michael fece una smorfia. «Deve per forza esserci qualcosa?»
«Sì. Andiamo, confessami i tuoi peccati, fratello.» ingrossai la mia voce e la resi solenne per strappargli un sorriso, spezzare la tensione percepibile che lo attanagliava.
Si passò una mano tra i capelli, a disagio. «Ecco, in effetti c’è una… una cosa. Ho paura che mi odierai, dopo che te ne avrò parlato.»
«Non mi piace l’odio, è un sentimento troppo esagerato e spesso sopravvalutato, e di sicuro non potrei odiare il mio migliore amico.»
Lui annuì, stringendo le labbra in una linea dritta. «Uhm, ecco, io… io ho deciso di iniziare a correre al canyon.»




//NdA
Ehi, sono tornata, sì.
Non so se qualcuno leggerà questa storia, non so se a qualcuno interessa, ma io ho bisogno di scrivere e lo faccio.
Se sei arrivato fin qui, so che questo capitolo sembra non avere alcun legame con il prologo, ma si capirà tutto man mano. In questo primo capitolo siamo tornati indietro di un anno, e Michael è il migliore amico della nostra protagonista, Reb, Rebecca.
Io lui lo adoro davvero tanto, come personaggio, e spero di riuscire - nel corso della storia - a farvelo apprezzare quanto lo apprezzo io.
E... nient'altro da dire, credo.
Alla prossima, xx

 

 

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