Icu Wana

di carlyxy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01 Capitolo ***
Capitolo 2: *** 02 Capitolo ***
Capitolo 3: *** 03 Capitolo ***
Capitolo 4: *** 04 Capitolo ***



Capitolo 1
*** 01 Capitolo ***


Senza-titolo-1

 Icu Wana
  – 01 Capitolo –
 
Concord, 1775
 
 
«Lily smettila di perder tempo con quel cavallo e dammi una mano coi nostri nuovi amici».
«Si, padre».
Elizabeth sospirò sommessamente da dietro il collo del vecchio ronzino, prima di raggiungere l’insolita trattoria arrangiatasi poco prima. Aveva passato gli ultimi dieci minuti nascosta dietro l’animale nella vana speranza che quello sfortunato incontro si rivelasse fugace e di rimettersi in cammino al più presto.
«Non fare quella faccia», la riprese bonariamente mentre riempiva l’ennesimo boccale.
Avrebbe solo voluto ricordare al proprio padre che quelli non erano amici ma solo un gruppo di rozzi campagnoli che si stava approfittando dell’ingenuità dei suoi genitori e dei loro barili carichi di birra.
La ragazza preferì restare in silenzio considerando che lei stessa era stata la causa di quello spiacevole inconveniente pomeridiano. Se qualcuno l’avesse avvertita che domandare a suo padre una breve sosta sarebbe costato il prezzo di tre individui che si abbeveravano come cavalli, avrebbe decisamente tenuto la bocca chiusa fino a destinazione.
Si erano lasciati alle spalle Boston ormai da svariati giorni da quando gli inglesi avevano decretato che la loro stessa casa ormai non era più di loro possesso e così suo padre aveva deciso di lasciare immediatamente Boston senza un’effettiva meta. Non c’era stato verso di convincerlo a chiedere rifugio dal più fortunato zio finché non avessero trovato un’altra sistemazione. No, suo padre aveva deciso che non avrebbe mai più voluto vedere né sentir parlare di giubbe rosse o dei liberali in vita sua, piuttosto sarebbero andati a vivere in mezzo ai boschi lontano dalla civiltà.
Ma con suo gran sollievo, Lily sapeva che ben presto la rabbia sarebbe scemata e la paura e la preoccupazione di avere un tetto sopra la testa, lo avrebbero ricondotto dritto a Boston a bussare a casa dello zio.
«Prepara un po’ di pane e formaggio per il signore», le disse suo padre indicando Godfrey, un omone – le ricordava più un armadio, in realtà – con degli occhi da bambino incastonati in un viso barbuto.
Mentre s’affrettava a tagliare una modesta fetta di formaggio sentì qualcuno che rideva parecchi decibel sopra la decenza.
Lanciò uno sguardo in direzione del gruppo e vide che la donna era ancora seduta su un tronco a bere birra assieme agli altri due. Quando Lily l’aveva vista avvicinarsi, sua madre le aveva assestato una gomitata nel fianco per farle chiudere la bocca: indossava dei pantaloni e portava con sé un fucile. Ma non erano solo i suoi abiti ad averle creato sconcerto, oltre all’aspetto c’erano i modi e il linguaggio che la rendevano ben lontana dall’idea che le avevano inculcato sin da bambina su come una donna dovesse comportarsi.
«Cara, sii un po’ più generosa! Quel pezzettino non sfamerebbe neanche un topo», le rimbeccò sua madre, che nonostante fosse impegnata a mescolare la zuppa sul braciere improvvisato, aveva occhio ovunque.
«Non ne basterebbe una forma intera a sfamare questo qui», pensò, guardando di sottecchi l’uomo che aspettava gongolando davanti ai suoi occhi. «Siete davvero troppo generosi», commentò mentre la ragazza gli porgeva il cibo. «La vostra locanda doveva essere una delle migliori», commentò dopo aver addentato un pezzo di pane.
«Peccato che il Re non la pensasse alla stessa maniera», sospirò suo padre fissando il fondo di un boccale vuoto.
Dopo quell’affermazione, il silenzio calò fra i presenti e solo dopo qualche imbarazzante minuto l’uomo con accento francese prese parola. «Dove siete diretti ora?».
«Nessun posto in particolare», rispose sua madre, senza mai smettere di mescolare la zuppa. «Ci fermeremo in qualche villaggio vicino, dove troveremo lavoro. Magari Lexington».
Lily si appoggiò con la schiena ad uno dei grossi barili e prese a fissarsi le punte delle scarpe.
Le voci dei contadini cominciarono ad accavallarsi le une alle altre e non riuscirono a sfondare la barriera che si era formata coi suoi pensieri.
Nella sua mente tornarono ad accavallarsi le immagini di qualche giorno prima, quando le giubbe rosse avevano fatto irruzione alla locanda e li avevano costretti ad abbandonare tutto senza neanche poter replicare.
Il modo in cui erano stati cacciati, come fossero stati ladri all’interno della loro stessa casa, era stato incredibilmente umiliante.
Se i ricordi avessero potuto fare rumore, allora in quell’istante nella sua testa doveva esserci una baraonda.
Urla, insulti e sguardi di scherno.
Rivide le proprie unghie affondare nel legno mentre una giubba rossa ripeteva che dovevano abbandonare l’edificio per ordine di un re che neanche gli apparteneva.
Si vide piangere mentre recuperava i suoi averi e li riponeva in una sacca come meglio poteva, mentre un fucile le veniva puntato contro.
Si era ripromessa di non piangere più davanti ad un uomo, non finché le fosse rimasta una briciola d’orgoglio. Mai più.  
«Signore!». Il cambio di tonalità di suo padre sembrò richiamarla dai suoi pensieri. «Gradite un sorso di birra o del formaggio?».
Quando Lily sollevò lo sguardo non vide l’ennesimo contadino che si aspettava. Le sue pupille si dilatarono quando si accorse dell’ indiano che si stava avvicinando al piccolo gruppo.
«Connor!» Godfrey s’avvicinò senza timore e gli poggiò una mano sulla spalla con fare familiare. «Lui è Oliver e loro sono Corrine e Lily, persone meravigliose! Olly, lui è Connor, l’uomo di cui ti parlavo, il Signore della Villa».
Per la seconda volta in quella giornata, Lily non provò neanche a nascondere l’espressione sorpresa che le si formò sul viso.
Sapeva che gli indiani potessero possedere oggetti, animali e forse persino delle case, ma che quell’uomo fosse il padrone di un’intera tenuta e desse lavoro a dei bianchi era al di fuori di ogni sua immaginazione.
Crescendo in una locanda, che oltre essere affollata dai consueti abitanti di Boston era saltuariamente frequentata da viaggiatori o avventurieri, le era stato concesso di ascoltare molte storie ed avventure, alcune delle quali avevano come protagonisti i nativi e non erano esattamente storie lusinghiere. Una delle tante che gli era rimasta particolarmente impressa a proposito della selvaggia crudeltà degli indiani era quella del sacrificio di una povera ragazza: l’avevano cibata per mesi, dandole da mangiare e mantenendola calma e ignara del suo destino fino a che arrivò il giorno: la collocarono tra gli alberi, la sollevarono legata per i polsi e dopo accesero un fuoco sotto di lei. Uno a uno, quei valorosi guerrieri, per così dire, presero un ramo ardente e lo appoggiarono sulla tremante carne della infelice ragazza fino a che la morte la liberò da tanta terribile sofferenza.
Lily si strinse nelle spalle e rabbrividì a quel ricordo che l’aveva sconcertata anni prima.
«Stavamo passando di qui, quando abbiamo visto i vostri servitori. Avevano sete e noi qualche barile e –», suo padre cercò di giustificare la sosta sul suo territorio ma l’indiano lo bloccò con un gesto della mano.
«Non sono un Signore e loro sono amici, non servitori», lo interruppe con risolutezza. «Cosa vi ha condotto per strada con un carro pieno di liquori da vendere?»
«Eravamo osti, poi il Re ha requisito la locanda per qualche questione militare», spiegò. «E ci ha lasciato con le chiappe all’aria», terminò stringendosi leggermente nelle spalle.
«Dovreste stabilirvi qui!», esordì l’uomo francese alzando il boccale che aveva in mano. «Ci servirebbe una locanda».
«Buona idea!», esclamò la donna tirandolo a sé e prendendo un ampio sorso di birra. Lily scostò subito lo sguardo.
«Lo faremmo ma servirebbe un edifico adeguato e ci vogliono soldi..», sospirò suo padre, sollevando le spalle con fare rassegnato.
Ma l’indiano non sembrò affatto scoraggiato. «Un locale come il vostro farebbe piacere a tutti. Parlerò con i miei amici al mulino e vedremo se potremo costruirne uno», sollevò leggermente gli angoli della bocca. «Se ci riusciamo, vi piacerebbe rimanere stabilmente qui?».                             
«Ma certo Olly!», esclamò sua madre euforica mentre correva ad abbracciare il marito. «Una nuova locanda!».
I due uomini si strinsero la mano e Lily si ritrovò in disparte, con un’espressione indecifrabile stampata sulla faccia, ben lontana dall’esaltazione generale.
«E mentre aspettate, potete alloggiare con me e la mia famiglia», si offrì Godfrey. «Non è molto grande ma ci stringeremo».
Suo padre si tolse il cappello, ormai con le lacrime agli occhi. «Io davvero non so cosa dire, la vostra gentilezza va oltre ogni limite».
«Lily!», sua madre si voltò verso di lei. «Hai sentito? Avremo una nuova locanda!».
«Già, è fantastico», le sorrise senza guardarla.
In realtà era tutt’altro che fantastico. Certo, avere un tetto sulla testa e per di più una nuova locanda era meraviglioso, ma l’idea di vivere nel bel mezzo di un bosco, lontani dalla città e per di più sottoposti ad un selvaggio..
«Dovete perdonare l’esuberanza di nostra figlia», ironizzò sua madre e Lily roteò gli occhi. «E’ ancora scossa, ha bisogno di tempo per adattarsi».
«E’ comprensibile», commentò l’indiano lanciandole uno sguardo prima di voltarsi verso il resto del gruppo.
Sua madre le si avvicinò e le strinse le mani. «Oggi è stata una benedizione, dopo tutte le disgrazie degli ultimi tempi quel ragazzo ci è stato mandato dal Signore Onnipotente».
«Non lo so, madre», sospirò con poca convinzione. «E’ un indiano», disse con un filo di voce. «E se tutto ciò fosse contro la legge? Che ne sappiamo se questa terra è davvero sua? E poi pensavo tornassimo a Boston. Almeno dallo zio–».
«Elizabeth Powell», beccò sua madre con un’espressione interdetta dipinta sul volto. «Io e tuo padre non ti abbiamo cresciuta per essere così acida di spirito. Quell’uomo ci darà una casa e un lavoro, fosse anche parente di una scimmia non è di nostro affare né interesse», si allontanò verso un barile e riempì, per l’ennesima volta in quella mattinata, un boccale di birra. «Offrigli questo come gratitudine e mostrati gentile».
«Si, madre». La ragazza afferrò il boccale borbottando. S’avvicinò a piccoli passi cercando di allontanare dalla mente l’immagine della ragazza martoriata dai nativi. Si fermò dietro l’indiano, faccia a faccia con la sua schiena, letteralmente. Quell’uomo era persino più alto di Godfrey. Avrebbe dovuto salire su uno sgabello per arrivargli almeno al collo.
Lily inghiottì prima di parlare. Com’è che lo avevano chiamato prima? «Signor Conrad?».
Il nativo si girò e portò lo sguardo sulla ragazza. «Ce l’hai con me?».
«Si», mormorò piantando gli occhi sulla birra. «Per voi».
«Oh, grazie». Prese il boccale e per qualche motivo fu sicura che le sue dita stettero attente a non sfiorare quelle di lei. Lily sospirò di sollievo e fece per girarsi ma la voce dell’indiano la bloccò sul posto.
«Il mio nome è Connor, comunque».
«Mi dispiace non sbaglierò di nuovo, signore», si scusò e le sue guance si colorarono di rosa.
Connor si grattò la testa facendo oscillare la sottile trecciolina che pendeva dai capelli scuri. «Chiamami solo Connor e dammi del tu».
«D’accordo», annuì portando le braccia dietro la schiena ed evitando di guardarlo negli occhi.
L’uomo sollevò brevemente un angolo della bocca e poi si voltò nuovamente verso gli altri. «E’ stato bello conoscervi, ma ho tante cose da sbrigare». Portò il boccale sul bancone – notò che non ne aveva preso neanche un sorso – e si congedò con un gesto della mano. «Mi farò vivo non appena avrò tutto il necessario».
Adesso che le deva le spalle, la ragazza fissò l’insolito signore della tenuta farsi più distante mentre percorreva il sentiero, prima che la sua sottana venne strattonata dalla donna seduta sul tronco.
«Siedi con noi!», le sorrise con occhi visibilmente lucidi.
Lily emise un sordo gemito prima di prendere posto, mentre il suo cuore era inondato dall’angoscia e i suoi pensieri percorrevano varie miglia, arrivando fino a Boston, alla vecchia locanda, alle sue cugine e a suo zio che chissà quando avrebbe rivisto.
Si sedette accanto alla ragazza e guardandola si chiese se, forse, non avrebbe rimpianto quella giornata per sempre.


