∞ Kisetsukan - Sense of Seasons

di kitsune999
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [Spring] • __Seize the Day [Hanami]__ ***
Capitolo 2: *** [Summer] • ‹≈Fūrin≈› Natsu no Kaze no Heya ***
Capitolo 3: *** [Winter] • Kikoku ~ Dove c'è un kotatsu, c'è casa. ***



Capitolo 1
*** [Spring] • __Seize the Day [Hanami]__ ***


seize the day seize the day

Sentivate la mia mancanza, scommetto...ebbene, l'esperta in trame inconsistenti e caratterizzazioni al confine dell'IC è tornata per ammorbarvi con ciò che era partito come un introspettivo semiserio, ma che alla fine si è scritto da sè trasformandosi in una mezza bakata. Portate pazienza, è più forte di me.
"Storia" senza la benchè minima pretesa, dedicata a coloro che non costituiscono il mio OTP primario ma che sono comunque i secondi in linea di successione diretta. Mezza-bakata, parzialmente introspettiva, decisamente prolissa, sicuramente di orientamento filo-palloso xD
E' la mia prima Koji/Jun, u
na Koji/Jun estremamente cazzuta frutto di tre terrificanti deliri glicemici, ok, ma pur sempre una Koji/Jun xD
Perché DOVEVO provare a scribacchiare di loro, se non altro per soddisfare un mio capriccio. E mi sono pure divertita nel farlo, il che non guasta mai^^
Amo/odio questi due, specie Jun, con cui ho un rapporto conflittuale poiché trovo che sia uno dei personaggi più difficili da gestire...ma che ci posso fare se li trovo taaaanto bellini inZieme?
*parte l'urlettino da fangirl lobotomizzata – si ridà un contegno tossicchiando* Dicevo, sono tremendamente opposti, ma deliziosamente affini. Aaah, un cocktail letale *si asciuga la bavetta* (*__*)
Va detto, più di così non posso fare, per cui non cazziatemi troppo U__U




____Seize the Day [Hanami]____

Unusually Mildened Nine.


Quando, in quella mattina di metà Aprile, Kojirō se ne era uscito con la proposta di andare al parco a contemplare i ciliegi in fiore dopo gli allenamenti, a Jun era quasi caduta la mascella per lo stupore. L'aveva fissato con gli occhi strabuzzati, semi incredulo, chiedendosi se non fosse stato posseduto da una qualche misteriosa entità benevola, perché stentava a credere che colui che si trovava di fronte fosse proprio l'autentico Kojirō ruspante di sempre.
-Mbé, che ho detto? Ti sembra così assurdo che io ti chieda una cosa come questa?- Aveva esclamato lui con una punta di stizza, notando la sua espressione allucinata. Jun ci aveva messo due secondi a recuperare il proprio
self-control e gli aveva risposto senza scomporsi minimamente, allacciandosi una scarpa.
-Francamente, Hy
ūga...sì, mi sembra davvero inconcepibile che simili parole possano uscire dalla tua bocca. Non mi sembri esattamente il tipo di persona dedita a trastullarsi con pratiche del genere.

Naturalmente non si sbagliava, e non poteva certo biasimarlo per la reazione sbigottita che aveva manifestato, perché ci sarebbe arrivato anche l'ultimo dei fessi che, in fin dei conti, di andare a fare hanami gliene potesse fregare ben poco.
Complice anche la sua rinomata scarsa pazienza, per lui quell'usanza era più che altro una scocciatura, e non vi aveva mai prestato molta attenzione, prendendovi parte solo se costretto dalle circostanze. Non che lo spettacolo offerto dalla fioritura dei ciliegi lo inorridisse, tutt'altro; però quella mite attività non gli si addiceva per niente, senza contare poi che aveva sempre troppo da fare per permettersi di gettare via del tempo prezioso perdendosi ad osservare qualche fiorellino. Cosa, questa, a cui poteva concedere giusto una manciata di minuti, non certo i pomeriggi interi che solevano sprecare amici e conoscenti.
Gliel'aveva proposto unicamente perché sapeva che a lui piaceva, dannazione. Che razza di ingrato.
-Se ti dà tanto da fare fa lo stesso- Ringhiò risentito dandogli le spalle mentre, con gesti nevrastenici, armeggiava con il contenuto della propria sacca, sfogando l'acredine sui suoi poveri indumenti inermi. -Penso che sopravviverò, fai come ti pare.
Jun sospirò, mentre le labbra iniziavano ad incresparglisi in un mezzo sorriso. Dedicarsi a quel bucolico passatempo primaverile aveva il potere di rilassarlo come poco altro, ragion per cui lo apprezzava da sempre. Non poteva che essere contento di quell'idea, ma che gli arrivasse proprio da lui...
-Va bene, Hy
ūga, andiamo a vedere i fiori.
-Non farmele girare, Misugi. Se devi venire per farmi un favore puoi anche evitare, sai che mi frega.
-Lo faccio volentieri, sul serio. Mi hai solo spiazzato un attimo, tutto qui.
Kojir
ō, piuttosto adirato anche dal fatto di essere già al terzo tentativo di arrotolare le maniche della maglietta -le quali sembravano proprio non voler obbedire-, si interruppe per voltarsi a guardarlo, con le sopracciglia aggrottate e gli occhi a mezz'asta.

Figurarsi, era lui che lo spiazzava, altroché. Specialmente quando ponderava le risposte con quella calma di cui la sua indole impulsiva era totalmente sprovvista.
Erano troppo, troppo diversi. E forse proprio per questo non poteva impedirsi di ammirarlo.
Lo urtava alquanto ammettere di provare quella stima nei suoi confronti, perché Jun era l'unico in grado di metterlo in difficoltà sia in campo sia fuori. Oltretutto, quello che lo lasciava maggiormente basito era che sembrava riuscirci inconsapevolmente, come se gli risultasse innato, la cosa più semplice del mondo.
Si trattava davvero soltanto di stima, poi? Era questo l'inquietante interrogativo che si poneva da un bel po' di tempo, decisamente una fonte non indifferente di preoccupazione.
Ma forse aveva trovato la risposta, dopo tante elucubrazioni.
E, nella fattispecie, a quel punto ciò di cui aveva bisogno era una conferma.

