Corrupted Flower

di Lady Stark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ho colto il fiore proibito. ***
Capitolo 2: *** «Tornerai?» ***
Capitolo 3: *** «Insieme.» ***
Capitolo 4: *** Un bacio al sapore di sale. ***
Capitolo 5: *** Solo il presente ha importanza. ***
Capitolo 6: *** Che il ballo abbia inizio. ***
Capitolo 7: *** Un fiore che nasce dal sangue. ***
Capitolo 8: *** «È finita?» ***
Capitolo 9: *** Combatti per il tuo futuro. ***
Capitolo 10: *** «Questo è un sogno, vero?» ***
Capitolo 11: *** «Che cosa succederà adesso?» ***
Capitolo 12: *** «Addio.» ***
Capitolo 13: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Ho colto il fiore proibito. ***


Chapter I 

La puzza del fumo era asfissiante. La cenere danzava nel cielo, sollevata dal lieve alito di vento che spirava da sud. I soldati camminavano audacemente in quel mare di distruzione e dolore.

Travi, simili a denti spezzati, si ergevano dai ruderi delle case, fagocitate dalla furia dell'incendio. Gatti dal pelo strinato si aggiravano con circospezione tra gli scheletri delle abitazioni, alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti.

Le nuvole gonfie di pioggia attraversavano pigramente la volta celeste, oscurando una smunta falce di luna.

L'odore del temporale già permeava l'aria, nascosto da quello della distruzione.

Il cielo si preparava a piangere i suoi caduti.

«Sarà una serata divertente, vedrà.» un soldato gli passò accanto e, sorridendogli in modo confidenziale, passò oltre per raggiungere suo compagno.

Le voci profonde dei militanti si diffusero nell'aria immobile, simili a piccoli tuoni.

Sembrava quasi che gli unici esseri viventi rimasti su quel terreno arso dal fuoco fossero loro. L'ufficiale si guardò attorno, avvertendo un fastidioso senso di disagio alla bocca dello stomaco.

Non avrebbe voluto essere lì, ma il suo superiore gli aveva categoricamente ordinato di andarsi a divertire. Incatenato da quell'inflessibile comando, non aveva potuto opporre resistenza, ed i suoi soldati l'avevano trascinato in quel sobborgo che puzzava d'urina. Un numero imprecisato di ubriachi vagavano per le strade sventrate, brandendo tra le mani bottiglie di vino scadente.

Tutte le taverne che incontrarono lungo il cammino emanavano un tanfo rivoltante.

Una donna dalle curve prosperose fece l'occhiolino ad uno dei soldati del loro piccolo contingente che, tentato dalla sua lussuriosa bellezza, cominciò a mandarle baci appassionati.

«Squallido.» borbottò il comandante, calcandosi il berretto sui capelli per proteggersi dall'attacco di quegli sguardi languidi.

«Che si aspettava? Siamo nel quartiere a luci rosse, dopotutto. Qui si raggruma tutta la feccia della città.» commentò un soldato poco distante da lui, dando una rapida scrollata di spalle.

A giudicare dalla posizione delle sue spalle e dall'espressione arcigna che aveva stampata in viso, neanche lui doveva particolarmente amare quel luogo.

Len si sentì leggermente confortato.

Quando, in fondo alla strada, i militanti scorsero il locale per cui erano partiti in tutta fretta dalla base, un ululato selvaggio si levò tra le file. Lussuria, brama e voglia di divertirsi cominciarono a serpeggiare materialmente attorno al comandante, assumendo le fattezze di uomini che si sfregavano impazienti le mani o di individui che schiamazzavano nomi di superalcolici. Dando ascolto agli entusiasti discorsi dei suoi compagni, Len si era immaginato il locale come una costruzione sontuosa, protetta da efficienti guardie all'ingresso.

Non appena i suoi occhi si appuntarono sull'edificio, la sua sciocca aspettativa si sgretolò come sabbia secca.

Quello che si ritrovò di fronte invece non era altro che una casa più grande delle altre, costruita di mattoni cotti e legno ormai fradicio d'umidità. Le finestre, spalancate nella notte, cigolavano ogni qual volta il vento colpiva i vetri, facendole muovere.

La musica ruggiva nella stanza ad un volume folle, mescolandosi con le cacofoniche voci di coloro che già avevano occupato l'interno.

«Speriamo ci sia ancora posto! Altrimenti, ce lo creeremo.» tuonò qualcuno. Len vide un uomo rimboccarsi le maniche ed ammiccare con fare malevolo in direzione dei suoi compagni.

Il comandante fece finta di non aver notato la palese arroganza che si snodava tra le sue file.

Essendo ufficiale, era compito suo imbrigliare gli istinti più violenti dei soldati, soprattutto quando questi si sfogavano in maniera violenta contro i popoli assoggettati.

Eppure, per quella sera rinunciò all'idea di dover correggere il loro comportamento.

Nell'avvicinarsi all'abitazione, la puzza di fumo si fece via via più intensa; qualcuno tossì coprendosi la bocca con una mano. Sembrava quasi che l'intera struttura stesse andando a fuoco.

Nel varcare la soglia, Len credette di soffocare. Una cappa di fumo aleggiava nell'aria, snodandosi tra i tavoli come un affusolato serpente dalle scaglie di pietra.

Decine di tavoli rotondi saturavano la stanza assieme ad altrettante sedie dagli schienali spezzati. Uomini nerboruti sbattevano i propri boccali sulle superfici di legno martoriato, rovesciandone il contenuto. La schiuma aveva formato grumi biancastri al centro e sui bordi dei tavoli dove qualche fetta di pane e carne essiccata era stata mangiucchiata con noncuranza.

Cameriere dall'aria disperata si destreggiavano tra sedie e mani insolenti che si insinuavano lì dove il pudore avrebbe dovuto bloccarle. Una ragazza passò loro accanto, guardandoli con un certo timore.

Len fu l'unico ad accorgersene tanto i suoi uomini erano presi dalla ricerca di un posto a sedere.

«Signore, lei è..»

«L'ufficiale Kagamine.» rispose il giovane, completando le titubanti parole della servetta. Lei, stringendo al petto il vassoio di legno, gli fece cenno di seguirla.

«La stavamo aspettando. Venga con me, la prego.»

Len, sbattendo stupito le palpebre, fece cenno alla sua scorta ed insieme si accodarono alla ragazza.

Il tavolo che gli era stato riservato era il migliore di tutti quelli presenti.

Posta esattamente di fronte al palcoscenico, la sbozzata tavola di legno era stata distanziata di qualche metro dal mare di gente che schiamazzava, richiedendo birra a gran voce.

«Prego. Spero sia di suo gradimento, signore.» la ragazzina cominciò a strofinare energicamente un panno umido contro la superficie di legno irrimediabilmente macchiata, scoccando un sorriso titubante al generale. Len non rispose, limitandosi ad esaminare il palco che aveva di fronte.

Era una semplicissima struttura fatta di assi e piccoli pezzi di metallo nero; un paio di scalini malmessi permettevano di salirvici e di raggiungere così il retroscena, accuratamente coperto da un drappo.

«Cosa posso portarle, generale?»

«Niente, grazie.»

«La nostra birra è una delle migliori che lei possa trovare nel paese.» insistette la ragazzina mettendo in mostra un sorriso dolce come il miele.

«Portane due ai miei uomini.» Len appoggiò il gomito contro il bordo del tavolo, tentando di non pensare al lerciume che lo imbrattava. I due soldati alle sue spalle rimasero dignitosamente in silenzio, anche nel momento in cui le birre scivolarono sotto i loro nasi.

«Questa è una serata di festa, uomini. Bevete pure.» Il generale lanciò una rapida occhiata ai due militanti che, con la brama negli occhi, stavano ancora fissando il liquido ambrato nel boccale.

Improvvisamente, le luci si spensero ed il buio inghiottì la stanza.

La mano di Len scattò istantaneamente verso il fianco destro, lì dove l'elsa del pugnale premeva contro la sua carne. Prima che i suoi allarmismi potessero però prendere piede, un occhio di bue illuminò il palcoscenico, rivelando la sensuale silhouette di cinque ballerine.

Erano immobili, tutte nascondevano il proprio viso tenendo la testa chinata in avanti; le braccia pallide erano spalancate verso l'esterno.

Nel giro di un battito di ciglia, il caos si placò.

La frizzante melodia che aveva rallegrato l'atmosfera venne sostituita da sinuose ed accattivanti note di pianoforte. La stanza sembrò entrare in apnea.

«Siete pronti?» furono sufficienti quelle due parole sussurrate per accendere il cuore di pietra dell'ufficiale. Senza rendersene conto, l'uomo si chinò in avanti, appoggiando una mano contro la coscia fasciata dai pantaloni scuri. Il suo autocontrollo andò in fumo, liberando tutti gli istinti ferali che generalmente riusciva a controllare mediante la sua ferrea autodisciplina.

Mai nessuna donna aveva generato in lui una tanto folle reazione.

La ballerina centrale sollevò di scatto la testa, rivolgendo alla sala un magnetico sguardo turchese. I capelli color miele ondeggiarono attorno al perfetto ovale del viso, simili a tanti filamenti d'oro arricciati; perle dai riflessi d'avorio si intrecciavano nelle crine, dando all'elaborata acconciatura una sfumatura elegante. D'improvviso, la sinfonia del piano venne sostituita dalla spumeggiante combinazione di vari strumenti musicali. I musicanti cominciarono a pizzicare con enfasi le corde dei propri strumenti e, battendo a ritmo i piedi, diffusero nella sala una scarica d'allegria. Proprio in quel momento, le ballerine si aprirono a ventaglio alle spalle della ragazza dai capelli d'oro, gettando alle proprie spalle mantelli che fasciavano i loro corpi.

Con un sorriso ben stampato sulle labbra, le danzatrici si slanciarono in avanti in nuvole di stoffa colorata e profumo a basso costo. Le complesse pettinature, decorate con fiori e pezzi di quarzo grezzo, sembravano scintillare sotto la luce della sala come frammenti di stelle.

Uomini particolarmente volgari cominciarono a fischiare la propria approvazione ogni qual volta il lembo morbido di un vestito si sollevava più del dovuto, mettendo in mostra spacchi vertiginosi.

Malgrado tutte le danzatrici fossero delle creature di rara e spiccata bellezza, Len non riuscì a distogliere lo sguardo dalla ragazza dagli occhi turchesi.

Il vestito che l'avvolgeva era bellissimo, una vera e propria opera d'arte. Riportante l'idea di una rosa appena sbocciata, i vari pezzi di stoffa erano stati tagliati seguendo la rotondeggiante sagoma dei petali. La gonna era stata cucita in modo da permettere alla giovane di danzare, senza privare l'abito di un delizioso tocco d'eleganza. Alle sue spalle, il tessuto scendeva a lambirle i talloni mentre sul davanti, il lembo della gonna le sfiorava metà coscia. Il corsetto, decorato con gli stessi gioielli finti presenti nell'acconciatura, riportava i rosati decori della gonna.

Due gonfie rose fiorite erano sbocciate ai suoi polsi e, ad imitazione dei loro steli, due serpenti di perline si arrotolavano attorno alle sue braccia.

Len desiderò che lei lo guardasse.

Bramò quello sguardo con tanta intensità da sentire una fitta al petto. I pensieri dell'uomo si fecero minuto per minuto più disperati con il progressivo scemare della musica e la conseguente conclusione dello spettacolo. Le ultime note vibrarono nell'aria, le ballerine si inchinarono contemporaneamente sollevando le falde dei ricchi vestiti.

In quell'istante, i loro occhi si incontrarono.

Fu come se un fulmine a ciel sereno avesse attraversato il cielo; Len rimase folgorato dall'intensità delle iridi di lei.

Bellissime come il più raro dei fiori ruggivano potenza, volontà di rompere quelle catene che la sua povera condizione le imponeva.

Il contatto durò una frazione di secondo ma fu sufficiente per permettere all'ufficiale di comprendere che quella donna era diversa.

Lontana anni luce da tutte le dame che aveva avuto modo di incontrare nel corso della sua breve, ma impegnata vita politica e militare.

Certo, quella ragazza non aveva il fascino delle signorine e signore d'alto rango ma c'era in lei qualcosa che loro non avrebbero mai potuto ottenere con la potenza del denaro.

«Lo spettacolo si conclude qui, miei cari signori.» Un grasso e tozzo oste si fece avanti, mettendosi di fronte alle ballerine che, silenziosamente, sfilarono via per tornare a nascondersi nel dietro le quinte. Len si alzò di colpo quando l'ultimo lembo del vestito della ballerina scomparve dietro il pesante drappo di tessuto. «C'è qualcosa che non va, mio signore?»

L'oste gli si affiancò, sfregando le mani callose, rovinate dal continuo strofinare bicchieri.

A considerare dall'odore spaventoso che emanava, quell'uomo non si lavava da almeno tre giorni.

«Non c'è niente che non va.» L'ufficiale rispose bruscamente.

L'impellente desiderio di raggiungere la fanciulla lo stava facendo impazzire.

Fortunatamente però, questo particolare sfuggì allo stolto che Len aveva di fronte.

Non voleva immaginare cosa sarebbe potuto succedere se qualcuno avesse captato i suoi pensieri.

Un uomo come lui, così alto locato nell'organizzazione politica, non si sarebbe mai dovuto infatuare di una danzatrice.

Era dannatamente sbagliato eppure, in quel momento, Len non riuscì a curarsi di quel problematico particolare.

Voleva parlare con quella ragazza, anche a costo di far arrestare quel taverniere inopportuno.

«Posso portarle un'altra birra, signore? La nostra è la più buona in circolazione.»

«No, ho bevuto a sufficienza. Però, c'è una cosa che puoi fare per me.»

Len rivolse un'occhiata ai suoi uomini che, cogliendo al volo il messaggio, si allontanarono con i propri boccali di birra e l'abbozzo di un sorriso rilassato sulle labbra.

L'oste tornò a strofinarsi le mani, esibendo così un viscido desiderio di compiacerlo.

«Farò tutto il possibile per soddisfarla, mio signore.»

«Bene. Desiderio visitare il dietro le quinte del tuo locale.» gli occhi del giovane scattarono emblematicamente in direzione del drappo. L'ottuso cervello del taverniere impiegò qualche buon minuto per decifrare quel messaggio sottile, sussurrato in un respiro.

«Le nostre ballerine sono dei veri e propri fiori.. posso capire il suo interesse.» L'uomo ammiccò in modo disgustoso, scoprendo i denti marci in un'espressione lasciva.

«È possibile?»

«Per lei, tutto è possibile, ufficiale.» con un gesto delle braccia, il taverniere l'invitò a seguirlo.

Len sapeva che quello che stava per fare era sconsiderato, irrazionale e pericoloso.

Era perfettamente a conoscenza del fatto che quel comportamento l'avrebbe potuto distruggere.

Avrebbe potuto demolire tutto ciò che per anni aveva così faticosamente costruito.

Tuttavia, mai come in quel momento, il sapore del rischio gli era sembrato tanto delizioso. 

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Capitolo 2
*** «Tornerai?» ***


Chapter II 

«Non sono molti i fortunati che riescono ad accedere al dietro le quinte, mio signore.» la sgradevole voce dell'oste si fece strada tra i pensieri aggrovigliati dell'ufficiale, ridestandolo da quello pseudo senso di trance in cui era piombato. Aveva come l'impressione di star bruciando su un rogo; la sua anima crepitava sotto il superficiale strato di pelle, rendendolo insofferente a tutto ciò che non fosse il pensiero di lei. Len si guardò attorno con circospezione, evitando di risponde all'insinuazione di quell'avido uomo dal ventre prominente. Seguendo la claudicante ma sicura andatura del taverniere, l'ufficiale stava ora percorrendo un corridoio dalle alte pareti di legno. Il percorso non riportava alcun fregio d'abbellimento, fatta eccezione per qualche lampada ad olio, sporadicamente posizionata su gangi dall'aria arrugginita. Le fiammelle, intrappolate nelle calotte di vetro, ondeggiavano fiaccamente sulla sommità degli stoppini illuminando appena il pavimento accidentato.

«Faccia attenzione, mio signore.»

L'oste si voltò in direzione del silenzioso compagno, colpendo con la scarpa un'asse divelto.

«Dove siamo?»

«Abbia un po' di pazienza, siamo quasi arrivati.»

L'odore nauseabondo del fumo si era ormai dileguato. Ora, il piacevole aroma dei bastoncini di incenso lo sostituiva, dando all'ufficiale l'impressione d'essere entrato in un mondo nuovo, fatto di morbida seta e perle dai riflessi fittizi.

Quello era un cosmo a lui estraneo e, per questo, infinitamente rischioso.

La consapevolezza lo fece tentennare, paralizzandolo proprio a qualche passo di distanza dalla fonte di luce che l'avrebbe introdotto nella stanza.

«C'è qualcosa che non va, mio signore?»

«No.. non c'è niente che non va.» Len scosse la testa e, gonfiando il petto, si accodò all'oste. Questi, picchiando la mano contro lo stipite, richiamò in modo brutale l'attenzione delle fanciulle. Erano tutte sedute attorno ad uno sbozzato tavolo di legno di abete. La rosea bellezza che sul palco le aveva denotate era scivolata via, lasciando posto ad una maschera di ruvida sagacia.

Len rimase attonito di fronte a quello spettacolo.

Non avrebbe mai creduto possibile che potesse intercorrere una tanto profonda differenza tra le donne che lui conosceva e quelle creature dagli occhi di pietra. Nel corso della sua esistenza, l'ufficiale aveva preso parte ad un numero indefinito di balli di gala, in cui tante ragazze l'avevano guardato adoranti, sperando che lui s'innamorasse di loro.

Malgrado tutti i sorrisi di convenienza, aveva sempre trovato ripugnanti quelle mielose speranze, scaturite da qualche romanzo rosa di pessima fattura.

«Che cosa ci fa lui, qui?» Fu proprio la ragazza dai magnetici occhi color acquamarina a parlare. Con un lento movimento si alzò in piedi, per poi scoccargli un'occhiata irriverente ed infastidita.

A giudicare dai boccali ricolmi di liquido ambrato, era evidente che i due uomini avevano appena interrotto un gradevole brindisi tra college.

L'oste inizialmente sbiancò; i suoi occhi cominciarono a ruotare, balzando frettolosamente dall'ufficiale alla ballerina. Quando finalmente si rese conto che l'onore del soldato non era stato intaccato, le sue guance si trasformarono in due tizzoni rabbiosi.

«Ti sembra questo il modo di rivolgerti ad un ufficiale, screanzata?! Porgi immediatamente le tue scuse.» strillò, facendo due minacciosi passi avanti.

La donna rimase immobile, squadrandolo da capo a piedi con aria di nitida superiorità. Poi, dopo qualche secondo di stasi, un sorriso le schiuse le labbra, incantevole come un fiore sbocciato nel deserto.

Per l'ennesima volta, il cuore dell'ufficiale cominciò a palpitare, rubandogli il fiato. L'oste divenne ancora più rosso e, caricando come un toro inferocito, alzò la mano per colpirla in viso. Prima che il goffo gesto dell'uomo potesse però raggiungere il suo fine, Len intervenne. Con decisione, ghermì il braccio dell'uomo stropicciando il polsino della giacca.

«Basta così, buon uomo.»

«Ma.. ma, signore..»

Len lo strattonò indietro, allontanandolo di qualche metro dal tavolo delle ballerine. Queste, cominciarono a fissarlo con cautela, alla ricerca del segreto che nascondeva.

La pelle, fasciata dall'uniforme, formicolava come se centinaia di spilli la stessero stuzzicando. Quell'effetto non poteva che derivare dallo sguardo magnetico della giovane ballerina, così squisitamente irriverente.

«Come lei desidera, mio signore.» borbottò l'oste, aggiustandosi il macchiato grembiule sulla pancia gonfia. A quel punto, vinte dalla curiosità, un paio di ragazze si alzarono con la stessa sensualità do un felino, decise a squadrare più da vicino quel misterioso ufficiale. «Cosa attrae un così altolocato membro del governo in una bettola puzzolente come questa?» la danzatrice inclinò di lato la testa.

La pelle della donna emanava uno sgradevole odore d'alcool e fumo; il suo volto non era altro che un mero rincorrersi di tracce scure e macchie dall'aspetto preoccupante.

«Ho trovato il vostro spettacolo incantevole. Volevo congratularmi con voi di persona.»

I suoi occhi azzurri si sollevarono, volgendosi verso la danzatrice.

Malgrado anche lei si fosse tolta il trucco, la sua bellezza non era minimamente sbiadita.

Len ebbe modo di notare che, senza quel dito di cipria, sembrava estremamente più giovane. Aveva cercato di dissimulare il suo interesse, ma sentiva d'aver ormai raggiunto il massimo limite di sopportazione.

Doveva parlarle, voleva sfiorare quegli zigomi alti e toccare quelle mani fatte d'avorio.

La ragazza s'accorse immediatamente dell'attenzione riservatale e, come un serpente, il suo atteggiamento si fece guardingo.

Era giunto il momento di agire. Con un sorriso incoraggiante, il comandante si fece avanti, mantenendosi però ad una certa distanza di sicurezza.

Non sapeva come comportarsi ed era terrorizzato all'idea che lei potesse fuggire.

«Vorrei complimentarmi con lei, in particolare.»

«La ringrazio, ufficiale.» il tono incolore della ragazza fece infuriare nuovamente l'oste ficcanaso che, con la schiuma alla bocca, cercò nuovamente di intervenire.

«Avrei il piacere di offrirle qualcosa da bere. È possibile?»

La ragazza arricciò le labbra verso l'altro, forse impressionata da quelle parole così raffinate.

Il taverniere, comprendendo finalmente la realtà dei fatti, costrinse tutte le altre danzatrici ad uscire dalla sala e, raccogliendo frettolosamente tra le braccia i boccali di birra, scostò una delle sedie meno rovinate.

«Avete cenato, ufficiale? Che ne dice di assaggiare il piatto forte del giorno? Zuppa di ceci e pomodori, accompagnato con un delizioso crostino di pane fatto in casa.»

La giovane rivolse un'occhiata disgustata al datore di lavoro cercando di distogliere la propria attenzione dal giovane che aveva di fronte.

Sapeva benissimo di non doversi fidare di lui; soprattutto perché ad averlo portato lì era stato quel flaccido doppiogiochista del suo capo.

Aveva da tempo capito che in un mondo come il loro, non esisteva la gentilezza. Tutti facevano determinate azioni solo per ottenere qualcosa in cambio e lei, dopo la bruciante perdita subita, non si sarebbe lasciata ingannare mai più.

Sin da quando l'ufficiale era entrato nel locale, la ballerina aveva deciso di abbandonare la sala ma ovviamente, il suo stomaco la tradì proprio all'ultimo momento.

Un gorgoglio imbarazzante risuonò nell'aria, attirando l'attenzione dei due uomini.

«Assaggerò volentieri la sua zuppa, oste. A patto che ne serva un piatto anche alla signorina.»
Len si mise seduto, sorridendo per l'ennesima volta in maniera tanto gentile che la giovane sentì il proprio cuore sciogliersi. Nessuno la guardava così da anni, ormai.

«Come desidera, mio signore.» L'oste fece un piccolo inchino per poi dileguarsi, sbraitando ordini ad una cuoca anziana, addormentatasi su una sedia con il mestolo sporco di sugo ancora stretto tra le mani.

Quando il capo fu sufficientemente lontano, la ragazza si rivolse all'ufficiale ringhiando.

«Non voglio la sua pietà.»

«Pietà? Ho semplicemente pensato che..»

«Beh, ha pensato male. Se ne vada, perché non ho alcuna intenzione di mangiare con lei.»

Len abbassò lo sguardo sulle proprie mani, incrociate sul tavolo.

«Non ho cattive intenzioni. Ho davvero apprezzato lo spettacolo e volevo complimentarmi con lei.»

La ballerina rise amaramente.

«Crede davvero che io sia così sciocca? Voi uomini non siete in grado d'apprezzare l'arte.» una smorfia aspra increspò il suo bel viso. Len appoggiò la schiena contro lo schienale cercando di non far trapelare quanto si sentisse sconfortato da quel suo comportamento.

«Io non sono così. Se avessi voluto ottenere qualcosa di diverso da lei, non sarei seduto qui, ora.»

La ballerina incrociò le braccia sul petto, nauseata ed al tempo stesso stupita dalla pillola di verità che quell'uomo le aveva coraggiosamente rivelato.

«Come si chiama?»

«Mi chiamo Len.» rinfrancato da quel minuscolo contatto, il soldato si sporse nuovamente in avanti, quasi a comunicare il suo bruciante desiderio di comunicare.

«Vorrei che mi desse del tu, signorina.»

La ragazza alzò gli occhi al cielo, arricciando attorno al dito un perfetto boccolo dorato.

«Smettila di darmi del “lei”. Io non sono una di quelle raffinate damigelle dai visi truccati con costose polveri di zaffiro.»

La ballerina si sedette con pesantezza, scostando di colpo la sedia. «Io mi chiamo Rin.»

In quell'istante, l'oste sopraggiunse con due piatti di coccio nero colmi di una brodaglia dall'indefinito colorito marrone. Len colpì con il proprio cucchiaio una delle sfere che galleggiavano assieme a qualche pezzo sformato di pomodoro.

Rin, dubbiosa quanto il suo interlocutore, accostò il naso alla minestra, saggiando l'odore dell'alimento con un ghigno.

«E questa dovrebbe essere il piatto forte della casa?»

«Zitta, ingrata! Se non fosse per il questo signore, solo ti toccherebbe una pagnotta di pane di segale.»

Un senso di urticante fastidio avviluppò il generale che, con estrema fatica, si contenne dall'alzarsi e colpire quell'insolente. Rin rimase zitta, abituata ad essere trattata da quel mostro come una pezza da piedi.

In silenzio lo maledisse, come sempre faceva con tutti coloro che al mondo l'avevano maltrattata. Quando il suo momento di gloria sarebbe arrivato, chi le aveva arrecato sofferenza sarebbe perito sotto i colpi del suo indomito orgoglio.

«Lasciaci soli, ora.»

Nel momento in cui il taverniere scomparve in cucina, Rin si avventò contro la minestra con tale foga da meravigliare il raffinato ufficiale.

Il suono del cucchiaio contro le pareti di coccio riempì tutta la sala, mentre la giovane ingurgitava a cucchiaiate la brodaglia bollente.

«Fa davvero schifo.» borbottò nel mentre, scoccando un'occhiata frettolosa al suo interlocutore che ancora non aveva avuto il coraggio di sorseggiare quello specchio d'acqua sporca.

«Posso immaginarlo.»

Rin sollevò la testa, guardando l'intoccata minestra. I suoi occhi azzurri scintillarono di bramosia nell'accorgersi che lui non avrebbe minimamente toccato quella porcheria.

«Non lo mangi quello?»

Len le sorrise, spingendo il coccio in sua direzione. Prima ancora che potesse dirle qualcosa, la ballerina aveva già afferrato il bordo del piatto e lo stava trascinando verso di sé.

«Quanto tempo è che non mangi?»

«Un giorno, o forse due. Non saprei ben dirlo.» Lei scrollò le spalle, mordicchiando con gusto la crosta dura del pane.

Solo in quell'istante, Len s'accorse di quanto fosse magra.

Lo scollo della tunica di cotone grezzo metteva in mostra le clavicole.

La pelle pallida era tesa sui due ossicini ed allo stesso modo, i polsi sembravano sottili come due ramoscelli.

«Come può essere successa una cosa del genere?»

«Se rispondiamo male, quello schifoso non ci nutre. Mi ci sono abituata ormai; è la routine.» Rin alzò le spalle, raschiando il fondo del piatto con la punta del cucchiaio.

Len sprofondò in un cupo silenzio; i suoi pensieri si persero nel catalogo di torture e punizioni a cui avrebbe potuto sottomettere l'oste per essersi comportato in maniera tanto barbara ed incivile.

D'improvviso, la ballerina scoppiò a ridere, colmando la quiete di note cristalline.

Le nubi temporalesche che si erano ammucchiate nell'animo dell'ufficiale si diradarono e, stupito, alzò lo sguardo sul viso allegro della sua interlocutrice.

«Guarda che anche se fissi le macchie di birra, quelle non scompariranno. Ormai ci siamo affezionate persino noi.»

I loro occhi si toccarono; le loro anime si sfiorarono.

Immobili, l'uno si perse negli occhi dell'altra.

Quell'intimo contatto non durò che qualche secondo.

Dal nulla, il rumore sferragliante di una pentola fratturò la calma creatasi, riportando così i due giovani alla realtà presente.

Una scossa elettrica attraversò la pelle della ballerina e dell'ufficiale che, incapaci di dare un significato a quella situazione, lasciarono cadere tutto nel baratro dell'oblio .