 
***
Questo racconto era nato inizialmente come una one-shot contenente l’ultimo capitolo di questa storia. Poi in preda al delirio ho deciso di scriverne il resto (o meglio l’inizio).
Non è una storia da grandi intrighi o da chissà quali pretese né ci saranno grandi stravolgimenti rispetto alla storia principale. La protagonista è la figlia di Oliver e Corrine, i due locandieri che si stabiliscono alla tenuta. Mi è sembrata una buona opzione per poter inserire questo personaggio all’interno di questo universo. La missione che riguarda i due è disponibile dal 1775, quando Connor ha circa 19 anni.
In questa fase iniziale Lily ne ha solo 14 ma non vi preoccupate, la mia storia si svolgerà lungo il corso di altri 7 anni, fino all’assassinio di Lee, per cui la nostra protagonista ne avrà di tempo per crescere. (Per quel che sono riuscita a documentarmi, al contrario di quanto si possa pensare, già nel XVI secolo i matrimoni con donne di 12-14 anni non erano poi così comuni, esistevano si, ed erano assolutamente legali ma la maggior parte lo faceva dai 16 anni in su, anzi l’85% si sposava verso i 19 anni).
Se volete qualche approfondimento a proposito di questo argomento potete farlo qui.

*La storia della ragazza uccisa dagli indiani è vera, testimoniata indirettamente da Samuel Woodworth Cozzens, un avventuriero statunitense che passò molto tempo tra gli Apache, solo che il fatto avvenne ben più avanti rispetto alla nostra storia, ovvero nel 1856.

Inoltre ci tengo a precisare che con questa piccola storia, ci tengo ad essere il più fedele possibile ai pensieri e le credenze del tempo. Mi scuso quindi su eventuali parti in cui potrete riscontrare razzismo, maschilismo e via discorrendo ma è una storia ambientata nel 1700 e i personaggi presenti sono frutto di quegli anni. Detto ciò, ringrazio tutti voi che avete letto questo primo capitolo e mi auguro che vi sia piaciuto. A presto ♥

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Capitolo 2
*** 02 Capitolo ***


Ok, probabilmente quando nello scorso capitolo scrissi a presto non intendevo fra tre anni ma sorvoliamo..
Non so se questa sezione sia ancora seguita da qualcuno ma questa storia non ha mai smesso di darmi pace, nonostante l’avessi abbandonata, ripresa e poi abbandonata nuovamente, in qualche modo ha sempre continuato a chiamarmi da quella cartella rilegata in un angolo del pc e quindi dopo ben tre anni (praticamente quattro) arieccoce.
Bando alla ciance, se siete vecchi lettori vi ringrazio per essere nuovamente qui dopo secoli e anzi vi invito a rileggere il primo che è stato modificato e revisionato (ma anche perchè probabilmente non ricorderete più nulla ahah) se invece siete nuovi lettori grazie per aver continuato la lettura oltre il primo capitolo. Vi lascio e ne approfitto per farvi gli auguri di buon anno e ci vediamo al prossimo!  


