La Ballata della Guerra e dell'Amore

di Ciocciola
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Intro ***
Capitolo 2: *** L’inizio ***



Capitolo 1
*** Intro ***


Intro

Il promontorio del Monte si allungava sfavillante e inondato di una luce vivida in quella giornata di fine Primavera. L’aria fresca iniziava a lasciar spazio a un’umidità fastidiosa, il calore del sole arrostiva le pietre rosate e l’erba verde, dapprima d’un verde intenso, in alcuni punti già iniziava a dorarsi; l’acqua del mare, ai piedi delle possenti rocce vulcaniche, si cullava dolcemente sospinta dai tiepidi venti estivi. Non era ancora mezzogiorno, eppure l’aria era già soffocante.
    Lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli, il rumore delle ruote dei carri, il vociare degli uomini felici di far ritorno nelle loro terre; era il suono di una guerra terminata e durata troppi anni, da quando quegli uomini avevano memoria il loro paese non aveva conosciuto la pace. Adesso, col sole sopra le loro teste, i raggi del sole a illuminare le armature e le spade usurate, avevano i cuori leggeri e sotto le barbe scure, incolte, i sorrisi facevano capolino. A guidare quel cordone di uomini che percorreva il Decumano Sud, un sentiero che si snodava per oltre novanta miglia, c’erano due soldati. Il primo avanzava sul dorso di un cavallo dal manto chiaro, le bardature scure e finemente ricamate; l’armatura visibilmente ammaccata era un lontano ricordo del gioiello che fu, prima della guerra, così come la fierezza ormai appassita negli occhi stanchi. Il secondo – visibilmente più giovane ma dall’età indefinibile – calcava un giovane puledro dal manto scuro, dal sangue forte, la criniera folta e le zampe possenti; il volto scavato ma sereno, gli occhi stanchi ma pieni di vita, le labbra tese in una smorfia che avrebbe voluto assomigliare a un sorriso. - Quando saremo arrivati – disse il primo dei due, il più anziano – per prima cosa, prima ancora di andare a casa dalla mia signora, voglio andare a sbronzarmi di vino e donne – La voce baritonale risultava chiara nonostante i rumori provenienti dalle loro spalle, la voce di uno che sa cosa sia il comando. – Sono stanco di tutta questa merda, di questa guerra -. L’altro si limitò ad annuire in silenzio, come se in realtà non gli importasse di avere una conversazione con lui. Non davvero. Un’alzata di spalle concluse così la conversazione, un colpo di talloni fece avanzare il cavallo baio a un trotto leggero, ma abbastanza veloce da permettergli di allontanarsi dal gruppo di soldati. Gli occhi del giovane soldato scrutavano ansiosi l’orizzonte, l’oceano correva ad ovest, la pianura di apriva ad est e a nord avrebbe dovuto finalmente trovarsi casa sua; una casa fatta di umili  pietre, un modesto orto che il padre anziano curava con amore e pazienza. Il cuore gli scoppiava di dolore, per le cose che aveva visto, per le cose che aveva fatto e per le cose che ancora avrebbe dovuto fare, una volta tornato.
- Non essere in collera con te stesso, Robert – La voce del suo compagno d’armi, nonchè maestro, lofece voltare di scatto. Il volto anziano e saggio si era sciolto in un sorriso paterno e i cavalli si erano nuovamente affiancati. – E’ la guerra, ragazzo mio. Fa male la prima volta, alla seconda ti sei già abituato e infilzare un uomo o un agnello non farà più così differenza-.
- Erano donne, Joshua. Madri, mogli e sorelle, come quelle che attendono noi. Non cercare di farmi sentire meno in colpa, credo che ormai non ci sia altro modo per espiare le mie colpe che rinunciare per sempre alla poca felicità rimasta in questo mondo.- Parlava con aria mesta il giovane, d’una bellezza antica e vigorosa, come gli eroi delle leggende aveva i capelli chiari, gli occhi d’un azzurro profondo e un’anima delicata. – Mi sono arruolato per combattere e vincere con onore i miei nemici. Che onore c’è, nel trucidare delle donne indifese? Bruceremo all’inferno, per questo.-   Calò nuovamente il silenzio tra i due, lungo e fatto di sospiri.
    Erano da poco passate le due del pomeriggio quando l’esercito, o quel poco che ne rimaneva, si lasciò alle spalle il promontorio per inoltrarsi in una radura verdeggiante. La foresta si estendeva per ettari, fitta e segreta, composta da querce dal tronco scuro e dalle foglie dorate; alcune leggende raccontavano che in un tempo lontano in quella foresta si potesse respirare l’aria più pura della terra, ascoltare il suono dolce del vento che cantava al cielo, ma adesso pareva solo una vecchia foresta, stanca di vivere la sofferenza di quel mondo morente. La luce filtrava dalle chiome fitte, qualche raggio di sole si insinuava tra i rami spessi, l’ombra dava refrigerio a quegli uomini stanchi, dai cuori pesanti. Il sentiero, che per qualche centinaio di metri si era snodato dritto attraverso il bosco, aveva preso ora un’andatura curvilinea e adesso risultava più cupo, più opprimente; l’aria si era fatta umida, pregna dell’odore dell’erba marcia, e nessuno più dei due cavalieri avrebbe voluto uscire da quella cappa. I cavalli avanzavano sotto costrizione dei loro padroni, i carri che trasportavano i feriti e i più deboli dovevano fare i conti con i sassi e buche, segno che da molto tempo nessuno percorreva più quella via.
     Il brusio delle voci, prima animato e allegro, piano piano scemò in un silenzio inquietante. I soldati dalle armature usurate, grige, sporche di fango e sangue, si guardavano attorno guardinghi.