Richiuse la zip del borsone con un movimento secco e lo ammonì con il consueto piglio da pitbull, digrignando i denti: -Non provare a farti strane idee.
-E chi se le fa.
Lo guardò in tralice e vide che se la stava ghignando sotto i baffi.
-Fai poco il furbo, sai. Non mi sono ancora rammollito a tal punto, non è che mi diverta chissà quanto a starmene a fissare due fiori,
io- Gli sibilò, sottolineando quell' “io” con particolare enfasi ed affrettandosi poi ad aggiungere -E' che non avevo niente di meglio da fare, oggi.
Jun replicò assai placidamente, per nulla infastidito dalla sua sottile allusione.
-Mi stai forse dando del rammollito? Se è così, mi stupisco del fatto che tu sia in grado di insultare qualcuno in modo velato, visto che sei solito mangiare la faccia alla gente. Sarebbe un bel progresso, ma è più probabile che abbia frainteso le tue parole.
Di nuovo. Ennesimo esempio di come riuscisse a rimetterlo al proprio posto senza il benché minimo sforzo.
Non c'era niente da fare, alle volte lo trovava piuttosto irritante.
Era sempre così maledettamente sicuro di sé. Non che lui fosse da meno, anzi, ma quando era in sua compagnia non riusciva a far emergere più di tanto il proprio temperamento riottoso, e ciò era davvero strano.
Il suo caratteraccio lo portava spesso a prevaricare il prossimo senza troppe remore, ma con Jun era sempre stato diverso. Trovava davvero impegnativo imporsi quando aveva a che fare con lui.
E, in fondo, non gli interessava più di tanto stabilire chi tra loro due fosse il più forte. Questo, forse, lo turbava anche più di tutto il resto.
-Ti ho già avvertito una volta, vedi di non farmi incazzare, che oggi non è proprio giornata. E datti una mossa, altrimenti potrei ripensarci.
-Perché, esiste un giorno che per te sia
giornata? Fammelo sapere, che me lo segno sul calendario- Ridacchiò Jun di rimando, scuotendo la testa. Era inutile, volente o nolente Kojirō cadeva sempre nelle sue provocazioni.
Così come era a conoscenza della sua propensione a menar le mani, era consapevole anche del fatto che su di lui non avrebbe mai osato alzare un dito, e alle volte gli piaceva approfittarsi di quella condizione privilegiata. Tanto sapeva quando fermarsi prima che fosse troppo tardi.
E in quel caso, continuando su quella falsariga, avrebbe ottenuto soltanto di farsi piantare in asso, per cui decise che fosse giunta l'ora di smetterla.
Caricandosi il borsone in spalla, scoccò un'occhiata vagamente divertita alla sua faccia incazzosa ed esclamò:
-Ho finito, possiamo andare. E stai attento, che ti scoppia una vena.


No More Words, Merely Touch.


Un refolo di vento tiepido fece volteggiare nell'aria tanti piccoli fiori rosa.
Kojir
ō, suo malgrado, rimase incantato ad osservare il tripudio di petali danzanti turbinare attorno a Jun che, con i capelli scarmigliati da quella brezza leggera e qualche raggio di sole che lo illuminava filtrando dai rami del ciliegio, appariva ancora più bello del solito.
Non riusciva a concentrarsi minimamente su quello che l'altro stava dicendo -difatti non avrebbe saputo dire neanche su quale argomento stesse vertendo la conversazione-, e per di più doveva aver assunto un'espressione particolarmente beota, perché ad un certo punto lo udì esclamare:
-Ho forse qualcosa sulla faccia?
-Sì, due belle occhiaie- Replicò prontamente, salvandosi in extremis. -Non hai dormito, stanotte?
Nel corso di quella rapita contemplazione (bé, dopotutto stava davvero facendo
hanami, a modo suo) non aveva potuto fare a meno di notare i cerchi bluastri che gli solcavano il viso perfetto, e la sua esclamazione, che lo aveva riportato bruscamente alla realtà, aveva solo accelerato i tempi per una domanda che di lì a poco gli avrebbe posto a prescindere.
Come al solito, non poteva fare a meno di dimostrarsi piuttosto apprensivo circa la sua salute, doveva essere un retaggio di quel ruolo di fratello maggiore che era abituato a ricoprire da una vita.
O magari anche no. Forse gli interessava soltanto perché si trattava di lui.
-Non mi sembri nella posizione giusta per permetterti di sollevare delle critiche- Gli rispose, con uno di quei sorrisetti scaltri che tanto lo intrigavano, mentre soffiava via una ciocca di capelli che a causa del vento gli era ricaduta sugli occhi -...tu non stai certo messo meglio di me.
Non c'era niente di più vero, pure la sua faccia aveva conosciuto giorni migliori.
I
l motivo per cui faticava a prendere sonno ce l'aveva giusto davanti al naso, peccato ignorasse che lo stesso discorso valesse anche per lui.

-Dobbiamo parlare per forza di calcio?- Sbottò Kojirō, interrompendo bruscamente la discussione, o meglio il monologo, che Jun aveva intavolato. Era finalmente riuscito a cogliere il senso delle sue parole, appellandosi agli ultimi residui delle proprie capacità di concentrazione, ed almeno per quel giorno non avrebbe voluto sentir nominare Tsubasa, la formazione, le partite e gli allenamenti.
-Toh, pensavo che questo fosse l'ultimo argomento che potesse annoiarti- Replicò pacatamente l'altro, poi aggiunse, alzando le mani in segno di resa: -Allora prego, a te l'onore di scegliere un nuovo tema di cui trattare.
Kojir
ō corrugò la fronte e contorse la bocca in una smorfia, schioccando la lingua.
-Ma niente, Misugi, non ho voglia di conversare.- Il tono del suo grugnito non lasciava spazio a repliche e, detto questo, incrociò le braccia con fare solenne, appoggiandosi con la schiena al tronco dell'albero sotto cui si erano seduti.
Dovevano parlare di qualcosa ad ogni costo? Non era in vena per dare bella mostra della sua
ars oratoria, che anche in condizioni normali non avrebbe comunque potuto competere con quella di Jun, soprattutto dal punto di vista sintattico e lessicale. Ciò che avrebbe desiderato realmente in quel primo pomeriggio assolato sarebbe stato soltanto il restarsene in silenzio a rimuginare, accarezzati dalla gentile brezza primaverile, all'ombra di un ciliegio ed immersi nella quiete del parco, mentre aspettava il momento propizio per attuare ciò che aveva in mente fin dal principio. Perché, aveva deciso, quel giorno si giocava il tutto e per tutto: doveva dirglielo, e doveva essere speciale. Ed inoltre, secondo la strategia elaborata, avrebbe preso due piccioni con una fava.