Eppure, qualcosa di molto pericoloso era scattato nei loro cuori.

Un meccanismo infido che avrebbe potuto condurli entrambi sull'orlo della distruzione se avessero deciso di dargli una speranza.

Len si rese conto d'aver ormai oltrepassato tutti i limiti etici che avevano denotato la sua vita fino a quel momento.

Si sentiva confuso, disorientato dal turbinio di sensazioni che gli si agitavano in petto.

«Devo andare.» disse d'un tratto, alzandosi dalla sedia.

Da quando era entrato in quella sala, aveva totalmente perso la cognizione del tempo.

Facendo due rapidi calcoli, Len considerò che fosse ormai mezzanotte passata.

Rin si sollevò quasi di riflesso, spaventata all'idea che lui potesse andarsene.

«Tornerai?» le sue labbra pronunciarono quella richiesta prima che il cervello potesse interromperla.

L'ufficiale si girò in sua direzione, calcandosi il cappello militare sui capelli biondi.

Avrebbe dovuto risponderle di no.

Avrebbe dovuto porre fine a quella follia.

Avrebbe dovuto far ritorno alla sua rigida vita militare.

Razionalmente, sarebbe stato il comportamento più adeguato da seguire per un uomo dalla brillante carriera come la sua.

«Sì, tornerò.»
Con quelle fatidiche parole, i due giovani firmarono la loro condanna.

Il fiore di quell'amore malato sbocciò fuori stagione nei loro cuori, intrappolandoli in un'ingannatrice foresta di spine.

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Capitolo 3
*** «Insieme.» ***


Chapter III 

Le lancette dell'orologio ticchettavano con insistenza nel quartier generale.

Il prezioso oggetto sembrava essersi trasformato in una calamita per le sue iridi iniettate di desiderio. Sentiva il corpo fremere all'idea di uscire nella notte e correre da lei.

Era seduto a tavola da due ore, ormai; un numero indefinibile di portate gli erano passate di fronte agli occhi senza che il suo insaziabile appetito venisse destato.

Salmone servito con riccioli di burro su crostini di pane bianco, pezzi di carne succulenta condita con aromi provenienti da Oriente. Quaglie, capponi e verdure cotte sul fuoco avevano poi imbandito la tavola assieme ad un'illimitata quantità di formaggi e marmellate dai colori sgargianti.

Vino, sidro e liquori di ogni genere avevano riempito i calici dei suoi compagni in un costante avvicendarsi di richiami alle servette che correvano con gli otri stretti al petto. Len aveva appena toccato le porzioni servitegli dai camerieri, giocherellando piuttosto con i rivoli densi dei condimenti che si accumulavano ai bordi dei piatti di porcellana. Di fronte al suo posto, un uomo grasso quanto un maiale continuava ad affondare la forchetta in tutto ciò che gli fosse servito, innaffiando il tutto con generose quantità di vino rosso. Il generale avvertì un penetrante senso di disgusto afferrargli lo stomaco nel disgraziato momento in cui il suo sguardo cadde sulla camicia di raso che indossava.

Il candido colore dell'indumento era stato irrimediabilmente macchiato da tracce di sugo, miele e vino; nulla avrebbe più potuto riportare al suo stato originario il capo di vestiario.

La luce generata dal lampadario di cristallo non faceva altro che mettere in risalto tutti quei repellenti dettagli. Alla sua destra, il superiore non la smetteva di ridere, estasiato dai fumi dell'alcool e dalle chiacchiere leziose di una donzella dagli occhi color nocciola.

Len si appoggiò allo schienale imbottito della sedia, maledicendo in silenzio chiunque avesse avuto l'idea d'organizzare quel banchetto senza prima informarlo.

Da quando si erano seduti a quel lunghissimo tavolo apparecchiato, il generale aveva avuto il modo d'osservare la luna sollevarsi nel cielo.

Ora quell'immobile occhio lattiginoso, scrutava il palazzo ducale in cui l'esercito si era insediato.

«Non hai bevuto praticamente nulla, generale!» strillò uno dei sottotenenti, facendo cenno ad una ragazzina dall'aria stanca.

«Sai che non amo particolarmente bere, amico mio.» sorrise lui, cercando di non far trapelare quanto quella situazione l'innervosisse. In un'altra occasione, si sarebbe lasciato andare all'allegria della festa e della musica; avrebbe brindato assieme a tutti coloro che avevano contribuito alla conquista.

Eppure, in quel momento, lei occupava irrimediabilmente i suoi pensieri.

Una servetta gli passò accanto chiedendogli se desiderasse ancora un po' di vino speziato ma prima che Len potesse risponderle, il viso di lei si trasformò in una ciliegia.

Strillando per l'imbarazzo, la giovane si girò di scatto per allontanarsi dalla mano sfacciata che aveva sollevato l'orlo della gonna. Il liquido contenuto nella brocca fuoriuscì simile ad un'onda rosata, colpendo il generale dritto sul viso.

Il silenzio calò bruscamente in tutta la sala mentre la ragazza, avvertendo su di sé centinaia di sguardi, si girò con lentezza, pallida come un lenzuolo. Non appena scorse il disastro combinato, cominciò a tremare come una foglia, biascicando qualche incomprensibile scusa. Len si alzò dalla sedia, raccogliendo da tavola il fazzoletto di tessuto. A giudicare dalla condizione della casacca e dei capelli, nella brocca non doveva esserci rimasto che un misero rivolo di vino. Tutti attendevano la furiosa reazione del militare ma, in cuor suo, Len avrebbe voluto baciare quella sbadata domestica.

Finalmente, con quel pretesto, poteva abbandonare la sala e quel tedioso banchetto.

«Vattene.» abbaiò con voce asciutta ed irata.

Il suo superiore gli afferrò il polso, mettendo in mostra i denti ingialliti dal fumo e dall'età.

«Sei congedato, amico mio. Va' pure a lavarti.»

Len chinò il capo in segno di ringraziamento prima di uscire, seguito dal rinato, allegro baccano. Dovette aggrapparsi a tutto il suo autocontrollo per non mettersi a correre lungo i lussuosi corridoi; un paio di inservienti si inchinarono con deferenza nel vederlo passare.

Gli sguardi su tela dei precedenti regnanti lo squadravano con acredine, come se volessero rimproverarlo d'aver invaso il loro territorio.

Dopo qualche minuto di passeggiata veloce, Len giunse di fronte alla porta della propria camera. Tanta fu la furia di entrare e chiudere la porta che la punta dei suoi stivali si incastrò nel tappeto disteso sul pavimento, minacciando di farlo cadere. Afferrando i lembi della sua casacca fradicia di vino, l'uomo se la sfilò dalla testa senza neanche sbottonarla.

Il piccolo catino di porcellana era vuoto e, ordinatamente sistemate sul sostegno di legno, una serie di boccettine di sapone attendevano d'essere utilizzate.

Len si guardò allo specchio sbuffando per il fastidio. La situazione era persino peggiore di quello che si sarebbe potuto immaginare: i capelli erano ridotti ad una massa appiccicaticcia di crine, la pelle emanava un fortissimo odore di alcool speziato.

Sistemarsi in maniera decorosa era assolutamente fuori discussione. Solo per togliersi di dosso il puzzo del vino avrebbe impiegato la maggior parte del tempo rimastogli e l'uomo non aveva alcuna intenzione di mancare alla sua promessa.

Perciò, in una vera guerra contro il tempo, l'ufficiale si sciacquò la testa e la pelle del petto prima di indossare dei semplicissimi abiti privi di insegne militari.

Senza dare nell'occhio, uscì nel gelido abbraccio della notte cercando di non pensare al freddo che gli mordeva la pelle, ancora umida sotto i vestiti.

Nell'incamminarsi per le strade buie, accompagnato solo dalla lattea lanterna che galleggiava nel cielo, Len ebbe il timore di non riuscire a ricordare la strada attraversata in compagnia della sua truppa. I suoi stivali producevano un suono sordo ogni qual volta colpivano i mattoni divelti del camminamento. Quello era l'unico rumore presente in un manto di tenebre innaturalmente immobile.

Un gatto, acciambellato su un cumulo di sporcizia, si drizzò sulle zampe magre non appena vide avvicinarsi lo straniero. Il pelo si sollevò sul collo della bestia, accompagnato da un basso sibilo intimidatorio. Len ignorò quell'avvertimento, guardandosi attorno nella speranza di riconoscere uno dei tanti diroccati edifici che lo circondavano.

Osterie, bordelli e taverne si avvicendavano in un turbinio di insegne, riportanti gli squallidi nomi dei locali. Il senso dell'orientamento dell'ufficiale era sempre stato infallibile.

L'uomo riusciva a ricordare senza difficoltà le cartine dei luoghi conquistati e quell'insignificante roccaforte non faceva di certo eccezione.

Eppure, così avvolta nel buio, sembrava che la città stesse volontariamente spostando i propri confini per confonderlo e fargli così perdere del tempo prezioso.

«Ma dove diamine sono finito?» borbottò, fissando in cagnesco il minuscolo fiumiciattolo che scorreva alla sua destra. L'odore dell'acqua stagnante rimestò tutto quello che aveva mangiato a cena, facendogli venire la nausea.

«Ti sei perso, generale?»

Una ridente voce alle spalle lo sorprese, facendolo voltare di scatto. Sotto la luce debole di un lampione, il suo desiderio si materializzò in una nuvola di ricci capelli color oro.

Len trattenne il fiato, abbagliato dalla ballerina. La sua bellezza, benché celata da stracci cenciosi, eguagliava quella della luna, unica custode del loro incontro.

La giovane avanzò, tenendo le braccia incrociate dietro la schiena.

«Cosa te lo fa credere?» Len arricciò le labbra verso l'alto, ritrovando la felicità perduta in quel gioco di sguardi.

Malgrado la puzza di urina e lo squallore del luogo in cui si trovavano, Len non si era mai sentito più a suo agio in vita sua.

La presenza della ragazza era sufficiente a cancellare qualsiasi altro pensiero.

«Forse il fatto che hai vagato per le strade guardandoti attorno come un pazzo per quasi venti minuti, senza accorgerti che ti stavo seguendo.»

«Potrebbe essere una prova alquanto schiacciante.» ammise l'ufficiale, appoggiando la schiena contro il muro coperto di umida edera.

«Dovresti fare più attenzione. I bassifondi non sono una giostra per poppanti.»

Rin si posizionò di fronte all'ufficiale, sollevando il mento in un chiaro gesto di sfida.

Gli occhi dell'uomo ebbero un guizzo nel momento in cui l'affermazione abbandonò le labbra della ragazza, materializzandosi tra loro.

Il suo orgoglio cominciò a gonfiarsi, simile ad una spugna imbevuta d'acqua.

«Lo so fin troppo bene. Credi forse di parlare con uno sprovveduto?»

«Voi dell'esercito, molto spesso, non siete altro che palloncini gonfi d'aria.»

A quel punto, Len scattò in direzione della ragazza con il solo intento di spaventarla.

Lei però, a dispetto delle sue aspettative, reagì davvero.

Scartando di lato, veloce come un serpente, la giovane afferrò il polso dell'uomo torcendolo con forza. Poi, senza dargli tempo di reagire, entrò nella presa delle sue braccia e spingendolo contro il muro, gli bloccò la gola con l'avambraccio.

«Te lo ripeto, ufficiale, questo non è un parco giochi..» sibilò ad un centimetro dal suo viso, arricciando le labbra rosee in un'espressione tagliente. Len cominciò a ridere, l'adrenalina gli rombava nelle vene, assieme all'entusiasmo d'aver trovato una creatura squisitamente unica.

Rin si aspettava una risposta ma il generale replicò in maniera totalmente diversa.

Deciso a rivendicare il proprio orgoglio offeso, l'uomo rispose all'affronto della ballerina.

Sfruttando il proprio peso, nettamente superiore a quello di lei, l'uomo si sottrasse alla presa strangolatrice. Colta alla sprovvista, la ragazza barcollò indietro scivolando sulla patina melmosa che ricopriva il camminamento.

Len scattò avanti afferrandole entrambi i polsi con le mani.

Una fitta di paura gli chiuse la gola quando le ossa del polso di lei premettero contro il suo palmo. Erano così sottili da dare l'impressione che si sarebbero potute spezzare solo esercitando una maggiore pressione. A quel punto, l'uomo bloccò la sua offensiva, sostenendo con il braccio libero la vita della ragazza, per far si che non scivolasse nel fango.

Ogni distanza di sicurezza era svanita tra loro.

I visi erano tanto vicini che Len poté ammirare ciascuna piccola sfumatura presente negli occhi di lei.

I loro respiri si fusero in un silenzioso rincorrersi di pensieri che mai sarebbero stati pronunciati.

«È un peccato che tutto questo non sia un parco divertimenti,» quel solo sussurro infranse la tensione vibrante. L'ufficiale arricciò le labbra, affondando le dita nel costato della ballerina quasi a rivendicare materialmente la sua vittoria.

«Perché io amo giocare.»

Rin avvertì una scossa elettrica attraversarle il sangue mentre, rispondendo a quel sorriso, si liberava per rimettersi in piedi.

Il placido gorgogliare del fiumiciattolo era l'unico rumore che infrangeva la sacralità della notte.

Rin adorava quella quiete; aveva sempre amato i piccoli rumori prodotti dalle tenebre.

Len, al contrario, aveva sempre prediletto la luminosità della luce solare ma, in quel determinato frangente, sarebbe riuscito ad amare persino il colore assunto dal cielo di mezzanotte.

I loro occhi si ricercarono nuovamente, simili a due calamite dai poli opposti.

Quella ragazza riusciva a scatenare in lui un sentimento strano, indecifrabile, che tanto assomigliava a quella sensazione che i romanzi rosa classificavano come “amore”.

Durante le feste nobiliari, Len aveva sentito centinaia di volte quelle mielose storielle in cui la passione esplode con la veemenza d'un fuoco nei cuori dei due innamorati.

Il generale, nel suo mantello di cinismo, non aveva mai creduto a quelle frottole.

L'amore che lui aveva conosciuto non era altro che uno strumento per ingannare e privare un uomo della sua dignità. In un flash amaro, l'ufficiale si rivide chino sulla fanciulla dai fluenti capelli color carbone che, quella notte, aveva finto d'adorare alla follia.

Ricordava, come un pugno nello stomaco, lo sguardo speranzoso di lei mentre le dita dell'uomo scivolavano sulla pelle d'alabastro della guancia.

Nel giro di un battito di ciglia, rivide i suoi soldati strattonare la giovane ed il vecchio padre al centro della piazza costellata da fiaccole minacciose.

Il sovrano aveva gridato infamie contro l'esercito invasore mentre il sangue dei suoi servitori ruscellava tra le intercapedini del pavimento, bagnando gli steli delle erbacce che vi crescevano.

Len rivide le lacrime di lei, celanti l'odio e la disperazione di una donna tradita. Avvertì nuovamente il peso della mano del suo capo sulla spalla mentre la risata roca esplodeva nel cielo, producendo nel suo petto un senso di viscido odio verso sé stesso.

Aveva ormai perso il conto delle volte in cui aveva ingannato e pugnalato alle spalle per favorire l'affermazione del proprio potere.

Il suo cuore si era prosciugato di tutti quei positivi sentimenti che, generalmente, le persone avvertono in prossimità dei piccoli piaceri della vita.

Il cibo aveva perso ogni sapore; il vino non era altro che un'acida bevanda simile all'acqua; il sorgere del nuovo giorno allungava quella misera esistenza d'apatia ed indifferenza.

Len era un guscio vuoto, nient'altro un corpo senza più anima.

«Sei sempre così tenebroso, generale?» La voce di Rin punzecchiò il suo cervello come un lungo spillo, allargando le trame soffocanti dei suoi pensieri.

Gli occhi dell'ufficiale si tuffarono in quelli di lei, ricercando in quel colore così intenso una qualche salvezza alla sua disperata situazione.

«Quali fantasmi si agitano nella tua testa?»

La ragazza scavò a fondo nello sguardo del compagno, alla ricerca di quel ricordo che l'aveva trascinato lontano, nell'oceano della rimembranza, lì dove nessuno avrebbe mai potuto raggiungerlo.

«Fantasmi più neri della pece, mia cara.»

«A me piace il buio.» Rin si avvicinò d'un passo, afferrando il polso dell'uomo.

Len si liberò dalla sua presa, voltando di lato la testa con un sorriso amaro ad incorniciargli le labbra. I capelli gli scivolarono di fronte agli occhi, nascondendo parzialmente il fiume di ricordi che ora gli solcava le iridi.

«Generale, tutti abbiamo sulla coscienza almeno uno spettro che ci perseguita.»

«Non sai quanto siano raccapriccianti i mostri che mi perseguitano.»

Rin tornò ad afferrare il polso dell'uomo e, questa volta, gli piantò le unghie nella carne di modo che lui la guardasse. «Lascia che ti dica una cosa, ufficiale..»

La voce della giovane s'abbassò di colpo mentre i suoi stessi ricordi tornavano a perseguitarla.

«Non è chiudendoti in te stesso che riuscirai ad esorcizzarli.»

«E chi dovrebbe aiutarmi, sentiamo? Tu?» Len stava iniziando a perdere la pazienza e la giovane se ne accorse all'istante, allontanandosi per precauzione d'un paio di passi.

Rin non rispose e guardò l'uomo in piedi davanti al muro.

Era forse lei la persona che avrebbe potuto salvare l'ufficiale dalla sua oscurità?

Quando lei stessa non era altro che un amalgamo di mostri terrificanti?

«Forse, la nostra unica salvezza risiede in chi condivide lo stesso buio presente nelle nostre anime.»

La ballerina tentò d'abbozzare un sorriso mentre la luna, con la sua luce, disegnava ghirigori sulla pelle perfetta.

Len si passò una mano tra i capelli, inclinando il capo di lato.

Il suo sguardo si tramutò in un oceano di tristezza.

«Allora lasciamo che il buio ci inghiotta..»

Le sue parole fluttuarono nell'aria, tramutandole in una promessa.

«Insieme.»

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Capitolo 4
*** Un bacio al sapore di sale. ***


Chapter IV 

Connessi dalla promessa suggellata di fronte al saggio occhio della luna, i ragazzi continuarono a vedersi, bisognosi l'uno della presenza dell'altra.

Notte per notte, l'ufficiale sgattaiolava via dal quartier generale confondendosi nei tanti vicoletti che costituivano il borgo distrutto.

Si incontravano di nascosto, lontano dagli sguardi pericolosi che avrebbero potuti metterli in pericolo.

Len aveva iniziato ad amare la venuta della sera.

Ogni giorno si ritrovava ad attendere, con malcelata trepidazione, il tramonto della sfera solare.

Il luogo in cui i giovani avevano preso l'abitudine di incontrarsi era una bettola squallida e senza nome, il cui taverniere era una uomo tanto vecchio da reggersi a stento in piedi.

La qualità del locale e del mobilio era ovviamente pessima; per non parlare della birra servita dall'unica cameriera presente che, girando per il locale vuoto, cercava qualcosa da fare.

Len, inizialmente, era rimasto tanto disgustato dalla puzza e dallo sporco da non voler più mettere piede nella locanda. Però, quando Rin l'aveva pregato di sopportare quella miseria, l'ufficiale non aveva potuto fare a meno d'accettare. A giustificazione di quella scelta così infelice, la ragazza gli aveva spiegato che essendo una ballerina di successo, il suo viso era conosciuto in tutti i locali della zona. Di conseguenza, se si fosse presentata con un uomo al seguito, nulla avrebbe impedito ai pettegolezzi di diramarsi. Le anziane signore del borgo non attendevano altro che una succosa notizia in cui affondare le gengive sdentate.

Nel giro di pochissimo, tutti avrebbero conosciuto l'identità del suo fantomatico accompagnatore.

Len, udendo quelle parole, aveva immediatamente abbandonato l'idea di spostarsi.

Quando la ballerina era impegnata dal lavoro, l'ufficiale aspettava con ansia il suo arrivo, ticchettando le unghie contro il tavolo marcio per calcolare lo scorrere del tempo.

Con il cappuccio del mantello ben calcato sul viso, l'uomo guardava il liquido ambrato presente nel boccale di fronte a lui. Nei momenti in cui la solitudine lo avvolgeva, i suoi pensieri si facevano più densi e problematici da controllare. Il suo cervello aveva ormai da tempo etichettato la pericolosa sensazione che provava in compagnia di Rin ma, malgrado l'evidenza, Len rifiutava d'accettare la verità dei fatti.

Fino a quel momento, ripetendosi che quel suo interesse derivava solo dalla pura attrazione fisica, era riuscito ad ingannare la sua mente. Così facendo, l'uomo credeva risolto il problema alla radice; in verità, presto o tardi, tutti quei dubbi avrebbero finito per soffocarlo.

Se solo avesse dato ascolto al cervello, quella folle storia sarebbe finita quella sera stessa; eppure, per una volta, voleva che fosse l'istinto a guidarlo.

Poi, per quella sera, le riflessioni si erano vaporizzate con lo scampanellio della porta d'ingresso, spalancatasi verso l'interno.

«A cosa stai pensando, amico mio?»

La roca voce del comandante strappò Len dalla sua incosciente contemplazione, riportandolo brutalmente con i piedi per terra.

Battendo un paio di volte le palpebre, l'uomo si ritrovò di fronte ad una finestra, seduto comodamente su una poltrona di velluto rosso.

«Pensavo a quanto fosse bello questo tramonto, comandante.»

L'anziano dondolò sui talloni, incrociando le mani dietro la schiena. I baffi, candidi come la neve, vennero accarezzati dai riflessi sanguigni del crepuscolo che, quasi per screzio, mise in evidenza l'invecchiamento dell'uomo.

«Sono d'accordo con te, ragazzo. Le cose più belle si celano in quella quotidianità che così poco apprezziamo.»

La sfera rosseggiante si era abbassata ed ora sfiorava i tetti delle case, annerite dal fuoco che le aveva inghiottite durante l'assalto.

L'eco della battaglia ancora rimbombava nelle sue orecchie assieme alle grida disperate di coloro che avevano perso la vita.

Per l'ennesima volta, seguendo chissà quale ideale, si era macchiato le mani di sangue rubando egoisticamente il futuro di persone innocenti.

«Ti piace questa città?»

«È uguale a tutte le altre, comandante.»

Per evitare spiacevoli inconvenienti, Len vestì la propria espressione della maschera più fredda presente nel suo repertorio.

Ovviamente quel misero borgo gli era entrato nel cuore con la stessa potenza di uno stiletto. Un solo paio di occhi erano riusciti a sciogliere i cristalli di ghiaccio che, per anni, avevano morso la sua carne.

«Sei il solito insensibile, ragazzo. A volte mi chiedo seriamente se tu abbia un cuore in quel petto.» Il vecchio gli diede un vigoroso colpo sui pettorali, facendolo espirare bruscamente. Per quanto fosse avanti con l'età, il soldato possedeva ancora molta della forza che aveva caratterizzato la sua giovinezza.

«Ma è per questo che mi piaci. Non ho mai avuto nelle mie file una macchina assassina come te.»

Len chinò il capo in segno di ringraziamento, cercando di non pensare a ciò che l'uomo aveva appena detto. La poltrona in cui si era seduto sembrava essersi trasformata in un ammasso di spilli dalla punta avvelenata. Il nervosismo provocatogli dalla presenza del comandante, aveva trasformato la sua pelle in una pellicola sovrasensibile. I muscoli dell'avambraccio appoggiato al bracciolo gli facevano male, tanto erano contratti.
Len respirò profondamente senza farsi notare dall'uomo di fronte a lui, impegnato in una delle sue frequenti divagazioni. Ondeggiando le mani nodose, il caporale gli stava raccontando di un lontano episodio che, ovviamente, lo aveva visto protagonista incontrastato della scena.

Il cervello del ragazzo era però distante anni luce dal luogo in cui si trovava fisicamente.

L'anziano soldato non sospettava niente e, di conseguenza, mantenere le apparenze era l'unica cosa importante in quel momento.

Len aveva sentito i soldati dire che era pressoché impossibile sfuggire dal fiuto di quella volpe spelacchiata. Deglutendo, avvertì un senso di puerile disagio rosicchiargli la bocca dello stomaco. Non aveva mai mentito al generale e adesso, di punto in bianco, la sopravvivenza della sua carriera si reggeva in bilico sulla minuscola cruna d'un ago.

Len riuscì difficilmente a nascondere lo sbocciare di spontaneo sorriso.

Non si era mai sentito tanto vivo in vita sua! L'adrenalina sembrava scorrere nelle sue vene densa come ferro fuso.

«Ti volevo chiedere un'opinione.»
I furbi occhi scuri del militare si soffermarono sul viso del ragazzo, attendendo una qualche reazione da parte sua. Len rimase immobile, come suo solito, sperando che l'uomo procedesse senza bisogno del suo intervento.
«Il governante di questa bettola, per ingraziarci i nostri favori, ha pensato di organizzare un ballo in nostro onore.» con un grandissimo sorriso, l'uomo batté i palmi delle mani contro le ginocchia fasciate dall'uniforme. Un fiotto di bile inacidì la saliva del ragazzo.

Un ballo?! Ci mancava solo quella stupida usanza cortigiana a complicargli la vita.

«Ci sarà cibo della miglior qualità, le melodie dei musicanti più famosi ed infine, fanciulle dalle generose scollature.»

L'uomo scoppiò a ridere, forse allietato dalla sua stessa ilarità.

Len abbozzò un sorriso d'intesa cercando di mascherare al meglio i propri pensieri.

«Non puoi mancare, Len.»
Quello del capitano non era un consiglio.

La sua voce s'era trasformata in una lastra di ferro: fredda come il tocco dei primi fiocchi di neve. L'ufficiale chinò il capo in segno d'assenso, malgrado tutto il suo animo tremasse all'idea di doversi atteggiare al ruolo d'educato cagnolino.
«Bravo, il mio ragazzo! So che non ami questi eventi mondani, ma fallo almeno per la compagnia femminile! Ora,» con un gemito, il vecchio si alzò dalla poltrona, accompagnato da un coro di scricchiolii.

Le sue ossa sembravano d'improvviso essersi trasformate in delicatissimi steli di cristallo.
L'età restava il più temibile dei nemici, anche per gli instancabili uomini d'armi.

«Ti farò sapere al più presto la data precisa del ballo, mio caro.»

«Grazie, comandante.»

L'uomo incrociò le braccia dietro la schiena e, nell'allontanarsi, fece picchiettare i tacchi degli stivali contro il pavimento di marmo. Len si abbandonò contro lo schienale della poltrona e, nel farlo, avvertì il sudore scivolargli lungo la schiena.

Il suo viso, riflesso nel vetro dello specchio, si era trasformato in una maschera di gesso. Fuori, gli astri stavano iniziando a manifestarsi dietro il sottilissimo velo di nuvole, simili a diamanti dai riflessi caleidoscopici. Era davvero uno spettacolo mozzafiato e, nell'osservarlo, l'uomo non poté far a meno di domandarsi come prima avesse potuto odiare la sera.

Con un colpo di reni, si alzò dalla poltrona per raggiungere la finestra. In lontananza, ad un piano di distanza, le forme dei cespugli svettavano tra le aiuole, simili a tenebrosi guardiani.

Al centro del giardino, una fontana secca da anni riportava sulla sua sommità un paffuto angioletto dalle guance cosparse di licheni. L'arco e la freccia che stringeva tra le mani si era sgretolata, cadendo nella vasca sottostante assieme a grumi di sporco e foglie marcescenti.

Improvvisamente, un movimento veloce catturò l'attenzione del ragazzo che, accostando il proprio volto alla finestra, socchiuse gli occhi. All'inizio Len credette d'essersi sbagliato ma, dopo un secondo, quella mossa si ripeté accompagnata da un baluginio d'oro. Len non voleva credere ai propri occhi. Nascosta dietro la curva della vasca, Rin scrutava con circospezione l'ambiente che la circondava, alla ricerca di un qualche possibile impaccio.

Che cosa stava facendo lì? Era forse impazzita?

Senza neanche rendersene conto, Len cominciò a correre lungo i corridoi; i suoi piedi bruciavano ed il suo cuore ruggiva nella stretta ossea delle costole.

Se l'avessero trovata, Len non avrebbe potuto far niente per salvarla. Spalancando la porta del giardino sul retro, l'uomo avanzò nel gelo della sera senza curarsi dei tanti spilli che gli foravano la pelle.

«Rin..!»
Il ragazzo sibilò a denti stretti il nome della ballerina che, ora, s'avventurava chissà dove in quel mare di aiuole e rametti coperti di piccole foglie.

«Rin! Dove sei?»