Senza-titolo-1

  Icu Wana
    – 02 Capitolo –
 
Tenuta Davenport, 1775
 
Il tempo è subdolo. Quando vuoi che voli, quello non si muove mai.
Fu un pensiero che passò spesso nella mente di Lily quei primi giorni passati a casa del taglialegna in attesta di una risposta da parte di quel Connor.
Non che la loro permanenza si fosse rivelata sgradevole anzi, la famiglia del signor Godfrey era piuttosto piacevole, persone semplici e di buona compagnia.
Ma sin dalla nascita era stata abituata al caos che regnava nella locanda e ritrovarsi nel bel mezzo del nulla, lontana dai mille rumori della città era decisamente sconfortante, per non parlare del fatto che non ci fosse nessuno della sua età nel piccolo villaggio. Si, c’erano i figli del taglialegna ma erano pur sempre bambini. Non che lei si sentisse una donna, sapeva di essere ancora qualche anno lontano dall’essere chiamata tale ma sentiva la mancanza di conversare con una figura femminile che avesse la sua stessa età e le sue stesse esigenze.
Altro neo di quell’ improvvisa situazione era l’altra metà di Godfrey – e no, non si riferiva a sua moglie – bensì al burbero e pungente amico del taglialegna, dai capelli fiammeggianti e il viso da furetto, Terry.
Per il resto, fra gli aiuti domestici e qualche chiacchiera, i giorni trascorrevano lenti e le ore sembravano non passare mai mentre i suoi genitori aspettavano con trepidazione novità dal nativo.
Non avevano più avuto sue notizie e non sapeva bene cosa sperare. Desiderava più di ogni altra cosa tornare a Boston ma i suoi genitori sembravano già preferire quella nuova vita ed erano pieni di aspettative riguardanti la nuova locanda.
Sospirò poggiando la testa da una mano all’altra. Quella mattina, come tutte le altre, i suoi genitori si erano recati in strada cercando di vendere a qualche viandante di passaggio le bevande che gli erano rimaste. Aveva promesso che li avrebbe raggiunti per dargli una mano ma in realtà lo faceva più per non morire di noia fissando il muro di legno della casa.
Fu a quel punto che si accorse del suono deciso e penetrante che echeggiava nell’abitazione: qualcuno stava bussando alla porta.
Lentamente e cercando di fare meno rumore possibile si accostò al lato della finestra per spostare le tende e sbirciare la figura che stava alla soglia. Si disse che la sua cautela era più che giustificata visto che si trovava da sola in una casa non sua e che per di più si trovava nel bel mezzo del bosco. Se fosse stato un ladro? O un bracconiere? La possibilità che i suoi genitori la sentissero urlare era praticamente inesistente.
Quando però intravide la figura di Connor, sussultò per la sorpresa lasciando subito ricadere il pezzo di stoffa. Se fosse meglio o peggio di quello che si era immaginata, sul momento, non seppe dirlo.
Suo malgrado, s’affrettò ad aprire prima che il prossimo datore di lavoro di suo padre andasse via. 
Appena spalancò la porta l’odore di terra e aria fresca la investì e lo lasciò penetrare volentieri nei polmoni.
Almeno quello era uno degli aspetti che le piaceva della vita fuori città. Non le mancava la puzza di sterco e di urina che infestava strade e vicoli e nemmeno la puzza di zolfo proveniente dai camini o l’odore penetrante dei solventi dalle concerie e men che meno non rimpiangeva l’odore di sangue rappreso dai macelli.
«Buongiorno, Signor Connor», lo salutò.
L’indiano ricambiò il saluto con un cenno del capo. «Tuo padre è in casa? Ho delle buone notizie».
La ragazza scosse la testa. «Sono usciti questa mattina presto. Di solito si recano sulla strada, cercando di vendere quel poco che ci è rimasto».
«Sapresti indicarmi da che parte?».
Deglutì. «Vi ci porto io, stavo per raggiungerli. Datemi solo un minuto», disse prima di sparire all’interno della casa. Afferrò un vecchio diario dal tavolo e lo portò con sé.
Una volta fuori, scese i tre scalini di legno e le scarpe affondarono nella terra bagnata. Sospirò immaginandosi qualche ora più tardi a scrostare via il fango.
Connor l’aspettava appoggiato contro un albero dall’altro lato della strada mentre teneva le braccia incrociate al petto e lo sguardo rivolto verso il terreno. Sembrava assorto in chissà quali pensieri. I rami gli si agitavano attorno, sembrava quasi che lo cullassero fra tutte quelle fronde e quelle foglie.
Quando la udì avvicinarsi sembrò destarsi e le venne nuovamente incontro. «Andiamo?». Lily annuì.

La strada era immersa nel silenzio. Durante il tragitto Lily si sforzò nel cercare un argomento di conversazione adatto o qualcosa di intelligente da dire che potesse mettere in buona luce la sua famiglia ma nulla, in quel momento la sua mente sembrò svuotata. Per sua fortuna, prima che il suo cervello prendesse fuoco, fu Connor a proferire parola.
«Mi sono procurato i soldi che servivano per i materiali, Godfrey e Terry vi aiuteranno con la costruzione».
«I miei genitori faranno i salti di gioia quando udiranno quello che avete fatto».
«Tu no?»
Lily sussultò impercettibilmente a quella domanda inaspettata. «Certo che sono felice, davvero», ma la luce negli occhi dell’indiano le diceva che non era del tutto sincera, lo sapeva. «E’ stata una vera fortuna avervi incontrato solo che sembra essere troppo bello per essere vero», aggiunse e lo pensava davvero. Al di là di quale potesse essere la sua personale visione su quella vicenda, doveva ammettere che il permesso di poter costruire una locanda completamente nuova in quel piccolo villaggio era qualcosa che andava al di là di ogni speranza. Ma si domandava anche dove fosse la fregatura.
«Darvi ospitalità non è un problema, il terreno è grande. Ma la locanda dovrà funzionare, in modo che Achille sia soddisfatto»
«Achille?».
«Quando ho detto di non essere un Signore non l’ho fatto per semplice modestia. E’ Achille il padrone della tenuta, non io».
«Oh. Non credo di averlo mai visto finora».
Il ragazzo fece una smorfia. «Diciamo che Achille è un tipo un po’ particolare»
«E chi non lo è da queste parti», pensò ma si morse la lingua e non parlò.
«Non ama molto mostrarsi o avere a che fare con le persone. Preferisce che mi occupi io degli affari della tenuta».
Lei annuì. «Capisco».
Si rese conto che lo stava osservando solo dopo una manciata di istanti. Distolse lo sguardo. Si stava domandando quale fosse l’età del ragazzo e scoprì di trovarsi incerta sull’indovinare la risposta. Non sembrava poi molto più vecchio di lei eppure c’era qualcosa nel suo volto che lo avrebbe quasi descritto come antico.
«Un libro?».
«Uh? Ah, non proprio», disse facendo scivolare lo sguardo sul vecchio taccuino sgualcito che aveva fra le mani. «E’ più che altro un diario dove tenevo i conti per la vecchia locanda».
Il ragazzo non aggiunse altro e si domandò se Connor avesse abitudine di tenere i pensieri per sé.
«Voi sapete leggere?».
«E scrivere». Lo disse come se fosse una naturale conseguenza. «Ti sorprende?».
«Non intendevo offendervi! E’ che metà delle persone che conosco non sanno farlo, compresi i miei genitori. Mio padre sa leggere con fatica», s’affrettò a giustificarsi. «Probabilmente voi dovreste esserne più sorpreso, non è consueto che una donna sappia leggere».
«Perché no?».
«Mia madre dice che i libri allontanano i mariti». A nutrire quei pensieri di sua madre aveva contribuito anche il pastore del suo quartiere che sosteneva che ogni donna dovesse avere come unico interesse la cura della casa e i figli. “I libri, in mano alle donne, causano distrazioni e strani pensieri”, era solito predicare.  
I lati della bocca di lui si sollevarono.
«Lo trovate divertente?».
«In parte». Finalmente Connor alzò lo sguardo su di lei. «Ma è un pensiero triste».
«Una verità triste».
«Si può sempre scegliere diversamente».
Lily sbatté le palpebre. «Sono una donna, non posso scegliere niente. Posso solo appartenere a qualcuno e fare quello che mi viene chiesto, alla pari di un animale», replicò. «E’ questo che la gente si aspetta» aggiunse, come per avvalorare quello che affermava.
«La prima volta che mi hai visto mi hai guardato come se fossi un animale ed è quello che la maggior parte delle persone si aspetta dalla mia gente». A quelle parole le guance della ragazza andarono in fiamme dalla vergogna e il primo desiderio fu quello di girarsi e scappare lontano dallo sguardo dell’indiano. «Per molti non siamo altro che selvaggi, il cui massimo desiderio è essere schiavi di qualche padrone bianco ed esserne persino grati. Ma io ho fatto delle scelte e ho deciso di combattere per questo».
In quel momento Lily non capì ciò che significavano quelle parole per Connor, né la storia che c’era dietro di esse.
«Con tutto il rispetto ma non mi ci vedo a combattere con torcia e forcone per dei libri». Le sarebbe piaciuto se qualcuno avesse infilzato il pastore, però.
Connor scosse la testa. «Non era questo ciò che intendevo. Prendi Miryam: poteva finire in convento o in un bordello ma lei ha scelto diversamente, ha scelto la libertà. Tutti gli uomini e le donne meritano di essere liberi, è questo quello per cui mi batto».
La ragazza avvertì un senso di inadeguatezza e non rispose. Distolse lo sguardo sentendo quasi come se non meritasse di guardarlo in quel momento, si limitò a concentrare tutta la propria attenzione sul diario che stringeva fra le dita.
«Ad ogni modo, se non sono stati i tuoi, chi ha insegnato a farlo a te?».
«Mio fratello, mia madre non era d’accordo ma lui lo ha fatto di nascosto. Prima che partisse si occupava lui dei conti».
Connor corrugò le sopracciglia. «Dov’è adesso?».
Le labbra della ragazza si schiusero per dare a quella domanda una risposta che però Connor non udì mai: la voce dell’oste fece voltare entrambi verso la strada.
Oliver e Corrine erano qualche metro più avanti, accostati al lato della strada con un tavolo e il carro dei barili.
«Mio padre non smette di fare l’oste neanche quando non ce l’ha una locanda», mormorò pronunciando con un sorriso ciò che voleva sembrare un rimprovero.
«Connor! Posso offrirvi qualcosa da bere?», sorrise suo padre ma l’indiano declinò e porse all’oste un sacchetto di colore scuro. «Questi dovrebbero bastare per la nuova locanda».
Lily vide sua madre portarsi le mani alla bocca.
«Grazie mille, non ve ne pentirete, è una promessa».
Nessuna esistenza scorre piatta e regolare. Ogni vita ad un certo punto curva e cambia direzione, per sempre. Spesso non riusciamo ad accorgerci il momento esatto in cui ciò avviene eppure Lily, in quell'istante, capì con rassegnazione che indietro non sarebbero più tornati.

