No sound without silence

di IrethTulcakelume
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** There's an art in breaking hearts ***
Capitolo 2: *** That's how superheroes learn to fly ***
Capitolo 3: *** Walkin' on tightrope ***
Capitolo 4: *** Things I should have done ***
Capitolo 5: *** Life is just a blink ***
Capitolo 6: *** Did you lose what won't return? ***
Capitolo 7: *** I don't need to worry tonight ***
Capitolo 8: *** Sometimes words just ain't enough ***
Capitolo 9: *** Spend every won on your dreams ***



Capitolo 1
*** There's an art in breaking hearts ***


ANGOLO AUTRICE:
Ebbene sì, sono tornata con una long. Ho scritto un paio di cose sugli EXO andate a leggerle altrimenti vi troverò e vi ucciderò perché io sono la giustizia, ma adesso mi cimenterò con i miei amati Bangtan, ovvero il primo gruppo k-pop che ho iniziato a seguire con ferocia inaudita. Detto ciò, alcune precisazioni sulla storia che state per andare a leggere: è vagamente ispirata al cd dei The Script "No sound without silence", un capitolo per ogni canzone. Tuttavia questa storia non è una song-fic, in quanto ho preso solo spunto dalle canzoni, senza usarle in maniera massiccia. Tuttavia, se avete questo cd, vi consiglio di ascoltarlo mentre leggete, perché vi metterà nel mood in cui ero io mentre scrivevo. Aggiornerò all'incirca ogni venti giorni perché so che se ho l'ansia di pubblicare ogni settimana mollo la storia. Nel momento in cui dovessi finirla prima, allora aggiornerò con maggiore frequenza.
Piccola precisazione: io adoro fare i banner, li amo, e ne avevo preparato uno anche per questo capitolo, ma il programma che uso per mettere le immagini mi odia oggi e non mi fa caricare il banner. Appena riuscirò a risolvere il problema metterò anche quello.
Bene, credo di aver detto tutto. Vi lascio alla lettura!
Ireth.




 
NO SOUND WITHOUT SILENCE






There's an art in breaking hearts





 
Le strade di Seoul erano affollate come sempre. Le suole delle scarpe da ginnastica di Park Jimin battevano ritmicamente sull’asfalto del marciapiede, le mani ficcate in tasca, la testa chissà dove. Chiunque lo vedesse passare, consapevolmente o no, non poteva fare a meno di chiedersi a cosa – o a chi – fossero rivolti i suoi pensieri.
Avrebbe voluto saperlo anche lui.
In realtà non pensava a niente, Jimin. Guardava la punta delle scarpe vecchie di anni ormai, pensando solo a camminare, camminare – camminare verso casa.
Probabilmente nessuno se ne sarebbe accorto, ma in quel momento un lieve sorriso fece la sua comparsa sul suo viso.
Forse sapeva a cosa – a chi – pensava ininterrottamente, da quando arrivava nella classe di economia alla Korea University sbattendosi la porta dietro la schiena cercando di non fare troppo rumore – operazione naturalmente inutile – a quando ne usciva. Mentre il suo vicino di banco, Jung Hoseok, chiacchierava ininterrottamente, anche quando avrebbe dovuto prestare attenzione alle parole del professor Seokjin. Un viso da bambino, due occhi scuri che sprizzavano entusiasmo, un sorriso che avrebbe potuto illuminare la casa in cui abitavano insieme da ormai quasi due anni senza bisogno della luce elettrica.
Quella cosa – quel qualcuno – aveva un nome, un cognome e un musetto adorabile: Jeon Jungkook, diciotto anni appena compiuti, primo anno di università, facoltà di medicina.
Jimin sollevò lo sguardo: era finalmente arrivato a casa. Tirò fuori le chiavi dalla tasca sinistra del cappotto e aprì la porta del condominio, per poi dirigersi verso l’ascensore. Arrivato di fronte a quest’ultimo, però, cambiò idea: abitava solo al terzo piano, perché prendere l’ascensore per sei sole rampe di scale? Afferrò il mancorrente verniciato di un insolito verde scuro e saltò con grazia sul terzo gradino facendo svolazzare la parte inferiore del cappotto grigio scuro, cominciando poi a percorrere la prima rampa due gradini per volta.
Non si stupì quando, giunto davanti alla porta di casa, la trovò aperta: non sapeva come, ma Jungkook riusciva sempre a riconoscere il suo passo, e apriva prima che Jimin potesse suonare al campanello o tirare fuori la chiave.
- Kookie, sono a casa! – urlò per essere sicuro di essere sentito dal coinquilino una volta che si fu chiuso la porta dietro la schiena con un tonfo sordo. Si guardò intorno sconsolato: quel ragazzo era di un disordine unico, una volta l’aveva addirittura definito “teoria dell’entropia personificata”, troppo stanco di richiamarlo.
- Lo so, per quello ti ho aperto la porta, idiota di un Jimin – gli rispose una voce acuta proveniente dal loro piccolo studio, fintamente scocciata. Con il sorriso ancora a solcargli le labbra, il ragazzo appese il cappotto all’attaccapanni facendo tintinnare le chiavi all’interno di una delle tasche e diresse i suoi passi in direzione della voce udita poco prima.
Ciò che vide lo lasciò a bocca aperta – non si sarebbe mai abituato a quello spettacolo, anche se lo vedeva ogni giorno. Jungkook era chino su tre libri diversi, osservando concentrato il foglio sul quale stava scrivendo riassunti e schemi per l’esame che avrebbe dato di lì a un mese, se la memoria non lo ingannava. Poi smetteva per qualche secondo di scrivere e mordicchiava la matita, mentre leggeva attentamente la parte successiva.
Lo sguardo di Jimin finì inevitabilmente sulle labbra di Jeon, che accarezzavano delicatamente l’estremità della matita…
Park Jimin, ti prego, controllati.
Chiuse per un paio di secondi gli occhi, stringendo i pugni lungo i fianchi mentre faceva qualche respiro profondo: sì, inutile negarlo, era attratto da Jungkook dalla prima volta in cui l’aveva visto. Ricordava ancora le sue guance arrossate dal freddo di gennaio, le nuvolette di vapore che aveva abbandonato la sua bocca quando gli aveva detto che aveva letto che stava cercando un coinquilino per pagare, sì, beh, per pagare l’affitto del suo appartamento nei pressi dell’università di Seoul, chiedendogli se poteva alloggiare con lui. Ricordava anche quel sorriso che gli aveva fatto quando Jimin aveva risposto che sì, era perfetto, assolutamente perfetto.
- Jiminnie? Tutto bene?
Jimin scosse la testa e sollevò le palpebre, guardando il viso di Jungkook, le sopracciglia lievemente aggrottate dalla preoccupazione e dalla voglia di capire cosa fosse preso al suo hyung.
- Niente, niente, è tutto a posto – lo liquidò con un gesto distratto della mano e un lieve sorriso, andando a posizionarsi di fianco a lui. Si appoggiò con una mano alla scrivania ingombra e avvicinò il viso a quello di Jungkook. – Cosa studia il mio piccolo genietto oggi?
Quello fece un’espressione sconsolata e si coprì la faccia con le mani, lasciando cadere la matita su uno dei libri aperti con un rumore sordo. – Fisica… - annunciò infine, enfatizzando la tragicità contenuta in quella singola, terribile parola.
- Hai ancora un mese per studiare, e guarda, sei già a un ottimo pun…
- No, Jimin, ho ventinove giorni e… che ore sono?
Jimin guardò l’orologio da polso e, una volta che ebbe riappoggiato la mano alla scrivania, rispose: - Sono le sei e mezza del pomeriggio.
- Che cosa?! Sono già le sei e mezza? Ma io devo ancora finire gli schemi del sesto capitolo di questo, e il riassunto di questa pagina qui…
Jimin lo interruppe prendendogli le spalle tra le mani e fissando il suo sguardo con il proprio. – Jeon. Jungkook. Ascoltami bene. Sei un fottuto genio, e hai ancora un mese non osare interrompermi – aggiunse a voce più alta per sicurezza quando vide un lampo correre negli occhi di Kookie, già pronto a correggerlo – per studiare tutta questa roba. Sei già a un terzo del lavoro, e suppongo che tu stia studiando da quanto? Quattro ore almeno?
Jungkook si morse il labbro colpevolmente e i suoi occhi guizzarono cercando una via di fuga che gli permettesse di negare. Jimin aveva fatto centro.
- Come pensavo. Ora io, in qualità di tuo hyung, ti ordino di chiudere questi dannati libri e alzarti da questa dannatissima sedia. Adesso.
- Ma… volevo almeno finire il cap…
- Niente ‘ma’, ora fila a riposarti – gli rispose perentorio Jimin, allontanandosi dal suo viso e posizionando i pugni chiusi sui fianchi in una posa che voleva essere intimidatoria – ma che proprio intimidatoria non era, data la statura non molto elevata del ragazzo.
Jungkook, infatti, si alzò immediatamente e, sfruttando i suoi cinque centimetri di altezza in più rispetto a Jimin, torreggiò su di lui. – Altrimenti che mi fai? – L’espressione di sfida dipinta sul volto di Jungkook lo divertì: con chi credeva di poter fare il gradasso?
- Sicuro di volerlo scoprire?
Il ragazzo più piccolo non fece una piega, sollevando un sopracciglio alla non troppo velata minaccia di Jimin, ma quando lo vide alzare le mani all’altezza del suo busto indietreggiò andando a sbattere contro la sedia, gli occhi spalancati.
- No, non oserai, vero?
Jimin lo guardò e avanzò verso di lui, intrappolandolo contro lo schienale della sedia. – Tu mi hai sfidato… e ora subirai la mia vendetta!
Subito iniziò a fargli il solletico sulla pancia e sui fianchi, ottenendo come risultato un Jungkook riverso sulla sedia che rischiava seriamente di cadere per terra e rompersi qualche osso di vitale importanza – non che Jimin se ne preoccupasse: sapevano entrambi che il più grande l’avrebbe preso comunque. Il fatto di essere attratto da Jungkook, però, non impedì a Jimin di prendersi la sua piccola vendetta: le sue mani salirono alle ascelle, e poi al collo, mentre il ragazzo in suo potere si contorceva sulla sedia dimenando le gambe cercando di allontanarlo.
- Ti prego! Minnie ti prego basta! – non faceva che urlare Jungkook, ma Jimin continuò implacabile, ridendo tra una mossa e l’altra. Solo in quel momento il ragazzo più piccolo sembrò ricordarsi nuovamente di essere più alto, e decise di sfruttare questo particolare a suo vantaggio: proprio mentre il suo hyung era chino su di lui, si sbilanciò in avanti, facendolo cadere sul pavimento e precipitandogli addosso a cavalcioni.
Jimin produsse un mugolio di disappunto, facendo una smorfia: aveva sbattuto la schiena per terra per colpa di quello stupido ragazzino, che in quel momento si ritrovava tutto soddisfatto sopra di lui.
Oh. O mio dio.
Non appena comprese in che situazione si ritrovavano, si irrigidì, il cuore che gli batteva nel petto come una grancassa, e portò lo sguardo oltre la testa di Jungkook, puntandolo sul soffitto che presentava alcune crepe. Iniziò a contarle e a delinearle con il pensiero…
- Che cosa stai guardando, Jimin-ah?
Smise di trattenersi dal guardare Jungkook, ma se ne pentì immediatamente: alcune ciocche color ebano gli erano scivolate sugli occhi, coprendoli in modo disordinato, e aveva il respiro affannato per il solletico. L’unica cosa che Jimin riuscì a pensare fu che fosse tremendamente bello, con il petto che faceva su e giù in modo frenetico, la chioma scura scompigliata, il suo solito sguardo curioso come dipinto a olio nelle iridi scure quasi quanto i capelli.
- Mh… niente, niente – rispose esitante. L’altro lo guardò stranito, poi si strinse nelle spalle e si sollevò dal corpo immobile di Jimin, che tirò un sospiro di sollievo. Se fossero rimasti ancora a lungo in quella posizione, si sarebbe ritrovato uno scomodo problema nei pantaloni, e quella era una situazione assolutamente da evitare.
Ogni volta che i loro corpi si trovavano se non a stretto contatto, quanto meno molto vicini, Jimin si illudeva che, in fondo, Jungkook ricambiasse i suoi sentimenti, o che almeno provasse più di semplice affetto nei suoi confronti.
Invece finiva sempre così: una scrollata di spalle, e facevano entrambi finta che non fosse successo nulla di importante. E anche se ogni dannata volta a Jimin si spezzava il cuore, faceva attenzione a nascondere il proprio dolore: si sarebbe goduto fino in fondo ogni tipo di attenzione che Jungkook gli avrebbe dato, avrebbe raccolto anche le briciole, se fossero state l’unica cosa che gli avrebbe concesso.
Si accorse di non aver più fame, e si ritirò in camera dicendo a Jungkook di aver già mangiato mentre tornava a casa. Scosse la testa guardando la stanza in cui aveva appena messo piede: la metà di sinistra, rivolta verso la finestra, era in perfetto ordine, il letto rifatto, i vestiti riposti nell’armadio sul fondo della stanza. La metà di destra, invece, era tutta un’altra storia: le coperte erano sollevate contro il muro, c’erano fogli, libri e vestiti di vario genere gettati sul materasso o per terra. Il caricabatteria giaceva ancora attaccato alla spina, mentre il cellulare – scollegato – riposava sul cuscino spiegazzato. Sentì il trillo che annunciava l’arrivo di un messaggio, e Jimin non poté fare a meno di sbirciare l’emissario del testo incriminato: un certo “Tae”. Si chiese chi fosse: magari era un compagno di corso di Jungkook, o forse un suo parente. In quel momento, però, Jimin decise di accantonare i pensieri sul suo coinquilino, e si lasciò cadere sul letto socchiudendo gli occhi.
Senza neanche accorgersene, in pochi minuti cadde tra le confortevoli braccia del sonno, salvo poi essere svegliato dallo squillare del suo cellulare, questa volta. Si stropicciò un po’ gli occhi e sbadigliò pigramente, tirandosi su e accorgendosi di avere una morbida e calda coperta di plaid addosso. Stranito, si voltò, e vide che anche Jungkook stava dormendo, una mano pigiata tra la guancia e il cuscino, il viso rivolto verso di lui.
Gli venne da sorridere al pensiero che si fosse preoccupato per lui, tanto da mettergli una coperta addosso per non fargli prendere freddo, o che si fosse addormentato guardandolo riposare; subito dopo, però, si ricordò di essere un semplice amico per lui, e che probabilmente non sarebbe mai significato nient’altro: un amico, un semplice, inutile amico.
Il sorriso si spense sulle sue labbra.
Spinse via la coperta accartocciandola ai piedi del letto e si passò le mani sulla faccia, come se così facendo potesse cancellare i suoi pensieri, cancellare ciò che provava per Jungkook. Ma Jimin sapeva fin troppo bene che sarebbe stato impossibile: per farlo, avrebbe dovuto annullare se stesso e tutto ciò che era stato da due anni a quella parte. Troppo stanco perfino per pensare, prese il telefono in mano per controllare chi avesse osato disturbare il suo sonno. Non appena ebbe visto il nome di chi gli aveva inviato il messaggio e ne ebbe letto il contenuto, una smorfia di divertimento si dipinse sul suo volto, e facendo attenzione a non svegliare Jungkook, uscì dalla loro stanza. Afferrò il cappotto e, dopo aver controllato di avere ancora le chiavi in una delle tasche ed essersi infilato le scarpe, varcò la porta di casa.
Riceveva spesso quel tipo di messaggi, e sempre verso quell’orario: un luogo, sempre lo stesso. “Quando ci vediamo?” Il prima possibile.
In fondo, cos’era meglio di una sana chiacchierata con l’unica persona che lo conosceva davvero, l’unica a cui aveva rivelato quasi ogni suo segreto?
Si ritrovò nuovamente a girare per le strade della metropoli, svolta dopo svolta: ormai conosceva a memoria la strada. Dopo una ventina di minuti, si ritrovò davanti a un palazzo grigio, ricoperto di crepe, ragnatele. Le pareti all’esterno sembravano talmente stanche di stare in piedi da dare l’impressione di poter crollare da un momento all’altro, e spesso Jimin si ritrovava a chiedersi quanta differenza passasse tra lui e quel palazzo in stato di decadenza: quanto avrebbe retto ancora, sapendo di non poter essere corrisposto dall’unico ragazzo di cui fosse mai stato innamorato? Quanto, prima di arrendersi, di crollare a pezzi, come era certo che anche quei muri avrebbero fatto prima o poi?
Park Jimin non voleva rispondere a quelle domande, non in quel momento. Tirò fuori il suo mazzo di chiavi tintinnanti e, una volta scelta la chiave più arrugginita, la infilò nella serratura sgangherata e aprì la porta. Una volta nell’ingresso, prese verso sinistra, dove un’altra porta lo separava ancora dalla sua meta. Questa volta, però, non ebbe bisogno di usare le chiavi: in effetti, quella porta non era neanche dotata di una toppa. Restava semplicemente sempre aperta, perché non ci andava mai nessuno.
Nessuno, tranne due ragazzi, che avevano scoperto come riadattare un vecchio seminterrato a campo da basket in miniatura. Nessuno, tranne Min Yoongi e Park Jimin, che in quel palazzo dimenticato da Dio avevano trovato il loro angolo di mondo, un frammento di infinito, una bolla nella quale potevano rinchiudersi fino a quando il sole era alto. Ore, solo quello chiedevano, per parlare di tutto e di niente, per giocare partite che non avevano vincitori né vinti, in cui non erano i punti a contare, ma la quantità di emozioni e avvenimenti che riuscivano a buttare fuori senza perdere il controllo sulla palla.
Quando il ragazzo entrò nella sala, vide Yoongi già impegnato in una lotta immaginaria contro un avversario invisibile, i capelli tinti di un rosso accesso che svolazzavano intorno al suo viso rotondo a ogni movimento. Avanzò di qualche passo, e dopo due o tre palleggi con la mano destra prese posizione e spiccò un salto, mandando la palla dritta nel canestro. Quella rimbalzò placidamente sul pavimento, fino a raggiungere la punta delle scarpe consunte di Jimin. Il ragazzo, dopo essersi tolto il cappotto e averlo appallottolato contro una parete, si abbassò e la raccolse, iniziando a palleggiare.
- Oggi non sei venuto a nessun corso – disse mentre la palla continuava a rimbalzare tra la sua mano e il pavimento producendo un’eco cui, dopo quasi un anno, aveva fatto l’abitudine.
- Ero da Namjoon. Oggi la seduta è durata più del solito. – Yoongi si avvicinò all’amico e iniziò a girargli attorno, come attendendo un suo momento di distrazione per rubargli la palla da sotto il naso.
Jimin fece uno scatto verso destra mentre l’altro era dalla parte opposta, credendo di riuscire a raggiungere il canestro dinanzi a lui, ma Yoongi gli fu subito addosso, impedendogli di avanzare di un altro passo.
- Mi ha chiesto come va con gli esami, se sono ancora fuori corso. Gli ho detto che mi sono rimesso in carreggiata, ma credo che abbia capito che gli stavo raccontando un mucchio di cazzate – proseguì poi, tentando di togliere la palla a Jimin. Quello, però, scartò all’ultimo secondo, eludendo l’attacco di Yoongi.
- Sei suo paziente da tre anni, è ovvio che capisca quando racconti cazzate. Perché non dici direttamente la verità?
- Abitudine, credo. – Finalmente Yoongi riuscì a fare breccia nella strenua difesa di Jimin, e una volta che fu riuscito a ottenere il controllo della palla, cercò di raggiungere il canestro, venendo però nuovamente bloccato dall’amico.
- Non raccontare cazzate anche a me, Yoon. Perché non gli dici la verità?
- Lo sai il perché.
E Jimin lo sapeva, lo sapeva eccome. Kim Namjoon era lo psicologo di Yoongi da ormai tre anni, e dopo tutto quel tempo passato insieme, tra i due si era instaurato uno splendido rapporto che andava ben oltre quello tra un paziente e il suo psicologo. Yoongi voleva un gran bene a Namjoon, lo considerava il padre che non aveva mai avuto, troppo occupato a pensare al proprio lavoro, alle trasferte in Cina, a litigare con l’ex moglie, o il fratello maggiore di cui aveva sempre avuto bisogno per combattere contro quei genitori per i quali non sarebbe mai stato abbastanza. Yoongi riponeva in Namjoon tutta la fiducia negli adulti che era andata persa nel corso degli anni, e non voleva assolutamente che lo psicologo smettesse di fidarsi di lui a sua volta. Per questo gli mentiva – anche se proprio mentire non era, perché l’altro capiva sempre quando gli veniva raccontata una bugia. Non voleva deluderlo, e allora cercava di fargli credere di essere migliore di quanto non fosse.
- E con il ragazzino come va? – chiese mentre faceva una finta dietro l’altra, mettendo a dura prova i riflessi di Jimin, che rischiò più volte di perdere le speranze e lasciargli spazio. Tuttavia, quella domanda gli mandò una scarica di rabbia nelle vene, che in quel frangente gli fece fare un scatto prepotente verso Yoongi. Riuscì a soffiargli la palla da sotto il naso, dimezzò la distanza tra sé e il canestro in poco più di un secondo e spiccò un salto, mandandoci dentro la palla con violenza.
Mentre la palla rimbalzava rumorosamente vicino a lui per poi superarlo e andarsi a depositare contro una delle pareti della sala, si sentì un sussurro rabbioso provenire da Jimin. – Jungkook non è un ragazzino.
Yoongi sorrise beffardo. – Ti infervori sempre troppo quando qualcuno insulta Jungkook. Anche se non vede quanto soffri per lui, continui lo stesso a difenderlo. Non vedi come ti stai riducendo, come ti sta riducendo?
Jimin sollevò il capo verso l’amico e pensieri amari gli corsero per la testa. – Certo che lo vedo, ma cos’altro posso fare?
- Smettere di corrergli dietro e di soffrire inutilmente?
- No, non posso farlo. Abbiamo già parlato di questo, Yoon. Ci ho provato a smettere di provare questa… questa ‘cosa’ per Kookie, e lo sai anche tu. Ti ricordi, no? Be’, allora ti ricorderai anche che non è servito a nulla, anzi, ha solo peggiorato la situazione.
Yoongi andò a raccogliere la palla e si sedette con la schiena premuta contro il muro, un ginocchio raccolto al petto. Scosse la testa, come qualcuno che rimproveri un bambino per l’ennesima volta. – ‘Cosa’. Quando ti deciderai a chiamarla con il suo nome, questa ‘cosa’? Sono due anni ormai, Jimin, questa non è semplice attrazione fisica.
Non appena udì quelle parole, il ragazzo si irrigidì e cominciò fissare una crepa sul muro, distante pochi centimetri dalla testa di Yoongi. Lo sapeva, lo sapeva che ciò che provava nei confronti del suo coinquilino non era semplice attrazione fisica, ma ammetterlo ad alta voce non avrebbe fatto altro che rendere tutto più reale, e questo equivaleva a soffrire più di quanto non facesse già normalmente.
- Sai una cosa? Oggi Namjoon mi ha detto che c’è un’arte per tutto, e che io dovrei semplicemente trovare quella che fa per me. Non sono convinto di riuscire a trovarne una mia, ma Jungkook ne conosce una fin troppo bene.
- Quale? – gli chiese affiancandolo, abbandonandosi con la testa contro il muro e chiudendo gli occhi.
- L’arte di spezzare i cuori. Con il tuo ci sta riuscendo benissimo. Lo fa ogni volta che ti dà affetto e poi ti ricorda che non sarai mai più di un amico, ogni volta che potrebbe vedere cosa si trova davanti ma preferisce girare la testa e non vedere l’ovvietà.
- Ma tu non eri quello con il grave disturbo dell’attenzione? Da quando te ne esci con queste frasi filosofiche? – fece Jimin ironico, nascondendo dietro una risatina amara ciò che pensava davvero: Yoongi aveva ragione, ma lui… era come sotto il suo controllo, una sorta di marionetta nelle sue mani di inconsapevole burattinaio. Non poteva smettere di girargli attorno, di continuare a seguirlo senza mai riuscire a raggiungerlo. Lo attirava come il polo attrae a sé l’ago magnetico della bussola, in modo naturale, inevitabile e irreversibile.
Yoongi si girò verso di lui, ma Jimin continuò a tenere gli occhi chiusi: non voleva vedere il rimprovero scritto a chiare lettere in quegli occhi neri come la notte lì fuori. Contrariamente a quello che pensava, però, Yoongi non stava cercando di incenerirlo con lo sguardo per il modo infantile in cui si stava comportando. Si era invece alzato in piedi e aveva riposto il pallone nella cesta, poi si era messo ad armeggiare con la giacca blu scuro e si era calcato ben bene il cappello nero sui capelli.
Jimin aprì con lentezza prima un occhio, poi l’altro, per essere sicuro che ciò che stava vedendo non fosse una sua allucinazione. Yoongi lo guardava come a dirgli di sbrigarsi, che non c’era tempo da perdere, e lui si alzò sbadigliando, andando a raccattare il cappotto e infilandoselo guardando interrogativo l’amico.
- Yoon, cos’hai in mente?
- Ho un’ideona che ti piacerà un sacco, ma ora andiamo, dobbiamo fare in fretta. Ti spiego per strada.
 
***


Kim Namjoon osservava il quadro di fronte a lui con interesse. Ne studiava le pennellate di pittura come fossero un codice, come se ci fosse un linguaggio segreto dietro il quale il pittore aveva voluto nascondere un messaggio.
Si ritrovava sempre più spesso a paragonare il Salice Piangente di Claude Monet alla mente di uno dei suoi pazienti, Min Yoongi: era proprio come quell’albero, cresciuto in modo distorto, eppure affascinante. Un’esplosione di colori che a un primo colpo d’occhio potevano sembrare casuali, ma che avevano una loro logica, una loro coerenza interna. Così erano i suoi pensieri: disordinati, indecifrabili. Aveva impiegato tutto il primo anno di terapia solo a guadagnarsi la fiducia di Yoongi, il secondo a cercare di capire come funzionasse la sua mente. Poteva dire, anche con una certa soddisfazione, di essere riuscito a decifrare la maggior parte del suo modo di pensare dopo ben tre anni di terapia, anche se c’era sempre una parte di essi che gli restava oscura, impenetrabile.
Bene, pensò, mi dedicherò a questa parte durante il nostro quarto anno di terapia, Min Yoongi.
Soddisfatto delle conclusioni cui era giunto scrutando la copia del Salice Piangente appesa in salotto, Namjoon si alzò dal divano color panna con il sorriso sulle labbra dirigendosi verso la cucina, da cui provenivano rumori che potevano voler dire una sola cosa: la cena era quasi pronta. Non appena entrò, vide Seokjin occupato ad apparecchiare la tavola con un certo affanno. Prima che potesse dire qualunque cosa, però, l’uomo gli ordinò in tono perentorio: - Kim Namjoon, so che sei lì, ti ho visto anche se tu non credi che io l’abbia fatto. Ora vieni qui e finisci di mettere le posate mentre io controllo che il cibo non si bruci…
- Signor sì signore! – interruppe l’altro scherzoso, guadagnandosi un’occhiataccia dal compagno, che non tardò a redarguirlo.
- Idiota – disse infatti, un attimo prima di voltarsi di nuovo verso i fornelli per terminare la cottura delle ultime cose. Namjoon sorrise: Seokjin era fatto così, doveva avere tutto sotto il suo controllo o andava fuori di testa. Ma era anche incredibilmente narcisista e vanitoso, e lui sapeva come prenderlo. Fai un complimento a un vanitoso o fagli credere di essere migliore di te e otterrai il mondo!, aveva una volta riassunto ironicamente il suo vecchio professore di psicologia ai tempi dell’università; in fondo, era anche grazie ai suoi preziosi insegnamenti che era riuscito a conquistare Seokjin.
Gli si avvicinò e lo abbracciò da dietro, facendo aderire il suo petto alla schiena dell’uomo davanti a sé. Essendo più alto di un paio di centimetri, dovette abbassarsi un po’ per poggiare il mento sulla spalla e sussurrargli all’orecchio.
- Dai, Jin, non fare l’arrabbiato con me… Lo sai che a volte sono…
- So che stai cercando di usare i tuoi trucchetti da psicologo da quattro soldi con me, guarda che non attacca.
Ahia, mi ha beccato, si disse mentalmente Namjoon, ma non si arrese, e decise di tirare fuori il suo asso nella manica: cominciò a lasciare minuscoli baci sulla guancia di Seokjin, accarezzando la sua pelle morbida con le labbra e tracciando intanto disegni immaginari sui suoi fianchi. Quando lo sentì cedere al proprio tocco, rimise una certa distanza tra la propria bocca e la sua guancia.
- Adesso mi perdoni per la mia pigrizia?
L’altro sospirò, ma Namjoon riuscì a intuire l’ombra di un sorriso sbocciargli sulle labbra. – Solo se ora vai a finire di apparecchiare – concluse infine, girandosi per guardare in faccia l’uomo con cui conviveva da ormai cinque anni.
- Va bene, amore – rispose Namjoon prima di abbassarsi su di lui e lasciare un bacio leggero sulle sue labbra rosee. Poi si allontanò da lui, facendo ciò che gli era stato detto.
Si sedette a tavola e, una volta che Seokjin ebbe fatto lo stesso, gli tornò in mente una cosa che voleva chiedergli ormai da tempo.
- Jin… mi stavo chiedendo, se io volessi farti conoscere un mio paziente, per te ci sarebbero dei problemi?
L’altro lo guardò perplesso continuando a masticare con calma, riflettendo sulla proposta che gli aveva fatto Namjoon. Non gli aveva mai chiesto una cosa del degenere: ognuno dei due aveva sempre svolto il proprio lavoro per conto proprio, in particolare Namjoon, dato che aveva l’obbligo del segreto professionale.
Seokjin era indeciso: da una parte, aveva il presentimento che acconsentire l’avrebbe coinvolto in affari complicati, come lo erano tutti i pazienti del suo compagno. Eppure c’era qualcosa, nella possibilità di conoscere questo fantomatico paziente, che lo attirava e lo incuriosiva nello stesso tempo. Inoltre, se non fosse stato molto importante, non glielo avrebbe mai chiesto.
- Mh… no, credo di no, mi farebbe molto piacere. Solo, ecco… - continuò dopo aver preso dell’altro riso dalla ciotola di fronte a lui – perché me lo chiedi solo adesso?
- Vedi… è una situazione un po’ complicata. È un ragazzo che soffre di una forma molto grave di disturbo dell’attenzione: può capitare che, nel bel mezzo di una conversazione, di una lezione, anche di una seduta, il suo cervello smetta di funzionare, come se avesse una sorta di blackout. Inizia a fissare un punto ben preciso e non c’è modo di ‘risvegliarlo’, se così vogliamo dire; si riscuote da solo dopo qualche minuto, senza ricordarsi a cosa stava pensando. Sono ormai certo che alcune parole, frasi, circostanze, gli facciano scattare un qualche meccanismo in testa, una sorta sistema di blocco automatico, come se volesse difendersi da ricordi pericolosi.
Seokjin lo ascoltava attento, senza perdersi un solo passaggio delle parole di Namjoon. La sua mente metteva in ordine tutti i tasselli del puzzle con la solita calma matematica e calcolatoria che gli era propria, costruendo un ritratto psicologico parziale del ragazzo che il compagno gli stava descrivendo.
- Capisco… però non hai ancora risposto alla mia domanda: perché adesso? Perché non qualche mese fa, ieri, tra due giorni? – chiese nuovamente Seokjin con insistenza. Voleva capire cosa stava spingendo Namjoon a fargli conoscere quel ragazzo.
- Mi pare che stia migliorando. Certo, mi racconta ancora delle bugie a volte, ma lo fa perché crede di non deludermi così facendo. Credo che qualcuno lo stia aiutando a… smettere di pensare. I suoi blocchi sono causati dal fatto che compia inconsapevolmente delle associazioni tra il presente e un qualche avvenimento del passato. Se però non ha il tempo di compiere queste associazioni, se sta pensando ad altro, è probabile che abbia meno blackout. Sono convinto che se va avanti così, entro un anno, forse anche di meno, non avrà più bisogno della terapia, e volevo fartelo conoscere prima che ciò avvenga perché… beh, perché dopo tre anni che lo seguo mi sono affezionato a lui, lo considero quasi un fratello minore. Ci terrei davvero tanto a renderti partecipe anche di questo aspetto della mia vita… - disse esitante, passandosi una mano tra i capelli biondo platino. – Allora?
Seokjin soppesò le parole che gli erano appena state dette: aveva ragione, la questione era davvero molto importante, ed era orgoglioso del fatto che Namjoon avesse voluto parlargliene. Anche dopo cinque anni di convivenza, erano i piccoli e i grandi gesti di fiducia reciproca a renderlo felice e – se possibile – ancora più innamorato dell’uomo seduto dinanzi a lui.
- Va bene. Conoscerò il tuo paziente.


 
***


È in un lungo tunnel di cemento. Le pareti sono tutto intorno a lui, si chiudono in un arco tre o quattro metri sopra la sua testa, una grande freccia bianca gli indica di tornare indietro. Non la segue.
Non si ricorda come è arrivato in quel luogo. Sa solo che i suoi piedi si muovono come guidati da una forza estranea, fuori dal suo corpo. Si sente una macchina telecomandata. Vorrebbe sapere chi ha il telecomando. Forse potrebbe chiedergli chi l’ha mandato in quel posto orribile.
Muove un altro passo incerto seguendo i binari della ferrovia, producendo un suono scricchiolante quando schiaccia la ghiaia con le scarpe da ginnastica. Vede una luce alla fine del tunnel, sì: una grande luce. Vorrebbe poter andare più velocemente, ma sente come dei macigni attaccati alle proprie gambe che gli impediscono di correre verso la sua salvezza: perché lui lo sa, se raggiunge la luce sarà salvo.
“Salvo da cosa?” Non ha il tempo di chiederselo, che subito vede comparire al fondo del tunnel, come emersa dalla luce abbagliante, una sagoma indistinta. Stringe gli occhi per vedere meglio. Mano a mano che cammina, passo dopo passo, la figura emerge un poco di più dalla luce bianca, eppure sembra che rimanga sembra alla stessa distanza.

Non capisce.
Cerca di accelerare la sua andatura ondeggiante, ma ottiene solo di affaticarsi ancora di più, le gambe gli fanno male in una maniera indicibile. È come se stesse cercando di camminare attraverso delle sabbie mobili: più si sforza, meno riesce ad avanzare.
Solleva un poco la testa ciondolante: ha sentito una voce. Ha paura, perché lui conosce quella voce, ed è l’ultima che vuole sentire. Eppure ne è attirato, ed è strano come il suo cuore spezzato brami altro dolore, come se non avesse già sofferto abbastanza a causa sua, a causa di quella voce.
Continua a seguirla, come se tutto, la vita, la morte, il pulsare del suo cuore, lo scorrere del sangue nelle sue vene dipendessero da quello: continuare ad ascoltare la voce, avvicinarsi a essa.

Ma per quanto cammini, non si avvicina mai abbastanza: eppure sembra che la figura in fondo al tunnel resti ferma, riesce a vederlo. L’angoscia prende possesso di lui, lo spinge ad andare più veloce… ma ancora le sabbie mobili invisibili lo bloccano, i polpacci gli dolgono terribilmente… tende un braccio, le punte delle dita che si allungano fino allo spasmo con una fatica tremenda…
- Ho… Hob… Hobi…

Poi la luce lo investe.
 
Kim Taehyung si svegliò ansimando in un bagno di sudore. La coperta pesante che aveva addosso lo stava come soffocando. Accese con mano tremante la lampada sul comodino, per poi passarsela sul viso e sentendola bagnata. Fu solo in quel momento che ne rese conto: calde lacrime avevano preso a scorrergli lungo le guance, inumidendogli il collo e il bordo del pigiama azzurro che indossava.
Strofinò la mano sulla coperta per asciugarla e tirò su con il naso. Non era la prima volta che faceva quel sogno – incubo, si corresse mentalmente. Era ormai da mesi che andava avanti così: quasi ogni notte, quelle immagini angoscianti tornavano a fargli visita, come un ospite non bene accetto che si intrufola in casa dalla finestra.
Era anche vero, però, che nelle ultime settimane gli incubi erano diminuiti, e Taehyung sapeva che non era grazie ai sonniferi che riposavano ancora intatti – o quasi – nel mobiletto a sinistra dello specchio in bagno. Un lieve sorriso spuntò sulle sue labbra: un sorriso bagnato delle lacrime di poco prima, un sorriso di tenerezza. Forse c’era qualcuno che poteva tirarlo fuori dal piccolo inferno personale che si era venuto a creare intorno a lui.
Prese il cellulare di fianco alla lampada e digitò rapidamente un messaggio.
 
Tae: Che stai facendo? Dormito bene? xx
 
Dopo alcuni minuti di attesa senza nessuna reazione da parte del destinatario del messaggio, Taehyung guardò meglio l’orario sullo schermo del cellulare: quello che in un primo momento gli era sembrato un sei, era in realtà un tre. Era quindi altamente probabile che la persona che aveva tentato di contattare stesse placidamente dormendo nel suo letto, e non si sarebbe svegliato finché la sveglia non lo avesse costretto ad alzarsi a forza. Diede un’occhiata ai messaggi che si erano scambiati la sera prima: gli piaceva rileggerli, magari sperando in una risposta. Dopo alcuni minuti, però, scosse la testa scoraggiato – e, doveva ammetterlo, un po’ ferito – e rimise il telefono dov’era, senza però spegnere la luce della lampada.
Meglio non correre rischi. La luce tiene lontani i fantasmi, no? Magari avrebbe funzionato.






ANGOLO AUTRICE (parte 2):
Bene, che ne pensate? E' una storia a cui lavoro da parecchio tempo, adesso sono circa a metà con la stesura, e spero tanto che vi piaccia. Se avete voglia lasciate una recensione che tanto fa sempre piacere e niente, ci si vede al prossimo capitolo!
Ireth.

 

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Capitolo 2
*** That's how superheroes learn to fly ***


Angolo autrice:
Sono di nuovo qui! Come promesso, sono tornata con il secondo capitolo di questa mirabolante storia. La scuola finalmente è finita, e potrò dedicarmi a scrivere di più. Per ora sono arrivata alle prime pagine del settimo capitolo (e la storia ne avrà undici, come le canzoni del cd), ma ora che sono libera potrò scrivere più spesso. Ma ciancio alle bande: vi lascio al capitolo. Potrebbero esserci delle cose strane, tipo allineate male, ma spero che mi perdonerete. :)




 
That's how superheroes learn to fly








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Aveva iniziato a piovere da qualche minuto, le gocce di pioggia si abbattevano regolari e tranquille sull’asfalto. Sembravano così spensierate, pensò Taehyung sbirciando le nuvole sopra la sua testa da sotto il cappuccio della felpa. Nessuna preoccupazione, se non quella di cadere dal cielo e posarsi ai suoi piedi in minuscole esplosioni, formando pozzanghere e cerchi concentrici all’interno di esse. Se avesse avuto dietro la sua macchina fotografica probabilmente avrebbe fatto delle foto.
Avrebbe tanto voluto essere una di quelle gocce di pioggia: nessuno l’avrebbe notato, si sarebbe confuso in mezzo a miliardi di esemplari identici a lui in tutto e per tutto; non avrebbe avuto tutti quei pensieri per la testa.
Quella notte, dopo essersi svegliato per l’incubo, non era più riuscito a riaddormentarsi: si era messo a guardare la lampada sul comodino, senza aver il coraggio di chiudere di nuovo gli occhi. Avevi paura di rifarlo, si corresse mentalmente con un’ironia che serviva solo a celare l’inquietudine che quel sogno gli procurava ogni volta.
Era sempre lo stesso: un tunnel di cemento al fondo del quale c’era una grande luce bianca, dalla quale emergeva lui. Poi sentiva la sua voce, senza capire davvero cosa dicesse, o forse semplicemente una volta sveglio se ne dimenticava – in fondo non era poi così importante – e cercava di raggiungerlo, ma non ci riusciva.
In fondo, si era sentito così quel giorno, il giorno in cui Jung Hoseok gli aveva urlato che ne aveva abbastanza di lui, delle sue stranezze. Che si sentiva soffocato dai suoi comportamenti infantili, dal suo essere costantemente lunatico. Per questo, mesi prima il suo ragazzo l’aveva lasciato. Per questo. Per le sue stranezze. Per il suo essere lunatico.
Per questo aveva passato giorni e giorni a piangere da solo, in camera sua. Per questo aveva iniziato a prendere i sonniferi per riuscire a dormire, per non pensare costantemente a quelle ultime parole che Hoseok gli aveva detto: “Adesso basta. È finita”.
Per qualche giorno aveva funzionato, ma poi aveva smesso: anche se i sonniferi lo facevano dormire – e dormire gli serviva – lo facevano sentire come in gabbia: non voleva dipendere da una pillola per superare la rottura con il suo ragazzo. Di certo, però, non aveva messo in conto l’eventualità di poter fare quel genere di incubi. E anche se se ne vergognava profondamente, un po’ gli piaceva farli: anche se lo facevano soffrire, almeno gli permettevano di ricordare il periodo in cui era stato più felice, la persona che l’aveva reso tale. Poteva sentire la sua voce.
Kim Taehyung avrebbe tanto voluto essere una goccia di pioggia: non avrebbe avuto bisogno di dormire, o di pensare, o di respirare o di vivere o di tenere gli occhi aperti o di…
Chiuse gli occhi per qualche istante e fece un paio di respiri profondi, cercando di concentrarsi: farsi venire l’iperventilazione non era assolutamente tra i suoi programmi.
Ripensò a quando, verso le sei e mezza, gli era arrivata la risposta al messaggio inviato circa tre ore prima.
 
Kookie: Scusa, stavo dormendo… comunque ho dormito abbastanza bene. Tu?
 