- E’ la foresta del demonio, si sa – diceva uno.
- Sì sì, si sa. – rispondeva l’altro.
- Troveremo la morte o la pazzia. Nessuno si è più inoltrato qui dentro, da molto tempo – spiegava colui che pareva saperne più degli altri, e che cercava di mettere in guardia i compagni da fantomatiche streghe, elfi dall’aspetto maligno e spettri dalle sembianze di bellissime donne -.Robert non lasciava al suo cuore la possibilità di avere paura, aveva affrontato così tanto – morte e rimorso – che le poche leggende su quelle terre non potevano impedirgli di tornare a casa. Stringeva le redini più strette di quanto sarebbe stato necessario, un colpo di reni per assestarsi sulla sella. Il sudore che gli bagnava la fronte correva lungo le guance bruciate dal sole, la barba incolta aveva ricoperto la pelle giovane e fresca; Joshua al suo fianco sembrava invece molto rilassato, si lasciava portare dal suo destriero con aria incurante. Probabilmente solo il suo corpo era lì, la mente già galoppava verso le braccia di un’amorevole donna che lo stava aspettando al di là di quei luoghi oscuri.
    Quel che non sapevano, ciò che i loro cuori ignoravano, era che la loro assenza aveva portato nelle terre una volta sicure e piene di luce qualcosa di ben più oscuro della guerra. Nelle lontane brughiere da cui provenivano si era diffusa una malattia oscena, che strappava i figli in fasce alle madri, gli amanti si disperavano alla perdita del loro amore, non si vedevano tanti orfani dai tempi in cui ancora regnava il Caos. Il male del mondo aveva strisciato nell’ombra, aveva atteso paziente la partenza degli uomini valorosi per poter diffondersi senza ostacoli, e adesso aveva preso le sembianze di una creatura spaventosa; si mormorava che a Nord – oltre le Montagne Rocciose, oltre il  Fiume Azzurro, oltre il Grande Tempio – aveva trovato rifugio un uomo. Per quanto le sue sembianze fossero tali, il suo cuore era duro come la pietra, l’anima putrida, la suo voce veleno e – come un serpente che colpisce per uccidere – anche lui aveva riversato la sua volontà nera nei cuori degli uomini deboli, trasformandoli in demoni. C’era chi li chiamava Spettri. Chi li chiamava Non Morti. Chi li chiamava semplicemente mostri. Vagavano per le città, per i villaggi, sterminando e seminando terrore, rapendo le donne, uccidendo i bambini. Le teste di coloro che avevano provato ad opporsi facevano da baluardo sulle picche all’ingresso dei villaggi. Queste cose non avevano più nulla di umano, gli occhi vacui e privi di ogni vita erano il loro biglietto da visita. “State attenti a non vedenti”, dicevano i più anziani. “ Non avventuratevi di notte nei boschi, non lasciate le vostre donne uscire di casa senza adeguata protezione, chiudete le vostre figlie nei templi dei Grandi Dei”. Ignaro di tutto questo, Robert avanzava verso la casa che non sapeva di non avere più. Non avrebbe mai saputo che il padre aveva combattuto per difendere la sua piccola proprietà, non avrebbe saputo che il suo corpo era stato dato in pasto ai mastini degli Spettri, con quanto valore avesse difeso la sua umanità.
- Joshua – la voce di Robert si era come affievolita, un sussurro nella foresta che riecheggiò come ungrido nel silenzio surreale. – Hai sentito? – Alla ricerca di quella risposta, il vecchio soldato impose al suo cavallo un stop repentino, le orecchie tese nella penombra cercavano di captare un suono molesto, una voce in lontananza, qualunque cosa che potesse indicargli la presenza di qualcuno. Robert gli stava accanto, il suo cavallo pure immobile, il cuore nel petto martellava senza sosta; anche se il suo compagno gli avesse dato una risposta negativa, lui era sicuro di aver sentito qualcosa. Non per forza udito. Ma avvertito. – Sono sicuro di aver sentito qualcosa, sono stanco, ma il mio cuore e le mie orecchie non si sono mai sbagliate. C’è qualcuno qui. Non siamo soli. –.
- Se qui c’è qualcuno – brontolò Joshua in risposta – non ci faremo cogliere impreparati, ragazzo. Siamo un esercito di ritorno da molte vittorie, abbiamo armi e coraggio a sufficienza per ogni nemico che volesse impedirci di attraversare questo bosco. Non avere paura, gli dei ci prote...- .
Il silenzio si impose con violenza. Gli occhi sbarrati di fronte a sè, la bocca schiusa in un’espressione mista di terrore e sorpresa. Mai nella sua vita il vecchio uomo aveva visto qualcosa di simile, così come gli uomini alle sue spalle che credettero di assistere a un miracolo.
    Davanti ai due cavalieri, a circa una ventina di metri, una figura si era palesata tra il chiaroscuro dellla foresta: sottile come un giunco, la pelle pallida come quella di un morto, gli occhi scavati e cerchiati d’un’aurea violacea. Gli occhi, dalla sclera nera e privi di palpebre, si erano fissati in quelli del vecchio soldato. Pareva una femmina, poichè i capelli erano lunghi e lisci, e il viso lasciava trapelare una bellezza spaventosa, surreale.
- Chi siete, donna? Toglietevi dalla nostra strada, tornate alla vostra dimora – Joshua pronunciò quelleparole con quanto più coraggio potè, lasciando però intuire ai suoi uomini, incluso il giovane ufficiale al suo fianco, che qualcosa di tremendo sarebbe accaduto. Il cavallo sotto il peso del vecchio comandante sbuffava innervosito, gli zoccoli raspavano il terreno.