Len alzò lo sguardo in direzione delle finestre inondate di luce, pregando che nessuno s'affacciasse. L'atmosfera era immobile ed il solo elemento che turbava quella stasi erano i pugni di condensa che uscivano dalle sue labbra socchiuse.

«Rin!»

«Ma insomma.. quanta insistenza, generale.» un paio di mani si appoggiarono alle sue spalle, trascinandolo indietro verso una delle tante aiuole invecchiate. Len si lasciò condurre al riparo del cespuglio, voltandosi solo quando fu abbastanza sicuro di non essere più visibile dall'alto del primo piano.

«Si può sapere che cosa diamine ti salta in mente?!» ruggì l'uomo, afferrando di scatto un bavero del mantello che le nascondeva il corpo. Lei arricciò le labbra in uno dei suoi adorabili sorrisi di sfida, allentando con impassibilità la sua ferrea stretta.

«È questo il modo con cui accogli i tuoi ospiti, generale?»

Len era talmente fuori di sé da non riuscire ad apprezzare i suoi soliti sbuffi d'ironia.

«Hai corso un rischio troppo grande, Rin. E se ti avessero trovata?»

«Sarei scappata, come sempre.»

«Ci sono centinaia di guardie in questo maledetto fortino.»

Rin si sedette a terra, incrociando le gambe sotto il corpo.

La luce delle stelle giocava tra i suoi capelli, per poi accarezzare la pelle eburnea.

Anche se vestita di quello straccio cencioso, assomigliava ad una ninfa. Le sue iridi, prima così vivaci, erano state oscurate da una pesante nuvola di sdegno, probabilmente a causa delle parole dure del generale.

«Ed io che pensavo di farti una sorpresa.» Quando la giovane atteggiò la bocca in un broncio infantile, Len avvertì le sue difese crollare, seppellendo sotto le macerie le braci della sua rabbia. Con un sospiro si lasciò cadere nell'erba umida, scuotendo la testa con fare rassegnato.

«Una sorpresa perfettamente riuscita, oserei dire.»

Rin scrollò le spalle, evidentemente poco convinta dall'affermazione di lui.

«Non sembrerebbe, a giudicare dalla tua reazione.»

Le sue parole generarono una strana reazione chimica nell'animo del generale che, voltandosi di scatto in sua direzione disse:

«Ero preoccupato, possibile che tu non lo comprenda!?»

Quando si rese conto di aver pronunciato quelle parole, era troppo tardi.

Rin rimase in silenzio per un paio di minuti; le sue guance si erano trasformate in fragole ed i suoi occhi scintillavano d'un emozione mai provata prima. Poche erano state le persone a cui si era potuta affidare nel corso della sua vita e nessuno di quelle le avevano mai rivolto parole tanto dolci e affettuose. Possibile che qualcuno potesse davvero preoccuparsi per lei?

«Ripetilo..» la giovane si inginocchiò nell'erba, protendendosi in direzione dell'ufficiale.

Questi volse la testa altrove, atteggiando le proprie labbra in un broncio scontento. Non avrebbe dovuto dire una cosa tanto avventata eppure, niente aveva potuto bloccare il muoversi precipitoso delle sue labbra. Ed ora, quel pericolosissimo pensiero galleggiava tra loro, tanto reale da spaventarlo.

Non c'era più alcun modo di sfuggire alla verità. Era giunto il momento di confrontarsi con la realtà. «Scordatelo.»

«Ripetilo, Len.»

La mano della ragazza si serrò attorno al braccio dell'uomo, costringendolo a voltare lo sguardo in sua direzione. Le iridi della ragazza si erano trasformate in due pozze azzurre, tanto chiare da poter leggere in esse lo scorrere affusolato dei suoi pensieri. Len si accorse del tremolio che le scuoteva le spalle e finalmente, comprese che non lo stava prendendo in giro.

«Ero.. preoccupato.» Len intrecciò le dita a quelle di lei, appoggiandole contro la propria guancia.

«Quando ti ho visto, il solo desiderio che ho avuto è stato quello di correre qui sotto ed abbracciarti.» Gli argini che avevano imbrigliato i suoi più remoti istinti si sgretolarono, lasciando che i pensieri si riversassero sulla sua lingua, simili ad un fiume in piena.

I loro corpi s'avvicinarono, come i poli opposti di una calamita.

Len accarezzò la guancia della giovane per poi sfiorare i riccioli d'oro con la punta dei polpastrelli. Una fragrante ondata di profumo gli sfiorò il volto, sovrastando l'odore dell'acqua stantia generata da un paio di pozze rimaste a macerare sul fondo della vasca.

Rin chiuse gli occhi, sorridendo appena.

«Nessuno si era mai preoccupato per me.»

Il generale, vinto dalla tenerezza infantile di quelle parole, si chinò sino a sfiorarle la fronte con le labbra.

«Ora hai me.»

Rin aprì gli occhi ed una lacrima rotolò lungo la sua guancia, carica di tutto quel dolore che anni di solitudine le avevano procurato.

L'ufficiale, ormai giunto al limite massimo di sopportazione, annullò la distanza che separava i loro volti. Ancora una volta, la notte si fece custode del loro segreto mentre, le stelle, rendevano omaggio all'amore spinoso di quei due giovani.

Len strinse la giovane a sé, circondandole la vita con un braccio.

La ballerina, vinta dal bruciante sentimento che le scottava il cuore, gli cinse le spalle affondando le dita tra i suoi capelli.

Quel bacio al sapore di sale distrusse in un batter d'occhio tutta la cautela che avevano utilizzato durante le tante sere passate insieme.

Ormai, non c'era più spazio per i rimorsi. Non c'era più modo di tornare indietro.

La fiamma di quella passione lambiva ogni centimetro della loro pelle, scoperta o coperta che fosse.

Seppur fuori stagione, il germoglio del loro amore era definitivamente sbocciato.

«Tutto questo è folle.» sussurrando, la giovane lasciò che l'ufficiale carezzasse la curva del suo collo con le labbra. Con una risata sommessa l'uomo alzò il viso per ammirare quegli occhi che sentiva d'amare oltre i limiti del possibile.

Lei gli aveva rubato l'anima.

«Non c'è modo di sfuggire a questa follia, ormai. Lo sai, vero?»

«E chi ha detto di voler fuggire?» 

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Capitolo 5
*** Solo il presente ha importanza. ***


Chapter V 

Il sole di mezzogiorno fiammeggiava tra un sottilissimo velo di nuvole. Nel cortile del fortino, la polvere ambrata si sollevava a sbuffi a causa del calpestio degli stivali di una cinquantina di uomini.

Gemiti di fatica ed esclamazioni di giubilo si mescolavano al rumore stridente delle lame che cozzavano le une sulle altre. Nugoli di scintille accendevano l'atmosfera, ustionando le braccia e le mani di coloro che si allenavano al crudele gioco della guerra.

«Credete forse d'essere in un parco giochi? Forza con quelle spade!»

Len si voltò di scatto verso il proprio avversario e, schivando un goffo fendente, gli assestò un calcio al centro del petto. Questi crollò all'indietro con un lamento incastonato tra le labbra; la spada cadde nella polvere, graffiando la pelle del possessore. Il soldato, sotto lo sguardo sprezzante del suo comandante, toccò con una smorfia il graffio imperlato di sangue.

«Non riesco davvero capire come ci si possa ferire con delle lame dalle punte arrotondate.» Len asciugò il sudore che gli gocciolava lungo le tempie e, con un gesto impaziente, scostò dalla fronte i capelli bagnati. La casacca si era incollata alla pelle dei suoi pettorali in modo tanto fastidioso da fargli desiderare di strapparsela di dosso.

Un uomo rotolò accanto ai suoi piedi, latrando a denti stretti contro il proprio avversario.

Le gengive erano sporche di sangue, probabilmente a causa di un pugno che aveva trapassato la sua guardia. Altri due soldati nerboruti si stavano picchiando nella polvere, strattonandosi per le spalle ed i capelli, accompagnati dalle grida eccitate dei più svogliati commilitoni.

«Si può sapere cosa diamine sta succedendo?!» Len gridò, colpendo con una percossa le gambe allacciate dei due. Sputando per terra, il soldato dalla testa rasata si sollevò da terra per spazzarsi via di dosso la sabbia dell'arena. L'altro, in tutta risposta, si girò sulla pancia per vomitare qualche dente assieme ad un grumo di sangue denso.

«Andatevi a ripulire, cialtroni.»

«Sì, comandante.» biascicò il soldato, alzandosi zoppicante al fianco d'un amico che, sorreggendolo, lo condusse verso l'infermeria. Len si massaggiò la base del naso, stufo di vedere quel branco di incompetenti azzuffarsi come mocciosi. Con un gesto della mano congedò tutti i rimasti, raccogliendo da terra la propria spada per continuare ad allenarsi da solo. Len chiuse gli occhi ed immaginando di trovarsi di fronte a centinaia di temibili nemici, cominciò a danzare, fendendo l'aria che lo circondava. Teste, arti, dita volavano attorno a lui simili a macabre farfalle, disegnando nell'aria archi di sangue scarlatto. Malgrado fosse disgustato dalla violenza con cui i suoi sensi rispondevano al richiamo della battaglia, Len non poteva che sentirsi appagato dal guizzare dei muscoli sotto la pelle. La puzza del sudore, la carezza viscida che sentiva lungo il viso contribuivano a farlo sentire vivo, potente, indistruttibile.

«Ehi, ragazzo! Fermati.»

Len s'interruppe all'istante, a metà d'un affondo contro un nemico dai capelli neri come il catrame.

Il fantasma si dissolse nell'aria, non prima d'avergli lanciato un'occhiata di puro disprezzo.

Era forse quello il viso dell'ultimo uomo che aveva ucciso?

Non lo ricordava.

Il capo lo stava guardando da lontano, appoggiato alla ringhiera di legno che delimitava il circuito d'allenamento dei soldati. Sotto il naso affilato, i baffi bianchi sembravano diventare, giorno per giorno, più folti come se possedessero vita propria.

«Signore. Mi perdoni, non l'avevo vista.» chinando il capo per salutare il vecchio, Len rinfoderò la spada nel fodero di pelle marrone.

«È sempre un piacere guardarti combattere, ragazzo. Sei fenomenale.»

«La ringrazio infinitamente per i suoi complimenti, signore.»

L'uomo sorpassò con un balzo goffo la bassa staccionata ma nel farlo, un dolore fulminante si impossessò delle sue anche, irrigidite dall'età. Il ragazzo, spaventato dal suo cupo lamento, fece un passo avanti per aiutarlo ma lui, alzando una mano, protesse il proprio orgoglio dietro lo scudo del rifiuto. Raddrizzandosi e sistemando le falde della casacca, scoccò un sorriso entusiasta al giovane combattente.

«Ho delle interessanti novità sul ballo di cui ti ho parlato!» l'enfasi nella voce del vecchio insospettì il ragazzo, facendogli drizzare i capelli sulla nuca. La fronte dell'uomo, vestito con i pesanti abiti da comandante, era imperlata di sudore. Inoltre, Il suo respiro si era fatto pesante, come se gli costasse fatica stare lì, in piedi, sotto l'impietoso martellare del sole.

Malgrado conoscesse perfettamente il temperamento difficile del comandante, il soldato non poté far a meno di allarmarsi.

«Signore, forse è meglio spostarci in un luogo più fresco.»
Il veterano scosse la testa, rifiutando d'accettare la decadenza del proprio corpo.

«Un ballo in maschera!»

«Come, scusi?» Len sperò d'aver capito male malgrado il suo udito non l'avesse mai tradito.

«Non è un'idea geniale? Questo allontanerà la noia dei soliti ricevimenti.»

Len storse la bocca, appoggiando la mano contro il proprio fianco. C'era qualcosa che non lo convinceva in tutta quella faccenda.

Le novità non gli erano mai piaciute, forse a causa del potenziale pericolo che si nascondeva in esse.

«Non crede sia meglio mantenerci..»

«Ragazzo, cosa ti preoccupa?» l'uomo l'interruppe prima che potesse terminare la frase. Evidentemente deluso dalla titubanza del suo interlocutore, l'anziano aveva incrociato le braccia sul petto con un cruccio appiccicato alle labbra.

Accorgendosi del nervosismo del suo superiore, Len decise che non avrebbe ulteriormente contrastato la sua volontà. Inghiottendo i dubbi, imbrigliò la voce della propria indipendenza, scuotendo il capo in cenno di diniego.

«Niente, signore. Era un mero pensiero di passaggio.»

Asciugandosi l'ennesima, fastidiosa goccia di sudore colatagli lungo la guancia, Len appoggiò distrattamente la mano sull'elsa della spada.

«Per quando è previsto il ballo??» il ragazzo, malgrado fosse infastidito da quell'onere, cercò di non lasciar trapelare nessuna emozione dalla sua voce. Il vecchio, apparentemente rinfrancato dall'interesse del suo sottoposto, gli appoggiò le mani sulle spalle.

«Domani. Stanno già lavorando.»

«Ma non aveva parlato di maschere, signore?» Len era alquanto stupito dalla velocità con cui l'ex sindaco aveva messo in moto l'organizzazione della serata danzante. Effettivamente, quella mattina, il via vai dei camerieri nei corridoi del fortino gli era sembrato molto più frizzante del solito.

Aveva visto servette e camerieri portare tra le braccia pile di piatti di porcellana e stoffe dai colori sgargianti come l'arcobaleno. Cuochi dai cappelli color neve andavano avanti ed indietro portando in buste di stoffa alimenti di ogni genere e dimensione.

Il profumo speziato della carne si mischiava a quello dolciastro della frutta secca e del pane bianco.

«Il sindaco ci ha proposto il semplice uso di maschere per il viso.»

Il vecchio sorrise ancora, arricciando tra le dita la punta dei baffoni bianchi. Poi, con un gesto elegante, si sfilò dalla tasca un fazzoletto di seta, portandoselo di fronte agli occhi ad imitare il futuro travestimento.

«Sarà divertente, ragazzo.»

«Certo, signore.» Len cercò di suonare convincente.

Il vecchio socchiuse la bocca per aggiungere dell'altro ma, improvvisamente, una richiamo titubante risuonò nel cortile.

«Credo che qualcuno abbia bisogno di lei.»

«Possibile che questi caproni non sappiano fare nulla da soli!?» borbottò a voce alta, girandosi per fare un cenno all'impettito soldato che l'attendeva al fianco della porta di legno scuro.

«Ah, Len, un'ultima cosa!» il vecchio, avviantosi lungo il sentiero di terra battuta, si girò un'ultima volta per scoccare uno dei suoi scaltri sorrisi al giovane sottufficiale.

«Hai una preferenza di colore per la maschera?»

Len, divertito da quella domanda infantile, inclinò il capo di lato facendo così scivolare i capelli umidi contro la spalla.

«Nera, signore.» le sue parole risuonarono sicure nello spazio che li divideva. Poi, l'impercettibile eco di un sussurro si dissolse nell'aria.

«..Come la mia anima, signore.»

 

Rin stava parlando ormai da una buona mezz'ora, gesticolando di fronte al solito bicchiere di birra scadente. Nella fretta di raggiungerlo, si era dimenticata di lavarsi via dal viso il pesante trucco usato per la rappresentazione. L'uomo strizzò gli occhi, cercando di concentrarsi su ciò che la ragazza gli stava raccontando, senza però ottenere alcun successo.

L'argomento non era di certo noioso ma la sua mente ronzava ossessivamente attorno all'evento del giorno seguente. Len avvertiva una strana sensazione alla bocca dello stomaco; un disagio sconosciuto che sembrava punzecchiare il suo istinto come uno spillo. Quando Rin s'accorse di star dialogando con un pezzo di cera, abbandonò il proprio racconto ed appoggiò le mani sopra quelle del ragazzo.

«Ti vedo pensieroso sta sera.. c'è qualcosa che non va?»

Len scosse la testa e chiuse le dita della giovane nella presa della propria mano. Con il pollice cominciò a disegnare degli imprecisi ghirigori sulla pelle di lei, perdendosi a contemplare quell'avvicendarsi continuo di linee invisibili.

C'era qualcosa che gli sfuggiva, ma davvero non riusciva a capire di che cosa si trattasse.

Forse aveva solo bisogno di rilassarsi un po'.

«Hanno organizzato un ballo in maschera, per domani sera.»

«E questo ti allarma?» Rin ridacchiò, appuntando i propri occhi color cielo nelle iridi del soldato che, in tutta risposta, aumentò l'intensità della propria stretta, per poi carezzarle la guancia.

«Domani sera non potrò vederti.. quindi, sì, quel dannatissimo evento mi angoscia.»

La ballerina si sciolse nell'udire quella frase e, per quanto detestasse ammetterlo, l'idea di non poterlo incontrare faceva male anche a lei.

I loro appuntamenti notturni erano diventati fondamentali; più importanti della stessa aria che respirava. In prospettiva della sera, la sua giornata assumeva un senso nuovo, colorato come l'esplosione di un fuoco d'artificio.

«Stai forse cercando di comprarmi con delle lusinghe? Con me non attacca.» scherzò, sperando di stemperare un po' la tensione che contraeva i tendini del collo dell'ufficiale.

Fortunatamente, la battuta sembrò divertire il ragazzo che, sghignazzando, roteò gli occhi al cielo.
«Io non ho bisogno di comprarti.»

I suoi occhi color oceano baluginarono, attraversati da una scossa elettrica.

Rin sapeva che sotto quell'accezione maliziosa si nascondeva dell'altro, perciò socchiudendo le palpebre, lo esortò a continuare.
Scoprendo i denti perfetti in un sorriso irriverente, Len inglobò la guancia della ragazza nel palmo della mano per poi protendersi repentinamente in avanti.
Rin trattenne il fiato quando le labbra del ragazzo si fermarono ad un soffio dalle sue, tradendo le sue dolci aspettative.
«Perché sei già mia, zuccherino.»
La ballerina avvampò. Il suo orgoglio fiammeggiò, riversandole nel petto un sentimento strano, a metà tra la rabbia ed una piacere incomprensibile. A quel punto, se si fosse trattato di un altro uomo, le sue unghie si sarebbero già fatte strada sul viso di quell'impertinente.

Ma Len era diverso dagli altri.

Mai nessuno, aveva avuto il privilegio di possedere una tanto vasta porzione del suo cuore.
«Non chiamarmi più così, intesi?»
La mano della giovane afferrò alla radice i capelli folti del ragazzo, tirandoli indietro con decisione. Lui la lasciò fare, reclinando la testa per seguire il movimento brusco di lei.
«Altrimenti??» insinuò.
«Te ne pentirai.»

Ringhiando, la ragazza sfiorò con le labbra la gola scoperta del soldato. Poi, abbandonando la presa, tornò ad appoggiare la schiena contro la spalliera della sedia.
Len aveva come l'impressione d'essersi liquefatto.

Il suo cuore s'agitava come quello di un fanciullo, smanioso di provare altre sensazioni tanto inebrianti. La giovane ballerina stringeva tra i suoi artigli un cuore ormai nudo e privo di qualsiasi difesa. Al suo cospetto, tutto ciò che lo determinava si tramutava in polvere.

Forza, determinazione, fama non avevano più importanza; lei, come un demiurgo dagli angelici occhi, avrebbe potuto rimodellarlo con un solo tocco di dita.
«Noi ragazze di strada non siamo come quelle gallinelle di corte.»
«Siete creature molto più complesse.» Len si sfiorò il collo con un dito, lì dove il bacio di lei aveva lasciato un'umida traccia.
«E pericolose.» Rin fece guizzare la lingua tra le labbra per imitare il tipico gesto del serpente.

«Dovrò stare attento, allora.» con un gesto, l'uomo sollevò il proprio boccale di birra facendo così ondeggiare il liquido contenutovi.

La spuma biancastra colò lungo le scanalature del vetro, finendogli tra le dita. Rin lo imitò, inclinando il capo di lato con un punto interrogativo incollato al viso.

«Brindiamo al pericolo a cui il fato ci ha posto di fronte. Sale di questo nostro rapporto.»

«All'amaro sapore del rischio, mio caro ufficiale.» l'assecondò, colpendo il bordo del boccale con il proprio.

Rovesciando le teste all'indietro, i due terminarono in un soffio la birra scadente per poi guardarsi e scoppiare a ridere. Le loro mani si ricercarono sul piano del tavolo e, intrecciandosi, i loro occhi si scambiarono centinaia di segreti messaggi.

Tra loro non c'era bisogno di parole.

Una rete invisibile di connessioni sembrava tesa tra i loro cuori pulsanti.

Rin, ammirando il viso del suo compagno, non poté far a meno di chiedersi dove l'avrebbe condotta quell'amore così follemente intenso.

All'inferno? O forse in Paradiso? Non lo sapeva.

La verità era che non riusciva a preoccuparsene.

Finché ci fosse stato lui, la sua vita avrebbe avuto un senso.

Per quanto il futuro fosse oscuro, incerto e traballante, la giovane non riusciva a curarsene.

Solo il presente aveva importanza.

Al futuro avrebbe pensato in seguito, se non fosse stato troppo tardi.

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Capitolo 6
*** Che il ballo abbia inizio. ***


Chapter VI 

Nel giro di mezza giornata, il fortino si era trasformato in un vero e proprio diamante.

Gli affusolati corridoi erano stati decorati con nastri e fiocchi color panna; al centro di ciascuno di essi, c'era una pallina di vetro che brillava di luce propria. Dal soffitto, pendevano lucidati candelabri a quattro braccia sulle cui sommità spiccavano piccoli scrigni di cristallo simili a lacrime di gigante. Len camminava lentamente, sfiorando con la punta delle dita il mobilio tirato a lucido.

La giacca elegante, decorata sui pettorali con due medaglie al valore, perfettamente si adattava alle sue spalle larghe.

Con l'approssimarsi dell'ora decisiva, l'agitazione era schizzata alle stelle.

Gli organizzatori sbraitavano ordini a destra e sinistra, indicando piatti opachi, specchi che non splendevano e qualsiasi minuscolo dettaglio fuori posto.

Servi, cameriere e domestici sciamavano nei corridoi, simili a tante formiche vestite di nero e bianco.

Finalmente, dopo dieci minuti di passeggio, Len raggiunse il salone in cui si sarebbe svolta la serata. Abbacinato dalla ricchezza degli ornamenti, l'ufficiale si fermò in corrispondenza dello stipite per ammirare il magico gioco di luci e tinte.

Malgrado la sala non fosse propriamente aggraziata, l'organizzatore era riuscito a mascherarne la goffaggine, trasformarla in una vera esplosione di finissimo lusso e gusto.

I tre lampadari di vetro erano stati meticolosamente lucidati e, come piccole stelle, sembravano emanare luce propria.

Un nastro di raso pendeva nello spazio vuoto presente tra le lumiere, luccicando ogni qual volta un refolo di vento l'agitava. Nella stoffa erano stati incastonati tanti minuscoli pezzi di vetro, nel desiderio d'imitare un incendiato cielo stellato.

Lungo le pareti della stanza, erano stati posizionati tavoli imbanditi di cibo di ogni forma, colore e dimensione. Tacchini dalla carne dorata si alternavano a filetti di carne rossa coperta di spezie dall'odore inebriante. Al loro fianco spiccavano poi piatti ricolmi di verdure arrosto e torreggianti pile di pane bianco, la cui preparazione era stata completata appena un'ora prima.

La zona riservata ai dolciumi era ancora più variopinta. Decorate torte a piani davano mostra di sé su ampi vassoi d'argento, guarnite con chicchi d'uva rossa e bianca.

Piccoli scrigni di crema e marmellata imbandivano l'altra metà del tavolo assieme ad altrettante fettine di frutta esotica.

Tutto era perfetto.

Per l'occasione, in fondo alla sala, era stata montato un palco di legno sui cui svettavano cinque o sei sedie, preannuncianti l'arrivo del gruppo musicale.

Alcuni invitati arrivati in anticipo vagavano per la sala, stringendo tra le dita calici ricolmi di bollicine. Una donzella dai neri capelli raccolti stava osservando di sottecchi il nuovo arrivato, evidentemente annoiata dalle chiacchiere del vecchio seduto accanto a lei.

Due camerieri canuti stavano in piedi al fianco dei tavoli, rigidi come statue.

Sull'avambraccio portavano un bianco tovagliolo di servizio che perfettamente si adeguava alla camicia sotto la giacca nera.

Nel vedere quegli impettiti pinguini vestiti di scuro, Len non poté far a meno di ridacchiare.

«Ragazzi, lasciatevi dire una cosa..» il giovane si affiancò ad uno dei due servitori, accostando il viso al suo orecchio. «Non siete delle sculture, potete respirare..»

Il domestico chinò il capo, scoccandogli però uno sguardo chiaramente infastidito.

«Len! Vieni qui, voglio presentarti il nostro rispettabile amico.» tuonò con un sorriso il suo superiore, muovendo la mano per richiamarlo a sé.

Len non poté far a meno di restare deluso di fronte al tanto noto ex-reggente.

Questi, era un ometto tarchiato che da qualche anno abbondante aveva sorpassato i sessant'anni. Perlopiù, era vestito male, con una giacca tanto consunta dall'uso da avere dei buchi sfilacciati in corrispondenza dei gomiti e dei polsini.

I filamentosi capelli che ancora si aggrappavano alle sue tempie erano disordinatamente pettinati indietro, per coprire l'imbarazzante calvizie.

«È un onore conoscerti, grande condottiero.»

Il ragazzo strinse cordialmente la mano al governante, trovandola disgustosamente umida di sudore. Un brivido gli morse la carne, facendogli drizzare i capelli sulla nuca.

Che cosa gli stava succedendo? Dov'era finito il suo autocontrollo?

Nel corso della sua esistenza aveva incontrato uomini molto più repellenti di quello e non si era di certo comportato come una ragazzina insicura.

«Onore mio.»

«Le piace l'organizzazione?» L'ometto scoprì i denti in un una specie di grottesco sorriso.

Len cercò di imbrigliare i propri pensieri e, guardandosi attorno, annuì con enfasi nella speranza di risultare sufficientemente cordiale.

«Ah! Le ho preparato questa, esattamente come aveva richiesto!» girandosi in direzione della piccola borsa che portava alla cintola, l'uomo ne estrasse una maschera.

Era nera, adornata ai lati con un semplicissimo motivo serpeggiante.

«La ringrazio per la premura.»

Un momento d'imbarazzante silenzio calò su di loro, simile ad una barriera invisibile. Cercando di trovare uno spunto di conversazione, i loro sguardi rimbalzarono tra i tanti e più interessanti dettagli della sala. Len non si era mai sentito così a disagio in presenza di un uomo.

Lui ed il capitano avevano conquistato molte città ma, in nessuna di esse, i vecchi regnanti avevano cercato di mettersi in contatto con loro.

Quell'ambiguo e pacifico incontro tra vecchio e nuovo potere non lo faceva stare tranquillo.

Era passato appena un mese dal giorno dell'assedio ma l'uomo sembrava assolutamente tranquillo, indifferente all'esproprio subito.

Poteva davvero esistere un governante del genere?

«Sapete, questo palazzo è appartenuto alla nostra stirpe per due generazioni. Non è bellissimo?»

Il capitano annuì, rivolgendo il capo verso le volte affrescate e cesellate.

«Un edificio tanto raffinato è ben difficile da trovare.»

«Opera dell'esperta mano dei più grandi tagliapietre della regione.» l'uomo gonfiò il petto con orgoglio; i bottoni del vestito si tesero pericolosamente sul ventre gonfio, minacciando di scoppiare.

In quel preciso momento, le trombe cominciarono a squillare a festa, annunciando il tanto atteso arrivo degli invitati.

«Finalmente ci siamo!»

«Hai contattato tutti coloro che avevo segnato nella lista?.»

L'uomo si inchinò all'anziano in modo orrendamente servizievole. I bottoni della giacca vennero nuovamente messi alla prova da quel gesto azzardato.

«Sì, signore. Esattamente come lei aveva ordinato.»

Il comandante, indubbiamente soddisfatto, abbandonò il mellifluo governante per dare il benvenuto ai propri ospiti.

«Un uomo tutto d'un pezzo, non c'è che dire.» commentò dopo qualche secondo scoccando un'occhiata d'intesa all'ufficiale che, senza rispondere, si allontanò.

Len aveva deciso di non concedergli più confidenza del necessario.

Mentre vagava tra i tanti volti conosciuti, scambiando qualche rapida stretta di mano, una voce tonante lo richiamò. «Buonasera, ufficiale.»

«Louis! Qual buon vento ti porta qui?»

L'individuo che era apparso alle spalle del ragazzo era enorme, grande quanto un credenza.

I vestiti che indossava sembravano sul punto d'esplodere, tesi sui muscoli taurini delle spalle e del collo, coperto dal colletto alto.