 
Qualche giorno dopo, le costruzioni per la nuova locanda ebbero inizio e tutti gli abitanti del villaggio sembravano lieti di dare una mano, ognuno a modo proprio.
Quel pomeriggio, Lily si recò dai due legnaioli con qualche pezzo di torta di marzapane che aveva fatto sua madre quella mattina.
«Buongiorno, signorina», la salutò Godfrey mentre si asciugava il sudore con la manica del maglione scuro.
Lily sorrise poggiando il vassoio su un ceppo. «Da parte di mia madre, servitevi pure».
I due abbandonarono gli attrezzi sul posto e quasi si avventarono sul dolce.
«Ma quanti pezzi ne prendi? Lasciane anche per me!», si lamentò Terry. A Lily venne da ridere, guardando i due falegnami comportarsi come bambini. «Quanto vorrei che Connor ti cacciasse a calci fuori dalla tenuta, Godfrey!».
«Visto il tuo caratteraccio se non fosse stato per me nemmeno ce lo avremmo un lavoro qui, stupido!».
«Posso farvi una domanda?», s’intromise spezzando quella sorta di faida che avveniva praticamente ogni qual volta Godfrey e Terry erano in disaccordo su qualcosa, ovvero quasi ogni cosa. Si era chiesta come avessero fatto a diventare così amici quei due.
«Quello che vuoi, bambina», le sorrise Godfrey lasciando perdere l’amico col viso da furetto e tornando ad addentare un nuovo pezzo di torta.
«Che tipo di lavoro fa Connor? Voglio dire, devono volerci molti soldi per mantenere tutta questa tenuta».
«In realtà non è proprio sua», disse Terry. «E’ del vecchio».
«Achille?».
«Si, Achille Davenport, è lui il padrone. Credo che Connor sia tipo il suo..», si fermò qualche attimo come per cercare le parole adatte. «..figlio adottivo?», concluse fissando Godfrey.
«E voi l’avete conosciuto?».
«Si, più o meno», disse rigirando il martello che aveva fra le mani. «Lo abbiamo incrociato qualche volta nel corso degli anni ma per qualsiasi cosa ci riferiamo a Connor quando si trova alla tenuta».
«Non esce molto spesso di casa», aggiunse Godfrey.
«Quindi Connor abita qui da sempre?», continuò.
«Per quanto ne sappiamo», mormorò scrollando le spalle. «Penso avesse più o meno la tua età quando ci trasferimmo qui».
Lily corrugò le sopracciglia sorprendendosi di come quei due non sapessero nulla del ragazzo, nonostante ormai vivessero lì da anni.
«Ma perché ti interessa tanto, comunque?», domandò Terry alzando un sopracciglio rubro.
«Per pura curiosità», si difese. «Lavorate per lui, dovreste farvi le medesime domande».
«Connor è un bravo ragazzo», disse Godfrey mentre era piegato a piallare un’asse. «Ci basta sapere questo».
«Ma se proprio ci tieni a sapere, perché queste domande non lei fai a lui?», disse Terry. «Invece di farci perdere tempo quando qui abbiamo ancora molto da lavorare. Di questo passo potrò bere birra in santa pace nel prossimo decennio».
«Bene, allora vado», disse sollevando il piatto ormai vuoto dal ceppo. «Ma sappi che ti sei appena giocato il pudding che vi avrei portato domani». Senza lasciargli il tempo di replicare si voltò e corse via.

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Capitolo 3
*** 03 Capitolo ***