La donna, che rimaneva immobile nella sua postura innaturale, non sembrava avere una minima possibilità di vittoria contro quell’esercito; lei, minuta e all’apparenza così fragile, come poteva solo pensare di contrapporsi a quella forza? Ma alla fine le sue labbra si erano curvate in un sorriso maligno, lasciando intravedere la bianca dentatura affilata.
- Umano – la voce che si sprigionò dalla creatura assomigliava a un stridio metallico, in parte femminile era accompagnata da un’eco cupa e rauca, che raschiava la gola e gelava i cuori. Un dito ossuto s’era alzato a indicare il gruppo di uomini increduli, zittiti dalla paura. – La vostra vita è niente. Il vostro nome è niente. Il mio padrone sta venendo per voi. Nulla di ciò che è attaccato alle vostre ossa sarà più vostro al calar del sole. Inchinati al mio padrone, inchinati, e avrai salva la vita. Sottomettiti al mio padrone e la vita dei tuoi uomini sarà risparmiata.- Tornò il silenzio, il braccio ritornò a fianco della creatura, comandante e ufficiale si scambiarono uno sguardo incredulo, come se quanto appena sentito fosse frutto di un sogno. Il cuore di Robert era oppresso da una sensazione di inadeguatezza, il respiro s’era fatto affannoso e le mani sudavano come quando s’era confrontato per la prima volta s’un campo di battaglia.  Eppure, volse lo sguardo in sfida alla femminea figura, squadrandola dall’alto al basso del suo destriero come avrebbe fatto con una puttana.
- Non prendo ordini, io, da una serva. Torna dal tuo padrone e di’ che l’ufficiale Robert Arkley e ilcomandante Joshua Meldon del Regno di Gascoyne non si piegheranno alla volontà di chi invia i suoi sottoposti a chiedere una resa senza scontro. Di’ la tuo padrone che qui stanno uomini liberi, liberi di scegliere come vivere e come morire! – La voce non mostrò segni di cedimento, nemmeno quando gli occhi neri si fermarono a scrutare il volto del giovane guerriero, sfidando quelli azzurri di lui. Fu Joshua, con un tocco della mano sul braccio del ragazzo, a placare il suo animo; era evidente che non c’era necessità di uno scontro diretto con qualunque cosa fosse quella creatura, nè col suo padrone. Gli impartì con lo sguardo l’ordine di tacere e Robert ubbedì come un figlio ubbisce al padre. Non ebbero comunque modo di replicare, perchè qualche istante dopo la risposta data dal giovane, la creatura scomparve così come era apparsa repentinamente davanti ai loro occhi, accompagnata da uno schiocco sordo, come quello di una frusta. In quel momento, il sole sembrò oscurarsi. Le fronde degli alberi, dapprima quiete, furono scosse da un vento freddo e violento, che costrinse la maggior parte dei soldati ad accucciarsi a terra, tenendosi la testa protetta tra le braccia. Il vento portava con sè le grida degli uomini, delle donne, dei bambini trucidati, ora morti, che ora come fantasmi cercavano di penetrare nei cuori dei soldati.
- Legate i cavalli! Puntellate i carri! Non lasciatevi intimorire! – tuonava la voce del comandante, chesceso da cavallo impartiva ordini  a chiunque gli passasse a tiro, nel tentativo di non far cadere gli uomini nel panico. – Robert! Robert! Per la Dea, scendi da quella bestia e trova un riparo nei dintorni, una grotta, qualunque cosa che possa proteggerci! Va’! – gridò in direzione del compagno, che in tutta risposta lo fissò stranito. Non si erano mai separati in battaglia, non comprendeva perchè un compito di così basso impegno non potesse essere affidato a un altro. Ma siccome il momento non permetteva repliche, scivolò giù dalla sella, legò il suo animale al ramo di una quercia appena fuori dal sentiero, e si incamminò rapido all’interno del bisco. Si lasciò alle spalle il manipolo di uomini, intenti a proteggersi l’un l’altro come meglio potevano; Joshua era un bravo comandante, li avrebbe protetti ad ogni costo.
     Spada alla mano si faceva dunque largo tra gli arbusti fitti, tagliando, spezzando, calpestando ogni cosa con furia cieca, col solo intento di voler trovare un riparo. Camminava ormai da tempo, forse mezz’ora, forse un’ora, il tempo aveva come perso valore in quel luogo antico; il vento si era calmato così come si era alzato, il sole timidamente era tornato a far capolino e l’animo del guerriero tornò in quiete. Alzo lo sguardò al cielo, ora che era solo, i polmoni si riempirono di aria pulita e la mente sembrò per un momento dimenticare quanto accaduto sul sentiero. Il comandante Joshua. La femmina. I suoi compagni d’armi. Di nuovo il comandante. Suo padre. Socchiudendo gli occhi avvertì una stanchezza innaturale avvolgergli il corpo, la gambe cedettero sotto il peso dell’armatura che non sembrava essere piùà in gradi di indossare; le ginocchia si piegarono, la punta della spada si conficcò nella terra facendo da sostegno alle sue membra che altrimenti sarebbero crollate come quelle di un morto.
- Che ... cosa... mi ... – bisbigliando tra sè e sè, strizzando gli occhi chiari, non si accorse della potenzaimmensa di quella foresta. Il profumo intenso dei fiori, prima piacevole, ora era diveuto nauseante e insopportabile, sortendo l’uomo al punto che le sue facoltà mentali stavano venendo meno. Si lasciò cadere completamente, senza opporre resistenza, prono, boccheggiando come un pesce fuori dall’acqua. Prima di cadere nell’oblio, riuscì a mettere a fuoco una figura che gli si era avvicinato. Due piedi scalzi. Due caviglie sottili. Una lingua sconosciuta che riecheggiava. 
 