Di fronte alla sua esclamazione Jun fece spallucce e, coprendosi uno sbadiglio con la mano, si stiracchiò e si distese sull'erba. Era inutile impuntarsi dopo quanto aveva decretato, e poi era un po' stufo di ciarlare a vanvera, poiché si era accorto che le sue chiacchiere non fossero molto considerate.
Da quando erano arrivati, mezz'ora prima, sembrava perso nel suo mondo. Lui naturalmente le antenne le aveva drizzate già da un bel po', il suo sesto senso difficilmente sbagliava: era lampante che ci fosse qualcosa sotto, ma di certo non avrebbe fatto il primo passo. Era curioso di vedere cosa si sarebbe inventato.
Perché Kojir
ō Hyūga non era proprio il tipo da fare dichiarazioni in vecchio stile, e lui non era così cretino da aspettarselo. Soprattutto dato che non si erano mai detti nulla esplicitamente, almeno non ancora. Aveva pochi dubbi solo sul fatto che esistesse fra di loro una specie di attrazione reciproca, di che natura però rimaneva un mistero.
Sul piano prettamente fisico? Caratteriale? O magari entrambe le cose?
Fisicamente, gli era tutt'altro che indifferente.
Caratterialmente, poi, non potevano essere più agli antipodi.
Ed era proprio questo che lo affascinava più di ogni altra cosa, perché aveva tutto quello che a lui mancava. Quante volte si era ritrovato ad invidiare la sua forza, la sua vitalità, il suo buttarsi a testa bassa nelle cose, il suo non affrontare i problemi bensì
aggredirli? Non avrebbe mai potuto essere come lui, essendo animato da una razionalità che trovava quasi pesante, alle volte.

Kojirō trasalì impercettibilmente quando, con la massima disinvoltura, Jun gli appoggiò il capo sulle ginocchia.
Fosse stata la testa di chiunque altro probabilmente l'avrebbe calciata via con un
Raiju Shot, ma si trattava della sua. E tanto bastava a sedargli ogni inclinazione omicida, che fosse maledetto l'ascendente disturbante che esercitava su di lui.
-Mh...sono così stanco- Rantolò quello farsesco, in stile esalazione dell'ultimo respiro -...e tu sei talmente comodo, fammi restare.
-Non attacca, Misugi- Sibilò fra i denti, ghignando appena -Dovresti cambiare repertorio, ormai non ci casca più nessuno. E poi io non sono il tuo cuscino, ricordatelo.
Jun chiuse gli occhi e lo ignorò con la consueta eleganza, annuendo distrattamente alle sue parole.
Ma a chi voleva darla a bere. Nonostante il suo monito pronunciato in tono lievemente caustico, in realtà quel contatto non gli dispiaceva affatto, al contrario.
Perciò, abituato a seguire l'istinto com'era, quasi non si accorse di aver obbedito all'impulso di insinuargli le dita fra i capelli soffici, indugiandovi a lungo, per poi proseguire andando a delineare i contorni del viso, sfiorandogli le labbra morbide e soffermandosi sul suo collo che, in quel frangente, non avrebbe desiderato altro che baciare e
mordere.
Ma la cosa davvero bislacca era che Jun non si fosse ritratto, scioccato da quelle carezze.
Anzi, gli era parso che si stesse perfino
rilassando sotto il suo tocco e lui, come se fosse attirato da una forza magnetica, si chinò sul suo viso.
Era tempo di risfoderare quella determinazione da carro armato che lo contraddistingueva: se era una conferma ciò che voleva, non doveva fare altro che prendersela.


Know How To Say.


Basta.
Kojir
ō non ne poteva più, era stanco di tutto quel rosa, stanco di quella pace, stanco soprattutto di doversi trattenere perché si trovavano in un luogo pubblico. Poco frequentato a quell'ora, d'accordo, ma pur sempre un luogo pubblico, e lui non propendeva esattamente per i sottili approcci metaforici. Anzi, per avere quella parte di cervello deputata alla libido ormai in fervente attività, si era già controllato sin troppo. Allo stesso tempo, però, non avrebbe voluto andarsene, non senza prima aver portato a termine ciò che si era prefissato.
E comunque, non era poi precisamente vero che non avesse niente da fare, quel pomeriggio.
Diede una rapida occhiata all'orologio da polso di Jun: entro quarantacinque minuti avrebbe dovuto presentarsi al suo
part-time.
Un po' a malincuore, esclamò:
-Senti, io leverei le tende. In fondo siamo qui da quanto, un'ora ormai? Decisamente troppo, per i miei gusti.
L'altro sospirò e disse:
-Andiamo?
-Andiamo.
Ma nessuno dei due mosse un muscolo.
-Bé? Vogliamo andare o no?- Insistette Jun, guardandolo interrogativo.
-Aspettavo che facessi tu la prima mossa.
-Vuoi che facciamo come in partita, usando una monetina per decidere chi sarà ad alzarsi per primo?
Pausa. Sguardi che si incrociano, sorrisi negli occhi.
Avvicinarsi quel tanto che basta per arrivare a solleticare il suo collo con la bocca, inebriandosi del profumo della sua pelle, facendo uno sforzo per controllare una passionalità che l'avrebbe portato a morderlo assai poco gentilmente. E poi, finalmente, dirglielo, in un sussurro a fior di labbra.
-Buon compleanno.
Eccola lì, la
fase uno del brillante piano che aveva dubitato seriamente di riuscire a concludere. Era quello l'obiettivo primario a cui puntava da quando l'aveva invitato a vedere quei cavolo di ciliegi, e si era pure impegnato parecchio, perché era stato un grande sforzo avanzargli quella proposta senza essere colto da un attacco di orticaria fulminante.
Per non parlare poi di quanto fosse allergico a smancerie
et similia.
Eppure, almeno secondo i suoi standard, ce la stava davvero mettendo tutta per fargli trascorrere una giornata piacevole.
Soddisfatto dell'atmosfera che si era creata, la quale andava ben oltre le sue più rosee aspettative, fece per approfondire il bacio e magari passare alla
fase due, ma venne bloccato dalle parole di Jun, che furono come una doccia fredda.
-...Non è il mio compleanno.
Kojir
ō trasecolò e lo guardò con occhi pallati.
-Ma fammi il piacere, non era il 14?
-...Veramente sarebbe il 23.
Al diavolo. Era proprio negato a ricordare date e ricorrenze.
Si maledisse fra sé e sé e si grattò la nuca, bofonchiando:
-Come la fai lunga. Giorno più, giorno meno...
-...Sì bé, mese più, mese meno...sono nato in Giugno.
Silenzio agghiacciante. Fu soltanto il rovinoso crollo di tutti i castelli in aria che si era pazientemente costruito a fare rumore.
Cristosanto, era ovvio che il suo sorriso indecifrabile dovesse costituire un campanello d'allarme. Ma lui no, era troppo impegnato a fare figure di merda per accorgersene.