Senza-titolo-1

 Icu Wana
  – 03 Capitolo –
 
Tenuta Davenport, 1776
 
 
«Mira donde vas, imbècil!»
Lily raccolse i resti del piatto che gli era caduto e alzò appena lo sguardo sull’uomo che aveva urtato per sbaglio: un marinaio ispanico a quattro ante.
«Perdonatemi, non vi avevo visto», bofonchiò, riponendo i resti sul vassoio che teneva in mano.
L’altro le prese il mento fra le dita. «Niñita», disse con finta gentilezza. « Il tuo posto dovrebbe essere in cucina o in un letto ma non ai tavoli».
Risate.
Ah.
Ah.
AH.
Lily si scansò bruscamente e sospirò di frustrazione. Una parte di lei avrebbe voluto levarsi lo sfizio di mandarlo al diavolo ma era troppo per bene e troppo ragionevole. Sapeva fin troppo bene che a voler rispondere per le rime a quelli come lui non ci si guadagnava niente.
Era passato circa un anno dall’apertura della locanda e le cose erano andate meglio di quanto avessero potuto immaginare: i marinai dell’Aquila –ebbene si, Connor possedeva persino una nave ed una ciurma- affollavano l’osteria continuamente, poi c’erano i cacciatori di passaggio, i viandanti e ovviamente alla lista di certo non mancavano gli abitanti del piccolo villaggio che si riunivano dopo il lavoro per un sorso di birra e un po’ di compagnia.
«Signore!», sentì la mano di suo padre stringerle la spalla in maniera rassicurante. «C’è qualcosa che non va?».
«Ce l’ha la tua cameriera qualcosa che non va! Guarda aquì», sbraitò indicando la nuova macchia sul gilè che in realtà faceva pendant con tutte le altre.
«Dovete perdonare la mia giovane figlia. Le porto subito una birra, offre la casa». Si scusò con un sorriso per poi trascinare la ragazza per il gomito. «Devi stare più attenta, Lily», disse fra i denti.
«Mi dispiace ma non l’ho proprio visto, è difficile non finire addosso a qualcuno fra tutti questi scimmioni».
«Lo so, non sono arrabbiato con te ma dovevi urtare proprio il più idiota tra gli idioti?», sospirò alzando gli occhi al cielo. «Va al bancone e restaci. Qui me ne occupo io».
«Si, padre». Lily si fece spazio fra la folla e si diresse verso l’altro lato del locale dove era appena stata confinata.
Quando si avvicinò al bancone notò che sua madre era intenta a conversare con una figura che riconobbe all’istante. Connor era seduto su di uno sgabello con le braccia poggiate al bancone mentre versava del vino nel suo bicchiere.
Da quel che aveva sentito vociferare tra gli abitanti, era tornato qualche settimana fa da Boston ma era la prima volta che lo vedeva seduto alla locanda.
«Come stanno andando le cose ultimamente?», lo sentì dire una volta che fu abbastanza vicina.
«Così bene che vi meritate la consumazione gratis», rispose prontamente sua madre.
«Sono un cliente fortunato».
Lei agitò una mano e sorrise. «No, lo siamo noi. Se non fosse stato per voi saremmo già in qualche fossa comune».
«Adesso non esagerare», s’intromise Lily mentre sollevò la pazienza e la sbatté sul bancone, letteralmente, assieme al vassoio.
«Ditemi un po’ Connor», disse Corrine mentre asciugava dei bicchieri con uno straccio senza guardare sua figlia. «Nella vostra tribù, cosa fanno le madri esasperate alle figlie che hanno la lingua troppo lunga?».
«A volte capita di metterle alla gogna con una molletta alla lingua. Ma la trovo una punizione eccessiva», rispose l’indiano sollevando gli angoli della bocca.
La signora Powell sospirò scuotendo la testa. «Un popolo meraviglioso. Avremmo molto da imparare».
Lily roteò gli occhi.
«Sciocchezze a parte, finisci tu di asciugare questi bicchieri, presto serviranno nuovamente», disse passandole lo straccio. «Vado a vedere se tuo padre ha bisogno di aiuto».
«Lo fanno sul serio?», chiese Lily dopo che sua madre si fu allontanata. «La storia della gogna».
«A volte».
«Mi toccherà nascondere tutte le mollette che abbiamo in casa».
Connor nascose un sorriso dietro il bicchiere di vino.
«Posso farvi una domanda?».
«Lo hai appena fatto».
La ragazza roteò gli occhi ma non si fece scoraggiare. «Ecco, era da un po’ che mi domandavo..non che voglia essere scortese, ma mi chiedevo se Connor fosse il vostro vero nome», disse contorcendo lo straccio fra le mani.
«Il mio vero nome è Ratonhnhaké:ton».
«Oh. E preferite che vi chiami Raton..Radonna-beh, avrò bisogno di esercitarmi prima».
Il ragazzo sollevò un angolo della bocca. «Chiamami Connor. Tutti i miei amici lo fanno e per favore», disse allargando le braccia «Dammi del tu».
La ragazza avvertì avvampare le guance. «In realtà anche il mio nome non è Lily, ma Elizabeth», sorrise brevemente. «Cioè, con questo non voglio dire che sia la stessa cosa» abbassò il capo e tornò a spolverare i boccali. «Lasciamo stare».
«Un amico una volta mi ha detto “I nomi cambiano ma le persone restano le stesse”», le sorrise. «Va bene così e poi Connor mi piace, ha qualcosa di speciale».
Lei annuì silenziosamente e Connor le lanciò uno sguardo prima di tornare a tagliare il pane.
Lily invece tornò a guardarlo per un lungo attimo. Così da vicino, il suo profilo era lungo e lineare. Aveva una curva verso la punta del naso ma era quasi invisibile, le labbra carnose e scure erano in sintonia con la tonalità calda della pelle. Le sopracciglia nere erano corrugate – si era accorta che lo faceva spesso, anche inconsciamente - creando delle linee sottili sulla fronte.
La camicia bianca che indossava faceva quasi contrasto con gli occhi color carbone che però gli davano un’aria dolce. O forse ce l’aveva per natura, ogni volta che lo aveva incontrato era stato estremamente gentile.
Fu come se dopo tanto tempo Lily si accorse che Ratonhnhaké:ton era bello. Ma nel senso ampio del termine. Lily aveva assimilato quell’informazione quasi inconsciamente.
Quella dell’indiano era una bellezza strana, singolare, che stava nel modo di fare le cose, la percepivi attraverso tutti i sensi anziché col solo sguardo.
«Elizabeth Powell!». 
Girò la testa di scatto e si rese conto di essere rimasta a guardarlo per tutto il tempo.
«Tuo padre mi ha detto tutto! E’ la terza volta questa settimana».
«Non è colpa mia se qui dentro non c’è più nemmeno lo spazio per respirare», si difese.
«Te lo avevo detto», la ignorò rivolgendosi al signor Oliver. «Te lo avevo detto che non siamo a Boston e questo non è posto per una ragazzina!».
«E che vuoi che faccia?», alzò le braccia il proprietario della locanda. «Che la tenga chiusa in camera sua?».
«Ci potresti almeno provare».
«Basta voi due!», sbottò la ragazza. «Starò più attenta e poi non è successo niente di così grave».
«Lily», sospirò suo padre. «Il tuo aiuto ci è comodo ma tua madre non ha del tutto torto».
«Se posso permettermi», s’intromise Connor. «Vorrei proporre una soluzione».
A quelle parole tutti spostarono la loro attenzione sull’indiano che aveva ascoltato silenziosamente la discussione mentre terminava il suo pasto. Non che ci fosse da stupirsi visto che sua madre aveva l’abitudine di parlare ad un volume che andasse oltre la comune decenza.
Si schiarì la voce. «Tra qualche giorno dovrò recarmi a New York per alcuni affari, perciò la casa sarà vuota e ad Achille farà sicuramente più che comodo una mano e poi un po’ di compagnia non potrà che fargli bene».
Lily sbatté le palpebre. «Vuoi che faccia la domestica?».
«Riceverai un compenso e potrai andar via quando lo desideri. Sempre che tu decida di accettare, ovviamente».
«Certo che accettiamo».
«Padre!».
Connor sollevò gli angoli della bocca. «E’ meglio se prima ne parlate fra di voi», disse alzandosi dallo sgabello. «Quando avrete preso una decisione mi farete sapere».
 
«Io non ci voglio andare!».
Il signor Oliver sospirò per l’ennesima volta quella sera a cena. «Lily, mi renderesti molto più tranquillo se non dovessi preoccuparmi di dove sono le mani dei miei clienti».
«E sarai tranquillo nel sapermi sola con un vecchio sconosciuto?».
«Oliver, per una volta nostra figlia non ha tutti i torti», intervenne Corinne. «Come farà a trovare marito se resterà tutto il giorno chiusa in casa col signor Davenport?».
A quel punto la ragazza iniziò a sobbollire come una pentola a pressione. Di certo il matrimonio non era una delle sue preoccupazioni principali in quel momento ma decise che non era il caso di mettersi contro il suo unico alleato.
«Nostra figlia è ancora giovane», respinse l’obiezione addentando una fetta di pane. «Lasciamo che passino almeno un altro paio d’estati prima di preoccuparci di matrimoni».
«La fai facile tu», sospirò la signora Powell.
Lily alzò gli occhi al cielo. «Resta il fatto che non voglio passare il resto delle mie giornate a fare la domestica. Preferisco dare una mano alla locanda, non potete gestire tutto da soli».
«Tesoro, io e tua madre ci occupavamo della locanda prima che tu nascessi e continueremo a farlo dopo che avrai preso marito. E poi non hai sentito? Avrai persino uno stipendio».
«Oh, certo. Dovrebbe importami di monete che andranno nelle tue tasche?».
«Elizabeth», per un secondo nello sguardo di suo padre si disegnò un’espressione ferita. «Che razza di padre pensi che io sia? I soldi si aggiungeranno alla tua dote».
«Questo si che mi allieta» sbuffò. «I miei soldi finiranno nelle tasche del mio ipotetico marito».
«E comunque non sarai sempre sola. Connor dovrà pur tornare da New York prima o poi».
«Pensandoci bene..», s’intromise sua madre che aveva assunto una strana luce negli occhi e un sorriso malizioso. «Connor è il padrone della tenuta e non è poi tanto più grande di te. Figlia mia, se fossi un po’ più furba fremeresti per del tempo da sola con il ragazzo. Avresti una casa più grande di tua cugina Jane e magari dei domestici tuoi».
«Oh, per la miseria!».
«Linguaggio, signorina!».
«E comunque Connor non è il padrone ma il signor Davenport».
«Il signor Davenport non ha eredi, a chi credi che andrà tutto quando deciderà di tirar le cuoia?».
«Madre, sei terribile».
«Adesso basa con le sciocchezze, ne avete dette troppe per una sola sera!», intervenne bruscamente il signor Powell. «Cosa deve fare un uomo per poter cenare in santa pace?».
A quel punto, ormai esasperata, Lily si alzò dalla sedia. «Bene, allora me ne vado a letto. Ma sappiate, entrambi, che non lavorerò a casa di Achille Davenport né domani né mai!».
 