Naturalmente non gli aveva detto la verità. E come avrebbe potuto farlo? Non poteva certo scrivergli “Mah, sai, ho fatto un incubo sul mio ex. Ah, e non è la prima volta: è da qualche mese che faccio questo sogno, ma tutto sommato ho dormito splendidamente, grazie per l’interessamento”. L’idea era decisamente improponibile.
Riprese a camminare, portando lo sguardo davanti a sé e distogliendolo da quei grandi nuvoloni grigi. I rumori delle macchine che correvano alla sua sinistra lo sfioravano appena. Avrebbe potuto usare la sua auto e parcheggiarla nel posteggio interno dell’università, ma quella mattina aveva deciso di andarci a piedi, anche se la giacca semi-impermeabile era una ben misera protezione contro la pioggia, che continuava a scendere imperturbabile dal cielo plumbeo.
Dopo mezz’ora passata a cercare di evitare di bagnarsi troppo camminando sotto i balconi non appena gli era possibile, giunse finalmente all’edificio, e si recò a passo spedito verso l’aula di Fisica: la testa china, lo sguardo fisso sul pavimento lucido. Quando era quasi arrivato, però, sentì una mano picchiettargli gentilmente sulla spalla. Si voltò, e finalmente un timido sorriso riuscì a trovare un varco tra le sue labbra, chiuse in un serio mutismo da quella mattina.
- Non mi saluti più, Taetae? – domandò una vocetta allegra, e a quel suono il ragazzo, che aveva ancora il cappuccio della felpa calcato sulla testa, si sentì sollevato, felice, come da tempo non gli capitava se non in sua presenza.
Lo guardò ridacchiando appena dopo essersi abbassato il cappuccio. – Dai, sbrighiamoci o faremo tardi a lezione.
- E da quando ti interessa? – gli chiese l’altro insistente, un’espressione beffarda dipinta sul volto angelico. I capelli neri come l’ebano gli ricadevano in una morbida frangetta appena sopra gli occhi, sfiorando le sopracciglia scure e fini. Quel giorno indossava un maglione largo a righe rosse e nere che gli arrivava a circa metà coscia, dove si vedevano dei semplici jeans neri a ricoprirgli le gambe.
Ed era inutile nasconderlo a se stesso: trovava quel ragazzo semplicemente bellissimo, con la sua perenne allegria, la sua innocenza, i suoi sorrisi che sapevano scaldargli il cuore come pochi era riusciti a fare. Sì, forse solo un altro sorriso era riuscito a farlo stare bene come quello di Jeon Jungkook, ma in quel momento Taehyung non aveva voglia di pensarci.
- A te interessa, quindi muoviamoci.
Con quelle parole il ragazzo considerò chiuso il discorso, e andò direttamente nell’aula di Fisica, ben sapendo che Jungkook lo stava seguendo. La lezione procedette monotona, ma Tae si sforzò di prendere appunti, perché se voleva dare l’esame e passarlo con un voto accettabilmente alto doveva assolutamente prestare attenzione alle parole del professore.
Senza che se ne rendesse contro, la mattina trascorse in un batter d’occhi, e tra una spiegazione e l’altra finalmente giunse il momento di tornarsene a casa.
Tae tornò sconsolato con il pensiero all’ultima lezione di Fisica: no, così non andava per niente bene. Aveva capito sì e no la metà degli argomenti, e questo non bastava a prendere una votazione accettabile.
- Allora io torno a casa adesso, ci vediamo domani. – La voce di Jungkook lo distolse dai suoi pensieri, e non appena si voltò verso di lui, ebbe un’idea che, nella sua mente, aveva un qualcosa di geniale.
- Ehm… aspetta solo un secondo. Senti, oggi pomeriggio hai da fare? – gli chiese deciso, determinato a portare a termine il suo piano.
- No, credo di no, però devo studiare… - cominciò Jungkook, ma Tae lo interruppe immediatamente.
- Ecco, appunto. Ti volevo chiedere… dato che non ho capito davvero una mazza di Fisica, – quelle parole fecero ridacchiare il ragazzo, e Taehyung si sentì segretamente soddisfatto di essere riuscito a scatenare quella reazione in lui – ti andrebbe di venire da me per studiare? Sono davvero in alto mare, e…
- Sì, va bene, ho capito. D’accordo, devo solo andare a cercare Jimin per dirgli che torno a casa stasera. Ora dovrebbe avere una pausa… vieni con me.
Detto questo, Jungkook afferrò per un polso Taehyung e se lo trascinò dietro per tre piani di scale – perché non abbiamo usato l’ascensore? Si chiedeva intanto mentalmente il ragazzo, senza tuttavia avere il coraggio di chiederlo a quel tornado in cui si era trasformato il suo compagno di corso. E poi, non gli dispiaceva avere la mano di Jungkook attorno al proprio polso. Era piacevole.
Percorsero tutto il corridoio, e finalmente il ragazzo dai capelli corvini sembrò aver trovato la persona che stava cercando: un ragazzo poco più basso di lui, con dei capelli del suo stesso colore ma con il viso più allungato, dei lineamenti dolci e uno sguardo pieno di quella che sembrava… gratitudine?
Tae non ebbe il tempo di chiederselo, che il suo sguardo si spostò su colui che stava camminando di fianco al ragazzo. Un attimo prima stava chiacchierando amabilmente con il ragazzo alla sua sinistra ma, non appena i suoi occhi incrociarono quelli di Tae, si paralizzò dallo stupore e da un qualche altro sentimento che però, in quel momento, Tae non si sentì di decifrare.
No. No, no no no no. Si ripeteva quella parola come un mantra, credendo che forse se l’avesse pensata abbastanza forte lui sarebbe scomparso. Come intontito da ciò che i suoi occhi stavano vedendo, mise involontariamente un piede indietro, rischiando di perdere l’equilibrio.
- Tae… - Quella voce. Quanto mi è mancata… il suo suono nei miei sogni non le rende giustizia...
- No – si ritrovò a dire con voce più decisa di quanto si sarebbe aspettato, come nei suoi pensieri, cercando di negare a sé stesso gli fosse mancato quanto sentire la voce di Hoseok pronunciare il suo nome, quanto gli fosse mancato lui, cercando di allontanare da sé ogni cosa che lo riguardasse anche solo lontanamente.
Tae aveva lottato tanto per rimettere le cose al loro posto dopo che lui l’aveva lasciato, non aveva mai cercato di vederlo, non l’aveva chiamato, neanche un messaggio. Mesi. Erano passati mesi dall’ultima volta che l’aveva visto, l’aveva evitato accuratamente anche all’università, non poteva permettere che tutte le difese che aveva eretto per proteggersi dal suo ricordo crollassero in un minuto, in un singolo battito di ciglia.
Prima di rendersene conto, si era già voltato. - I-io vado, ti aspetto fuori – disse frettolosamente a Jungkook, prima di allontanarsi correndo a perdifiato verso l’uscita dell’università. Rischiò più volte di inciampare nei suoi stessi piedi e cadere addosso a qualcuno, ma in quel momento non gli interessava di ciò che gli succedeva attorno: cercava solo di togliersi dalla testa l’espressione ferita di Hoseok quando era indietreggiato alla sua vista. E quanto si sentiva stupido, sapendo gli aveva fatto male vederlo soffrire. Si sentiva come un uccello con le ali piene di catrame: si dibatteva per staccarsi dalla memoria di Hoseok, ma quella gli restava attaccata come una seconda pelle, e non c’era modo di strapparsela di dosso. Si chiese se il catrame fosse in un certo senso corrosivo, e quanto ci avrebbe messo ancora a consumarlo del tutto.
- Tae! Tae aspetta!
Quella voce lo strappò nuovamente dai suoi pensieri, giungendogli come un salvagente in mezzo al mare in burrasca. Si voltò, e vide Jungkook correre verso di lui, il viso intriso di preoccupazione, un braccio teso nella sua direzione. Si fermò non appena l’ebbe raggiunto, appoggiandosi con i palmi alle ginocchia lievemente piegate per riprendere fiato; non appena si fu rialzato, guardò il ragazzo dinanzi a lui con un espressione curiosa e allarmata allo stesso tempo.
- Perché sei scappato così?
Domanda di riserva? – Uhm, niente, ero solo…
- Kim Taehyung, non raccontarmi balle. Riguarda quel ragazzo, vero? – insistette ancora il ragazzo, che nel frattempo aveva portato le braccia al petto, incrociandole in uno strano miscuglio di rosso e nero che in quel momento fecero venire mal di testa a Tae, tanto che dovette compiere uno sforzo sovrumano per mantenersi in piedi. Lo guardò implorante: non voleva rispondere a quella domanda, Jungkook doveva capirlo; parlare di Hoseok lo faceva stare male, terribilmente male, non doveva obbligarlo…
- Va bene, se le cose stanno così… io vado. Ci vediamo domani.
Jungkook fece per allontanarsi, la delusione scritta a chiare lettere sul viso da bambino. Tae doveva pensare in fretta: non poteva permettere che se ne andasse, aveva bisogno di lui per andare avanti, per dimenticare Hoseok. Che fare? Dirgli la verità o inventare una scusa? La prima opzione gli sembrava impraticabile, ma in quel momento non gli veniva in mente nessuna giustificazione credibile…
- Era il mio ex.
Prima che potesse tapparsi la bocca, quelle parole uscirono dalle sue labbra come dette da qualcun altro. E se prima gli era sembrato quasi ragionevole dirgli la verità, ora avrebbe solo voluto rimangiarsi ogni sillaba di quella frase. Tuttavia, la reazione di Jungkook gli fece passare tutta la vergogna, sostituendola con puro stupore. Si rigirò di scatto verso di lui, e nei suoi occhi Tae lesse un’emozione che mai si sarebbe aspettato di trovare: gelosia.
- Ah – rispose infatti freddamente il ragazzo poco prima di riprendere il discorso di poco prima. – Forse è meglio se oggi pomeriggio studiamo ognuno per conto proprio. Ora che ci penso, ho un impegno con Jimin, e…
- Aspetta… questo, questo non cambia nulla – rispose fulmineo Taehyung, interrompendo nuovamente Jungkook. Quello, in risposta, lo guardò sollevando un sopracciglio, un’espressione stanca e annoiata a fargli incurvare lievemente gli angoli della bocca.
- ‘Nulla’ cosa? Cosa dovrebbe cambiare?
A quelle parole pronunciate in tono quasi tremolante, Tae non seppe più trattenersi. Non sapeva se fosse stata la domanda in sé a farlo scattare, o quella traccia di gelosia che continuava a campeggiare nelle sue iridi color pece, o la consapevolezza che senza Jungkook lui non sarebbe mai riuscito a smettere di pensare a Hoseok.
Disse solo – Questo – e si slanciò in avanti, catturando le sue labbra in un bacio deciso, e al contempo incerto. Un bacio che aveva paura di essere rifiutato, un bacio che aveva il sapore di tutte le insicurezze che Taehyung si portava cucite addosso da mesi. Jungkook inizialmente spalancò le palpebre per lo stupore, lo sguardo fisso sugli occhi chiusi con forza del ragazzo. Dopo pochi istanti, però, si rilassò, e fece scivolare le dita tra i corti capelli tinti di un insolito lilla chiaro di Taehyung. Rispose al bacio con trasporto, cominciando a picchiettare dolcemente con la lingua sulle sue labbra, come a chiedere il permesso di approfondire quel contatto tanto atteso. L’altro non se lo fece ripetere, e una volta che ebbe piazzato le mani sui fianchi stretti e asciutti di Jungkook, dischiuse le labbra, permettendo alle loro lingue di cercarsi, esplorarsi come due bambini che giochino insieme per la prima volta. Quel loro bacio era esattamente così: innocente, e allo stesso tempo passionale.
Taehyung pensò che forse avrebbe potuto vivere per sempre in quel bacio: dimentico di altre labbra che l’avevano fatto sentire a casa. Ora che ci pensava, i baci con Hoseok erano sempre stati diversi da quello con Jungkook: se quelli del primo lo riscaldavano da dentro, come un focolare che arde tranquillo, senza fretta di bruciare la legna che gli dà vita, quello che si stava scambiando con il secondo sembrava un volo in mezzo alle nuvole, che lo faceva salire, salire, salire, lo faceva andare vicino al sole, fino quasi a sfiorarne i raggi e diventare parte di essi.
Tae sperò che, a differenza di Icaro, le sue ali non fossero tenute insieme da fragile cera. In quel momento, però, decise di scacciare ogni pensiero di quel genere: avrebbe rischiato, come sempre, di rimanere scottato. Forse Jungkook avrebbe davvero saputo insegnargli a volare.
Ma naturalmente, poiché continuava a tenere le palpebre abbassate per godersi maggiormente il contatto con il ragazzo che gli stava accarezzando dolcemente i capelli, non poté vedere la sofferenza scritta a chiare lettere in un paio di sottili occhi scuri, i lineamenti di un viso dolce sconvolti dall’incredulità e dal dolore.
Sentì solo, come in lontananza, ovattato come in un sogno appena concluso, un sussurro rotto da quelle che potevano sembrare lacrime, anche se non avrebbe potuto giurarlo.
- Y-yoon… tra mezz’ora, so-solito posto…
Poi solo un rumore di passi concitati, del traffico che imperversava per le strade di Seoul, la sensazione delle dita sottili di Jungkook tra i suoi capelli.
 
***


Hoseok era rimasto immobile in mezzo al corridoio. Gli sembrava che le persone che gli camminavano attorno non fossero che ombre di una vita passata, vissuta da qualcun altro. Non faceva che ritornare con la mente a ciò che era successo poco prima, il ricordo come stampato a fuoco nella memoria in netto contrasto con l’annebbiamento che l’aveva colto quando era rimasto solo.
 
Stava guardando Taehyung correre via – correre via da lui – con occhi attoniti, senza avere il coraggio di dire o fare niente. Sentiva come una grande voragine aperta nel suo petto, che non si era mai davvero chiusa in quei mesi trascorsi senza di lui. Aveva sentito a mala pena le parole dei due ragazzi di fianco a lui, troppo occupato a darsi dell’idiota per ascoltarli; solo l’ultima frase pronunciata dal più piccolo lo riscosse.
- Allora ci vediamo stasera, Jiminnie – disse, avvicinandosi a lui per un frettoloso bacio sulla guancia. A quel punto, Hoseok decise che ormai era arrivato il momento di rischiare. Non era per niente sicuro che la sua idea avrebbe funzionato, ma d’altra parte, cos’aveva da perdere?
- Ehi, aspetta!
Il ragazzo si girò verso di lui con espressione dubbiosa. – Cosa c’è?
- Ehm… senti, devo chiederti un favore.
Quello – si chiamava Jungkook, se non sbagliava – lo guardò come a dirgli di proseguire, la voglia di andarsene da lì perfettamente intuibile nel nervosismo della sua postura. Hoseok però non si fece scoraggiare.
- Stai andando da V adesso, no? Ecco… io devo assolutamente parlargli: devi dirgli di aspettarmi questa sera nel posto.
Jungkook aveva un’espressione confusa, le sopracciglia aggrottate. – V? Posto? Di cosa stai parlando?
- Sì, V, Tae… è una storia lunga. Te digli semplicemente ‘il posto’, lui capirà.

L’altro incrociò le braccia al petto, mantenendo invariata la posa che aveva assunto pochi istanti prima. Hoseok però non poteva mollare: era troppo importante per lui, non doveva permettere che Jungkook si rifiutasse di fare quello che gli aveva chiesto.
- Non fare domande, ti prego. Basta che glielo dici. È importante, davvero. – Quando aveva detto quelle parole, si era avvicinato al ragazzo, afferrandogli un braccio con la mano sinistra. Percepì lo sguardo di Jimin perforargli la nuca, un paio di metri più indietro, ma in quel momento non gli interessava. – Mi prometti che lo farai?
Jungkook era lievemente stupito dall’irruenza di Hoseok, ma dopo alcuni secondi di silenzio che pesarono come piombo nel suo stomaco annuì con il capo, aggiungendo un – Sì, lo prometto – prima di dirigersi correndo nella direzione in cui era sparito Taehyung.

Troppo stordito da quello che era appena successo, si accorse a stento che Jimin si era allontanato, lasciandolo solo.
Meglio così. Era quello che si meritava.
 
Non seppe dire per quanto restò in quella posizione: secondi, minuti, ore forse. Il tempo gli sembrava come cristallizzato, la voglia di tornare indietro e cancellare i propri errori passati lo soffocava più che mai.
Bugie, bugie, bugie. Solo quello aveva raccontato a Taehyung: un sacco di bugie. E si pentiva di ogni singola menzogna che era uscita dalla sua bocca quel giorno, eppure... Eppure forse era meglio così.
Dopo quello che gli aveva fatto, Hoseok era convinto di non meritare più neanche un briciolo della sua comprensione, della sua fiducia, del suo amore. E allora perché voleva parlargli? Perché rischiare di incorrere in un rifiuto, o peggio ancora nel suo perdono, se sapeva di non avere speranze, anzi, di non meritarne?
Forse voleva solo dirgli finalmente tutta la verità, confessargli di non aver mai pensato nessuna delle parole che aveva pronunciato quando lo aveva lasciato. Sperava solo di non aver commesso un danno irreparabile: aveva visto il dolore nei suoi occhi, nella sua posa irrigidita dall’incredulità, nell’espressione sconvolta, quasi terrorizzata del suo viso che ricordava sempre allegro e sorridente.
Che cosa ho fatto?, si chiedeva quasi angosciosamente, la paura della risposta a martellare nelle sue vene insieme al sangue. V, il suo V, era forte, no? Ma chi poteva assicurargli che nel frattempo non fosse cambiato? E se le sue azioni avessero mutato per sempre Taehyung?
No, si rispose da solo, lui è più forte di quello che credi. Ce la farà. E se dovesse farcela senza di te, non avrà importanza. Basta che stia bene.
Basta che stia bene.
Che stia bene.
Stia bene.
Bene.
Sentì l’eco di quel pensiero sussurrato a se stesso spegnersi debolmente nei meandri della sua mente colma di domande, dubbi, inutili rimorsi. Poi sentì le ginocchia cedere. Sporse i palmi in avanti per evitare di sbattere la testa contro il pavimento, ma all’ultimo momento la forza lo abbandonò totalmente. Gli occhi gli si chiusero mentre perdeva i sensi in mezzo al corridoio.
 
***


Yoongi sapeva che era una cosa stupida, in fondo, ma in quel momento gli sembrava di vitale importanza.
Gli appunti di economia giacevano incustoditi sul suo banco, ne era certo, e lui doveva assolutamente recuperarli: voleva veramente che le parole che aveva detto a Namjoon diventassero realtà, voleva smettere di deluderlo. Gli voleva dimostrare di essere cambiato, che stava migliorando piano piano, e quegli appunti erano una parte fondamentale nella sua riabilitazione.
Quel pomeriggio, verso le sei, aveva fissato una seduta con lui. Namjoon aveva detto che sarebbe stata ‘speciale’, la luce che aveva visto baluginare nei suoi occhi era testimone dell’impazienza dello psicologo.
Di qualunque cosa si trattasse, Yoongi avrebbe reso Namjoon orgoglioso di sé.
Per questo stava correndo a perdifiato per il corridoio, fendendo la folla di studenti a forza di gomitate, quando sentì lo squillo di un cellulare.
Pensandoci meglio, il suo cellulare.
Lo sfilò dalla tasca dei jeans, rispondendo senza neanche leggere il nome scritto sul display.
- Y-yoon… tra mezz’ora, so-solito posto…
Riconobbe immediatamente la voce di Jimin, anche se era rotta dalle lacrime. Prima che potesse dire qualsiasi cosa, però, il ragazzo terminò la chiamata, spiazzando Yoongi. Cosa poteva essere successo per ridurre in quello stato Jimin?
Be’, una cosa è assolutamente certa, pensò ironicamente, qua c’è lo zampino di quell’idiota di Jungkook.
Non ebbe neanche il tempo di completare quel pensiero, che sentì un tonfo a un paio di metri di distanza da lui. Dev’essere in atto un complotto, si disse. Prima la chiamata di Jimin, poi un sacco di patate che crollava sul pavimento… Yoongi si girò nella direzione dalla quale aveva sentito provenire il tonfo, e quando vide cosa l’aveva generato, un pensiero lo colpì prima di tutti gli altri: ma quello steso per terra non era il logorroico compagno di banco di Jimin?
Non sapeva perché, ma qualcosa gli diceva che doveva aiutarlo. Però, se avesse dovuto perdere tempo con quel sacco di patate ormai-non-più-ambulante, avrebbe impiegato ben più mezz’ora a raggiungere Jimin al seminterrato-campo-da-basket.
Oh, fanculo gli appunti. Se Nam capisce quando sparo cazzate, capirà anche quando dico la verità.
E Jimin?
Yoongi scacciò quel pensiero con noncuranza: aveva imparato che quando aveva un impulso, un’‘intuizione’, come gli piaceva chiamare quella strana e improvvisa voglia di agire, di fare cose anche del tutto insensate ma che nella sua testa avevano la loro logica perfetta, doveva seguirla. Combatterla era una fatica inutile, e l’unico risultato che otteneva erano i suoi odiosi blackout. Yoongi, però, decise che non era il caso di aumentare le probabilità di un blocco: era ben più facile e proficuo aiutare il ragazzo steso per terra in mezzo al corridoio.
Si diresse a passo deciso verso di lui e si accovacciò, voltandolo in modo che il suo viso fosse rivolto verso il soffitto. Gli scosse una spalla, ma quello non diede segni di ripresa; era sicuro di aver fatto un paio di lezioni di primo soccorso alle scuole superiori, che comprendeva certamente una parte su ‘come aiutare qualcuno che si è appena accasciato per terra’, ma in quel momento non gli veniva assolutamente in mente come si facesse.
Cercava invece di ricordare il suo nome: era certo che Jimin glielo avesse detto almeno una volta, di questo era certo, ma come per i metodi per risvegliare qualcuno da una perdita dei sensi, non riusciva ad afferrare quel ricordo.
Per Yoongi due sole cose contavano in quel momento: aiutare il ragazzo steso per terra e raggiungere il seminterrato nel più breve tempo possibile. Fu il tempo di un attimo quindi, per lui, decidere di caricarsi il corpo dello svenuto in spalla e trascinarselo dietro in giro per Seoul fino al luogo in cui Jimin lo stava aspettando.
Naturalmente sperando di non avere un blackout sulla strada verso il seminterrato.
 
***


Cinquantaquattro minuti.
Erano passati cinquantaquattro minuti da quando Jimin aveva telefonato a Yoongi, e del ragazzo non si vedeva ancora neanche l’ombra. Cinquantaquattro minuti da quando aveva visto inavvertitamente quella scena che l’aveva scosso a tal punto da ridurlo nello stato pietoso in cui versava in quel momento.
Jimin si faceva pena da solo: era accovacciato contro una parete scrostata del seminterrato, le gambe raccolte al petto gli erano lentamente scivolate dalla presa delle braccia. Erano ricadute in maniera scomposta sul pavimento grigio, la destra lievemente più sollevata rispetto alla sinistra. La testa era ciondoloni su una spalla, come appesantita dalla sofferenza che avevano scatenato in lui le immagini di poco prima, ancora stampate a fuoco nella sua mente.
Jungkook ha… ha baciato un altro.
Il solo pensare quella frase gli provocava un dolore indicibile, che partiva dal petto e si irradiava nel resto del corpo, come un nero veleno che veniva pompato insieme al sangue da quel suo cuore tanto debole, tanto frammentato, calpestato. Anche se sapeva che era un atto di puro masochismo, non faceva che riprodurre ancora e ancora nella sua mente la scena di cui era stato spettatore: le mani di Jungkook infilate tra i capelli di quel ragazzo, un corpo estraneo premuto su quello puro e innocente del suo Kookie.
Mani che lo aveva accarezzato quando era giù di morale, mani che si posavano sul suo braccio ogni volta che Jungkook voleva dirgli qualcosa.
Corpo che aveva abbracciato nei momenti di maggiore sconforto, quando faceva freddo e il plaid non bastava a riscaldarlo a sufficienza, quando era felice o orgoglioso di lui.
Tuo? Davvero? Ma chi vuoi prendere in giro?
Cinquantacinque minuti.
Jimin socchiuse lievemente le palpebre. Yoongi non arrivava: forse aveva avuto un contrattempo, forse era impegnato o stava facendo una delle sue sedute con Namjoon. Non è stata una grande idea buttare giù prima che potesse risponderti, eh?
Rivisitò per l’ennesima volta le immagini risalenti a poco meno di un’ora prima. Vedere Jungkook così vicino a quello sconosciuto, baciarlo, era stato… Jimin non sapeva bene come definirlo: devastante? Scioccante? Terribile? Un pugno nello stomaco avrebbe fatto decisamente meno male, e di sicuro gli avrebbe provocato meno nausea di quella che provava in quel momento.
Si portò una mano alla faccia, passandosela davanti agli occhi per poi farsela ricadere in grembo con stanchezza. Quanto avrebbe dovuto aspettare ancora prima che Yoongi arrivasse? Ma in fondo, sarebbe cambiato qualcosa?
Forse, forse aveva solo bisogno di una presenza amica in quella situazione che lo stava schiacciando. Jimin sapeva che sarebbe bastato poco: una scintilla di speranza, meno di una flebile fiammella, e lui sarebbe ripartito in quarta per riprendersi il suo ragazzino. Ma se l’amico non fosse arrivato presto a riaccendere quella fiamma… Jimin non voleva pensare a cosa sarebbe successo.
Cinquantasei minuti.
Un rumore tintinnante di chiavi risvegliò Jimin dal suo cupo torpore. Prima che potesse fare ipotesi su chi fosse – non che ci fosse molto da ipotizzare: lui e Yoongi erano gli unici che ancora usavano quel palazzo mezzo diroccato – il ragazzo semi disteso per terra vide la figura dell’amico spuntare dalla porta del seminterrato. Aveva il fiatone, come se avesse corso per arrivare fin lì o come se avesse portato un grosso peso per chilometri. Fu in quel momento che si accorse che il rosso non era solo: un paio di braccia a lui note erano attorno al suo collo, la faccia schiacciata grottescamente su una spalla del ragazzo, gli occhi chiusi. Jimin si chiese se stesse dormendo, ma gli sembrava improbabile che Hoseok – l’aveva riconosciuto solo grazie al suo viso che sbucava da dietro la schiena di Yoongi – stesse schiacciando un pisolino addosso al suo migliore amico.
I suoi occhi ancora lucidi di lacrime incrociarono quelli del ragazzo dai capelli rossi, che esprimevano urgenza, paura, e fatica. Tanta, tanta fatica.
- Ji… Jimin… do-dovevo aiutarlo, ma… pesa…
Pronunciando l’ultima parola, Yoongi depose senza troppa delicatezza Hoseok sul pavimento del seminterrato, facendogli poggiare la testa contro una parete. A causa dello scossone a cui il ragazzo fu sottoposto per colpa della scarsa cura usata da Yoongi, il retro della sua nuca rimbalzò un paio di volte, prima di ricadere con mala grazia sulla sua spalla destra.
Yoongi fece un sospiro di sollievo, accasciandosi di fianco a Jimin prima di chiedere in modo diretto: - Allora, cos’ha combinato questa volta?
Entrambi sapevano perfettamente a chi si stava riferendo, ma il ragazzo dai capelli corvini non aveva più tanta voglia di parlare di quello che aveva visto. Sapeva che avrebbe sofferto di più, ma… se voleva un aiuto, doveva lasciarsi aiutare, e l’unico in grado di farlo era Yoongi. Prima di aprire bocca, in ogni caso, voltò il capo dalla parte opposta dell’amico, in modo che non vedesse le lacrime che sicuramente sarebbero salite a inumidirgli gli occhi sottili.
- Era venuto a cercarmi per dirmi che andava a studiare da… da un amico, - cominciò, sentendo già un lieve rossore inondargli le guance: gli succedeva sempre quando era in procinto di piangere – solo che poi il suo amico è corso via… c’era anche lui. – Dicendolo, indicò con un cenno del capo Hoseok, che giaceva ancora svenuto poco distante da loro. Forse avrebbero dovuto trovare il modo di risvegliarlo, prima o poi. In quel momento, però, Jimin aveva altro a cui pensare. – Allora Kookie l’ha rincorso, e io gli sono andato dietro per capirci qualcosa in più, ma… ma quando sono arrivato… - Jimin dovette fermarsi un attimo: deglutì pesantemente, facendo andare su e giù il pomo d’Adamo, e fece qualche respiro profondo. Dopo un paio di secondi, percepì la mano fredda e pallida di Yoongi sfiorargli un braccio con delicatezza; Jimin sapeva che l’altro non era particolarmente a suo agio quando si trattava di contatto fisico, e gli fu grato per quelle timide e confortanti carezze, perché sapeva che gli erano costate care.
- Quando sono arrivato, Jungkook e… e il suo amico si… si stavano… - Jimin serrò gli occhi con forza, cercando di concentrarsi solo sul movimento lento e costante della mano di Yoongi per calmarsi e andare avanti. - Ba… baciando.
L’ultima parola fu meno di un sussurro, ma Yoongi era abbastanza vicino da sentirlo, e non appena vide le prime lacrime silenziose fare capolino sulle guance paffute di Jimin, il ragazzo fece un qualcosa che lasciò l’amico sbalordito.
Le sue braccia scivolarono lente attorno alle spalle di Jimin, fino a circondarle in quello che si poteva definire un abbraccio a tutti gli effetti. E fin qui, nulla di strano: a parte il fatto che Yoongi non lo aveva mai abbracciato per consolarlo. Avevano giocato a basket per ore, gli aveva urlato contro, l’aveva sbeffeggiato, ma mai, mai, lo aveva abbracciato.
E l’unico pensiero che passò per la mente di Jimin fu: Certo che allora devo essere proprio messo male.
Ciò che disse, però, non aveva bisogno di essere pensato: era una domanda che vagava nella sua testa da un’ora, ormai. Non lo colpiva a raffica come le immagini del ragazzo di cui era innamorato avvinghiato a un altro, restava lì, immobile e silenziosa, senza farsi notare, eppure facendo pesare la sua presenza invisibile come un’oscura zavorra.
- Yoon, perché sono così debole? Perché fa tutto così male?
Il ragazzo dai capelli rossi continuò a guardare dinanzi a sé, accarezzando di tanto in tanto l’amico mentre gli rispondeva. – Tu non sei debole: se fosse così, ti saresti già arreso da tempo. Sei molto più forte di quello che credi, e tu combatterai per quello stupido marmocchio, io lo so. – Quelle parole dette con un affetto fraterno che quasi stonavano in bocca a Yoongi riscaldarono Jimin da dentro, e fu lì che la sentì: la fiammella che solo il suo amico avrebbe saputo riaccendere che riprendeva vita, bruciando lentamente.
- E poi, ricorda la mia fantastica idea – aggiunse infine, un attimo prima che un lamento lo interrompesse. I due si voltarono contemporaneamente verso la fonte del rumore, che altri non era che Hoseok: probabilmente stava riprendendo conoscenza.
I due ragazzi abbracciati guardarono preoccupati il ragazzo alla loro sinistra, che stava lentamente sollevando le palpebre, producendo con le ciglia delle ombre bizzarre sulle proprie guance. Fece un mugolio di fastidio e scosse la testa a destra e a sinistra, poi riaprì definitivamente gli occhi. Prima di qualsiasi altra emozione, Jimin e Yoongi vi lessero confusione e paura, ma prima che potessero dire qualunque cosa Hoseok si ritirò contro la parete, chiedendo con voce acuta e spaurita: - Ehi, ma… ma voi chi siete? Dove sono? Come sono arrivato qui?
Jimin fece un sorriso gentile, e dopo essersi liberato dalla presa fraterna dell’amico si avvicinò all’altro ragazzo. – Hoseok, sono Jimin, il tuo compagno di banco. Non devi preoccuparti, sei in un luogo sicuro…
- Sicuro? Cosa vuol dire che sono in un luogo sicuro? Cos’è questo posto? – continuò insistente il ragazzo, un’espressione ancora colma di confusione e diffidenza dipinta in viso, le mani come ancorate al pavimento spostate dietro di sé.
- Ehm… questo è una specie di campo da basket, e tu sei qui perché… - Jimin fece una pausa di riflessione, poi si voltò incuriosito verso Yoongi, che nel frattempo si era alzato. – Perché lui è qui?
Il ragazzo dai capelli rossi lo guardò con occhi inespressivi, incrociando le braccia la petto e stringendosi nella giacca a vento blu scuro. – Se non l’avessi fatto avrei rischiato un blackout.
- Blackout…? Fatto cosa? Cos’è successo? – fece ancora Hoseok con la sua voce stridula, ma tutta la voglia di fare domande scemò non appena vide l’occhiata raggelante che Yoongi gli stava rivolgendo con gli occhi attenti e inquieti.
- Uno: non sono affari tuoi. Due: tu sei svenuto in mezzo a uno dei corridoi dell’università, per una fortuita coincidenza io ero lì e ti ho raccolto prima che qualcuno ti calpestasse accidentalmente, quindi ti ho trascinato per mezza Seoul fino a qui. – Pronunciando l’ultima parola, il ragazzo lanciò una lunga occhiata d’insieme all’ambiente all’interno del quale si trovavano, poi tornò a fissare con sguardo impassibile Hoseok. – Soddisfatto della spiegazione?
Hoseok abbassò lo sguardo sul pavimento, e tutto d’un tratto s’irrigidì, come se qualcosa nelle parole di Yoongi avesse azionato un qualche meccanismo che gli aveva fatto tornare immediatamente la memoria. Rimase per qualche istante in quella posizione, gli occhi di Jimin – che aveva seguito la scena con apprensione – puntati su di lui, mentre quelli di Yoongi vagavano su per il soffitto senza una meta precisa.
- Dov’è V? – chiese poi con voce tremula Hoseok, spiazzando i due ragazzi dinanzi a lui. Il rosso sollevò un sopracciglio, perplesso, e lanciò uno sguardo dubbioso a Jimin. Quello, però, ricordando la conversazione di poco più di un’ora prima, si rabbuiò, producendosi in un sussurro diretto a Yoongi. – L’amico.
Hoseok lanciò nuovamente loro un’occhiata perplessa, ma il suo sguardo venne immediatamente catturato da un altro particolare: Yoongi, che si era posizionato davanti a loro con i palmi premuti saldamente sui fianchi, li guardava con un misto di sconsolatezza e ilarità.
- Cioè, ricapitolando. Te corri dietro a quel cretino di Jungkook, – fece guardando severamente Jimin, che abbassò gli occhi sulle ginocchia come un bambino che venga sgridato per una marachella – mentre tu, - disse spostando la sua attenzione su Hoseok – muori dietro all’altro tipo, V. – Yoongi fece una lunga pausa, sospirando mentre scuoteva la testa. – Ma vi rendete conto in che casino vi siete cacciati?
A quella domanda, nessuno dei due ragazzi seduti contro la parete aveva una risposta soddisfacente.
Mi servirà un aiuto per realizzare la mia idea. Un aiuto molto grosso.
Ma Yoongi sapeva già a chi rivolgersi.







Angolo autrice (parte 2):
Allora, che ne pensate di questo secondo capitolo? Questi vkook vi convincono? Oppure no? E quale sarà questa misteriosa idea di Yoongi? So che alcuni volevano l'incontro tra i Namjin e Yoongi già in questo capitolo, ma... dovrete aspettare il prossimo, mi dispiace.
Colgo l'occasione per ringraziare tantissimo tutti quelli che seguono, preferiscono e recensiscono: vi amo tutti, nessuno escluso! Siete già tanti, e sono davvero felice che questa storia vi piaccia tanto. Come al solito, se lasciate una recensione mi fa molto molto piacere, e... niente, ci rivediamo tra una ventina di giorni con il terzo capitolo!
Ireth

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Capitolo 3
*** Walkin' on tightrope ***


Angolo autrice:
Ed eccomi qui, ancora una volta! Avrei dovuto aggiornare tra un paio di giorni, ma domani parto per Napoli e temevo che altrimenti vi avrei lasciati senza capitolo... come sono brava, dai ammettetelo. Adesso, però, basta: vi lascio a questa fantasmagorica storia.





 


Walkin' on tightrope







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Le nuvole si stavano lentamente diradando, lasciando intravedere qualche spicchio del cielo color indaco di Seoul. Il sole era quasi tramontato, donando una sfumatura malinconica alla capitale, che in quell’orario si vedeva attraversata dagli uomini e dalle donne che avevano terminato il proprio lavoro e che potevano finalmente tornare a casa.
Kim Namjoon guardò l’orologio d’acciaio che ticchettava pazientemente sul suo polso: mancava poco meno di mezz’ora all’inizio della seduta con Yoongi, ma lui era già nel suo studio.
L’uomo sorrise osservando la stanza nella quale si trovava: le pareti erano di un colore indefinito tra l’arancio e il crema, che donava un’atmosfera di serena allegria all’ambiente. Al centro c’era un tavolino da caffè dello stesso legno scuro e lucido di cui era fatta la sua scrivania, senza un solo granello di polvere a sporcarne la superficie. Nell’angolo in alto a destra di quest’ultima riposava un plico di fogli bianchi, fiancheggiato dall’agendina nera sulla quale annotava gli appuntamenti con i suoi pazienti; a sinistra c’era invece un piccolo contenitore di vimini dalla forma cubica nella quale metteva le penne per scrivere. A circa un metro dalla scrivania, ai due lati del tavolino da caffè, c’erano un divano e un paio di poltrone che erano colorate di diverse sfumature di giallo e arancione pastello.
Qualcuno bussò, e Namjoon si alzò dalla sedia girevole di pelle nera su cui era seduto per andare ad aprire la porta: già sapeva chi stava per entrare nel suo studio, ma non era Yoongi. Una volta arrivato alla porta, posò la mano sulla maniglia e tirò verso di sé, sorridendo quando vide davanti ai suoi occhi il viso dolce e comprensivo di Seokjin.
- Ciao amore – lo salutò Namjoon, subito prima di lasciar entrare il professore nel suo studio e aver chiuso la porta dietro la propria schiena. Seokjin camminò in direzione della finestra coperta ai lati dalle tende chiare, poi si fermò davanti al vetro e vi poggiò una mano, pensieroso. Lo psicologo lo osservò corrucciato, raggiungendolo dopo pochi istanti.
- C’è qualcosa che non va? – gli chiese poggiandogli una mano sulla spalla. Quello mise la sua su quella di Namjoon, incrociando lo sguardo dell’altro riflesso sul vetro della finestra. Rimasero in quella posizione per un tempo indefinito, come cristallizzati in quella situazione di stallo: nessuno dei due aveva il coraggio di fare il passo successivo.
Fu Seokjin a rompere il silenzio che si era venuto a creare. – Credo… di avere un po’ di paura.
Namjoon aggrottò le sopracciglia. – Paura? E di cosa? – domandò con voce dolce, avvicinandosi ancora un po’ al compagno.
Seokjin si voltò, abbassando lo sguardo per non incrociare quello dell’uomo dinanzi a lui, timoroso di qualcosa che l’altro non riusciva a comprendere. Lo guardava preoccupato, e in un certo senso curioso: non capiva da cosa potesse essere spaventato.
- Be’, tu hai detto che hai un rapporto… in un certo senso… speciale, con questo tuo paziente. – Seokjin iniziò a giocherellare con il braccialetto d’argento che portava sempre al polso, segno che era nervoso e insicuro di ciò che stava per dire. – E se… se io non… oh, è una cosa così stupida da dire.
Namjoon mise due dita sotto il mento di Seokjin, sollevandogli il viso in modo da poterlo guardare negli occhi mentre gli parlava. – Nulla di ciò che dici è stupido, Jin. Sai che puoi dirmi tutto, dai – gli disse sorridendogli incoraggiante, e finalmente vide una scintilla di quella che probabilmente era fiducia in se stesso correre negli occhi dell’uomo dai capelli castani accompagnato da un lieve sorriso sulle labbra rosee.
- Mi stavo chiedendo… e se io non gli piacessi? Se mi odiasse o magari credesse che la mia presenza limiti i vostri discorsi e…
A quelle parole, Namjoon scoppiò a ridere, guadagnandosi un’occhiataccia da parte del professore, che incrociò le braccia al petto in segno di protesta e riabbassò lo sguardo sulla punta delle proprie scarpe. L’uomo dinanzi a lui, però, lo colse alla sprovvista, afferrandolo per i fianchi e portandolo di scatto contro di sé. – Scherzavo, mi pare evidente che tu possa dire sciocchezze – disse con voce quasi derisoria, un sorriso beffardo a illuminargli di una strana luce il volto pallido. Seokjin, che aveva riportato lo sguardo su Namjoon per la sorpresa, lo guardò come se avesse il potere di incenerirlo con la forza del pensiero.
- Va bene, rettifico: dici sempre cose intelligenti, furbe e molto sensate…
- Così va già meglio – lo interruppe lanciandogli un’occhiata compiaciuta ma ancora venata di stizza.
- …solo che quella che hai appena detto lo era un po’ meno. Lasciami spiegare, per cortesia – aggiunse Namjoon vedendo il fastidio ricomparire sul viso del compagno. - Adesso tu dimmi, luce dei miei occhi, come potresti non piacere a qualcuno? – disse con voce dolce e suadente, cogliendo nuovamente di sorpresa Seokjin, che arrossì. Cercò di distogliere lo sguardo da quello di Namjoon, che però gli mise una mano sulla guancia e lo tirò un po’ più vicino. – Sei bellissimo, hai un cuore d’oro, ti faresti in quattro per le persone a cui tieni. Metti tutto te stesso in ogni cosa che fai, se non riesci riprovi, finché non ottieni ciò che vuoi. Sei la cosa più perfetta che abbia mai calpestato il suolo di questa terra, come puoi anche solo immaginare di poter risultare sgradito a qualcuno?
Quando Namjoon concluse, un breve silenzio calò sulla stanza, come una calda coperta stesa su di loro per proteggerli dal mondo esterno. Furono solo pochi secondi, sufficienti perché Seokjin abbandonasse ogni rancore, per poi sussurrare un – Ti amo – più leggero del battito d’ali di una farfalla e sollevarsi appena sulla punta dei piedi per incontrare le labbra dell’uomo che amava ormai da anni.
Succedeva non di rado che Seokjin avesse questo genere di insicurezze. Pur essendo uno stimato e brillante professore alla Korea University di Seoul, - il più giovane probabilmente - pur avendo un’intelligenza fuori dal comune e godendo dell’ammirazione di tutti coloro che lo conoscevano, spesso aveva dei dubbi sul fatto di piacere le persone. Non si trattava solo del piano fisico, no: su quello Namjoon aveva lavorato abbastanza affinché non dimenticasse mai di essere di una bellezza mozzafiato. Aveva il timore che alle persone non piacesse il suo carattere, che il minimo passo falso lo avrebbe per sempre allontanato da tutti. A volte sembrava quasi che stesse camminando su una fune invisibile, con la paura di guardare sotto di sé e non trovare la rete pronta a sorreggerlo se fosse caduto.
Era per questo che Namjoon era così importante per Seokjin, era per questo che lo amava e l’avrebbe sempre fatto: era la sua rete, era la sua salvezza quando credeva di non avere speranze, la sua luce quando brancolava nel buio. Ed era a questo che serviva quel bacio colmo di tenerezza: a ricordare a Seokjin di poter sempre contare su qualcuno, anche in mezzo a tutti i suoi dubbi.
Le mani di Namjoon si erano lentamente spostate dai suoi fianchi alla schiena, la accarezzavano con una delicatezza che decrebbe mano a mano, lasciando spazio a una decisione estranea a loro fino a quel momento. Seokjin, dal canto suo, aveva agganciato il colletto della camicia di Namjoon e lo stava attirando – se possibile – ancora più vicino a sé. Le loro lingue, da calme e lente, erano diventate voraci e passionali, si esploravano a vicenda con una confidenza propria solo a chi si ama davvero e non ha alcun timore di dimostrarlo. Dopo un tempo indefinito, però, fu inaspettatamente Seokjin a spingere per avere di più: spinse le sue dita oltre il confine della camicia, andando a sfiorare la morbida pelle sul retro del collo di Namjoon, che si lasciò sfuggire un mugolio di piacere a quelle carezze più decise…
Poi sentirono la porta aprirsi, e una testa rosso fuoco sbucò dallo spiraglio appena creatosi. Il ragazzo rimase immobile, mantenendo un’espressione impassibile – anche se era segretamente divertito – mentre osservava gli sguardi allucinati e imbarazzati rispettivamente appartenenti a Seokjin e a Namjoon. Il primo aveva ritirato le mani con una velocità di cui non si sarebbe mai creduto capace, cacciandole nelle tasche dei pantaloni neri di stoffa, mentre il secondo si era allontanato notevolmente dall’altro, facendo guizzare gli occhi da Seokjin a Yoongi senza sapere quale fosse l’opzione peggiore.
- Sì, questo è decisamente poco professionale… - sussurrò poi, passandosi una mano tra i capelli quasi bianchi, poco prima di essere interrotto dalle parole di Yoongi, ancora sulla soglia dello studio.
- Era questo il motivo per cui questa seduta sarebbe stata speciale? – chiese infatti, l’ombra di una risata divertita nascosta tra le labbra. Seokjin arrossì visibilmente, infossando la testa nelle spalle come per scomparire o, come minimo, ridurre notevolmente le proprie dimensioni in modo da diventare invisibile. Namjoon, invece, recuperò in fretta la propria allegria, e dopo aver sussurrato qualcosa all’orecchio di Seokjin portò la propria attenzione su Yoongi.
- In effetti sì. – Dopo aver pronunciato quelle parole, afferrò saldamente la mano del compagno e lo guardò amorevolmente, proseguendo - Lui è Seokjin, il mio…
- Professor Kim? – disse incredulo il ragazzo, inarcando un sopracciglio.
Namjoon non sapeva se guardare Yoongi o l’uomo accanto a lui, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa quest’ultimo disse con lo stesso tono del ragazzo: - Min Yoongi? – Poi si voltò verso Namjoon, posizionando la mano libera sul proprio fianco in una posa che voleva essere vagamente inquisitoria. - È lui il paziente che volevi presentarmi?
- Sì, ma non vedo come questo possa costituire un probl…
Prima che lo psicologo potesse completare la sua frase, i due lo interruppero dicendo allo stesso tempo – E’ un mio alunno – e – E’ un mio professore.
Namjoon li guardò dubbioso, grattandosi il mento con un’espressione indecisa dipinta in volto. – Mh… be’, cominciamo a chiudere la porta e ad accomodarci – disse infine, per poi andare a chiudere la porta facendo segno a Yoongi di entrare nello studio e andando a sedersi sul divanetto di fronte al tavolino.
Yoongi lo seguì, scegliendo però una delle due poltrone. Come era facilmente intuibile, Seokjin prese posto di fianco a Namjoon, il quale, non appena tutti si furono accomodati, si schiarì la voce.
- Dunque. Questa potrebbe essere una situazione un po’ complicata, ma io sono convinto che tu – disse rivolgendosi a Yoongi – sia abbastanza maturo da comprendere che la vostra conoscenza non interferirà in alcun modo con la tua vita scolastica, nel bene e nel male.
Il ragazzo dai capelli rossi annuì impercettibilmente, giungendo le mani pensieroso mentre appoggiava i gomiti sulle ginocchia, le gambe divaricate che gli facevano da sostegno.
- Sì, state tranquilli… non c’è pericolo – aggiunse con un vago sorrisetto a solcargli l’espressione quasi impassibile del viso. Poi chiuse gli occhi, cercando di non pensare alla presenza del secondo uomo in quella stanza. Naturalmente non riuscì nel suo intento. Se in un primo momento quella situazione lo aveva divertito, adesso ne era letteralmente terrorizzato. Migliaia di domande presero ad affollargli la mente in contemporanea: perché Namjoon voleva fargli conoscere quella persona? E se non gli fosse piaciuto? E se avesse pensato che era troppo… troppo strano? Aveva deluso tante persone, perché la cosa sarebbe dovuta essere diversa con lui?
Strinse gli occhi con più forza, contraendo la mascella fino a far scricchiolare in maniera sinistra i denti. Seokjin fece un movimento nervoso, ma Yoongi non poteva accorgersene, immerso nei suoi dubbi e nelle mille incertezze che lo stavano logorando. Percepiva le prime lacrime salirgli agli occhi ancora serrati dietro le palpebre, cercò di ricacciarle indietro ma quelle non volevano ascoltare, continuavano a spingere per uscire. Era una lotta con un solo possibile vincitore, quella contro le lacrime, e Yoongi lo sapeva bene, eppure continuava a combattere contro l’impulso che gli urlava piangi Yoongi! Piangi!
No! No! Non posso… non posso…
E mentre si ripeteva quelle parole, senza che neanche se ne rendesse conto, le sue nemiche avevano già vinto. Gli occhi ancora chiusi lasciavano passare una lieve scia di quelle che sì, erano lacrime, e gli stavano rigando il volto assolutamente contro la sua volontà. Premette con maggior forza le mani davanti al suo viso, il capo abbassato.
Poi, senza alcun preavviso, un paio di braccia a lui sconosciute lo avvolsero come una coperta. Yoongi pensò che gli ricordavano una di quelle copertine di lana che gli aveva cucito sua nonna quando era bambino. Immediatamente fu pervaso da una sensazione familiare, senza che vi fosse una reale ragione, e si accasciò contro quel corpo che sembrava volerlo proteggere dai mostri che si portava dentro da sempre, da quella sensazione di essere sempre in bilico sulla lama di un coltello, senza sapere cosa sarebbe successo se fosse caduto.
La scena si svolse sotto lo sguardo intenerito di Namjoon, che era probabilmente l’unico a rendersi conto di ciò che stava avvenendo.
- Ehi… va un po’ meglio adesso? – chiese con voce calda e dolce Seokjin. Non appena Yoongi si accorse di chi lo stava abbracciando, cercò di ribellarsi, di liberarsi da ciò che in quel momento gli stava dando sicurezza, sì, ma poi? Lui aveva bisogno di costanti nella sua vita, e la felicità non era una costante. Il campo da basket era una costante. Jimin era una costante. Le sue sedute con Namjoon erano una costante. La felicità no, e l’aveva imparato a sue spese. L’uomo, però, lo strinse maggiormente a sé, costringendolo a stare fermo.
- Puoi piangere, se vuoi. Non so perché lo stai facendo, ma sono sicuro che dopo andrà meglio.
Yoongi sollevò lo sguardo, incredulo, mentre Namjoon rimaneva sullo sfondo, commosso spettatore di una scena triste e incredibilmente meravigliosa allo stesso tempo. Il ragazzo dai capelli rossi rimase immobile, fissando attonito l’espressione rassicurante di Seokjin: poteva piangere? Davvero?
- P-perché me lo stai dicendo? – La voce gli uscì tremula, gli occhi che non riuscivano a staccarsi dal viso del professore.
- Perché è quello che penso. Perché è quello che dovrebbero fare tutti. Ci sono momenti nella vita in cui le lacrime sono la cosa giusta. Piangere non è una vergogna.
Yoongi abbassò il capo, stringendo i pugni contro il petto di Seokjin senza volerlo davvero allontanare. – No… non dire così, non cercare di farmi stare meglio…
- Perché?
- Perché… perché tu sarai solo una persona in più da deludere. Come deludo sempre lui, - proseguì, indicando Namjoon con un cenno della testa – come ho deluso la mia famiglia, i miei amici, come deluderò sempre tutti…
- No.
Una voce ferma e roca interruppe la cascata di parole di Yoongi, che si voltò insieme a Seokjin verso la persona che aveva pronunciato quell’unica sillaba. Namjoon li stava guardando con un misto di dolcezza e fermezza, le gambe accavallate che reggevano il suo gomito.
- Abbiamo parlato diverse volte di questo. Tu non sei una delusione, devi toglierti dalla testa quest’idea, nonostante ciò che le persone possono averti detto in passato. Non hai colpe se sei diventato la persona che sei ora.
- Namjoon ha ragione – rincarò Seokjin, riprendendo a guardare Yoongi. – Io non ti conosco ancora, ma sono quasi del tutto certo che tu sia una persona fantastica e altruista. – A quelle parole Yoongi lo guardò interrogativo, senza capire come avesse tratto quelle conclusioni in quei pochi minuti. - Una persona egoista non piangerebbe mai perché ha paura di deludere chi gli sta intorno, e tu l’hai fatto. Se noi volessimo effettuare la dimostrazione del fatto che tu sia una persona fantastica e altruista applicando il ragionamento per assurdo, definirti una cattiva persona costituirebbe un paradosso, in quanto le persone davvero cattive non piangerebbero per i motivi elencati nell’ipotesi che compone il nostro punto di partenza. Segue che tu devi per forza essere una persona fantastica e altruista.
- Come volevasi dimostrare – concluse infine Namjoon.
Yoongi li guardò allibito per qualche istante, poco prima di scoppiare a ridere fragorosamente, le lacrime ancora incastrate tra le ciglia e in mezzo alle pieghe della pelle formatesi sul suo viso mentre continuava a ridere. – No, ti prego, dimmi che non mette sempre la matematica in mezzo a tutto – riuscì a dire tra una risata e l’altra.
Al che Namjoon si ritrovò a rispondere divertito: - Ebbene sì. Vivo con questo folle che sarebbe in grado di trovare la matematica anche nelle margheritine.
- Ehi, guardate che i petali delle margherite sono disposti secondo il principio della serie di Fibonacci! – gli rispose risentito il professore.
- Che ti avevo detto? – fece Namjoon, lanciando un’occhiata d’intesa a Yoongi, che riprese a ridere più forte di prima.
I due uomini guardarono quel ragazzo dai capelli fiammeggianti, pensando inconsapevolmente la stessa cosa: era così terribilmente simile a un bambino, un bambino felice, e si sentirono segretamente molto soddisfatti per essere stati la causa di quella sua reazione.
- Be’, qualche difetto dovrò pur averlo, no? – disse Seokjin, poco prima di seguire Yoongi nella sua risata incontrollata. Naturalmente, lo psicologo ci mise ben poco a essere trascinato da quella strana sensazione di allegria che aveva pervaso il suo studio.
Dopo un tempo che a tutti e tre sembrò infinito, Yoongi frenò il suo entusiasmo e recuperò un minimo di contegno. Poi, guardando con espressione complice i due uomini, fece loro segno di avvicinarsi con il viso a lui. Prima di iniziare a parlare, si schiarì brevemente la voce.
- Nam, professor Kim… aspetta, posso chiamarti Jin quando non siamo a lezione? È più corto.
- Sì, certo – rispose il professore, curioso di scoprire cosa avesse intenzione di dire loro il ragazzo.
- Ho bisogno del vostro aiuto per organizzare una cosa… mi serve uno spazio grande, abbastanza da ospitare una specie di… festa. Anzi, togliamo una specie, proprio una festa. Dovrà venire parecchia gente, di modo che noi possiamo mettere in atto il nostro piano senza farci notare da coloro che il nostro piano dovrà coinvolgere. Inizialmente pensavo di chiederlo solo a Nam, ma più si è, meglio è. Allora, siete con me?
Yoongi guardò speranzoso i due uomini dinanzi a lui, che – senza sapere perché, senza sapere dove li avrebbe portati quella decisione – annuirono, sentendosi più giovani di quanto non fossero, come se avessero ancora un mare di possibilità davanti a loro e un futuro pieno di follie che li attendeva dietro l’angolo.
Chiunque li avesse visti in quel momento, avrebbe detto che sembravano una famiglia.
 