Tipico. Vatti a fidare della memoria di Tsubasa, che per quelle cose stava messo ancora peggio di lui. Incerto sull'esattezza della data, il giorno prima, agli allenamenti, l'aveva preso da parte con l'intento di chiedergli conferma.
-Ci puoi scommettere che ne sono sicuro, è domani, il 14.
Parole profetiche pronunciate come se fossero una sacrosanta verità assoluta.
Se solo avesse potuto legargli una pietra al collo e gettarlo giù da un ponte l'avrebbe fatto, anche se alla fine la colpa di tutto era esclusivamente sua. Non si curava mai di quei dettagli, ed era inevitabile che fallisse miseramente quando, per intercessione della Grazia Divina, decideva di cimentarsi in simili
imprese al di fuori della sua portata.

-Come hai fatto a sbagliarti di due mesi? Sei proprio senza speranza.
Nonostante tutto, il suo tono era privo di quella punta di supponenza che riesumava quando voleva iniziare una polemica. Anzi, aveva un che di vagamente divertito.
-Concorso di colpa. Sono stato consigliato male, mi ero rivolto a Tsubasa perché non ero sicuro al cento per cento...- Si scrocchiò le nocche, meditando su quale fosse la vendetta più appropriata e più
dolorosa da riservare a quell'impiastro.
-Ah, complimenti per la scelta della persona a cui chiedere. Giusto per sapere, il tuo regalo per il mio pseudo-compleanno consisteva in una giornata trascorsa al parco a fare
hanami?
Cos'era, gli sembrava poco? Lo fulminò con un'occhiata intimidatoria e replicò, allargando le braccia:
-Certo che sì, non ti basta essere
omaggiato della mia presenza? Lo sai quanto mi rompa a fare questa cosa pallosa, dovresti ringraziarmi, altroché! E poi dimmi cos'altro potevo farti, tu non hai bisogno di niente.
Per tutta risposta, Jun gli passò una mano dietro la nuca e lo attirò a sé.
-Di qualcosa avrei bisogno, o meglio, di
qualcuno.
Calmo, come al solito. Calmo e intrigante. Oh sì, che lo intrigava. Non c'era ombra di tensione nel suo tono, sembrava essere perfettamente a suo agio.

Aveva preventivato di prendere due piccioni con una fava, quel giorno. Purtroppo per lui il primo piccione era ormai irrimediabilmente emigrato, la “sorpresa” del compleanno si era rivelata del tutto fuori luogo. Rimaneva però il secondo da provare ad acchiappare, ovvero la parte due del suo piano, senza dubbio la più difficile.
No, non ce l'avrebbe mai fatta, ne aveva avuto la piena consapevolezza giusto in quel momento, mentre si trovava a pochi centimetri dalle sue labbra e stava esitando in cerca delle parole giuste.
Che palle, però. Perché bisognava sempre parlare, poi?
Agire e basta gli sarebbe riuscito di gran lunga meglio.
-Misugi...
-Sì?
Era indeciso se dirglielo dopo, lasciandosi prima andare al bacio incandescente che aveva in mente, o se fare il contrario.
Alla fine optò per togliersi subito il pensiero, per cui gli brancò la camicia lanciandogli uno sguardo predatorio, esclamando:

-Non mi dispiaci.

Che dichiarazione del cazzo, pensò, resistendo all'impulso di prendersi a sberle da solo. Ma pazienza, quello era il suo massimo, e comunque non gli diede il tempo né di soffermarsi troppo sulla frase né di replicare con qualcuna delle sue battutine sagaci, perché gli saltò addosso con un balzo degno di un coguaro.
Giusto per mantenere fede al suo proposito di controllare gli istinti, dato che si trovavano in un luogo pubblico.

 


NOTE CONCLUSIVE

Se volete saperne di più sull'hanami, cliccate qui. Il link è in inglese, ma mi tira troppo il culo per stare a spiegarlo con parole mie, e poi Wikipedia esiste per questo xD
Ci tengo a sottolineare che io venero tale usanza, non so cosa darei per potermi trovare in Giappone adesso T_T


Le fantasie monacali di Kojirō, appena accennate nel testo, le trovate illustrate in queste pagine del mio sito U__U
Ringrazio sentitamente le carissime Chyko e Nene, che sopportano/supportano i miei scleri MSNiani e si leggono le mie pallosissime ff in anteprima. Per cui se pubblico 'sti scempi è anche colpa loro, che mi danno il nulla osta xD
In particolare un grazie speciale e uno smacckino a Nene per avermi aiutato a scegliere il titolo^^
E comunque, Jun sopravviverà, alla fine? Non mi assumo responsabilità in merito e lascio tutto all'immaginazione/interpretazione dei lettori xD


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Capitolo 2
*** [Summer] • ‹≈Fūrin≈› Natsu no Kaze no Heya ***


E così, rieccomi qui con la mia seconda e inutile Koji/Jun. Trattasi di una storiellina a sfondo estivo di cui potevo anche fare a meno e di cui è (purtroppo) in lavorazione una sorta di dōjinshi, che Dio solo sa se riuscirò mai a completare.
Ho pensato di inaugurare una raccolta “stagionale” di one-shot dedicate a 'sti due, per cui, dopo la primavera, ecco a voi l'estate. Solo che, siccome sono una persona mediocre, riesco a concepire solo cose mediocri, quindi non aspettatevi proprio niente di che né dal dōjinshi, né dalla pseudo fanfiction qui sotto.
Insomma, è un raccontino (?) dei miei, stupido, decontestualizzato, ridondante e piuttosto
non-sense. Perchè io non so scrivere, o almeno non so scrivere come vorrei. E non lo dico per falsa modestia o che, magari...è un dato di fatto ;__;
Chiedo venia se vi ammorbo con pairing che non si fila nessuno. Non fucilatemi, pleaZe xD