La stoffa riusciva a nascondere solo parzialmente le deturpazioni lasciate dalle ferite di guerra.

«Come potevo perdermi una festa di questo calibro?» rispose l'altro, raccogliendo l'ambiente circostante con un ampio gesto delle braccia.

Il moncherino della mano destra ondeggiò, ricordando al giovane lo spaventoso assedio avvenuto tanti anni prima. Quel pomeriggio, a causa del sangue versato, il terreno si era fatto scarlatto.

Lui stesso era sopravvissuto per un puro miracolo. A causa di una sua disattenzione, un balestriere l'aveva individuato conficcandogli quattro frecce nella schiena.

«O meglio: come perdersi la possibilità di ubriacarsi anche questa sera?»

«L'alcool è una musa a cui non si può dire di no.» rise, dandogli un colpetto sulla spalla.

Dal momento in cui aveva perso l'uso della mano, Louis era stato costretto ad abbandonare il campo di guerra per dedicarsi alla noiosa e sedentaria amministrazione dei territori conquistati.

Tra i vari delegati che il comandante aveva scelto, lui era di certo il più simpatico.

«Come se non bastasse, c'è sempre la speranza che una bella ragazza desideri ballare con me.»

«Non ci sperare, amico mio!» Len scoppiò a ridere, guardandosi attorno.

Con il sopraggiungere degli invitati, la stanza si era felicemente animata.

L'alcool stava iniziando a scorrere nei bicchieri, riempendo le loro pance di vetro. Malgrado la musica fosse assente, lo spumeggiante scoppiettare dei tappi intesseva nell'aria una melodia universalmente gradita.

«Gli alcolici sono in grado di compiere veri e propri miracoli. E, tanto per rimanere in tema, vado a versarmi un bicchiere.» Louis mise in mostra i denti storti, macchiati a causa del tabacco scadente che si ostinava a comprare. L'ufficiale rifiutò cortesemente l'invito, avviandosi verso il bancone dove erano esposte le numerose portate. L'aroma ridestò il suo appetito ma prima di poter richiedere una porzione di tacchino, un paio di mani si chiusero con delicatezza attorno al suo avambraccio.

«Ufficiale! Ma quale delizioso piacere incontrarla qui.»

Quando il suo cervello riconobbe quell'inconfondibile timbro vocale, Len avvertì un brivido scivolargli lungo la schiena. Non voleva, né poteva credere alle sue orecchie.

«Lady Karinne.. qual buon vento.» la sua voce suonò terribilmente falsa, proprio come il sorriso che gli increspò gli angoli della bocca.

La fanciulla era una delle creature più belle che il ragazzo avesse mai avuto il piacere di ammirare. I lunghissimi capelli rossi erano stati arricciati con un ferretto e poi fermati sulla nuca in uno chignon ribelle. Una tiara di perle tratteneva la folta frangia che, altrimenti, sarebbe ricaduta sulla sua fronte. L'abito da sera che indossava era un autentico gioiello fatto di ricami e pizzi, probabilmente realizzati dalla sarta più costosa in circolazione. A differenza di molte sue coetanee, Karinne non era stupida; era un piccolo aspide i cui denti si nascondevano dietro un sorriso innocente.

Ma, pensando a che genere di donna era sua madre, Len non si meravigliava del fatto che la ragazza avesse ereditato quella venefica acidità.

«La mia famiglia è stata cordialmente invitata a partecipare. Non potevo perdere la possibilità di incontrarla.» affondando le unghie nel suo braccio, la ragazza si strinse a lui mettendo così in evidenza il vertiginoso scollo del vestito.

«Lady Camille è qui?» Per un attimo, il ragazzo credette d'essere sul punto di vomitare.

Len individuò la posizione della dama prima ancora che la figlia potesse indicargliela. Contornata da un ventaglio di nobildonne, lady Camille stava raccontando con enfasi un aneddoto che presumibilmente la vedeva come protagonista.

«Dato che è passato così tanto tempo, perché non andiamo a scambiare due chiacchiere da qualche parte? Magari in un luogo più..» Karinne si trattenne e, a completamento della frase, scoprì i denti in un'espressione maliziosa.

«Mi dispiace doverla deludere, ma ho qualche faccenda da sbrigare.» senza essere scortese, il giovane allentò la presa della fanciulla. Anche se disappunto era il cocente, la fanciulla chinò il capo per salutarlo e se ne andò facendo frusciare la gonna.

Quando fu sufficientemente lontana, Len tirò un sofferto sospiro di sollievo. L'inaspettato arrivo di Karinne l'aveva turbato così tanto da renderlo estraneo a tutto ciò che gli succedeva attorno.

I musicanti erano arrivati; le loro frizzanti melodie rallegravano l'aria, accompagnate dall'intenso cicaleccio degli invitati. Un'altra ondata di persone aveva varcato la soglia di ingresso, amalgamandosi al flusso di coloro che già approfittavano del generoso buffet.

«Signore, desidera un po' di vino speziato?»

Un cameriere gli passò accanto, mostrandogli un vassoio rotondo in cui erano stati disposti una decina di calici. Len avvertì lo stomaco ritorcersi su sé stesso nel momento in cui l'aroma del liquido gli sfiorò il viso. Scuotendo la testa mandò via il domestico che, impassibile, passò ad una coppia di nobili anziani seduti poco più in là.

«Non ti vedo particolarmente felice, amico mio. Non hai toccato neanche una goccia di alcool!» Louis gli circondò le spalle con un braccio e, rovesciando la testa all'indietro, catturò con la lingua l'ultima goccia di vino depositata sul fondo del bicchiere.

«Tu sei già ubriaco, invece.» la puzza emanata dall'altro rischiò di farlo star male.

«Io? Ubriaco? Quando mai!» l'uomo, ridacchiando, barcollò avanti afferrando la mano d'una servetta che reggeva tra le braccia una cesta di panini appena sfornati.

Prima che potesse cadere, Len afferrò il paniere guardando divertito la ragazzina che, imbarazzata, cercava di seguire al meglio i passi di Louis.

Sospinte dall'entusiasmo dei due ballerini, altre coppie trovarono finalmente il coraggio di lanciarsi in pista, abbandonando i calici ai parenti o vicini.

Nobiluomini e dame di tutte le età cominciarono a volteggiare, facendo così svolazzare i lembi dei propri vestiti. Len si allontanò giusto in tempo per evitare d'essere calpestato da quel vortice caleidoscopico di ricami e merletti.

Se c'era una cosa che ai balli non la smetteva mai di affascinarlo era proprio quell'incalzante rincorrersi di visi e sorrisi che sembrava non avere mai fine. Una volta catturati dal ritmo della musica e dal ticchettio dei passi sul marmo lucidato, era pressoché impossibile distogliere lo sguardo. Gli artisti, coinvolti dal trasporto dei ballerini, stuzzicarono con ancor più enfasi le corde dei propri strumenti.

Come per magia, le maschere erano apparse sui visi degli invitati, nascondendone gli zigomi e parte della fronte. Alcune di esse erano particolarmente semplici mentre, altre, erano realizzate attraverso un magnifico intreccio di tessuto e perle. Len scorse nella folla il baluginio dei capelli fiammeggianti di Karinne e, subito dopo, il viso sorridente del suo comandante.

L'anziano stava ballando con una fanciulla giovanissima che, a giudicare dal sorriso, era indubbiamente intenzionata a stregarlo. In lontananza, gli occhi rapaci di una donna a lui sconosciuta, seguivano attentamente tutte le mosse della ragazza.

Len conosceva perfettamente quello sguardo bramoso che centinaia di volte aveva visto replicato in occhi di madri diverse.

Le iridi, per quanto potessero essere differenti nel colore e nella forma, utilizzavano un linguaggio universale, comune a tutti gli uomini. Ridacchiando tra sé, la dama si aggiustò i capelli e controllò che la scollatura fosse ben in vista, pronta ad attaccare la preda inibita.

L'ufficiale distolse lo sguardo, nauseato.

In quel mondo avido e corrotto, i freni inibitori delle persone erano ormai scomparsi.

Virtù, purezza e semplicità erano stati contaminati dalla brama di denaro e titoli nobiliari.

La prole stessa era stata assoggettata a quel vile intento: una figlia era una carta da sfoderare per acquisire più ricchezza possibile; un figlio, invece, la garanzia per un futuro di fama ed effigi altisonanti.

Ovunque si girasse, Len non scorgeva altro che quell'ossessivo desiderio d'ottenere sempre di più, a costo di sacrificare la felicità di qualcun altro. A differenza di ciò che la gente credeva, l'ufficiale non aveva mai ambito a quell'aurea ricchezza che tutti decantavano.

All'epoca, si era arruolato seguendo ciò che il cuore gli aveva consigliato.

Aveva davvero creduto nella sua patria e nella necessità di combattere per difenderla. Per spingere avanti quegli ideali che gli infiammavano il cuore, aveva combattuto come un leone, scalando e sorpassando tanti suoi commilitoni più anziani.

Con sudore e fatiche inenarrabili aveva raggiunto la vetta, entrando nelle grazie del comandante che, tutt'ora, stringeva il supremo scettro del potere.

Poi, dall'alto della posizione raggiunta, si era reso conto dei chilometri di terra bruciata che lo circondavano.

I suoi ideali si erano rivelati pallidi fantasmi; la nazione per cui aveva versato il proprio sangue non era altro che un ammasso di ipocriti, smaniosi di soverchiare i vicini ed accaparrarsi le loro ricchezze. Lo stesso comandante, che lui aveva così a lungo venerato, era un calcolatore; un uomo di cui non ci si sarebbe mai dovuti fidare.

Sfortunatamente, erano passati anni interi prima che la maturità gli permettesse di comprendere tutto ciò. Non si sarebbe mai dimenticato il giorno in cui la consapevolezza aveva strappato il velo che occultava il suo raziocinio.

Se chiudeva gli occhi riusciva ancora a sentire nell'orecchio le parole sussurrate del comandante e le timide mani di Karinne che si serravano sulle sue spalle.

Da quella sera, non era più riuscito a guardarsi allo specchio senza provare un forte senso di vergogna.

Spezzando l'innocenza di Karinne, l'ufficiale aveva tradito sé stesso.

Con una sola azione, aveva calpestato tutto ciò in cui aveva creduto per anni.

Dopo quella notte, dunque, il suo cuore si era tramutato in un pezzo di carbone nero, insensibile a qualsiasi stimolo esterno.

La musica terminò e, con essa, si interruppe anche il frenetico ballo.

Una cascata di applausi si riversò sui danzatori che, accaldati, stavano abbandonando il centro della sala alla volta dei propri calici.

«Com'è possibile che un uomo tanto attraente sia solo, al centro di una sala così gremita di gente?»

Len si voltò, trattenendo a stento uno sbuffo annoiato.

In quel momento, non era di certo dell'umore adatto per flirtare.

Ma, non appena i suoi occhi colsero lo sfavillio inconfondibile di quei ricci, l'ufficiale comprese d'essersi sbagliato.

Un sorriso commosso gli arricciò le labbra, incenerendo tutti i pensieri negativi che sino a quel momento l'avevano incatenato.

«Stavo attendendo la donna giusta.» sussurrò.

«E l'ha trovata?» la gonna di petali frusciò sul pavimento, disperdendo nell'aria un effimero aroma di rose selvatiche. Le perle finte, che le avviluppavano le braccia, emanavano sfavillii più intensi di quelle reali.

Sorrise e tese la mano al gentiluomo che, chinandosi in avanti, ne sfiorò il dorso con le labbra.

Rin indossava lo stesso abito della sera in cui si erano conosciuti; il viso era coperto da una semplicissima maschera di tessuto intrecciato, probabilmente ricavata a mano.

Le imperfezioni nelle trame non potevano però che rendere ancora più unico lo sforzo ed il pericolo a cui la giovane si era esposta per infiltrarsi alla festa privata.

Per un momento, l'uomo avvertì la folle brama di baciarla lì davanti a tutti, incurante degli sguardi delle persone che li circondavano.

«Sì, l'ho finalmente incontrata.»

Le braccia dell'uomo circondarono la vita di lei che, stringendosi alle sue spalle, gli appoggiò la fronte contro il petto.

Quel gesto, ricolmo di una silenziosa tenerezza, contribuì a scacciare l'asfissiante bagaglio dei suoi ricordi.

Depositando il mento tra i ricci della ragazza, Len si abbandonò all'illusione d'essere un semplice cittadino il cui passato era un lenzuolo privo di macchie.

Per un attimo, immaginò di stringere tra le braccia la donna della sua vita; sua moglie.

Il senso di pace che lo invase fu tanto piacevole da condurlo sulla soglia del pianto.

«Ti ho aspettata per così tanto tempo.» sussurrò.

Rin si strinse più forte a lui e, le persone presenti in sala, sembrarono svanire nel nulla.

 

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Capitolo 7
*** Un fiore che nasce dal sangue. ***


Chapter VII
 

La musica aveva ripreso a scorrere, trascinando al centro della sala gli instancabili ballerini.

Se prima Len aveva evitato di lasciarsi coinvolgere, in quel preciso istante solo desiderava abbandonarsi al richiamo della melodia. I suoi passi catturarono facilmente il ritmo e la ragazza iniziò a volteggiare assieme a lui sulla scia di un dolcissimo valzer.

«Come sei riuscita ad entrare?» sussurrò, affondandole i polpastrelli nella carne del fianco. Anche se la felicità gli ruggiva in petto, odiava le continue sfide che la ragazza proponeva alla sorte.

Prima o poi, quel fuoco l'avrebbe bruciata.

«Almeno per questa sera, facciamo finta che i nostri ruoli non siano così ben definiti.»

Un sorrisetto arcuò le labbra della giovane che premette il petto contro quello di lui. Len scosse impercettibilmente la testa, evitando per un pelo un'altra coppia di ballerini.

«Che cosa mi tocca sentire.»

«Il gioco delle maschere è intrigante proprio per questo, ufficiale.»

Con un solo sguardo, Rin schiavizzò la volontà del ragazzo.

Ormai inerme, egli lasciò che fosse lei a muovere le pedine sulla scacchiera.

Alle sue spalle, gli occhi delle nobildonne lo pungolavano incessantemente nel tentavo di comprendere chi fosse la misteriosa giovane con cui stava danzando.

Per fortuna, nessuno di loro avrebbe potuto riconoscere la ragazza, sfuggita per una sola notte alle catene della sua umile condizione.

«Questa sala è bellissima.»

«Le piace? Anche io la trovo stupenda.. Dopotutto, le cose semplici sono sempre le più belle.»

Rin, cogliendo al volo l'accezione, studiò le dame presenti per poi arrossire.

L'uso eccessivo del trucco e l'esagerata pomposità dei vestiti non aveva mai attirato l'ufficiale.

Con quelle quattro dita di cipria sul volto, le ragazzine sembravano innaturalmente più grandi; mentre, le nobildonne, assomigliavano a grottesche statue di cera cristallizzate nel tempo.

Quando partecipava a quelle serate, Len aveva come l'impressione di trovarsi al centro di una galleria d'arte piena di monumenti, irraggiungibili sui loro piedistalli di granito.

«È davvero un ballerino strepitoso, ufficiale. I miei complimenti.»

Len mosse indietro un altro paio di passi, piroettando per evitare una coppia di ballerini che, ridacchiando, si stringevano con passione.

«A mio parere, un gentiluomo che non è in grado di ballare, non può definirsi tale.»

La musica si fece pian piano più pacata; le ultime note, simili a foglie trainate dal vento, si adagiarono sul pavimento. Len si allontanò d'un passo dalla ballerina dai capelli d'oro, premendo la propria mano contro il cuore in segno di ringraziamento.
Rin, in risposta, sollevò i lembi del vestito e chinò la testa riccia.

«La ringrazio per questo ballo, ufficiale.»

«L'onore è solo mio, milady.»

La ballerina si voltò per andarsene ma Len la trattenne, indifferente agli sguardi puntati su di loro.

«Milady, mi permetta di..»

Mantenendo un sorriso di convenienza, Rin lo ammonì con un'occhiataccia.

Tra tutte quelle persone, ogni sconsiderata affermazione avrebbe potuto decretare la fine della loro relazione. La giovane si era ripromessa di mantenere neutrale il proprio profilo ma, quando l'aveva visto solo al centro della stanza, era stato impossibile resistere alla tentazione di gettarsi tra le sue braccia.

Se si fosse abbandonata a ciò che le ordinava l'istinto, tutte le damigelle che fissavano bramanti il suo uomo sarebbero finite all'altro mondo.

Odiava i sorrisetti di quelle ragazzine che, credendosi adulte, scoccavano sguardi di fuoco a tutti gli aristocratici più in vista presenti in sala.

A causa della sua giovane età e della posizione di rilievo occupata, Len era l'obiettivo più succulento.

Logicamente, non avrebbe permesso a nessuna di quelle galline di sfiorarlo neanche con un dito.

«Devo andare, ufficiale.»

A quel punto, cogliendo il segreto messaggio nelle parole di lei, l'uomo lasciò che la ballerina si allontanasse, seguita da una scia di avidi sguardi.

Rin, senza guardarsi indietro, sollevò l'orlo dell'abito e svicolò tra gli invitati, rinunciando con un mezzo sorriso a tutte le richieste che le furono rivolte.

Cercando di mantenere la calma, Rin si scrollò di dosso l'idea che tutta la sala la stesse osservando andar via. Non era certa del fatto che Len avesse correttamente interpretato la sua occhiata ma, malgrado ciò, avrebbe rischiato comunque.

Le sue scarpette divorarono i lunghi corridoi di marmo, conducendola verso le scale di pietra che conducevano al monumentale ingresso dell'edificio.

Il giardino l'accolse nella propria stretta, attutendo il fracasso presente nella stanza da ballo.

Rin si avventurò per il labirintico groviglio di aiuole, sfiorando con i polpastrelli le gemme che stavano iniziando a sbocciare tra le foglie.

La primavera era ancora lontana ma, a quanto sembrava, quei fiorellini avevano deciso di contrastare il ciclo naturale delle cose.

La giovane continuò a camminare, finché il suo viso non venne accarezzato dalla fievole luce proveniente dalla sala da ballo. La musica si riversava smorzata su quel palcoscenico naturale, in cui, lei e l'ufficiale, avrebbero potuto volteggiare senza badare agli sguardi indiscreti.

A parte quel frizzante ronzio, nessun suono animava l'atmosfera.

Era sola, fatta eccezione per qualche sporadica statua mutilata, mal collocata in quel dedalo di foglie. Rin aspettò e, nel tentativo di arginare i brividi, si strinse le braccia contro il petto.

Possibile che l'ufficiale non avesse compreso?

All'improvviso, un rumore attirò la sua attenzione, facendola girare con un sorriso sollevato.

«Ce l'hai fatta final...»

Le sue parole vennero però interrotte da un singulto sorpreso.

Non era il suo compagno ad averla raggiunta, ma un uomo dalla fronte rugosa e le tempie prive di capelli.

Sibilando minacciosamente, la ballerina arretrò di un passo.

«Sei bellissima..» il vecchio alitò, barcollando in avanti con passo esitante.

I bottoni dello smoking erano slacciati, le falde pendevano lungo i fianchi grassi come le ali di un pipistrello.

«Mi stia lontano.» la ragazza mostrò i denti con fare aggressivo, flettendo appena le ginocchia per prepararsi alla battaglia. Non sarebbe stato poi così complicato azzoppare quell'ubriacone.

Len.. dannazione, dove sei?”

«Non fare la difficile, piccola. Vedrai che ci divertiremo.» l'uomo schioccò le dita e con una viscida espressione attaccata agli zigomi, fissò il buio alle spalle di lei .

Prima che potesse comprendere ciò che stava succedendo, un paio di braccia la catturarono, strattonandola indietro.

La ballerina venne letteralmente sollevata da terra. Dita d'acciaio si conficcarono nella pelle dei suoi avambracci, strappandole un gemito.

La paura le sciolse le viscere.

Il principio di un grido le si accumulò sulle labbra ma, prima che potesse attingere alle proprie riserve d'aria, una mano tagliò sgarbatamente quell'ultima possibilità.

Rin cercò di mordergli il palmo ma la pelle era troppo ruvida e squamosa.

L'ometto si avvicinò, appoggiando un dito contro il collo d'avorio. La giovane avvertì una scossa di disgusto insinuarsi nelle sue vertebre, facendole tremare una ad una.

L'anulare grassoccio scivolò sulla sua carne, soffermandosi appena un centimetro sopra l'attaccatura del vestito. La giovane cercò di scalciare, affondando la punta dei tacchi nelle cosce del servo che la immobilizzava ma neanche quel tentativo andò a buon fine.

Sembrava che un blocco di granito avesse inglobato i suoi arti, tramutandola in una statua incompiuta. Il dito dell'uomo si conficcò ancora più a fondo nella sua carne, colpendo l'osso sottostante.

Poi, arcuandosi ad uncino, l'unghia agganciò il bordo del vestito, allargandone la maglia. «Giochiamo un po'?»

Rin serrò gli occhi ed una lacrima cadde a terra.

L'ennesimo brano si concluse; una valanga di applausi si rovesciò sui musicanti e i ballerini impegnatisi nella danza.

«Come avete osato toccarla?» un sussurro appena percettibile si levò nell'aria, confondendosi nell'ovazione. Come dal nulla, un paio di mani circondarono il capo dello schiavo; i polpastrelli si fecero strada nelle concavità dalle ossa facciali.

Il servo sgranò le iridi ma la sua reazione non fu sufficientemente veloce.

Il collo si spezzò con la stessa facilità di un ramoscello, producendo uno schiocco inquietante.

Rin, ormai libera, assestò un calcio all'uomo che ancora la stava toccando. Gridando per il dolore, l'ubriacone cadde sulla schiena, stringendosi il petto con fare melodrammatico.

Ansimando, la ragazza passò una mano nei capelli arruffati.

Ogni muscolo del suo corpo guizzava in maniera dolorosa, pompando fiotti d'adrenalina nelle vene infiammate.

Senza degnarla d'un occhiata, Len la sorpassò.

In quell'istante, il suo campo visivo era occupato solo dal volto butterato di quel verme.

«Mi perdoni, ufficiale.. non sapevo..»

«Non sapevi che cosa?» la voce del ragazzo era una lastra di ghiaccio.

Rin rabbrividì, come sfiorata da un fiocco di neve.

La tranquillità con cui Len si era rivolto all'aristocratico era spaventosa. Sotto quella maschera, si celava una furia tanto bollente da aver ormai superato ogni limite.

Rin era di fronte al temuto mostro dagli occhi di cristallo.

Colui che aveva conquistato metà del continente servendosi solo della sua lama d'acciaio.

«Io..»

«Rispondi.» tuonò l'ufficiale, colpendolo al costato con il dorso del piede. Nuovamente, lo scricchiolio delle ossa che si sbriciolavano esplose nel silenzio. L'uomo sputò un grumo di saliva e, boccheggiando, affondò le unghie nell'erba.

Le orbite si erano trasformate in gonfie palline, iniettate di sangue e terrore.

«Abbia pietà di me, ufficiale.. la prego.» malgrado la sua mente fosse ottenebrata dai fumi dell'alcol, l'uomo aveva perfettamente compreso quale sarebbe stata la sua fine.

Len si chinò in ginocchio, scrutando con fare pensoso il viso smunto del nobile.

Ad una rapida occhiata, sembrava che il guerriero stesse per perdonare l'atto villano del vecchio ma Rin non si lasciò ingannare.

Il suo sguardo era affilato come la lama di una ghigliottina.

La giovane cercò di chiudere le palpebre ma il corpo non rispose ai suoi comandi.

Len afferrò di scatto la fronte dell'uomo e, premendogli un ginocchio sullo sterno, lo inchiodò a terra.

«Non esiste pietà per la feccia.»

Detto ciò, l'ufficiale affondò la lama di uno stiletto nel collo dell'anziano, recidendo la giugulare. Il sangue eruttò dalla lacerazione, imbrattando di scarlatto la camicia del nobiluomo. Premendo le mani contro la ferita, questi cercò d'articolare un grido d'aiuto, senza però riuscirci.

Len si scansò giusto in tempo per evitare che il liquido gli macchiasse i vestiti. Con finto dispiacere, il ragazzo si imbronciò, scrutando il nemico dall'alto della sua posizione.

«Non ti ha mai detto nessuno che con la gola tagliata è impossibile urlare?»

L'uomo spalancò gli occhi, ricoperti da una patina lattiginosa di lacrime.

Le labbra, trasformatesi in canotti esangui, articolarono ancora la parola “pietà” ma Len gli diede le spalle, posizionandosi di fronte alla compagna.

«Andiamocene. Questi non sono gli spettacoli adatti per una signorina.»

Con un pizzico di irruenza, il ragazzo le circondò le spalle con un braccio, trascinandola in una zona del bosco più riparata.

Quando furono sufficientemente lontani dai gemiti morenti dell'uomo, Rin liberò il fiato.

Le sue spalle cominciarono a tremare sotto la stretta del ragazzo che ancora non aveva aperto bocca.

«Len, ti ringrazio per avermi..»

L'ufficiale la voltò di colpo verso di sé, catturando il suo viso tra le mani.

Quelle stesse mani che due minuti prima avevano ucciso un uomo, ora esploravano con attenzione i suoi zigomi, alla ricerca di una qualsiasi lesione.

«Ti ha toccata?»

«Len, stai..»

La sua presa si fece più intensa.

«Rispondimi: ti ha toccata?»

Rin, in risposta, scosse la testa. A quel punto, la tensione nervosa che contraeva le spalle dell'uomo si allentò. Con un sospiro, appoggiò la fronte contro quella sudata di lei.

«Grazie al cielo, sono arrivato in tempo.»

Len la inglobò nel proprio abbraccio, stringendola tanto forte da mozzarle il fiato.

«È tutto a posto..» sussurrò, tuffando il viso nel suo petto.

In quella stretta, Rin non era altro che un cucciolo alla ricerca di conforto e mai, prima di allora, ne aveva sentito un bisogno tanto impellente.

«Non è tutto a posto. Questo, non sarebbe dovuto accadere.»

«Sei arrivato in tempo, tesoro. Conta solo questo.» Rin catturò il viso del compagno tra le mani, sorridendo intenerita di fronte al temporale d'angoscia che si muoveva nel suo cuore.

Len appoggiò la guancia contro il piccolo palmo, socchiudendo gli occhi con un silenzioso sospiro.

«Avevo capito cosa volevi dirmi, ma prima che potessi andarmene, mi hanno trattenuto.. non potevo..» il ragazzo incespicò nelle sue stesse parole e, in un gorgoglio indistinto, la voce si affievolì. La ballerina, stufa di sentirsi ricordare lo spiacevole accaduto, si sollevò in punta di piedi e premette le labbra contro quelle dell'uomo.

Len reagì immediatamente al contatto, cingendola con le braccia.

I loro baci non erano mai stati delicati come quelli descritti nei libri di cavalleria o poesia.

Non c'era niente di idealistico nel modo in cui i loro corpi si sfioravano.

Sospinto dall'impeto della passione, Len affondò le mani nei fianchi della ballerina, sollevandola da terra. Lei, in risposta, gli morse le labbra, giocherellando con i folti capelli color sabbia.

In un battito di ciglia, il mondo circostante si dissolse come neve al sole.

Il sangue, il nobile ubriaco e l'assassinio persero ogni rilevanza.

La natura sembrava essersi ridotta al silenzio, quasi a voler rispettare la loro intimità.

«Forse dovremmo tornare..» la voce della ragazza risuonò insicura alle sue stesse orecchie.

Len non rispose, zittendo le proteste della ballerina con un altro bacio di fuoco.

Se solo avesse dato retta al suo istinto, niente avrebbe potuto trascinarla via da quel fazzoletto boschivo. Sfortunatamente, Len era un personaggio importante in quell'ambiente e la sua assenza sarebbe di certo stata notata.

«Tesoro, davvero, dobbiamo andare.»

«Non ne ho alcuna intenzione.»

«Sii ragionevole.» rise, dandogli un buffetto sulla fronte per mettere un poco di distanza tra loro. Rin si aggiustò i capelli arruffati, sistemandosi meglio la mascherina sulla punta del naso.

Len sbuffò, imbronciandosi con fare infantile.

La giovane, ignorando i suoi capricci, afferrò i lembi della giacca e li lisciò, studiandone il colore alla luce, sgorgante dalle finestra soprastanti. L'ufficiale, comprendendo il perché della scrupolosa analisi della compagna, cominciò ad analizzare il tessuto dei polsini.

«Nessuna traccia di sangue.» affermò la ragazza, sollevandosi per guardarlo negli occhi.

«Avevi forse dei dubbi? Io sono un professionista.»