 

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Capitolo 2
*** L’inizio ***


Le terre di Gayscone venivano governate da generazioni da un’unica potetente famiglia, era un susseguirsi di re, regine, principi e altri titoli altisonanti che erano solo un pallido ricordo della loro originaria grandezza. La fortezza dove risiedevano si diceva fosse stata costruita dal Re degli Elfi secoli or sono, scavata nella roccia viva della montagna, come dono di nozze tra Bryone – il primo Re tra gli Uomini – e Leithyra, fanciulla elfica che lasciò il suo popolo per amore. In quella fortezza, non sarebbe potuta entrare nessuna creatura con il cuore impuro, i loro figli sarebbero cresciuti sicuri e avvolti dalla saggezza antica del popolo della Dea, governando con umiltà e bontà.  Ma non tutti erano stati lieti di quell’unione.
    Un oscuro popolo, che viveva nascosta dalla luce del sole nell’oscurità delle montagne, tramava in segreto le più tremente azioni; stregoneria e magia nera erano il loro pane, il Nero Padre il dio che venerevano, figlio della Guerra, della Morte, del Tradimento. Fu uno di loro, una creatura dall’aspetto deforme, a scagliare la sua maledizione sull’unione che aveva avuto luogo tra le due razze, Umana e Elfica. 
 
« Il Filo verrà spezzato, il sangue sarà versato. Il Nero Padre conquisterà il cuore, di colui che per se stesso non avrà onore. L’Oscurità tutto vince, l’amore soccombe e la forza perisce »
 
 
 