***


Era ormai calata la sera sulla capitale sud-coreana, il cielo aveva preso un colore quasi tendente al nero, punteggiato qua e là dalle stelle che sbucavano dalle nuvole rade.
Hoseok si guardò intorno. Il giardinetto in cui si trovava non era cambiato granché in quei mesi – mesi, ripensò con amarezza – che erano passati dall’ultima volta che vi aveva messo piede. Lo scivolo d’acciaio era sempre lì, la scaletta pitturata di verde era sempre piena di crepe nella vernice, i cavalli a molla erano lievemente più scoloriti di come se li ricordava, l’altalena rossa aveva sempre le catene del sellino di destra lievemente più corte rispetto a quelle di sinistra. A pochi metri di distanza da quest’ultima c’era un salice piangente, con i rami quasi del tutto spogli che sfioravano l’erba forse un po’ troppo alta che ricopriva il parco giochi.
Hoseok si diresse verso quell’albero, scostando i rami pendenti e facendo cadere qualche foglia rossiccia mentre andava a sedersi contro il tronco.
Poi si mise ad aspettare.
Appoggiò pesantemente la testa all’indietro, per poi chiudere gli occhi. Oh, ora andava meglio. Poteva percepire meglio quel lieve venticello attutito dai rami spioventi del salice, il rumore rilassante e costante delle macchine che sfrecciavano lungo la strada che correva di fianco al giardinetto, il freddo dell’autunno inoltrato che gli arrossava le guance e il naso, il suono indistinto e al contempo nitido dei ricordi che aleggiavano in quel luogo.
Era quello ‘il posto’, quello di cui aveva parlato a Jungkook. Quello non era un semplice giardinetto, era il loro giardinetto, suo e di Taehyung.
Ricordò con un misto di tristezza e tenerezza che proprio sotto quel salice si erano dati il loro primo bacio, ripensando a quante cose erano cambiate da quel giorno. Una volta erano solo due ragazzi spensierati, con un pizzico di follia – la follia dei giovani che credono di essere padroni del mondo, che parlano con il cuore in mano anche se hanno paura delle conseguenze delle proprie azioni. Che strano periodo: insicurezze e presunzioni si mischiano in un’unica cosa.
Chi l’avrebbe mai detto che Hoseok, un giorno, si sarebbe ritrovato da solo sotto quel salice? Chi l’avrebbe mai detto che le cose sarebbe andate così?
Non aveva una risposta, quel ragazzo che continuava a tenere ostinatamente gli occhi chiusi, pur sapendo che rammentare ciò che quel luogo significava per lui voleva dire soffrire.
Ripensava ai suoi momenti felici con Taehyung. Sorrise ironicamente, sbuffando con il naso e producendo una nuvoletta di vapore davanti a sé: quel ragazzo strambo dai capelli lilla aveva una passione spropositata per la fotografia. Una volta era arrivato di filata, proprio in quel giardinetto, e gli aveva detto ancora con il fiatone: “E’ una giornata perfetta per scattare qualche foto!”
Pioveva.
Avevano passato delle ore fotografando ogni minimo particolare di quel giardinetto, e la pioggia faceva da poetica cornice a quello scenario conosciuto, Hoseok aveva dovuto concederlo al suo ragazzo. E mentre Taehyung era tutto preso da quel filo d’erba o da quell’altra giostra, il ragazzo più grande non faceva che guardarlo, con il suo entusiasmo, le facce buffissime che gli increspavano il viso quando si concentrava, i capelli che gli aderivano scomposti sulla fronte e sul collo, era semplicemente bellissimo.
Hoseok rabbrividì, stringendosi le gambe al petto circondandole con le braccia. Si soffiò sulle mani per riscaldarle, per poi farle scomparire nelle maniche della giacca e farle aderire nuovamente alle ginocchia. Cominciava a fare davvero freddo.
Guardò l’ora dallo schermo del telefono: erano le dieci. Era lì già da un’ora, ma di Taehyung non si vedeva neanche l’ombra. Rimise il telefono in tasca. Forse avrà avuto un contrattempo.
Improvvisamente una voce acuta – probabilmente di una bambina – lo fece sussultare. Stava parlando con una donna, la madre forse, ma Hoseok non riusciva a capire cosa stesse dicendo. Si stavano avvicinando, e mano a mano il ragazzo sentiva sempre meglio ciò che le due stavano dicendo.
- Dai, mamma, voglio andare un po’ sull’altalena!
- No, Jae, dobbiamo tornare a casa, tuo padre ci sta aspettando…
- Ma io voglio andarci lo stesso! Per favore, solo cinque minuti, per favore!
- No, ora dobbiamo andare.
- Lo dici solo perché non mi vuoi più vedere. – Il tono della bambina era cambiato, Hoseok poteva percepirlo.
- Ma cosa dici, piccola? Come puoi anche solo lontanamente pensarlo? – ribadì la donna. Hoseok aggrottò le sopracciglia: quella scena, non sapeva perché, gli stava dando i brividi. Si spostò un po’ dalla sua posizione per osservare meglio le azioni delle due, inspiegabilmente incuriosito.
- Altrimenti mi faresti andare sull’altalena… - la bambina incrociò le braccia e abbassò il capo, poi disse qualcosa a voce talmente bassa che Hoseok non riuscì a sentire. La donna, però, che probabilmente aveva capito le parole della figlia, sospirò e si abbassò alla sua altezza, sussurrandole a sua volta qualcosa. La bambina, a quel punto, urlò un entusiastico – Sì! – di approvazione, per poi dirigersi correndo verso l’altalena.
Hoseok sorrise scuotendo la testa: cosa non si farebbe per i bambini. A loro bastava mettere un po’ il broncio, versare qualche lacrimuccia, fare gli offesi, e tutto era loro concesso. Il ragazzo trovò buffo – ma neanche troppo assurdo – il fatto che quella bambina gli avesse ricordato un po’ V.
E mentre guardava quella madre che spingeva con un mezzo sorriso sulla faccia la sua bambina, Hoseok ricordava, ricordava, ricordava ancora.
Ricordava quando era lui a spingere Tae su quella stessa altalena, la voce bassa e profonda che creava un bizzarro contrasto con il viso da eterno bambino di quel ragazzo, la sua risata quando arrivava talmente in alto che rischiava di fare il giro. O quando passavano il loro tempo a parlare di cose prive di importanza, dondolandosi appena con noncuranza, più attenti alle parole dell’altro che al movimento ondulatorio dell’altalena.
I minuti trascorsero lenti e inesorabili allo stesso tempo. La bambina e la madre se n’erano andate, rendendo nuovamente Hoseok l’unico abitante di quel giardinetto, ma il ragazzo non se ne rese neanche conto. Aveva lo sguardo fisso davanti a sé, le palpebre diventavano mano a mano più pesanti mentre quei maledetti ricordi sfumavano nel torpore che lo stava cogliendo, e cadde preda di un sonno buio, nero, senza sogni – per una volta Morfeo era stato clemente con lui, e aveva preferito lasciarlo stare, pensando che forse per una sera avesse sopportato abbastanza.
Si risvegliò solo un paio d’ore più tardi. Era ancora solo.
 
***

- Adesso hai capito? – domandò paziente Jungkook.
- Mh… sì, credo di sì. – Taehyung regalò un ultimo sguardo semi-disgustato al libro di Fisica che giaceva sulla sua scrivania, prima di rispondere definitivamente al suo interlocutore: - Okay. Ho capito.
Jungkook lo guardò divertito sollevando un sopracciglio. Le braccia erano appoggiate sul quaderno degli appunti, che era stato riempito, in quelle ore di studio, di schemi su schemi per semplificare gli argomenti di quella materia che tante vittime aveva mietuto tra gli studenti della Korea University.
Taehyung sbuffò, spingendosi indietro facendo forza sulla scrivania e guardando scocciato il ragazzo di fronte a lui. – Quanta fiducia, eh? Se ti dico che ho capito, vuol dire che ho capito!
- Sì, sì, va bene, stai tranquillo! – rispose l’altro ridacchiando. – Sono felice di annunciarti che, per nostra, ma soprattutto mia, immensa fortuna, per oggi abbiamo finito.
A quelle parole, il ragazzo lanciò un urlo di giubilo sollevando le braccia al cielo e rovesciando la testa all’indietro, scatenando la risata di Jungkook. Gli sembrava impossibile che qualcuno potesse essere così felice per aver finito di studiare: a lui piaceva davvero Fisica. A volte faceva storie, diceva di non avere voglia o di esserne mortalmente annoiato, ma in realtà quella materia lo aveva sempre interessato, tanto che alle scuole superiori, con grande stupore e invidia dei suoi compagni di classe, otteneva sempre il massimo dei voti. Tuttavia a Jungkook non piaceva vantarsi dei suoi risultati, anzi: tendeva sempre a sminuire il proprio lavoro o l’impegno che impiegava per andare bene a scuola, e ogni volta che poteva aiutava i propri amici con piacere. Era tremendamente soddisfacente, per lui, vedere che grazie alle sue spiegazioni gli altri riuscivano dove, altrimenti, avrebbero avuto molte più difficoltà. Era per questo che, quando Tae gli aveva chiesto di aiutarlo, aveva accettato.
Be’, forse non solo per questo. Quel ragazzo che in quel momento stava gioendo per la fine del pomeriggio di studio era bello. Molto bello. Alto più o meno quanto lui, aveva una muscolatura appena accennata e dei profondi occhi color pece, che sembravano voler divorare con lo sguardo tutto ciò su cui si soffermavano. I capelli lilla chiaro gli donavano un’aria dolce e infantile, nettamente in contrasto con la voce bassa e profonda.
Si dice sexy, Jungkook, sexy. Il ragazzo dai capelli corvini scosse la testa con decisione, poco prima di schiarirsi la voce per riportare all’ordine Taehyung.
- Dato che per oggi abbiamo terminato… io torno a casa.
La felicità del ragazzo si smorzò improvvisamente, ma Jungkook fece finta di non accorgersene. Per il bene della propria sanità mentale, doveva assolutamente tornare a casa. Magari avrebbe potuto parlare un po’ con Jimin di quella situazione, gli avrebbe sicuramente dato i giusti consigli. Con Jimin aveva sempre parlato di tutto... non sapeva per quale motivo non gli avesse ancora menzionato Taehyung. Scacciò in fretta il pensiero del proprio coinquilino.
Si alzò dalla sedia che aveva occupato appena era arrivato a casa di Tae, e si avviò verso l’attaccapanni in corridoio, dove aveva lasciato la giacca. L’altro lo seguì con passo felpato, trascinando le ciabatte per casa guardandolo fisso, facendo attenzione a ogni suo più piccolo movimento. Lo sguardo di Taehyung pesava come una cappa su Jungkook, che sentiva il proprio battito cardiaco accelerare sempre di più. Ora che si stava rimettendo la giaccia, il ragazzo dai capelli lilla si era appoggiato con un fianco al muro, una gamba davanti all’altra, i piedi incrociati in una posa che voleva apparire disinteressata e tranquilla. Se però si faceva più attenzione, si poteva notare che il suo respiro era lievemente alterato, e che il suo pomo d’Adamo faceva su e giù più rapidamente del solito. I suoi occhi guizzavano da una parte all’altra del corpo di Jungkook, divorando quanti più dettagli poteva, e Jungkook lo sapeva.
Sapeva che lo sguardo scuro e avvolgente di Taehyung era su di lui e non si sarebbe staccato tanto facilmente.
Sapeva che doveva andare via il prima possibile, prima che per lui fosse troppo tardi per tornare a casa – e no, non si stava riferendo all’orario.
Senza pensare troppo a quello che stava facendo, il ragazzo raccolse frettolosamente da terra la borsa con i libri e si diresse verso l’uscita, ma prima che potesse raggiungerla la voce dell’altro ragazzo lo fermò.
- Jungkook, stai dimenticando qualcosa…
Quello, dubbioso, spaventato più che dal ragazzo dietro di sé da se stesso, si voltò, e vide Taehyung raggiungerlo con in mando la sua sciarpa. Jungkook si diede mentalmente dello stupido per non averci pensato subito: quello di aver dimenticato quel piccolo particolare poteva essere un errore fatale, e lui lo sapeva.
Tae gli si avvicinò fino a essere a pochi centimetri da lui, poi gli avvolse la sciarpa intorno al collo, sfiorandogli appena la pelle mentre compiva quei gesti che stavano dando i brividi a Jungkook. Il respiro gli si fermò in gola, e le mani gli si andarono a posare istintivamente su quelle di Tae, ancora posate sugli estremi della sciarpa.
- Tae…
- Stai zitto.
E, per la seconda volta in quel giorno, il ragazzo lo zittì con un bacio esigente, attirandolo a sé. Bacio che divenne fin da subito una lotta che non prevedeva vincitori né vinti tra le loro lingue, uno scambio di morsi e di carezze decise. Jungkook non sapeva cosa fare, si sentiva come in trappola, schiavo di sensazioni che percepiva come sbagliate ma alle quali non sapeva – e non voleva – opporsi. Preso da un impulso scaturito dai recessi più profondi della propria mente, afferrò Tae per il colletto della maglia e lo sbatté contro il muro, mettendo le proprie mani ai lati della sua testa. Percepì un mugolio lamentoso provenire da lui, ma lo soffocò in un altro bacio, premendolo sempre di più contro la parete, come se dall’esito di quell’azione dipendesse la sua stessa vita.
Tae, intanto, avvolse le proprie braccia attorno alla vita stretta di Jungkook, facendo poi vagare con decisione sempre crescente la sua schiena inarcata. La giacca che il ragazzo portava ancora indosso, però, cominciava a diventare un ostacolo decisamente troppo scomodo. I due si staccarono qualche secondo, i respiri pesanti e affannati, le labbra già gonfie per la foga con cui si erano baciati, per permettere alle mani lievemente tremanti di Tae di abbassare la zip e sfilare frettolosamente la giacca a Jungkook.
I due tornarono subito all’attacco, riprendendo a toccarsi senza alcun freno. La bocca rossa del ragazzo dai capelli corvini scese a baciare con trasporto il collo niveo dell’altro, che posò una mano sul suo capo.
- Resta con me stasera… - disse con voce tremolante, rotta dai gemiti che cominciavano a salirgli su per la gola, - …e stanotte.
Jungkook si fermò, abbandonando quel lembo di pelle che stava baciando, come impietrito. Riportò lo sguardo, reso liquido dal piacere ma allo stesso tempo incerto sul da farsi, sugli occhi scuri di Tae, la mano di quest’ultimo ancora tra i capelli restia a lasciare quel comodo rifugio.
- Io… - il ragazzo deglutì pesantemente, consapevole più che mai del proprio corpo sempre più vicino a quello di Tae, del proprio respiro ancora flebile e alterato – io devo tornare a casa… da Jimin-hyung…
L’altro lo guardò fisso, non una nota di indecisione. – Non mi interessa di Jimin, mi interessa solo di te. – Se lo avvicinò nuovamente, le loro labbra si sfioravano appena senza toccarsi davvero. – Resta con me – ripeté infine, facendo incontrare le loro bocche in un nuovo bacio, questa volta più lento, passionale, privo della fretta smaniosa di prima.
E in quel momento, Jungkook non pensò all’effetto che ciò che stava per fare avrebbe avuto, non pensò alle cause, ai motivi che l’avevano condotto a quella decisione. Semplicemente, quando Taehyung si scostò nuovamente dal suo viso, si riavvicinò a lui e catturò le sue labbra per l’ennesima volta, in un ennesimo bacio, seguito da ennesime carezze.
Eppure... eppure sentiva che c’era qualcosa di strano, qualcosa che non tornava nelle sue azioni. C’era qualcosa di sbagliato in quello che stava facendo, qualcosa che urlava dentro di lui per fermarlo, per fargli capire che no, quella non era la cosa giusta da fare. Jungkook, però, era troppo sordo per sentire.
 
***
 
Era ormai notte fonda, ma Seokjin non riusciva a prendere sonno. Continuava a ripensare a ciò che era successo quel pomeriggio, a ciò che aveva fatto.
Era sempre stato così, fin da quando era bambino: non riusciva a sopportare di vedere le persone piangere, anche se non le conosceva. Ogni volta che un suo amico piangeva, Seokjin correva ad aiutarlo, ad abbracciarlo, anche, se poteva servire a qualcosa.
Con la maturità dovuta agli anni – quasi trentuno ormai, rifletté, solo due in più rispetto a Namjoon – poi, questo suo bisogno quasi spasmodico di impedire agli altri di stare male si era acuito, soprattutto nei confronti di chi aveva meno anni di lui. A volte gli succedeva di ritrovarsi a consolare i suoi alunni, magari troppo stressati per il carico di studio, per problemi familiari o di cuore: insomma, per i motivi più disparati, accadeva che si ritrovasse a fare le veci – un po’ maldestre, lo ammetteva – del suo compagno.
Più che altro sembri un prete, a volte, si corresse mentalmente.
Non appena aveva visto le lacrime rigare il volto rotondo di Yoongi, non era stato capace di trattenersi, e si era affrettato ad andare a consolarlo, a fare tutto ciò che era in suo potere perché stesse meglio. Namjoon sapeva che cosa lo aveva spinto a fare ciò che aveva fatto: per questo non aveva detto nulla e aveva lasciato che se la cavasse da solo.
Si voltò destra, dove lo psicologo dormiva placidamente ormai da diverse ore. Si soffermò sul suo viso rilassato, sulle ciglia che gettavano una lievissima ombra proiettata dalla luce fioca della luna proveniente dalla finestra, su quel sorriso onnipresente sulla sua bocca.
Forse avrebbe fatto meglio a seguire l’uomo di fianco a sé tra le braccia del sonno.
Si sistemò meglio sul materasso: prima però si sarebbe goduto ancora un po’ la vista.









Angolo autrice (parte 2):
Allora, che ne dite? Spero che vi sia piaciuta la scena dei Namjin con il nostro caro piccolo Yoongi. Cosa starà mai architettando? Be', gran parte della risposta ve l'ho già data in questo capitolo, per il resto... dovrete aspettare ancora un po'. Come al solito vi invito a lasciarmi la vostra opinione in una recensione, perché per me è molto importante sapere se la storia vi piace. Ci si vede al prossimo capitolo!
Ireth

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Capitolo 4
*** Things I should have done ***


Angolo autrice:
Vi giuro che sto per uccidere qualcuno. E' la quarta volta che cerco di non fare qualche stronzata con questo maledettissimo editor. Questa è la volta buona. Pregate per me.








 
Things I should have done







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Hoseok si alzò dopo quella che gli sembrò un’eternità. Aveva le gambe tutte indolenzite, gli formicolavano in modo doloroso dopo le ore che aveva trascorso accasciato contro il tronco del salice piangente. La testa gli girava, probabilmente a causa di un calo di pressione, ma si costrinse ad abbandonare il giardinetto nonostante la sua andatura barcollante. Per non cadere, quando fu quasi in strada, dovette mantenersi con la mano alla staccionata che delimitava il parco giochi, e rimase lì fermo per qualche secondo, osservando con sguardo perso l’asfalto.
Cosa aveva creduto di fare? Ovvio che Taehyung non era venuto, perché avrebbe dovuto? Dopo tutto ciò che gli aveva detto, non c’era modo che tornasse da lui, anche solo per dargli modo di spiegare. Era quello il trattamento che si meritava, dopo tutto: doveva soffrire come lui stesso aveva fatto soffrire il ragazzo che, inutile nasconderlo, amava ancora – non aveva mai smesso di farlo, nonostante le parole che aveva pronunciato mesi prima.
Però gli mancava. Gli mancava talmente tanto che riusciva a stento a portare avanti le proprie giornate senza correre a cercarlo per dirgli che aveva un dannato bisogno di lui, ma ogni volta si tratteneva, ripetendosi che era meglio così per entrambi. Forse... forse se l’avesse fatto prima, allora sarebbe servito a qualcosa. Ormai era tardi. Perché però adesso il dolore si era fatto insopportabile? Lo sentiva onnipresente nell’aria intorno a lui, lo vedeva aleggiare intorno agli edifici, gli graffiava la pelle insieme al freddo notturno. Forse perché solo quel giorno, dopo mesi, aveva rivisto il suo viso, e vi aveva letto la stessa lancinante sofferenza che attanagliava anche lui. Dicono che il tempo guarisca le ferite, ma Hoseok non era d’accordo. Era più come se il tempo avesse il potere di illudere le persone di essere guarite, solo per poi mostrare loro la cruda realtà: non si può tornare indietro, ma andare avanti è altrettanto difficile.
Il ragazzo continuò a camminare verso la propria casa, che fortunatamente non distava troppo dal luogo in cui era – non era per niente sicuro che sarebbe riuscito a camminare ancora per molto. Rischiò più volte di inciampare, ma non gli interessava, cercava solo di svuotare la sua mente, credendo ingenuamente di poter rimuovere così parte di quella sensazione gelida che era scesa su di lui da quando si era svegliato.
Svoltò a destra, poi a sinistra, e giunse nella via in cui abitava con la sorella minore. I loro genitori, che vivevano ancora a Gwanju, la città in cui Hoseok era nato, avevano acconsentito a lasciare che i loro figli proseguissero gli studi nella capitale e inviavano loro regolarmente il necessario per vivere.
Il ragazzo si tastò le tasche della giacca cercandovi le chiavi, e quando le ebbe trovate le infilò nella toppa. Tre scatti a sinistra, e la porta di casa si spalancò davanti a lui, rivelandogli che, nonostante fosse notte inoltrata, c’erano ancora delle luci accese. Hoseok aggrottò la fronte: in genere sua sorella Jiwoo andava a letto abbastanza presto, e anche quando restava sveglia più a lungo del solito lo faceva per terminare qualche libro che l’aveva appassionata particolarmente, azione che non richiedeva certo il tenere accese le lampade del salotto e della cucina.
Fece un paio di passi oltre la soglia e si chiuse la porta dietro le spalle, cercando di fare meno rumore possibile. Magari stava dormendo e si era solo dimenticata di spegnere gli interruttori, dopo tutto la sbadataggine era una caratteristica di famiglia. Mentre si stava togliendo il giubbotto, però, la voce strascicata di Jiwoo raggiunse le sue orecchie.
- Hobi, sei tu?
- Sì, sono io – rispose, terminando l’azione che stava compiendo quando era stato interrotto. Andò verso l’attaccapanni e vi appese l’indumento, prendendo nuovamente la parola. – Perché sei ancora sveglia?
- Mi stai prendendo in giro?
In effetti la ragazza non aveva tutti i torti: non era certo lei a essere rimasta per ore fuori casa, tornando soltanto in quel momento. Anzi, probabilmente era rimasta sveglia di proposito, per controllare quando – o addirittura se – sarebbe tornato. Hoseok non rispose: sapeva che qualsiasi cosa avesse detto sarebbe risultata fuori luogo. Preferì invece raggiungere la sorella, che era seduta sul divano. Si sedette accanto a lei in silenzio, e notò che indossava già il pigiama: era quello che le aveva regalato lui l’anno prima per Natale.
- È inutile che ti chieda che cos’hai fatto fin’ora, vero?
Hoseok continuò a mantenere il silenzio, non avendo il coraggio di confermare le supposizioni di Jiwoo. Ultimamente non parlavano più molto spesso, e naturalmente lui non aveva fatto nulla per cercare di riavvicinare la sorella; era sempre stato un codardo, e quando aveva interrotto la relazione con Taehyung non aveva avuto il coraggio di parlarne con nessuno, neanche con lei, la persona che lo capiva meglio di chiunque altro. Non c’erano mai stati segreti tra loro, e forse il fatto che Hoseok avesse soltanto un anno in più rispetto a lei aveva alimentato la loro complicità. Qualunque fosse la ragione, erano sempre stati molto vicini, ma negli ultimi mesi qualcosa nel loro rapporto si era incrinato, e lui sapeva che era in gran parte colpa sua.
- Tu hai la minima idea di quanto io mi sia preoccupata oggi? – La voce di Jiwoo si spezzò leggermente. Hoseok spalancò gli occhi stupito: non aveva mai visto sua sorella piangere, era sempre stata lei quella forte, pur essendo la minore. Tuttavia non sollevò lo sguardo: non ne aveva il coraggio.
Sei ridicolo.
- Io... io ho avuto paura che ti fosse successo qualcosa di orribile, – proseguì tirando su con il naso – o che tu avessi fatto qualche cazzata, che ti fossi fatto del male da solo.
Non ho abbastanza palle per suicidarmi, non preoccuparti, pensò lui amaramente, forse per rassicurare anche se stesso sulla veridicità di quelle parole.
- Sono mesi che hai alzato un... una specie di muro tra noi. Credi che sia stupida? Ho capito che c’entra con Taehyung. Un giorno gironzolate tutti allegri per casa, quello dopo torni a casa con una faccia da morto vivente e dell’altro neanche l’ombra.
Ancora una volta, Hoseok fu costretto a tacere per non darle ragione: sapeva quello che aveva fatto, e pur pentendosene non riusciva a tornare indietro.
Avresti dovuto farlo prima, ora è tardi. È tardi.
In effetti, non aveva fatto granché per nascondere il suo stato d’animo, senza però dire nulla di esplicito a Jiwoo. Vigliaccheria? Probabilmente sì, ma non lo avrebbe mai detto ad alta voce: era troppo codardo anche per quello.
- Posso capirlo, so che è un periodo difficile questo – proseguì. – Anche io, quando Jongdae mi ha lasciata, ho impiegato parecchio tempo a parlarne con qualcuno, ma... ma non ti ho mai allontanato come stai facendo tu adesso con me, o almeno non tanto a lungo.
Se ne ricordava bene anche lui: si erano trasferiti da poco a Seoul, e quando Jiwoo frequentava il corso di cinese dell’università aveva conosciuto un ragazzo, Jongdae. Avevano iniziato a parlare, poi a uscire. Si erano messi insieme, ma la loro felicità era stata di breve durata: un giorno, dal nulla, il ragazzo aveva avvertito Jiwoo che di lì a poco sarebbe dovuto partire per la Cina per portare a compimento degli studi non meglio specificati con il suo amico Minseok, e nel giro di mezza giornata il mondo era crollato addosso alla studentessa. Jongdae le aveva detto che non potevano mantenere una relazione a distanza, e senza starci troppo a pensare l’aveva lasciata. Jiwoo aveva impiegato settimane per riprendersi, settimane in cui non era uscita neanche una volta di casa e aveva smesso di seguire tutti i corsi, passava le sue giornate nel letto a piangere sconsolata. All’inizio Hoseok aveva rispettato la sua volontà di non essere disturbata: in fondo ormai era una donna, sapeva badare a se stessa. Quando però aveva notato che non accennava a riprendersi, si era fatto forza e le aveva fatto tirare fuori tutta la delusione e la rabbia che aveva accumulato, e dopo essersi beccato non pochi insulti, era riuscito a farla ragionare, a farle capire che non poteva distruggere se stessa in quel modo per un ragazzo. Era l’ultimo ricordo che aveva di se stesso come un bravo fratello maggiore.
- Però... però davvero Hobi, come tu non mi hai permesso di crollare quella volta, io non posso farlo ora con te. Sei... sei il mio fratellone, farei di tutto per vederti stare meglio.
A quel punto la ragazza aveva iniziato a piangere, ma né lei né Hoseok aveva ancora cercato lo sguardo dell’altro.
- Ti ricordi cosa mi dicevi all’inizio, quando non volevo ascoltarti? “Quel ragazzo ti ha portato via il sorriso, non era quello giusto per te, basta piangerci su”. Be’, è quello che ti dico anche io: forse... forse Tae non era quello giusto. Non puoi rovinarti la vita per lui, devi voltare pagina.
La voce di Jiwoo si spense accompagnata dal rumore di un clacson che giungeva dalla strada, insieme alle urla dei relativi automobilisti. Si sentì ancora l’allontanarsi dei veicoli, poi il silenzio calò sul salotto di casa Jung. Hoseok non aveva distolto per un solo istante lo sguardo dal tavolino da caffè davanti al divano, eppure non riusciva a vederlo bene: la sua vista, così come il suo udito, erano come attutiti. Sentiva le parole della sorella, le comprendeva, eppure il senso generale del discorso continuava a sfuggirgli.
È tardi.
- E poi anche a me manca il tuo sorriso, Hobi.
Percepì un fruscio di fianco a sé, che intuì essere segno del fatto che Jiwoo si stesse alzando.
Tardi.
- Quando vorrai parlarmi, sappi che ci sarò, ma pensa bene a quello che ti ho detto: volta pagina, o continuerà solo a farti sempre più male.
La porta della camera di Jiwoo si aprì e si richiuse cigolando, e Hoseok si ritrovò solo in compagnia del suo caro, codardo, silenzio. Nelle orecchie, solo il rumore di tutte quelle cose che avrebbe voluto dire, di tutte quelle che avrebbe dovuto fare.
Ma tanto, ormai, era troppo tardi per tutto.
 
***


Quando il sole sorse sulla capitale sudcoreana Jimin era sveglio. Aveva ormai superato quel lasso di tempo che separa l’essere ancora sveglio e il già sveglio. No, non aveva chiuso occhio quella notte, ma come avrebbe potuto?
Era sdraiato sul letto, rannicchiato sotto il piumino. Sentiva la fronte calda – forse aveva la febbre, ma non aveva le forze di alzarsi dal suo rifugio e andare a prendere il termometro. E poi, non era troppo interessato alla sua salute, non in quel momento.
Tutta la notte. Aveva aspettato tutta la notte che Jungkook tornasse a casa, che tornasse da lui. Niente. All’inizio nutriva ancora qualche speranza che avesse avuto qualche contrattempo, che sarebbe arrivato presto, ma quando era passata la mezzanotte aveva smesso di ingannarsi da solo: era rimasto a casa di Taehyung.
Si era risparmiato la scenetta patetica della telefonata: probabilmente non gli avrebbe nemmeno risposto, e se anche l’avesse fatto gli avrebbe raccontato una balla, o peggio, la verità. Avrebbe potuto mandare un messaggio a Yoongi, ma era stanco di essere visto in quello stato pietoso dall’amico. Si sentiva patetico ogni secondo di più, eppure non riusciva a cambiare la sua situazione.
Non aveva abbassato la tapparella la sera prima. Non lo faceva mai: Jungkook diceva che gli dava fastidio non vedere il cielo, sia di sera che di mattina, e che gli piaceva svegliarsi con il sole negli occhi. Jimin, però, sapeva che mentiva, o che quantomeno non diceva tutta la verità: aveva da tempo intuito che nutriva un’infantile paura del buio. Paura che lo aveva spesso portato a cercare conforto tra le braccia del coinquilino. In genere pensare a questa sua caratteristica lo faceva sorridere, ma in quel momento aveva solo voglia di piangere, pensando a quanto fosse stupido a seguire la sua volontà, anche se era stato lasciato da solo in quel modo.
Si voltò sul fianco sinistro, ma si rese conto in ritardo – dandosi ancora una volta dell’idiota – che non era assolutamente una buona idea: adesso davanti ai suoi occhi, al posto del paesaggio urbano di Seoul, c’era il letto ancora intatto di Jungkook. Sbatté il pungo chiuso sul materasso, trattenendo un verso di frustrazione: qual era il suo problema? Perché faceva così male?
E te lo chiedi anche il perché? Allora ti sei veramente rincoglionito, Jimin, complimenti.
Proprio in quell’istante, il campanello prese a squillare. Poteva essere solo una persona a quell’ora, ma Jimin non aveva le forze né fisiche né mentali per aprirgli la porta.
Il campanello suonò una seconda volta, una terza, una quarta. Lui restò nel letto.
- Ehi, Jimin, tutto bene?
Non parlare. Ti prego, non dire un’altra parola.
Notando che nessuno rispondeva dall’interno della casa, Jungkook iniziò a bussare insistentemente, chiamando il maggiore alzando mano a mano il tono di voce. Ignorato per l’ennesima volta, il ragazzo prese le chiavi, e non appena fu entrato e si fu richiuso la porta dietro le spalle, si precipitò a cercare il coinquilino, riprendendo a urlare il suo nome.
Entrò nella camera da letto, e quando vide Jimin con la faccia riversa sul cuscino, la sua espressione mutò da confusa a preoccupata.
- Che succede Jimin? Stai male?
Corse da lui e si accovacciò vicino al letto. Jimin si irrigidì: era decisamente troppo vicino. Come poteva fingere di essere preoccupato? Non lo era sicuramente. Se avesse avuto un minimo di considerazione per lui si sarebbe degnato di avvertirlo che non sarebbe tornato a casa per la notte. Eppure la sua voce era così sincera, sarebbe stato estremamente facile per Jimin credergli, ma era una trappola. Non avrebbe ceduto, non quella volta.
Jungkook non capiva perché Jimin non gli stesse rispondendo: stava forse troppo male per parlare? Avvicinò una mano alla sua fronte per controllare se fosse caldo, ma avvenne un qualcosa a cui lui – e forse anche Jimin stesso – non era preparato.
La mano di Jungkook non giunse mai a destinazione.
- Non mi toccare.
Un silenzio di ghiaccio scese sulla stanza. I due restarono immobili, Jimin con lo sguardo rivolto al materasso, Jungkook all’amico.
Inutile negarlo: non se lo aspettava. In due anni non era mai successa una cosa del genere, e non sapeva come reagire. Avrebbe dovuto chiedergli cosa fosse successo? Pregarlo? Chiedergli scusa? Ma scusa per cosa, poi? Sì, non l’aveva avvisato che avrebbe passato la notte fuori casa, ma non credeva che avrebbe avuto una reazione del genere. O forse non era solo per quello?
Tutte quelle domande lo stavano mandando in confusione: niente era mai stato così difficile e complicato con lui, non doveva mai... risolvere situazioni strane o cose del genere.
Si sentì un tonfo, ma Jimin non si voltò, andando contro il suo istinto che gli stava urlando di controllare se il suo coinquilino si fosse fatto male. Come poteva preoccuparsi per lui anche in una situazione del genere?
Essere innamorati fa schifo, fa davvero schifo.
- Jimin... io non capisco.
No, tu non capisci mai niente, non l’hai mai fatto.
Anche se i pensieri di Jimin esprimevano tutta la sua delusione, anche se il suo cervello gli ordinava di restare immobile e di non guardare Jungkook negli occhi, il suo cuore continuava a dirgli il contrario, che diamine, quello – con tutti i suoi difetti – era il ragazzo di cui era innamorato, non poteva restare con le mani in mano così. Eppure, per la prima volta da quando ne aveva memoria, Jimin decise di dare ascolto al primo. Aveva sentito la voce dell’altro incrinarsi, ma non aveva fatto nulla: aveva continuato a fissare il materasso, i pugni stretti alle coperte.
Impassibile.
Indifferente.
Come non lo era mai stato.
- Parlami, ti prego, di’ qualcosa...
Non questa volta.
Non agire, restare fermo pur sapendo che il suo Kookie – Jungkook, si corresse mentalmente, stava soffrendo, per lui era peggio di una tortura. Era straziato dalla consapevolezza di ciò che stava facendo: lasciare che, per una volta, fosse l’altro a preoccuparsi. Sì, soffriva ad abbandonarlo a se stesso, ma era stanco di esserci sempre quando lui non c’era mai.
- Per favore, non mandarmi via anche tu... io-io ti voglio bene.
Io ti amo, vedi un po’ tu chi è messo peggio.
Jimin sospirò, poi si voltò verso il muro senza degnare Jungkook di uno sguardo, dandogli le spalle – e quella fu l’azione più faticosa che avesse fatto in quei minuti. Un’unica lacrima rigò il suo viso, ma cercò di non prestarvi troppa attenzione.
Chiuse gli occhi. Inutile specificare che non dormì comunque, anche se ne avrebbe avuto estremamente bisogno. E tuttavia, anche se era sveglio, non riuscì a sentire i mormorii di Jungkook, che si era rintanato nel suo letto dall’altra parte della stanza, ancora con i suoi vestiti addosso.
- Scusatemi, tutti e due... mi dispiace tanto, mi dispiace davvero tanto.
 