Quell'affermazione spassionata la spaventò.

Quando stavano insieme, Rin si dimenticava della presenza dell'oneroso bagaglio che gravava sulle spalle del condottiero. La sua anima era un groviglio di zone d'ombra che Rin non sarebbe mai arrivata a conoscere del tutto.

Per quanto quel pensiero la facesse star male, la ragazza sapeva che non avrebbe mai conosciuto sino in fondo l'uomo che amava.

«Andiamo?» Len le tese la mano.

La ballerina intrecciò le dita a quelle del condottiero, appoggiandosi alla sua spalla. Per tornare indietro percorsero un altro tragitto che, svicolando tra gli alberi, si affiancava al palazzo e alla sua entrata secondaria.

«Entro prima io. Tu seguimi a ruota.» le sussurrò all'orecchio prima di spingere la porta d'ingresso e controllare che non ci fosse nessuno nel corridoio. Sgattaiolando come due ladruncoli su per le scale, i giovani raggiunsero l'illuminata sala da ballo in cui i musicanti non avevano smesso un solo momento di strimpellare.

Il violinista, un uomo anziano sulla settantina, era un bagno di sudore. Il colletto della camicia bianca era ormai trasparente; i capelli grigi, tutti proiettati in avanti, erano incollati alla fronte rugosa. Per il momento, i balli si erano interrotti, tutti gli invitati sembravano essersi proiettati in maniera famelica verso il banchetto. I domestici dovevano soddisfare centinaia di bocche che pretendevano d'essere ascoltate per prime.

Len scivolò nella stanza, confondendosi ad un drappello di uomini in giacca e papillon che, sorseggiando l'ennesimo calice di vino rosso, andavano a caccia di qualcosa di caldo da mettere sotto i denti. Rin, seguendo l'esempio dell'ufficiale, sgusciò nella sala con altrettanta maestria, occupando una poltrona, posta vicino alla porta d'ingresso. Len cercò di intrufolarsi nella conversazione dei nobiluomini, esprimendo a caso la propria opinione.

Questi, evidentemente onorati dalla considerazione ricevuta, abbandonarono l'argomento per dedicarsi a fatti di più impellente interesse.

Senza davvero desiderarlo, Len si ritrovò a discorrere di guerra e di strategie, constatandone l'assoluta impraticabilità. Gli aristocratici si erano disposti a semicerchio attorno a lui, lasciando perdere persino l'intrigante richiamo della carne di piccione appena sfornata.

«Ufficiale, non crede che spostando le nostre truppe verso Nord si potrebbero ottenere laute conquiste?» affermò il più giovane dei quattro, sollevando il proprio bicchiere con fare titanico.

Len scosse la testa, incrociando le braccia sul petto.

«I territori nordici sono impraticabili per il nostro esercito, ora come ora.»

«Io credo che..»

«Il freddo ci distruggerebbe. Non abbiamo l'attrezzatura necessaria per resistere a temperature tanto rigide, signore.» il ragazzo argomentò duramente, stoppando così l'affermazione del signorotto. Attratto dalla sfida, l'uomo gonfiò il petto come un pavone, pronto a combattere per decretare la correttezza delle sue asserzioni.

D'improvviso, la melodia di sottofondo si arrestò, sostituita dall'argentino tintinnare del cristallo.

Come un solo uomo, la folla si girò in direzione del palchetto di legno occupato dai musicanti.

Il violinista ed i suoi collaboratori l'avevano abbandonato per lasciar posto al comandante e all'ex sindaco.

«Signore e signori, vi chiedo un attimo di attenzione. L'organizzatore di questa bellissima festa vorrebbe dire due parole.» con un gesto militare, il vecchio concesse la parola all'ometto.

Len avvertì uno spasmo di disgusto rivoltargli lo stomaco.

Chinando il capo in direzione dei nobiluomini, il ragazzo si allontanò per udire meglio ciò che stava per essere annunciato.

«Per prima cosa, vorrei ringraziare tutti i presenti per essere giunti qui, in quest'umile sala.»

L'uomo spalancò le braccia, accogliendo nel suo gesto il perimetro del locale.

«Questa serata è dedicata a tutti voi, grandi aristocratici e bellissime dame.»

Il bicchiere che stringeva tra le dita si alzò oltre la testa, facendo così ondeggiare il liquido ambrato contenutovi. I suoi occhi porcini si spostarono lentamente sugli spettatori.

«Siamo riuniti per celebrare la gloria di un nuovo impero. Un regno che preannunzia prosperità e ricchezza.» l'ometto appoggiò una mano sulla spalla del vecchio, avvicinandoglisi in modo cameratesco. Il comandante ridacchiò, arricciando la punta dei baffi con il suo solito fare.

«Come si sa il bocciolo di ciascun reame può nascere solo se irrorato di sangue...»

Len non avrebbe mai potuto prevedere ciò che accadde in seguito.

Successe tutto nel giro di un secondo.

La lama baluginò nell'aria, scattando come un cobra verso la gola del vecchio. Un fiotto di sangue schizzò in faccia all'ex reggente che, scoppiando in una risata sguaiata, gettò a terra il bicchiere di vetro. L'oggetto esplose in una miriade di frammenti.

Il vecchio crollò indietro; le labbra, umide di sangue, erano spalancate in un grido che mai avrebbe preso forma. Len avvertì il ghiaccio scivolargli lungo la schiena mentre, basiti, gli invitati fissavano la macchia che andava schiudendosi, come i petali di un fiore in primavera, attorno al collo squarciato del comandante.

Il primo grido ruppe il silenzio, ridestando il condottiero dallo stato di trance in cui era caduto.

Il ragazzo si voltò, giusto in tempo per vedere uno dei camerieri saltare alle spalle di un aristocratico e sgozzarlo come un maiale.

Non poteva credere a ciò che stava succedendo.

Erano caduti in un'imboscata.

«LOUIS!» gridò con tutta la voce che aveva in corpo, sfoderando con un gesto rabbioso la spada che gli cingeva il fianco.

Alle sue spalle, una ragazza strillò tanto forte da ferirgli i timpani.

Una saetta gli attraversò il cervello, simile ad un fulmine a ciel sereno. La sua bocca si fece tanto secca da apparire piena di sabbia.

Dov'era Rin?

La ragazza si era rannicchiata contro il divano; i suoi occhi, puntati in direzione del palchetto, erano vitrei per il terrore. Len cominciò a correre, facendosi largo a spallate tra la gente che cercava di fuggire da quella trappola mortale.

Le porte erano state chiuse dall'esterno, di modo che la mattanza potesse consumarsi, senza lasciar nessun superstite in vita. Quel bastardo aveva organizzato tutto nei minimi particolari.

Come poteva essere stato tanto stupido?? Avrebbe dovuto fidarsi del suo istinto.

«RIN!!!»

La ragazza, udendo la voce del suo compagno, ruotò rigidamente la testa.

Len protese il braccio verso di lei ma, nel farlo, un dolore lancinante gli strappò il fiato. Il sapore metallico del sangue gli invase la bocca, impastandogli la lingua.

Minuscoli puntini neri gli offuscarono la vista, troncando la forza delle sue gambe.

«Maledizione..» ansimò. Il guerriero crollò a terra, perdendo la presa sulla spada che, tintinnando, finì lontano, tra i piedi degli invitati.

Quando il ragazzo si accasciò a terra, l'asta longilinea di una freccia apparve tra le sue scapole, svettando con macabra fierezza.

La ballerina sbiancò, incredula.

«Len..?» sussurrò a fior di labbra, protendendosi sulla sedia con cautela. Le gambe cominciarono a tremarle, come se si fossero tramutate in incerti pezzi di argilla.

Non poteva essere vero. Quello disteso a terra non poteva essere il suo ufficiale.

Nel caos regnante, Rin si ritrovò sola, ad ascoltare il suono del proprio cuore si sgretolava.

«Len, ti prego, alzati..» sussurrò prima di lanciarsi avanti, incurante del pericolo e delle persone che fuggivano dallo scheletrico abbraccio della morte.

Una gomitata le raggiunse le costole, mozzandole il fiato. Un vecchio incespicò nei suoi stessi passi e, cadendo, l'urtò facendole perdere l'equilibrio.

Stringendo i denti per contrastare la fatica, la ballerina lo sorpassò con un balzo.

I suoi occhi erano puntati sull'ufficiale e sulla freccia che spiccava dalla sua carne.

La gonna si ruppe con uno strappo quando qualcuno la calpestò, recidendo i fili che univano i petali rosei. Rin non si fermò neanche in quel momento.

Avrebbe raggiunto Len.

A qualsiasi costo.

 

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Capitolo 8
*** «È finita?» ***


Chapter VIII

Fu il caos.

L'odore del sangue si era fatto tanto intenso da risultare stomachevole. Le tovaglie, inizialmente candide come la prima neve, erano ridotte a stracci di stoffa vermiglia.

Le grida, i pianti, il fragore dei piatti frantumati si mescolarono in un calderone assordante.

Confusa dai colpi e dal fracasso, Rin cominciò a sgomitare nel tentativo di fendere la folla che si ammassava verso le porte. Qualcuno stava evidentemente cercando di sfondarle ma senza ottenere alcun risultato. Nel frattempo, i sicari si accanivano contro gli invitati, colpendo gli indifesi senza pietà. Uno spruzzo di sangue le raggiunse la guancia quando uno dei domestici colpì al collo un anziano signore dal panciotto color crema.

Questi crollò indietro, gorgogliando una supplica inascoltata.

Simile ad un bocciolo, il sangue si accumulò sulla ferita, assorbendo cupidamente la vita del vecchio. La testa dell'uomo si rovesciò all'indietro, ormai privata della sua forza vitale.

Gli occhi, ridotti a due spiragli lattiginosi, si fissarono in quelli della ragazza che passava lì a fianco.

Rin rimase traumatizzata.

Quello non era di certo il primo omicidio a cui assisteva ma mai, nel corso degli anni, aveva guardato la morte in azione. Il vigore che animava iridi del signore scivolò via, goccia dopo goccia, trasformando il corpo in un mucchietto di ossa.

La ballerina vide la falce della Morte calare sull'esile filo del suo futuro, tranciandolo di netto. L'ultimo sospiro sfuggì dalle labbra dell'anziano, liberando la sua anima sofferente.

Un devastante senso di angoscia le avviluppò il cuore, paralizzandole le ginocchia.

Sapeva di doversi affrettare. Doveva correre più veloce del pensiero e raggiungere il suo compagno disteso a terra, privo di conoscenza.
Eppure, malgrado ciò, non riusciva a distogliere lo sguardo dal viso esanime del vecchio che si era appena spento. Fu il caos stesso a salvarla da quel pericoloso stato di trance.

Una donna in carne, cercando di scappare dall'assassino, inciampò e crollò con tutto il suo peso sulla schiena della ballerina. A causa della sua esile struttura, la ragazza ebbe l'impressione d'essere stata appena investita da un masso. Senza poter opporre resistenza, Rin venne scaraventata in avanti, rotolando per qualche metro sul pavimento.

Nel ruzzolare si morsicò le lingua e il sapore ferroso del sangue le invase la bocca, facendole venir voglia di vomitare. La ragazza si inginocchiò, portando una mano alla fronte pulsante, lì dove sarebbe di certo spuntato un livido.

Con una smorfia scosse la testa, facendo ondeggiare i riccioli attorno al viso.

La ragione, irrigidita dalla paura, tornò a defluire nelle sue tempie, chiarificandole i pensieri.

Rin tentò di alzarsi ma la gonna rimase impigliata nel tacco di una nobile che, in lacrime, scrollava con energia una ragazzina riversa a terra, chiamandola per nome.

A quel punto, Rin afferrò i petali del vestito, strappando i fili che li tenevano insieme.

Con un ultimo sforzo, riuscì a raggiungere il compagno, inginocchiandosi accanto a lui.

«Len, se mi senti rispondi.. Te ne prego.» le dita della fanciulla sollevarono il viso del condottiero, coperto da un'uniforme patina di sudore freddo.

Con un gemito, Len socchiuse gli occhi e mosse le labbra per pronunciare il nome della ballerina.

«Shh, non ti sforzare, tesoro.» la giovane gli sfiorò la fronte, sforzandosi di canalizzare il panico che le faceva tremare le dita.

«Devo.. alzarmi..»

«Sei ferito, Len. Sta buono.» Rin lanciò un'occhiata al sangue incrostato sulla giacca e all'asta della freccia che spiccava tra le sue scapole. Il condottiero gemette a denti stretti, alzando il braccio nel tentativo di raggiungere il fulcro della sua pena.

La ballerina cercò di farlo star fermo ma, d'improvviso, comprese la ragione di quella sua agitazione. I due erano al centro della stanza, circondati da persone che si agitavano come cavallette alla ricerca di una via di fuga.

Come se non bastasse, nella folla si aggiravano i sicari vestiti di nero e Rin doveva ad ogni costo proteggere il suo uomo.

«Ti porto via di qui!»

«La.. freccia..»

«Che cosa devo fare?» sussurrò affranta, portando il viso vicino a quello del giovane.

Len cercò di dirle qualcosa ma i suoi sforzi sfumarono in un lamento d'allarme.

La ballerina si voltò di scatto e rotolò su un fianco, giusto in tempo per evitare il colpo di pugnale dell'assassino. Rin reagì istantaneamente, cercando di colpirlo con un calcio ma questi fece un salto indietro, ruotando l'elsa del pugnale tra le dita snelle.

«Spostati, ragazzina, e potrei considerare l'idea di farti rimanere in vita.»

«Mai.» latrò a denti stretti, ignorando il furioso palpitare del suo cuore. La ballerina studiò rapidamente il proprio avversario, constatando lo smisurato divario presente tra loro due.

Il domestico brandiva un pugnale; lei, invece, era armata solo del proprio coraggio.

«Sca.. ppa..» ansimò Len, sfiorandole la caviglia con i polpastrelli.

Quel contatto fu sufficiente a consolidare la sua vacillante audacia.

«Hai sentito? Vattene finché sei in tempo.»

Prima che l'assassino potesse rendersene conto, Rin fece la propria mossa. Veloce come un serpente colpì l'uomo allo sterno, assestandogli poi un violento colpo sul naso.

La cartilagine si ruppe e, con un ringhio, il servo arretrò d'un altro passo coprendosi la faccia con la mano. L'adrenalina le mugghiava nel petto, colpendo il suo cuore come se fosse un grosso tamburo. Approfittando dell'acuto dolore dell'avversario, Rin lo disarmò, rivolgendo la punta del pugnale contro la sua faccia.

La mano le tremava, quasi volesse smascherare il falso coraggio della ragazza.

Sapeva benissimo che non sarebbe stata in grado d'ucciderlo.

La sola idea d'affondargli il coltello nella carne le faceva torcere le viscere.

«Puttana.» latrò, mettendo in mostra i denti ricoperti di sangue. Rin fece ondeggiare il coltello tra le dita, come prima aveva visto fare al nemico. La ragazza si sentì infinitamente sciocca nell'ostentare quella sua agilità ma, con ciò, aveva sperato di impressionarlo.

«Fatti sotto, damerino.»

L'uomo le si scagliò contro, pronto a sfoderare tutta la sua maschia potenza.

Non era la prima volta che la ballerina si trovava a combattere contro un uomo più robusto di lei. Aveva picchiato guardoni, stalker e gente di qualsiasi risma.

In nessun caso, però, aveva dovuto proteggere qualcuno.

La lama del pugnale incise la carne dell'assalitore, tranciando come burro uno dei suoi polpastrelli. Insensibile al dolore, il domestico ignorò il fiotto di sangue che esplose dalla sua mano, afferrando il polso della ragazza.

Rin si abbassò per evitare il pugno dell'avversario che, sfruttando la sua posizione di vantaggio, la strattonò per farle perdere l'equilibrio. Alla fine, inciampando nella falda di una gonna, Rin cadde in ginocchio, quasi perdendo la presa sul pugnale.

Prima che potesse reagire e continuare ad attaccare, una ginocchiata le raggiunse lo stomaco mozzandole il fiato in gola.

«Non avresti dovuto..» le parole arroganti dell'uomo si bloccarono di colpo, soppiantate da un lacerante grido di dolore.

Rin gli affondò il coltello nell'interno coscia, rigirandolo con cattiveria nella piaga. Inutile dire che il sangue sgorgò dalla ferita come acqua, ruscellando lungo le scanalature dell'arma e sulle mani della ragazza. Il domestico cadde indietro, afferrando il manico scivoloso nel vano tentativo di estrarlo.

«Stronza!»

«Gli uomini della tua risma non meritano altro che il disprezzo.»
Una smorfia amara contrasse il viso del domestico, ridotto ad un fantasma ricoperto di sudore.

«Credi davvero che lui sia migliore di noi? Pensi forse che non abbia mai ucciso?»

Le parole del sicario la colpirono al viso, forte come uno schiaffo. Rin tentò di non dare troppo peso a quel discorso che, con facilità imbarazzante, avrebbe potuto stracciare ogni sua sicurezza.
Amava l'ufficiale ed in nome di quel sentimento, lei avrebbe accettato il suo passato di violenza, sangue e raggiri meschini.

«Sta zitto, tu non lo conosci.»

«Ha ucciso mio figlio davanti ai miei occhi.»

La ragazza espirò bruscamente, come se le avessero appena sferrato un calcio nello stomaco.

Era vero ciò che quell'uomo le stava dicendo? Oppure il suo era un tentativo per depistarla?

Il dubbio, simile ad un serpente, si arrotolò in spire attorno al cuore.

«Tu menti..» sussurrò.

Il sicario rimase in silenzio per qualche istante poi, mostrando di denti, annuì con fare innocente.

«Sì, stavo mentendo.»

«R..in.. no!» Il rantolo dell'ufficiale la raggiunse troppo tardi.

Era caduta in trappola.

Un paio di braccia si serrarono attorno all'esile collo della ragazza, paralizzandole il respiro.

Rin scalciò, affondando le unghie nella mano coriacea dell'assassino che le era piombato alle spalle. Come poteva essere stata così stupida da credere alle parole di quell'uomo?

«E sta un po' ferma!» il sicario, spazientito, le sferrò un pugno nei reni, costringendola in ginocchio in preda ad una sofferenza atroce. Stringendo i suoi capelli nel pugno, l'uomo strattonò indietro il capo della ragazza, carezzando il profilo della carotide con la punta dello stiletto.

«Ed ora, come punizione, assisterai in diretta alla morte del tuo amato ufficiale.» l'acciaio incise superficialmente la carne, stillandone qualche perlina di sangue.

Il domestico rafforzò la presa sui ricci della ballerina, strappandole un lamento.

«Però non temere, zuccherino. Non appena avremo finito con lui, tu lo raggiungerai seduta stante.»
Len emise un basso, ferale lamento; i suoi occhi si erano trasformati in gelide distese di ghiaccio. Con sforzo, il ragazzo tentò di sollevarsi in ginocchio, serrando i denti per colpa della sofferenza che gli incendiava i muscoli. La sua mano destra si sollevò, protendendosi in direzione della compagna immobilizzata.

«Rin..»

Le sue labbra articolarono quel dolcissimo suono ed un sorriso gli illuminò il viso.

«Io ti..»

Dal nulla, un assassino piombò sulla schiena del combattente, afferrando a due mani l'asta della freccia. La punta penetrò ancora più a fondo nella carne, facendo sgorgare uno zampillo scarlatto.

«La feccia deve rimanere al suo posto.» rise, facendo pressione sulla ferita.

Rin non aveva mai sentito urlare l'ufficiale.

Quel suono, pregno d'una sofferenza devastante, le strappò il cuore.

Le lacrime affiorarono a baciarle gli zigomi mentre il sicario continuava ad infierire sull'ufficiale con calci, pugni e percosse.

La ballerina udì le proprie grida risuonare nell'aria, mescolandosi a quelle di tante altre fanciulle. Tanto più lei si opponeva alla stretta dell'assassino, tanto più lama del coltello le intaccava la pelle. Un paio di ciocche bionde si staccarono quando l'uomo la strattonò indietro per controllare la sua folle ed incontrollabile reazione.

«Vi prego, qualcuno ci aiuti!!» le parole fuoriuscirono dalla sua bocca come acqua da una sorgente. Rin chiamò tanto forte il nome del suo amato da sentire le corde vocali infiammarsi.

In tutto questo, gli occhi di Len non abbandonarono mai il suo viso, sfigurato dalle lacrime.

Il ragazzo non avvertiva più la sofferenza.

Non avvertiva i colpi al costato e le fitte che gli lanciava la ferita alla schiena.

Sapeva che quella sera sarebbe morto, di conseguenza tentò di imprimersi a fuoco nella mente i tratti del viso di lei. Con gli occhi esplorò le rotondità delle labbra e degli zigomi; si soffermò sulle lunghissime ciglia che le sfioravano la pelle ogni qual volta le palpebre si chiudevano.

Ammirò con nostalgia la perfezione di quella pelle che aveva accarezzato e baciato.

Se proprio doveva morire, l'ultima cosa che desiderava vedere era lei.

«LEN!»

Avrebbe così tanto voluto risponderle, dirle che sarebbe andato tutto bene e cancellare le lacrime che le arrossavano le gote. Avrebbe dato tutto per stringerla un'ultima volta tra le braccia e sentire l'aroma di fiori intrappolato tra le sue crine.

Lo stivale dell'uomo gli piombò sulla faccia, schiacciandola contro il pavimento di marmo.

La puzza del cuoio e del sangue era disgustosa, tanto che un conato gli rivoltò lo stomaco.

«Non guardi nemmeno il viso di colui che ti darà in pasto alla morte?»

«Sei.. sei così brutto da spaventarmi.» rise, tra un colpo di tosse ed un ghigno.

L'uomo si appoggiò di peso sulla faccia dell'ufficiale, tagliandogli la pelle dello zigomo con lo stivale.

Len ebbe l'impressione che una pressione più forte avrebbe potuto mandargli in frantumi il viso.

«Hai ancora la forza d'essere spiritoso, eh?»

Il sicario si chinò in ginocchio accanto a lui, afferrandogli la radice dei capelli per costringerlo a guardare la ballerina.

«E se le lacerassimo la faccia prima di ucciderti, saresti ancora così brioso, caro ufficiale?»

«Non osate toccarla..» latrò, muovendo appena le labbra tumefatte. Il gelo s'impossessò della sua anima e gli occhi irrimediabilmente caddero sulla lama premuta contro il collo della ragazza.

«Lei non c'entra niente con tutta questa storia!!»

«Noi vogliamo trasformare i tuoi ultimi istanti di vita in un inferno.. Quest'adorabile fanciulla si è solo trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.»

Con un sorrisetto, l'uomo fece un cenno al compare che, in risposta, premette l'arma contro il collo della giovane.

«NO! Maledizione, NO!!» La voce dell'ufficiale si spezzò e, con essa, una lacrima rotolò lungo la sua guancia.

Era finita così, dunque. La sua misera vita di stenti stava per finire.

Non avrebbe più dovuto sopportare le angherie del suo capo; non avrebbe più dovuto condividere l'appartamento con quelle stronze ladruncole.

Un solo movimento e tutte le sofferenze accumulate sarebbero semplicemente piombate nell'oblio. Tutto sommato, doveva ammettere che l'idea di morire la terrorizzava.

Ora che si trovava di fronte alla falce del mietitore, la sua esistenza assumeva una sfumatura differente.

Voleva continuare a vivere, piangere, ridere e ballare.

Voleva soddisfare il proprio sogno e gridare a pieni polmoni che lei ce l'aveva fatta.

Gli sguardi dei due ragazzi entrarono in contatto, entrambi velati da una patina di lacrime.

«Mi dispiace così tanto..» mormorò Rin a fior di labbra, socchiudendo gli occhi.

Il coltello fece pressione, la carne si lacerò ed il sangue cominciò a sgorgare, accompagnato dal dolore. La voce di Len esplose nel caos, sovrastando qualsiasi altro suono lì presente.

Poi, ci fu un sibilo, seguito da un grugnito incredulo.

La presa sui capelli della ragazza si allentò ed il coltello cadde a terra tintinnando.

«Possibile che i gentiluomini di oggi non conoscano più le buone maniere?»

Louis si avventò contro il secondo aguzzino senza lasciargli il tempo d'elaborare ciò che era appena successo. Le lame cozzarono l'una contro l'altra, liberando un nugolo di scintille rosse ed arancioni. Gli uomini cominciarono a danzare sulle note generate dal triste flauto del mietitore.

Si sarebbe potuto pensare che, a causa della sua disabilità, Louis potesse essere in svantaggio rispetto al domestico. Invece, il condottiero attaccava con la forza di una tigre, rovesciando addosso all'avversario una serie di colpi inarrestabili.

Infine, la morte decise chi trascinare con sé nell'oltretomba, forse stufa d'osservare quell'infantile gioco umano. Qualcuno urtò il sicario da dietro, spingendolo in avanti.

La sua guardia si abbassò e Louis, cogliendo al volo l'occasione, piantò il coltello nella carotide dell'uomo. La veemenza del colpo vibrato minacciò di tranciare il capo dell'individuo che, con un ultimo rantolo, cadde in ginocchio al fianco di Len.

«Che schifo.» si lamentò il condottiero, ripulendo la lama contro i vestiti neri del domestico.

A quel punto, il guerriero si voltò in direzione della fanciulla, ancora inginocchiata a terra, immobile come una statua di cera.

«È finita, piccola. Sono arrivati i rinforzi.»

Rin quasi si mise a piangere.

Una cinquantina di soldati in casacca blu avevano fatto irruzione nella stanza, neutralizzando coloro che avevano massacrato gli invitati disarmati.

L'ex reggente era in lacrime, genuflesso di fronte ad un signore grosso quanto un armadio.

La sua espressione truce non lasciava presagire nulla di buono. L'ometto era stato picchiato, a giudicare dalla sbagliata posizione del naso e delle labbra gonfie.

La ragazza non trovò la forza di rispondere.

Un solo pensiero ronzava nella sua testa, cancellando tutto il resto.

Con un certo sforzo, gattonò in direzione del suo compagno per poi accoccolarsi al suo fianco come un cucciolo. Lui, mugugnando per la fatica, sollevò un braccio e l'attirò a sé, carezzandole i riccioli insanguinati.

«Rin, grazie.»

La ragazza chiuse gli occhi, espirando con lentezza.

Non si era mai sentita tanto stanca in vita sua; aveva come l'impressione che ogni suo singolo osso fosse stato ridotto in polvere.

«È finita?» mormorò a fior di labbra, appallottolandosi contro il petto del ragazzo che, baciandole la fronte, cancellò ogni sua preoccupazione.

«È finita.»

A quel punto, Rin si addormentò. 

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Capitolo 9
*** Combatti per il tuo futuro. ***


Chapter IX 
 

Il sole di mezzogiorno stava per raggiungere il suo picco massimo.
Il castello era in tumulto; un costante via vai di uomini in divisa percorrevano i corridoi, parlando a bassa voce. Una sinuosa fila di camerieri, servi ed garzoni si snodava per almeno quaranta metri nel ventre del maniero. I più giovani si lanciavano occhiate spaventate, i reduci squadravano la punta delle proprie scarpe logorate dall'uso, pregando di non perdere il posto.

Era passato un giorno dall'imboscata che l'ex reggente aveva teso all'esercito invasore.
Tutti erano sconvolti, storditi dal fatto che quell'anonimo ometto potesse averli colpiti tanto nel profondo. Le perdite erano state tremende.

Almeno la metà dei nobili lì presenti erano stati massacrati assieme a mogli, figli ed anziani, senza discriminazione d'età.
Solo i più fortunati erano riusciti a sopravvivere, nascondendosi alle lame nemiche. Qualcuno aveva finto di essere morto, altri si erano accoccolati dietro i tavoli rovesciati o le tende spiccate.
Come se non bastasse, dopo una notte d'agonia e febbre, il vecchio era spirato, abbandonando l'esercito a sé stesso.
Convinto d'aver ancora molto tempo da vivere, il generale non aveva designato alcun erede.

Chi avrebbe preso le redini del potere, adesso?

Quella domanda aleggiava nell'aria e già stava facendo sbavare una serie di altolocati veterani di guerra che, per anni, avevano anelato lo scettro del comando.
Gli interrogatori, le discussioni ed i rumori erano stati distribuiti al piano terra, lontano dalle camere da letto dei malati. A loro, difatti, era stato dedicato il piano superiore, assieme al manipolo di medici più competenti di tutto il paese.
Lì, dove le fronde degli alberi quasi toccavano i vetri, Rin dormiva raggomitolata sotto un pesante strato di coperte. Le domestiche le avevano tolto di dosso il vestito stracciato, lavando e medicando con cura materna le ferite che aveva riportato. Len, allo stesso modo, dormiva in una stanza poco distante.
Le sue ferite erano però molto più gravi rispetto a quelle della ragazza. La freccia non aveva reciso né tendini, né vene ma, in compenso, le mini fratture causate dal pestaggio gli tempestavano il corpo, partendo dallo sterno per poi diramarsi al bacino e all'omero. Le fasciature tentavano al meglio di immobilizzare le parti lese, coprendo quasi interamente la pelle del ragazzo. I giovani erano avvolti in una cappa di sonno tanto spessa da non lasciar spazio ai sogni.
La luce solare colò lungo le scanalature del legno, insinuandosi sotto l'anta della finestra chiusa.