Dopo circa un anno dal suo arrivo alla tenuta, mentre si ritrovava ad affondare la pala per sollevare lo sterco e la paglia sporca nella stalla del signor Davenport, Lily si ritrovò a maledire il giorno in cui aveva messo piede fuori da Boston.
Fra tutte le cose che aveva immaginato di pulire alla tenuta, le stalle non erano fra quelle. Era umiliante e ancora una volta, la colpa di tutto era da attribuire all’indiano.
Era difficile odiare qualcuno come Connor ma ogni suo gesto di gentilezza si rivelava un cambiamento drastico e soprattutto non apprezzato, nella vita della ragazza.
Quando tre giorni prima si era ritrovata di fronte all’alta porta in mogano della villa, il primo impulso era stato quello di scappare.
Accettare era stata una pessima idea. Un’idea imbecille. Quando si era voltata per tornare indietro il rumore della porta che si apriva la sorprese, costringendola a voltarsi.
Connor l’aveva fatta entrare e presentata all’effettivo padrone della tenuta.
Stando ai racconti degli altri abitanti, Lily aveva immaginato Achille Davenport come un vecchio schivo e silenzioso. La realtà non poteva essere più differente. Silenzioso non era un aggettivo che poteva rappresentare Achille visto che non lasciava correre occasione per lamentarsi e commentare ciò che non gradiva e ad Achille non piacevano molte cose. Una di queste era sicuramente Lily.
Non era d’accordo sulla decisione presa da Connor e non lo aveva nascosto neanche quando la ragazza era ormai giunta alla villa.
«Dagli tempo», le aveva detto il ragazzo. «Le sue pareti possono sembrare dure ma Achille è una persona gentile, soprattutto con chi stima».
Nonostante quelle parole, Lily era arrivata alla conclusione che Connor, seppur sempre con buone intenzioni, possedesse uno strano talento nel rendere infelici le persone che lo circondavano.
Quando ebbe finito il lavoro uscì dalla stalla ma sussultò quando uno strattone la riportò indietro di qualche centimetro.
«Ma che diamine..». La gonna si era impigliata in uno dei cardini della porta.
Cercò di sfilarla delicatamente ma sembrò non voler lasciare la presa. Dopo un paio di strattoni riuscì a liberarsi ma ci guadagnò un buco nella stoffa. Non era molto visibile ma sbuffò ugualmente. L’ultima cosa che voleva fare una volta tornata a casa era di armarsi di ago e filo e mettersi a rattoppare i suoi vestiti.
«Dovresti mettere dei pantaloni».
Si voltò al suono della voce del vecchio Achille. «Come?».
«Non puoi lavorare in queste condizioni», sospirò il vecchio tenendo le mani unite sul bastone piantato nel terreno. «Hai bisogno di pantaloni».
Lily aggrottò la fronte. «Ma non sono un uomo».
Achille assottigliò lo sguardo con fare teatrale. «Grazie al cielo me lo hai fatto notare».
La ragazza ebbe voglia di roteare gli occhi ma si trattenne.
«Penso che in casa ci sia ancora qualche vecchio pantalone di quando Connor aveva la tua età, userai quelli».
«Ma mi andranno lunghi».
«Sciocchezze», rispose, sbrigativo. Aveva un fastidiosissimo modo di chiudere i discorsi, senza che ci fosse modo di trattare. «Li metterai dentro gli stivali oppure tagliali, non m’importa».
«Sono pronto».
Per fortuna l’arrivo di Connor e dell’ altro uomo distolse completamente l’attenzione di Achille dalla ragazza, che ormai non aveva più nulla di valido con cui replicare.
«Bene, prendi i cavalli», gli disse rivolgendo il suo interesse verso l’altro.
L’uomo, che rispondeva al nome di Benjamin Tallmadge, doveva esser arrivato alla tenuta il giorno prima in tarda serata perché quando Lily era andata via non c’era e quando era arrivata, il mattino seguente, era già in casa. Non si sarebbe stupita se Achille lo avesse tenuto nascosto in qualche armadio o qualche stanza segreta poiché aveva fatto di tutto pur di tenere Lily a distanza dall’uomo.
Non aveva permesso neanche che gli preparasse il the.
Il signor Tallmadge doveva appartenere a qualche famiglia importante o comunque rivestire qualche carica di spessore nella società, più che dagli abiti lo si notava dal modo in cui si muoveva e da come parlava.
Pulire i cavalli e le stalle probabilmente era l’ennesimo modo per tenerla lontano dall’uomo.
Non che Lily preferisse la compagnia del signor Davenport a quella dei più gioviali e simpatici cavalli, ma si domandava se la trovasse inadeguata  alla presenza del signor Tallmadge.
Magari le domestiche dell’alta società erano diverse e con un’educazione ben precisa, e Achille non voleva che il signor Tallmadge si potesse sentire offeso dalla presenza della ragazza.
Ad ogni modo, quando vide arrivare Connor assieme a Benjamin Tallmadge, ancora una volta, ebbe l’impulso di scappare.
Dopo un pomeriggio passato nelle stalle era sporca di fango e probabilmente puzzava di sterco di cavallo e per lei fu una grande vergogna apparire in quelle condizioni davanti ad un uomo di quel lignaggio. Perlomeno ancora non indossava i pantaloni, ennesima punizione che il signor Davenport sembrava ansioso di appiopparle, in modo da apparire proprio come un ragazzotto di campagna.
«Mi spiace tu debba ripartire così in fretta dopo un viaggio simile».
«Non c’è tempo da perdere, amico mio», rispose mettendo un braccio sulla spalla di Achille. «Ogni giorno in cui indugiamo è uno in più per loro».
Achille annuì e non aggiunse altro e Lily, ovviamente, non aveva idea di quello a cui alludevano.
Quando Connor ritornò con due cavalli il signor Tallmadge salutò Achille a salì sul suo animale.
«Allora vado», annunciò e poi si rivolse con il suo solito sorriso verso la ragazza. «Sono contento di saperti qui, prima che io arrivassi questo posto cadeva a pezzi, letteralmente».
Lily sorrise per metà. «Buona fortuna a New York. Deve essere una bella città, ne parlavano bene a Boston».
«O puzza di piscio o puzza di bruciato», commentò il signor Tallmage da sopra il suo stallone.
«Perfetto». Connor scosse leggermente la testa prima di salire sul cavallo. «Ti farò avere notizie appena possibile, Achille».
«Connor», Achille afferrò una briglia del cavallo. «Ricorda ciò che ho detto. I dubbi fanno perdere tempo prezioso», la voce del vecchio era dura, tagliente.
Connor annuì e spinse i talloni nei fianchi del cavallo per poi galoppare via. I due si allontanarono fra un’ondata di terra e polvere seguiti dallo sguardo pensieroso di Achille.
C’era qualcosa di strano e di teso in tutti loro, Lily lo avvertiva sotto la pelle.
Achille si voltò e la fissò per un attimo. «Hai finito qui?».
«Si, signor Davenport».
«Allora cosa fai qui impalata? Torna a casa, sta per farsi buio», disse incamminandosi verso l’uscio di casa.  Il vecchio si voltò per un momento mentre saliva le scale. «E fatti un bagno, puzzi di sterco».
 
***
 Ce l'abbiamo fatta a giungere al terzo capitolo finalmente! Fra lavoro e vita sociale mi ci voleva la quarantena per riuscire ad avere il tempo necessario ad aggiornare. A proposito, state tutti bene? Spero di si e spero anche di avervi regalato 10 minuti di svago dalla noia che dilaga in questo periodo.
Tornando a noi, spero non abbiate trovato troppo banale l'idea di spedire la nostra protagonista dritta tra le mura di casa Davenport ma era il modo più semplice per far si che Connor e Lily interagiscano il più facilmente possibile in questa piccola storia.
Vi lascio con qualche breve delucidazione, grazie per aver letto e se ne avete voglia ci ribecchiamo al prossimo!♥
Oh, un grazie doveroso va alle persone che hanno commentato, davvero mille grazie, portate sempre un sorriso nel mio cuoricino ahah.

 
*«A volte capita di metterle alla gogna con una molletta alla lingua. Ma la trovo una punizione eccessiva»: anche se non so quanto fosse effettivamente comune, era una punizione reale ai tempi delle colonie che veniva usata per le donne reputate troppo "chiacchierone". Non c'è prova che questa 'punizione' fosse usata anche degli indiani ma mi sono presa questa piccola libertà.
**La frase “I nomi cambiano ma le persone restano le stesse” viene detta da Norris durate una delle missioni della tenuta. Inoltre, quando Connor dice che il suo nome è speciale, lo è perchè come sappiamo dal gioco è il nome del vero figlio di Achille.

***Quando vediamo Lily lamentarsi circa la sorte del suo stipendio non è perchè suo padre è un cattivone ma, all'epoca, essendo le donne  proprietà prima del padre e poi. del marito nel caso in cui percepissero un compenso non apparteneva a loro stesse e non finiva nelle loro tasche. Indovinate in quelle di chi? Purtroppo funzionava così.
****«O puzza di piscio o puzza di bruciato»: come anche visto nel videogioco, nell'epoca coloniale New York era stata 'colpita' da vari incendi, dolosi e non. Ecco a cosa si riferisce Benjamin con la puzza di bruciato.