***


Kim Taehyung era sdraiato sul letto. Guardava assorto lo schermo del telefono, scorrendo i numeri in rubrica. In realtà, continuava a fare avanti e indietro tra due numeri, senza sapere bene quando avrebbe smesso, o se lo avrebbe mai fatto – non ricordava nemmeno quando avesse iniziato.
Di sicuro, però, dopo ciò che era accaduto la sera prima, si sarebbe assicurato di non aspettarsi mai più nulla di buono dalla vita.
Jungkook gli aveva mentito, nella maniera più infida possibile. Erano passate ore, e ancora non riusciva a capacitarsi di quello che era successo. Stavano parlando tranquillamente, dopo essersi scambiati qualche bacio – non erano andati oltre, non c’era fretta. Era ormai notte, di questo era sicuro: il cielo era scuro, le uniche luci erano quelle della luna, delle stelle e dei lampioni. Poi lui l’aveva chiamato V, e tutto era cambiato: solo Hoseok, Hobi, lo chiamava così, e se Jungkook conosceva quel soprannome doveva aver parlato con lui. All’inizio aveva tentato di negare, ma si vedeva lontano un miglio che stava mentendo, e Taehyung non era uno stupido. O meglio, lo era, ma non fino a quel punto.

- Che cosa ti ha detto?
- Niente, non mi ha detto niente Tae, niente!

Erano almeno cinque minuti che andavano avanti così: uno chiedendo, l’altro difendendosi, uno insistendo, l’altro continuando a fingere.
- Smettila Jungkook. – Il ragazzo dai capelli corvini deglutì: Taehyung non aveva mai usato quel tono duro con lui. – Dimmelo e basta, è inutile continuare con questa farsa.
- Però... tu non ti arrabbierai tanto con me, vero?

Taehyung non rispose. Jungkook si costrinse comunque a tirare fuori la verità: in fondo, prima o poi lo sarebbe venuto a sapere comunque.
- Mi... mi ha detto di dirti che voleva vederti in un posto, “il posto”, ha detto che avresti capito. – Si fermò un attimo; non aveva il coraggio di guardare l’altro negli occhi, ma si era reso conto che stava trattenendo il respiro. Probabilmente aveva fatto un errore più grande del previsto non dicendogli nulla. Sapeva che avrebbe dovuto muoversi a riferire ciò che gli aveva detto Hoseok, ma non gli venivano le parole – l’aveva fatta grossa, ma non aveva il coraggio di pagarne le conseguenze.
- Quando? Quando voleva parlarmi?

Jungkook chiuse gli occhi. – Questa sera.
Il ragazzo sbatté parecchie volte di seguito le palpebre, stupito. – Mi auguro per il tuo bene che tu stia scherzando.
Il silenzio di Jungkook, però, fece capire a Taehyung che no, quello non era semplicemente uno scherzo di pessimo gusto.
- E tu non mi hai detto niente. Non mi hai detto niente.

Forse aveva usato un tono troppo risentito, ma quello non era il momento giusto per fare attenzione anche ai sentimenti degli altri: già tenere a bada i propri stava risultando complicato, non poteva preoccuparsi anche di come si sentisse Jungkook. Dopo quello che gli aveva fatto, poi, quello era l’ultimo dei suoi propositi.
- Esci da casa mia. Adesso.
- A-aspetta, Tae...
- No. Vai via.

 
Un ennesimo sospiro uscì dalle labbra martoriate di Taehyung. Ricordare quella scena lo faceva stare male in modo indicibile.
Non si aspettava nulla del genere da Jungkook: l’aveva sempre visto come un ragazzo sincero, allegro, vivace; mai avrebbe immaginato che potesse essere un bugiardo. Forse poteva non avere intuito l’importanza che quell’incontro avrebbe avuto per lui, ma non avrebbe dovuto mentirgli in ogni caso.
A quello, poi, si sommava l’immagine semplicemente terrificante di Hoseok che lo aspettava. Quanto era rimasto nel loro parco giochi? Ore? Rabbrividiva al solo pensiero. No, probabilmente se n’era andato dopo neanche un’oretta, vedendo che non arrivava. Sarebbe stato un comportamento da Hoseok, in fondo. Forse, se Jungkook gli avesse detto subito di quell’incontro, non ci sarebbe neanche andato. O forse sì, e avrebbe ricevuto le risposte che non aveva il coraggio di cercare da mesi.
- Fanculo.
Stufo di restare in quello stato catalettico, si alzò dal letto e, preso il minimo indispensabile, uscì di casa. Era ancora mattina presto, il sole era sorto da poco, ma i bar erano già aperti. Fu proprio sentendo il profumo di croissant proveniente da uno di questi che si rese conto che, in effetti, non aveva ancora fatto colazione. Il suo stomaco, come a confermare ciò che gli stava comunicando il cervello, brontolò rumorosamente, tentando di spingerlo verso il cibo. Taehyung si lasciò guidare dai propri organi interni e si imbucò nel bar prescelto, dirigendosi immediatamente verso la vetrinetta dei croissant. La sua attenzione si riversò pressoché subito su uno di quelli di dimensioni mastodontiche, alla crema: lo prese, pagò, e si sedette a un tavolino vicino alla finestra per consumare il suo pasto.
Mentre masticava, si mise a guardare fuori. In realtà, non prestava una grande attenzione a ciò che avveniva attorno a lui: si limitava a percorrere con lo sguardo gli infissi di legno, a volte magari soffermandosi sugli aloni dei vetri, o sulle crepe.
Preferiva non pensare: sapeva che altrimenti avrebbe iniziato a dare di matto, si conosceva bene. Doveva semplicemente concentrarsi su altre cose, anche prive di importanza, purché esterne ai suoi problemi. Era così che era riuscito ad attenuare un minimo il dolore per la separazione da Hoseok, avrebbe sicuramente funzionato anche quella volta.
Ormai avrebbe dovuto essere abituato a ricevere solo porte in faccia, no?
- Ehm... scusa...
Taehyung sussultò: era talmente immerso nelle sue elucubrazioni – proprio quello che voleva evitare, Bravo Tae, ottimo lavoro – che la minima interruzione gli aveva fatto fare un piccolo salto sulla sedia. Si voltò verso la fonte di quella voce, e si trovò di fronte un ragazzo probabilmente poco più grande di lui, con i capelli neri a caschetto e un’espressione gentile, quasi materna.
- Potrei prendere una di queste? – chiese mettendo le mani curate sullo schienale di una delle tre sedie che circondavano il tavolo a cui era seduto Taehyung.
- Certo, certo – rispose lui educatamente, iniziando a balbettare, senza neanche sapere il perché.
- Grazie mille – disse l’altro, afferrando la sedia e portandola al tavolo di fianco, dove un altro ragazzo lo stava aspettando. Si accorse che, nonostante fossero entrambi seduti, il divario di altezza fra i due era palese. Non sapeva a cosa fosse dovuta questa sua constatazione lucida in quel momento, e non perse nemmeno tempo a chiederselo – sapeva di essere strano, e odiava porre dei limiti alla propria follia.
La sua attenzione fu inevitabilmente attirata dalla conversazione tra i due, che iniziò non appena il ragazzo dai capelli neri ebbe preso posto.
- Hai visto quel tipo a cui hai chiesto la sedia?
- Sì che l’ho visto, gli ho chiesto una sedia. Sai com’è, gli occhi, la vista...
- Okay, okay, ma... ti assomiglia un casino, sai?
- Davvero? Mh... forse.
- Dillo che ho ragione! Tra poco è il mio compleanno, un regalino potresti farmelo.
- Questo mai. Potrebbe anche essere che tu abbia perso la testa per me talmente tanto da vedere la mia faccia ovunque.
- Oh, smettila di fare il mestruato e baciami.
Ah. Piccioncini. Solo questa ci mancava.
Taehyung si chiese se sopra la sua testa ci fosse una sorta di nuvola nera che attirava disgrazie e sfortune di ogni genere. Con tutti i tavoli che quel bar conteneva, la coppietta felice doveva scegliere proprio quello di fianco al suo? Eppure credeva di avere scritto in faccia qualcosa come del tipo “Salve gente, io sono quello con problemi di cuore e il morale a pezzi, persone allegre statemi alla larga o ve ne pentirete per il resto delle vostre brevi e insignificanti vite”.
Però doveva ammettere che anche lui aveva notato una certa somiglianza tra sé e quel ragazzo. In fondo lo spilungone aveva ragione, anche se quello che aveva intuito essere il suo fidanzato non glielo aveva concesso. Erano davvero teneri, però.
Loro erano teneri e lui era solo come un cane.
Improvvisamente sentì il proprio stomaco chiudersi in una morsa d’acciaio. Non riusciva più a sopportare la vista dei due ragazzi davanti a sé, né del croissant che aveva tra le mani, né di qualsiasi altra cosa. Perfino respirare gli riusciva difficile, gli tremavano le mani, i denti mordevano senza tregua il labbro inferiore.
Infilando il secondo “fanculo” della mattinata, si alzò frettolosamente dal tavolo con un’espressione cupa in volto e gettò quel che restava della sua colazione nel primo cestino della spazzatura che incontrò per strada. Le mani affondate nelle tasche della giacca, iniziò a vagare per Seoul senza una meta precisa.
Davvero era bastata la vista di quella coppia per farlo scattare così bruscamente? Era diventato così tanto sensibile a tutto ciò che gli stava attorno? Perfino il meteo sembrava prendersi gioco di lui: svariati raggi di sole trapelavano dalle nuvole rade, scintilla di felicità in una giornata che per Taehyung era iniziata nel peggiore dei modi.
Non si rese conto di dove si stava dirigendo fino a quando il profilo di un’altalena rossa emerse dalle strade asfaltate della città. A quel punto, lanciò un urlo di frustrazione che gli procurò non poche occhiatacce da parte dei passanti – non che gliene importasse qualcosa – e, fatta una quanto mai rapida inversione a u, si lanciò correndo verso casa sua, sperando di trovare almeno lì un minimo di conforto, un rifugio.
Ma naturalmente non poteva sapere, così come Jungkook, Hoseok e, in parte, Jimin, ciò che sarebbe accaduto quella sera – o meglio, ciò che sarebbe iniziato.
 
***


Yoongi non era per niente comodo, ma se quello era il prezzo per stare a guardare, lo avrebbe pagato con piacere. Dopo tutto, era stato lui a ideare quel piano geniale, e sentiva un bisogno fisico di seguirne gli sviluppi da vicino, come un genitore che osservi il suo primogenito crescere e fare i primi passi.
Ecco, ciò che stava per accadere nello studio di Namjoon, ore 16:07, avrebbe rappresentato i primi passi del suo piano-primogenito, e per osservarli, da bravo papà qual era, si era appostato nell’armadio di mogano. Doveva stare immobile e, in caso di emergenza, mandare un messaggio a Seokjin, che sarebbe accorso nello studio con tè e biscotti appena sfornati.
“Che tipo di emergenza?” gli avevano chiesto i due con un’espressione stranita in viso.
“Un’emergenza, insomma, non avete mai visto dei film di spionaggio?” Né Namjoon né tanto meno Seokjin avevano avuto l’ardire necessario a replicare, e Yoongi non aveva sentito il bisogno di aggiungere altro.
In realtà, l’uomo che in cucina alternava rapide occhiate al forno e ai suoi amati cruciverba si stava ancora chiedendo che tipo di emergenza avrebbe dovuto risolvere e, soprattutto, come fosse stato possibile che un ragazzino poco più che ventenne – un suo alunno, che diamine! – gli avesse dato degli ordini. E lui l’aveva anche ascoltato. Rassegnatosi all’entusiasmo di Yoongi e del proprio fidanzato – a volte Namjoon sapeva comportarsi in una maniera che rasentava l’infantile – si era rintanato nel suo regno culinario, cellulare a portata di mano, ma con la suoneria al minimo, perché il loro ospite non avrebbe dovuto sospettare di essere tenuto d’occhio non da una sola persona, bensì da tre. O almeno, queste erano le disposizioni del capo supremo Min Yoongi.
Finalmente, giunse il momento tanto atteso: il citofono suonò. Namjoon accorse e disse al ragazzo di salire, così che potessero iniziare il loro incontro, poi tornò nello studio, dove raccomandò ancora a Yoongi di essere il più discreto possibile. Si sedette alla scrivania, e aspettò.
L’ospite atteso bussò esitante.
- Avanti!
La porta si aprì, e rivelò un metro e ottantacinque di ragazzo, che già dai primi passi si dimostrò essere estremamente goffo. Sempre quello stesso metro e ottantacinque, rischiando di inciampare nel tappeto – Yoongi si chiese come fosse umanamente possibile una cosa del genere – giunse incolume alla sedia dall’altra parte della scrivania rispetto a Namjoon. Lo psicologo sorrise, e dopo aver messo da parte i fogli sparsi si rivolse al suo interlocutore.
- Bene... sono contento che tu sia arrivato in orario, non me lo sarei mai aspettato da te. Dopo tutto, oggi non piove nemmeno.
Il ragazzo ridacchiò, stendendo a stento le gambe sotto la scrivania.
Che cosa c’entra adesso la pioggia?, si chiese Yoongi. Non si fece troppe domande, però: dopo tutto, ognuno ha il suo rapporto speciale con il proprio psicologo, e lui non aveva il diritto di interferire tra Namjoon e il suo paziente. Soprattutto perché quel particolare paziente avrebbe avuto un ruolo determinante nella riuscita del suo piano.
- Tanto oggi non è una seduta vera e propria, no?
- In effetti no. Perché pensi che ti abbia chiesto di venire?
- Ehm... non lo so. Hai detto solo che non era proprio una seduta, anzi, era più un... incontro tra amici. Mi viene in mente solo un’ipotesi, ma sarebbe un po’ assurda in realtà.
Dai, ci puoi arrivare, sono sicuro che il tuo quoziente intellettivo non sia poi così basso.
- Prova – disse incoraggiante Namjoon. Il ragazzo si mise più composto e appoggiò le mani sulle cosce, preparandosi a rispondere.
- L’unica cosa che riesco a immaginare è che... che c’entri con il mio compleanno.
Bingo.
Yoongi sorrise da dentro l’armadio: c’era una probabilità di riuscita abbastanza elevata, a questo punto. Aveva fatto bene a confidare in Namjoon: il soggetto da lui scelto non era per niente male, e aveva un minimo di cervello.
Bravo amico, ora hai il mio rispetto.
- Solo che... – il ragazzo si fermò per qualche istante, come se stesse cercando le parole, ma gli sfuggissero di mente. – Io non l’ho mai festeggiato. Sai che non sono un tipo da grandi feste, non... ecco...
Ehi amico, calma, non mandarmi tutto a rotoli.
Namjoon lo fermò con un gesto della mano, e il ragazzo frenò le sue farneticazioni con un sospiro. Per un attimo Yoongi si sentì in colpa ad assistere a quella conversazione: non era sicuro che fosse giusto ciò che stava per fare. Poi ripensò a tutte le volte in cui si era sentito impotente guardando Jimin disperarsi per il suo cuore in frantumi, a tutte le volte in cui si era dovuto rialzare tra le proprie macerie per tornare a rincorrere i propri sogni. Ripensò allo sguardo perso di Hoseok mentre abbandonava il seminterrato, per andare chissà dove ad aspettare il suo V.
Doveva farlo, per il bene dei suoi amici: non poteva abbandonarli a loro stessi, anche a costo di invadere un po’ la privacy di un paziente di Namjoon. E poi, come aveva detto anche lui, quella non era una vera seduta.
- Lo so, lo so, ma ci ho pensato attentamente. Tu non dovrai preoccuparti dell’organizzazione: ho già contattato il proprietario di un locale, è un bel posto, sono sicuro che ti piacerà.
- Quindi vuoi davvero organizzarmi una festa di compleanno?
- Sì, e voglio che sia perfetta – rispose raggiante Namjoon, e Yoongi non poté fare a meno di sorridere alla reazione del ragazzo: era così genuinamente felice, anche se si vedeva che provava parecchia ansia al pensiero. In quel momento, si sentì orgoglioso della sua idea: avrebbe reso felice non solo il suo migliore amico, ma anche colui che, inutile negarlo, stava usando per raggiungere il suo scopo.
- E affinché sia perfetta, ho bisogno dell’approvazione del festeggiato, no?
Mentre pronunciava quelle parole, iniziò a frugare tra quei fogli che aveva spostato quando era arrivato il suo paziente. Dopo alcuni secondi di ricerca, la sua mano emerse dal cumulo di carte con il foglio agognato, che subito dopo porse al ragazzo di fronte a lui.
- Ho parlato con alcuni informatori dei quali non farò i nomi, che mi hanno fatto una lista dei possibili invitati.
Yoongi rischiò seriamente di scoppiare a ridere quando vide la sua reazione a quella lista praticamente infinita di nomi: strabuzzò gli occhi in un modo che aveva visto solo nei migliori film comici, e iniziò ad alternare occhiate allucinate verso Namjoon e il foglio che aveva sotto il naso. Poi, però, si ricordò che era in un armadio e che aveva degli ordini ben precisi: restare lì dentro. Senza fare movimenti bruschi. Né ridere.
- Ma... ma sono tantissimi!
Il ragazzo iniziò a scorrere con lo sguardo l’elenco, ma dopo pochi secondi restituì il foglio allo psicologo.
- Davvero, non ce la posso fare a controllare se li conosco tutti... ah, se è stato quell’impiccione di Jongin giuro che gli faccio passare un brutto quarto d’ora!
Namjoon rise a quelle parole. – Ho la bocca cucita.
- Comunque... senti, gestiscitela tu sul piano degli invitati. Tanto a me basta che ci sia una persona, e tu lo sai.
Un sorriso da sognatore si dipinse sulle labbra del ragazzo, e Yoongi, che stupido non era assolutamente, trasse in pochi istanti le sue conclusioni: quel ragazzo era felicemente fidanzato con qualcuna-barra-qualcuno, ma a lui non interessava granché quel particolare, dopo tutto.
- Tranquillo, lui ci sarà – lo rassicurò Namjoon prima di mettere via il foglio.
Qualcuno.
Lo psicologo e il paziente iniziarono a discutere di dettagli più tecnici, come le decorazioni e il cibo, che a parere del secondo era la parte più importante della festa in assoluto, e Yoongi non sarebbe potuto essere più d’accordo con lui: insomma, è la torta che fa il compleanno, il resto è tutto relativo.
Il ragazzo nascosto nell’armadio prese cautamente il proprio cellulare e digitò un messaggio a Seokjin, in cui gli comunicava che poteva abbassare la guardia: ormai il piano era decollato.
Quando i due ebbero terminato e Namjoon ebbe accompagnato il ragazzo alla porta, Yoongi poté finalmente uscire dal suo nascondiglio. Si fiondò immediatamente su una delle poltrone all’interno dello studio: aveva le gambe a pezzi, non sapeva quanto a lungo ancora avrebbe potuto reggere. Non ebbe il tempo di congratularsi con lo psicologo, però, che Seokjin varcò la porta della stanza.
Immediatamente un odore paradisiaco invase le narici di tutti i presenti – ovvero Namjoon e Yoongi – e gli occhi presero a scintillare di gioia.
- Insomma, qualcuno dovrà pur mangiare questi biscotti. Ho già fatto anche il tè.
Non appena il vassoio ricolmo di biscotti fu posato sul tavolino da caffè, Namjoon raggiunse Seokjin con il suo solito sorriso, dicendogli: - Sei unico, amore.
Si abbassò su di lui per lasciare un bacio sulle sue labbra, ma improvvisamente un verso di disappunto lo interruppe. Yoongi, un biscotto già in viaggio all’interno del suo esofago e uno in mano, aveva qualcosa da ridire su ciò che stava avvenendo davanti ai suoi occhi.
- Vi prego, non davanti a me! Vi ho già beccati una volta e non voglio ripetere l’esperienza, grazie.
I due, dopo essersi guardati con lieve imbarazzo, non poterono fare a meno di ridere per l’assurdità della situazione: uno psicologo, un professore e uno studente che avevano intenzione di portare a termine un piano di quest’ultimo stavano per mangiare tè e biscotti, appena preparati dal professore, nello studio dello psicologo. Assomigliava in modo quasi grottesco all’inizio di una barzelletta, e forse per questo anche Yoongi scoppiò in una fragorosa risata.
 
Accertarsi che il Piano sia attuabile. Fatto.
Prossima mossa: consegnare gli inviti agli invitati.
Come?
Anche per quello, Yoongi aveva già un’idea e, ovviamente, i contatti necessari. Quante cose che si potevano ottenere in un paio di giorni di comportamento non antisociale! Nonostante i vantaggi di una simile vita, però, Yoongi si promise che non avrebbe ripetuto l’esperienza per i successivi quarant’anni.
Come minimo.







Angolo autrice (parte 2):
Ce la posso fare. Ad ogni modo: li avete riconosciuti? Se sì fatemelo sapere :) Come sempre, se avete tempo e voglia lasciatemi una recensione. Ci vediamo al prossimo capitolo!
Ireth

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Capitolo 5
*** Life is just a blink ***


Angolo autrice:
Ma buongiorno! Ed eccomi qui, sono tornata con un altro mirabolante capitolo di questa altrettanto mirabolante storia. Dunque, cosa succede in questo capitolo? Mh, non tanto, è più che altro un capitolo di passaggio, ma succedono un po’ di cose che mi servono per far andare avanti la trama... insomma, leggerete.








 
Life is just a blink

















 
Jungkook aveva deciso di non muoversi dal letto per tutto il giorno. Si era ripromesso, però, che non appena avesse avuto troppa fame per evitare di recarsi in cucina si sarebbe alzato, e avrebbe trovato una qualsiasi occupazione, un modo per liberare la mente. Be’, non era successo: la sensazione di disagio che lo aveva colto la notte appena passata era sempre lì, ancorata al suo stomaco, insieme alla nausea a alla voglia di scomparire dalla faccia della terra. Era rimasto lì, immobile, senza riuscire a dire, o a pensare nulla. Sapeva solo che aveva perso tutto.
Taehyung.
Jimin.
Tutto. Erano le due persone a cui teneva di più al mondo, le uniche di cui si fidasse davvero. Aveva tradito entrambe, se n’era reso conto. Non riusciva ancora a capacitarsi di come potesse essere successo, eppure...
Eppure era rimasto solo, rannicchiato nel suo letto, privo anche del coraggio di chiedersi cosa ne sarebbe stato di lui senza i suoi migliori amici.
Il rumore che faceva Jimin camminando da una stanza all’altra, il suono delle pagine sfogliate – probabilmente stava studiando – erano peggio di una tortura per Jungkook: il suo coinquilino continuava la sua vita, mentre lui? Lui cosa faceva? Niente, assolutamente niente. La giornata procedeva monotona, ma neanche la noia lo convinse a sollevarsi dal materasso. I suoi occhi avrebbero dovuto nuovamente essere testimoni dell’indifferenza con cui Jimin lo trattava, dell’assenza di emozioni nel suo sguardo, e non era pronto a subire una cosa del genere – lo stomaco gli si annodava ancora di più al solo pensiero. A un certo punto – quando?, aveva perso la concezione del tempo – fu costretto a posarsi una mano sulla bocca e l’altra sul ventre, per limitare il dolore fisico che la sua mente ingrata lo stava costringendo a sopportare.
Avrebbe potuto riflettere sul fatto che Jimin fosse in condizioni analoghe alle sue quando era tornato a casa.
La sera era scesa silenziosa sulla loro casa, quasi senza che Jungkook se ne rendesse conto. Le luci si erano semplicemente spente, e la consapevolezza che quella sera Jimin non gli avrebbe augurato la buonanotte lo colpì come una stilettata. Non si chiese perché fosse stata proprio quella mancanza a fargli raccogliere le gambe al petto, come in una sorta di posizione di difesa: sentì solo il dolore, forte e presente. Era tutto sbagliato, loro non avevano mai litigato, non dovevano andare così le cose, loro due, Jimin e Jungkook, Minnie e Kookie, non si facevano del male a vicenda.
La serranda era alzata quando chiuse gli occhi, e un sonno privo di sogni scese su di lui – almeno quello gli era ancora concesso.
La mattina dopo, fu svegliato sul tardi dal rumore della porta che veniva sbattuta con rabbia. Si accorse che gli erano state rimboccate le coperte – quando, non lo sapeva.
Come inondato da tutta l’energia che gli era mancata il giorno precedente, un’energia che sapeva quasi di disperazione, Jungkook si strappò il piumino di dosso e corse in giro per casa. In cucina era tutto in ordine, come se Jimin non avesse neanche fatto colazione. Nella stanza dove solitamente studiavano insieme c’era un paesaggio analogo: non un libro fuori posto, neanche uno dei suoi.
Jimin non era in casa.
Giunto davanti alla porta, restò qualche istante a guardarla. Posò una mano sul pomello, e la sensazione del metallo freddo gli ferì la pelle. Percependo la nuova solitudine che si era venuta a creare attorno a lui, sentì le forze scemare. Non l’aveva salutato. Era scappato da lui, come se fosse un mostro – e forse lo era. Si voltò e si lasciò cadere per terra, facendo scivolare la schiena lungo la porta mentre si chiedeva a mezza voce quando lo fosse diventato, senza stupirsi di star parlando da solo.
Che cosa ho combinato?
 
***
 
- Bene ragazzi, per oggi abbiamo finito.
La voce dolce e suadente del professor Kim Seokjin scatenò l’inferno tra i banchi della classe di economia della Korea University. Ognuno iniziò a raccattare libri, quaderni, appunti, penne e matite con la solita fretta degli studenti che reclamano la libertà, e anche lui li imitò, anche se con foga minore e molto più autocontrollo.
Mentre riponeva una cartellina nella borsa, un sorriso spontaneo solcò le sue labbra: era dal giorno prima che si sentiva più spericolato, forse più giovane, meno uomo e più ragazzo, come non gli capitava da quando aveva iniziato a insegnare. Quel giorno, quando aveva guardato negli occhi i suoi studenti, si era sentito un po’ più simile a loro: l’aiuto che stava per dare a quel paziente di Namjoon lo rendeva felice, e un po’ più entusiasta della vita che conduceva.
Si prese il suo tempo per riordinare le sue cose, e una volta che la baraonda di ragazzi scemò oltre la porta, anche lui si apprestò a fare lo stesso. Prese in mano la borsa, ma quando stava per raggiungere il corridoio si rese conto di un particolare che fino al momento prima non aveva notato: non tutti gli studenti erano usciti. Uno di loro, un ragazzo dall’aspetto piuttosto gracile e con i capelli di un morbido castano, era ancora seduto al suo posto. Teneva le mani giunte sotto il mento, lo sguardo perso chissà dove.
Seokjin, vedendolo, sentì una fitta al cuore, e obbedendo ai suoi impulsi da mamma preoccupata rimise la borsa sulla cattedra e si diresse verso di lui.
Namjoon capirà se arrivo a casa un po’ in ritardo, pensò tra sé e sé. In fondo era ancora presto: erano appena le dieci.
Cercò di stamparsi in faccia l’espressione rilassata che manteneva sempre quando entrava in azione quel suo dannato complesso del salvatore, e a passo sicuro raggiunse la sua meta.
Quando il ragazzo si accorse che il professore si era avvicinato a lui, iniziò subito a mettere a posto il suo banco, come se avesse paura di qualcosa. Seokjin si fermò e appoggiò la base della schiena alla sedia del banco davanti, incrociando le braccia al petto. Il ragazzo, sempre più agitato, farneticò qualcosa sul fatto che se ne stava per andare, ma fu prontamente interrotto.
- Tranquillo, non ti mangio mica – disse Seokjin, prima di abbassarsi, accovacciandosi quasi per terra, in modo da appoggiare le braccia sul banco e la testa sopra di queste. – Allora, chi è che ti fa stare male così?
Il ragazzo trattenne il respiro e si paralizzò. Seokjin aveva fatto centro: pene d’amore. Dopo anni di pratica, ormai sapeva riconoscere i sintomi: sguardo perso, svogliatezza, disattenzione e, soprattutto, sorpresa ogni volta che qualcuno coglieva questi ovvi segnali.
- Non... non capisco di cosa lei stia parlando...
Ecco un altro sintomo: tentativo di negare. Ma naturalmente il professore non si fece ingannare da questo trucco che aveva visto usare fin troppe volte.
- Oh, sì che capisci invece, solo che io sono un professore brutto e cattivo, quindi credi che sia io a non poter capire. Sbaglio?
Il ragazzo rimase con la bocca chiusa e gli occhi spalancati sull’uomo di fronte a sé. Si vedeva che non aveva la minima intenzione di parlare.
Non ancora, si corresse Seokjin.
- Beh, in realtà ti capisco. Anche io ho provato quello che stai provando tu, e prima di poter, diciamo, coronare il mio sogno, ne ho dovute passare delle belle.
- Non credo che lei abbia mai provato quello sto provando io ora – disse sommessamente il ragazzo, facendo trasparire per un attimo un’amarezza prima nascosta. Tuttavia, si pentì immediatamente di aver pronunciato quelle parole: infatti, subito dopo, si cacciò una mano sulla bocca con un sussulto, come a voler impedire ad altre frasi compromettenti di uscire da essa.
Seokjin sorrise. Era già un buon inizio.
- Spiegamelo, magari ti sbagli – disse continuando a sorridere sereno. Vedendo l’indecisione del ragazzo davanti a sé, fu quasi tentato di abbracciarlo come aveva fatto con Yoongi: gli sembrava così indifeso, così impreparato nei confronti della vita e dei brutti scherzi che gli avrebbe giocato in futuro. Ma non poteva: era in un’aula dell’università, lasciarsi andare così ai suoi impulsi da mamma premurosa sarebbe stato decisamente troppo poco professionale.
Dopo alcuni secondi di tentennamento, il ragazzo fece scendere la mano, per poi farla ricadere sul banco con un suono ovattato. Deglutì mentre abbassava lo sguardo per evitare quello del suo interlocutore – Insicurezza, paura della reazione di chi ti sta davanti, gliel’aveva spiegato Namjoon.
- Il... ehm... la persona che... che mi piace – a quelle parole dovette fare qualche secondo di pausa, come se la voce gli si fosse bloccata in gola. Si vedeva che aveva bisogno di parlare, e che probabilmente non l’aveva mai fatto con nessuno: l’incapacità che aveva di tirare fuori i suoi sentimenti ne era la prova. Seokjin ipotizzò che fosse anche molto timido, e che per questo venisse spesso lasciato solo dai suoi compagni, forse troppo pigri per fare quello che stava facendo lui in quel momento.
A meno che non cercasse di proposito quella solitudine. Dopo tutto, ormai doveva avere intorno ai vent’anni – anche se ne dimostrava decisamente di meno – e sarebbe dovuto essere in grado di cavarsela da solo.
Gli attimi passavano, ma il ragazzo non accennava a riprendere il discorso.
- Ehi, tranquillo, non preoccuparti... senti, non ti ho ancora chiesto come ti chiami. Perdonami se non mi ricordo il tuo nome, ma ho davvero troppi alunni – concluse Seokjin. Aveva provato a distrarlo, magari sarebbe riuscito a farlo sfogare più tardi.
Se non puoi entrare dalla porta, entra dalla finestra.
- Oh, stia tranquillo... io sono Lu Han, comunque.
- Quindi non sei coreano, vero? – chiese Seokjin con interesse. Gli piaceva quel ragazzino, aveva qualcosa che acuiva il suo desiderio di aiutarlo. Forse il fatto che avesse chiaramente bisogno di un aiuto, forse il suo aspetto fisico, così fragile. Inoltre, quel nome gli sembrava vagamente familiare. Certo, l’aveva sicuramente letto sull’elenco degli studenti della classe di economia, però era sicuro di averlo visto anche da qualche altra parte. Se solo fosse riuscito a ricordarsi dove...
- No, sono nato in Cina, a Pechino, poi i miei hanno... hanno deciso di trasferirsi qui a Seoul per lavoro – rispose lui, mordicchiandosi l’interno della guancia.
Forse ho trovato una finestra.
- Anche questa persona è nata in Cina?
- No, no, Sehun è... – appena si rese conto di ciò che aveva detto, ripeté l’azione di prima, come per ricacciare di nuovo indietro le proprie parole.
A quel punto, Seokjin capì qual era il problema. Quel ragazzo aveva paura di ciò che sentiva, lo percepiva come pericoloso. Confusione, tanta confusione, e nessuno con cui parlare. Si alzò dalla sua posizione accovacciata, e dopo aver preso una posizione stabile davanti al ragazzo, riprese la parola. - Anche io ho un principe azzurro al posto della principessina da salvare, sei in buona compagnia.
Ottenne finalmente la reazione sperata: Lu Han alzò lo sguardo su di lui, e nei suoi occhi non c’era più solo paura, o indecisione. C’era anche quel qualcosa per cui lui aveva lavorato fino a quel momento, che aveva voluto instillare nel suo sguardo da quanto l’aveva notato: speranza. Fiducia. Forse anche un po’ di stupore, ma non era di quello che Seokjin si preoccupava.
- Lo so che all’inizio può sembrare difficile, ma devi sempre ricordare una cosa: non c’è nulla di sbagliato in te, non importa ciò che potrebbero dire le persone che ti circondano. Questo ragazzo, Sehun... sono sicuro che tu ci tieni molto.
Lu Han annuì debolmente all’inizio, poi, vedendo l’espressione determinata del professore, sembrò riscuotersi, e lo fece con maggior convinzione. – Bene, allora sai che ti dico? Non lasciartelo scappare. La vita è una sola, ed è anche decisamente troppo corta. È un battito di ciglia, un millesimo di secondo, e non abbiamo, non hai, il tempo di farti sfuggire le occasioni migliori.
Seokjin lo guardò con occhi materni, come se volesse rassicurarlo e proteggerlo dalla stupidità del mondo esterno. Anche lui, quando aveva la sua età, era stato spaventato da ciò che gli stava accadendo: gli sembrava di non avere più alcun potere sulla propria vita, tutto gli sfuggiva tra le mani. Senza il giusto aiuto, dubitava che sarebbe stato capace di andare avanti. E in quel momento, lui voleva essere quell’aiuto.
- Grazie, non dimenticherò le sue parole – disse Lu Han, con una luce del tutto nuova negli occhi, una luce che prima sembrava completamente sopita all’interno di lui. Fu proprio quel particolare che fece scattare qualcosa all’interno della mente di Seokjin, che si diede mentalmente del cretino per non averci pensato subito: ora ricordava dove aveva letto il nome di quel ragazzo e, in effetti, anche quello di Sehun.
Mentre Lu Han stava mettendo a posto le sue cose all’interno della cartella, il professore si sporse sul suo banco.
- Aspetta solo un attimo... oggi pomeriggio hai degli impegni?
Il ragazzo lo guardò perplesso. – Ehm... non credo, perché?
- Perché mi servirebbe il tuo aiuto per una cosa... – Vedendo che Lu Han era ancora piuttosto dubbioso, Seokjin rincarò la dose: - E perché forse posso darti un piccolo aiuto con il tuo principe azzurro.
A quel punto, il ragazzo sembrò valutare più seriamente la proposta del professore. Seokjin aveva letto quei due nomi sulla lista degli invitati alla festa dell’altro paziente di Namjoon, che aveva scoperto chiamarsi Park Chanyeol. Quel pomeriggio, inoltre, si sarebbe tenuta nello studio dello psicologo una sorta di riunione per mettere a punto alcuni dettagli più macchinosi del piano di Yoongi che, a detta di quest’ultimo, era di portata epica. Il ragazzo si era tenuto piuttosto sul vago: aveva parlato di gabbiani da acchiappare, di lettere dell’alfabeto e speranza... per essere sincero, Seokjin non aveva afferrato del tutto il senso del discorso – lui che era abituato a ragionamenti logici e alla sicurezza dei numeri, si sentiva un po’ disorientato dai modi di fare di Yoongi. Però era determinato a dare il suo contributo, perché aveva capito che per lui era importante: per quel motivo, maledicendo per l’ennesima volta quel suo dannato complesso del salvatore, stava cercando di aiutare anche quell’altro suo allievo.
La confusione all’esterno dell’aula stava scemando, segno che a entrambi restava poco tempo per decidere.
- Allora, qual è la tua risposta?
 
***


Yoongi aveva appena finito di consumare la sua lauta colazione post-lezione – brioche e cappuccino al McDonald’s distante pochi passi dall’università – quando arrivò alla porta del palazzo abbandonato. Mentre faceva girare le chiavi nella serratura arrugginita, pensò con un moto di orgoglio che in quel momento gli appunti di economia giacevano al sicuro nella sua borsa, e non sul suo banco. Quel pomeriggio li avrebbe mostrati a Namjoon, concordò con se stesso.
Si chiuse la porta alle spalle e aprì quella che lo separava dal seminterrato, per poi rendersi conto che Jimin era già arrivato, e che stava ripetendo quasi con rabbia un terzo tempo dopo l’altro, come un disco rotto, ripetendo sempre la stessa azione con una determinazione che aveva dell’incredibile. Era così assorbito da quell’occupazione, che non si era nemmeno reso conto del suo arrivo.
- Ehi, stella del basket, non si salutano gli amici? – esordì il ragazzo, avvicinandosi mentre si liberava della giacca e arrotolava le maniche della felpa sulle braccia. Jimin, come appena risvegliatosi da un sogno, lo guardò allibito facendosi cadere la palla tra le mani.
- Oh, non... non mi ero accorto del...
- Sì, sì, okay, - iniziò scherzoso Yoongi, le mani affondate nelle tasche dei jeans con fare canzonatorio – ho deciso di essere clemente e perdonarti questa tua grave mancanza nei miei confronti... ehi, ehi Jimin?
Il tono del ragazzo dai capelli rossi mutò in maniera repentina. Se prima Jimin gli sembrava solo con la testa un po’ troppo tra le nuvole, adesso aveva ragione di preoccuparsi: aveva barcollato pericolosamente, una mano premuta sulla fronte, gli occhi chiusi con forza. Yoongi si precipitò verso di lui, pronto a soccorrerlo in caso di bisogno. No, non era decisamente il caso di mettersi a scherzare.
- Non... non preoccuparti, sto bene, è solo un po’ di mal di testa – disse incerto Jimin per rassicurarlo, ma Yoongi non si fece ingannare: si vedeva lontano un miglio che gli era successo qualcosa, e il suo intuito formidabile gli aveva anche già suggerito chi potesse essere il colpevole, tanto per cambiare.
- Magari mentre ti passa il mal di testa ti fermi un attimo e ti siedi, eh? – suggerì Yoongi a metà tra l’ironico e l’apprensivo. Jimin annuì debolmente e si trascinò fino a una delle pareti del seminterrato, per poi sedersi contro di essa.
Ovviamente non poteva sapere che Jungkook era nella sua medesima posizione, addossato alla porta di casa loro.
- Cos’è successo questa volta? – gli fece comprensivo Yoongi, prendendo posto accanto a lui. Si riferiva al coinquilino di Jimin, quello era chiaro, ma l’amico non sembrava intenzionato a rispondere – o almeno, non ancora. Si era voltato verso il canestro, come se vi cercasse la forza di parlare, di dire qualcosa. Si morse prepotentemente il labbro, poi, dopo aver raccattato la palla, che era casualmente rotolata vicino a lui, prese a rigirarsela tra le mani e a biascicare le prime parole.
- E’ tornato ieri mattina – disse con lo sguardo fisso sulla palla, mentre Yoongi osservava assorto il muro di fronte a lui, ascoltando Jimin attentamente. – Aveva passato tutta la notte da quel Tae-qualcosa...
- Chi? – chiese confuso Yoongi.
- V, l’amico dell’altro giorno, è sempre lui – Jimin era stizzito, si sentiva dal suo tono di voce: il solo ricordare il viso di quel ragazzo lo faceva infuriare in maniera indicibile. In fondo non era colpa sua, ma in quel momento non aveva voglia di pensare anche di chi fosse la colpa.
Yoongi non disse nulla in risposta. Si limitò ad alzarsi e a prendergli la palla dalle mani, per poi iniziare a palleggiare e ingaggiare duelli per il possesso con avversari inesistenti, come suo solito – l’altro non oppose resistenza, appoggiò gli avambracci alle ginocchia sollevate e prese a fissare un punto indefinito nel seminterrato.
- Non so, Yoongi. Fino a pochi giorni fa andava tutto bene...
- Con “tutto bene” intendi Jungkook che ti ignora e tu che gli corri dietro? – lo interruppe il rosso. Jimin, però, fece finta di nulla – era abituato alle battute più o meno spiritose dell’amico.
- E adesso sembra che tutto stia andando a rotoli. Non ero mai stato così male per lui, ma da quando è arrivato quel tipo è tutto un casino.
Il ragazzo si alzò, raggiunse Yoongi subito dopo che quest’ultimo aveva fatto un canestro e gli prese la palla. Fece un paio di palleggi, poi corse verso l’altro capo del campo e la scagliò contro il muro con forza. Per alcuni secondi quello dei rimbalzi fu l’unico rumore a regnare nel seminterrato, poi Jimin riprese a parlare. Nessuno dei due si curò di raccogliere la palla da terra.
- Quando è arrivato ha anche avuto la faccia tosta di chiedermi come stavo. – Un sorriso triste, deluso, si affacciò sulle sue labbra mentre continuava a raccontare a Yoongi ciò che era successo. – Ma tanto a lui non frega niente, no? Cosa sono io per lui? Niente più di un amico. Probabilmente ora che non sono a casa sarà felice, potrà stare al telefono con il suo nuovo ragazzo, senza... – La voce gli si ruppe mentre pronunciava quelle parole – senza di me.
Ancora una volta, l’ennesima, Jimin prese a singhiozzare. Le spalle gli tremavano, il viso era deformato dal pianto. Sentiva le guance bruciare, gli occhi gonfiarsi e riempirsi di lacrime, e se la notte passata si era preoccupato all’idea di essere visto da Yoongi, in quel momento non avrebbe saputo con chi altro sfogare il peso che si sentiva sul petto. Mantenne lo sguardo basso anche quando l’amico gli andò vicino e lo prese per le spalle, scuotendolo. Sentiva, come in lontananza, che gli stava anche parlando, ma non percepiva bene le parole: l’unico rumore che sentiva era quello del suo cuore che stava perdendo pezzi per strada ormai da troppo tempo.
- Jimin! Jimin, ascoltami, che cazzo!
Il ragazzo si decise a incrociare lo sguardo di Yoongi, e vi vide la determinazione che lui non sentiva più propria.
- Allora. Punto uno: se scoppi di nuovo a piangere ti parcheggio le mani in faccia.
Una risata stentata trovò un varco nel pianto di Jimin, che però non ebbe la forza di tornare allegro. Sapeva come era fatto Yoongi: tentava sempre di farlo stare meglio ironizzando ogni situazione, e lui lo apprezzava davvero, ma c’erano volte in cui quel metodo non era di alcuna utilità.
- Punto due: lo sai perché stai così male? – Yoongi guardò l’amico sofferente, che non disse niente, autorizzandolo così a rispondere al suo posto. – Perché sei dannatamente, innegabilmente, inesorabilmente e altri “mente” vari che adesso non mi ricordo innamorato di Jungkook.
- Tu sì che sei intelligente – rispose Jimin con sarcasmo, tirando su con il naso e incrociando le braccia al petto. Certo che stava male per quello che era successo con Jungkook perché ne era innamorato, e – anche dopo tutto quello che gli aveva fatto, anche dopo tutte le porte che gli aveva chiuso in faccia – sentiva già i sensi di colpa affacciarsi all’interno del suo cuore martoriato. Il modo in cui l’aveva trattato, quell’indifferenza... non erano cose che Park Jimin riuscisse a fare a cuor leggero, soprattutto con il suo coinquilino.
- Sai a cosa ci conduce questa constatazione? Al fatto che tu adesso uscirai di qui, tornerai a casa vostra e riprenderai a parlargli, perché altrimenti starete di merda entrambi. – Sentendo quell’ultima frase, Jimin non poté che essere d’accordo: essere così lontano da Jungkook, essere arrabbiato con lui, gli faceva provare un dolore quasi fisico, e probabilmente l’altro non era messo molto meglio, anche se prima aveva tentato di convincersi del contrario. In fondo, la rabbia che l’aveva colto quella mattina era già quasi svanita, sostituita dalla sensazione di disagio che gli provocava la sua mancanza. – Io sono convinto che Jungkook sia un idiota, e lo sai, ma proprio per questo devi fare in modo che faccia pace con il suo cervello.
- Che cosa? – chiese l’altro stranito. Di cosa stava parlando Yoongi?
- Magari sarò scemo io, ma segui un attimo il mio ragionamento. Se Jungkook ti chiedesse di uscire con lui, quale sarebbe il tuo primo pensiero?
Jimin rimase un attimo perplesso, ma rispose cautamente a Yoongi: - Credo... che sarebbe “O mio Dio forse sto sognando ma chi se ne frega, portami dove vuoi”.
Yoongi sorrise compiaciuto, scuotendogli ancora le spalle come per accentuare la sua consapevolezza di avere ragione, e per farlo capire anche a lui. – Appunto. Non “Aspetta, ora vado a dirlo a Yoongi, altrimenti non se ne fa nulla”. Invece Jungkook ha fatto proprio questo: Taehyung gli ha offerto di passare insieme il pomeriggio e lui è venuto a chiederti se ti andava bene.
Jimin ridacchiò amaramente. Sarebbe stato bello poterla pensare come il suo amico, ma quella era una visione decisamente troppo ottimistica dei fatti. – Non mi ha esattamente chiesto se mi andava bene...
- Oh, che palle, il concetto è quello. Inoltre, all’università, a volte vi vedo insieme, ed è imbarazzante il modo in cui state incollati, seriamente. E poi, appena uno di voi due si allontana o non è più visibile, ecco che l’altro lo cerca con lo sguardo, siete davvero vomitevoli.
- Questo non vuol dire niente, Yoon... – disse scocciato Jimin, voltandosi e andando a riprendere la palla. Era vero, lui e Jungkook spesso avevano dei contatti fraintendibili, ma le motivazioni erano completamente diverse, e diverse erano le reazioni: il viso di Jimin acquisiva un colore tendente al rosso peperone, mentre Jungkook si faceva due risate e si allontanava. Fine. Nessun coinvolgimento di tipo più profondo, altrimenti Jimin se ne sarebbe reso conto in due anni di convivenza.
No?
- Tu dici? Lo vedremo in data 27 novembre!
- Ehm... lo sai che è domani?
- Certo! Domani attuerò il mio piano geniale, e quella sarà la tua grande occasione! Domani sera, alle ore 21 al Dark & Wild. Gli inviti sono in via di distribuzione da stamattina grazie a un paio di agganci che ho ottenuto all’interno dell’università. Tu domani ci sei, non si discute. E ora vai via, fila a casa! Non ti voglio più vedere fino a domani, e ricordati che devi venirmi a prendere che non ho né macchina né patente.
Jimin era atterrito: la sera successiva ci sarebbe stata la festa di compleanno di un amico di Yoongi – o almeno, così quest’ultimo l’aveva definito. Festa che era stata organizzata dal suo migliore amico appositamente per dare modo a lui di coronare il suo “sogno d’amore” con Jungkook.
Solo che non credeva che sarebbe stato così presto e con così poco preavviso. Però... però forse Yoongi aveva ragione: non poteva lasciarsi sfuggire quell’occasione. Forse sarebbe stata la sua ultima chance, e lui non poteva farsi frenare dalla paura di fallire, di fare la cosa sbagliata.
Fu per quel motivo che un sorriso un po’ tirato trovò la forza di fare capolino sulle sue labbra, e riuscì finalmente a guardare negli occhi Yoongi, e in quegli occhi trovò la forza di andare a recuperare il cappotto che aveva lasciato per terra e uscire dal seminterrato con un po’ di quella speranza che aveva perso.
- Ricordati che si vive una volta sola! Abbiamo i giorni contati, caro Jimin, non fare errori di cui potresti pentirti – sentì dire a Yoongi mentre usciva dal palazzo abbandonato. Anche se aveva notato che l’amico non sembrava intenzionato a seguirlo fuori dal loro seminterrato, non si preoccupò troppo: a volte Yoongi aveva bisogno di stare un po’ per conto suo, e Jimin rispettava questa sua decisione. Probabilmente avrebbe giocato ancora un po’ a basket, poi sarebbe andato da Namjoon, come sempre.
Quindi si diresse a passo più o meno deciso verso casa sua, senza avere la minima idea di cosa dire a Jungkook.
 