FUURIN
Natsu no Kaze no Heya


Arrivava ovattato, il fresco tintinnio del fūrin che a intervalli irregolari ondeggiava lieve al vento, appeso fuori dalla finestra chiusa della veranda. Tutto ciò che si udiva all'interno era il soffiare del condizionatore, lo scribacchiare di Jun e lo sbuffare di Kojirō.
Stava lì, piantonato alle sue spalle, svaccato sul parquet, un braccio a sorreggere la testa e l'altro a grattarsi pigramente gli addominali, inframmezzando la simil-lettura velleitaria di una rivista sportiva a poderosi sbadigli sloga-mascella. Nel vano tentativo di contrastare l'asfissiante canicola estiva, stava usando a mo' di ventaglio qualche foglio di carta trafugato dalla scrivania di Jun, ricavandone ben poco refrigerio. A proposito, per quanto ne avrebbe avuto ancora? Gli buttò un'occhiata esasperata e vide che era sempre chino sulle sue scartoffie, tanto per cambiare.
Da ormai troppo tempo giaceva in stato semi-comatoso, annoiato e accaldato, ad un passo dal morire d'inedia. Cominciava a non poterne più, e oltretutto chi era stato il genio che aveva inutilmente settato il condizionatore a 25 gradi? Soffocando l'ennesimo sbadiglio, si allungò verso il telecomando e abbassò la temperatura a palla, pigiando tasti alla rinfusa e sibilando anatemi fino a quando non comparve un bel 18 sul display.
Jun, invece, era preso dalla sua
full-immersion tra le pagine di un imponente tomo di biochimica che da qualcuno alle sue spalle sarebbe stato definito soporifero, autolesionista e a tratti uccisorio, per non dire da schianto cerebrale irreversibile. Con spirito zelante mordicchiava assorto l'estremità della matita con cui, di tanto in tanto, annotava qualche appunto, scartabellando freneticamente fra millemila fogli, come se dalla stesura di quelle postille dipendesse la salvezza del genere umano. Da quando Kojirō era arrivato non aveva fatto altro che ignorarlo bellamente, e neppure in quel frangente si stava smentendo, dimostrandosi disinvoltamente disinteressato ai suoi traffici e al fatto che, mentre si occupava di gestire il clima della stanza, stesse dando fondo al suo vasto inventario di imprecazioni.
Ma che diavolo era venuto a fare, in definitiva? Mezz'ora prima se l'era visto piombare senza preavviso ed aveva seriamente valutato l'eventualità di metterlo alla porta, o meglio, di farlo
restare alla porta, dato che in casa ancora non ci aveva messo piede. Peccato che, con suo sommo disappunto, Kojirō l'avesse scansato di malagrazia auto-legittimandosi ad entrare, grugnendo un – Fai pure quello che devi fare, io non sporco e non disturbo.
Sì come no, gli venisse niente. Lo sapeva benissimo che in quei giorni a momenti bypassava anche il cesso dal poco tempo che aveva, già era tanto se si faceva vivo agli allenamenti, e giusto quella mattina, oltre ad avergli fatto particolarmente girare i cosiddetti, gli aveva fatto presente chiaro e tondo che aveva degli impegni inderogabili per il pomeriggio. Ma tanto non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire, Jun l'aveva imparato a proprie spese, perché quello, quando ci si metteva, riusciva ad essere urtante quanto le unghie sulla lavagna.