Dopo i primi anni trascorsi in pace, tranquillità ed aver dato vita a due bambini dal sangue misto, il cuore di Bryone iniziò a bramare qualcosa di più di una sola vita fatta di amore, luce e saggezza: trascorreva le lunghe giornate chiuso nella biblioteca, sfogliando vecchi volumi dalla pagine ingiallite, lontano dalla moglie amorevole che – forte della sua immortalità – inizava ad angosciarsi per il suo futuro. Leithyra era da tutti amata e rispettata, era una femmina dal cuore indomito e dai principi saldi, cresciuta secondo le ferree regole del Grande Tempio della Dea Madre; durante le veglie notturne, in cui si tormentava per le preoccupazioni del marito, passeggiava lungo gli infiniti corridoi come un’ombra – silenziosa – e come fosse in lutto avvolgeva il capo con un drappo di lino scuro.
- Madre, proteggete l’uomo fragile – pregava tra sè e sè. – Madre, dategli la forza di vincere sulle sueoscure paure. – La voce dell’Elfa era appena udibile nella sua lingua natia, leggera come il vento d’estate, dolce come il miele, avvolgente come un abbraccio. Pregava la Dea di aiutare l’uomo che amava, rivolgeva a lei sacrifici segreti, rinunciando a quanto di più caro avesse: la sua famiglia, i suoi figli, la sua stessa vita perse completamente di significato senza poterla condividere con lui.
   Si trovava in quel tempo inginocchiata davanti all’immagine sacra della Madre, scolpita nel marmo più bianco che avessero estratto dalle cave, d’un drappeggio pregiato: appariva come una donna dalle curve morbide e abbondanti, le braccia dischiuse ad accogliere le anime di chi chiedeva la sua pietà, le labbra piegate in un amorevole sorriso. Il piccolo tempio in cui si trovava faceva parte dell’ala sud della fortezza, laddove erano stati creati meravigliosi giardini di gigli, rose e altri meravigliosi fiori dalle corolle argentate: non era molto grande, poteva accogliere forse una ventina di persone, in quanto era stata progettata per ospitare la famiglia reale. L’arcata principale in pietra seguiva una curvatura dolce, le pareti erano state ricoperte di arazzi raffiguranti la Dea in ogni sua espressività: l’ira; il perdono; la pietà; l’amore; la vita; la morte. Assorta nei suoi pensieri, teneva le mani congiunte dinanzi all’ovale giovane, le palpebre chiuse, le labbra serrate in un silenzio che non rompeva da quasi due settimane. Le orecchie a punta, tuttavia, non poterono ignorare il passo pesante di Bryone, che aveva fatto il suo ingresso nel tempio con la sua solita enfasi. Dopotutto, non era mai stato un uomo troppo religioso.
- Preghi spesso, di questi tempi. Cosa ti preoccupa? – domandò lui, interrompendo il momento diPreghiera. Avanzò di qualche passo attraverso la piccola navata. – Preghi e non guardi tuo marito, che pure è qui, dinanzi a te -. L’eco della sua voce scemò piano.
Leithyra aprì gli occhi d’un grigio stellato, un inchino del capo alla statua venerata e s’alzò in piedi con una leggiadria propria della sua razza. Dando le spalle al suo uomo, al suo re, al suo unico amore, la voce dolce interruppe il silenzio.
- Mio marito è qui, eppure non è qui davvero -, mormorò. – Il suo cuore è più lontano di quanto non sia ilsuo corpo ed io, sì, mi chiedo cosa lo affligga. – Si voltò in quel momento, a guardarlo chiuso nelle sue vesti regali, porpora e oro, la barba scura ad ornare il viso maturo. Avanzò di qualche passo, verso di lui, posando lo sguardo sulla spada che gli cingeva la vita. Come se ve ne fosse bisogno, all’interno di quelle mura. – Entri qui, armato, come se fossi circondato da nemici. Passi notti insonni a leggere manoscritti che dovrebbero essere bruciati, ignori i tuoi doveri di re e di padre. Dimmi, quindi. Faccio bene a preoccuparmi, mio re? –
Si fermò a pochi centimetri da lui, i corpi vicini, gli sguardi fissi l’uno negli occhi dell’altro. Lei poteva osservarne le prime rughe intorno agli occhi scuri, la labbra piegate in un’espressione dura. Cercò di afferrargli le mani con le sue, in un gesto dolce, ma lui si divincolò prontamente.
- La mia spada è la mia unica fedele amica -, pronunciò lui infine. – Tu che preghi questa falsa dea,dimmi, ti proteggerebbe se tu fossi prossima alla morte? Accorerebbe in tuo aiuto? – sibilò così a denti stretti, sputandole addosso un odio che lei avvertì nuovo.
- La tua ... amica - ripetè lei, nascondendo bene il dolore che le sue parole causavano al suo fragilecuore. – Parlate come se non vi fosse amore, qui -.
- L’amore - sbottò lui – è per i deboli. Adesso che ho visto la mia via, so qual è il mio scopo. E Leithyra,non sono disposto a rinunciarvi per niente in questo mondo. Tu hai la tua dea, il tuo popolo immortale. Io ho un nuovo Padre, adesso, che mi condurrà verso la grandezza! – Gli occhi dell’uomo brillavano di luce folle, odiosa, la voce incrinata da qualcosa di oscuro. E lei, dolcemente, si lasciò commuovere da quelle parole, mostrando lacrime sincere che mai prima d’ora erano state versate dalla sua razza. Capì subito che il cuore dell’uomo per cui aveva rinunciato a tutto s’era lasciato sopraffare da sentimenti cupi, sbagliati.
- Sei già un grande re, un grande uomo, un grande marito e un padre. Cos’altro potresti volere, dalla tuavita? – bisbigliò lei, in preda a un terrore antico. – Avete giurato fedeltà al regno, alla Dea e a me. Hai giur...-
- Io ci sputo sopra, ai giuramenti!- tuonò lui, sovrastandola con la sua corporatura. – Sei una donnadebole, lo sei sempre stata, votata alla tua sporca e falsa dea che non fa altro che rendere gli uomini succubi di ideali che non esistono. Prega, prega quanto vuoi. Leithyra, sono un uomo diverso, adesso!- sentenziò fiero, - Un uomo che non ha bisogno di niente. E di nessuno.-
Lo sguardò che le lanciò la ferì più di mille lame, trapassandole anima e carne. 
 