Quando giunse davanti al portone, si mise a frugare nelle tasche per trovare le chiavi. Sentiva l’ansia crescere, la sentiva nel tremolio delle mani che a stento riuscivano a trattenere gli oggetti, nel calore asfissiante che sentiva alle tempie. Buona parte della sicurezza che gli aveva infuso Yoongi era andata perduta mentre le sue scarpe consunte lo conducevano verso casa, caduta a terra come polvere.
Fece un respiro profondo ed entrò nell’edificio, poi iniziò a salire le scale, pensieroso. Cercò di tranquillizzarsi, di dirsi che non c’era bisogno di provare tanta paura. Ripercorse con la mente i momenti in cui era rimasto a guardare Jungkook mentre studiava, tutte quelle volte in cui gli aveva preparato il pranzo e lui aveva divorato tutto, profondendosi in complimenti che gli scaldavano il cuore. Rivide le notti passate abbracciati per difendersi a vicenda dai mostri sotto il letto, i pomeriggi a farsi il solletico. Quei ricordi gli facevano male, in quel momento in cui erano così lontani l’uno dall’altro, ma gli strapparono un sorriso – erano quelli che preferiva. Ripeté tra sé e sé le parole di Yoongi, e finalmente riuscì a prendere un po’ di coraggio.
Quando arrivò, la porta non era aperta. Quella visione lo stupì e ferì nello stesso tempo: Jungkook la apriva sempre quando lo sentiva arrivare da sotto.
Ricordati che avete litigato, è ovvio che non abbia aperto la porta.
Scosse la testa, come se con quel gesto avesse il potere di scacciare la sensazione di disagio che lo aveva preso alla bocca dello stomaco, e una volta tirate nuovamente fuori le chiavi, fece quello che in genere faceva il suo coinquilino. La scena che gli si presentò davanti, però, non era esattamente quella che si aspettava.
Il primo rumore che sentì fu un tonfo, come se un corpo avesse sbattuto per terra di colpo – cosa che era effettivamente caduta. Il secondo fu un singulto, che Jimin non avrebbe saputo descrivere se non con la parola “violento”.
Un Jungkook decisamente spaesato era semi-sdraiato per terra e lo stava guardando con gli occhi spalancati, quasi impauriti, il respiro accelerato.
Jimin, agendo d’istinto, si inginocchiò subito accanto a lui e gli mise un braccio dietro la testa, preoccupato che si fosse fatto male.
- Ehi, tutto bene? – gli chiese subito. L’altro, un po’ confuso, per qualche secondo non disse niente, rimanendo semplicemente a guardarlo. Sembrava che stesse cercando delle risposte, annaspando – annegando nelle sue stesse domande.
- Sì... sto-sto bene...
- Riesci ad alzarti?
Jungkook chiuse gli occhi per qualche istante, cercando di regolarizzare il respiro. Quando li riaprì, disse con voce tremante: - Sì, tranquillo, ora... ora mi alzo.
Le ultime parole famose.
Il ragazzo non fece in tempo a mettersi completamente in piedi, che perse l’equilibrio, andandosi quasi a schiantare contro la parete. Quasi, perché Jimin, alzatosi prontamente, lo afferrò appena in tempo, conscio dell’instabilità dell’altro: gli mise avvolse un braccio attorno alla vita, e se lo premette contro per non farlo cadere di nuovo.
Certo, il suo intento non era di ridurre così tanto lo spazio tra loro: anzi, in un primo momento non si rese neanche conto di quanto fossero vicini. Una guancia di Jungkook era premuta contro il bavero del suo cappotto, tutta la linea del corpo pressata sulla sua. Fu questione di pochi istanti, però, perché Jimin si accorgesse della posizione in cui erano. Imprecò mentalmente contro se stesso, dandosi dell’idiota: aveva fatto tutto lui, e se ne sarebbe pentito al più presto. Come al solito, pensò Jimin, Jungkook si sarebbe scostato in fretta e furia e avrebbe interrotto il contatto – e forse quella volta sarebbe stato meglio per entrambi.
Non si aspettava certo quello che avvenne effettivamente.
Jungkook, seppur dopo alcuni attimi di esitazione, tese una mano tremante per aggrapparsi alla spalla di Jimin. Il suo respiro arrivava un po’ spezzato sul collo dell’altro, provocandogli un leggero solletico – ma lui cercò di non farci troppo caso, altrimenti avrebbe dato di matto e fatto qualcosa di tremendamente sbagliato che avrebbe rovinato tutto in maniera definitiva.
- Ti porto sul letto, prima che mi piombi di nuovo sul pavimento – cercò di ironizzare, strappando una risatina a Jungkook, che si tenne con un po’ più di convinzione all’amico. Una volta spezzata un po’ la tensione che si era venuta a creare, Jimin chiuse la porta con la mano libera e accompagnò il coinquilino nella loro stanza. Rischiarono di inciampare l’uno nei piedi dell’altro un paio di volte, ma riuscirono comunque a raggiungere sani e salvi la loro meta.
Il maggiore aiutò Jungkook a stendersi sul letto, soffermandosi a guardarlo con attenzione, cercando di capire se si fosse fatto male in modo serio quando era caduto. Senza che potesse farne a meno, i suoi occhi sostarono qualche istante di troppo sui lineamenti infantili del viso, sui capelli un po’ scompigliati, sulle labbra appena aperte...
Jimin, basta, si riprese mentalmente. Lui tecnicamente era ancora arrabbiato.
Si riscosse e sbatté le palpebre un paio di volte, credendo ingenuamente di poter scacciare i pensieri che gli affollavano la mente. – Vado un attimo a posare il cappotto.
Non poteva esserne sicuro, ma gli parve di vedere con la coda dell’occhio Jungkook che annuiva debolmente, come se non volesse che Jimin si allontanasse anche solo di pochi centimetri. Si disse che doveva smetterla di immaginarsi le cose e andò verso l’attaccapanni, ma mentre stava sfilando i bottoni dalle asole, si rese conto che il bavero era bagnato. Cercò di rammentare come fosse potuto succedere: fuori non pioveva, e quella mattina era stato solo nel seminterrato, poi era tornato a casa e...
L’immagine del viso di Jungkook premuto sul suo cappotto lo travolse con una violenza che non avrebbe creduto possibile: come aveva fatto a non accorgersene? Eppure, ora che ci pensava, i suoi occhi erano un po’ arrossati, e così le guance, come se avesse sfregato, e la sua voce talmente tremula...
Prima che i sensi di colpa potessero assalirlo, le sue orecchie subirono di nuovo la tortura delle parole biascicate di Jungkook. Stava dicendo il suo nome, lo stava chiamando. Finì rapidamente di sfilarsi il cappotto, lo appese all’attaccapanni e si precipitò nuovamente nella loro stanza da letto. Ciò che vide gli trafisse il cuore come una pugnalata: Jungkook era rannicchiato in posizione fetale, gli occhi chiusi che lasciavano passare le lacrime, e la sua bocca continuava ad aprirsi e chiudersi per formare le sillabe del suo nome.
Obbedendo nuovamente al suo istinto, Jimin si sedette accanto a lui e gli prese una mano tra le sue, accarezzandola piano.
- Ehi, ehi, tranquillo, sono qui... – iniziò a dire, ma fu ancora una volta sbalordito dalla reazione di Jungkook.
- Scusa, Jimin, mi dispiace tanto, non volevo farti stare male, davvero...
Gli occhi pieni di lacrime di Jungkook si aprirono per incontrare quelli di Jimin, che non si aspettava una risposta del genere. Tuttavia, decise di accantonare lo stupore, e si dipinse un sorriso che voleva essere rassicurante, ma che sembrava solo forzato.
- Non importa, Kookie, non importa... – mormorò mentre continuava ad accarezzargli la mano. – Non importa... basta che la smetti di piangere, okay?
Mentre pronunciava quelle parole gli asciugò le lacrime con il pollice. Jungkook non disse niente: si limitò ad accoccolarsi contro Jimin, come se stesse cercando di salirgli in braccio.
- Ti prego, non lasciarmi più da solo, non te ne andare. – La sua voce era così bassa che quasi non sentì le sue parole, ma comprese. Comprese ciò che Jungkook gli aveva detto, e anche se Jimin era stato lasciato da solo più volte, guardando il viso dell’altro rigato di lacrime, seppe che non avrebbe mai più rischiato di farlo soffrire tanto. Aveva bisogno che Jungkook stesse bene, ne aveva bisogno per la sua salute mentale.
Devi fare in modo che faccia pace con il suo cervello.
Le parole di Yoongi risuonarono nella testa di Jimin. Si stese accanto a lui e lo abbracciò come quando Jungkook aveva paura di qualcosa: anche se era poco più basso, le sue braccia riuscivano ad avvolgerlo rassicuranti. Non ci volle molto tempo prima che si assopisse – Jimin ipotizzò che, come lui, non avesse chiuso occhio per parecchie ore. Prima di seguirlo tra le braccia di Morfeo, pensò che forse più tardi avrebbe potuto parlargli della festa ideata da Yoongi, ovviamente omettendo alcuni dettagli.
Più tardi.
 
***


Yoongi guardò le persone riunite nello studio di Namjoon con una certa soddisfazione.
- Allora, avete capito cosa dovete fare?
Tutti annuirono, tranne un ragazzo dall’aspetto un po’ gracile, portato da Seokjin. Yoongi l’aveva soprannominato “il nuovo elemento”. Quello, un po’ perplesso, disse con voce insicura: - Quindi io dovrei andare a sbattere volontariamente contro una persona che nemmeno conosco?
O Dio, ma questo è scemo. – Il piano è quello, Gu Ran.
- Lu Han – lo corresse lui, ma Yoongi non ci prestò troppa attenzione. Piuttosto, riprese a guardare i presenti, che ancora non gli sembravano del tutto convinti di ciò che stavano per fare. Appoggiò le mani sulla scrivania di Namjoon.
- Sentite, questa è una cosa davvero importante. Immagino che tutti voi abbiate qualcuno di davvero importante nella vostra vita, no? L’amico che dovete proteggere a ogni costo, quello per cui fareste di tutto. Ecco, quello che vi ho chiesto di fare è per quell’amico. È stato davvero troppo male, e... e penso che anche lui si meriti di essere felice ora. Sono stanco di doverlo consolare ogni volta, sono stanco di vederlo piangere, l’amore non dovrebbe portare solo sofferenza, no? Tutti hanno bisogno, almeno una volta nella vita, di amare e essere amati.
Yoongi teneva lo sguardo fisso sui suoi ascoltatori. A ogni parola, ciascuno sembrava acquistare sicurezza; qualcuno faceva dei gesti di approvazione con il capo. Quando smise di parlare, il silenzio calò sullo studio. Cercò istintivamente Namjoon: quando vide che lo stava guardando orgoglioso, si sentì rincuorato.
- Va bene. Yoongi ha ragione: quello che dobbiamo fare domani è importante. – Uno dei ragazzi si era alzato dal divano, rispondendogli con sicurezza. Se non si sbagliava, era Sehun, uno di quelli che aveva fornito a Namjoon l’elenco degli invitati.
- Allora siamo d’accordo. Domani sera al Dark & Wild?
Gli altri risposero in coro, come una persona sola. – Domani sera al Dark & Wild.
 
Spiegare le dinamiche del piano e convincere tutti a metterlo in atto. Fatto.
Prossima mossa: mettere effettivamente in atto il piano.
Quando e dove? Domani sera al Dark & Wild.










Angolo autrice (parte 2):
Allora, vi è piaciuto? Ci sono state altre bizzarre apparizioni, e continueranno nei prossimi capitoli (l’ottavo è work in progress). Spero che la storia continui a piacervi, ormai siete in parecchi sia a seguire che a preferire questa fanfiction, e mi fa molto piacere!
Come al solito, se avete tempo e voglia lasciate una recensione, che qua fa sempre piacere.
Ci vediamo al prossimo capitolo,
Ireth

 

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Capitolo 6
*** Did you lose what won't return? ***


Angolo autrice:
Salve persone! Dunque, questa volta vi ho fatti aspettare un po' di più, ma c'è una spiegazione, davvero: ho passato una settimana in Irlanda (che tra l'altro è bellissima, andateci se potete, sembra un sogno quando sei lì), e non mi sono potuta portare dietro il computer. Sono tornata ieri, quindi eccomi qui con il nuovo capitolo! Spero davvero che vi piaccia, perché a me è piaciuto molto scriverlo, ma ora vi lascio alla lettura.








 
Did you lose what won't return?














A Taehyung era sempre piaciuta la finestra di camera sua. Forse perché quando si era trasferito a Seoul con i suoi genitori, a soli cinque anni, quella finestra era stata l’unica cosa che gli aveva ricordato la sua vecchia vita: il colore del legno, lo spessore del vetro, il modo in cui il suo riflesso spariva quando ci schiacciava il naso contro... tutto gli sembrava tremendamente simile a ciò che si era lasciato alle spalle – anche se probabilmente qualunque finestra lo sarebbe stata. Ma cosa poteva saperne un bambino di cinque anni? Era rimasto talmente colpito da quella finestra che aveva passato ore intere davanti a essa nei primi mesi nella nuova città, e quell’abitudine l’accompagnava tutt’ora.
Stava giusto ripensando al sé bambino privo di preoccupazioni, a cui bastava la vista di una finestra per essere più felice, quando sentì il proprio telefono squillare. Rimase ancora qualche secondo a osservare il semaforo, che da verde era appena divenuto giallo, poi, preso dalla curiosità, corse sul letto – dove l’apparecchio giaceva abbandonato da alcune ore – per leggere chi fosse a quell’ora.
Un’espressione di sorpresa e, perché no, di sollievo si dipinse sul suo viso mentre rispondeva alla chiamata.
- Pronto?
- Ciao Tae, come va?
Domanda di riserva?, pensò ironicamente Taehyung. Come andava? Abbastanza a scatafascio, in realtà, ma non era abbastanza in confidenza con il suo interlocutore per raccontargli i suoi problemi esistenziali. Aveva conosciuto Sehun al corso di fotografia che aveva frequentato l’anno prima, e si erano scambiati i numeri per restare in contatto anche al termine delle lezioni. A volte si sentivano, magari quando si incrociavano all’università si fermavano a scambiare due chiacchiere, ma non avevano mai sentito il bisogno di approfondire la loro amicizia.
- Abbastanza bene – decise invece di rispondere. – Tu?
- Tutto okay. Senti... tu domani sera hai da fare?
A parte deprimermi e pensare a quanto la mia vita faccia schifo? – No, direi di no, perché?
- Mi hanno invitato a una festa, ma quel bacchettone di Kyungsoo mi ha dato buca, dice che deve studiare. Vieni con me?
Una festa? Taehyung non era sicuro di essere dell’umore adatto per una cosa del genere. Gente, musica, magari altre coppiette svenevoli come quella che aveva incontrato di mattina... probabilmente si sarebbe sentito male e basta, gli sarebbe venuta l’iperventilazione e avrebbe rovinato la serata anche a Sehun. Quindi optò per la scusa che tutti puntualmente usavano – e che, forse, aveva usato anche quell’altro suo amico di cui aveva già dimenticato il nome.
- Non saprei, anche io ho parecchio da studiare, è un periodo un po’ incasinato questo...
- Dai, non farti pregare, non voglio andarci da solo, e poi è solo un’innocente festa di compleanno! – lo implorò Sehun dall’altro capo del telefono. – Sarà divertente! È al Dark & Wild, lo conosci, no?
Taehyung ci pensò su per un po’, poi riconobbe quel nome: era un locale niente male, tutti quelli che ci erano stati ne avevano parlato più che bene. Ora che ci pensava, anche Hoseok ci era andato una volta.
Smettila di pensare a lui, ti prego. Sei patetico. Taehyung era abbastanza indeciso: non era proprio dell’umore giusto per una festa, ma forse sarebbe stata una buona occasione per distrarsi. Forse una serata di svago gli avrebbe fatto bene, e almeno per qualche ora sarebbe riuscito a non pensare a Jungkook o, ancora peggio, a Hoseok. Alle feste c’era sempre l’alcol, no? A volte quello serviva più dei sonniferi che prendeva qualche mese prima. E poi, se proprio la festa gli avesse fatto schifo, sarebbe potuto tornare a casa a piedi – se non si ricordava male, il Dark & Wild non distava troppo dalla sua abitazione. Rifletté che, però, così facendo avrebbe lasciato da solo Sehun, che gli aveva appena offerto quella che avrebbe potenzialmente potuto essere una scappatoia a ciò che stava vivendo. Tuttavia non si soffermò troppo sul quel particolare: era un tipo in gamba, avrebbe saputo come cavarsela.
- Taehyung, sei vivo?
La domanda di Sehun risvegliò il ragazzo dai suoi pensieri. Senza neanche rendersene conto, aveva iniziato ad arrovellarsi su mille elucubrazioni, lasciando libera la linea telefonica e insoddisfatto il suo interlocutore.
- Sì, sì, ci sono.
- Ci sei alla festa o ci sei con la testa?
- Ehm... entrambe. – Credo.
- Ottimo! Allora ti passo a prendere io domani sera verso le otto e mezza.
- Va bene, ciao.
Senza aspettare che l’altro rispondesse al saluto, Taehyung chiuse la chiamata e tornò davanti alla finestra, appoggiando il telefono sul davanzale. Osservò per qualche minuto le automobili che andavano avanti e indietro sotto di lui, chiedendosi se non avesse fatto male ad accettare la proposta dell’amico. Gli tornò in mente ancora una volta la coppia di ragazzi che aveva visto la mattina precedente, e in un attimo di malinconia si domandò se un giorno anche lui avrebbe avuto qualcosa di simile con qualcuno. Non necessariamente Hoseok o Jungkook, qualcuno. Qualcuno con cui bisticciare e fare pace con un bacio, qualcuno che lo portasse a fare colazione al bar la mattina, che non lo abbandonasse dopo qualche mese e che non tradisse la sua fiducia.
Improvvisamente, sentì il rumore della porta di casa che si apriva e veniva richiusa.
- Tae, sono a casa! – disse sua madre dall’ingresso, dirigendosi verso la cucina. Taehyung, allora, decise di chiudere tutte le sue domande e i suoi pensieri in un ipotetico cassetto nella sua testa – se c’era una cosa che odiava fare, era far preoccupare sua madre, che nonostante avesse un figlio ormai quasi diciottenne, lo considerava ancora il suo “bambino” – e si godette gli ultimi istanti di quiete e solitudine, conscio che di lì a poco la sua presenza sarebbe stata richiesta per l’imbastimento della cena.
- Taehyung! Vieni ad aiutarmi in cucina!
Come previsto, pensò sorridendo appena mentre usciva dalla propria stanza. Alcune cose non sarebbero mai cambiate – e non sapeva se questo fosse del tutto un bene o un male.
Un’altra cosa che Taehyung non sapeva, inoltre, era che pochi minuti prima Jung Hoseok aveva ricevuto una telefonata analoga alla sua da parte di un certo Kwon Jihae, che aveva sostenuto con convinzione di essere un suo compagno di corso, di essere stato invitato alla medesima festa e di avere un disperato bisogno che qualcuno di sua conoscenza oltre alla persona che lo aveva invitato fosse presente. Hoseok, durante tutta la telefonata, ebbe la sensazione di aver già sentito la sua voce, ma non all’università... dopo alcuni minuti di tentennamento, però, mise da parte le domande e accettò l’invito. In quel medesimo momento, a qualche chilometro di distanza, un alquanto soddisfatto Min Yoongi chiuse la chiamata.
Altra cosa a cui Kim Taehyung non aveva minimamente pensato – e perché avrebbe dovuto? – mentre apparecchiava la tavola, era la possibilità che il ragazzo che gli aveva chiesto una sedia al bar, tale Byun Baekhyun, avesse ripetuto le medesime parole, circa nel medesimo istante, a un assonnato Jeon Jungkook, spacciandosi per Park Moonbin, innocente ragazzo che frequentava effettivamente il suo corso di fisica, ma di cui Jungkook non riusciva minimamente a ricordare la voce, dato che il sopracitato Park Moonbin era la persona più silenziosa che conoscesse – particolare che aveva notevolmente agevolato il lavoro del suo interlocutore. Una volta messo via il telefono, vedendo che anche Jimin si era svegliato, l’aveva informato dell’evento. Quello aveva detto che ne sapeva già qualcosa, e che si era già organizzato con Yoongi. Un po’ rattristato per il fatto di non potersi recare alla festa insieme all’amico, Jungkook aveva sorriso, e aveva detto: “Allora ci vediamo lì domani sera”. E anche se non riusciva ancora a identificarla come tale, quella stilettata che aveva sentito proprio lì, al cuore, era indubbiamente gelosia.
Quante cose che Taehyung ignorava, però stava meglio così, masticando il riso con il pollo che la madre gli aveva cucinato pensando alla sua cara finestra. Magari l’avrebbe guardata ancora un po’ prima di andare a dormire. Pensò che quando avrebbe trovato quel qualcuno gli sarebbe piaciuto portarlo in camera sua e passare un po’ di tempo davanti alla sua finestra – non l’aveva mai fatto con Hoseok, non sapeva perché. Per un attimo gli passò davanti agli occhi la scena di un’ipotetica rappacificazione con lui, di un ritorno a quella normalità che gli piaceva così tanto, magari gli avrebbe potuto parlare della sua finestra, ma scacciò subito quell’idea mandando giù un’altra cucchiaiata.
 
***


Uno sgangherato concerto di clacson svegliò bruscamente Jung Hoseok dal suo sonno. Si rigirò per un po’ nel letto, ma non riuscendo a riaddormentarsi, decise di alzarsi. Si stropicciò un po’ gli occhi e a passo lento si diresse verso la cucina, intenzionato a prepararsi la colazione. Giunto di fronte al frigorifero, si accorse della presenza di vari post-it giallo canarino – erano parecchi perché il messaggio era tanto lungo da necessitare la presenza di più foglietti - con sopra scritto: “Sono all’università, torno oggi pomeriggio. Se ti azzardi ad andare a lezione in questo stato quando ti vedo ti picchio. Se hai bisogno di qualcosa chiamami. Ti voglio bene, Jiwoo” Il tutto terminava con una faccina sorridente e un cuoricino. Hoseok sorrise: sua sorella lo capiva quasi meglio quando lui capisse se stesso. Staccò i post-it e li andò a sistemare accuratamente in un cassetto della sua scrivania, poi tornò in cucina. Guardò l’ora: anche volendo, sarebbe stato comunque troppo tardi per arrivare in tempo all’università, e poi aveva parecchio mal di testa, sarebbe stato controproducente. Si fece il suo solito tè con i biscotti, poi andò in bagno per prendere una pastiglia contro il mal di testa – era sicuro di averne qualcuna da qualche parte. Si guardò allo specchio: era parecchio pallido, ma stava già meglio rispetto al giorno prima. Dopo un paio di minuti di ricerca, trovò finalmente ciò che cercava, ingerì la pastiglia e tornò in camera sua.
Giunto lì, fece qualcosa che non aveva mai fatto da quando viveva con la sorella in quell’appartamento: mise a posto tutto, e meticolosamente. Non lasciò da parte nemmeno il più piccolo granello di polvere, sistemò ogni singolo libro nel giusto scaffale, rifece il letto con una cura che non si sarebbe mai aspettato da se stesso. Quando ebbe terminato, circa un’ora e mezza dopo, prese un libro che gli aveva regalato la sorella qualche tempo prima, e iniziò a leggerlo. Doveva dire di essere un po’ confuso: non capiva se era scemo lui, o se lo era lo scrittore. Per le prime trenta pagine circa – e le pagine erano in tutto centocinquanta -, l’argomento del libro era decisamente oscuro, e Hoseok non vedeva alcun collegamento logico con il titolo. Andando avanti con la lettura, si rese conto che le cose si ingarbugliavano mano a mano: a volte lo scrittore scriveva in terza persona, poi, senza preavviso, passava alla prima. La protagonista, una ragazza di diciotto anni, fidanzata con un ragazzo più grande di lei che però non si decideva a comparire, prima baciava la sorella di quest’ultimo, e poi, non contenta, faceva lo stesso – e non solo – anche con la madre. Il tutto condito con abili metafore e parole poetiche che rendevano ogni scena a luci rosse vagamente surreale e artistica, questo all’autore bisognava concederlo.
Nonostante la stranezza del libro, Hoseok ne fu tanto preso da finirlo tutto d’un fiato. Senza preoccuparsi del tempo che passava, cercò subito un altro libro: scoprì di averne due, sempre dello stesso autore, entrambi in formato tascabile. Ne prese uno a caso e si immerse nella lettura, senza prestare alcun tipo di attenzione al tempo che scorreva intorno a lui. In realtà non prestò attenzione a nulla fuorché al libro: si dimenticò anche di fare pranzo, e riuscì in quello che era il suo vero intento, anche se e livello inconscio: non pensare a niente se non alle parole stampate sulla carta. I ricordi malsani che in genere lo schiacciavano si erano come dissolti tra le pagine, donandogli una pace che però sapeva destinata a terminare. Tuttavia, non era disposto a rinunciare a quella tranquillità – seppur illusoria -, quindi ogni volta che il viso di Taehyung o scene della notte che aveva passato ad aspettarlo tornavano a fare capolino nella sua mente, li scacciava con decisione, concentrando tutte le sue energie sul libro che stava leggendo. Libro che, come l’altro, presentava argomenti bizzarri, ma sempre con quella particolare e aggraziata esposizione che rendeva apprezzabile anche la scena più grottesca.
Fu quasi comico il modo in cui, non appena il fratello giunse all’ultima pagina, Jiwoo entrò in casa. Hoseok non se ne accorse subito: aveva ancora poche righe da terminare, non poteva permettere a niente e a nessuno di distrarlo. Così, quando la ragazza annunciò che era tornata e non ricevette alcuna risposta, si preparò a dirne di cotte e di crude al fratello maggiore, credendo che fosse uscito. Certo non si aspettava di entrare in camera sua e vederlo sul letto mentre chiudeva un libro con espressione afflitta.
L’unica cosa che Hoseok le disse, appena la vide, fu: - Rachel non ce l’ha fatta.
Il suo viso esprimeva autentica tristezza, e Jiwoo si sciolse in un attimo vedendo quel broncio adorabilmente curvato in giù, da bambino. Si andò a sedere vicino a lui. – Dai, è solo un libro, queste cose succedono nei libri.
- Sì, ma Rachel era una persona forte, una di quelle che non si arrendono – Il tono del ragazzo si incupì, divenne più serio, più consapevole di quanto ciò che aveva letto gli potesse servire da lezione. – Ma non ce l’ha fatta lo stesso... aveva troppa paura anche lei.
Per qualche istante nella stanza ci fu un silenzio leggero, grigio. Hoseok pensò che avrebbe tanto voluto essere come Rachel, la protagonista del libro che aveva appena terminato: aveva tutta quella forza e quel coraggio che gli mancavano. L’unica cosa che non gli quadrava era che fosse morta: le persone così non muoiono, non nei libri. Quell’autore era decisamente strano... o forse no. Forse davvero non bastava mettere da parte le paure per farcela, in qualsiasi cosa: sarebbero rispuntate da sole, quando meno ce lo si sarebbe aspettato. Pensò a come si era comportato con Taehyung: era stato un vero codardo, talmente prigioniero delle proprie fisime che aveva lasciato andare l’unica persona che davvero contasse per lui – escludendo sua sorella e i suoi genitori.
Alzò lo sguardo su Jiwoo, e in quel momento un pensiero gli piombò addosso come una secchiata d’acqua gelida.
- Che ore sono? – chiese allarmato alla sorella, alzandosi dal letto per andare a mettere a posto il libro su uno scaffale.
- Ho fatto un po’ tardi... sono quasi le otto, perché?
- Le otto? Di già? Stai scherzando vero? – disse sempre più alterato Hoseok, lasciando ancora più perplessa la sorella. Aprì con fare disperato l’armadio, riflettendo sul fatto che il luogo in cui doveva andare distava almeno una quarantina di minuti se avesse voluto raggiungerlo con i mezzi e che non aveva mai preso la patente perché non ne aveva mai avuto bisogno – e perché, inutile negarlo, se ci avesse provato avrebbe provocato la distruzione di buona parte della città in cui viveva –, quindi non disponeva neanche di un’automobile per velocizzare le cose.
Aspetta, si disse mentalmente. Quel problema forse poteva essere risolto senza troppo sforzo: lui in effetti conosceva una persona dotata di patente e di automobile, ed era seduta sul suo letto a circa un metro da lui. Si girò di scatto verso Jiwoo, che lo stava ancora guardando eufemisticamente incuriosita dal suo bizzarro comportamento.
- Sorellina... stasera non hai degli impegni vero?
- Ehm, no, ma...
- Molto bene, perché un mio amico mi ha invitato a una festa, ma io sono spaventosamente in ritardo...
- ...e ti serve la macchina altrimenti non arriverai mai a un orario decente?
- Questo è quello che intendo con “telepatia tra membri della famiglia Jung”! – esclamò soddisfatto Hoseok, stendendo le sue labbra in un sorriso. Jiwoo lo guardò per un po’ senza dire niente, sorridendogli di rimando.
- Ehi, tutto bene? – le chiese dopo alcuni istanti il fratello maggiore.
- Sì... hai sorriso, era un sacco di tempo che non lo facevi – rispose semplicemente la ragazza. Per un attimo Hoseok restò interdetto: non se n’era nemmeno reso conto, ma effettivamente era vero. Aveva sorriso, e, almeno per il momento, si sentiva stranamente di buon umore. La guardò, e lei capì: sapeva che non era una condizione permanente, ma andava bene così.
- Allora? Ci vieni con me?
 
***
 
Dopo un’oretta che si trovava al Dark & Wild – senza aver ancora trovato Park Moonbin –, Jungkook poteva affermare con sicurezza due sole cose: che il barista era uno stronzo, e che quel posto era un casino. La prima constatazione era dovuta al fatto che, una volta avvicinatosi al piano bar, lui si era innocentemente azzardato a ordinare una bevanda analcolica. Questo perché, in fondo, lui era sempre stato un bambino, e l’alcol non gli era mai piaciuto. Più volte i suoi amici, e anche lo stesso Jimin, avevano cercato di fargli bere qualcosa di più alcolico della coca-cola: in quelle occasioni, Jungkook aveva diligentemente accettato l’offerta, buttato giù un sorso - più che un sorso una goccia – e aveva detto: “No grazie” con un sorriso tirato. Dopo di che era sempre corso a cercare dell’acqua per sciacquarsi la bocca da quel sapore amarognolo.
Il barista, a quella richiesta, gli aveva riso in faccia chiedendogli quanti anni avesse. A quel punto, capendo l’antifona, Jungkook aveva tolto le tende ed era andato nell’angolo riservato ai regali per il festeggiato, un certo Chanyeol, se non si ricordava male. Dal suo angolino, Jungkook aveva potuto fare la sua seconda constatazione: c’era un sacco di gente, non aveva mai visto così tante persone raggruppate in un unico posto solo per una festa di compleanno. Molti li conosceva solo di vista, frequentavano l’università. Pensò che probabilmente Chanyeol dovesse essere una persona molto felice e con un mucchio di soldi, per avere così tante persone alla sua festa e aver affittato un locale così grosso. Nella sua innocenza e ingenuità, Jungkook non pensò minimante che quella festa fosse stata indetta solo formalmente per il compleanno di Chanyeol: tutta quella gente, in realtà, era solo un diversivo. Era lui la causa di tutto, il movente che aveva portato uno studente universitario, uno psicologo e un professore di economia a mettere in piedi tutta quella farsa, perché lui era troppo cieco per vedere alcune cose totalmente ovvie. Una, tanto per fare un esempio, era il fatto che Jimin fosse innamorato di lui. Un’altra, era che anche Jimin non gli era del tutto indifferente, solo che non se ne rendeva conto.
- Ehi, stai bene?
Una voce molto delicata, che quasi strideva con tutto il rumore assordante che c’era in quel luogo, lo fece riscuotere. Sollevò lo sguardo – prima si era seduto contro il muro raccogliendo le gambe al petto, in una posa che forse sarebbe potuta risultare strana o addirittura vagamente inquietante – verso il ragazzo che gli aveva parlato: poteva avere circa la sua età, se non qualche anno in meno, ed era abbastanza gracile. Aveva dei lineamenti gentili, e quasi sicuramente non era coreano: aveva un modo strano di pronunciare alcune lettere, forse era cinese.
- Sì, sì, sto bene. È solo che... tutte queste persone – dicendolo, Jungkook indicò con la testa la folla nel locale – mi mettono un po’ di ansia, ecco.
- Anche a me, sai? – accennò con voce vagamente infastidita il ragazzo. – E il barista è proprio uno stronzo.
A quell’affermazione, incuriosito, Jungkook gli chiese il motivo.
- Due minuti fa ho ordinato una coca-cola, e quello mi ha praticamente riso in faccia! È un delitto adesso essere astemi?
Sentendo la risposta del ragazzo, Jungkook scoppiò a ridere in maniera talmente fragorosa che quasi andò a sbattere con la testa contro la parete. Dato che non accennava a smettere, l’altro gli chiese: - Be’, che hai da ridere? Anche tu pensi che la gente dovrebbe andare in giro a ubriacarsi senza ragione? Sei ubriaco anche tu magari?
Jungkook cercò di trattenere le risa, e quando si fu sufficientemente calmato, rispose: - No, no, è solo che mi è successa esattamente la stessa cosa. Curioso, no?
Il ragazzo cinese lo guardò stupito, ma dopo pochi secondi iniziò a ridere anche lui: in fondo era sempre bello trovare qualcuno con i propri medesimi problemi, o che veniva deriso per le stesse ragioni.
Mal comune, mezzo gaudio.
- Dai, siediti qui con me – gli disse Jungkook, facendogli segno di prendere posto di fianco a lui con la mano. L’altro ci pensò un attimo, poi fece come gli era stato detto, ma il gesto che compì alla fine lasciò un po’ perplesso Jungkook: dopo essersi chiuso in una sorta di posizione riccio, appoggiò una guancia sulle ginocchia in modo da poterlo guardare. Era più inquietante di lui, quello era sicuro, ma stranamente la cosa non lo turbava minimamente. Forse avrebbe passato una serata carina anche senza Moonbin.
- Comunque io sono Lu Han, piacere di conoscerti – concluse con un sorriso.
Proprio in quel momento, un altro ragazzo varcò la soglia del Dark & Wild, attirando nel giro di pochi secondi l’attenzione del “Comparto speciale”, così denominato da Min Yoongi, coordinatore in capo delle operazioni. Fu proprio quest’ultimo a prendersi l’incarico di dirottare il suo percorso verso la felicità. Una cosa che non si immaginava assolutamente, però, era che il suo obiettivo fosse accompagnato da una ragazza.
 
***


Taehyung era certo che Sehun, pochi secondi prima, fosse a cinque centimetri di distanza da lui. Eppure, se la vista non lo ingannava, il ragazzo era appena improvvisamente scomparso. Si era voltato un attimo perché un particolare – non ricordava più nemmeno quale – aveva casualmente attirato la sua attenzione, e il suo amico si era come volatilizzato. Di colpo si rese conto della quantità esorbitante di gente raccolta nel locale, e che non sarebbe mai riuscito a rintracciarlo. Tutta quella folla gli ricordò quella volta in cui aveva partecipato a un concorso di fotografia, tema “confusione”: se avesse fatto una foto in quel momento sarebbe stata perfetta. Quel concorso però era ormai terminato da tempo, lui era arrivato solo terzo e in quel periodo aveva appena conosciuto Hoseok, quindi si affrettò ad accantonare quel ricordo.
Invece, armatosi di buona volontà e cercando di non andare in iperventilazione per la paura di rimanere solo lì dentro, andò alla ricerca di Sehun, nonostante avesse asserito poco prima che sarebbe stato improponibile tentare di farlo.
Iniziò a farsi largo a gomitate a destra e a manca, biascicando irritati “Permesso” ogni volta che qualcuno restava caparbiamente nella propria posizione impedendogli il passaggio. La musica gli rimbombava nelle orecchie, la sentiva picchiare contro le sue tempie come un martello pneumatico. Cercava di non badare al tempo che passava: l’unica cosa che contava era trovare Sehun. L’ansia aveva iniziato ad assalirlo, e la ricerca del suo amico era divenuta di vitale importanza e di impossibile quanto indispensabile riuscita.
Gli sembrò di essere stato bruscamente risvegliato da un incubo quando qualcuno lo afferrò per una spalla.
- Ehi, stai bene? Hai una faccia pallidissima.
Taehyung si girò verso la persona che lo aveva bloccato: era un ragazzo alto circa quanto lui, con i capelli castani e due occhi abbastanza preoccupati. Guardandolo meglio, però, si rese conto che proprio un ragazzo non era: sembrava anzi avere diversi anni in più di lui. Più che un ragazzo, in effetti, sembrava un uomo, e stargli vicino gli procurava una strana sensazione: gli sembrava di averlo già visto, ma non riusciva a ricordare né quando né dove...
- Sto-sto bene, sì, benissimo, da Dio, mai stato meglio – rispose balbettando, dando esattamente l’impressione contraria. L’altro infatti lo guardò scettico, e badò a non lasciare la presa sulla sua spalla, perché temeva che Taehyung sarebbe rovinosamente caduto a terra. Senza accorgersene, aveva addirittura iniziato a tremare.
- A me non sembra tanto... senti, vuoi uscire un attimo?
Questo qui è palesemente un angelo venuto dal cielo per salvarmi, pensò Taehyung mentre annuiva energicamente all’uomo. Quello gli chiese ancora se riusciva a camminare da solo, e quando ricevette una risposta affermativa, gli disse di seguirlo, e lo lasciò andare con cautela. Mentre lo guidava attraverso la folla, Taehyung – questa volta facendo attenzione a non perderlo mai di vista – iniziò a pensare al fatto che era strano che qualcuno della sua età si trovasse a una festa del genere: era sicuramente troppo giovane per essere il padre del festeggiato; magari era un parente, ma in genere i parenti stanno incollati ai festeggiati, non si mischiano alla folla degli invitati. Quella storia continuava a sembrargli strana, ma una volta che fu finalmente fuori dal locale smise di farsi troppe domande: tanto non sarebbe venuto a capo di niente.
- Meglio? – gli chiese, mentre entrambi si appoggiavano con la schiena alla parete esterna del Dark & Wild.
- Decisamente – rispose Taehyung sospirando. Sì, fuori si stava decisamente meglio: almeno lì c’era aria respirabile. Per un po’ nessuno dei due disse nulla, e un’atmosfera di imbarazzo calò tra loro; Taehyung iniziò a guardarsi la punta delle scarpe, giocando con i ciottoli, aspettando che l’uomo di fianco a lui facesse qualcosa.
Infatti fu proprio lui a rompere quel silenzio. – Non dovresti venire a feste del genere se la folla ti fa stare così male, sembrava che tu stessi svenendo lì dentro.
- Un amico mi ha chiesto di venire con lui, io non sarei mai venuto di mia spontanea volontà – ribatté ridacchiando il ragazzo. – Tra l’altro l’ho perso di vista... non mi piace essere lasciato da solo – continuò poi, continuando a guardare in basso. Quella frase lo fece inevitabilmente pensare a Hoseok. Già, non gli piaceva per niente essere lasciato da solo.
- Non l’avrà sicuramente fatto di proposito... non preoccuparti, okay? – Il tono comprensivo che l’uomo sconosciuto usava con lui lo tranquillizzava, lo faceva sentire... piccolo, ma in maniera piacevole. Finalmente si decise a voltarsi verso il suo interlocutore.
- Come ti chiami?
- Kim Seokjin. Tu inve...
- Ma io so chi sei! – lo interruppe subito Taehyung, prima che potesse terminare la sua domanda. – Tu insegni economia all’università, sei quello giovane! – Esclamò puntando il dito verso Seokjin, sempre più stupito del fatto che si trovasse a quella festa. Non appena si fu reso conto che stava parlando con un professore, si maledì per la confidenza che aveva usato fino a pochi secondi prima, e riprese a balbettare come nel locale. – Tu, insomma, lei, cioè...
- Per stasera sono solo Seokjin, stai tranquillo – rispose quello, esibendo la sua solita espressione rassicurante. – E tu sei?
- Kim Taehyung... sì, beh, però sono solo Taehyung – Il ragazzo si maledì per le sue reazioni sempre più maldestre: non riusciva a infilare un discorso per il verso giusto, ogni risposta era sgangherata e inconcludente. E poi, continuava a chiedersi perché quell’uomo fosse lì: non capiva perché fosse diventato così importante saperlo, ma la curiosità lo stava divorando. Così, prima che potesse bloccarle, le parole gli uscirono spontanee dalla bocca.
- Perché un professore dovrebbe venire a una festa del genere?
Quando realizzò che aveva posto quella domanda a un professore, diamine, e che probabilmente non avrebbe avuto alcun motivo concreto per conoscere la risposta, cercò di rimediare: - Sì, be’, se può dirmelo, non vorrei essere ind...
- Ti prego, smettila di darmi del lei, mi fai sentire vecchio! – lo interruppe Seokjin ridendo. Poi rimase qualche secondo in silenzio, come se stesse pensando a che risposta dare. – Ehm... è una lunga storia – disse alla fine, incrociando le braccia al petto.
Taehyung rimase un po’ perplesso: si era aspettato una risposta qualunque, a esempio “Mi sono imbucato”, o “Sono un parente”, come aveva ipotizzato prima, oppure “Il fratello del migliore amico del figlio di un mio collega mi ha costretto a venire”, non un evasivo “E’ una storia lunga”. Non lo convinceva, non lo convinceva assolutamente, però non poteva azzardare altre domande, altrimenti sarebbe risultato troppo strano. E okay, lui effettivamente strano lo era, e anche parecchio, ma non ci teneva a sembrarlo troppo davanti a un professore universitario.
- Senti, mi sembri ancora un po’ pallido, torno un attimo dentro a prenderti qualcosa da bere – disse poi in un tono un po’ strano. Si voltò e fece per tornare nel locale, ma all’ultimo secondo, quando aveva già fatto un passo oltre l’entrata, gli fece un’ultima raccomandazione: - Tu resta qui.
Dopo di che scomparve all’interno del Dark & Wild.
Sei di nuovo solo, eh?
 