Eludendo le difese delle tende di broccato, i raggi del sole si allargarono sul pavimento come una macchia di olio. Le trame del sonno cominciarono a scucirsi, liberando la ragazza dall'oblio che sino a quel momento, l'aveva intrappolata. Rin sbatté le palpebre un paio di volte, mettendo a fuoco i contorni sfocati della sala. La prima cosa che ebbe modo di vedere fu il comodino, posizionato sul lato destro del letto, sul quale era stata collocata una lampada decorata in pizzo.

Poco distante, appoggiata contro il muro, c'era una libreria zeppa di volumi che quasi arrivava a sfiorare il soffitto. Una poltrona color smeraldo era stata collocata lì accanto per permettere un'agevole e confortante lettura. Se le tende fossero state scostate, la luce avrebbe colpito l'angolo destro della sedia, mettendo in evidenza l'inchiostro delle pagine.

Il cervello di Rin andava a rilento, i pensieri sembravano avvolti in un fagotti di ovatta grigia.

Quanto aveva dormito? Ore? Mesi? Anni?

Rin non ne aveva davvero idea.

Il suo corpo appariva pesante come un macigno; anche respirare le costava una fatica titanica. Le bendature si arrotolavano attorno alle sue braccia ed al collo, simili a serpenti dalle scaglie bianche. Qualcuno le aveva rimboccato le coperte sino al mento, senza neanche lasciare un lembo di pelle scoperta.

La ragazza affondò il naso nella trapunta che profumava di lavanda, beandosi del calore che sprigionava. Non aveva mai dormito così bene in vita sua.

Rin chiuse gli occhi, adagiando la guancia contro il cuscino foderato di piume d'oca.

Il silenzio regnava sovrano nella stanza. Fuori dalla finestra, la stessa natura sembrava essere stata messa a tacere per non disturbare il suo riposo.

La ballerina si raggomitolò su sé stessa, prendendo in seria considerazione l'idea di riaddormentarsi.

Lo scorrere del tempo ed il mondo esterno non avevano importanza in quell'oceano di ombre corvine. Quella sua convinzione non durò molto.

Nel momento in cui gli ingranaggi del suo cervello tornarono a muoversi in modo efficace, una valanga di ricordi la sommerse, minacciando di asfissiarla.

Frammenti di ricordi schizzati di sangue tornarono a sfrecciarle di fronte agli occhi come fantasmi dai contorni impalpabili. Un campanello d'allarme cominciò a risuonare lontano nella mente della ragazza, diffondendone l'eco in ogni sua cellula.

La sua bocca si asciugò come se avesse appena ingerito un pugno di sabbia desertica.

Dov'era Len? Stava bene?

La ragazza cercò di girarsi sul fianco opposto ma, tutto quello che ottenne, fu la fiacca risposta di un corpo troppo stanco per muoversi. Malgrado ciò, la ragazza si tirò a sedere, facendo leva con la schiena contro la testiera del letto.

Dopo un paio di tentativi falliti, la sua testardaggine ebbe la meglio e, con un sorriso trionfante, Rin fu in grado d'osservare tutta la stanza.

Era addirittura più grande di quanto si era immaginata. Come poteva una camera del genere essere adibita ad una sola persona? La mente di Rin non sarebbe mai riuscita a comprendere l'assurda mania di grandezza che denotava le nobili abitazioni.

Sgranando gli occhi per la meraviglia, la ragazza analizzò i fregi che abbellivano mobili antichi e gli specchi bordati d'oro.

Tutto quel lusso sarebbe bastato a sfamarla per il resto della sua vita, senza che dovesse più preoccuparsi di sgobbare come un mulo. Mentre quei superflui ragionamenti prendevano forma nella sua mente, la porta si aprì con un cigolio, mostrando il visetto tondo di una servetta.

Nell'accorgersi che la ragazza si era svegliata, l'inserviente strabuzzò gli occhi fermandosi in corrispondenza della soglia. Tra le mani stringeva un vassoio di argento, sul quale erano stati adagiati dei piatti di porcellana colorata. Il delizioso odore del cibo sgusciò nella camera da letto, ridestando l'addormentato appetito della ballerina.

«Si è svegliata, signorina.» la cameriera le rivolse un sorriso cordiale, facendosi avanti con rinnovata sicurezza. Non appena le tende vennero raccolte, la luce irruppe nel locale, mettendo in risalto i particolari che erano rimasti celati dalla penombra.

«Come si sente? Mi sono permessa di portarle qualcosa da mangiare.»

La giovane afferrò i manici del vassoio, depositandoglielo in grembo.

Vi erano stati disposti quattro piattini e d in ciascuno di essi c'era una pietanza differente.

Pane, formaggio, mucchietti di marmellata fresca e fette di mela aromatizzate al miele la chiamavano, ricordandole che erano passate ore dall'ultima volta in cui aveva messo qualcosa sotto i denti. La sua pancia cominciò a brontolare, fremendo al pensiero di gustare quelle prelibatezze. Rin cercò di non avventarsi selvaggiamente sul cibo ed arrossì, imbarazzata da quelle strane premure. Nessuno l'aveva mai accudita, neanche quand'era malata.

«È tutto per me?»

«Certo! Se non le basta possiamo sempre chiedere qualcos'altro alla cucina.» la ragazza lisciò un paio di pieghe presenti sul proprio grembiule. La ballerina raccolse la forchetta, colpendo la gelatinosa massa di frutta collocata sul piatto.

Poi, con un movimento calcolato, titubante, l'assaggiò con la punta della lingua.

Era semplicemente deliziosa.

«Non è di suo gradimento, signorina? Posso farle preparare qualcos'altro.»

«No, no! È buonissima!» Rin infilzò la polpa della mela con i denti della forchetta per poi divorarla in un sol boccone. Il miele le si sciolse sulla lingua, facendole venir voglia di piangere.

«Avevo una fame da lupi..» biascicò tra un morso e l'altro.

La servetta ridacchiò divertita, dirigendosi verso la toeletta, sistemata nell'angolo della camera.

«Come si sente, signorina? Le ferite le fanno molto male?»

Rin smise di colpo di mangiare, voltandosi per squadrare accuratamente la fisionomia della servetta. I capelli ricci erano imprigionati da una cuffietta bianca; i tratti del viso erano ancora freschi a causa della sua giovanissima età.

«Perché continui a darmi del lei? Mi fai sentire incredibilmente vecchia così..»

Evidentemente in difficoltà, la fanciulla divenne un pezzo di marmo

«Ma io..»

«Dammi del tu. È più facile di quanto sembri.» ridacchiò Rin, ingurgitando un pezzo di pane spalmato generosamente con della marmellata.

Non aveva mai assaggiato niente di tanto buono in vita sua.

Nella sua zona, il pane non era altro che una pagnotta nera, dura come un pezzo di muro.

Malgrado sembrasse incredibile, Rin non aveva mai stretto tra le mani un sacchetto di farina bianca. L'alimento si poteva solo trovare nel mercato nero ed il suo peso veniva pagato in oro zecchino. Quello non era di certo cibo per poveri.

Rin si bloccò di colpo, depositando la forchetta contro il portavivande d'argento. Il fazzoletto, collocata a destra del piatto si sporcò appena con la marmellata rimasta sui rebbi della posata. «Posso chiederti una cosa?»

La servetta, nel frattempo, si era messa a lucidare la superficie dello specchio e, nell'udire l'urgenza presente nella voce della ballerina, interruppe il lavoro.

«Mi dica, signorina.» le parole le sfuggirono dalle labbra, seguendo la consueta, servizievole forma. Rin non riuscì a farci caso, tanto era opprimente il suo timore.

«Quella che sto per farti è una domanda confidenziale. Posso fidarmi di te?» Rin agganciò lo sguardo della servetta, tentando di raggiungerle l'anima.

«Certamente!» cinguettò, mettendo in mostra una fila di denti sani.

Trascurando la pulizia del vetro, fece un passo avanti per poter meglio ascoltare la domanda della danzatrice. Un'ondata di disagio si infranse contro lo sterno della ragazza, facendola tentennare.

«Potrai rivolgere a me tutte le domande che desideri.»

La servetta sobbalzò, scostandosi di qualche passo dall'uomo che le era improvvisamente apparso alle spalle. Louis era immobile sulla soglia, aveva le braccia incrociate sul petto ed il suo viso era una maschera di cemento. Una morbida tunica bianca gli fasciava il petto, lasciando parzialmente scoperte le clavicole. A giudicare dalle fasciature che si avvolgevano attorno al suo collo taurino, anche lui era rimasto ferito durante la battaglia. Un paio di pantaloni neri gli fasciavano le gambe, mettendo in risalto la potenza guizzante dei quadricipiti.

«Signore.» la domestica chinò rispettosamente il capo, cancellandosi dalla faccia l'entusiasmo generato dalla domanda della sconosciuta.

«Puoi andare.»

«Ma la signorina..»

«Stai forse contestando i miei ordini? Ti richiamerò non appena avrò finito.» la voce di Louis troncò bruscamente le proteste della servetta che, sbiancando, si affrettò ad uscire dalla stanza e a chiudersi la porta alle spalle.

Non appena la serratura scattò, un manto di quiete divise Louis e Rin.

Il militare dava le spalle alla danzatrice che, a disagio, tentò di imbrigliare l'ansia galoppante.

La stazza del condottiero la intimoriva e, come se non bastasse, l'idea di non poterlo contrastare accresceva il suo malessere.

Louis li aveva salvati dalla morte durante il ballo ma, anche volendo, non sarebbe mai riuscita a fidarsi di quell'uomo basandosi su quel singolo avvenimento.

«Hai dormito per due giorni.»

Il condottiero fece un paio di passi avanti ma, in risposta, Rin si irrigidì, serrando le mani attorno alle coperte che gli coprivano le gambe. L'uomo dovette accorgersene perché si fermò di colpo, lasciando qualche metro di distanza tra sé e la giovane rannicchiata nell'ampio giaciglio.

«Le tue ferite non erano molto gravi, per fortuna. Non hai riportato nessuna frattura, né tagli profondi.» Louis la squadrò da capo a piedi, soffermandosi sulle ecchimosi che contaminavano la bellezza del suo viso. Un sorriso incorporeo gli illuminò la mente, proiettata verso l'amico, addormentato in una delle stanze adiacenti. Il suo corpo, differentemente da quello della ballerina, aveva riportato lesioni più gravi ma Len era robusto e si sarebbe ripreso.

Louis scrutò con curiosità la reazione della fanciulla che, come un serpente, stava arrotolandosi su sé stessa pronta ad attaccare.

Quella sì che sarebbe stata una compagna adatta per il suo amico.

«Come ti chiami?»

«Non sono tenuta a dirtelo.»

Louis scoppiò a ridere, appoggiando una mano contro il collo fasciato.

Il dolore gli formicolò sulla pelle, stuzzicando l'adrenalina ancora adagiata sul fondo delle sue arterie.

«Ragazza mia, sei forte. E per questo mi piaci.»

Rin avvampò, evidentemente colpita da quello strano complimento ma, neanche allora, abbassò la guardia. Curiosamente, il militare si ritrovò a pensare che, se la ragazza fosse stata un gatto, in quel momento la sua coda avrebbe sferzato l'aria in maniera minacciosa, quasi a volerlo mettere in guardia.

«Mi chiamo Louis Bellafonte. L'altra sera sono stato io a salvarvi la vita.»

Rin annuì, addolcendo il suo sguardo vigile. Era grata a quello sconosciuto che, in nome dell'amicizia per l'ufficiale, aveva salvato entrambi da una fine orrenda.

Ciò era accaduto perché lei non era stata abbastanza forte per proteggerlo.

«Ricordo bene il tuo viso, condottiero. Non potrò mai ringraziarti abbastanza.»

Il militare, felice d'aver finalmente trovato un punto di contatto con quella riottosa creatura, si accostò un po', sino a raggiungere la testiera del letto.

«C'è una domanda che ti angoscia, vero?»

Rin socchiuse le labbra per dar voce al quesito irrisolto.

Len era lì, da qualche parte, e lei doveva ad ogni costo raggiungerlo.

Voleva stringerlo tra le braccia, avvertire il peso della sua mano sulla guancia e respirare il delizioso profumo della sua pelle.

Quello stato di stasi le feriva l'anima.

Doveva assicurarsi che stesse bene, altrimenti il senso di colpa l'avrebbe distrutta.

«Aspetta, aspetta, zuccherino. Non così in fretta.» Il condottiero appoggiò le mani sul legno, fasciandone le scanalature con le dita rovinate dalla guerra.

Il suo sorriso si fece più ampio, insidioso come quello di un abile stratega.

«Le informazioni hanno un certo peso, ne sei consapevole no?»

«Che cosa vuoi da me?» Rin scoprì i denti, infastidita dalla meschinità del condottiero che si era perfettamente reso conto della sua angoscia.

Se allenati a dovere, quei soldati erano in grado di fiutare l'odore acido dell'inquietudine con la stessa facilità con cui i cani riuscivano a trovare il tartufo sottoterra.

Evidentemente, sia Len che Louis erano stati indottrinati molto bene all'arte della guerra.

«Voglio sapere chi sei.»

«Sono una donna senza titolo ed importanza.» la ragazza gli sputò addosso quelle parole, quasi a volerlo biasimare della sua umile, degradante posizione sociale.

«Come ti chiami?»

«Che importanza ha? Non potete conoscermi.» La ragazza cercò di contrastare quella forzata comunicazione, stringendo al seno i suoi segreti.

«Rispondi.»

«Mi chiamo Rin. Faccio la ballerina.»

Louis, chiaramente soddisfatto dalla risposta, si raddrizzò appoggiando una mano sul fianco.

«Len è nella stanza qui di fronte. Sta ancora dormendo ma è fuori pericolo.»

Il condottiero fece una pausa, colpito dall'intensità del sollievo che si dipinse sul volto della giovane. Liberando il fiato, Rin si appoggiò di peso contro il cuscino, quasi temesse di svenire.

Una patina di lucida emozione le abbracciò l'iride, rendendo ancor più chiaro il colore dell'iride.

«Posso.. vederlo?»

«Teoricamente non sarebbe possibile..» Louis scoccò una rapida occhiata alle proprie spalle, poi tornò a guardare la ragazzina. Portandosi l'indice contro le labbra, l'uomo le strizzò l'occhio.

«Ma per te faremo un'eccezione. Vieni con me.»

Il soldato le tese una mano, raggiungendola al fianco del letto.

La ballerina fece per stringere quei calli ruvidi ma qualcosa la fece esitare, bloccandola a metà del movimento.

Una schiera di campanelli d'allarme le si erano messi in funzione nel cervello, richiamandola.

L'istinto, ruggì nel suo petto, facendo sferragliare le catene che l'inchiodavano alle costole.

Louis, avvedendosi della sua indecisione, le afferrò il polso, trascinandola verso di sé con la sola forza di un braccio. Le coperte si accartocciarono attorno al grembo della ragazza che cercò, invano, d'opporre resistenza, puntando i piedi nudi contro il materasso.

Louis le afferrò il mento con le dita, obbligandola a guardarlo dritto negli occhi.

«Lasciati dire una cosa, ragazza. Nella vita, per certe cose non c'è tempo di pensare. Alcune occasioni vanno prese al volo, senza aspettare il benestare della ragione.»

Il viso del condottiero si increspò in un piglio rammaricato, amaro come fiele.

«Puoi fidarti di un esperto d'occasioni perse.»

Non c'era giorno o notte in cui il sorriso della sola donna che aveva amato gli tornasse in mente.

Non passava minuto senza che il ricordo delle sue lacrime gli bruciasse la pelle, rammentandogli in che modo mostruoso le aveva spezzato il cuore.

All'epoca, l'idea di poter intraprendere una carriera brillante aveva calpestato il suo amore, riducendo il soldato ad un individuo bramoso di potere e denaro.

Ma la vita gli aveva fatto pagare cara la sua decisione.

Ora, tutto ciò che gli rimaneva era un impiego deludente, contornato dai frammenti del suo defunto amore. Dopo quella legnata, Louis era cresciuto, giurando a sé stesso che non avrebbe più permesso a nessuno di compiere il suo stesso errore.

«Se lo ami davvero, corri da lui senza pensare alle conseguenze.»

L'uomo le lasciò il mento, aiutandola a scendere dal letto. La giovane gonfiò il petto, aggiustandosi sulle spalle i drappeggi della camicia da notte che le servette le avevano fatto indossare.

«Andiamo.»

«No.. Va'.» Louis le diede una piccola spinta per incoraggiarla e lei cominciò a correre, spalancando la porta con rinnovata decisione.

Senza attendere indicazioni, Rin si lanciò nel corridoio, alla ricerca di quell'uomo che amava in maniera così disperata.

Louis incrociò le braccia sul petto, atteggiando le labbra in un sorriso divertito.

Perché l'aveva aiutata? La risposta gli fu subito evidente.

Quella ragazza gli ricordava la sua compagna d'un tempo; una rara, indomabile fiammella che danza senza paura, divorando tutti gli ostacoli che si oppongono al suo cammino.

«Va' e combatti per il tuo futuro, Rin.»

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Capitolo 10
*** «Questo è un sogno, vero?» ***


Chapter X 

Rin spalancò con foga la porta e, senza attendere le indicazioni del veterano, si precipitò alla ricerca del suo compagno. Le gambe pesavano come due pezzi di marmo; il sangue rombava nelle sue arterie, offuscandole l'udito. Lo sguardo si spostava freneticamente da una porta all'altra, nel tentativo di comprendere dietro quale di esse si celasse l'ufficiale.

Un giramento di testa la fece ondeggiare ma, malgrado ciò, la ballerina non desistette.

Alzarsi così rapidamente dopo tante ore di sonno non era di certo stato un colpo di genio però, in quella situazione, tutto ciò che non riguardava Len aveva perso importanza.

Quel pensiero le martellava le tempie, tramutando le altre riflessioni in fantasmi dai cerei contorni. Il corridoio appariva senza fine in quell'identica successione di usci.

Era sicura che, se si fosse messa a contarli tutti, il numero avrebbe ampiamente superato la centinaia. A quel punto, la ragazza si impose di fermarsi e, inspirando con lentezza, cercò di ragionare. Il cuore sbatacchiava ancora contro la sua cassa toracica, deciso a sfuggire ad ogni sua razionale imposizione. Louis aveva detto che l'ufficiale stava ancora dormendo; di conseguenza, dalla sua stanza non sarebbe dovuto provenire nessun rumore forte.

Ora che Rin vi prestava attenzione, si rese conto che l'aria era gravida di suoni smorzati, attutiti dal legno con cui erano state costruite le porte.

Lamenti, gemiti e grida soffocate l'attorniavano, quasi come se si trovasse in un lazzaretto. In lontananza, lì dove il corridoio curvava verso sinistra, spalancandosi su un'altra ala del castello, il pianto infelice di un neonato ruppe il silenzio ieratico.

Un paio di stanze erano silenziose. Esasperata dalla sua indecisione, la ragazza afferrò la maniglia della prima, spalancandola con veemenza verso l'interno.

Un medico dalla canizie accentuata stava visitando una signora anziana, rannicchiata timorosamente in quel nido di coperte di raso. L'uomo le stava tastando con gentilezza il polso scheletrico, immobilizzato da due stecche di legno e strette fasciature. Una garza più corta le cingeva il capo e, a differenza di quelle sul braccio, era appena macchiata di rosso.

«Come si sente oggi, signora?»

«Il braccio mi fa molto male.» la voce, arrochita dal tempo, assunse una cadenza infantile, simile a quella dei ragazzini che si lamentano perché non vogliono mangiare gli spinaci.

«Posso ben crederlo, signora. Ma le prometto che ben presto non le darà più alcun fastidio.» Alzandosi in piedi, il medico allungò le mani verso la bendatura che le coronava la fronte e, con abile gesto, la sciolse. A quel punto, senza farsi notare, Rin chiuse il battente ed aguzzò l'udito per cogliere il canto del silenzio. Rin vagò nel corridoio, spalancando ancora due porte. Sfortunatamente i suoi tentativi andarono a vuoto in modo alquanto imbarazzante. La prima volta, la ballerina si ritrovò di fronte ad un uomo totalmente nudo che, girando su sé stesso, stava mostrando all'infermiere le ferite riportate sul corpo.

La seconda intrusione le mostrò uno spettacolo tanto toccante da risultare doloroso.

In fondo alla stanza, distesa su un baldacchino matrimoniale, c'era una giovane madre con un sorriso dipinto sul viso. Al suo fianco, una ragazzina di appena otto anni dormiva acciambellata come un cucciolo.

Il visino, ripiegato contro il cuscino, era coronato da una cascata di riccioli color rame.

La scena sarebbe risultata gradevole se la ballerina non si fosse accorta che a quella creatura mancava una mano.

La madre carezzava le crine disordinate della bambina. Rin studiò quel movimento ipnotico e regolare, notando che anche lei era stata lesionata dalla perdita di tre dita: il medio, l'anulare e il mignolo.

La signora si accorse della sua presenza e, sollevando spaventata la testa, le rivolse un'occhiata enigmatica, a metà tra un sorridente invito ad entrare e un ammonimento.

Rin chiuse l'uscio, lasciandole alla loro sofferente intimità.

Il desiderio di trovare l'ufficiale si era fatto tanto impellente da risultare molesto.

Ti prego, fa che sia questa.” pensò tra sé e sé mentre la mano correva a cingere la maniglia dorata. Se lì dentro non ci fosse stato Len, la ragazza si sarebbe messa ad urlare per l'isterico nervosismo che le comprimeva il petto.

Chiudendo le palpebre, spinse il battente con la spalla ed irruppe nella terza camera da letto.

«Le ferite riportate non sono gravi quanto una prima analisi aveva rivelato ma, malgrado ciò, lei..» le parole del dottore si interruppero di colpo, mozzate dall'inaspettata invasione della ballerina. Una fitta di sgomento le inacidì lo stomaco quando l'uomo, strisciando per terra le zampe della sedia, le si indirizzò in modo sgarbato.

«Lei chi sarebbe? Non ha il diritto di..»

«Rin?»

Fu appena un sussurro ma la giovane avrebbe riconosciuto ovunque quella voce.

Il suo cuore si arrestò ed il fiato le venne a mancare.

Era lui.

«Ufficiale, conosce questa ragazza?»

Rin socchiuse lentamente le palpebre, incollando il proprio sguardo a quel viso che mai, prima di allora, fu tanto felice di rivedere. Il medico la stava squadrando in cagnesco, evidentemente infastidito dal fatto che la ragazzina avesse interrotto il suo lavoro.

«Sì. Ora ti prego di uscire.»

«Come, scusi?»

«Esci.» il suo fu un solo, semplice ordine.

Il medico si voltò verso l'ufficiale quasi pensando d'aver sentito male ma, nel farlo, si scontrò con un paio di fornaci di ghiaccio.

Il signore raccattò stizzito le proprie cose ed uscì dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle. Len non disse una parola ma lasciò che fossero i suoi occhi a parlare.

Le differenti tonalità blu delle loro iridi si mescolarono, come affluenti di un fiume che, per troppo tempo, erano rimasti divisi.

«Rin. Mia cara, amatissima, Rin.» Il militare assaporò quel nome sulle labbra, pronunciandolo sillaba per sillaba. La ballerina non riusciva a muoversi; i suoi arti si erano tramutati in pezzi di argilla, insensibili a qualsiasi suo richiamo o stimolo.

L'ufficiale era seduto sul materasso, appoggiato con la schiena a quattro gonfi cuscini ripieni di piume. A giudicare dal velo di sudore che gli imperlava la fronte, la sofferenza gli stava masticando le ossa.

«Sei qui.» mormorò in un sospiro, sfuggendo per miracolo al desiderio di piangere come un marmocchio. La ballerina si portò le mani al viso e piano scivolò a terra, raccogliendo le gambe contro il petto.

«Dove altro potrei essere, Len?»

«Ovunque, a chilometri di distanza da me.» pronunciare quelle parole gli fece male.

«Se fossi scappata, non ti avrei biasimato. Hai rischiato di morire per colpa mia.»

Rin scosse la testa, ridacchiando istericamente di fronte a quell'affermazione così innocente.

La sua vita, ormai, non poteva esistere lontano da lui.

Molto spesso, si era ritrovata a pensare che se fosse stata costretta ad abbandonarlo, qualcosa sarebbe irrimediabilmente cambiato nel suo modo di essere.

Rin non era mai stata romantica; la vita non gliel'aveva permesso.

Squadrando i fatti con il suo spietato realismo, la giovane aveva compreso che la routine, procedendo con il suo monotono passo, l'avrebbe trascinata con sé.

Avrebbe certamente vissuto ancora a lungo ma in mondo privo di colore e brio.

Len cercò di sistemarsi meglio ma, nel farlo, un pugno di dolore gli mozzò il fiato in gola. Ansimando ad occhi serrati, cercò di non mettersi ad urlare.

«Len! Che ti prende? Devo chiamare il medico?» la ragazza era balzata di colpo in piedi e, con il terrore negli occhi, si stava avvicinando frettolosamente al bordo del letto.

L'ufficiale digrignò i denti in un'espressione grottesca, a metà tra il riso e lo strazio.

Le sue dita, agganciate al copriletto, si rilassarono con lentezza, man mano che l'agonia svaniva.

«No, sto bene.»

L'uomo voltò il capo, facendo frusciare i capelli sudati contro la federa.

«Finalmente ti sei avvicinata.. lasciati toccare.» le dita del giovane si sollevarono, bramose di annullare la distanza che li separava. La ballerina fece istintivamente un passo indietro, sfuggendo così alla sua portata. L'uomo rimase chiaramente ferito da quel silenzioso rifiuto e, con titubanza, abbassò la mano senza sapere cosa dire.

«Rin.. io..capirò se..» la mente dell'ufficiale si accartocciò, vinta da un terrore mostruosamente intenso. Quel rifiuto l'aveva d'improvviso catapultato in un mondo di paura, contornato da tentacoli appiccicosi come la pece.

Lo stava abbandonando?

Quell'incubo aveva perseguitato il giovane, insidiandogli il sonno e i momenti di veglia ma, puntualmente, si era rifiutato di credervi.

Dopotutto, vivere senza di lei non avrebbe avuto alcun senso.

La ballerina aprì e serrò i pugni, tenendo le braccia cementate lungo i fianchi, malgrado stesse scalpitando all'idea di toccare quel viso ammaccato.

«Shh, non parlare.» mormorò, accostandosi ancora d'un passo alla sponda del letto. Con gli occhi baciò il profilo del suo mento, solcato da un taglio che sarebbe ben presto svanito.

La verità era che aveva paura di toccarlo.

Rin era sicura che l'uomo si sarebbe smaterializzato sotto i suoi polpastrelli, non appena avesse osato toccarlo. Quello poteva essere un sogno; un mondo fittizio, creato dalla sua mente traumatizzata per proteggersi.

Se nella realtà Len era morto, la ballerina non voleva risvegliarsi.

Il calore del sole filtrava dalle ampissime finestre alle sue spalle, sfiorandole la spina dorsale, vertebra per vertebra. La morbidezza della vestaglia da notte le lambiva la pelle in maniera così verosimile da farle credere d'essere sveglia.

Ma, malgrado ciò, decise di non fidarsi dei propri sensi.

«Che cosa succede, Rin?»

«Dimmi la verità. Questo è un sogno, vero?»

Len sbatté le palpebre un paio di volte, sbalordito da quella domanda così inconsueta.

Lui, un sogno?

Impiegò qualche minuto prima di comprendere cosa stesse insinuando la fanciulla, ferma lì accanto. Un lampo di serietà e timore pulsò nelle sue orbite, permettendo all'ufficiale di comprendere l'autenticità del suo dubbio.

Le dita dell'uomo scivolarono sul copriletto, tentando d'afferrare e stringere quelle della ragazza ma lei si scostò di nuovo.

«Rin, io non sono un sogno.»

«Ho paura, Len. Se tutto questo fosse finzione..» la sua voce si ruppe, cadendo in frammenti minuscoli ai suoi piedi. L'ufficiale, scoraggiato dalla sua testardaggine, strinse i denti ed avvertì una fitta di dolore arrampicarsi lungo la curva della sua mascella.