Lo udì sbuffare per l'ottocento ventiquattresima volta e, sospirando, si voltò a guardarlo di sottecchi, con la faccia di chi si dirige al patibolo.
-Finalmente ti sei accorto della mia presenza. Sono lusingato.
Al suo barbugliare Jun roteò gli occhi al cielo e, riportando la propria attenzione al libro, replicò:
-Non hai niente da fare oggi, Hyūga? Io avrei un po' da studiare, sai. E non sgualcirmi quei fogli, sono materiale per la mia tesi.
Per tutta risposta Kojirō attaccò a sventolarli con ancor più veemenza, avendo cura di stropicciarli per bene, e poi allungò le gambe, puntellandogli i piedi sulla schiena.
-Si può sapere che cavolo stai facendo?
-Ammazzo il tempo dandoti fastidio.
Con un gesto stizzito, Jun allontanò quelle estremità nauseantemente irritanti e si passò una mano fra i capelli scarmigliati, bofonchiando -Questo l'avevo notato.
-E allora perché chiedi?
-Perché vorrei essere lasciato in pace, almeno per un'altra ora.
Asserire una cosa del genere con Kojirō in un palese stato di concupiscenza fremente equivaleva ad ottenere l'effetto contrario, difatti la sua prevedibile reazione non si fece attendere. Dopo essersi gettato con noncuranza i preziosi fogli alle spalle, gli strisciò vicino e in un impeto di lussuria gli infilò senza tanti preamboli le mani sotto la maglietta, mentre gli bisbigliava roco all'orecchio:
-Mi sono stufato di aspettare, puoi farlo benissimo dopo.
-Pure tu, se è per questo. Ho una tabella di marcia da rispettare, io.
Aveva un che di diverso nella voce, non sembrava il Jun di sempre. Oddio, rompiballe era rompiballe, niente di nuovo su questo fronte, si disse. Però c'era qualcosa che non lo convinceva, e non si trattava soltanto del suo livello di coinvolgimento emotivo, chiaramente - e inusualmente- pari a quello castrante di chi aspetta in coda al supermercato. La libido gli colò a picco di botto e a malincuore cessò le molestie, ringhiando spazientito:
-Cos'è, ti dovrò mica pagare? Sei particolarmente cagacazzo oggi, che hai?
Con l'innato tatto che lo contraddistingueva, gli aveva appena comunicato di aver intuito la nota di risentimento insita nella sua voce.
Jun, mantenendo la calma e montando una discreta faccia da pokerista, gli rispose:
-Tu quando vedi la porta non ragioni più. Dovresti dedicarti ad affinare il tuo stile, invece di andare in giro a seminare il terrore per il campo falciando chiunque intralci la tua avanzata.
-Balle! È proprio quello il mio stile, e non lo cambierò di una virgola. E comunque, che c'entra adesso questo discorso?
-Niente. Fa' come ti pare.
-Ovviamente.
-Bene.
Seguì una pausa di silenzio teso, durante la quale Jun continuò a tenere gli occhi incollati al libro, ostentando una neutralità degna di una colonna di basalto, e Kojirō si lambiccò il cervello, chiedendosi di quale tremenda colpa potesse mai essersi macchiato. Scrollò le spalle, non riuscendo a darsi una risposta, e sbottò:
-Senti un po', ma ce l'hai con me? Che ti ho fatto?
-...Già, dimenticavo che per te gambizzare la gente è all'ordine del giorno.
Ah, dunque era per quello che se lo ritrovava incazzoso come una biscia. Per quell'
innocente, piccolo, insignificante fallo che gli aveva fatto agli allenamenti della mattina, e a cui, sinceramente, non aveva badato più di tanto.
In effetti, ricordò, Jun si era rotolato in terra per un po' contorcendosi dal dolore, ma lui, dopo aver segnato, era andato subito a vedere come stava. Mica se ne era fregato, nossignore!
-Ecchecavolo Misugi, te la sei presa per questo? Non l'ho fatto apposta!
Jun lo guardò insofferente, le fattezze distorte nell'espressione più scettica che mai volto umano avesse conosciuto.
Comprensibile. La sua fama di caterpillar arrivava prima di lui, figurarsi se poteva spacciarlo per un atto non premeditato. Dubbi comunque non ce n'erano, aveva centrato il punto, per lui cose simili costituivano la normalità e assai di rado provava rimorso per il suo modo di porsi in campo.
In fin dei conti gli bastava che andassero giù, poco gli importava del
come e del chi.
Consapevole di averla sparata grossa, sbuffò e si grattò la fronte, bofonchiando:
-Sei proprio un rompipalle. Sempre detto, io.
-Ora che ti sei espresso, posso continuare a studiare? Mi stai distraendo.
Calò nuovamente la cortina di gelo, rotta qualche secondo dopo dall'esclamazione grondante stizza del numero nove, ben lungi dall'arrendersi. Anche a costo di fare promesse che non avrebbe potuto mantenere.
-E va bene Principe degli Stracciacazzi, tirami pure un pugno in faccia se ti può far sentire meglio.
Jun non si voltò nemmeno a guardarlo e continuò a fare il sostenuto monosillabico, limitandosi a soffiare fra i denti un sarcastico -Non ne vedo la ragione.
-Non prendermi per il culo. Ti autorizzo a sfogarti su di me, basta che la pianti di tenermi su quel muso. Fossi in te non perderei questa occasione.
L'altro si girò di tre quarti e gli lanciò un'occhiata di sufficienza misurata, replicando:
-Sacrificio ammirevole, ma io a differenza tua non sono pro-violenza. Quindi sfolla, grazie.
Neanche il tempo di finire la frase che il montante di Kojirō gli si parcheggiò sullo zigomo, senza tante cerimonie.
Jun lo guardò allibito e, massaggiandosi la parte colpita, sibilò:
-Cerchi rogne, Hyūga?
Kojirō gli piantò addosso uno sguardo beffardo e sghignazzò con la sua collaudata faccia da schiaffi, modello “alto-potere-caustico-perfettamente-detestabile”.
-Avanti Misugi, fammi vedere se sai usare anche le mani, oltre ai piedi.
Jun abbozzò un sorriso angelico e si appropriò del colletto della sua maglia, traendolo a sé.
Si aspettava che pure lui approntasse le sue nocche, perché con “
usare le mani” non intendeva propriamente quello, ma...oh, beh. Benvenisse. No, aspe'...altro che angelico, a ben guardare era uno dei suoi sorrisi tagliola, e di solito non promettevano niente di buono.
Ma tanto lui se ne accorgeva sempre troppo tardi, cazzo: ebbe appena il tempo di formulare vagamente quel pensiero che il compagno dischiuse le sue labbra carezzandole con la lingua e, lentamente, si insinuò al loro interno, mentre le mani gli si posavano sui fianchi e lo agganciavano per la cintura dei pantaloni.
Che l'aver rimediato uno sganassone in faccia avesse fatto accendere in Jun la scintilla della passione suonava piuttosto paradossale, almeno secondo quanto gli stava lagnosamente sussurrando la fastidiosa vocina – che per altro smise di ascoltare quasi subito - sepolta in un angolo remoto del suo cervello. Per lunghi, interminabili secondi si beò di quel contatto e dell'idea che quell'assurda cazziata potesse essere finalmente giunta al termine, anche perché
l'amico ai piani bassi stava iniziando a pulsargli quasi dolorosamente, azzerando ogni qualsivoglia connessione neurale. Ingenuamente fuorviato dal suo viso serafico e da quelle movenze tutt'altro che ostili, non si accorse del potente calcio che stava caricando fintanto che non si ritrovò un gentil piede posteggiato in un punto imprecisato fra sterno e stomaco; temporaneamente afono e senza fiato, sudò freddo al pensiero che, se avesse mirato appena un po' più in basso, probabilmente gli avrebbe cambiato il registro vocale.
-No, mi spiace. Sono i piedi la mia specialità.
-In questo allora sono migliore di te, io so usare benissimo entrambi- Rantolò lui non appena ebbe recuperato l'uso della parola, scagliandoglisi addosso un millisecondo dopo per contraccambiargli la cortesia, e affanculo il fatto che gli avesse concesso di accanirsi su di lui. Mica era abituato a prenderle senza reagire, non poteva farci niente se l'istinto aveva prevalso.
Fu così che si innescò una serrata baruffa con crismi e sacrismi, che vide volare gragnuole di ganci e ginocchiate a tutto spiano: si menarono come mai avevano fatto prima di allora.
Esaurite le energie e i colpi più o meno segreti, i due si gettarono esausti e doloranti sul pavimento, lasciandosi andare a qualche caratteristico commento virile post-scazzottata.
-Non ci vai tanto per il sottile, eh...
-Nemmeno tu, Misugi. Hai la pellaccia dura, altro che malato di cuore...fortuna che non eri pro-violenza.
Dopo aver lanciato un fragoroso starnuto, Jun - che fino a quel momento aveva usufruito di una sua spalla come cuscino improvvisato - si tirò faticosamente a sedere, agguantò il telecomando del condizionatore, abbandonato lì poco distante, e spense l'apparecchio, dato che ormai nella stanza - grazie all'operato di qualcuno - si sfioravano temperature da inverno siberiano inoltrato. Fuori era in corso un pacato acquazzone estivo, di quelli in cui la pioggia, dalla calura, rischiava di vaporizzarsi ancor prima di toccare terra; l'umidità aveva raggiunto livelli inumani ma, in compenso, soffiava una delicata brezza rinfrescante che Jun lasciò entrare spalancando la finestra, dopo aver fatto l'ulteriore sforzo di alzarsi in piedi. Posò lo sguardo su Kojirō semi-assopito, buttato in terra a gambe e braccia larghe, e sghignazzò associando la sua posizione scomposta al cadavere di qualcuno che si era appena spalmato al suolo dopo la caduta da un palazzo. Gli mancava soltanto la sagoma tracciata con il gesso.