***


Dopo pochi minuti che era entrato nel locale, Hoseok vide un ragazzo con i capelli tinti di un rosso acceso che osservava lui e sua sorella. Diede una gomitata a Jiwoo per attirare la sua attenzione.
- Senti, ma secondo te quello lì ha qualche problema con noi?
La ragazza lo guardò stranita, poi seguì con gli occhi la direzione indicata dal fratello.
- Hobi, hai anche le traveggole adesso? Non c’è nessuno lì.
- Ma cosa dici? Guarda ben... oh – Con grande disappunto e incredulità da parte di Hoseok, il ragazzo era come scomparso. Probabilmente si era reso conto di essere stato notato e si era mischiato tra la folla.
- Io l’ho sempre detto che soffri  di manie di persecuzione, fratellone, – continuò la sorella – e adesso hai anche le visioni, magari diventerai un medium o qualcosa del genere.
Tempo di fare qualche altro sproloquio su Hoseok, di gesticolare un po’ guardando per aria, che il quello le sparì da sotto il naso. Ovviamente Jiwoo non poteva sapere che l’ex di suo fratello stava avendo il suo stesso problema, e non poteva neanche sapere che di lì a pochi secondi avrebbe rivisto una persona che non sarebbe dovuta essere nella maniera più assoluta in quel locale.
Hoseok, invece, era più che altro sbalordito, in quanto il tizio con i capelli rossi che aveva visto poco prima lo stava trascinando via dalla sorella per condurlo in un luogo imprecisato.
Io l’avevo detto che quello lì aveva dei problemi con noi, pensava intanto, anche un po’ preoccupato. Che diamine stava succedendo? E poi... cavolo, quel ragazzo lo stava trascinando per un polso, e gli faceva male. Probabilmente se l’avesse voluto sarebbe riuscito a liberarsi, c’era talmente tanta gente che avrebbe impiegato ben poco a dare un bello strattone e confondersi in mezzo al casino. Però... però era curioso. Sapeva che era stupido, e che avrebbe fatto meglio ad andarsene subito, perché quello poteva perfettamente essere un delinquente, o un serial killer, ma ormai era lì, no? Cosa aveva da perdere?
E poi qui non c’è nessuno che mi conosce, a parte mia sorella. A nessuno interessa quello che potrebbe succedermi.
Quindi smise di opporre quella pur lieve resistenza di prima e attese che lo sconosciuto lo portasse dove voleva. A un certo punto arrivarono in un punto che Hoseok riconobbe essere l’entrata del locale, e si fermarono. Il ragazzo si guardò intorno, poi guardò fuori. Dopo aver assunto un’espressione vagamente pensierosa, cambiò brutalmente direzione dirigendosi verso il piano bar.
Cos’è, mi rapisce e poi mi offre un drink?, si chiese ironico, sempre più incuriosito di scoprire che cosa avesse intenzione di fare il rosso. Quello si sedette su uno degli sgabelli e, per la prima volta da quando aveva iniziato quel bizzarro percorso attraverso il Dark & Wild, aprì bocca.
- Su, siediti anche tu.
Hoseok strabuzzò gli occhi: lui sapeva di chi era quella voce. Riuscì finalmente a guardare in faccia il ragazzo, e comprese l’identità dello sconosciuto: era quel ragazzo che, di punto in bianco, quando l’aveva visto svenuto per terra pochi giorni prima – gli sembravano passati anni -, se l’era caricato sulle spalle e l’aveva portato in un campo da basket alquanto malconcio. Era sicuro che avrebbe dovuto sapere il suo nome, ma l’aveva totalmente rimosso.
Come se gli avesse letto nel pensiero, quello gli rivolse uno sguardo divertito – c’era anche qualcos’altro in quegli occhi, ma Hoseok non riusciva a capire cosa fosse – e gli disse: - Sì, sono io, sicuramente non ti ricorderai il mio nome ma non è poi così importante in questo momento. – Ci fu qualche secondo di silenzio dopo quella frase, in cui nessuno dei due aveva idea di cosa fosse giusto fare. Come era ovvio pensare, fu Yoongi a interromperlo, con una frase che lasciò lievemente interdetto Hoseok. - E ora siediti, che cavolo, sei strano.
Il ragazzo scosse la testa e prese posto, poi appoggiò i gomiti sul bancone. L’altro ordinò qualcosa al barista, ma Hoseok non comprese cosa fosse. Decise di non indagare e di affidarsi alla sorte. Ascoltando meglio la sua voce, però, tutto il quadro gli fu improvvisamente chiaro: la telefonata da parte di un compagno con cui non aveva mai parlato, il fatto che gli sembrasse familiare anche se era sicuro di non averlo mai sentito all’università, e ora quel rapimento in mezzo al locale. Si diede mentalmente dell’ingenuo, chiedendosi come avesse fatto a non arrivarci appena aveva visto in faccia il ragazzo che in quel momento era seduto alla sua destra e stava aspettando un drink di dubbia natura. Sorrideva ironico mentre parlava.
- Ho solo una domanda... Kwon Jihae è davvero un mio compagno di corso o te lo sei inventato tu?
A Yoongi per poco non prese un infarto: no, non rientrava nei piani che Hoseok si rendesse conto del piano. Poco male, avrebbe inventato – sperando che niente andasse storto nella sua testa.
Vedendo come era trasalito il ragazzo e dato che non accennava a rispondere, Hoseok si convinse di aver effettivamente fatto centro. Trascorsero di nuovo alcuni secondi di silenzio. Il barista portò un grosso bicchiere con un liquido trasparente e una fettina di limone e lo depositò davanti a Yoongi. Quello lo fissava indifferente, chiedendosi cosa fosse meglio fare in quel momento: Jimin gli aveva parlato di Hoseok, e sapeva che non era il tipo che iniziava da solo conversazioni che avrebbero potuto metterlo in difficoltà o farlo riflettere sulle sue azioni. Questo, agli occhi di Yoongi, era stata una delle cause principali che avevano portato la sua relazione con Taehyung al tracollo, e prima di mandarlo tra le fauci del leone voleva almeno provare a farlo parlare più o meno spontaneamente. Decise di stare zitto: avrebbe aspettato che dicesse qualcosa. Se non riusciva a farlo con lui, come avrebbe fatto con il suo ex?
Trascorse del tempo. Yoongi si rigirava il bicchiere tra le mani, osservando le impronte delle dita sulla condensa. Hoseok tamburellava sul bancone, le parole come imprigionate all’interno della bocca. Il ragazzo dai capelli rossi aveva quasi perso le speranze. Prese un sorso del suo drink.
- Perché sono qui?
Yoongi posò il bicchiere. Quella roba faceva davvero schifo.
Si girò per guardare Hoseok: stava fissando il bancone, le sue dita tenevano il tempo della musica all’interno del locale. – Sei qui perché Taehyung ha bisogno di te, e tu di lui. So che adesso vorrai andartene: hai paura. Paura che non gli interessi più niente di te, o che non possa perdonarti per quello che hai fatto. Anzi, forse temi ancora di più che possa perdonarti davvero.
Hoseok si irrigidì, le sue dita si bloccarono all’istante. Taehyung era lì? Dove?
- Ma sai cosa? Non l’hai perso, non ancora.
- Come puoi esserne sicuro? Tu non sai niente, non lo conosci... io l’ho ferito, l’ho abbandonato, è tutto inutile ormai. – Mentre pronunciava quelle parole, la sua testa si abbassava sempre di più, così come il suo tono di voce, la forza con cui parlava. Ripensava alla notte che aveva passato sotto il salice ad aspettarlo, inutilmente: aveva fatto tanto male che era stato quasi tentato di farla finita, se lo ricordava.
- Se non gliene fregasse più niente non sarebbe venuto. Anche lui ha ricevuto un invito un po’ strano, con motivazioni un po’ posticce. Sicuramente gli è venuto il dubbio che potesse esserci qualcosa sotto, ma ha accettato lo stesso.
- Non vuol dire niente – rispose sempre più scoraggiato Hoseok. – Magari non gli è nemmeno passato per la mente che ci potessi essere io. Tu dici che dovrei ancora sperare, ma dimmi una cosa: ti è mai successo di non riuscire a respirare per il dolore? Di piangere tanto da non riuscire nemmeno a vedere oltre il tuo naso? Di... di aver amato, ma non aver capito che l’amore è la più grande bugia di questo mondo di merda. Ci sono ferite che non posso curare, né sul mio cuore, né su quello di Taehyung.
Yoongi incassò il colpo. Sapeva che insistere immediatamente sull’argomento sarebbe stato controproducente. Doveva distrarlo, e per distrarlo gli serviva un diversivo.
Dai Yoongi, pensa... un diversivo, non dovrebbe essere troppo complicato.
- Vuoi assaggiare? – gli propose nel tono più neutrale che poté, porgendogli il bicchiere. Hoseok lo guardò un po’ stupito, poi prese cautamente un sorso. La sua reazione fu immediata.
- Bleah! Ma questa roba fa schifo!
Yoongi ridacchiò un po’. – Anche secondo me.
Per la prima volta in tutta la serata, si guardarono negli occhi – si guardarono davvero, e Yoongi vide un’infinita tristezza, una paura incolmabile, una terribile sfiducia nel mondo e in se stesso. Non poteva lasciarlo così, cazzo, non poteva: doveva impedire che vivesse per sempre in quel modo, con quella fottuta paura di fare anche un solo passo, nessuno meritava una vita del genere.
- No, non ho mai amato come dici tu. Ma tutte le altre cose le ho sentite, eccome se le ho sentite, e ho imparato una cosa: c’è sempre una luce in fondo al tunnel. In qualche modo l’uscita si trova, Hoseok, e magari in questo momento tu non riesci a vederla, ma c’è, esiste, ed è qui, appena fuori dal locale, che ti sta aspettando. Non hai perso questa battaglia, perché non l’hai ancora nemmeno combattuta: puoi farlo tornare, ma prima devi avere il coraggio di alzare il culo da questo sgabello e andare a parlargli – Fece una pausa e prese un bel respiro: non voleva rischiare che il suo cervello gli facesse brutti scherzi in quel momento, e l’agitazione non l’avrebbe aiutato nel suo intento. Chiuse un attimo gli occhi, poi li riaprì. – Non ho mai amato così intensamente, ma so che l’amore esiste davvero, perché l’ho visto con i miei occhi. Non c’era nulla di finto, posso assicurartelo: quei due si farebbero prendere sotto da un treno per l’uno per l’altro, e qualcosa mi dice che anche tu faresti lo stesso per Taehyung.
Strano a dirsi, ma Hoseok non abbassò mai lo sguardo mentre Yoongi parlava. A ogni parola, a ogni frase, sentiva come una strana... speranza, nascere dentro di lui, anche se cercava ancora di negarlo a se stesso. Non si stette nemmeno a chiedere come fosse possibile che un ragazzo di cui non ricordava nemmeno il nome ci fosse riuscito: non era assolutamente necessario in quel momento.
- Quindi tu adesso ti alzi, esci da questo posto e vai a riprenderti ciò che è tuo, okay?
Hoseok non rispose. Semplicemente si alzò, uscì da quel posto, e andò a riprendersi ciò che era suo.








Angolo autrice (parte 2):
Allora, vi è piaciuto? Spero davvero tanto di sì :) Come al solito, lasciate una recensione se avete tempo e voglia, e... ci rivediamo al prossimo capitolo!
Ireth

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Capitolo 7
*** I don't need to worry tonight ***


Angolo autrice:
Mi dispiace tantissimo, davvero. Sono dispiaciutissima per avervi fatto aspettare così tanto, ma l'inizio del terzo anno è stato un qualcosa di traumatico. Ci hanno già sottoposto a troppe verifiche e interrogazioni, e ho rischiato di soffocare, seriamente. Avrei voluto mettere il capitolo già ieri sera, ma ho avuto un contrattempo imprevisto... davvero, spero che potrete perdonarmi. Posso però dirvi che, riguardo alla stesura della storia, ormai mi mancano solo due capitoli e mezzo, quindi tranquilli, la finirò. Perché questa storia è davvero importante per me, è talmente tanto tempo che la scrivo che ormai la sento mia a livello emotivo. Terminato questo sproloquio, vi lascio al capitolo. Ci vediamo tra poco :)







 

I don't need to worry tonight














 
Yoongi rimase ancora un po’ seduto al bancone del bar. Continuava a fissare il bicchiere ancora mezzo pieno, senza decidersi a berne il rivoltante contenuto o alzarsi e lasciarlo lì. Se lo rigirò ancora un po’ tra le mani: ormai aveva tolto tutta la condensa, e le sue dita erano diventate umide. Era talmente concentrato che quando sentì il telefono vibrare nella tasca per poco non si versò il drink sui vestiti. Era il tipetto cinese, il nuovo elemento.
- Pronto?
- Yoongi, sono Lu Han, ho un problema.
No, dai, ti prego. – Che succede? Non usare nomi.
A quella raccomandazione, il ragazzo all’altro capo del telefono si bloccò per qualche secondo, cercando di ricordarsi tutti i vari nomi in codice che avevano coniato insieme il giorno prima nello studio di Namjoon.
- Mh... il gabbiano, sì, ecco, il gabbiano è scappato dalla gabbia.
Fa’ che sia solo uno scherzo di pessimo gusto. – Cosa? Com’è successo? – Yoongi sentiva l’agitazione salire: non poteva permettersi che qualcosa andasse storto, non quella sera.
- Non lo so... stavamo parlando, e gli stavo per dire che dovevo andare un attimo e di aspettarmi lì, ma lui... non so che cosa abbia visto, ma sembrava che si fosse trovato davanti un fantasma, e ha detto “no, fa che non sia lui”, poi ha cercato di guardare meglio, gli è preso un mezzo infarto, è scattato in piedi e si è volatilizzato...
Lu Han continuava a parlare, ma le sue parole si confondevano l’una con l’altra, perdevano di significato mano a mano. Yoongi rimase in silenzio. Come aveva fatto a perderlo? Ma poi, che cosa cazzo aveva visto Jungkook per scappare in quel modo? No, no, no, così non andava affatto bene. Il battito del suo cuore stava aumentando in maniera anomala, e non era mai un buon segno: lui e l’ansia non andavano per niente d’accordo. L’ansia e i blackout ancora meno. Avrebbe voluto essere in grado di trovare una soluzione, di riacciuffare quel dannato ragazzino, ma l’unica cosa a cui riusciva a pensare era che stava andando tutto a rotoli. Per colpa sua e della sua stupidissima idea.
Farfugliò qualcosa al telefono – non si rese nemmeno conto di cosa avesse detto – e chiuse la chiamata.
Sei inutile, Yoongi.
- No... – disse tra i denti, alzandosi dallo sgabello del piano bar con difficoltà. Barcollò per qualche metro, appoggiandosi alla parete per non cadere per terra. – No cazzo, non stavolta. – Stava arrivando un fottuto blackout, la vista gli si stava annebbiando, ai lati del campo visivo erano già cominciati a comparire i familiari pallini bianchi. Ogni volta lasciava che l’oblio lo avvolgesse, si arrendeva per quei minuti, aspettava che il buio e il dolore si dissolvessero da soli, perché era troppo debole per affrontarli.
Per la prima volta, però, Yoongi decise di combattere. Non voleva più essere così: schiavo di se stesso, costretto a subire delle violenze autoimposte. Avrebbe vinto lui, perché quella doveva essere una grande serata, e i suoi schifosi blackout non avevano il diritto di rovinare tutto.
Per questo, strisciando contro il muro del Dark & Wild, sforzandosi con tutte le sue forze di scacciare le ombre che minacciavano la sua vista, cercò l’unica persona che poteva aiutarlo. Ogni passo gli costava una fatica immane, era come trascinare blocchi di cemento con la sola forza delle gambe, ma quando Yoongi prendeva una decisione, andava fino in fondo.
Tanto non serve a niente, tutto questo, le tue speranze, i tuoi progetti. Non andrai da nessuna parte.
- Non... è... vero... – mormorò in risposta al suo subconscio, e nel frattempo avanzava, cercando di ricordarsi la strada. Non poteva mancare molto... gli sembrava di aver già percorso chilometri, la sua fronte era madida di sudore, il campo visivo sempre più ristretto gli dava un senso di claustrofobia.
Jimin continuerà a stare male, e poi, l’hai visto Hoseok? Non avrà il coraggio di dire una sola parola a quel Taehyung.
Stava piangendo, lo sapeva. Cazzo, faceva male, sentiva come degli uncini graffiargli i polmoni. Però doveva concentrarsi, doveva continuare a resistere, a ignorare il dolore. – Jimin è... forte. - Parlare gli faceva dolere ancora di più la gola, ma sapeva che smettere di rispondere avrebbe significato perdere. Non poteva combattere solo nella sua testa, perché il suo subconscio lì era più forte: fuori, nella vita reale, poteva vincere lui. Quindi doveva farsi forza. E resistere. E parlare. – E Hoseok ce la farà... Taehyung lo... sta aspettando là fuori.
Destra. Sinistra. Destra. Sinistra. E respira, mi raccomando. Ricordati di respirare. E tieni quei cazzo di occhi aperti.
Arrenditi, Yoongi, non puoi fare nulla, né per loro, né per te stesso. Basta combattere.
Yoongi strinse i denti allo spasmo, gli doleva la mandibola per lo sforzo. Alzò lo sguardo, e finalmente la vide: la porta, oltre la quale c’era la saletta in cui si trovava la persona che stava cercando. Però... però era stanco, così stanco. Forse si sarebbe potuto riposare, solo per qualche secondo, riprendere fiato...
- No! – esclamò. – No, non posso... cazzo Yoongi, cammina, cammina...
E camminava, Yoongi camminava, e a ogni passo la presa delle ombre sulla sua testa si indeboliva. Scivolavano piano via dalla sua coscienza, così piano che all’iniziò non se ne rese nemmeno conto. Il campo visivo tornava, millimetro per millimetro, ad allargarsi. I pallini bianchi di diradavano, come granelli di polvere spazzati via dal soffio del sé bambino. Poteva farcela, per il suo amico Jimin, per Hoseok, per Namjoon e Jin, che si aspettavano tanto da lui, e non si poteva permettere di deluderli. Per tutti quelli che gli avevano dato retta, che lo avevano ascoltato quando aveva chiesto il loro aiuto per organizzare tutto quello.
Camminava sempre meglio, e un torpore benigno, di autentica stanchezza, stava iniziando lentamente a invaderlo. A quel punto, la lotta non era più contro le ombre: era contro il suo corpo. Doveva arrivare a quella stanza, e dire alla persona al suo interno cosa era riuscito a fare. Oh, come sarebbe stato orgoglioso di lui. Gli dispiaceva di non riuscire a sorridere.
Finalmente, dopo quelle che gli sembrarono ore, giunse davanti alla porta. Non seppe mai con quale forza fosse riuscito ad aprirla, ma quando l’ebbe fatto, entrò nella stanza a testa alta, con le gambe traballanti, le mani che tremavano.
- Nam... ce l’ho fatta...
Le ginocchia cedettero. I suoi occhi videro che Namjoon stava correndo verso di lui, ma non se ne rese conto pienamente. L’unica cosa importante era restare sveglio, ancora per qualche secondo.
- Li ho sconfitti, non torneranno più.
Sentì a mala pena un paio di braccia che lo sostenevano mentre chiudeva gli occhi. Poteva finalmente riposarsi.
 
***


Jungkook fece giusto in tempo a vedere un ciuffo di capelli lilla prima di andare nel panico più totale.
- No, fa che non sia lui... – mormorò senza neanche accorgersene. Lu Han smise di parlare, ma a Jungkook interessava relativamente poco: si sporse un po’ dalla sua posizione – i due erano ancora accovacciati – e non ebbe più dubbi: non si era sbagliato, era proprio lui.
Nella sua mente cominciarono ad affastellarsi le immagini di poche sere prima, la sua voce che gli intimava di andarsene e di non farsi più vedere, e subito dopo, quasi come se la sua memoria si volesse prendere gioco di lui, gli si presentò davanti l’immagine di quel loro primo bacio, davanti all’università.
Devo andarmene da qui, riuscì solo a pensare prima di scattare in piedi e andare esattamente nella direzione opposta rispetto a quella verso cui aveva visto camminare Taehyung. Sentì in lontananza la voce di Lu Han che lo chiamava, ma in pochi secondi non divenne che un suono indistinto, sovrastato dalla musica. Urtò parecchie persone, ma se ne rese conto a stento. Doveva scappare. Dove? Non lo sapeva nemmeno lui. Continuava semplicemente a correre attraverso il locale, senza chiedersi dove stesse andando.
A un certo punto si trovò davanti a una scala a chiocciola, e la imboccò senza esitazioni. Salì un gradino dopo l’altro, il fiato corto, tenendosi al mancorrente di metallo, fino a quando si ritrovò alla fine della scala, che dava direttamente su una specie di magazzino: era una stanza piena di scatoloni chiusi con abbondante scotch, priva di qualsiasi arredamento.
Jungkook trovò un angolino tra due scatoloni, e vi si sedette in mezzo, rannicchiandosi nella stessa posizione di poco prima. Raccolse le ginocchia e vi strinse le braccia intorno, come se quel gesto avesse il potere di proteggerlo. Si sentì un po’ in colpa per il modo in cui aveva mollato Lu Han: non gli aveva dato la minima spiegazione ed era scappato. Poco male: probabilmente non l’avrebbe mai più rivisto.
Quando ebbe regolarizzato il respiro – operazione che richiese alcuni minuti – iniziò a guardarsi intorno, e vide che l’unica fonte di luce di tutta la stanza proveniva dall’entrata: non c’erano finestre, o porte, e l’ambiente nel complesso era abbastanza buio.
Hai beccato il posto giusto, eh?, si disse ironicamente. Perlomeno lì la musica era meno martellante.
Si appoggiò con la testa a uno scatolone, strizzando gli occhi. Si chiese se avesse fatto qualcosa di male a qualche sacra divinità, perché avere una sfortuna del genere non era umanamente possibile. Perché Taehyung era lì? Con tutti i posti del mondo, doveva essere proprio quella sera in quel locale? In pochissimi giorni la sua vita si era incasinata come mai gli era successo prima. Come aveva fatto a farsi sfuggire le cose di mano in quel modo? Lui non era così: lui era sempre stato un tipo sincero. Non diceva bugie, non era egoista, non faceva stare male i suoi amici. Eppure l’aveva fatto, e adesso si era rintanato nel magazzino di un locale che stava ospitando una festa di compleanno.
In effetti, non aveva mai fatto neanche quello. Lui aveva paura del buio. Nessuno lo sapeva, tranne forse Jimin, anche se non gliel’aveva mai detto apertamente.
Cosa gli stava succedendo? Gli sembrava che la sua vita fosse diventata una zona di guerra, con trappole e mine antiuomo pronte a esplodere a ogni suo passo. Qualsiasi cosa facesse, sbagliava inevitabilmente, o feriva qualcuno a cui teneva – e se stesso.
Jimin.
Jimin.
Jimin, mi dispiace.
Jimin, vienimi a salvare, ti prego.
- Jungkook? Sei qui?
Okay, questo è inquietante. Inizialmente Jungkook pensò che si trattasse di un’allucinazione, di un frutto della sua immaginazione, che voleva così tanto che Jimin arrivasse da lui per consolarlo da fargli sentire la sua voce preoccupata. Poi, però, si rese conto che quella voce continuava a chiamarlo, e che era anche molto realistica. Si spostò un po’ di lato per controllare se era davvero sull’entrata del magazzino, e quando vide il suo viso si decise finalmente a rispondergli.
- Sì, sono qui.
Jimin impiegò qualche secondo a capire dove si trovava Jungkook: la stanza era davvero buia, e certo non si aspettava di trovarlo accovacciato contro degli scatoloni in posizione fetale. Camminò verso di lui cercando di non inciampare: non riusciva a vedere bene, e probabilmente si stava chiedendo perché diamine il suo coinquilino si fosse andato a cacciare in un posto del genere. Però non lo diede a vedere: lui sorrideva sempre, anche con la morte nel cuore, e Jungkook lo sapeva, anche se spesso cercava di ignorarlo. Solo una volta, pochi giorni fa, aveva calato la maschera che portava ogni giorno per rendere felici gli altri – per rendere felice lui -, e forse proprio per quel motivo la cosa l’aveva turbato tanto.
- Ehi, genietto, che ci fai qui dentro tutto solo? – gli chiese dopo essersi seduto a gambe incrociate di fronte a lui. Il tono di Jimin era quello che usava di solito, il tono del suo Jimin. Jungkook sospirò sollevato.
- Niente, troppa confusione... gente che beve... – rispose evasivo, senza guardarlo negli occhi. Non gli piaceva mentire a Jimin, ma tanto avrebbe capito quasi subito che non stava dicendo la verità, quindi non valeva come bugia, vero? Jungkook sperò davvero che fosse così, perché ne aveva abbastanza di farlo stare male. Nel frattempo, pur di evitare il suo sguardo, gli occhi di Jungkook si erano spostati più in basso, ed erano finiti accidentalmente sulla maglietta che Jimin indossava quella sera: era chiara, forse bianca - non avrebbe saputo dirlo con certezza, non c’era abbastanza luce – con sopra un giubbotto di pelle. Gli stava bene. All’improvviso, sentì uno strano calore alle guance. A disagio, smise di guardargli la maglietta, scegliendo come nuovo oggetto di attenzione il pavimento. Non vedeva assolutamente nulla.
- Capito, capito – Okay, ha capito che gli ho raccontato una bugia. Ora cercherà di cambiare discorso per farmi sputare il rospo più tardi.
- Non è che hai bevuto qualcosa e sei venuto a smaltire la tua sbronza colossale qui su? – chiese ironico Jimin, guardandolo con finta malizia.
Bingo. – Certo! Infatti adesso mi metterò a vomitare l’anima davanti a te, anzi, l’ho già fatto e ho nascosto le tracce sotto uno di questi scatoloni.
- Ma che schifo! – Jimin scoppiò a ridere. A Jungkook piaceva quando Jimin rideva così: la sua voce aveva un bel suono, e la sua risata anche. – Dai, davvero, non hai preso nulla?
- Io volevo ordinare... ma il barista mi ha riso in faccia! Che ho fatto di male? Volevo solo qualcosa di analcolico, non ci vedo nulla di strano.
E intanto Jimin continuava a ridere, tenendosi la pancia. A volte sembrava lui il bambino, con quelle fossette e quel sorriso gentile sempre stampato in viso. Però... però c’era qualcosa di strano in lui quella sera. Come se dietro quella risata ci fosse qualcos’altro, qualcosa di non molto allegro. Forse era solo a causa dell’oscurità all’interno di quella stanza, ma Jungkook continuava ad avere una strana sensazione, come ci fosse una qualche ombra su quel suo sorriso. Jimin non stava ancora bene. Anche se avevano fatto pace il giorno prima, anche se in quel momento stava ridendo davanti a lui, Jimin non stava affatto bene. E naturalmente, dato che Jungkook non era capace a non fare domande quando non capiva qualcosa, le parole uscirono dalla sua bocca prima che potesse bloccarle.
- Minnie, c’è qualcosa che non va?
Jimin smise di ridere quasi istantaneamente. Per alcuni secondi rimasero entrambi in silenzio, mentre i rumori provenienti dal piano inferiore, la musica, le voci dei più e dei meno ubriachi, lo scontrarsi dei bicchieri, persistevano, ignari della scena che si stava svolgendo lì. Il ragazzo non sapeva cosa fare: mentire o dire la verità? Essere sincero una volta per tutte o continuare con la sua farsa?
- Sì, sì, sto benissimo, forse ho solo bevuto qualche bicchiere di troppo – rispose infine. E in parte era vero: un paio di birre le aveva bevute, ma era sicuro di non essere ubriaco.
Jungkook non sembrava troppo convinto della sua risposta, ma Jimin lo precedette prima che potesse insistere.
- Tu, piuttosto: mi vuoi dire che ci fai qui? Neanche alla festa di Chansung ti eri andato a nascondere in questo modo.
Ah, sì, Jungkook si ricordava quella festa: una delle rarissime occasioni in cui era stato costretto a bere più di un sorso di alcol. Era stato orribile, stava talmente male che Jimin aveva dovuto riportarlo a casa di corsa. Ridacchiò ripensandoci.
- Già, però quella volta non ci sarei nemmeno potuto arrivare da solo a nascond...
- Ora non cambiare discorso: spiegami cosa sta succedendo.
Jungkook si morse il labbro: non era sicuro che fosse una buona idea dire a Jimin perché era stato costretto a scappare in quel modo. Sentiva una sorta di nausea, di... di senso di colpa nei suoi confronti. Però, in fondo, quello era Jimin: c’era sempre stato quando aveva avuto bisogno di lui. Se non poteva confidarsi con lui, con chi lo avrebbe fatto?
- Ho visto Taehyung in giro per il locale – iniziò lui, ma si bloccò quasi immediatamente: non appena aveva nominato il suo compagno di corso, l’espressione di Jimin era mutata da comprensiva a irritata. Prima che potesse chiedergli se c’era qualche problema, però, l’amico gli rivolse delle parole che lo spiazzarono.
- Be’, allora dovresti essere lì con lui, no? Non state insieme? – Quel tono amaro, intristito, lasciò a bocca aperta Jungkook.
- No! Ma cosa stai dicendo? – disse, ma Jimin continuò senza ascoltarlo, come fosse sordo alle sue parole
- Un paio di sere fa non vi siete anche “divertiti” a casa sua? – La delusione presente nella sua voce ormai era talmente evidente che Jungkook lo riconosceva a stento. E poi, era chiaro che si fosse fatto un’idea totalmente sbagliata di cosa era successo tra lui e Taehyung. Ma dopo tutto, come poteva fargliene una colpa? Non gli aveva detto assolutamente nulla su di loro. Per un attimo lo sfiorò il pensiero che però lui, in fondo, non avesse motivo di reagire così: erano solo migliori amici. Subito dopo, però, gli sembrò così logico che si fosse arrabbiato... Possibile che Jimin...? No, no, non era possibile, altrimenti in due anni avrebbe dovuto accorgersene... Era confuso, e spaventato, e voleva soltanto che Jimin lo ascoltasse. Ne aveva un bisogno fisico, era sicuro che se non l’avesse fatto sarebbe esploso da un momento all’altro. Così, decise di ignorare qualsiasi cosa avrebbe detto, qualsiasi reazione avrebbe avuto, e iniziò a vomitare tutte le parole che gli passavano per la mente, tutte quelle che si era tenuto dentro in quei giorni.
- Jimin, smettila! Ma che ti prende? Non abbiamo fatto proprio niente, basta! Quel giorno gli ho solo spiegato Fisica, poi... poi Tae mi ha chiesto di restare con lui anche per la notte, ma io me ne volevo andare, solo che poi lui mi ha baciato, allora io non ho capito più niente e gli ho dato retta, siamo andati in camera sua e ci siamo messi nel letto, a parlare di cazzate. Basta. Abbiamo solo parlato, davvero. Solo... solo parlato. – Arrivato a quel punto, Jungkook dovette fare una pausa. Quello era niente: adesso veniva la parte difficile. Lui non poteva saperlo, perché si era imposto di non guardare in faccia Jimin fino a quando non avesse finito di parlare, ma la sua espressione era nuovamente cambiata: se prima era palesemente irritato, adesso era solo molto confuso.
- Solo che tra tante cose, non gli ho detto l’unica che avrei dovuto dirgli, ovvero che quella sera sarebbe dovuto essere in quel... in quel ‘posto’, dove lo aspettava quello lì, il suo ex, ma poi alla fine, quando era troppo tardi, io mi sono fatto una gaffe e lui ha scoperto tutto, e mi ha detto di andarmene. Era buio, non mi ricordo che ore fossero, ma sono rimasto in giro per un po’, poi sono tornato a casa, e ti ho visto in quello stato nel letto... ero preoccupatissimo. Però tu sembravi così arrabbiato, anzi, nemmeno, sembrava che non te ne fregasse niente di nessuno, neanche di me.
La voce gli si spezzò. Contrariamente a quello che si era aspettato, parlare di Taehyung non era la cosa che gli creava maggior difficoltà. No, era molto più difficile raccontare di quando era arrivato a casa, e anche Jimin l’aveva trattato con freddezza.
- Io... io volevo solo aiutarti, ma tu non volevi, mi hai... mi hai allontanato come Taehyung.
Prima lacrima.
- Però avevi ragione a trattarmi così, perché io ti avevo lasciato da solo.
Seconda lacrima.
- Era quello che mi meritavo...
Terza, quarta, quinta.
- ...però mi mancavi tanto, non voglio che tu te ne vada più via così, non voglio litigare con te, è troppo brutto.
Se Jungkook non avesse parlato, non si sarebbe capito che stava piangendo. Le lacrime scendevano silenziose, le sue spalle non erano scosse da alcun tremito. Forse solo il petto tremava appena, come quello di un uccellino impaurito, ma si doveva essere davvero vicini per notarlo. Vicini come Jimin, che, ascoltando le parole di Jungkook, si era sentito sempre peggio, sempre più in colpa. Come aveva fatto a non capire che stava così male? Come aveva potuto non accorgersene? Lui, che con uno sguardo era sempre stato in grado di capire di cosa l’altro avesse bisogno, nel momento più buio non era stato in grado di fare luce.
Gli occhi pieni di lacrime di Jungkook si alzarono sull’amico, e in quel momento, vedendolo così fragile, vulnerabile, Jimin avrebbe tanto voluto baciarlo. Avvolgerlo nel suo calore, scacciare tutte le sue paure con un semplice, innocente bacio, perché sapeva che avrebbe potuto trasmettergli cose che non sarebbe mai stato in grado di dire a parole. Forse gli avrebbe potuto far capire che non aveva bisogno di essere spaventato lì, quella sera, con lui, mai.
Però non lo fece. Perché sarebbe stato disonesto, e l’avrebbe solo confuso più di quanto non lo fosse già di suo.
Per questo, ricambiato il suo sguardo, si sporse verso di lui e lo avvolse tra le sue braccia. Non poteva definirsi un vero e proprio abbraccio, la posizione era abbastanza scomoda e forse anche un po’ equivoca, ma nessuno dei due ci fece troppo caso – o meglio, Jungkook non ci fece troppo caso e Jimin si sforzò in ogni modo di non farlo. A forza di piccoli aggiustamenti, riuscirono finalmente a trovare una sistemazione decente: erano entrambi appoggiati con la schiena contro gli scatoloni, Jimin aveva un braccio attorno alle spalle di Jungkook, e quest’ultimo si era rannicchiato contro il suo petto.
Tum, tum, tum.
- Jimin, il tuo cuore batte – disse Jungkook con un candore e un’innocenza insospettabili in un ragazzo di diciotto anni. Jimin cercò di far finta di non aver capito dove voleva andare a parare.
- Be’, se non battesse sarei morto, non credi?
- No, intendo, batte forte forte. Fa tum tum tum. Stai bene?
Jimin si morse il labbro. Stava bene? Forse. In realtà tremava un po’. – Sì, è tutto a posto.
Anche Jungkook tremava, e anche il suo cuore non era esattamente a posto, ma sia lui che Jimin lo attribuirono al fatto che avesse appena smesso di piangere.
- Torniamo a casa?
No, Jimin in fondo sperava che fosse un altro il motivo per cui anche il suo cuore faceva ‘tum tum tum’, ma quello preferì tenerselo per sé. – Sì, adesso torniamo a casa.
- E domani andiamo a prenderci una cioccolata calda? Al Lachata?
- Sì, tutto quello che vuoi, piccolo genio.
Uscirono dal locale insieme, Jungkook tenendosi un po’ al braccio di Jimin. Non stava più tanto male, anzi: ormai il tremore era passato. Solo... gli piaceva stare così vicino all’amico, era rassicurante. Sapeva che insieme a lui non avrebbe dovuto avere paura di nulla. Mentre raggiungevano la macchina del più grande – Yoongi aveva detto di non preoccuparsi per lui, e che avrebbe rimediato un passaggio da Namjoon – però, non si accorsero degli altri due ragazzi che stavano parlando poco lontano, e che avevano palesemente ancora qualche questione da aggiustare. Non che quei due ragazzi avessero notato loro.
Però, anche se Jungkook aveva smesso di tremare ed era al sicuro in macchina insieme a Jimin, il suo cuore non aveva ancora cessato di battere più velocemente del normale.
 
***


I minuti passavano, ma di Seokjin non c’era nessuna traccia. Taehyung iniziò a camminare in tondo, cercando un modo per passare il tempo nell’attesa. Eppure gli era sembrato che il professore fosse una persona precisa, puntuale: insomma, tutto ciò che ci si aspetterebbe da un professore. Niente da fare, quella storia gli puzzava sempre di più, c’era qualcosa di strano: Sehun che scompariva improvvisamente, e subito dopo qualcuno che, quanto meno teoricamente, non avrebbe alcun motivo per trovarsi a una festa di compleanno del genere lo veniva magicamente a salvare. C’era sicuramente qualcosa sotto, sì, e lui avrebbe scoperto cosa.
Consapevole del fatto che continuare a lambiccarsi il cervello non sarebbe stato di alcuna utilità ma deciso a capirci qualcosa di più, Taehyung si diresse verso l’entrata del locale. Il suo piano era cercare Seokjin e Sehun, e una volta trovato l’uno o l’altro, chiedergli spiegazioni su che cosa diamine stava succedendo quella sera.
Ma, come era prevedibile, l’onnipresente nuvola nera sulla sua testa non mancò di mandare tutto in fumo. Non ebbe il tempo di fare nemmeno tre passi, che a pochi metri da lui vide la figura di una delle due persone che stava cercando in ogni modo di evitare. Si irrigidì.
Un milione di pensieri gli passarono per la mente: che cosa ci faceva lui a quella festa? E poi, anche ammesso che fosse un amico del festeggiato, perché era lì fuori dal locale? C’era soltanto lui lì fuori.
Hoseok avanzò incerto verso di lui, forse in cerca delle parole giuste.
A meno che non fosse lì proprio per quella ragione. Ma certo, come aveva fatto a non pensarci immediatamente? Un risolino amaro percorse la sua gola.
- E così, tutto questo è opera tua? Ci sei tu dietro questa farsa?
Hoseok si fece scudo con le mani come per negare, ma Taehyung non gli lasciò il tempo di parlare.
- Avrei dovuto aspettarmelo, da uno come te. Hai organizzato tutto per incastrarmi, vero? La telefonata di Sehun, il prof che mi accompagna qua fuori, e poi dal nulla, puf, magia: sbuchi tu. No, non è un caso, sei tu che hai dato direttive a destra e a manca per farmi arrivare qui e...
- Ti sbagli, io non c’entro niente – disse con una calma innaturale Hoseok. Erano mesi che non era così lucido, così deciso, e, almeno per una volta, voleva essere sincero. – È stato un ragazzo che mi conosce, una specie di amico...
- Ah sì? Una specie di amico? – fece Taehyung, la voce colma di sarcasmo, e continuò: – E scommetto che tu non hai minimamente partecipato ai preparativi, giusto? Il piccolo innocente Hoseok.
- No, io non ho fatto assolutamente nulla.
Taehyung sollevò un sopracciglio. Non gli credeva. Non credeva a una sola delle parole che uscivano dalla sua bocca, e aveva i suoi buoni motivi per non avere fiducia in lui.
- Senti, anche io mi sono ritrovato qui senza volerlo. Quel mio conoscente mi ha telefonato spacciandosi per un mio compagno di corso, e mi ha invitato a questa festa, dicendomi che ci saremmo visti direttamente qui. Sono venuto con mia sorella, ma quando sono arrivato, lui non si è presentato. – Hoseok raccontava, raccontava tutto, stufo di barricarsi dietro quella barriera di bugie e vigliaccheria che era diventata la sua prigione. Taehyung lo ascoltava, chiedendosi se quella storia fosse l’ennesima menzogna. Avrebbe voluto crederlo, sarebbe stato più facile odiarlo, ma sembrava davvero sincero, e più sicuro di quanto era mai stato. E poi, non era poi tanto diverso da quello che era successo a lui. – Poco dopo che sono entrato, sempre quel mio conoscente mi ha tirato in disparte e mi ha detto che eri qui.
Hoseok guardò Taehyung fisso negli occhi, e vi lesse tanta indecisione. Non poteva mollare adesso: gli era stata concessa un’occasione di mettere a posto le cose, e non l’avrebbe sprecata. – Devo parlarti. Senza false scuse, voglio solo spiegare. Spiegarmi. Spiegarti.
Taehyung non spezzò il contatto visivo. Pensò che forse poteva finalmente, dopo mesi di attesa e di silenzio, capire cos’era successo davvero.
Ma io lo voglio davvero? Voglio davvero sapere, capire? Già. Non ne era più tanto sicuro, così come non sapeva cosa avrebbe risposto a Jungkook se gli avesse detto che Hoseok lo aspettava al parco giochi. Aveva paura che la verità non gli piacesse. Guardava gli occhi scuri del ragazzo che forse amava ancora, chiedendosi se in fondo anche lui non provasse lo stesso. Tutte quelle domande, quei se, quei ma, lo logoravano da troppo tempo, gli sfregiavano la pelle e l’anima come pallottole invisibili di un cecchino crudele. Però....
- Io... non lo so – disse, improvvisamente svuotato, senza energia. – È passato tanto tempo, e tu non ti sei mai fatto sentire. Sei totalmente scomparso dalla mia vita, e ora torni qui, pretendi di spiegare, ma... ma io non sono pronto. Mi capisci, vero?
Hoseok sembrava deluso, ma Taehyung non poteva farci niente. Le cose erano andate come erano andate, lui era restato da solo senza niente a cui appigliarsi: Hoseok non poteva pretendere di più.
- Va bene – disse sospirando. – Facciamo così: pensaci. Quando sarai pronto me lo farai sapere, non voglio metterti fretta. Solo... pensaci. – Taehyung gli rivolse uno sguardo incerto. – Per favore.
Per favore. Forse avrebbe potuto farlo. Dargli l’opportunità di essere chiaro, sincero. Magari di tornare da lui. Ma con i suoi tempi.
- Ci penserò. Ora... ora è meglio che vada.
Hoseok guardò Taehyung allontanarsi. Avrebbe atteso, e sperato. Non tutto era perduto, non ancora. Il ragazzo dai capelli lilla si diresse verso casa con la testa piena di pensieri e il cuore pieno di sentimenti contrastanti.
Lo amava? Lo odiava? Entrambi? Certo, era arrabbiato e deluso: nulla avrebbe potuto cancellare il fatto che Hoseok l’aveva lasciato, senza una spiegazione valida. Perché “sei strano, non ne posso più di te” non è una spiegazione valida, ma Taehyung, allora, non era riuscito a reclamare di più. Un cuore spezzato non pensa a fare domande, un cuore spezzato cerca di rimettere insieme i pezzi, il poi è una prospettiva troppo astratta e insignificante rispetto al dolore. Dopo il dolore era giunta la rabbia, poi il tentativo di cancellare ogni ricordo di Hoseok, credendo che in quel modo l’abbandono avrebbe fatto meno male. C’era quasi riuscito, aveva anche trovato qualcuno con cui stava bene, che aveva risollevato il suo umore e le sue giornate. Nel frattempo, aveva un po’ rattoppato il suo cuore, aveva ricucito insieme i frammenti, ma poi Jungkook gli aveva mentito, e adesso, adesso che Hoseok era tornato con delle spiegazioni, non sapeva quando e se sarebbe riuscito ad accoglierle.
Mentre camminava, gli venne in mente un’idea un po’ stupida, forse ingenua. Prese il telefono, e scorse i numeri in rubrica. No, non aveva mai cancellato il suo numero: in tanti lo fanno, ma lui no. In fondo, aveva sempre sperato in una sua chiamata, un messaggio, qualcosa. Non aveva cancellato il numero, ma il nome l’aveva cambiato: un asettico “Jung Hoseok” fece capolino tra “Jinri” e “Jung Soojung”. Cliccò su “modifica”, e cancellò ciò che era scritto sotto la voce “nome”.
Taehyung, sembri proprio una tredicenne. Tentennò un po’, poi scrisse frettolosamente “Hobi” e salvò le modifiche. Dopo essersi congratulato con se stesso per essere riuscito a trattenersi dal mettere delle faccine, riprese a camminare spedito. Arrivato a casa, andò in camera e tirò di nuovo fuori il telefono. Se lo rigirò un po’ tra le mani, poi lo appoggiò sul davanzale della finestra.
Chissà, magari avrebbe portato bene.
 