«Io sono qui, per te. Lo sarò sempre.»

Le barriere protettive che la ballerina aveva eretto attorno a sé vacillarono, sgretolandosi ai colpi delle parole di Len.

«Ora, vieni qui. Altrimenti mi costringi ad alzarmi.»

Non ci fu bisogno di altre parole.

Prima ancora che il ragazzo potesse terminare la frase, la danzatrice si era già precipitata a stringergli il collo. Senza rendersene conto, una pioggerella di lacrime tempestò i suoi zigomi rosei, arrossandole la pelle.

Rin singhiozzò senza pudore, affondando il viso nell'incavo della spalla dell'ufficiale che, accarezzandole dolcemente la nuca, lottò contro il nodo che gli stringeva la gola.

«Non sei un sogno.» bisbigliò, scostandosi di qualche centimetro per guardarlo in faccia.

I suoi polpastrelli esplorarono con cautela il viso del compagno che, chiudendo gli occhi, si abbandonò al quel tocco così gentile.

«Neanche tu lo sei.»

Non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce ma, quando Rin era improvvisamente entrata con la maniglia ancorata tra le dita, l'ufficiale aveva pensato d'aver avuto un'allucinazione.

Dopo tutto quello che aveva passato per colpa sua, la fanciulla aveva davvero trovato il coraggio per perdonarlo.

«Ti amo.»

Quelle parole sfuggirono incontrollate dalle labbra di Rin che, rendendosi conto di ciò che aveva appena detto, si premette ambedue le mani sulla bocca.

Un acceso, luminoso rossore le infiammò il viso, come se un'onda di calore si fosse sprigionata dai più bui recessi del suo corpo.

Len sgranò gli occhi, assaporando nel silenzio l'eco di quelle due paroline tanto agognate.

«Len, scusami. Io non volevo..»

La mano del militare scivolò sulla guancia umida, intrecciandosi a quei ricci ribelli.

Le sue iridi, così simili a due oceani gemelli, la scrutavano con un'intensità tale da farle venire la pelle d'oca. L'anima dell'ufficiale era incendiata; bruciava di un sentimento che né il tempo, né la delusione avrebbero potuto mitigare.

«Dillo ancora..»

Rin arrossì, convertendosi in una ciliegia matura.

Appoggiando le mani sul copriletto, la giovane si avvicinò e, a fior di labbra, in un sussurro appena percepibile, pronunciò quel segreto inconfessabile che per mesi aveva custodito nel cuore.

«Ti amo, ufficiale.»

A quel punto, di fronte all'anima nuda della fanciulla, Len non riuscì più a controllarsi.

Avvolgendo il suo viso tra le mani, si sollevò a sedere per baciarla, dimentico del dolore causatogli dalle ossa fratturate.

I petali del loro amore sbocciato fuori stagione si schiusero, emanando un aroma squisito, soave come l'ambrosia degli dei.

I tralci spinosi di quella rosa crebbero ancora, attorcigliandosi intorno alle costole, ai polmoni, al fegato, per poi coinvolgere ogni loro cellula.

Rin si perse in quel bacio, cingendo con passione il collo dell'uomo. Forse avrebbe dovuto fare attenzione, ma il sapore salato delle labbra di lui aveva demolito ogni capacità razionale della ballerina. Non c'era nulla all'infuori del tocco virile delle mani dell'uomo sulla schiena o del suo respiro caldo sulle guance accaldate.

Len le mordicchiò il labbro, stringendo tra le dita i ricci biondi.

Per qualche minuto, entrambi abbandonarono le proprie preoccupazioni che, sibilando, si rannicchiarono in un angolo buio della stanza, pronte ad affondare le zanne in quel germoglio di ritrovata felicità. 

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Capitolo 11
*** «Che cosa succederà adesso?» ***


Chapter XI 

«Che cosa succederà adesso?» Rin appoggiò il capo contro uno dei cuscini, accoccolandosi come un gattino al fianco dell'ufficiale. Le coperte di raso le coprivano le gambe, riscaldandole la pelle ed il cuore. Non ricordava l'ultima volta in cui era stata così bene.

I muscoli, ancora doloranti a causa dell'adrenalina, si stavano finalmente rilassando.

L'uomo abbassò il mento, lambendo con lo sguardo i suoi graziosi lineamenti da bambola.

Len disegnò l'ennesimo arabesco sulle spalle della ballerina, soffermando i polpastrelli sulla pelle nuda alla base del collo. Non sapeva da quanto tempo stesse ripetendo il medesimo movimento ma di una cosa era certo: sarebbe andato avanti per ore se gli fosse stata concessa quella possibilità. La camicia da notte era scesa sulla spalla sinistra della ragazza, ripiegandosi in morbidi drappeggi lungo il tricipite. Nella stanza la quiete regnava sovrana, interrotta sporadicamente dal grido di qualche uccellino che, in un frullo d'ali, sfrecciava di fronte al vetro.

Un pettirosso atterrò sul davanzale della finestra, mettendo in mostra gli sgargianti colori delle proprie piume. Zampettando a destra e sinistra per mantenere l'equilibrio, i suoi occhietti neri scrutarono affamati l'interno della camera, alla ricerca di qualcosa da mangiare.
Non passò molto tempo prima che la creatura s'accorgesse dei piatti lasciati dai due ragazzi ai piedi del letto. Una generosa spolverata di briciole contornava i bordi scanalati di entrambe le stoviglie, dove qualche ora prima era stata sistemata una grossa fetta di pane bianco.

L'uccellino spalancò le ali, determinato a raggiungere quel granuloso paradiso ma, non appena tentò d'entrare, il capo cozzò contro la barriera di vetro.

Il pettirosso provò ancora una volta, ottenendo il medesimo risultato. A quel punto il volatile accettò la sconfitta, intontito dai colpi e forse intimorito dalla forza invisibile che gli aveva impedito di raggiungere la meta. Len aveva osservato tutta la scena e ridacchiando, alzò un dito per coinvolgere la compagna. Quel piccolo intermezzo gli permise di sfuggire per qualche minuto ancora alla domanda che gli era stata rivolta.

Len poteva quasi vedere il quesito vagare incorporeo nell'aria, infettandola di dubbi e nefaste possibilità. Il solo pensiero di dover rispondere lo spaventava.

Per la prima volta, dopo anni ed anni di servizio ai vertici del potere, Len era all'oscuro di ciò che stava avvenendo nei meandri del castello. Un pilastro della loro organizzazione era improvvisamente venuto a mancare ed ora, cinquanta paia di mani, si stavano accalcando per accaparrarsi un brandello di quella spropositata eredità. Essendo stato uno dei favoriti del vecchio, Len si era inevitabilmente creato uno smisurato numero di nemici.

Ora, ciascuno di loro lo voleva morto.

Le notizie a sua disposizione erano insufficienti e, basandosi solo su di esse, non sarebbe mai riuscito a cogliere la vera macchinosità della situazione.

Len serrò la mascella quando un un pungolo d'impotenza gli pizzicò le viscere.

I suoi aguzzini avevano astutamente approfittato della situazione. Difatti, confinandolo in quell'enorme camera da letto, nessuna voce avrebbe potuto raggiungerlo.

L'unica speranza rimastagli era Louis. L'ufficiale aveva un disperato bisogno del suo ingegno, perciò pregò che il lavoro d'ufficio non gli avesse ammuffito il cervello.

Non appena il pettirosso se ne andò, si vide costretto ad ammettere la propria ignoranza.

«Non lo so.»

La voce uscì dalle sue labbra sotto forma di un preoccupato sospiro.

Rin, percependo quella nota stridente, si sottrasse alle carezze ed appuntò il proprio sguardo sul suo viso.

«Siamo in pericolo?»

La ballerina era stata più brava di lui a modulare le emozioni ed ora, l'ufficiale non sapeva come interpretare quella frase, apparentemente così tranquilla.

Muovendosi come un grizzly su un tappeto di cristalli, articolò con cautela la risposta.

Non sapendo cosa aspettarsi dalle segrete complotti dei suoi avversari, l'uomo non si sbilanciò.

La vicenda si sarebbe potuta concludere con un semplice “vissero felici e contenti”, come nelle favole. Il futuro avrebbe potuto riservagli una mera espulsione dalle file dell'esercito; avrebbero potuto disonorarlo, privandolo dei titoli e delle ricchezze. Eppure, celata nelle tenebre, si nascondeva una probabilità agghiacciante, impregnata di sangue e terrore.

«Non lo so, tesoro.» L'uomo accarezzò il viso della ballerina, catturandole il mento tra l'indice ed il pollice. Con fare possessivo l'attirò a sé, stampandole un bacio sulle labbra.

«Però so per certo che nessuno riuscirà a sfiorarti, neanche con con un dito.» un briciolo di malizia luccicò nel suo cristallino, facendo venire la pelle d'oca alla danzatrice, seduta davanti a lui.

Le coperte si erano ammucchiate attorno ai suoi polpacci nudi, mettendo in risalto la candida sfumatura della sua pelle.

Len si stava sforzando di non divorarla con gli occhi ma era pur sempre un uomo.

Concentrandosi, sarebbe riuscito ad avvertire lo sfrigolare del suo autocontrollo, divorato dal fuoco del desiderio.

«Che c'è?» la ballerina inclinò il capo contro la spalla, illuminandolo con un sorriso.

«Cambiati quella camicetta, te ne prego.»

La ballerina sgranò gli occhi, stupita da quella subitanea richiesta e, arricciandone un lembo tra le dita, attese spiegazioni.

Len sbuffò, rubandole dalla mano quel minuscolo triangolo di tessuto.

«Possiedo una tenace la resistenza, ma non sono d'acciaio.»

Comprendendo finalmente ciò che voleva dirle, Rin venne invasa da una veemente ondata di pudore. La ragazza gettò le coperte in faccia a quello screanzato per poi marciare in direzione dell'armadio con le gote rosse come due fragole.

L'ufficiale le ridacchiò alle spalle, donandole qualche veloce indicazione sull'ubicazione dei vestiti di cui doveva sbarazzarsi.

La cosa più piccola che riuscì a trovare fu una tunica nera di almeno due taglie più grande. Per la parte inferiore, dovette accontentarsi di un paio di pantaloni tanto lunghi da farla sembrare uno gnomo.

«Sei contento adesso?» la giovane uscì dall'ansa riparatrice dell'armadio appoggiandosi le mani sui fianchi, strizzati in una cintura che aveva per fortuna trovato tra le ordinate pile delle casacche.

Len aveva cominciato a tremare, sforzandosi di non scoppiarle a ridere in faccia.

Ovviamente, come l'orlo dei pantaloni, anche le maniche erano troppo lunghe e pendevano flosce oltre i polsi, trasformando le sue braccia in canne grottesche.

«Sua signoria ha finito di prendersi gioco della sua ospite?» borbottò a denti stretti, picchiettando la punta del piede contro il pavimento. Len spalancò le braccia, cercando di reprimere quel delizioso sfogo di allegria che gli ribolliva in gola.

Adorava quella piccola ed insolente ragazzina.

Lei, con la sua semplicità, era riuscita a dissotterrare la sua parte più colorata ed effervescente; quella che aveva da tempo immemore dimenticato. La sua solarità lo aveva resuscitato.

Ora, il suo unico desiderio era quello di continuare a vivere al fianco della ragazza, beandosi della luce positiva da lei emanata.

Era forse chiedere troppo? Il destino gli avrebbe ben presto servito la risposta su un piatto d'argento, bordandola con un delizioso contorno di fiori o con un macabra pozza di sangue.

«Vieni qui. Desidero farmi perdonare.»

La ballerina avanzò d'un paio di passi e sollevando da terra l'orlatura dei pantaloni, ondeggiò i fianchi stretti con fare sensuale.

«Io non voglio le tue scuse, damerino da strapazzo.» ghignò, sollevando di scatto il mento con fare signorile. Fingendo d'aver indosso una gonna, la ragazza ruotò su sé stessa facendo ondeggiare il tessuto della tunica che, simile ad una vela, si gonfiò.

«Cosa desideri, mia capricciosa metà?» Len arricciò le labbra in un sorriso al sapore di presunzione. La ballerina avrebbe potuto esprimere qualsiasi tipologia di desiderio e lui sarebbe riuscito ad accontentarla, solo battendo le ciglia.

«Qualsiasi cosa?»

«Chiedi e ti sarà dato.»

Rin si fece improvvisamente seria e, saltando sul letto, si accostò al giovane.

Tese la mano destra, lasciandola sospesa tra loro, come una specie di ponte.

«Voglio una tua promessa, Len.»

Il ragazzo inarcò le sopracciglia, indubbiamente sorpreso dalla richiesta ma, malgrado ciò, annuì.

«Dovrai portarmi a vedere il mare.»

Il visino della giovane era cristallizzato in un'espressione di assoluta gravità.

Len sbatté tre o quattro volte le palpebre, certo di non aver capito bene.

«Vuoi dirmi che non hai mai visto il mare?»

«Mai. Eppure ne ho sentito tanto parlare!» l'entusiasmo brillò nelle iridi della ballerina, facendo risplendere il suo sorriso come un diamante. Senza rendersene conto cominciò a gesticolare, emozionata dall'idea di poter soddisfare uno dei suoi sogni più grandi.

Le dita affusolate ondeggiarono, nel tentativo di catturare il movimento possente delle onde che, rombando, si infrangevano contro gli scogli. Con un gesto del braccio descrisse il volare dei gabbiani, indistinte macchie bianche che dominavano la brezza marina.

«Sarebbe bellissimo poter salire su una nave, avvertire il suo beccheggiare sotto la suola delle scarpe. Non so cosa darei per udire lo schiocco delle vele che tentano di imprigionare il vento..»

La mano del ragazzo afferrò saldamente quella della compagna.

«E sia. Sul mio onore, ti prometto che ti porterò a vedere il mare.»

Le loro dita si intrecciarono e, in quella stretta, non si celava solo l'impegno appena stipulato ma un'intera vita di promesse da mantenere.

«Ti ho già detto che ti amo?» Rin gli gettò le braccia al collo, sfiorando con la punta del proprio naso il collo del giovane. Lui le accarezzò la nuca e, socchiudendo gli occhi, tentò di stamparsi nella mente la setosa morbidezza di quelle pelle.

Qualcosa gli diceva che, ormai, i granuli di sabbia contenuti nella pancia della clessidra stavano per terminare.

Nel silenzio, quasi riusciva ad avvertirne il macabro grattare mentre procedevano verso l'oblio.

In quel momento, un feroce bussare sconquassò il legno dell'uscio.

Un fiotto di paura si riversò nel petto dell'ufficiale che, con fare protettivo, stringe più forte le spalle della compagna. Il martello della realtà calò ancora sulla sottile cupola di cristallo sotto cui i due giovani erano rannicchiati, minacciando di riversare loro addosso una pioggia di schegge.

Rin rimase immobile, serrando tra i polpastrelli le crine bionde del militare.

L'uscio venne scosso da un altro pugno ed una voce graffiante rintoccò, simile ad un'araldica sentenza di morte.

«Aprite!»

«Non c'è bisogno di fare tutto questo baccano. Le ricordo che dietro questa porta c'è un nostro compagno, ed è ferito.» la voce di Louis, per quanto mascolina, risuonò pacata ed infantile.

«Per i cospiratori non deve esserci pietà.»

«Cospiratore?» Rin sussurrò quella parola a fior di labbra, quasi avesse paura di darle concretezza vocale. Il terrore le accapponò la pelle e Len, avvertendo il suo disagio, emise un gutturale e difensivo brontolio.

«Ti proteggerò.»

La porta si spalancò verso l'interno con un colpo secco, svelando le tozze figure di tre uomini in uniforme. Rin si svincolò dall'abbraccio per acquattarsi al fianco del letto, pronta a proteggere il ragazzo. I muscoli guizzarono sotto il superficiale strato di pelle, cozzando contro i nervi, tesi come corde. Louis entrò per primo, raggiungendo i piedi del letto in un simbolico atto di appoggio.

Len squadrò in cagnesco i propri colleghi, arricciando le labbra in un ghigno amaro.

«Allora è così che stanno le cose.»

Un uomo sulla cinquantina si fece avanti, aggiustando una delle tante stelle al valore appese sul petto. Un paio di baffoni color cenere spiccavano sotto la punta arcuata del naso del soldato che con fare indifferente, ne arricciò la punta tra i polpastrelli.

«Se fossi in te, rimarrei in silenzio, ufficiale.»

«Modera i termini, ragazzino. Se sei in questo letto è solo merito della pietà del sottotenente.» un ometto tozzo dal collo taurino avanzò, zoppicando appena.

Un paio di occhi porcini si appuntarono sul viso tumefatto del condottiero, graffiandolo.

«Se fosse stato per me, ora saresti appeso per il collo alle mura di cinta!»

«Non ne avevo dubbi, Shurke.» Len sputò quelle parole senza spogliarsi del suo sorrisetto irriverente. Malgrado fosse spaventato per la ballerina, il ribrezzo che quel verme gli suscitava era superiore a qualsiasi cosa.

«Sembrate due poppanti. Smettetela e comportatevi da adulti, per una volta.» il terzo soldato borbottò, incrociando le braccia sul petto.

Rin non aveva mai visto in vita sua un uomo più brutto; il suo aspetto era davvero orripilante.

La testa del militare assomigliava ad una palla di cannone appena lucidata. Il naso, grosso quanto una patata, era sfigurato da una bitorzoluta cicatrice che partiva dalla parte esterna dell'occhio sinistro e terminava appena fuori la narice destra.

«Credo sia doveroso spiegare al nostro collega il perché della vostra piacevole visita.» ringhiò Louis, serrando i pugni lungo i fianchi. A giudicare dalla tensione del suo collo, Len comprese che quella volta non sarebbe stato semplice sorpassare il problema stagliato all'orizzonte.

«Ufficiale, dopo un attento studio delle prove pervenute, sei stato accusato di cospirazione. Sul tuo capo pende l'accusa di aver contribuito all'assassinio del nostro onorato comandante.»

Un silenzio tombale calò nella stanza, fagocitando le ultime vibrazioni prodotte dalla voce del militare. Un cubetto di ghiaccio percorse il profilo della spina dorsale della ragazza che, senza produrre il benché minimo suono, si voltò verso il proprio compagno.

L'espressione di Len era imperturbabile. L'arco delle sopracciglia era disteso, le labbra appena contratte in una smorfia di oltraggio.

«Come osate dire una cosa del genere? Voi che non eravate neanche lì il giorno dell'imboscata?»

Shurke prese nuovamente la parola, mettendo così a tacere il portavoce del drappello.

«Abbiamo dei testimoni.»

«Ma non fatemi ridere! Io so perfettamente chi è il vostro “testimone”.» Len scosse la testa, disgustato dalla falsità delle accuse che gli stavano attribuendo.

Se desideravano rendere credibile l'imputazione, avrebbero perlomeno potuto costruire più attentamente le fila della loro menzogna.

«Non credevo foste così stupidi. Come potete dare ascolto alle parole di colui che ha architettato l'imboscata ed ucciso di propria mano il generale?»

Louis, evidentemente d'accordo con il collega, tossicchiò per mettere in risalto l'assurdità della scena. I due uomini rimasero indifferenti alla frecciatina; Shurke invece, assunse il medesimo colorito di un pomodoro.

Le sue guance sembravano sul punto di esplodere, tanto erano tese e gonfie.

«Come osi..?»

«Non sta a te giudicare l'operato del Consiglio, ufficiale. Verrai processato per cospirazione.»

A quel punto, le iridi del militare si appuntarono sulla ballerina che, prima, aveva sgarbatamente ignorato.

«Inoltre, ritengo opportuno allontanare questa.. signorina.. dai confini del nostro palazzo.»

«Vorrai dire “sgualdrinella”..» Shurke si mise a ridere e, aspirando rumorosamente dal naso, produsse una serie grugniti molto simili a quelli di un grasso maiale.

Prima che potesse aggiungere qualcosa alla frase, un cuscino gli piombò sulla faccia e la federa che l'avvolgeva gli entrò in bocca, impregnandosi di saliva.

«Ringrazia il cielo che io non possa alzarmi da questo letto, Shurke. Altrimenti ti avrei già strappato via quella maledetta linguaccia.»

La voce di Len tagliò l'aria con la stessa facilità di un coltello da macellaio.

L'ometto, incrociando il suo sguardo, esitò un istante, spaventato dalla freddezza emanata dal ragazzo. Atteggiarsi non aveva mai costituito un problema per quel viscido servitore ma posto di fronte alla nuda potenza dell'avversario, la sua arroganza venne a mancare.

«Possibile che tu non riesca mai a tenere la bocca chiusa, Shurke?» lo rimproverò il pelato, facendo un passo avanti per spingerlo indietro e porre così fine alle sue intromissioni.

Louis rivolse un'occhiata di scuse alla danzatrice prima di tornare ad affrontare i tre militari.

«Adesso che avete portato a termine la vostra misera scenetta, direi che potremmo lasciare in pace l'ufficiale.» Il veterano serrò la mascella e guardò l'amico con un misto di dispiacere e rabbiosa impotenza. Louis si era battuto strenuamente per confermare l'innocenza dell'amico ma era riuscito a combinare ben poco. La lista dei nemici dell'ufficiale era infinita e tutti avevano abilmente riconosciuto nell'imboscata la possibilità di sradicarlo dalla sua privilegiata posizione.

«Di modo che possa affrontare in modo dignitoso il processo.»

«Certo.» con un cenno del capo, il portavoce si congedò ed abbandonò la sala. Louis seguì a testa bassa i soldati, soffermandosi per qualche lunghissimo istante sullo stipite della porta spalancata. Le sue unghie si conficcarono nel legno.

«Mi dispiace, amico mio.»

«Non dirlo neanche per scherzo.»

Le spalle possenti del soldato crollarono, vinte dal peso della sconfitta.

«Rimarrò al tuo fianco fino alla fine, comunque vada..»

«Ti ringrazio.»

«Per qualsiasi cosa, non esitare a farmi chiamare.» gli intelligenti occhi dell'uomo sfiorarono per un mero secondo il viso di Rin. L'ufficiale comprese istantaneamente ciò che l'amico voleva riferirgli ed i suoi occhi si velarono di lacrime.

Una minuscola crepa si aprì nel suo cuore, spingendolo sull'orlo di un pianto dirompente.

Non credeva d'aver mai provato una tristezza più grande in vita sua.

«Grazie, amico.»

Louis si chiuse la porta alle spalle, abbandonando i due giovani sotto l'incudine del silenzio.

L'ufficiale respirò, raccogliendo tutto il coraggio rimastogli per pronunciare quelle fatali parole che gli avrebbero annientato il cuore.

«Rin, amore mio..»

La ragazza ruotò piano il capo, asciugando con il dorso della mano il nastro perlaceo di una lacrima, soffermatasi sul suo zigomo.

Aveva capito tutto.

Le spine del suo amore lacerarono l'animo dell'ufficiale, mozzandogli il respiro.

L'estate era finita ed i rigori dell'autunno stavano indebolendo i petali della povera rosa, venandoli di un malsano colorito giallastro.

I ragazzi si guardarono per qualche minuto, lasciando che il silenzio sostituisse ogni discorso, inutile di fronte a quell'inferno di sofferenza.

Len chiuse gli occhi, costringendosi a dar voce a quelle parole che gli gravavano sulle labbra.

«È giunto il momento di dirsi addio.»

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Capitolo 12
*** «Addio.» ***


Chapter XII 

La notte era silenziosa.

Len puntò lo sguardo fuori dalla finestra, osservando il cielo color catrame che inglobava le stelle ed una misera falce di luna. La sua fievole luce illuminava la cresta degli alberi sottostanti, spruzzando di argento la punta delle loro foglie. L'ufficiale non credeva d'aver mai ammirato uno spettacolo più malinconico in vita sua. Una civetta si appollaiò su un ramo ritorto, sbattendo le candide ali pennute. Il becco era sporco di sangue in prossimità della punta, monito del pasto appena consumato. Rin sedeva in silenzio accanto a lui, le mani strette in grembo con forza spasmodica. L'esile figura era avvolta da una mantello color ossidiana; il cappuccio bordato di pelliccia le ricadeva sulle spalle in una serie di morbide pieghe. Non si parlavano da qualche buona manciata di minuti ed i loro corpi sembravano impauriti dall'idea di toccarsi.
Entrambi tacitamente condividevano l'idea che se le loro mani si fossero intrecciate, nessuno avrebbe più potuto dividerle.

Nella penombra, Len studiò il profilo della compagna, tracciando con gli occhi il delicato profilo del mento, la morbida curva del mento e delle labbra.

Il suo cuore palpitò un po' più forte, colpendo dolorosamente la gabbia toracica. L'uomo si passò una mano sul viso desiderando di poter cancellare con un solo colpo di spugna quell'atroce sofferenza. Persino respirare era diventato un tormento.

Rin si morse le labbra, avvertendo il crepitio delle emozioni che attraversavano il petto dell'uomo al suo fianco. Poteva capire come si sentisse perché, come lui, non credeva d'aver mai provato un malessere più travolgente in vita sua. Aveva come l'impressione che una mano si stesse facendo largo nel suo petto, spaccandole le ossa con l'intenzione di arrivare al cuore e stritolarlo.

«Non voglio andarmene.»

«Neanche io voglio che tu te ne vada.» Len pronunciò quelle parole d'un fiato, dando libero sfogo alla sua tempesta interiore.

«Eppure è necessario. Il mio egoistico desiderio non può minare la tua sicurezza.»
La ballerina sapeva benissimo che aveva ragione. In quel covo di serpenti non sarebbe mai stata al sicuro ma, malgrado ciò, non riusciva a smettere di domandarsi che senso avesse salvarsi senza di lui.

«Quello che stiamo facendo ha davvero un senso?»

«Voglio credere che sia così. Rin,» la sua voce si soffermò involontariamente su quel nome che, mai, si sarebbe stancato di pronunciare.

«Dobbiamo crederci entrambi, lo capisci questo?»

«Lo comprendo. Ma ciò non vuol dire che io l'accetti.»

Lei distolse lo sguardo per sfuggire a quelle iridi color mare e, benché sapesse che le sarebbero mancate come il respiro, non riusciva più a sopportarne il peso.

Il ragazzo non seppe cosa rispondere ma, in compenso, allungò una mano per sfiorarla con una tenerezza straordinaria.

Rin catturò le sue dita, portandosele alla guancia. «Promettimi almeno una cosa..»

«Tutto quello che vuoi, tesoro mio.»

«Se tutto ciò avrà fine, mi cercherai?» il tono della sua voce calò bruscamente, mettendo in evidenza la paura di perdere l'unica stella che le aveva illuminato l'esistenza.

«Nessun fiume, montagna o divinità sarà in grado di trattenermi,» Len avvolse le guance della ragazza nei propri palmi, baciandole la punta del naso.

«Io ti troverò.»

«Ti aspetterò. Per tutta la vita, se necessario.» la ballerina chiuse gli occhi ed una lacrima si staccò dalle sue ciglia, scivolando sui polpastrelli del ragazzo.

In quel momento, i dodici rintocchi della mezzanotte scossero il silenzio dell'edificio, facendo tremare i due ragazzi.

Era giunto il momento.

Len, vinto dalla disperazione, premette le labbra contro quelle della ballerina.

Il loro ultimo bacio ebbe il sapore delle lacrime.

Un solo colpo alla porta richiamò l'attenzione dell'ufficiale a comunicargli che Louis stava attendendo la sua compagna per portarla via, lontano dalla spada di Damocle che oscillava sopra la sua testa.

«È ora che tu vada.»

Rin annuì, asciugando orgogliosamente le lacrime che le incidevano le gote. Con un movimento del braccio si tirò su il cappuccio, nascondendo così il profilo del viso.

«Addio, ufficiale.»

«Questo non è un addio, Rin.»

La ragazza si sollevò in piedi, facendo appena ondeggiare il morbido materasso del baldacchino. Le sue spalle erano curvate in avanti, emblema del suo funereo stato d'animo.

«Fino al giorno in cui il destino non deciderà di riunirci, lo sarà.»

Le speranze erano armi a doppio taglio; se si stringevano con eccessiva veemenza, si rischiava di rimanere feriti.

Len annuì e con un ultimo bacio, sfiorò il dorso della sua mano con fare cavalleresco.

«Fino a quel giorno, addio, luce dei miei occhi.»

«Ti amo, Len.» la ragazza ricacciò indietro le lacrime e si incamminò verso la porta senza più voltarsi. Ad ogni passo, lo strappo nel suo cuore si allargava, permettendo al dolore di sgorgare liberamente.

Louis la stava aspettando e, vestito di nero, le fece un cenno di saluto con il capo.