Iniziò un periodo fatto di lunghi silenzi tra i due: Bryone non le rivolse più una sola parola e Leithyra continuò a pregare la Madre affinchè facesse guarire il marito da quella orrenda malattia: la brama di potere.
 
Lei venne infine trovata morta nel piccolo tempio in cui aveva probabilmente cercato rifugio: riversa supina aveva gli occhi sbarrati, la veste chiara pregna del suo sangue e uno squarcio d’un palmo nel petto, da cui il cuore le era stato strappato e lasciato appassire accanto al corpo senza vita. Di Bryone si perse ogni traccia, le campane suonarono a lutto e i nomi dei regnanti diventarono semplicemente leggenda. I piccoli principi, ormai orfani, vennero cresciuti dalle balie della fortezza, allevati dal Re degli Elfi, dando così il via alla dinastia dei Gwynedd. Nessuno lasciò mai trapelare la verità. Nessuno seppe mai come lei morì, per amore, e come lui – per avidità – la uccise.
 
Molti secoli dopo, molte guerre dopo, Robert e il suo comandante si erano imbattuti in qualcosa che aveva avuto origini da quella antica maledizione. Incoscente, del tutto privo di ogni protezione, sognava di suo padre, forse anche di sua madre, sereno e avvolto in una coltre dorata che non riusciva a capire da dove provenisse. Sapeva che era un sogno, gli pareva  di non avere peso, di camminare sospeso nell’aria. Guardava da lontano la casa dov’era cresciuto, sapeva che era casa sua, eppure non era quella la forma che ricordava, nè il colore.
- Rob!- lo chiamò una voce. Ebbe l’istinto di non ascoltarla, di continuare in quel sogno meraviglioso, icui si sentiva al sicuro. – Robert!- di nuovo echeggiò il suo nome, più potente, più scandito. Il ritorno alla realtà non fu piacevole per il giovane guerriero, che appena reiniziò a prendere coscenza di sè avvertì un senso di oppressione al petto, un cerchio alla testa, una nausea fastidiosa. Strizzò gli occhi un paio di volte prima di poterli aprire e riuscire a mettere a fuoco ciò che lo circondava: la prima vcose che vide furono le fronde degli alberi sopra la sua testa. Era sdraiato ed era quasi sera, la luce del giorno stava iniziando a lasciar posto al quella fredda e scura della notte.
- Finalmente! – esclamò qualcuno al suo fianco, un misto di felicità e rimprovero. Era Joshua,visibilmente stanco ma che sorrideva al suo protetto con quanto più animo poteva. – Credevo fossi caduto in un sonno eterno, ragazzo mio. Non ti hanno messo in guardia contro le Radici Bianche, alla scuola militare? – gli chiese, in tono canzonatorio. Era evidente che Robert non era ancora in grado di dare risposte di senso compiuto, perchè lo fissò incredulo. Dov’era? Cosa era successo? Joshua parve leggergli nel pensiero, trovando risposta ad ogni sua domanda. – Hai respirato spore di Radici Bianche: sono piante aggressive, se avvertono una presenza sgradita rilasciano nell’aria spore soporifere. Adesso ti trovi in un Rifugio Antico, sei stato curato per bene -.
Robert si issò sui gomiti, alzando appena il busto, almeno per riuscire a gurardi attorno; notò solo in quel momento che non aveva indosso la sua armatura, ma solo la maglia di cotone grezzo che indossava sotto la cotta. Si trovava in una piccola radura rotonda, circondata di pioppi sottili: al centro scoppiettava un fuoco allegro, tre sgabelli intarsiati nel legno e una tavola rozza erano tutto l’arredo presente. Nonostante la povertà di quel luogo, avvertì che mai nella sua vita avrebbe potuto trovarsi in luogo più meraviglioso e più sicuro.
- Rifugio Antico? – domandò ancora stordito, mentre l’amico gli allungava una ciotola piena d’acquafresca. Bevve avidamente e si asciugò col polso le labbra aride. Il compagno sospirò lungamente, prima di fargli un cenno col capo. Non erano soli. Il ragazzo a fatica si voltò alla sua destra, impiegando qualche istante a scorgere alla fioca luce del fuoco una nuova figura: stava in piedi accanto al tronco d’un pioppo più alto degli altri, le braccia incrociate sul petto. Era una giovane donna dal corpo esile, la pelle bianca, un viso gentile incorniciato da capelli argentati, occhi ambrati colmi d’una quiete che mai Robert aveva avuto piacere di osservare in altre creature. Era bella, d’una bellezza che lasciava senza fiato in corpo. Avvolta in una veste color miele, damascato da mani di sarti sapienti, non portava calzature e nella sua semplicità riusciva in qualche modo a incutere un rispetto degno d’una regina.