***


È steso per terra, la sua faccia preme contro il terreno. I suoi arti sono come insensibili: il cervello invia i segnali, ma i muscoli non sembrano recepirli. Ci vuole un po’ – minuti? Ore? – perché riesca ad alzarsi.
Si guarda intorno. Sembra un deserto. Niente nel raggio di chilometri, non una casa, non una costruzione. Il cielo è nuvolo, forse sta per piovere.
Prende una direzione a caso e inizia a camminare. In un remoto angolo della sua mente, sa che probabilmente dovrebbe avere paura. Tuttavia non ne ha. Ascolta i refoli di vento che lo sospingono. Si sente una nave: si abbandona alle correnti.
All’improvviso – di nuovo, quanto tempo è passato? – qualcosa inizia a cambiare. Ci mette un po’ a rendersi conto di cos’è, ma poi lo vede: il cielo. In un punto ben preciso, le nuvole si stanno diradando, come il mare che si ritira durante la bassa marea. Una strana luce proviene da quello squarcio: non è il sole. È una luce bianca, troppo bianca, potente, decisa.
Strano.
Si avvicina. Non è spaventato, non ce n’è bisogno. Va ancora avanti, e quando si trova sotto lo squarcio, la luce lo investe. Eppure continua a vederci. Alza lo sguardo.
Meraviglioso.
Devono essere un esercito. Un esercito di angeli.
Sono tantissimi: migliaia di... persone? Individui? Sagome? Non sa come chiamarli, ma forse non è quello l’importante. L’importante è che, qualunque cosa siano, tutti hanno un paio di splendide ali bianche. Sono loro la fonte della luce. Emanano un’aura serena, benefica.
Tende una mano verso l’alto. Vorrebbe raggiungerli, ma gli basterebbe anche stare lì, fermo, a guardarli. Sono bellissimi.
Due di loro scendono verso di lui, sorridendo. Riconosce i loro volti. Non gli sembra assolutamente strano. Ha sempre creduto che fossero due angeli, da quando li ha visti per la prima volta. Namjoon e Seokjin gli sorridono, gli prendono le mani.
- Devi svegliarti – gli dicono. Ma lui non capisce.
- Svegliarmi?
- Svegliati, per favore, svegliati.

I due continuano a sorridere. Lui invece smette di farlo. Tutto gli sembra improvvisamente sbagliato. Le nuvole si richiudono, le facce degli angeli si distorcono fino a essere irriconoscibili, le loro ali si tingono di nero. Strane gocce di un rosso cupo iniziano a cadere dal cielo. Una lo colpisce in viso.
 
Yoongi sbatté le palpebre. Aveva le ciglia bagnate, eppure era perfettamente consapevole di non aver pianto. Prima ancora di riconoscere chi aveva versato quelle lacrime, però, il suo sguardo si posò su un altro viso, a lui sconosciuto. Un viso sottile, di ragazza, lunghi capelli neri le ricadevano oltre le spalle. Non sapeva come spiegarselo – forse non era ancora completamente emerso da quello strano sogno – ma gli sembrava che quella ragazza emanasse la stessa aura benefica dei suoi angeli bianchi. Così, ancora a metà tra reale e irreale, tra lucidità e confusione, le parole gli uscirono spontanee dalla bocca, prima che Yoongi stesso potesse chiedersi che senso avessero. Sorrideva.
- Sei un angelo anche tu?
 
***


Dopo essersi messo in divisa da notte – maglia slabbrata e pantaloni della tuta che da neri erano da tempo diventati grigi – Jimin si lasciò cadere sul letto, sfinito. Era stata una serata davvero lunga, e aveva iniziato a esserlo già quando stava aspettando che Luhan lo contattasse per dirgli dov’era Jungkook – il piano di Yoongi prevedeva che il cinese trovasse il suo coinquilino, per poi allontanarsi e lasciare loro due da soli.
Ed effettivamente Luhan l’aveva chiamato, ma per dirgli che al situazione gli era sfuggita di mano, e che Yoongi gli aveva farfugliato di avvisarlo comunque. Jungkook era scappato perché aveva visto chissà cosa, e lui non aveva fatto in tempo a fermarlo. Però, se non si sbagliava, l’aveva visto andare verso una scala. Jimin sapeva che c’era una sola scala in quella sala del locale – mentre aspettava si era guardato intorno abbastanza accuratamente. Per fortuna aveva trovato quasi subito Jungkook, e tutto si era risolto per il meglio. Più o meno.
- Jiminnie?
La voce assonnata del suo coinquilino lo distolse dai suoi pensieri.
- Sì? – chiese lui, girandosi verso il letto dell’altro. Jungkook, seduto sul materasso, era intento a strofinarsi gli occhi con il palmo della mano. Si produsse in uno sbadiglio degno di un ippopotamo, poi riprese la parola.
- Posso venire da te?
Jimin lo guardò intenerito. A volte glielo chiedeva, quel bambino troppo cresciuto, di dormire insieme a lui. Forse avrebbe dovuto dirgli di no, almeno per quella sera: erano entrambi troppo spossati. Però... però era così tenero...
- Va bene, dai, vieni – rispose alzando la coperta. Jungkook percorse la distanza tra i due letti con passo esitante, poi si infilò nel letto insieme a Jimin. Le sue braccia esili percorsero con il pilota automatico una strada già conosciuta attorno al busto dell’altro, e appoggiò la testa sul suo petto, gli occhi chiusi. I capelli gli ricadevano un po’ scarmigliati sulla fronte. Jimin sorrise. Quando Jungkook era ormai quasi nel mondo dei sogni, però, la sua voce si diffuse all’interno del letto, e Jimin avrebbe potuto giurare che fosse la più incredibilmente stanca e dolce che avesse mai sentito.
- Ehi, Jimin?
- Che c’è?
- È vero che li cacci tu i mostri fuori dalla porta?
Era decisamente più di là che di qua. Jimin lo guardò intenerito. - Sì, tranquillo.
- Okay, allora buona notte.
- Buona notte.
E si addormentarono così, l’uno tra le braccia dell’altro, pensando un po’ a quanto era bello stare così, un po’ alla mattina dopo, quando Jungkook si sarebbe espanso in tutto il letto, un po’ a quando sarebbero usciti, per andare al Lachata a bere la loro cioccolata calda.

 








Angolo autrice (parte 2):
Allora, mi sono fatta perdonare almeno un minimo? Spero davvero di sì. Vi chiedo ancora scusa... il prossimo capitolo dovrei quasi sicuramente essere in grado di pubblicarlo tra due settimane, ma non vi assicuro niente, perché questa settimana sarà un inferno: domani ho la versione di latino, mercoledì e venerdì interroga di greco, giovedì ho la mia prima verifica di filosofia... aiuto, morirò, auguratemi buona fortuna.

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Capitolo 8
*** Sometimes words just ain't enough ***


Angolo autrice:
Scusatemi. Sono imperdonabile. Se mi odiate fate bene. Spero che qualcuno segua ancora la storia... davvero, sono dispiaciutissima di avervi fatto aspettare tanto, ma a scuola c'è stato un periodo davvero orribile. Vorrei potervi dire che nelle vacanze ho scritto un sacco, ma non è così, perché ci hanno corcato di compiti (strano eh?). Però gennaio dovrebbe essere più tranquillo... farò tutto il possibile per caricare senza un ritardo madornale, ma non posso assicurarvi nulla, né darvi una data. Spero che non odiate per questo, e che non odiate la storia :(
Finito questo preambolo (davvero, scusate scusate scusate), vi lascio al nuovo capitolo.







 

Sometimes words just ain't enough















 
Fuori dal finestrino della Opel di Namjoon la Seoul notturna scorreva monotona: le luci dei lampioni, le insegne al neon dei locali, i giovani per strada, ma non tanti – no, non solo giovani, anche qualche adulto. Che ore potevano essere? Le due? Le tre?
Yoongi era seduto dietro. Ripensava a ciò che era successo quella sera, non senza un moto d’orgoglio. Alla fine si era risolto tutto per il meglio, il fatto che Jimin non l’avesse chiamato e che la sua macchina non fosse più davanti al locale ne era la conferma. Inoltre, Seokjin gli aveva detto di aver visto Taehyung e Hoseok parlare e poi salutarsi, ed entrambi stavano sorridendo. E poi, be’, lui aveva vinto, in tutti i sensi.
Quando era entrato nella stanza riservata al personale e aveva pronunciato quelle parole, “Nam... ce l’ho fatta... Li ho sconfitti, non torneranno più”, lo psicologo aveva capito subito a cosa si riferiva. Certo, dopo gli aveva fatto qualche domanda, ma Yoongi decise di non rivangare anche quella parte della serata: non voleva più pensare a quelle ombre, a quei blackout. Ormai erano un capitolo chiuso. Aveva scritto la parola fine a quel periodo oscuro della sua vita e a quelle sedute di terapia che duravano ormai da più di tre anni. L’unica cosa che l’aveva un po’ preoccupato, mentre rispondeva alle domande di Namjoon, era la prospettiva di non poter più parlare con lui, ma quello gli aveva risposto con un invito per due giorni più tardi a pranzo, “tanto è domenica”, aggiungendo davanti a un alquanto galvanizzato Seokjin che la cucina di quest’ultimo era davvero formidabile. Nonostante ciò, però, quello non era il pensiero predominante nella sua mente.
Non riusciva a mandare via l’immagine di quella ragazza che aveva visto non appena si era svegliato. Aveva un viso piccolo, grazioso, i lunghi capelli scuri facevano da perfetta cornice a quei lineamenti che gli sembravano tanto familiari. Era convinto di averla già vista, e anche di recente, forse addirittura alla festa, però i suoi ricordi poco precedenti il quasi-blackout erano un po’ confusi. Gli era dispiaciuto quando se ne era dovuta andare: aveva detto che il fratello l’aveva appena chiamata per farsi riportare a casa.
- Abiti qui, vero? – gli chiese Namjoon dal posto di guida, mentre alternava occhiate a lui e al puntino lampeggiante sul navigatore, che indicava quella in cui erano giunti come la loro destinazione. Yoongi si riscosse e, dopo aver dato un rapido sguardo alla via in cui erano, rispose affermativamente.
- Allora ci vediamo domenica – disse Seokjin, guardando l’ormai ex paziente del compagno scendere dalla macchina.
- Sì, grazie del passaggio – concluse lui, chiudendo la portiera. Namjoon rimise in moto l’auto e ripartì con un rombo, lasciando Yoongi da solo davanti alla porta di casa sua.
Tirò un sospiro. Era davvero tutto finito. Gli sembrava che, insieme all’Opel dello psicologo, se ne fosse andato un pezzo della sua vita, fatto di paura, di incomprensioni, di complessi, di perenne tensione. Si sentì molto più leggero, e privo di quel peso che si era sempre portato sulle spalle in quegli anni, azzerò la distanza fra la sua mano e il campanello. Sua madre gli aveva detto che l’avrebbe aspettato sveglia insieme alla nonna.
Già, la nonna. Probabilmente l’unica persona al mondo – insieme a Jimin – che riponeva in lui una fiducia incondizionata. Era stata lei a convincere la figlia a dargli il permesso di farlo stare fuori fino a tardi, era lei che lo aiutava a uscire nel bel mezzo della notte senza far svegliare mezzo vicinato, e sempre lei lo copriva quando non lo vedeva tornare a casa dopo le lezioni all’università. In fondo, Yoongi capiva sua madre: il divorzio dal marito in un momento decisamente delicato per lei l’aveva distrutta, e aveva perso ogni tipo di aspettativa nei confronti del mondo, suo figlio compreso. La capiva, ma ne soffriva, anche se sua nonna gli stava comunque sempre vicino, gli diceva che sarebbe andato tutto bene, alla fine. Dopo anni, Yoongi riuscì finalmente a crederle.
Non seppe mai per quale motivo, ma non appena ebbe appoggiato il dito al campanello, una specie di flash lo colpì. Era esattamente il contrario dei blackout: quelli lo gettavano nel buio, mentre in quel momento era stato colpito da un lampo di lucidità.
Cazzo, ma quella era la tipa insieme a Hoseok!
Il primo pensiero che ebbe subito dopo quell’elegante constatazione, fu di aver bisogno di un letto e di sua nonna, immediatamente. Prese a suonare più forte il campanello.
- Ehi, fai con calma! Sono vecchia, ma non ancora del tutto sorda!
 
***
 
Il Lachata non era particolarmente spazioso, però a Jimin e Jungkook era sempre piaciuto. La prima volta ci erano capitati per caso: stava piovendo a dirotto, e nessuno dei due aveva un ombrello, così si erano fiondati nel primo bar che avevano visto. La prima sensazione che avevano avuto, era stata quella di essere arrivati sul set di un film di Quentin Tarantino. A ben guardare, a trarre in inganno gli avventori era essenzialmente l’entrata a doppia anta stile far west, ma questa fu una cosa di cui si resero conto soltanto più tardi.
Jimin fu il primo a entrare. Prese posto al solito tavolo, che trovavano sempre vuoto per un qualche misterioso caso del destino. In realtà, Jungkook aveva più volte teorizzato che le cameriere lo lasciassero libero appositamente per loro, dato che erano clienti abituali. Vero o no, una volta che entrambi si furono seduti, una delle suddette cameriere andò loro incontro munita di un minuscolo block notes e di un gran sorriso in faccia. Jimin e Jungkook, dopo averla riconosciuta, si scambiarono uno sguardo d’intesa e si prepararono psicologicamente a uno dei suoi numeri.
- Allora, cosa vi porto? – esordì, ma prima che i due potessero rispondere, quella continuò: - No, aspettate, indovino io. – Detto questo, posò il block notes sul tavolino, chiuse gli occhi e iniziò ad agitare in aria le mani verso la fronte di Jungkook con fare ispirato. – Io sento... io so... che tu, sì, proprio tu, desideri ardentemente un’enorme tazza di cioccolata calda con panna, ma non è tutto qui... tu vuoi anche una fetta di torta, sì, ma quale? – A quel punto fece una pausa carica di suspense, mentre Jungkook la guardava sbalordito. Inutile negarlo, non si sarebbe mai abituato a quella cameriera un po’ fuori di testa. La ragazza aprì gli occhi. – Ce l’ho. Red Velvet. Tranquillo, Luna la sta tagliando proprio adesso, sarà subito qui.
Jungkook avrebbe tanto voluto dire che gli andava bene, e che in effetti la Red Velvet era la sua torta preferita, ma ovviamente non ne ebbe il tempo.
- E ora veniamo a te – disse, poi chiuse nuovamente gli occhi e ripeté i medesimi gesti di prima, questa volta indirizzati a Jimin, che stava trattenendo a stento le risate. – Anche tu provi un bruciante desiderio di cioccolata calda, ma tu oltre alla panna... sì, oltre alla panna vuoi anche i marshmallows, e anche qualcos’altro, però non è una torta... – La cameriera frenò i movimenti delle dita, e come prima, riaprì gli occhi. – Ecco, lo vedo! Un muffin, ai frutti di bosco, sì, proprio ai frutti di bosco. Vic li ha sfornati cinque minuti fa, sono ancora caldi.
E con quelle parole, riprese in mano il block notes, scrisse ciò che aveva predetto e si diresse a passo di marcia verso il bancone, dando ordini a destra e a manca.
Jimin e Jungkook si guardarono per un paio di secondi, poi scoppiarono a ridere tanto fragorosamente che dovettero tenersi al tavolo per non cadere. Di sfuggita, il ragazzo più grande diede un’occhiata all’altro: così, mentre rideva di gusto, avrebbe voluto fargli una foto, fermare quel momento, ma sapeva che una mera immagine bidimensionale non avrebbe saputo reggere il confronto con il vero Jungkook. No, niente al mondo avrebbe potuto.
Finalmente, riuscirono a recuperare un minimo di contegno. – Però comunque ha indovinato... io la Red Velvet la voglio davvero.
- Certo che ha indovinato, la prendi quasi sempre! – rispose Jimin.
Jungkook lo guardò pensoso. – Mh, sì, forse in effetti hai ragione.
Proprio in quel momento, un’altra cameriera venne al loro tavolo tenendo in equilibrio sulla mano destra un vassoio con le loro ordinazioni sopra – sempre che ordinazioni si potessero chiamare. Dopo aver disposto tutto sul tavolino,  rivolse loro uno sguardo di scuse.
- Perdonatela... lo sapete com’è fatta Amber, oggi si sentiva un po’ medium. Pensate che ieri sera era convinta di essere una gazzella e prendeva gli ordini correndo a balzi in giro per il bar – raccontò lei sconsolata.
- Tranquilla, almeno ci siamo fatti quattro risate – la rassicurò Jimin, accompagnando le sue parole con un sorriso. A quella vista, Jungkook percepì una sorta di fastidio, e si rese conto che avrebbe voluto che la cameriera scomparisse all’istante, perché Jimin doveva sorridere solo a lui.
Ma che ti salta in mente? Si affrettò a immergere il cucchiaino nella panna, e mentre la ragazza si allontanava con il vassoio vuoto sotto braccio, non riuscì a trattenersi dal seguirla con lo sguardo, pensieroso.
- Ah, deliziosa come sempre... tutto bene? – gli chiese Jimin dopo aver assaggiato la cioccolata. Jungkook si riprese e sorrise al ragazzo di fronte a lui.
- Sì, sì, tutto okay. – Osservò Jimin per qualche secondo: era al primo cucchiaio, ed era già riuscito a sporcarsi la bocca di panna. Notandolo, ridacchiò, cercando di nascondere la sua smorfia divertita dietro la fetta di Red Velvet. Naturalmente non riuscì nel suo intento.
- Be’, che c’è da ridere? – domandò il ragazzo più grande.
Jungkook, sempre continuando a ridacchiare, si sporse sul tavolo. Jimin, dal canto suo, era decisamente confuso, e non meno perplesso: che cosa stava facendo Jungkook? Quello intanto si avvicinava sempre di più al suo viso con la mano e, per un attimo, Jimin pensò che volesse dargli uno schiaffo. Oppure baciarlo. Nel dubbio, trattenne il respiro.
Dopo un tempo che gli sembrò interminabile, il pollice di Jungkook entrò in collisione con il suo labbro inferiore. Jimin fu percorso da un brivido.
- Eri sporco di panna – disse semplicemente il ragazzo più piccolo, per poi tornare seduto al proprio posto e continuare a bere la sua cioccolata calda.
Fu quello il primo momento in cui Jungkook prestò davvero attenzione alle labbra di Jimin, in cui le guardò per un tempo superiore ai due secondi. E fu quella la prima volta in cui si chiese come fosse baciarle. Resosi conto dei suoi pensieri non precisamente casti sul coinquilino, arrossì e riprese a bere la sua cioccolata, credendo ingenuamente che Jimin non si fosse accorto di nulla, ma perfettamente consapevole che l’altro era trasalito quando gli aveva toccato il labbro.
E invece Jimin se n’era accorto, eccome. Ma non disse né fece niente, era giusto così. Entrambi si limitarono a consumare ciò che restava delle rispettive cioccolate, della torta e del muffin, e pochi secondi dopo la stessa cameriera che aveva portato loro le ordinazioni tornò con il conto, sorridendo a Jimin.
Quello fece per tirare fuori il portafogli, quando Jungkook lo interruppe con una mano mentre con l’altra tirava fuori il suo. – Tranquillo, Minnie, pago io. – Di proposito, marcò quel nomignolo che solo lui usava, tenendo lo sguardo fisso sulla cameriera per tutto il tempo che impiegò a prendere i soldi necessari – giusti, di modo che la ragazza scomparisse il più in fretta possibile senza tornare.
In questo modo, però, non si poté godere l’espressione a metà tra l’imbarazzato e il compiaciuto di Jimin, che non si aspettava quel gesto, ma ne andava neanche troppo segretamente fiero.
Quando la cameriera si fu allontanata verso la cassa, un Jimin baldanzoso e un Jungkook altrettanto confuso uscirono dal Lachata.
- Ti va di andare a fare un giro a Jamsil? – gli chiese raggiante Jimin. E Jungkook sapeva dove voleva andare a parare. Cercò di ricomporsi per opporre una resistenza convincente.
- No, no, no, lo sai che le lame non mi piacciono...
- Dai, Kookie, sono due anni che ti chiedo di andarci! Hai o non hai diciott’anni?
Jungkook, quando gli veniva dato del ragazzino, non poteva fare a meno di reagire, e solo raramente riusciva a trattenersi dal fare qualcosa di cui puntualmente si pentiva, vedasi le sue sporadiche avventure alcoliche. Questa ristretta cerchia di casi in cui si dava una regolata si riduceva a due campi: le cose appuntite e le cose affilate. Una volta, alle medie, il suo compagno di banco si era bucato il dorso della mano con il compasso, e ci aveva preso gusto; poi aveva detto a Jungkook, ghignando, di provare anche lui. Il ragazzo, impallidito, aveva chiesto alla professoressa di andare in bagno, e il giorno dopo si era fatto cambiare di posto dal rappresentante di classe.
Questa sua sorta di fobia lo portava ad avere un’atavica paura anche dei pattini da ghiaccio. Non aveva mai imparato a pattinare, decisamente troppo spaventato dall’eventualità di tagliarsi e dalla vista di tutte quelle lame messe insieme. Jimin, d’altro canto, amava farlo, e cercava da due anni – senza successo – di trascinarlo alla pista del Lotte World di Jamsil.
- Certo che ho diciott’anni! Ma questo non vuol dire che debba rischiare la vita.
- Ma che rischiare la vita! Mi ci fai sempre andare da solo, per favore, solo per questa volta... – continuò implorante Jimin.
Jungkook incrociò le braccia al petto, lo sguardo fisso su Jimin. – No.
- E poi non è ancora dicembre, non ci sarà tanta folla.
- Sì, ma oggi è sabato, quindi ci sarà tanta folla.
- No, perché è sabato mattina, quindi non ci saranno grosse spedizioni di famiglie né di studenti delle medie e delle superiori, sono loro che poi creano folla alla pista.
Jungkook stava per aggiungere qualcosa, ma Jimin gli impedì di farlo: - E, inoltre, è ancora bassa stagione, il che fa diminuire ancora di più il quantitativo di gente.
Jungkook sospirò, continuando a sostenere lo sguardo di Jimin. Gli aveva sempre detto di no, e non vedeva perché avrebbe dovuto dirgli di sì in quel momento: le motivazioni erano più o meno sempre le stesse, venivano adattate in base al periodo dell’anno e ad altri fattori. Però... era dalla sera prima che si sentiva un po’ strano, confuso, anche. Ripensò a ciò che era successo pochi minuti prima nel bar, e un calore che non c’entrava assolutamente niente con la sciarpa che aveva al collo gli assalì le guance. Spostò lo sguardo su un lampione spento.
- Io però ho paura davvero di cadere e tagliarmi, non sono nemmeno capace a muovermi su quei cosi...
Jimin lo guardò intenerito: sarebbe sempre rimasto un po’ bambino, lo sapeva, ma questo era solo uno dei motivi che l’avevano fatto inevitabilmente innamorare di lui, giorno dopo giorno, senza possibile via d’uscita. – Ti tengo io, Kookie, pensi che ti farei cadere?
Il ragazzo sprofondò la faccia nella sciarpa, tornando a guardare Jimin. Improvvisamente, in quegli occhi scuri e lucidi per il freddo, rivide il Jimin disteso nel letto di pochi giorni prima, e la possibilità che un suo ennesimo no potesse ridurlo nuovamente in quel modo lo spiazzò. No, non sarebbe successo di nuovo. – Però ti giuro che se una di quelle lame malefiche mi fa del male, ne pagherai le conseguenze. Ti avviso.
Ma ormai Jimin non lo ascoltava più, impegnato a esultare per la vittoria. Lo afferrò per il polso e lo trascinò correndo lungo la strada per la metropolitana che, in cinque misere fermate, li avrebbe di lì a poco condotti alla pista da pattinaggio.

- Papà, guarda quel bambino! Perché non pattina da solo? Non è capace?
La voce di una ragazzina che poteva avere sui dieci anni giunse forte e chiara alle orecchie di Jungkook, che si teneva aggrappato con violenza alle mani di Jimin.
- Non. Sono. Un. Bambino – mormorò lui, rafforzando – ammesso che ciò fosse possibile – la presa. Jimin ridacchiò.
- Non sfottere, altrimenti ti faccio il solletico, e poi voglio vedere chi ride tra noi due – proseguì con malcelata irritazione, ma l’altro gli rivolse uno sguardo ironico, sollevando un sopracciglio.
- Se tu mi facessi il solletico io cadrei e di conseguenza cadresti pure tu.
- Ti sbagli, io ho sempre il parapetto, non mi sei così indispensabile – ribatté Jungkook.
Jimin, in risposta, indietreggiò rapidamente, facendo sbilanciare pericolosamente l’altro. Questi, preso alla sprovvista, si produsse in un’espressione a dir poco terrorizzata, che però a Jimin risultò solo estremamente comica.
- Prova un po’ a ripeterlo – gli disse divertito mentre si ricomponeva.
- Giuro che questa è l’ultima volta che vengo a pattinare, davvero.
Continuarono a girare intorno alla pista, Jimin procedendo all’indietro in modo da poter guidare Jungkook. Gli si stavano indolenzendo le braccia a forza di tenerlo così, ma pazienza, avrebbe sopportato. E poi c’era un altro problema ben più grave da risolvere: Jungkook era davvero troppo rigido.
- Senti, che ne dici se provi a rilassarti? C’è poca gente, quindi non c’è nemmeno il rischio di cadere addosso a qualcuno...
- Io ci sto provando, ma non è tanto facile, sai? – rispose l’altro, la voce tremula sull’ultima sillaba. Forse per istinto, mentre parlava, stritolò ancora di più le mani di Jimin. Per qualche secondo nessuno dei due disse niente, e continuarono a pattinare lentamente, Jungkook cercando di guardare il meno possibile il coinquilino. Inutile negarlo: si sentiva tremendamente in imbarazzo per il fatto di essere così spaventato e imbranato.
- Ehi, Jungkook, guardami un attimo.
Quello, però, si ostinava a tenere lo sguardo fisso sui pattini bianchi del ragazzo davanti a lui.
- Davvero, Kookie, alza la testa, altrimenti ti lascio una mano e te la alzo io.
A quella seppur bonaria minaccia, Jungkook sollevò lo sguardo con uno scatto. In realtà, però, probabilmente, quella minaccia era del tutto infondata, perché il più piccolo era aggrappato all’altro con tanta tenacia da bloccargli la circolazione, quindi sarebbe stato decisamente difficile per Jimin, se non impossibile, tradurre in azione le sue parole. Tuttavia Jungkook era evidentemente davvero terrorizzato dall’eventualità di perdere il suo appiglio, anche se solo pochi secondi prima aveva asserito di poterne fare a meno.
Ottenuta la sua attenzione, il viso di Jimin si distese in un’espressione rassicurante. – Adesso, fai un respiro profondo.
- Ti prego, ci hai già provato con questo metodo, e hai visto che n...
- Fidati di me, ti ho fatto cadere finora?
- Prima sono quasi scivolato...
- Ma sei caduto?
Jungkook ci pensò un attimo, poi sospirò, capendo di dovergliela dar vinta. – No.
- Quindi fai come ti dico: respira profondamente un paio di volte.
Intorno a loro il Lotte World si muoveva più lento del solito in quella tranquilla mattina di fine novembre. Vari pattinatori sfrecciavano più o meno velocemente di fianco a loro, facendo svolazzare la sciarpe e scricchiolare il ghiaccio.
Jungkook si concentrò sul contatto con le mani di Jimin e fece come gli era stato detto mentre alternava passetti e strisciate con i pattini.
- Bene. Adesso continua a guardare me, e parlami della fisica di base, perché io non ci ho mai capito niente e devo riprendere dall’inizio. E per inizio intendo inizio inizio, ho rimosso tutto dai tempi delle superiori, e mi serve per il corso che sto seguendo adesso.
- Che cosa? Cos’è, uno scherzo? – chiese in tono quasi stridulo Jungkook. Stavano pattinando – anche se il suo non si poteva propriamente chiamare pattinare – lui era terrorizzato e Jimin gli chiedeva una spiegazione di fisica? Ma che razza di richiesta era?
- Mai stato più serio di così – rispose però lui. Jungkook era decisamente confuso, ma, tanto per provare a capire dove volesse andare a parare l’amico, tastò un po’ il terreno.
- Ehm... per inizio intendi...
- L’inizio più inizio che ti viene in mente – replicò ancora Jimin. La confusione di Jungkook non era scemata di un millimetro, ma vedendo l’espressione mortalmente seria dell’altro, anche se ancora un po’ sospettoso, si mise a parlare.
- Dunque, da quel che mi hai detto... forse sarebbe il caso innanzi tutto di fare una premessa generale su cos’è la fisica. È la scienza della natura, la scienza che si occupa di studiarne i fenomeni. Il mezzo è il metodo sperimentale, e qui ci sarebbe tutto lo spiegone sugli esperimenti ma quelli dovresti essere capace a farli. Comunque, essenziale in fisica è sicuramente il processo di misura: la prima cosa da fare è ragionare sulla grandezza, e in base a tale ragionamento stabilire un’unità di misura. Il sistema internazionale...
Mentre Jungkook si perdeva nel suo discorso sulla fisica e sulle grandezze fondamentali imposte dal sistema internazionale, imprecando perché, come accadeva con i sette nani, gliene mancava sempre una, Jimin lo guidava, aumentando in modo quasi impercettibile la velocità mano a mano. Certo, se Jungkook non fosse stato tanto preso dalla paura di cadere e farsi male, avrebbe riflettuto maggiormente sulla strana richiesta di Jimin: a cosa poteva servire una spiegazione di fisica basilare a uno studente universitario di economia? Lo stava ascoltando, sì, ma più per il piacere di sentire la sua voce che per la reale utilità di ciò che si stava facendo dire. Il suo intento, infatti, ovviamente non era quello di costruirsi una solida base nella materia sulla quale Jungkook si stava dilungando con dovizia di particolari e digressioni dal carattere quasi filosofico, bensì quello di farlo pensare ad altro, e quale mezzo migliore che dargli uno spunto per una disquisizione su uno dei suoi argomenti preferiti?
- Secondo me dovresti mollare medicina e passare alla facoltà di fisica – commentò lui non appena Jungkook terminò di parlare del periodo di oscillazione del pendolo. Il più piccolo si bloccò di scatto, come se si fosse appena risvegliato da un sogno a occhi aperti.
- Oh, non so... i miei non sarebbero molto d’accordo, credo. Loro sono dei medici importanti, mamma è cardiologa e papà oncologo, vanno a tenere conferenze in giro per il mondo, lo sai. Non ho mai pensato seriamente a fisica: c’è quest’esame che devo dare tra un mesetto, e basta... ho sempre creduto che fosse il flusso naturale delle cose che io prendessi medicina all’università.
- Secondo me invece dovresti pensarci, ti troveresti meglio lì. Da come parli della fisica sembra che sia la tua passione.
Jungkook lo guardò interdetto: ma cosa stava dicendo? Lui doveva fare medicina, non aveva mai pensato che potesse esistere un futuro alternativo. Però... però per un attimo, in quell’attimo, prese in considerazione l’idea. Forse gli sarebbe piaciuto, ma quello che aveva detto a Jimin era vero: non ci aveva mai pensato, e certo non poteva dargli una risposta così su due piedi.
- E poi, una volta laureato in fisica, cosa potrei fare?
Jimin rimase per qualche istante in silenzio, pensando alla risposta. – Che ne diresti di insegnare?
- Insegnare? Io? – fece Jungkook stupito. Quella era davvero una proposta a cui non era preparato. – Non saprei mai gestire una classe, piena di adolescenti urlanti e senza la minima voglia di studiare. E poi un conto è spiegare fisica a te o a un paio di compagni di corso, un conto sono venti ragazzi da costringere a prendere appunti...
- Ehi, ehi, calma, non ti ho detto mica di prendere una decisione seduta stante. Solo, pensaci, perché comunque ne va del tuo futuro – lo bloccò Jimin, vedendo che stava già iniziando a preoccuparsi di ogni minimo dettaglio prima ancora di aver riflettuto.
- Mh, sì, forse hai ragione... è inutile farsi venire l’ansia adesso – convenne lui. Per un paio di secondi ognuno dei due rimase solo con i propri pensieri, poi Jimin, troppo orgoglioso del risultato che aveva raggiunto, non poté più trattenersi dal farlo notare anche a Jungkook.
- Visto che non è poi così difficile se non ci pensi?
- Se non pensi a cosa? – chiese confuso Jungkook, per poi rendersi conto, spostando lo sguardo da Jimin ai propri pattini a intermittenza, di star effettivamente pattinando. Be’ pattinare era una parola grossa, ma non si teneva più con la disperazione di prima alle povere mani di Jimin, che potevano finalmente permettere nuovamente al sangue di circolare nelle vene. Inoltre, ai passetti rigidi di prima, si erano gradualmente sostituite delle lievi spinte che potevano tranquillamente essere scambiate per tentativi di avanzare liberamente sulla superficie gelida della pista.
Jimin non poté fare a meno di sorridere. Vedere Jungkook, il suo Kookie, così stupito dei propri progressi, gli riempiva il cuore di felicità. In quel momento, come in mille altri in quei due anni, fu certo che no, nessuna parola sarebbe mai stata abbastanza per dire, per spiegare il suo stato d’animo, per descrivere quanto quel ragazzo dai capelli corvini fosse meraviglioso. Certo, c’era l’effetto collaterale dello sciame di farfalle fin troppo emozionate nel suo stomaco, ma ormai poteva quasi dire di averci fatto il callo.
- Che dici, vuoi provare senza una mano? – gli propose Jimin. Jungkook guardò pensieroso le loro mani, le dita intrecciate. Be’, superato l’impatto generale, non avrebbe dovuto essere poi così complicato, no? Eppure era restio ad acconsentire. Era piacevole stare così, poterlo guardare in viso senza difficoltà, avere la sicurezza di potersi tenere a lui. Però, pensandoci meglio, Jimin non aveva ancora avuto la possibilità di pattinare normalmente, essendo costretto a procedere in retro marcia per guidarlo. E poi una mano poteva sempre tenergliela, no?
Al fatto di non essere del tutto certo del perché volesse a tutti i costi mantenere un contatto fisico con lui, a quello cercò di non pensarci troppo, concentrandosi di più sulla voce di Jimin che continuava a parlargli della possibilità di insegnare, un giorno, a un branco di alunni scalmanati.
Jimin, d’altra parte, sperava ovviamente che il suo tentennamento non fosse dovuto unicamente all’insicurezza di essere in grado di pattinare da solo.
 
***
 
Uscire di casa di notte senza farsi notare dai propri genitori è più complesso di quanto non possa sembrare a un primo esame, e questo Taehyung lo imparò a sue spese la notte tra il ventotto e il ventinove di novembre.
Aveva provato ad addormentarsi, davvero, ma aveva miseramente fallito nel suo intento. Giunto all’una di notte senza essere riuscito a prendere sonno aveva quasi considerato l’idea di andare in bagno e prendere una pastiglia delle sue, ma si disse che non era proprio il caso. Aveva resistito senza di loro per dei mesi e in condizioni decisamente peggiori, non poteva cedere così alla prima difficoltà. Esclusa quindi quella possibilità, aveva provato con il training autogeno, ma ogni volta che cercava di rilassarsi veniva distratto da qualche inevitabile pensiero su Hoseok. Una volta però che ebbe capito che non sarebbe riuscito a chiudere gli occhi, almeno per quella notte, decise che l’unica soluzione era uscire a fare quattro passi.
Già, come se fosse facile. Si alzò dal letto e, in punta di piedi e a tentoni, cercò i vestiti che aveva usato durante il giorno, per poi infilarseli. Ma la parte più insidiosa del suo piano era un’altra: lasciare la sua abitazione senza che i suoi se ne accorgessero. C’erano solo tre porte che lo separavano dal mondo esterno: quella di camera sua, quella di casa che dava sulle scale e quella del condominio. La prima era la più semplice da superare, ma la seconda... quella era tutta un altro paio di maniche. Andando avanti un passetto alla volta – le scarpe le teneva in mano per fare meno rumore – riuscì ad arrivare alla porta, per poi rendersi di conto di non aver preso le chiavi. Una volta che fu quasi tornato in camera, però, si ricordò di averle lasciate nella giacca la sera prima.
L’altra giacca. Quella appesa di fianco alla camera dei suoi genitori.
Numi del cielo, vi prego, uccidetemi in modo rapido e indolore.
Usando sempre lo stesso metodo, scarpe in mano e cuore in gola, arrivò davanti all’appendiabiti e grazie forse a qualche estemporaneo potere magico e a una più unica che rara botta di culo fu in grado di mettersela addosso. Con quel nuovo carico, però, dovette muoversi il doppio più lentamente per tornare alla porta di casa. Superata anche tale avversità, poté finalmente uscire sul pianerottolo e chiudersi la dannata porta dietro le spalle.
Si appoggiò per qualche secondo al muro per tirare un sospiro di sollievo, poi si infilò le scarpe e scese le scale. Tremava ancora un po’ per l’adrenalina che gli era entrata in circolo, ma quando fu arrivato al pian terreno stava già sensibilmente meglio.
Dopo mille peripezie, si ritrovò solo nella via in cui abitava, pronto – forse – per schiarirsi tutte quelle idee che gli affollavano la mente, in quel momento sicuramente troppo incasinata. Per ore e ore – naturalmente senza giungere a niente di concreto – si era arrovellato sulla stessa domanda: chiamare Hoseok o no? Doveva proprio farlo? In effetti, da come l’aveva lasciato la sera prima, sarebbe dovuto essere proprio lui a contattarlo. Già, ma cosa doveva dirgli? Che parole usare? Che tono? E poi, avrebbe dovuto chiarire per telefono? No, no, certo che no, non poteva assolutamente farlo, non si può parlare di queste cose per telefono, dovevano farlo faccia a faccia. Ma allora avrebbe dovuto chiedergli di vedersi? Una specie di appuntamento? Però dopo tutti quei mesi che non solo non si frequentavano, ma si evitavano – o almeno, lui cercava di evitare Hoseok – non sarebbe forse risultato patetico?
Come sei complessato, si trovò a pensare tra sé. Passeggiava con il pilota automatico inserito, sperando di non andare a sbattere contro qualche passante – una volta era caduto addosso a una vecchietta che stava portando a casa la spesa, e per farsi perdonare era stato costretto ad accompagnarla, naturalmente portando tutte le buste.
Continuò a camminare senza posa per un po’, ma più pensava e meno riusciva a sbrogliare il filo dei suoi pensieri. Se era uscito per cercare delle risposte, tutto quello che si trovava in mano in quel momento erano domande, domande e altre domande ancora.
Vedendo una panchina libera, ci si sedette, e iniziò a fissare l’insegna al neon di un negozio di giocattoli sul lato opposto della strada. Si chiamava “Pinocchio”, e la scritta di un rosso tendente al fucsia lampeggiava regolare, anche se a volte l’ultima sillaba si accendeva un po’ dopo le altre.
Una ragazza si sedette di fianco a lui. All’inizio non ci fece caso, ma dopo qualche secondo si sentì apostrofare.
- Taehyung, sei tu?
Quello si voltò di scatto, riconoscendo la voce della ragazza. Era un po’ cambiata dall’ultima volta che l’aveva vista: si era fatta crescere ancora i capelli, e il suo viso aveva assunto un taglio più affilato.
Quante cose possono cambiare in pochi mesi, pensò un istante prima di rispondere.
- Ciao Jiwoo, quanto tempo.
- Ehm, già.
Appurato di aver davvero capito chi aveva di fianco, restava però un mistero. Cosa diamine ci faceva la sorella di Hoseok a quell’ora in giro per la città? Certo, non abitavano troppo distante, però...
- Anche tu qui?
- Sì... – rispose lei abbassando la testa. Come prevedibile, un silenzio imbarazzato interrotto solo dal traffico notturno scese su i due. Silenzio che entrambi cercarono di rompere con più che maldestri tentativi.
- Che coincidenza, eh?
- Sì, strano davvero.
- Secondo te domani piove?
- Non lo so, le previsioni danno variabile. Come va l’università?
- Mah, non c’è male, te?
- Tutto okay.
Altro silenzio imbarazzante. Taehyung odiava i silenzi imbarazzanti, tuttavia, come tutti, spesso non poteva evitarli. Non aveva mai parlato tantissimo con Jiwoo: sapeva che le piaceva leggere – passione che condivideva con il fratello –, che spesso era costretta a fare la sorella maggiore e che, fosse stato per lei, avrebbe svaligiato i tre quarti delle pasticcerie di Seoul; tutte informazioni che gli erano giunte da Hoseok, che ne parlava sempre con sguardo semi-adorante. A parte questo, non aveva mai indagato più di tanto su di lei, però dal poco che sapeva non gli era mai parsa il tipo da uscire per le strade di Seoul nel bel mezzo della notte. Chissà se sapeva come stava Hoseok.... forse avrebbe potuto chiederglielo. No, non si sentiva ancora pronto ad affrontare quell’argomento, meglio sviare il discorso prima di giungere – com’era inevitabile che accadesse – a quel momento. E poi, in fondo, era anche un po’ curioso.
- Se posso chiedere, perché sei qui?
Jiwoo infossò ancora di più la testa nelle spalle, come se stesse cercando di nascondersi. - Bisogno di pensare, credo. – Dopo aver detto quelle poche parole, iniziò a giocherellare con le maniche del cappotto, forse chiedendosi se fosse il caso o meno di rivelargli qualche dettaglio in più. – Tu invece?
- Io? Più o meno per lo stesso motivo.
Taehyung era quasi sicuro che Jiwoo si fosse fatta almeno una vaga idea del motivo per cui lui non riusciva a prendere sonno: da quel che si ricordava, Hoseok le diceva tutto quello che gli passava per la testa.
- Senti, Hobi mi ha raccontato di ieri sera... – Ecco, appunto, si congratulò con se stesso Taehyung. – Io non so cosa sia successo prima. Era dal giorno in cui vi siete lasciati che non parlavamo più davvero, ma quando ieri siamo tornati a casa, dopo la festa... mi è sembrato più felice. Anche se leggermente paranoico, si tiene sempre il telefono vicino, e a ogni squillo salta come se qualcosa l’avesse punto.
Entrambi sorrisero a quelle parole, anche se Taehyung, oltre all’ilarità, sentì anche una lieve stretta al cuore: era lui, era una sua chiamata che stava aspettando.
- Tu sei importante per lui. Sei più che importante, e lo so che probabilmente ti ha ferito, ma non ti ha mai dimenticato. Non ho idea di che cosa abbia potuto separarvi, ma sono certa che non sia passato un giorno, una sola singola ora in cui Hobi non abbia pensato a te e in cui non ti abbia rivoluto indietro.
Taehyung deglutì. Davvero era stato così male? Ma cosa cambiava, se aveva pensato a lui così spesso ma poi non l’aveva cercato? Perché? E poi era stato lui a lasciarlo, non il contrario.
- Qualunque stronzata abbia fatto, se n’è pentito davvero, io lo so. Dagli un’altra possibilità. Ne ha bisogno, e ne hai bisogno anche tu.
Seoul di notte era bella perché nessuno giudicava nessuno. Seoul di notte era bella perché le luci dei lampioni e delle insegne a volte facevano venire mal di testa, ma se si imparava a conoscerle sapevano di casa, raccontavano delle storie. Seoul di notte faceva pensare, riflettere. A Seoul di notte, tra gli ubriachi di turno e altri personaggi poco rispettabili, c’erano persone che si chiedevano cosa fosse giusto fare, come Taehyung e Jiwoo, lì, seduti su quella panchina.
Il ragazzo dai capelli lilla si alzò dalla panchina con un lieve sorriso. – Forse è meglio se torniamo a casa tutti e due. Se vuoi ti accompagno per un pezzo.
- Sì, grazie mille – rispose lei seguendolo a ruota.
Dopo pochi secondi, però, a Taehyung tornò in mente che Jiwoo gli doveva ancora una risposta.
- A cosa dovevi pensare esattamente, tu? – le chiese infatti. Lei ritirò di nuovo la testa nelle spalle, e un sorriso imbarazzato le spuntò sul volto.
- Oh, ehm... allora, devo ringraziare una persona, ma non so bene come farlo... è che io quella persona non la conosco, però devo assolutamente trovare un modo, perché dopo quello che ha fatto per Hobi non posso stare così con le mani in mano.
- Tutto quello che ha fatto per Hobi? Chi è? – chiese lui con una punta di irritazione.
Jiwoo lo guardò interrogativa, poi scoppiò a ridere. – No, dai, non dirmi che sei geloso!
Taehyung farfugliò qualcosa di incomprensibile, poi Jiwoo riprese il suo discorso.
- Non è quello che pensi. È il ragazzo che ha messo in piedi la festa, e volevo ringraziarlo perché altrimenti probabilmente mio fratello non avrebbe mai avuto il coraggio di parlarti.
Adesso era il turno di Taehyung di essere in imbarazzo. Possibile che non avessero ancora chiarito alcunché, ma lui fosse già sul “chi va là?” a ogni frase? Si costrinse però a superare quella sua condizione, perché c’era ancora un dettaglio che non gli era molto chiaro.
- Ma perché la cosa ti crea tanti problemi? Voglio dire, probabilmente dovrei ringraziarlo anche io, ma... aspetta, stai diventando di nuovo rossa!
Probabilmente Jiwoo avrebbe preferito sotterrarsi piuttosto che reggere lo sguardo malizioso di Taehyung. – Oddio, ti piace!
- No! Non mi piace, non è vero!
- Ahah, ti piace, ammettilo, te lo si legge in faccia.
- Ti dico di no, non è assolutamente così.
- E allora perché sei così imbarazzata?
- È solo che non lo conosco bene, ed è un ragazzo più grande, quindi...
- Seh, seh, tutte scuse, ti piace e basta.
- Smettila! Certo che a volte tu e Hobi siete proprio uguali...
Concluse lei incrociando le braccia al petto in un moto di stizza. Taehyung sorrise: se lo immaginava proprio Hoseok che tartassava la sorella con allusioni del genere, sarebbe stato decisamente da lui.
- Va bene, la smetto, la smetto... però tu prometti che ci proverai con lui.
- Oh, basta! Rettifico, sei peggio di Hobi.
- Dai, non esagerare adesso.
Continuarono a punzecchiarsi in quel modo fino a quando non dovettero separarsi. Arrivati all’incrocio, prima di salutarsi, entrambi dissero all’unisono: - Chiamalo, d’accordo?
Impiegarono qualche istante a capire cos’era successo, ma poi scoppiarono a ridere, e rispondendosi a vicenda che sì, l’avrebbero fatto, si voltarono le spalle per tornare ognuno a casa propria, forse con un po’ di fiducia in più.