«Ti amerò per sempre, Rin.»

Quelle furono le ultime, sussurrate parole che la ballerina ebbe modo di sentire prima che l'uscio si chiudesse alle sue spalle. In quell'istante il suo cuore si infranse, scaraventando una manciata di pezzi taglienti contro il suo stomaco.

Il sangue sgorgò copioso; la sua anima divenne arida come la sabbia del deserto.

Un dolore inimmaginabile si diffuse in ogni sua cellula, bruciandole le vene, il fiato e la sua stessa linfa. Avrebbe fatto di tutto per bloccare quell'infernale sofferenza, persino squarciarsi il torace e strapparsi dal petto quel cuore lacerato e sanguinante.

«Sei pronta?» la voce di Louis era appena un sussurro ma fu abbastanza forte da rimbalzare contro le pareti dell'edificio e graffiarle le orecchie.

Rin fece un cenno affermativo con il capo e si strinse addosso le falde del mantello, inspirandone il profumo. Tra le sue pieghe si nascondeva l'ultima, fievole traccia dell'uomo che avrebbe amato per tutta la vita, senza riserve.

La sua gola era tanto gonfia da darle l'idea che non sarebbe mai più riuscita a parlare.

«Allora andiamo.» il condottiero sollevò la mano, tendendo le dita per trascinarla lontano da quel luogo. Le sue gambe sembravano essersi tramutate in pezzi di piombo, immersi per metà in una densa melma fangosa. Nel rendersi conto della difficoltà della ragazza, fu Louis ad avvicinarsi e a circondarle le spalle con un braccio.

Il percorso fu breve e con il veterano al fianco il buio non rappresentò un problema. Come un attento cane addestrato al mestiere la guidò per i tortuosi cunicoli del maniero, insinuandosi nei canali utilizzati dalla servitù per sfuggire ad eventuali controlli.

Rin non disse una sola parola e lo stesso fece il soldato, i cui nervi erano tesi come corde d'un arco pronto a scoccare.

Non avrebbe permesso a nessuno di sfiorare quella ragazzina con un dito, anche a costo di morire.

Quello era il minimo che poteva fare per il suo amico dopo che aveva fallito in modo così eclatante nel proteggerlo di fronte alla furia del Consiglio Provvisorio.

La mente della ragazza era altrove, persa in un'aggrovigliata massa di ricordi e speranze da cui non sarebbe mai voluta uscire. Passato e futuro si confusero, proiettando nella sua mente una confusa serie di diapositive che spaziavano dal loro primo incontro sino al futuro matrimonio.

Rin immaginò i loro bambini che correvano a piedi nudi su una distesa di sabbia dorata; la stessa spiaggia che lui le aveva tempo prima mostrato per mantenere la sua promessa.

Un refolo d'aria umida le colpì il viso, spazzando via quegli infantili pensieri.

«Siamo arrivati.»

L'odore dell'erba le raggiunse improvvisamente le narici, tanto intenso da farla sobbalzare.

Erano già fuori? Quanto tempo avevano camminato?

La ballerina alzò il capo verso il cielo, notando un agglomerato di pesanti nuvole temporalesche.

La natura era immobile, intrappolata in quell'atmosfera tanto umida da poter essere incisa con un pugnale. Un bellissimo stallone dal pelo color cioccolata attendeva pazientemente al fianco d'un grosso salice, brucando l'erbetta attorno al tronco. Le briglie, legate ad un ramo più basso degli altri, erano già sistemate alla perfezione, esattamente come la sella e i restanti finimenti.

«È uno dei purosangue migliori che abbiamo. Veloce, resistente ed abituato a viaggiare di notte.»
Louis la lasciò andare per accostarsi allo stallone che, nell'accorgersi della sua presenza, nitrì ed ondeggiò la coda. L'uomo appoggiò una mano sul suo muso, facendo scorrere tra le dita la corta e setosa peluria. «Ciao, piccolo.» sussurrò, appoggiando la fronte contro quella della bestia.

Con evidente dispiacere, il condottiero sciolse le briglie dal ramo e le consegnò alla ragazza, immobile in mezzo all'erba.

«Te lo affido. Trattalo bene, te ne prego.» disse Louis, aprendole il palmo per depositarvi i finimenti di cuoio.

La ballerina li guardò con la morte nel cuore.

Le sue dita, senza che se ne rendesse conto, sfiorarono il possente fianco del cavallo che si gonfiava cadenzatamente, seguendo il suo umido respiro. In un'altra occasione sarebbe rimasta stregata dalla bellezza di quell'animale a cui non era mai riuscita ad avvicinarsi.

I cavalli erano per i ricchi; gli straccioni potevano esclusivamente ammirarli da lontano.

«Rin.»

Louis richiamò l'attenzione della ballerina, persa nel suo mondo di viscosa sofferenza spirituale. Cercando di risultare il più delicato possibile, le appoggiò una mano sulla spalla per riportarla nel mondo concreto.

«Devi reagire.»

«Non dirmi cosa fare, Louis. Non hai idea di cosa io stia provando.» gli sputò addosso, forse più acidamente di quanto avrebbe voluto.

«Mi trovo costretto a contraddirti. So benissimo cosa significa perdere chi più si ama.»

La voce dell'uomo si incrinò appena ma, schiarendosi la gola, tentò di nascondere al meglio quella sua debolezza.

«Tu non hai ancora perso, Rin. La tua sfida con il destino è aperta, i dadi sono proprio nella tua mano e sta a te scegliere come concludere la partita.»

A quel punto, l'uomo la lasciò andare e fece un passo indietro, calcandosi sulla fronte il cappuccio del mantello.

«Non lasciarti spaventare dall'accidentato percorso che ti si profila di fronte. Gioca e vincerai.»

Rin serrò il pugno e credette d'avvertire nel palmo gli spigolosi contorni di un dado.

Il soldato aveva ragione. Come poteva essersi abbandonata così facilmente al richiamo della disperazione? Ne aveva passate così tante in vita sua d'aver ormai perso il conto delle cicatrici che le incidevano la schiena.

Lei era forte; la sua determinazione era avvolta da un impenetrabile strato di ferro. Il seme della speranza gettò timidamente le proprie radici nell'abisso di disperazione che imprigionava il suo animo. Una lacrima scivolò incontrollata lungo il suo zigomo, fermandosi solo in corrispondenza del mento. Louis, in quella minuscola goccia, lesse ciò che le parole mai sarebbero riuscite efficacemente ad esprimere.

In quella singola stilla d'acqua, si concentravano i sentimenti più puri del cuore della ragazza.

Il condottiero chinò il capo, portandosi rispettosamente una mano al cuore.

«Che il destino ti assista, Rin.»

«Ci rivedremo?»

Louis scosse la testa, arricciando le labbra in un amaro sorriso.

«Temo che il nostro sia un addio, mia cara.»

La ballerina chinò il capo contro il petto, asciugandosi fieramente il viso con la bordatura di pelliccia. La sua mano si serrò saldamente sulle briglie di cuoio.

«Grazie di tutto, Louis. Non dimenticherò mai ciò che hai fatto per me e Len.»

«Voi due meritate d'essere felici.»

Con un leggero balzo, la ragazza montò a cavallo. Lo stallone nitrì piano, facendo un mezzo passo avanti, quasi a comunicarle il suo impellente desiderio di partire e lasciarsi inghiottire dalle ombre, sempre più fitte. Rin strinse le ginocchia attorno ai fianchi della bestia, avvertendo il palpitare poderoso del suo cuore, avvolto nella gabbia toracica.

Malgrado non si sentisse affatto sicura sulla groppa di quell'animale, qualcosa le diceva che avrebbe presto capito come assecondare la sua corsa.

«Addio, Louis. Che la tua vita possa splendere di nuovi successi e felicità.»

«Abbi cura di te, ragazza.» L'uomo sollevò una mano e, a quel punto, la giovane affondò i talloni nei fianchi del destriero che, scalpitando, si lanciò al galoppo. La ragazza, impaurita da quella subitanea reazione, si aggrappò alle redini e alla setosa criniera dell'animale.

Prima che potesse rendersene conto, la figura di Louis si fece piccola come una formica tra l'intricato labirinto di alberi che le sfrecciavano al fianco.

Nel giro di qualche minuto, persino le fioche luci prodotte dalle torce conficcate al limitare del maniero scomparvero, divorate dalle tenebre.

Rin si ritrovò sola, in una notte che non era mai stata più silenziosa.

Il solo, cadenzato rumore che infrangeva la quiete era il respiro del cavallo ed il suo, accelerato dalla paura di sfracellarsi al suolo.

Il vento le mugghiava in faccia, arrossandole le guance ed aggrovigliandole i capelli corti.

Non sapeva dove stesse andando.

Non sapeva dove sarebbe arrivata cavalcando alla cieca in quel bosco di cui non conosceva il nome.

Un sorriso fiducioso le incurvò le labbra e, contrastando tutti i negativi sentimenti che le avvelenavano il fegato, cominciò ad immaginarsi un futuro felice.

Nella luce avvolgente prodotta dalla luna, la risata dell'ufficiale echeggiò nei suoi pensieri, riscaldandola. I contorni di una piccola casetta in riva al mare si affiancarono ai lineamenti paffuti di un bambino in fasce che le assomigliava.

L'immaginazione la stregò con il proprio canto allontanando le spine della realtà.

Il ritmico tonfo prodotto dalle zampe del cavallo l'accompagnò in quella fuga sfrenata.

Lui tornerà da me.

Con quella promessa incastonata tra le labbra, Rin cavalcò verso dell'orizzonte; verso il proprio futuro. 

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Capitolo 13
*** Epilogo. ***


Epilogo.

Il sole si svegliò dal suo torpore, stiracchiandosi dietro le rotondeggianti colline situate sullo sfondo. La natura era rigogliosa, gli alberi punteggiavano le distese color smeraldo, stagliandosi verso il terso cielo estivo.

Nella pace del mattino, una donna si rigirò nel tiepido involucro del proprio letto, sfiorando con la punta del naso la federa del cuscino. Di fronte alla branda, incassata nella parete di legno, una finestrella rotonda permise ai primi raggi solari di penetrare nella stanza. Questi colpirono la testiera del letto, intiepidendo i piedi della fanciulla, nudi sotto le lenzuola.

La giovane si coprì gli occhi con l'avambraccio, inveendo a denti stretti contro quella notte decisamente troppo breve.

Con uno sbadiglio, inarcò la schiena contro il materasso riempito di fieno. Le palpebre sembravano pesare come sassi; se solo avesse potuto, si sarebbe volentieri rimessa a dormire. Disgraziatamente, la giornata era ormai cominciata ed il sole non le avrebbe concesso un solo minuto in più di penombra.

«Rin.. Sei sveglia?!» una voce bambinesca crivellò il silenzio, ridestandola in maniera definitiva da quello stato di semi-incoscienza. Prima che potesse anche solo pensare di rispondere, un minuscolo uragano di capelli scuri si precipitò nella stanza e le si gettò addosso a capofitto.

«La colazione è pronta. Mamma mi ha ordinato di venirti a chiamare.» un sorriso sdentato la illuminò, inoculandole nel corpo una dose di allegria. Rin le appoggiò una mano sulla fronte e, con tenerezza, scostò le crine indomabili per sistemargliele dietro l'orecchio.

«Non c'era bisogno che venissi a svegliarmi.»

«Invece sì!» rise, buttandole le braccia al collo prima di scoccarle un bacio umido e bavoso sulla guancia. Nell'entrare, la ragazzina aveva lasciato la porta spalancata e, così facendo, aveva portato con sé l'inconfondibile aroma del pane fresco.

Il suo stomaco si ridestò, gorgogliando con un'intensità imbarazzante. La bambina le diede una pacca amichevole sulla pancia, quasi si aspettasse di ricevere una risposta e poi scivolò giù dalla branda per correre ad aiutare sua madre.

Rin si scostò le coperte dalle gambe, appoggiando la pianta dei piedi contro il pavimento di legno grezzo, freddo quando la pietra.

Una scarica di brividi si arrampicò su per i suoi polpacci, percorrendo ogni capillare e cellula che si muoveva sotto il superficiale strato di pelle.
Rin reclinò indietro il capo; i folti ricci si riversarono come una cascata di sabbia lungo la sua schiena, solleticandole la pelle nuda.

Fuori dalle protettive mura domestiche, il canto della natura si faceva esponenzialmente più intenso con il graduale risvegliarsi del sole.

L'abbaiare festoso del cane di famiglia si fuse al ragliare cocciuto dell'asino, imprigionato nella sua claustrofobica stalla.

La ragazza si vestì in fretta per raggiungere la famiglia nell'umile locale adiacente. Una donna dalla corporatura formosa stava sistemando le posate sul piano del tavolo, controllando che fosse tutto presente per l'abituale colazione.

Rin, con un solo sguardo, abbracciò la stanza, sorridendo al cospetto di quei semplici pezzi di mobilio che rendevano la casa squisitamente accogliente.

La ballerina aveva cominciato a gradire lo sbozzato tavolo rettangolare le cui irregolarità erano terribilmente evidenti.

Adorava il suono scoppiettante delle lingue di fuoco nel camino, costituito da spessi mattoni rosi dal fumo. Amava il sapore che il cibo acquisiva una volta cotto a diretto contatto con la fiamma.

«Ci hai messo di tempo per svegliarti, ragazza mia! Pensavo non avessi fame.»

«Mi dispiace aver fatto tardi, Petra.» la giovane corse a sedersi al solito posto, scrutando con appetito la composta di frutta che la cuoca aveva preparato il giorno prima.

«Figurati, tesorino.» Con un goffo movimento, la signora si sedette e, in risposta, la panca di legno scricchiolò quasi per lamentarsi del peso eccessivo con cui era stato caricata.

«Dov'è Paul? Non mangia con noi?»

La ragazzina, al suo fianco, afferrò con la punta delle dita una spessa fetta di pane per poi spalmarvi sopra una generosa dose di confettura.

Petra scosse la testa e con un gesto distratto della mano si portò alle labbra un'infusione di fiori di campo. «Questa mattina la battuta di caccia è patita prima del solito.»

Il pasto si consumò velocemente e le tre donne si spartirono equamente i compiti da assolvere. «Non è giusto che tocchi sempre a Rin andare al mercato!» la bambina si mise a strillare, incrociando le braccia sul petto, incurvando le labbra in un broncio capriccioso.

Petra, che nel frattempo si era dedicata al lavaggio delle stoviglie, asciugò le mani sul grembiule e catturò la figlia in un abbraccio soffice e protettivo.

«Quando diventerai grande, ranocchietta, ti permetterò di andare al mercato.»

«Ma io sono già grande!!»

La ballerina osservò di nascosto la scena, provando un indefinito senso di dolcezza e sconforto alla bocca dello stomaco.

Lei non avrebbe mai conosciuto quale calore è in grado di garantire la stretta di una madre; in nessun caso sarebbe riuscita a comprendere quale dolcezza si celasse dietro la parola “casa”

«Fai attenzione, ragazza mia.» Petra le si avvicinò trascinandosi appresso la bambina, tranquillizzatasi grazie ad una promessa che probabilmente le era stata sussurrata all'orecchio. Rin annuì, aggiustandosi sulle spalle il cesto di vimini in cui avrebbe dovuto disporre gli acquisti.

«Conosco la strada come le mie tasche, Petra.»

«Stai attenta e guardati comunque le spalle.» la donna le depositò in mano un sacchetto di cuoio, contenente la precisa somma di denaro che quel giorno avrebbe dovuto spendere. La ragazza strinse tra le dita lo spesso materiale, avvertendo i rotondeggianti contorni delle monete che vi erano nascoste. Qualche anno prima, il suo cuore avrebbe cominciato a battere impetuosamente alla vista di quel gruzzolo di rame e argento rosso.

«Sarò di ritorno tra qualche ora.»
Con un sorriso, la ragazza abbandonò la casa e si mise in cammino.

 

Settimanalmente, nel paese vicino si svolgeva un mercato in cui Petra la mandava a far qualche magra compera. Rin raggiunse la cima di una collina, ammirando dall'alto l'agglomerato urbano, situato ad appena un chilometro di distanza.

La ragazza inspirò a pieni polmoni l'aria frizzante del mattino, beandosi del diffuso solletico causato dalla salsedine. Alle spalle del paese, maestoso ed interminabile, si stagliava l'oceano.

Tutte le volte che la ballerina aveva attraversato quel crinale, non aveva potuto far a meno di soffermarsi a contemplare quella sconfinata distesa di acqua salata.

In lontananza, il richiamo dei gabbiani si confondeva con il rombo prodotto dalle onde che, cadenzatamente, si infrangevano sul bagnasciuga.

Ricordava come se fosse ieri la prima volta che si era ritrovata di fronte a quell'azzurro gigante naturale. Come una bambina, la ragazza si era tolta le scarpe, distrutte dal tanto camminare e si era messa a correre sulla sabbia. Quando quei ruvidi granuli le erano scivolati tra le dita, tiepidi al contatto, si era messa a ridere di cuore. La sensazione che per anni aveva immaginato non si era neanche avvicinata a ciò che stava provando in quel momento.

Poi, dopo aver giocato un po' con le conchiglie, Rin si era voltata in direzione dell'oceano ed era inspiegabilmente scoppiata a piangere.

Scuotendo il capo, la ragazza scacciò la nebbia dei ricordi e ripetette mentalmente ciò che Petra le aveva ordinato di acquistare.

«Barbabietole, porro, carote..barbabietole, porro, carote..» la lista degli ingredienti divenne una sorta di mantra; un incantesimo in grado di esorcizzare i tentacoli del passato.

Non appena varcò i confini del paese, un muro di rumore le rovinò addosso rischiando di stordirla. Il caos regnava sovrano; le bancarelle erano assaltate da centinaia di donne, uomini ed anziani che tentavano di strappare al commerciante un prezzo di favore.

Qualche ladruncolo, approfittando della situazione, faceva scivolare sotto la tunica tutto ciò che era in grado di arraffare: carote, patate, e mele erano i premi più ambiti.

I più coraggiosi cercavano di rubare la merce più costosa come frutta secca e carne, controllate meticolosamente dai negozianti.

Rin si fece coraggio e, respirando a pieni polmoni quel calderone di aromi, si gettò nella mischia. La massa la fagocitò all'istante, privandola dell'autonomia che sino a pochi istanti prima aveva stretto tra le mani. I suoi movimenti vennero condizionati dalle mosse delle altre persone, ammucchiate lungo la strada della cittadina. Spintonando, puntando i piedi e stringendo i denti per sopportare il dolore delle gomitate, la ragazza riuscì ad approdare alla prima bancarella.

La verdura era profumata; le foglie verdissime, simili a pennacchi, campeggiavano sulle loro teste vegetali. Aggrappandosi al bordo del banchetto, la fanciulla si insinuò a forza tra due gigantesche matrone e prescrisse l'ordine all'aiutante del mercante.

Nell'attesa, Rin si guardò attorno, scorgendo alla sua destra un banco pieno di delicatissimi oggetti di vetro e cristallo. Orecchini, collane e braccialetti si alternavano sul piano di legno, coperto da un effimero panno color neve.

Gli agganci dei gioielli erano costituiti da lavorati pezzi d'oro, argento e rame che, colpiti dalla luce del sole, ammiccavano in direzione dei passanti quasi pregandoli di acquistare uno solo dei tanti fratelli della loro numerosa famiglia.

In mezzo a tutti quegli articoli, fu un collier ad attirare l'attenzione della ballerina che, stregata, lo osservò ad occhi sgranati. La catenella era d'argento bianco; a ciascun anellino era stata agganciato un ciondolo a forma di foglia di acanto. La sua forma era perfetta e, per incrementarne la credibilità, punte di tormalina verde erano state inserite al loro interno.

Chiudendo gli occhi, la ragazza riuscì ad immaginare il piacevole peso del monile, agganciato al suo collo. La sua mano si protese ad accarezzare la pelle nuda sopra la bordatura della tunica, trovandola tristemente liscia.

Con un sospiro, Rin precipitò nel mondo reale dove solo i più ricchi avevano il piacere di conoscere quella differente e piacevole tipologia di peso.

«...Sei monete di rame rosso.»

La fanciulla voltò il capo e sbatté le palpebre nel tentativo di afferrare ciò che il garzone le aveva appena detto.

«Fanno sei monete di rame rosso, signorina.» ripeté cordialmente, scuotendo la busta di tela che conteneva ciò che aveva richiesto. Le foglie alte ed arruffate delle carote si mossero, lambendo le mani incrostate di terra del venditore.

Rin arrossì di colpo e farfugliando per scusarsi rovesciò sul palmo il contenuto del borsellino che Petra le aveva prima consegnato.

Cinque monete ruzzolarono tra le sue dita, tintinnando nell'urtarsi. La ragazza le contò un paio di volte prima di accorgersi che non erano sufficienti a pagare la merce.

Il garzone si giustificò dicendo che il prezzo di certe verdure era aumentato sensibilmente per via della siccità che aveva colpito i raccolti.

«Come sarebbe a dire!? Le piogge sono state più che abbondanti quest'anno.»

«Ma non sufficienti a soddisfare la richiesta del raccolto.» Il ragazzo aveva nel frattempo allontanato il braccio dalla compratrice, quasi nel timore che lei potesse afferrare la merce e scappare.

«Questa non può essere che una bugia!»

«Puoi sempre andare da un'altra parte a prendere le tue verdure!» ringhiò lui di rimando, inasprendo il proprio tono per difendersi dalle imputazioni.

«Voglio parlare con..»

«Ecco qui la tua moneta. Ora consegna la spesa alla signorina.» il braccio di uno sconosciuto apparve al fianco del suo capo, stringendo tra l'indice ed il pollice una piatta sfera di rame.

Il garzone scrutò in cagnesco il denaro e la donna, indeciso sul da farsi. Poi, vinto dalla brama di denaro, forzò le labbra in un sorriso di convenienza e le porse la busta come l'uomo gli aveva ordinato. Rin non reagì, rimase immobile come se una folata di vento gelido le avesse immobilizzato gli arti.

Sarebbe riuscita a riconoscere quella voce tra mille.

Quel timbro aveva per anni popolato i suoi pensieri come un'indelebile macchia.

I pensieri si ammassarono contro la diga del suo raziocinio che, con un allarmante crepitio, si disintegrò lasciandola in balia di un torrente di sentimenti contrastanti.

La fanciulla si voltò e cominciò a correre, sgomitando come una belva per farsi spazio tra la folla sempre più densa.

Il sudore le gocciolò lungo la schiena, incollandole la tunica bianca ed i capelli alla pelle. Lacrime salate le inumidirono le gote e singhiozzi silenziosi le scavarono il petto, lì dove un tempo il suo cuore aveva intonato la dolce melodia dell'amore.

Rin si fermò solo quando i suoi piedi scivolarono sulla ghiaiosa strada di campagna che l'avrebbe ricondotta a casa, come ogni giorno.

Alle sue spalle, l'ansimare pesante di un'altra persona confermò il fatto che la sua non era stata una semplice allucinazione.

Rin inspirò, stringendo convulsamente i pugni per dominarsi; poi, ruotò rigidamente su sé stessa e trovò Lui ad attenderla.

Len era proprio lì a qualche metro di distanza, chinato in avanti per contrastare la fatica di quell'improvvisa corsa tra i gremiti vicoli del paesino.

«Rin, per l'amor del cielo, sto diventando troppo vecchio per queste cose.» l'uomo si ricompose, rivolgendo alla donna uno dei suoi deliziosi ghigni arroganti.

«Sei qui

La ballerina non riuscì a dire altro. Il suo cuore, dopo ben due anni di silenzio, sembrava essersi ridestato con un singulto ed ora ogni battito le faceva atrocemente male.

Len era cambiato. Il suo corpo sembrava più asciutto e magro rispetto all'ultima volta che l'aveva visto; sul viso, una brutta cicatrice gli tagliava a metà il sopracciglio, sfiorato dagli arruffati capelli color miele. Ma malgrado ciò, gli occhi che l'avevano fatta innamorare erano sempre lì: malinconici e più profondi di qualsiasi oceano mai esistito.

«Sì. Sono qui solo per te.»

Rin fece qualche indeciso passo avanti, attratta irrimediabilmente da quella figura slanciata che aveva turbato i suoi sogni per centinaia di notti consecutive.

Lui le andò incontro; le sue mani prudevano dal desiderio di sfiorarla. Non appena furono sufficientemente vicini per potersi toccare, una fiamma di rabbia avvampò nel petto della fanciulla che, digrignando i denti, lo colpì in viso con uno schiaffo.

Len quasi crollò a terra per la sorpresa e, coprendosi la guancia colpita, scrutò attonito la compagna. Un tremolio furibondo si era diffuso lungo le membra di Rin, le sue iridi erano tempestate da accecanti bagliori di tuono.

«Sono passati due anni, Len.»

La furia ben presto si sciolse ed i tuoni che offuscavano il suo sguardo si convertirono in una pioggia torrenziale. Tirando su con il naso, la ragazza pianse senza ritegno davanti al suo uomo, conficcandosi le unghie nella pelle della mano.

«Sei solo un idiota! Pensavo tu fossi morto!»

«Lo sono stato, fino ad oggi.» sorrise lui, alzando la spalla e cancellando così il ribelle grumo di una lacrima.

«Non ho più avuto tue notizie.. ho vissuto nei ricordi come solo un fantasma può fare.» Rin singhiozzò, tentando di cancellare il fiume di stupore e felicità che le rigava il viso.

«Ma ora sono qui! Ed è tempo di riprendere in mano il nostro presente..» Len afferrò le mani della ragazza con timore, scavando nei suoi occhi alla ricerca di quell'antico sentimento che gli aveva bruciato l'anima. Possibile che la lontananza avesse cancellato tutto ciò che avevano passato insieme?? Poteva la distanza aver annullato quel rovente e spinoso sentimento che li aveva uniti? Rin alzò il viso, naufragando nelle iridi cristalline di lui.

«Mi ami ancora, Len?»

«Come il primo giorno in cui i ti ho vista danzare sul palco di quella squallida taverna.»

Rin gli si lanciò praticamente addosso, avvolgendogli il collo con le braccia. Le lacrime bagnarono la guancia dell'uomo mentre lui la faceva volteggiare in aria e la baciava, strappandole la ragione. Nel momento in cui le loro labbra si toccarono, un inferno di passione divampò nel loro petto, riscoprendo i petali fiorenti della loro rosa.

Fu come tornare a respirare dopo un lungo periodo di apnea.

«Mi sei mancata così tanto. Ora nessuno potrà più portarmi via da te..»

«Ti amo, Len.» bisbigliò la ragazza, intrecciando le dita della propria mano a quella del giovane. L'ufficiale le carezzò la guancia, soffermandosi su quel delizioso rigonfiamento.

Poi, con dolce lentezza, i ragazzi si voltarono in direzione della strada che si snodava verso l'orizzonte, serpeggiando tra le colline. Passo dopo passo, l'ufficiale e la ballerina cominciarono a parlare di quei due anni di lontananza.

Il rumore della ghiaia ed il grido lontano dei gabbiani accompagnò le loro risa, i loro effervescenti racconti.

Secondo dopo secondo, le ferite si cicatrizzarono e l'alba di un nuovo futuro insieme si profilò all'orizzonte, lì dove rifulgeva la sfera solare.

Il vento cantò per loro, le chiome degli alberi si inchinavano al loro cospetto, frusciando.

Le foglie sembravano essersi trasformate in un rosso tappeto su cui i due si ritrovarono a camminare con solenne lentezza. D'improvviso, un'idea folle ma deliziosa come miele sfrecciò nella mente dell'ufficiale, inumidendo i suoi occhi con lacrime di commozione.

«Rin..?»

«Dimmi, tesoro.»

«Sposami.»

Len si fermò di colpo, inginocchiandosi di fronte alla compagna con un sorriso emozionato incollato sul viso. La ballerina, annichilita dalla sorpresa, socchiuse la bocca senza sapere cosa rispondere.

«Forse non potrò offrirti una vita ricca e sfarzosa ma ti giuro che mi impegnerò per regalarti quella felicità che così tanto ti meriti.»

Rin cominciò nuovamente a piangere, stringendo con forza la mano del suo compagno.

Era davvero realtà ciò che stava vivendo? Oppure era solo un bellissimo sogno da cui, prima o poi, si sarebbe dovuta svegliare?
La realtà era che non voleva saperlo. Ora, tutto ciò che contava era la felicità soffocante che le opprimeva il petto.

«Avremo la nostra libertà. La nostra famiglia. Una vita insieme.»

Rin si inginocchiò a sua volta di fronte all'uomo e, sfiorando le sue labbra con un bacio, annuì.

«Sì, Len. Voglio che sia per sempre

 

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