- I Rifugi Antichi sono le nostre dimore, giovane uomo – spiegò lei, di rimando alla domanda che era statapoc’anzi posta. – Qui non dovete temere l’oscurità, il riposo vi è concesso senza affanno. Siate i benvenuti, pellegrini, nella dimora di un’Elfa -.
Nel cuore del giovane guerriero salì un calore improvviso, le guance s’infiammarono al sentire la voce di lei, così profonda, così fresca, fatta di mille sonorità; il suo animo si sentì rinvigorito, tanto che riuscì a mettersi seduto sulla branda su cui aveva riposato fino a qualche istante prima. Era la prima volta che ne vedeva uno. Un Elfo. Anzi, una femmina. Le orecchie a punta facevano timidamente capolino tra la folta capigliatura, impreziosita da una corona di fiori di sambuco. I suoi occhi avidi di bellezza percorsero dall’alto al basso la sua figura, soffermandosi su fianchi stretti, sui seni sodi appena visibili sotto la seta chiara, le labbra pallide. Perse l’uso della parola e della ragione, per qualche minuto.
- Come vi chiamate, giovane signora? Non ho avuto modo ancora di ringraziarvi, per aversalvato la mia vita e quella del mio compagno – disse Joshua, per spezzare quel silenzio imbarazzante. Lei sorrise dolcemente, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi.
- Non ho nome che possa essere pronunciato nella vostra lingua – spiegò paziente, - Se sentite ilbisogno di rivolgervi a me chiamandomi con un nome, potete chiamarmi Dorlas. –
Robert ci mise qualche istante per ragionare su quanto aveva detto il suo compagno d’armi. Quella donna gli aveva salvato la vita?
- Da chi ti ha salvato la vita? – chiese d’impulso.Ne seguì un lungo silenzio. Lei non accennò ad alcuna spiegazione, rimase immobile e lontana dai due, osservandoli senza mostrare alcuna particolare attenzione.
- Quando te ne sei andatato per cercare rifugio – iniziò Joshua, - è successo qualcosa che non sonemmeno io come spiegare. Dopo il vento improvviso, il cielo s’era oscurato. Non c’era più luce, era come se il mondo fosse stato avvolto da un drappo nero, era come se tutta la gioia, la speranza, l’amore fossero stati cancellati con un colpo di lama. – Fece una pausa, deglutendo e si sedette su uno sgabello, uno di quelli vicini al fuoco. – Siamo stati attaccati da qualcosa, Rob, qualcosa di orribili. In tutta la mia vita, non ho mai visto niente del genere. A nulla sono servite le nostre spade, hanno fatto a pezzi i cavalli, dilaniato la carne degli uomini, dietro di loro lasciavano solo terra nera e bruciata. –
- Ti sei intenerito, vecchio. Non esiste uomo al mondo capace di simili cose – mormorò Robert,innervosito da quel racconto, per cui così surreale.
- Non ho parlato di uomini, infatti – disse Joshua, guardando il compagno dritto negli occhi. – Erano comedelle Ombre, eppure brandivano armi vere, lame così taglienti come non ne avevo mai viste prima. Hanno tagliato le nostre carni come burro, non hanno risparmiato nessuno, nemmeno i feriti. Pochi altri sono riusciti a fuggire dal sentiero, ma non so dove possano aver trovato rifugio -. Quindi indicando l’Elfa, proseguì il macabro racconto. – Lei è arrivata quando stavo per arrendermi del tutto, non c’era modo del resto di uccidere quelle creature, sebbene le avessi trafitte più volte con la mia spada -.
Joshia mostrò l’arma al ragazzo, che osservò con grande stupore l’acciaio prima brillante che s’era deformato in un nero opaco, marciscente. – Lei ha portato la luce e mi ha salvato da una fine certa -.
- Adesso dovete riposare entrambi, domani vi aspetta un lungo cammino e io non posso restare con voi alungo. Vi accompagnerò fino al limitare della foresta, da lì dovrete proseguire per una decina di miglia verso Est – disse l’elfa, che nel frattempo s’era accostata ai due uomini. Non sembrava incline a voler continuare quel racconto e Joshua infatti non aggiunse altro. Sebbene Robert volesse saperne di più, rispettò il volere della padrona di casa, in realtà incapace di opporsi a una creatura di quella potenza: non aveva bisogno di armi, per incutere rispetto.