Nella stanza non si udiva nient'altro che il delizioso tintinnare del fūrin appeso alla veranda, finchè il padrone di casa sospirò melodrammatico:
-E pensare che ero convinto che non avresti mai alzato un dito su di me.
Si sfilò la maglietta per prendere aria dopo la sudata della colluttazione, rimanendo gloriosamente mezzo nudo – tanto quell'altro poteva essere ancora allupato quanto voleva, ma era sfatto al punto giusto per desistere dal tentare un'incursione, almeno per il momento. Poi, con cautela, tornò a sdraiarsi a pancia in su sul parquet, lasciandosi sfuggire un impercettibile lamento quando la scapola presa a morsi da Kojir
ō entrò in contatto con la superficie. Sfiorò le proprie nocche violacee, accompagnando il gesto a una smorfia di dolore, e si massaggiò la guancia dove troneggiava un signor livido canvas size.
-E cosa te lo faceva credere? Io non guardo in faccia a nessuno, quando mi girano. Dovresti conoscermi, ormai.
Mentiva, e lo sapevano tutti e due.
-Naturalmente...e comunque, sotto sotto lo apprezzo.
-Cosa?
-Che tu abbia fatto a pugni con me.
Le dita di Kojirō, sovrappensiero, avevano preso a sfiorargli il petto percorrendo la lunga cicatrice biancastra e leggermente rialzata, dove ancora erano ben visibili i punti nei quali ago e filo erano entrati e usciti e di nuovo entrati e usciti. Nelle zone direttamente circostanti la pelle aveva assunto una tonalità vagamente più scura, quasi che lo sfregio cercasse ancora di mangiarsi altro spazio per crescere e crescere.
Perso nelle sue congetture, ci mise un po' a rispondere, senza per altro essere sicuro che fosse una risposta intelligente.
-Bè, certo, è un grande onore, ma...
-Non mi hai trattato con i guanti, come fai sempre. E mi ha fatto piacere.
-Non mi ero mai accorto che fossi masochista. Ne terrò conto per le prossime scopate.
-Coglione. Sai benissimo a cosa mi riferisco. E comunque sì, se sto con te non mi devo volere un gran bene, alla fine.
-Ma taci. E la risposta è no, che ne so. Mica leggo nel pensiero, io.
Invece aveva capito perfettamente, era proprio a quello che mirava.
Aveva capito che Misugi era stufo di essere sempre trattato con mille riguardi da tutti, anche adesso che poteva dire di essersi ristabilito quasi completamente. Tendeva a farlo anche lui il più delle volte, ma da quando si era accorto del suo disagio aveva deciso di trattarlo con più spontaneità, di modo che la smettesse di sentirsi semi-imprigionato sotto a una campana di vetro. Ed era risaputo che per lui essere spontaneo implicasse anche dare libero sfogo ad un'indole non esattamente apostolica.
-Comunque, grazie.
-Lieto di averti deturpato quel bel faccino, il piacere è stato tutto mio. Ah, per la cronaca, sei il primo che mi ringrazia dopo un pestaggio.
Si scrutarono guardinghi per un po' e Kojirō, carezzandosi la mascella dove poco prima gli era planata un'adorabile gomitata, esclamò:
-C'è qualcosa che non mi torna...
Jun lo guardò interrogativo.
-Se sentivi tanto il desiderio di essere trattato come una persona normale e di provare l'ebbrezza mistica della scazzottata, come mai te la sei presa così per un semplice fallo? Mi sono comportato con te esattamente come mi comporterei con chiunque altro.
-Mh, non è per il fallo in sé – riflettè, percependo quell'innata competitività riaffacciarsi all'istante - Mi secca essere interrotto, e tu hai stroncato la mia elegante progressione con un intervento alquanto rozzo. Odio quando mi faccio fregare la palla così, specialmente da
te.
Pose particolare enfasi sull'ultima sillaba, e Kojirō gnignò nel vedere quanto sincera e lievemente biliosa fosse la sua dichiarazione. Probabilmente, ce l'aveva più con sé stesso che con lui.
-Oh, caro. Scusami tanto se non sono rimasto incantato come un beota a contemplare la tua avanzata eterea ma sai, io sono un attaccante, e in quanto tale, attacco.
E così dicendo avvicinò il viso al suo e fece per baciarlo, ma Jun fu lesto a contrapporre fra loro il libro dalla pesantezza inaudita che stava studiando, raccattandolo fulmineamente da non si sa dove.
-Attaccati un po' a questo, bello. Io devo finire il capitolo.
Con un gesto secco Kojirō lo afferrò e lo buttò all'aria, minacciando di fare un falò con tutti i suoi dannati testi, prima o poi.
Jun ridacchiò, con quel sorriso micidialmente sexy che era come una sciabolata per il suo raziocinio.
Che, a proposito, forse aveva deciso di entrare definitivamente in sciopero, dato l'inquietante pensiero che aveva sorpreso ad attraversargli lo scampolo di cervello residuo e che si era affrettato a rimuovere dall'hard disk, onde evitare di sputarsi in faccia da solo.
Qualcosa che alludeva al fatto che non gli sarebbe dispiaciuto restarsene lì ancora un bel po', più precisamente per un lasso di tempo compreso fra l'eternità e il per sempre, se non era chiedere troppo.





NOTE CONCLUSIVE

Oh, My. Rileggendola, ho appena preso coscienza di non essere nient'altro che una patetica fangirl con la sindrome dei finali smielosi. Qualcuno mi tiri un cartone di succo di frutta – o di Tavernello, a seconda delle disponibilità – in formato famiglia sulla fronte, se questo non è un fottuto e melenso happy-ending. Prendete bene la mira e tirate, non siate timidi...sia mai che rinsavisca xD
Ho i conati che si irradiano fino alle rotule, ma tant'è.
Lasciatemi vivere il mio piccolo dramma interiore, e perdonatemi U_U

P.S. Il titolo, come sempre disastroso e banale, significa “la stanza del vento estivo”.
Mentre, per avere delucidazioni sui fūrin - di cui sono per altro orgogliosa proprietaria - cliccate QUI, e ditemi se non sono splendidi.
Infine, un bacio a schiocco in fronte a Nene e Rel, che si sono prese stoicamente la briga di leggerla in anteprima. Grassie, ragazze ;__;


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Capitolo 3
*** [Winter] • Kikoku ~ Dove c'è un kotatsu, c'è casa. ***


Vabbè, mo' ci dò a mucchio, non posso farci più niente ora che il mononeurone mi ha chiuso per ferie. *Alza lo sguardo e si accorge del pubblico* Oh? Ah!! Ahem *tossicchia imbarazzata* Salve! *parte la logorrea* Invoco la vostra grazia ultraterrena per perdonare questa mia storia, frutto di uno sclero a base di ettolitri di Estathè ghiacciato, il mio rimedio prediletto – beh, oltre all'aria condizionata e al nudismo in domus mea, chiaro - per resistere alla calura estiva. So benissimo che cronologicamente parlando, dopo la primavera e l'estate, avrebbe più senso che al posto dell'inverno ci fosse l'autunno, ma non posso avere l'ispirazione a comando xD Perciò, in attesa della sua venuta, sollazzatevi (si fa per dire) con questa terza shot semplice, prevedibile e pure - ebbene sì, almeno per i miei standard - tragicamente dolciastra. Sigh.