 

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Capitolo 4
*** 04 Capitolo ***


Quarta settimana di quarantena e quarto capitolo arrivato.
Facciamo nuovamente un balzo di un anno in avanti e finalmente entriamo un pò nel vivo di questa storia. Vi lascio subito al capitolo che spero sia di vostro gradimento e ci vediamo al prossimo! Baci 


Senza-titolo-1

  Icu Wana
    – 04 Capitolo –
 
Tenuta Davenport, 1777
 
Non c’era una sola prova in vista che desse segno di bel tempo.
Avide ed invidiose nuvole coprivano il cielo, portando via i colori, la bellezza e la serenità.
Il tempo invernale nella contea di Concord poteva essere a volte angoscioso: c’erano pochi rumori, poche sfumature, poco calore.
Piccoli fiocchi di neve cadevano leggeri su quegli alberi maestosamente grandi e stanchi, si afflosciavano i rami. Dicembre ormai era arrivato.
Lily si allontanò dalla finestra e tornò a dare una sbirciata alla teglia di dolcetti che stava cuocendo nel piccolo forno ad alveare della villa. Ci stava mettendo un’attenzione quasi meticolosa. Non poteva rischiare che venissero né troppo crudi né troppo bruciati altrimenti Achille, come al solito, si sarebbe fatto beffe di lei e della sua mancanza di attitudine nelle arti femminili, per giorni.
Buffo era pensare come quello fosse diventato il suo solito.
Sebbene la convivenza con Achille non era partita nel migliore dei modi, alla fine era riuscita a trarne dei vantaggi. I primi tempi però erano stati difficili: aveva provato ad incassare in silenzio, finché un giorno la sua pazienza, come un mormorio pulsante nel cervello, esplose e cominciò a replicare alle punzecchiature del vecchio. Achille, con sua grande sorpresa – e sollievo – invece di indispettirsi e punire la ragazza, rispose con ancora più calma e indisponenza, tanto da zittire la ragazza ancora una volta.
E così quei battibecchi si ripetevano quotidianamente e Lily aspettava con ansia il giorno in cui l’avrebbe finalmente avuta vinta sul vecchio.
Con sua sorpresa, alla fine, Achille si era rivelato essere la persona più intellettualmente stimolante che avesse mai incontrato.
Il vecchio possedeva una grande conoscenza che si diramava in vari campi: cultura generale, storia, geografia, filosofia. E così, da quella insolita collaborazione Lily ne ricavò ben più che qualche sterlina. In un anno imparò più di tutto ciò che aveva imparato in sedici anni di vita e qualche volta, nel primo pomeriggio, le chiedeva anche di giocare a dama e a Lily non importava di perdere perché quando ciò accadeva, il vecchio restava di buon umore per tutta la giornata e questo era molto più appetibile di una vittoria ad un gioco da tavolo.
E poi c’era Connor.
Non era stato facile, inizialmente, abituarsi alla presenza dell’indiano e i primi tempi aveva anche evitato di restare da sola con lui visto che riusciva a metterla in un notevole stato di disagio.
Lily aveva imparato che era per natura molto silenzioso e riservato, poco incline alle chiacchiere futili da salotto.
Per evitare quegli opprimenti silenzi la ragazza aveva così tentato, di volta in volta, di trovare un argomento che tirasse fuori più che qualche risposa secca senza speranza di replica.
Aveva scoperto che al ragazzo faceva piacere parlare del suo villaggio, Kanatahséton, e si dimostrava sempre disponibile a condividere piccoli stralci della vita che ormai si era lasciato alle spalle. Connor non le aveva mai rivelato il perché si era allontanato dalla sua gente né Lily era desiderosa di chiedere per paura di prendere una strada sbagliata con l’indiano, toccando tasti che non andavano toccati. Perché voleva che la loro amicizia funzionasse. Di punto in bianco si era ritrovata a desiderare un modo per andare d’accordo perché in fondo, le piaceva.
Il tempo aveva fatto il suo lavoro e di conseguenza il disagio iniziale che provava si era tramutato in imbarazzo e l’ansia e la paura di restare sola con l’indiano avevano preso sorprendentemente la forma di un’attesa perenne: i momenti che avevano a disposizione per stare assieme durate la giornata erano si e no una manciata visto che era sempre impegnato con lavori in giro per il villaggio oppure in allenamenti fisici estenuanti di cui Lily non riusciva a capirne appieno l’utilità.
Così, durante il tempo libero o prima di addormentarsi, aveva iniziato a fantasticare e a rimuginare sulle parole che il ragazzo le rivolgeva, cercando in ogni gesto o in ogni sguardo innocente un qualsiasi appiglio che potesse farle sperare di essere in qualche modo ricambiata.  Ma niente, Lily non era riuscita a trovare nemmeno un indizio che le facesse intuire ciò che pensasse l’indiano.
Se Connor era un libro aperto allora era di certo scritto in una lingua che Lily non riusciva a comprendere.
Aveva sempre pensato che l’esistenza si suddividesse in capitoli, come nei libri che era solita leggere, e che quelli più importanti fossero i capitoli finali mentre i centrali erano soltanto un intermezzo per riempire la storia. I due anni trascorsi alla tenuta le fecero capire che spesso, nel modo in cui si racconta una storia, le parti centrali sono le più importanti. E’ ciò che c’è nel mezzo che ci porta a delle scelte. Non come iniziamo o quello che scegliamo di fare alla fine ma le esperienze che ci sono a metà strada.
Se due anni prima, quando fermarono il loro carro lungo una strada qualunque di Concord, qualcuno le avesse detto che con l’indiano sarebbe finita in quel modo, non ci avrebbe mai creduto. Non avrebbe mai potuto immaginare né accettare che potesse avere un lato così buono.
Era così abbagliata dalle convinzioni che le erano state cucite sulla pelle durante tutta la sua esistenza che vedere qualcosa di diverso si era rivelato complicato. E poi era così occupata con la sua condizione di martire da dimenticare che nella vita esistono cose peggiori che fare la domestica in un luogo così lontano da tutto ciò a cui era sempre stata abituata.
Alzò lo sguardo quando udì la porta della villa aprirsi: era Connor.
Le fece un cenno col capo e la raggiunse in cucina. «Avrei un favore da chiederti».
«Se si tratta ancora dei maiali di Prudence la risposta è no», disse. «Sai com’è finita l’ultima volta».
«Niente di simile», le sorrise mentre si sedeva sulla panca in legno vicino al tavolo. «Solo una domanda».
«Chiedi pure allora», disse mentre si piegava nuovamente per analizzare la teglia in metallo. Ancora qualche minuto e sarebbero stati perfetti.
«Cosa farebbe piacere ricevere ad una donna come regalo?».
«Cosa?». Si accorse che la propria voce era impastata, improvvisamente arida.
«Un regalo per una donna», disse allargando le braccia. «Ho bisogno di sapere cosa vorrebbe una donna in regalo».
Lily si scoprì a ingoiare un nodo che le si era formato in gola. «Dipende da chi deve riceverlo, immagino. Chi è la fortunata?».
«Meglio non dirlo, per ora», rispose. «Norris sta cercando di corteggiare una donna».
«Oh. Oh!». Se Lily avesse potuto schiaffeggiarsi da sola senza sembrare completamente fuori di testa lo avrebbe fatto in quell’esatto istante.
«E ti prego, non dirmi dei fiori. Non hanno funzionato».
«Beh, non saprei. Ogni persona ha gusti differenti», disse mentre si voltò per tirare fuori la teglia. «Norris dovrà conoscere un minimo questa donna, sapere ciò che può esserle utile oppure no».
Appoggiò la teglia sulla pietra cotta, aspettando che si raffreddasse. Almeno l’odore sembrava buono.
«Immagino di si», commentò l’indiano mentre sollevava le spalle, la sua attenzione ormai rivolta alla teglia di dolcetti.
«Quale mi consigli?».
Lily guardò attentamente la teglia. Aveva cercato di dare una forma ad ogni biscotto ma ora che erano usciti fuori dal forno avevano assunto una figura ben lontana da quella che aveva creato in partenza.
«Solitamente quelli al centro sono quelli che vengono cotti meglio».
«Ok, mi fido».
Passarono il successivo quarto d’ora a chiacchierare. Forse, quel termine non era propriamente adatto ma la conversazione fu piena di commenti sui dolci e cose così.
Lily non aveva idea di quello che stava facendo ma quei pochi minuti trascorsero come uno di quegli eventi che vedi sfilare davanti agli occhi senza fare niente.
«Vuoi che ti accompagni oggi? Sarà buio fra poco».
«Non preoccuparti, la locanda è vicina».
«Non è un problema, devo ancora allenarmi oggi», arcuò le sopracciglia. «Mazza ferrata».
«Uhm. Non so nemmeno che aspetto abbia»
«Se vuoi te lo mostro».
«Certo, come no».
Connor rise e Lily sorrise di piacere perché non era una cosa che il ragazzo faceva spesso.
«Di che diavolo state parlando? Vi sentivo ciarlare dal piano di sopra».
Achille, si diresse verso Lily rubando un biscotto che in principio doveva essere a forma di omino. Lo decapitò e poggiò i gomiti sul ripiano.
«Com’è?», chiese la ragazza.
«Troppa cannella».
«Non si chiamerebbero biscotti alla cannella, sennò».
Il vecchio decise di chiudere subito quella discussione con un gesto infastidito della mano.
Quando Achille era entrato in stanza non le era sfuggita, anche se fu solo per un attimo, l’espressione tesa che si era formata sul volto del ragazzo.
Le cose non andavano esattamente nel migliore dei modi da quando era tornato da New York. O meglio, erano tornati.
Dopo circa due settimane dalla partenza dell’indiano, alla tenuta arrivò una lettera che mise visibilmente in apprensione il signor Achille.
Il contenuto della lettera, come molte altre cose in quella casa, le era oscuro ma l’agitazione del vecchio e soprattutto la sua improvvisa decisione di partire per New York le fecero capire che qualcosa doveva essere andato storto con Connor.
Quella fu la prima volta che si sentì in apprensione per il ragazzo. Se avesse saputo che quello non era niente, probabilmente si sarebbe fermata quel giorno.
Dopo due interminabili settimane, i due fecero ritorno e Lily poté vedere la conferma delle sue paure sul volto segnato da lividi in via di guarigione del ragazzo. Nessuno però né parlò mai o almeno non quando Lily era presente. Che ci fosse qualcosa di teso fra i due era chiaro ma ogni qual volta la ragazza metteva piede in una stanza i due interrompevano i loro discorsi e tornavano alle loro faccende.
«Preparami il thè e poi torna a casa, farà buio presto», le ordinò mentre si recava nuovamente in salotto. «E portami anche qualcuno di quei biscotti». Lily sorrise. Sapeva che l’avrebbe attesa seduto sulla sua poltrona preferita, proprio vicino al camino.
Come se fosse stato punto improvvisamente da qualcosa, Connor si alzò di scatto dallo sgabello, lasciandola quasi interdetta.
«Devo recarmi agli allenamenti, qui non ho nulla da fare».
Quella frase sembrò spiazzare la ragazza, la delusione che calava come un velo sui suoi lineamenti.
«Se non hai di meglio da fare, vai».
Stava per prendere la porta quando si voltò il tempo di un attimo.
«Scusami, non volevo dire che stare con te è tempo sprecato».
Lei rimase a fissare la sua schiena mentre spariva dietro al corridoio.
   