Angolo autrice (parte 2):
Allora, sono stata perdonata un pochino? Che ne pensate, Yoongi smetterà di essere solo un cupido e sarà "cupidato"? Si vedrà, si vedrà. Dunque, ormai... questo è il capitolo 8. Tolto questo, mancano solo più tre capitoli. Forse è anche per questo che ci sto mettendo tanto a finire questa storia: mi fa compagnia da più di un anno, la iniziai nel lontano ottobre 2015, adesso è gennaio 2017... Caspita, non ho mai speso così tanto tempo dietro una storia. Però, come vi ho detto, ci tengo tantissimo, quindi la finirò. Magari con ritardi madornali, ma la finirò, giuro.

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Capitolo 9
*** Spend every won on your dreams ***


Angolo autrice:
Buonasera gente! Dunque, che caspita ci faccio qui, ad aggiornare con ben due giorni - due giorni sono tanti eh - di anticipo? Clamoroso, clamoroso. Tuttavia, non ci sono buone notizie, nel senso che se prima non riuscivo ad aggiornare per motivi scolastici, adesso ho un altro problema, che non so quando lo risolverò, di carattere sentimentale/personale. E... sì, questo non è esattamente un momento fantastico nella mia vita. Avrei voluto iniziare il capitolo dieci, ma questo simpatico problema si è interposto tra me e i miei buoni propositi. Ergo, non vi so dire quando arriverà il capitolo dieci... spero il più presto possibile, ovviamente, ma non posso darvi una data, scusatemi tanto.
E ora, finito questo pappone, vi lascio al pappone di Jungkook! (Capirete a breve perché lo chiamo così).





 

Spend every won on your dreams















Jungkook non era mai stato un tipo mattiniero: in particolare la domenica, non lo si poteva svegliare nemmeno con le cannonate. Anche se dormiva sempre con la tapparella alzata, riusciva tranquillamente a dormire, perfino d’estate, fino alle dieci, quindi in autunno inoltrato questa sua capacità di restare ancorato alla fase rem della sua vita era elevata all’ennesima potenza.
Per questo motivo, quando aprì gli occhi e vide il buio fuori dalla finestra, il suo primo pensiero fu che fosse un giorno feriale, ma non sentendo il trillo della sua sveglia si sentì alquanto spaesato. Sbatté le palpebre parecchie volte di seguito e si stropicciò gli occhi, poi, appurato che nessuna catastrofe naturale stava per abbattersi su di lui, cercò di capire per quale ragione il suo orologio biologico avesse preso la decisione di farlo svegliare.
Fame? No, non aveva fame, la sera prima Jimin era stato fin troppo generoso con le porzioni di bulgogi perché lui avesse già voglia di fare colazione.
Ansia? Ma era domenica, non era possibile che avesse l’ansia, avrebbe avuto senso se si fosse svegliato in quel modo il giorno dell’esame senza aver studiato mezza pagina.
Era stupido? Probabile, ma non era sicuro che la stupidità potesse essere annoverata tra le cause dell’insonnia.
Si rigirò nel letto, e il suo sguardo cadde casualmente sul coinquilino addormentato: era voltato dalla sua parte, gli occhi chiusi e la bocca leggermente aperta. I capelli scuri gli ricadevano sulla fronte, eppure non gli davano un’aria scompigliata: ogni cosa in lui emanava ordine e sicurezza.
Jungkook sospirò. Forse era giunto il momento di analizzare con calma i propri atteggiamenti delle ultime settimane nei confronti del ragazzo di fronte a lui.
Per lui Jimin aveva sempre rappresentato un’ancora, un punto fermo. Ogni volta che aveva un brutto pensiero, che era preoccupato per qualcosa, era a lui che si rivolgeva. Se aveva bisogno di aiuto, se stava male, anche se aveva banalmente qualche linea di febbre, era Jimin che si occupava di lui, che metteva tutto a posto.
E allora perché non gli aveva mai parlato neanche per sbaglio di Taehyung? Si ricordava che più volte, in quel paio di mesi che era trascorso da quando aveva conosciuto il compagno di corso, era stato sul punto di raccontare i propri pensieri al suo migliore amico, ma qualcosa l’aveva sempre trattenuto. Vedendo la sua faccia sorridente a cena, i suoi occhi socchiusi, ascoltando la sua voce che gli chiedeva se ci fosse qualcosa che non andava, aveva sempre risposto che andava tutto bene.
Che cos’era quel qualcosa? Se lo chiese, Jungkook, continuando a guardare Jimin. E si chiese anche perché, quando era andato a casa di Taehyung, quando l’aveva baciato, avesse sentito una stretta al petto. In quel momento aveva scacciato quella sensazione di disagio, classificandola come semplice imbarazzo, ma adesso che stava cercando di fare un minimo di chiarezza, si rese conto che era senso di colpa. Si rese conto che, anche mentre le dita di Taehyung scorrevano tra le sue ciocche corvine, con il pensiero era andato inevitabilmente alle mani di Jimin che gli scompigliavano affettuosamente i capelli mentre studiava.
Il suo Jimin. Il suo migliore amico. La persona con cui viveva da ormai due anni. Possibile che davvero gli piacesse, o che fosse addirittura innamorato di lui? Ma no, era assurdo come pensiero: per lui provava semplice affetto fraterno, ne era convinto. Certo, l’affetto che nutriva nei suoi confronti era decisamente maggiore rispetto a quello per i suoi amici delle superiori o dell’università, ma sempre di affetto si parlava, nulla di più. Eppure come altro avrebbe potuto spiegare il modo in cui si era sentito quando la mattina precedente quella cameriera aveva sorriso per un secondo di troppo a Jimin? Come spiegare il fatto che, quando la sera della festa gli aveva raccontato com’erano andate davvero le cose, gli era stato più difficoltoso ripensare alla sua indifferenza quando era tornato a casa che alla rabbia di Taehyung?
Poi, c’era un altro particolare non indifferente: il giorno prima gli era capitato di pensare più di una volta a come sarebbe stato baciarlo.
Al solo ricordo arrossì: la prima volta era successo al Lachata, poi mentre pattinavano, e ancora quando erano tornati a casa e si erano messi a studiare, e a cena.
Spostò una mano sotto la guancia per stare più comodo. Era attratto da Jimin? Non aveva nessun problema con il fatto di non essere etero: l’aveva accettato quando era alle superiori, e non ci vedeva assolutamente nulla di male. No, non era quello il problema, era un’altra la questione.
Jimin era la persona a cui teneva di più al mondo, l’amico più caro che avesse. Non aveva mai conosciuto qualcuno che lo capisse più a fondo, che si preoccupasse di più per lui. Nutriva una fiducia cieca nei suoi confronti, e... e se avesse rovinato tutto? Non poteva permettersi di perderlo per un proprio capriccio: se avesse parlato con lui dei propri sentimenti – sentimenti? Quando aveva iniziato a percepirli in quel modo? – e non fossero stati ricambiati niente sarebbe mai più stato come prima. E anche ammesso che Jimin avesse ricambiato, se poi si fossero lasciati? Poteva accadere di tutto...
Chiuse gli occhi. Stava viaggiando un po’ troppo di fantasia.
Doveva innanzitutto calmarsi, perché stava andando nel panico, e questo non andava affatto bene. Una cosa era certa: aveva iniziato a guardare con occhi diversi il coinquilino dalla sera della festa. Che cosa era cambiato rispetto a prima?
Be’, forse era proprio lui a essere cambiato. All’improvviso, rivide l’immagine di pochi giorni prima: Jimin steso sul letto, pallido, che lo trattava come se non gli importasse nulla di lui. Strinse di più le palpebre per scacciarla, ma quella tornò ancora più prepotente.
Aveva sempre dato la sua presenza per scontata, era quello il punto: Jimin che lo perdonava sempre, Jimin che non gli diceva mai di no, Jimin che gli preparava la cena, Jimin che gli faceva compagnia mentre studiava. E capì anche che, fino a quel momento, non aveva realizzato appieno come sarebbe stato perderlo, quanto fosse importante, essenziale, per lui.
Sempre tenendo gli occhi serrati e una mano sotto la guancia, si rannicchiò un po’ su se stesso. Forse avrebbe dovuto cercare di dormire un altro po’, continuare ad arrovellarsi su quei pensieri non poteva portarlo da nessuna parte, anzi, non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione in cui si trovava.
Stava per cercare nuovamente il conforto del sonno, quando sentì un frusciare di coperte provenire dal letto di Jimin. Ebbe la tentazione di aprire gli occhi, ma qualcosa lo trattenne dal farlo.
Il fruscio proseguì per un paio di secondi, poi si interruppe, sostituito dal rumore dei piedi di Jimin che andavano in cerca delle ciabatte. Jungkook continuò a tenere gli occhi chiusi, come in attesa.
Il rumore cambiò di nuovo: le estremità inferiori del corpo di Jimin avevano evidentemente trovato la loro preda, e adesso stavano portando il loro proprietario...
...in direzione del letto di Jungkook.
Il suo battito cardiaco accelerò di colpo. Fece di tutto per controllare il proprio respiro, sperando di riuscire a simulare il sonno, ma perché diamine lo stava facendo? Non sarebbe stato più semplice aprire gli occhi e parlare serenamente con l’amico?
No, non lo sarebbe stato: perché Jungkook era affetto da quella grave malattia chiamata curiosità, e voleva sapere che cosa il suo coinquilino avesse intenzione di fare, forse un po’ sperando che... che cosa? Non lo sapeva, però sperava. Quindi restò immobile, anche se la mano, così pigiata tra la sua faccia e il cuscino, iniziava a dargli un po’ di fastidio.
Come aveva supposto, Jimin fermò il proprio cammino davanti al suo letto.
Poi, silenzio.
Per alcuni secondi interminabili, che a Jungkook parvero ore, non successe assolutamente niente. C’era solo quello strano silenzio immobile, che aleggiava nella stanza come fitta nebbia. E continuava, persisteva, li ricopriva, assiduo, imperturbabile.
Finché non sentì qualcosa sfiorargli la spalla che restava scoperta dal piumino. Impiegò poco più di un istante a identificare quel “qualcosa” come le mani di Jimin, che stavano armeggiando delicatamente con la coperta per tirarla su.
Oh, se avesse saputo che in realtà lui era già ben sveglio, e con quanta difficoltà si stava trattenendo dal sollevare le palpebre.
Quando ebbe terminato di rimboccargli il piumino ci furono altri secondi di totale immobilità, in cui la sua mente lavorò frenetica per elaborare una via di fuga, da cosa, non ne era certo nemmeno lui. Poi, però, sentì le dita di Jimin sfiorargli appena la linea del mento, e quel piccolo, insignificante gesto fu sufficiente.
Sufficiente perché Jungkook non riuscisse più a trattenersi dal distruggere quella farsa.
Sufficiente perché girasse appena la testa, giusto di qualche grado, per capire, vedere, chiedere, mostrare.
Sufficiente perché un bacio appena percettibile, al posto di cadere sulla sua guancia ad amichevole buongiorno, si posasse sulle sue labbra, mutando improvvisamente di significato.
Jungkook spalancò gli occhi, pietrificato, incredulo. L’aveva baciato? Jimin l’aveva davvero appena baciato? Okay, forse non l’aveva nemmeno fatto di proposito, ma... diamine, a lui era piaciuto? Jimin si ritirò immediatamente, come scottato, prendendo a balbettare parole sconnesse.
- Oh, io... scusa, cioè... volevo solo... non, insomma... – mentre parlava, si allontanava sempre di più, mettendo le mani davanti a sé.
L’altro continuava a fissarlo, bevendo ogni sua parola, chiedendosi solo in quel momento come avesse potuto essere così cieco, così sordo. Come aveva potuto non notare che il rossore che compariva sulle sue guance a ogni contatto stretto, quello stesso rossore che adesso gli stava inondando il viso, non era semplice imbarazzo? Come aveva fatto a non accorgersi quanto il movimento delle sue labbra fosse ipnotico, anche in quel frangente, quando si aprivano soltanto per far uscire sillabe di scuse senza senso? Come non capire quanto il solo suono della sua voce fosse come linfa vitale per lui?
Scusa? Ma di cosa ti stai scusando, Jimin? Che delitto hai compiuto aprendomi gli occhi?
Senza pensare, senza riflettere minimamente sui movimenti che i propri arti avevano iniziato a compiere prima di ricevere l’autorizzazione del cervello, si alzò dal letto e raggiunse Jimin, che lo guardava confuso. Anche se aveva smesso di indietreggiare.
- Kookie, che cosa stai...?
Prima però che potesse terminare la frase, due braccia che l’avevano avvolto solo per abbracci fraterni si chiusero attorno alla sua vita, e in una frazione di secondo le loro labbra furono di nuovo a contatto. Forse avrebbe dovuto essere stupito, o per lo meno farsi qualche domanda in più su ciò che stava accadendo, ma rimandò il tutto: in fondo non era così importante, non in quel momento, quando Jungkook lo stava baciando – cazzo, lo stava baciando davvero - in quel modo. Gli sarebbe quasi sembrato un sogno, se non avesse sentito la bocca del ragazzo di cui era innamorato da due anni premuta sulla sua.
Per Jungkook, invece, era come essere sveglio per la prima volta da anni. Come se avesse dormito fino a quel momento sotto una calda coperta di confortevoli convinzioni: la sua vita a Seoul, i bei voti a scuola e poi all’università, Jimin a casa ad aspettarlo, Jimin che gli parlava della sua giornata, Jimin che gli sorrideva. Jimin, Jimin, e ancora Jimin, sempre, onnipresente nella sua quotidianità da quando avevano iniziato a condividere quell’appartamento. Troppo cieco per vedere chiaramente quanto si fosse affezionato a quella coperta, quanto fosse assuefatto dal suo profumo.
Tremava, Jungkook, e rabbrividiva, sentendo il calore delle labbra di Jimin che si muovevano delicate sotto le sue, come per non fargli male. Anche in quel momento, continuava a preoccuparsi per lui: l’avrebbe sempre fatto, e forse, finalmente, Jungkook sarebbe stato in grado di fare lo stesso.
Si fermarono per riprendere fiato, i respiri affannati, i cuori a mille. Si sarebbero voluti dire mille cose, porgere mille spiegazioni, ma sembrava che le parole fossero come intimidite, come se capissero che in quel momento l’unica cosa da fare era cedere il passo ai sentimenti, alle azioni compiute senza riflettere.
- Scusami – sussurrò appena Jungkook, gli occhi fissi in quelli di Jimin, - sono un cretino, uno scemo, un idiota...
- Jungk...
- Aspetta, fammi finire – lo interruppe lui, senza mai allontanarsi di un millimetro o smettere di guardarlo. – Per tutto questo tempo non ho capito niente, ti ho sempre dato per scontato, e non... non vedevo... e tutta quella storia con Taehyung, e tu stavi male e io ero troppo egoista per capirlo. Perdonami, ti prego, anche se sono stato uno stupido...
- Sh, basta – rispose però Jimin sorridendo appena. – Sei Jungkook, il mio Kookie, e questo è sufficiente.
Ripresero a baciarsi, e in quel bacio erano contenuti tutti i sentimenti e gli attimi trascorsi insieme in quei due anni. Le mani cercavano disperatamente un appiglio, un lembo di maglia, una ciocca di capelli, per tirare l’altro più vicino, e più vicino ancora, tanto che i loro cuori finirono a battere l’uno sull’altro, all’unisono, allo stesso ritmo di quel bacio confusamente lucido, dolcemente frenetico. Oh, quanto era diverso da quelli che si era scambiato con Taehyung: adesso, adesso era certo del perché aveva provato quel dolore, quel senso di colpa insieme a lui. Perché, in fondo al suo cuore, una parte di lui già sapeva che avrebbe dovuto baciare delle altre labbra, toccare un altro corpo, respirare un altro profumo.
Invece, con Jimin, non sentiva alcun tipo di disagio o di imbarazzo. Provava un’immensa gioia, un sentimento di completezza, e avrebbe solo voluto urlarlo in mezzo alla città, giù per le strade, andare a dire a tutti che era innamorato e non se n’era mai reso conto, che Jimin era suo e di nessun altro. Avrebbe voluto scrivere il suo nome sui muri di tutti gli edifici, e far sapere a ogni singolo abitante che era la persona più meravigliosa che gli fosse mai capitato di conoscere, che era la cosa migliore che gli fosse mai successa.
Prima che potesse rendersene conto, Jungkook si ritrovò a indietreggiare nuovamente verso il proprio letto, spinto da Jimin, che pure continuava a toccarlo da sopra la maglia con una gentilezza che solo da lui si sarebbe potuto aspettare in momento del genere. Le sue ginocchia si piegarono quando si scontrarono con il bordo del letto, ed entrambi caddero in modo disordinato su di esso: Jungkook con la schiena mezza appoggiata al muro e Jimin seduto a cavalcioni su di lui. Il più piccolo si affrettò a tirarsi nuovamente seduto per riprendere a baciare l’altro, che nel frattempo aveva allacciato le braccia attorno al suo collo. Lentamente, abbandonò il caldo rifugio della bocca di Jimin e scese a baciargli la guancia, e poi la linea del mento, il collo niveo e invitante. Sospiri misti a gemiti appena trattenuti sgorgarono dalle labbra di Jimin quando con una mano scostò appena la maglia slabbrata per scendere ancora, ed esplorare con la lingua ogni lembo di pelle possibile.
- Jungkook... – rantolò quasi Jimin.
- Sì? – chiese languido l’altro, le labbra che si sfioravano a ogni movimento l’attaccatura del collo.
- Forse dovremmo fermarci qui – proseguì quello esitante, tentando di allontanarsi un po’. Jungkook, però, che non era assolutamente d’accordo, se lo premette nuovamente addosso, sfregando il naso sulla sua pelle.
- Perché dovremmo farlo? – gli fece lui, guardandolo negli occhi mentre le sue mani si intrufolavano sotto la maglia per accarezzargli la schiena.
Jimin deglutì. Si vedeva che si stava sforzando di non abbandonarsi alle sue attenzioni. – Perché... sta accadendo tutto troppo in fretta.
- Troppo in fretta? Io non ho nemmeno idea di quanto tempo il mio ritardo mentale ti abbia fatto soffrire, e...
Prima che potesse terminare la frase, però, Jimin lo interruppe. – Ti ho aspettato così tanto che sarebbe assurdo sciupare tutto il primo giorno, no? – Mentre parlava, gli prese il mento tra le mani, sorridendogli.
Jungkook si imbronciò, e approfittando di quel suo attimo di distrazione, Jimin si alzò dalle sue gambe e scomparve fuori dalla porta. Il ragazzo dovette sbattere un paio di volte le palpebre per rendersi conto di cosa era successo e rincorrere il suo coinquilino per capire dove stesse andando.
Lo trovò in cucina che si dirigeva a passo sicuro verso il bollitore, ma prima che potesse afferrarlo, la voce di Jungkook risuonò nella stanza.
- Jimin, cosa stai facendo?
Quello si voltò verso di lui. Aveva ancora le guance imporporate, e tuttavia le sue labbra erano distese in quel suo solito, dannato, inconfondibile sorriso. – Preparo il tè per la colazione.
Certo, ovvio, il tè per la colazione. Alle cinque di mattina. – Io in realtà preferirei continuare il discorso di poco fa, era davvero molto interessante – disse Jungkook avvicinandosi all’altro.
- Ora mi spieghi, per cortesia, come diavolo è possibile che tu ti sia trasformato da piccolo bambino indifeso a piccolo bambino eccitato?
Jungkook scoppiò a ridere. – Colpa del mio coinquilino figo, non c’è altra spiegazione.
- Non mi corromperai con le lusinghe – protestò testardo Jimin. Nel frattempo, il più piccolo l’aveva ormai raggiunto, e gli aveva cinto i fianchi con le braccia, facendo aderire il proprio petto alla schiena dell’altro.
- Ne sei proprio sicuro? – gli chiese sfiorandogli la base della nuca con il naso. Quello ebbe un fremito, ma continuò imperterrito la sua operazione mettendo il bollitore pieno d’acqua sul fornello che aveva appena acceso.
- Assolutamente. – Pronunciata quell’unica parola, Jimin riuscì a svicolare dalla presa del coinquilino, riuscendo a raggiungere le tazze.
- Jimin-hyung! Finiscila di scappare! – protestò lui, le braccia incrociate al petto e un broncio adorabile in viso. Jimin lo guardò per qualche istante, e messo di fronte a quello spettacolo infinitamente dolce, non poté fare a meno di riavvicinarsi a lui per premere un lieve bacio a stampo sulle sue labbra.
- Smetti di fare il polemico e aiutami a preparare la colazione.
Jungkook rimase un attimo interdetto, poi sospirò: Jimin si era rimesso a trafficare sul piano della cucina. Probabilmente almeno per quella mattina non sarebbe riuscito a convincerlo, però... chissà come si sarebbe potuta evolvere la giornata: la vita a volte sapeva essere imprevedibile e ricca di sorprese.
Eppure, inconsciamente, stava già facendo l’abitudine a quel nuovo ritmo, come se gli fosse appartenuto da sempre, come se scorresse nelle sue vene insieme al sangue già da tempo immemore. C’erano ancora delle questioni da risolvere: non poteva lasciare così in sospeso la questione con Taehyung, prima o poi avrebbero dovuto parlare, e non avrebbe potuto fare affidamento sulla protezione di Jimin. Però era ancora domenica: era tanto egoista godersela ancora un po’?
 
***
 
Sapeva che la sua fine stava per giungere. Ne sentiva l’odore nell’aria speziata che respirava, percepiva la sua morsa sullo stomaco, ormai però troppo pieno per contenere altro cibo. Si stava appropinquando a lui sotto forma dell’ennesima deliziosa portata domenicale.
- Sicuro di non volere altri tteokbokki? – chiese Seokjin avvicinandogli l’enorme padella ancora piena per metà. – Sono buoni!
- Lo so, ma ne ho già mangiati un sacco, sto per esplodere! – rispose Yoongi sull’orlo della disperazione. Il professore fece ancora un paio di tentativi, però, vedendo che era tutto inutile, cambiò obiettivo, prendendo ad assaltare Namjoon. Quello, vedendo l’espressione affranta di Seokjin che stava per mettere via i tteokbokki, non seppe dirgli di no, e ne se fece mettere un’abbondante porzione nel piatto.
L’amore non rende solo ciechi, rincoglionisce proprio, si ritrovò a pensare Yoongi. Quei due erano così melensi, sdolcinati... prevedibili. Eppure, anche nella loro estrema sdolcinatezza, erano la coppia più adorabile che avesse mai visto. Sperava che Jimin non diventasse così con Jungkook, altrimenti l’avrebbero ricoverato in ospedale nell’arco di pochi giorni per uno shock diabetico. Conoscendolo, però, in realtà era probabile che sarebbe accaduto il peggio: prevedeva già cascate di zucchero e frasi tumblr riversarsi sull’allegra coppietta e su ogni essere – vivente o meno – nel raggio di cinquecento metri.
Lui non sarebbe mai stato così. No, non se lo sarebbe mai perdonato. Ma poi perché si era messo a pensare una cosa del genere? Quello che si sarebbe svolto di lì a poco non era nemmeno un appuntamento: era un semplice incontro in amicizia, per scambiare due parole. Jiwoo doveva solo ringraziarlo di persona, gliel’aveva detto per telefono quella mattina.
Yoongi si stiracchiò sulla sedia, notando solo in quel momento lo sguardo indagatore di Seokjin.
- Va tutto bene?
- Sì, certo, perché? – rispose il ragazzo tornando a sedersi composto.
Il professore lo guardò ancora per qualche istante, poi scosse la testa e sorrise. – Niente, tranquillo. Allora, ti è piaciuto il pranzo?
- Era tutto buonissimo, seriamente. Come fa Namjoon a non essere una botte che rotola in giro per casa?
- Io mi so perfettamente regolare.
- Ho notato il tuo autocontrollo con i kimbap, sì sì.
- Senti, non essere più mio paziente non ti autorizza a...
- Ragazzi, vi prego – intervenne provvidenziale Seokjin, rivolgendo uno sguardo bonario ai due. Yoongi si rese conto che probabilmente il povero professore doveva sentirsi l’unico adulto nella stanza, ed ebbe quasi pietà nei suoi confronti.
Quasi, dato che in quel momento la maggior parte dei suoi pensieri erano rivolti al suo incontro con Jiwoo. Si sentiva vagamente in imbarazzo, e probabilmente doveva essere lo stesso anche per lei: stava per essere ringraziato di aver fatto il bravo cupido, in pratica. Non sapeva, in effetti, se in quel frangente fosse più imbarazzante ringraziare o essere ringraziato.
Tirò fuori il telefono dalla tasca e diede un’occhiata all’ora: erano più o meno le tre, l’appuntamento – dio santo, quanto suonava strana alle sue orecchie quella parola – era per le tre e mezza. Da casa di Namjoon e Seokjin avrebbe impiegato poco più di un quarto d’ora a raggiungere il luogo che gli aveva indicato la ragazza: era un bar che aveva visto un paio di volte di sfuggita, ma era curioso di sapere se c’era un motivo dietro quella scelta.
A ogni modo, era meglio che iniziasse a darsi una mossa: arrivare un minimo in anticipo non poteva fargli male.
Senza dare alcuna spiegazione, Yoongi si alzò da tavola e si diresse verso l’attaccapanni.
- Dove vai adesso? – gli chiese curioso Namjoon.
- Mh... devo incontrare una persona.
Una frazione di secondo dopo aver pronunciato quelle parole, però, si diede dell’emerito cretino. Ora sarebbe partito l’interrogatorio, ne era sicuro.
- Oh, chi? – domandò infatti subito dopo il professore.
- Ma, niente... un’amica.
- Uh, la conosco?
Namjoon, ti prego, non lo stai facendo davvero. – No.
Non poteva vederlo, ma era certo che i due alle sue spalle si stessero scambiando sguardi d’intesa. Quando era diventato così antisgamo?
- Va bene, allora ti lasciamo andare. Poi ci racconti com’è andata, vero? Era carina quella ragazza...
- Eh?! Di cosa state parlando? – fece subito Yoongi, mettendosi sulla difensiva. Namjoon e Seokjin scoppiarono a ridere, e il ragazzo ebbe nuovamente l’irritante ma meravigliosa sensazione di essere in famiglia.
- Dai, su, fuori dai piedi, rubacuori.
 
Yoongi impiegò, come aveva previsto, diciotto minuti a raggiungere il bar. Gliene avanzavano una decina, che decise di spendere a osservare, come sua abitudine.
La prima caratteristica che lo colpì del locale, fu la presenza di libri ovunque: si chiese come avesse fatto a non notarlo le altre volte che ci era passato davanti. Jiwoo gli aveva proposto quel bar senza pensarci troppo, quindi probabilmente lo frequentava in maniera abbastanza abituale. Yoongi non era un lettore assiduo, ma non gli dispiaceva, se vedeva un thriller dalla trama abbastanza interessante, passare le serate a leggere. Si ripromise di recarsi anche lui più spesso in quel posto.
Completato l’esame della location, passò agli avventori: non si stupì vedendo che non c’era nessuno dall’aria particolarmente tamarra o dotato di uno sguardo eccessivamente stupido; cosa migliore, nessuno aveva in mano un cellulare. Quel bar gli piaceva sempre di più.
Riconobbe anche un paio di compagni dell’università. Forse, se un giorno si fosse sentito particolarmente socievole, avrebbe potuto rivolgere loro la parola: se erano in un posto del genere c’era la possibilità che non fossero solo degli energumeni senza cervello.
- Ehi, ciao, scusa per il ritardo, dovevo finire una cosa a casa.
La voce di quella che intuì essere Jiwoo lo distolse dall’accurata analisi che stava compiendo sul bar. Forse collegando involontariamente il locale proposto dalla ragazza all’idea che si stava lentamente facendo di lei, la immaginò presa a leggere le ultime pagine di un libro particolarmente appassionante.
- Figurati, non sono arrivato da tanto – rispose semplicemente, prendendosi un paio di secondi per guardarla. Non era truccata, ma questo non era un elemento sufficiente per dargli altre informazioni su di lei.
- Ehm... vogliamo entrare?
- Certo, certo.
Jiwoo gli fece strada all’interno del bar e lo guidò fino a un tavolino che aveva dietro uno scaffale di libri d’arte. Il suo sguardo fu catturato da una raccolta di opere di Monet – era abbastanza sicuro che ce ne fosse uno a casa di Namjoon.
- Ti piace? – gli disse mentre si sedevano.
- Il posto? Sì, lo trovo molto... fuori dal tempo, diciamo.
- Dici? – chiese lei sorridendo. – Perché?
- Nessuno si sta violentando gli occhi con lo schermo di uno smartphone, cosa abbastanza rara in questa città dove ci sono più grattacieli che persone a momenti. E, in tutta sincerità, preferisco il cartaceo all’e-book reader, anche se non mi definirei un divoratore di libri.
Seguirono un paio di secondi di silenzio, in cui le parole di Yoongi ebbero il tempo di depositarsi su di loro, come un sottile velo di polvere,.
- Te invece? C’è un motivo particolare per cui ti piace questo bar? - Yoongi era grato che stessero parlando di quello e non dei ringraziamenti: lo trovava molto più interessante.
- In generale mi piace molto leggere, e poi... c’è un bar molto simile a Gwanju, la città dove sono cresciuta, quindi... è un po’ come essere a casa.
Mentre lo diceva si guardava intorno con l’aria sognante di un bambino di cinque anni che si aggira in un negozio di caramelle e giocattoli.
- Se c’è un libro che ti piace tanto prendilo pure. Prendilo come un grazie a forma di parallelepipedo simpatico.
Yoongi rimase interdetto. Non avrebbe mai creduto che la storia dell’essere ringraziato potesse essere così... così poco imbarazzante. Gli piaceva il suo modo di fare.
Forse non solo il modo di fare. Ma era ancora un po’ presto per dirlo, no?
 
***


Hoseok era in ansia. Tremendamente in ansia. Se avesse dovuto fare una classifica dei momenti in cui era stato più in ansia in tutta la sua vita, quello che stava passando si sarebbe sicuramente aggiudicato la medaglia d’oro. Non riusciva a stare fermo: se avesse continuato così, probabilmente avrebbe scavato un solco tra il salotto e la cucina.
Il telefono. Oh, il telefono.
- Cazzo, il telefono! – esclamò sentendolo squillare. Quando identificò il numero come quello della compagnia telefonica che tentava da giorni di farlo partecipare a uno stupido sondaggio sul gradimento del servizio clienti, per poco non lanciò il telefono contro il muro. Evitò di rispondere, altrimenti avrebbe solo inveito contro quei poveri innocenti operatori.
Era frustrante, cazzo. Era dalla sera prima che a ogni trillo gli veniva uno pseudo-attacco di panico. Jiwoo gliel’aveva fatto notare, ma essere consapevole della sua nevrosi non l’aveva in alcun modo aiutato a superarla, tutt’altro. Se possibile, ne aveva aumentato l’effetto.
- Hobi, tu hai bisogno di darti una calmata. Hai proprio bisogno di darti una calmata.
Quando il suo percorso casalingo lo portò al piano cottura, decise che era giunto il momento di prepararsi un tè. Aprì la credenza, ma il bollitore non era lì. Provò nello scola piatti, ma fece un altro buco nell’acqua. L’ultima possibilità era la lavastoviglie, ma il bollitore sembrava come scomparso.
Biscotti. Doveva cercare dei biscotti. Quelli con la confettura di mela dentro.
Cercò nella dispensa, per poi rendersi conto che non c’erano. All’inizio fu colto da smarrimento, poi però, ragionandoci meglio, due persone soltanto abitavano la casa, ed entrambe amavano quei biscotti.
Hoseok provava un affetto sconfinato per sua sorella, ma in quel momento avrebbe voluto prenderla a padellate.
Perché non a colpi di bollitore? Ah, già, quello è magicamente svanito nel nulla. Oppure sei talmente in ansia che non riesci a trovarlo. Anzi, forse i biscotti non li ha davvero finiti Jiwoo. Forse non li trovi per lo stesso motivo per cui non trovi il bollitore.
In quel preciso istante, il telefono squillò di nuovo. Hoseok, che stava ancora cercando in uno slancio di disperazione i biscotti con la confettura di mela, andò a sbattere contro l’anta aperta per correre verso il telefono. Ansia, speranza, paura e rassegnazione combatterono in lui a suon di cazzotti finché non prese in mano il telefono, e vide quel nome.
Taehyung.
- Hoseok calmati Hoseok calmati Hoseok calmati.
Quasi gli tremava la mano mentre, dopo aver ripetuto quel mantra ancora quattro o cinque volte, rispose alla chiamata.
- Pronto?
- Pronto, sono Tae, ciao.
- Ciao... come va?
- Ehm... abbastanza bene, tu?
Non fare finta di non sapere la risposta. – Tutto okay.
Seguirono alcuni secondi di silenzio imbarazzato, in cui Hoseok si mise a massacrarsi il labbro inferiore fino a farsi male.
- Cosa stavi facendo di bello?
Aspettavo questa chiamata, secondo te? – Niente di particolare... stavo cercando di farmi un tè, ma il bollitore sembra essere misteriosamente scomparso.
- Hai provato a controllare se era dietro la pentola, quella grande nel mobile in alto?
Oh. - In realtà no, aspetta che provo – rispose seguendo il suggerimento. Era lì. Stava per chiedergli come diavolo faceva a saperlo, ma la risposta era semplicemente che... se lo ricordava. Perché ogni volta che non trovava qualcosa in casa, Taehyung riusciva sempre in qualche modo a scovarla. Sorrise.
- Sì, era lì, grazie.
Ancora silenzio. In un certo qual modo, Hoseok riusciva a percepire che anche Taehyung, dall’altra parte della linea telefonica, stava sorridendo, magari rievocando i medesimi ricordi.
- Come stai?
- Te l’ho detto, abbastanza be...
- Cambio domanda: come stai davvero, in questo momento?
Dovette attendere qualche istante per la risposta. – Non lo so. Confuso. Curioso. Spaventato, in ansia, in colpa. Tu?
- Più o meno allo stesso modo – Hoseok stava davvero cercando il modo giusto per rivolgergli quella domanda, quella che aveva sulla punta della lingua, ma ovviamente gli uscì peggio di quanto volesse. – Alla fine hai deciso? Cioè, ci hai pensato?
Quei silenzi immobili iniziavano a frustrarlo. Un sì o un no. Nel secondo caso avrebbe cercato di farsene una ragione, davvero. Voleva sapere soltanto se il suo era un dannato sì o un dannato no.
Sentì un rumore secco, come se Taehyung avesse rotto qualcosa. – Senti... io... – Ti prego, ti prego, per favore – Domani pomeriggio sei occupato?
Ma non lo capisci che anche se dovessi andare a una riunione con la regina Elisabetta, Obama, il papa e il risorto Imperatore cinese darei buca a tutti pur di vederti e parlarti? – No, no, ho tutto il pomeriggio libero.
- Bene, allora ti va di venire a casa mia verso le quattro?
Se mi va? Ci verrei anche volando. – Certo, sicuro, domani alle quattro. Va bene.
- Okay, allora... ci vediamo domani?
- Ci vediamo domani, sì.
Quando chiusero la chiamata, Hoseok passò un paio di minuti a fissare lo schermo del telefono sorridendo come un cretino. Poi, come se si fosse risvegliato improvvisamente da un sogno, lanciò un urlo di gioia.
- Sì! Sì sì sì sì!
Lasciò che, per la prima volta dopo mesi, la felicità lo pervadesse come un fiume in piena, che scorresse nelle sue vene insieme al sangue. Guardò il bollitore, e si mise a ridere, accorgendosi in quel momento che non aveva trovato i biscotti perché il giorno prima lui e Jiwoo avevano deciso di toglierli dal sacchetto e metterli in un barattolo di vetro. Quel medesimo barattolo di vetro che aveva spostato per cercare il bollitore prima che Taehyung lo chiamasse.
- Jung Hoseok, sei proprio un idiota.
- Già, già, sono d’accordo. Lo sai che ti ho sentito urlare dalle scale?
Il ragazzo si voltò verso la porta d’ingresso, e vide la sorella fare la sua entrata in casa con un’espressione raggiante in viso.
- Allora, ti ha chiamato?
Il sorriso a trentadue denti di Hoseok parlava per lui, ma decise comunque di ribadire il concetto. – Sì, mi ha chiamato, e... oddio, ha detto che va bene! Domani pomeriggio ci vediamo a casa sua. Jiwoo, ci credi che sono così schifosamente felice che ti cederei anche tutti i biscotti alla mela?
- La situazione è tragicamente meravigliosa, allora!
Jiwoo corse verso il fratello, e lo abbracciò di slancio. – Sono così contenta, Hobi! Sono davvero tanto tanto contenta. – La ragazza premette il viso sul petto di Hoseok, e lui prese ad accarezzarle la schiena. La cosa che lo rese più felice, fu che il suo corpo ricordasse quei gesti, quelle tenerezze che c’erano sempre state tra lui e la sorella, e che credeva di aver dimenticato. A un certo punto, però, gli si accese la lampadina.
- E tu, invece? Hai ringraziato il tipo con i capelli rossi?
Jiwoo arrossì di colpo, ma il sorriso non abbandonò le sue labbra mentre si staccava dal fratello per poter parlare meglio. – Sì, alla fine ha preso un thriller di John Verdon. Sai che secondo me ce l’abbiamo da qualche parte in casa?
Hoseok ci pensò un attimo. – John Verdon, John Verdon... aspetta, torno subito. – Il ragazzo iniziò a dirigersi verso la libreria comune in soggiorno, poi si voltò. – Anzi, no, vieni anche tu, cerchiamo insieme.
No, quella decisione non era dettata solo dal fatto che “due teste sono meglio di una”, ed entrambi lo sapevano. Si lanciarono uno sguardo complice, poi si misero entrambi a cercare. Passò qualche minuto, poi Hoseok riemerse trionfante.
- Eccolo qui... si intitola “Pensa a un numero”, è quello che ha preso lui?
- No, lui ha preso “Peter Pan deve morire”. Credo che fosse l’ultimo uscito.
- Mh... – Hoseok girò il libro per leggere le note biografiche. – Questo è il suo romanzo d’esordio, l’ha pubblicato sei anni fa.
Jiwoo se lo fece passare e lo osservò attentamente. – Credo di averlo comprato l’anno scorso nel mucchio dei libri usati, ma poi devo essermene dimenticata.
- Be’, almeno stasera avrai qualcosa di interessante da fare – le disse Hoseok, ma Jiwoo posò il libro sul tavolino da caffè e puntò lo sguardo sul fratello.
- Nossignore, quel libro sarà indubbiamente meraviglioso, ma stasera io e te decidiamo come vestirti per domani. Non sarò un’esperta di moda, ma tu sei ancora più ignorante di me in materia, e io non lascerò che tu ti vesta come un barbone per vedere il tuo ragazzo.
- Ehi, io non mi vesto come un barbone, V non è più il mio... – tentò di replicare Hoseok, ma Jiwoo lo interruppe perentoria.
- Sh, lo tornerà tra meno di ventiquattro ore, quindi è come se lo fosse già. E adesso seguimi, abbiamo del lavoro da fare. Costi quel che costi, io ti renderò presentabile, cazzo se ti renderò presentabile!










Angolo autrice (parte 2):
Ah, finalmente! Dopo nove capitoli e troppe pagine di word, finalmente sti due si sono saltati addosso! Festeggiamo! Stappiamo lo champagne! E poi, vi prego, ditemi che amate Jiwoo almeno la metà di quanto la amo io. Perché io la adoro, amatela, vi prego. E, altra cosa: sì, avete capito bene: nel prossimo capitolo finalmente si scoprirà perché cacchio quella testa di rapa di Hoseok ha lasciato Taehyung. Potete iniziare con le congetture.
Altra cosa: volevo farlo già il capitolo scorso, ma lo faccio adesso perché sì: volevo ringraziarvi. Grazie per essere rimasti con questa storia fino quasi alla fine (mio dio, ancora due capitoli, aiuto, non sono pronta), e grazie per essere così tanti. Perché, voglio dire, c'è gente che ha più seguito, ma io sono contentissima, perché questa è la mia prima storia che è seguita da così tante persone. Vi voglio bene, a voi che recensite e anche a voi lettori silenziosi, perché anche senza le recensioni continuate a supportare questa storia.
Dai, l'agonia è quasi finita, non mollate! Fighting!!!

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