- Appartenente alla razza Elfica – mormorò poi, quasi timoroso. – Mi hanno sempre raccontantoleggende sulla vostra stirpe, ma qualunque sapiente della nostra Era avrebbe giurato sulla Madre che eravate estinti -.
Lei alzò lo sgurdo garbato, le piccole pupille si fissarono in quelle del giovane uomo, con prepotenza e disgusto; lasciò perdere la sacca che stava riempiendo con quelle poche provviste che poteva offire loro, per ribattere con quanta più calma potè.
- Estinti. Ci sarebbe da chiedersi, umano, per mano di chi -, sibilò a denti stretti. Li lasciò da soli, quindi,inoltrandosi nella fitta boscaglia con una rapidità che sorprese entrambi gli uomini. Ci pensò il più anziano dei due a finire di preparare le provviste, mentre l’altro iniziava nuovamente a prendere il controllo del proprio corpo.
- Elfi, Ombre, Rifugi ... – borbottò Robert, confuso – Mi sembra di essere dentro uno di quei raccontiche si narrano ai ragazzini per divertirli durante le fiere. Mentre provava a mettersi in piedi, Joshua lo freddò.
- Quella creatura, Rob, è più saggia di me e molto, molto più antica del nostro mondo umano. Fa parte diquesta mondo da secoli, dovresti imparare a parlarle con il rispetto che merita -, commentò amaramente, deluso dal fatto che quel giovane – che amava come un figlio – non comprendesse l’importanza di quell’incontro.
- E’ solo una femmina aggraziata -, replicò l’altro. – Nulla che non si possa trovare nelle nostre terre, inabbondanza. Solo perchè ha un paio di orecchi appuntite non mi lascerò certamente dettare ordini, nè accetterò consigli non richiesti. –
Non sapeva spiegare nemmeno lui il perchè di quell’astio naturale; seppure la fanciulla gli provocasse un desiderio ancestrale e animalesco, il suo cuore vacillava nel dubbio. Non c’era da fidarsi delle creature del mondo magico, così gli era stato insegnato. Sono creature dall’animo volubile, gli avevano detto. Sono creature dall’animo crudele. Così come era stata crudele la prima della sua razza, Leithyra, che nel momento del bisogno aveva abbandonato il suo Re, così dicevano i testi su cui aveva studiato.
- Io – proseguì Robert – non permetterò a un essere simile di far breccia nel mio cuore, Comandante.Non è altro che uno spirito dalla forma di femmina. Niente di più. Se la lascerai incustodita, ti farà male. O forse la storia di Bryone il Saggio non ti ha insegnato nulla? –
Le voci dei due che discutevano si perdevano nella notte che ormai era calata, seppur fioche non sfuggivano alle orecchie della fanciulla elfica che s’era allontanata di pochi metri dalla radura. Il cuore le sarebbe potuto scoppiare nel petto, di dolore e pietà: come avrebbe potuto farsi capire dai due uomini, convinti che la storia che avevano sempre conosciuto fosse in realtà una favola adattata alle loro necessità umane. Avevano bisogno di qualcosa in cui credere, erano creature così deboli – quegli umani – così portati al tradimento e alla violenza. Non avrebbe certamente cercato di far cambiare loro idea, anche se il più anziano dei due pareva essere il più ragionevole. Ascoltò mestamente tutto ciò che Rob vomitò addosso alla sua razza, decidendo in quello stesso momento che avrebbe cercato – per quanto in suo potere – di farsi odiare il più possibile da quel giovane arrogante. Non avrebbe permesso nemmeno a se stessa di vacillare. Se era odio che voleva, odio avrebbe ricevuto. Come Leithyra, avrebbe sopportato in silenzio. Come la Prima della sua Stirpe, avrebbe portato da sola il fardello di quella anima persa.  
 
 


 
Un saluto a tutti i lettori che hanno avuto la pazienza di leggere sin qui :)
Vi ringrazio intanto, per rendere i miei “sforzi” letterari non vani. Questo è il mio primo racconto, quindi spero perdonerete qualche imprecisione qua e là, del resto scrivo di getto e quando sento di avere la giusta ispirazione. Cercherò di pubblicare un capitolo ogni settimana – lavoro permettendo – e sono curiosa di sapere se vi sta piacendo o no, questa storia.
Per il momento vi lascio con questo primo incontro tra quelli che saranno i protagonisti del racconto, per la prossima settimana ho in mente qualcosa di più avventuroso.
Un abbraccio °w°

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