Due giorni dopo, mentre stava riscaldando gli avanzi dello stufato di mezzogiorno in un tegame, udì le voci di Connor e Achille provenire dal piano di sotto.
Provenivano dall’unica stanza in cui non le era assolutamente concesso entrare: lo strano passaggio celato da un meccanismo a comparsa che conduceva ad un piano sottostante.
Si avvicinò al muro che combaciava proprio con la cucina e tese le orecchie, in ascolto.
Inizialmente non riusciva a distinguere ciò che dicevano ma era sicura stessero discutendo ancora una volta.
«La tua è un’idea stupida, priva di qualsivoglia logica». A quel punto udì distintamente la voce del vecchio, probabilmente si erano avvicinati all’uscita del passaggio nascosto.
«Perché ciò che fai tu ha senso?». Adesso era stato Connor a parlare. «Anzi no, perdonami. Ciò che non fai e non hai mai fatto in tutta la tua vita».
Lily si stupì per un attimo. Non aveva mai sentito così tanta rabbia nel tono di voce del ragazzo.
«Come ti permetti?», urlò Achille e poi avvertì il rumore di passi pesanti salire delle scale. «Connor!».
Lily si appiattì contro la parete mentre avertiva il ragazzo passarle accanto dall’altra parte del muro e uscire sbattendo la porta d’entrata della villa.
Il vecchio arrancò su per le scale mentre continuava a chiamare il nome del ragazzo. Per lui la discussione non era conclusa e fu ancor più ovvio quando cercò di inseguirlo anche al di fuori della villa.
In quel momento Lily pensò che quei due le avrebbero portato via la sua già precaria sanità mentale.
Con un sospiro si affacciò sul corridoio e la prima cosa che i suoi occhi captarono fu l’entrata per il piano di sotto lasciata aperta.
Senza nemmeno avere la decenza di pensarci si affacciò con la punta del naso verso l’entrata ma visto che le scale finivano a ridosso del muro non vi fu modo di soddisfare la sua curiosità.
Lanciò uno sguardo incerto verso la porta per l’esterno che era appena stata utilizzata dai due e si disse che se avesse sceso un paio di gradini non se ne sarebbe accorto nessuno. Ma due gradini diventarono quattro.
La prima cosa che avvertì fu un brivido che le attraversò le ossa. Era ormai dicembre e quella stanza sotterranea risentiva la mancanza di pareti in legno e un bel camino acceso.
La stanza era grande e quasi completamente buia, se non fosse stato per una piccola apertura posizionata in alto, verso il fondo della stanza.
Una specie di fantoccio fatto di stracci e legno era stato messo al centro della stanza mentre alle sue spalle vi erano altre figure in legno, alcune delle quali reggevano delle vesti.
Prima ancora che potesse pensarlo le sue gambe l’avevano condotta più vicino e ne sfiorò una con le punta delle dita che in qualche modo le ricordò quella che aveva visto indossare a Connor in alcune occasioni.
Proseguì verso destra e strabuzzò gli occhi quando si accorse della moltitudine di armi presenti, l’acciaio affilato che risplendeva sotto la luce della piccola finestrella.
La colpì anche la meticolosità con la quale erano sistemate. Pistole erano fissate su dei ripiani, file di spade e coltelli appesi vicino a degli scaffali in legno. E poi ancora mazze, bastoni, fionde, frecce, dardi e qualsiasi altra diavoleria con cui si poteva immagine di togliere la vita ad un animale.
Ma dentro di se si fece spazio l’angosciante sensazione che quelli non erano affatto strumenti da caccia e non erano fatti per uccidere bestie.
Si voltò e s’affrettò a raggiungere le scale prima che uno dei due tornasse. L’ultima cosa che desiderava era una strigliata da parte di Achille che ormai sapeva di essere di pessimo umore.
Prima che raggiungesse la sua destinazione scorse, con la coda dell’occhio, qualcosa che prima non aveva notato.
Sulla parete vi erano appesi sette ritratti, disposti in maniera quasi piramidale fra loro. Inizialmente, la ragazza, ipotizzò si trattassero di figure appartenenti alla famiglia Davenport ma scartò subito l’idea quando si rese conto che tutti erano uomini bianchi.
Accanto ad ognuno vi era un nome e un cognome e sotto alcuni di essi vi erano delle informazioni accompagnate da punti interrogativi che si accavallarono alle domande che si stavano formando nella mente della ragazza.
Il fatto che su alcuni di essi vi era segnata una croce non fece altro che aumentare il vortice che le si era creato nello stomaco.
Sollevò lo sguardo sul quadro posto al di sopra di tutti. La candela lasciata accesa sul tavolo illuminava il volto dell’uomo e ne accentuava l’aspetto severo, che quasi intimidiva lo spettatore.
Per qualche assurda ragione, la sua mente portò alla luce il volto di Connor che però risultava essere tutto l’opposto di quello sguardo freddo e distaccato.
Spostò lo sguardo verso la scritta al suo fianco. Haythan Kenway. Gran Maestro.
A quel punto, Lily sussultò per la seconda volta quel pomeriggio. Trattenne il respiro e affondò le unghia nei suo stessi palmi quando avvertì il bastone piantato fra le scapole.
Si voltò lentamente, indecisa se inventare una scusa plausibile o fuggire di corsa su per le scale e chiuderci Achille dentro, una volta per sempre.
Avrebbe voluto dire qualcosa.
Una cosa qualsiasi.
Ma le parole non volevano lasciare la sua gola.
«Hai bruciato la cena».
 

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