♦ Kikoku ♦

帰国

~Dove c'è un kotatsu, c'è casa.

 

♪♫Don't worry...be happy, now! Uh-uh-uh-uuuh-uuuh...♪♫
No, perdio, questo no. Spense con un gesto secco la radio da cui risuonava quella musica irritante e, sospirando, staccò per un momento le mani sudaticce dal volante per asciugarsele sui pantaloni. Non che facesse caldo, dato che all'esterno si toccavano appena i tre gradi sopra lo zero e l'atmosfera festosa tutt'intorno a lui preannunciava l'arrivo imminente del Natale.
Era da oltre un anno che non guidava nel senso di marcia giapponese, e iniziava lievemente ad innervosirsi: poc'anzi, ad un dare precedenza, era rimasto convinto fino all'ultimo che fosse un suo sacrosanto diritto il poter passare per primo, ed aveva ignorato la freccia sinistra lampeggiante della Subaru bianca di fronte a sé, reale detentrice del privilegio.
“Ma che cazzo fa, mi taglia la strada?” Aveva pensato stizzito nel notare che la suddetta Subaru non accennava a fermarsi, anzi, aveva pure osato approntare il clacson per sottolineare il suo passaggio, cosa che gli era valsa un paio di coloriti epiteti. Era riuscito ad evitare lo scontro soltanto grazie ad un'inchiodata da manuale e aveva già la mano sulla maniglia della portiera, pronto a scendere per far valere le proprie ragioni, quando improvvisamente aveva afferrato che era lui ad essere nel torto.

E adesso, questo. Si chiese se non fosse colpa del maledetto jet-lag, che lo aveva lasciato stordito per tutte le ventiquattro ore precedenti, inducendolo in uno stato di sonno pesante (o coma leggero, a piacere) intervallato esclusivamente da uno svogliato e caracollante pellegrinaggio in cucina alle dieci di sera per – secondo lui – fare colazione.
Non ricordava che uscire da un parcheggio potesse essere tanto complicato, ma il fatto era che non aveva ancora dimenticato la manualità acquisita nell'utilizzare una macchina col volante posto a sinistra. Esattamente il contrario rispetto a dove era attualmente collocato nella sua Toyota Corolla.
Lo impugnò come avrebbe fatto col timone di un transatlantico e inserì la retromarcia, sbirciando per l'ennesima volta nello specchietto alla ricerca di un'ulteriore conferma della situazione alle sue spalle. Infine, pigiò sull'acceleratore con cautela e iniziò in contemporanea a girare il volante a destra per ruotare l'asse.
No, un attimo, così sarebbe andato contromano. Doveva girarlo a sinistra per poter confluire agevolmente nella circolazione.
Con la coda dell'occhio vide che il flusso di auto sulla strada in cui doveva immettersi aveva ripreso, complice il semaforo verde, e - distratto da questa constatazione e dal fatto che dovesse sbrigarsi ad invertire il suo senso di uscita - non usò la calma necessaria. D'altra parte, lui e la calma non erano mai stati intimi amici.
Nel tentativo di evitare una collisione laterale con il mezzo posteggiato a fianco del suo, sterzò piuttosto bruscamente dalla parte opposta: peccato che, avendo preso male le misure, ormai fosse troppo tardi per qualsivoglia manovra repentina.
Sbadabrang.
Ecco.
Ma cazzo.
Era appena tornato nel suo paese e praticamente la prima cosa che faceva era cioccare un'inerme macchina parcheggiata? E va bene che la guida in Italia era al contrario, ma non credeva di poter avere tutte quelle difficoltà nel riprendere le vecchie abitudini. Guidare non doveva essere come andare in bicicletta, che una volta imparato non lo si scorda più?
Lo sapeva, avrebbe fatto meglio a prendere la metro. Che gli era venuto in mente di motorizzarsi, sfasato com'era? In fin dei conti nulla era cambiato: spostarsi in auto a Tōkyō equivaleva sempre ad un suicidio.
Scomodando con veemenza una buona metà dei santi in paradiso, raddrizzò rabbiosamente la Corolla e scese sbattendo la portiera. Il parafango posteriore destro della Nissan Skyline GT-R34 blu metallizzato faceva sfoggio di un'insigne ammaccatura, che ne sfigurava decisamente la linea impeccabile: ci mancava solo quella, probabilmente era l'auto di un qualche riccone snob appassionato di vetture sportive. La sua Toyota, invece, ne era uscita quasi illesa a parte il fanale anteriore sinistro, i cui resti giacevano sull'asfalto.
Ringhiando a denti stretti l'ennesima serie di improperi – per cui aveva una discreta fantasia nonché un innato talento - rientrò nell'abitacolo e raggiunse il cruscotto, in cerca di un pezzo di carta e di una penna: raccattò un vecchio volantino sul cui retro era possibile scrivere, ma non la penna.
Dominato da uno scazzo di proporzioni ormai drammatiche, stava considerando seriamente l'ipotesi di scrivere il biglietto col sangue pur di andarsene da lì, quando, finalmente, rintracciò una biro finita a terra sotto il tappetino nel posto del passeggero. Con una calligrafia più gallinacea del solito scribacchiò il proprio cognome e il numero di cellulare - un prepagato acquistato poche ore prima -, poi sistemò il messaggio infilandolo fra il tergicristallo e il parabrezza dell'auto incidentata.
Stava per risalire sulla propria quando gli venne da starnutire e si portò istintivamente una mano alla guancia, dove aveva appena sentito depositarsi qualcosa di freddo e bagnato. Alzò lo sguardo al cielo plumbeo, mentre iniziavano a scendere le prime gocce di una pioggia gelida che, con tutta probabilità, si sarebbe presto tramutata in neve.
Proprio un rientro rutilante, non c'era che dire. Bentornato in Giappone.

E ti pareva.
Figurarsi se bastava il freddo pungente, c'era davvero bisogno che pure il diluvio universale venisse a dar manforte a quella giornata partita già abbondantemente col piede sbagliato.
Intenzionato a risparmiarsi una doccia all'aperto il ventidue di Dicembre, raggiunse di corsa la Nissan Skyline e armeggiò qualche secondo con il contenuto delle sue tasche, finché non ripescò le chiavi. Stava per inserirle nella serratura, ma notò un biglietto francobollato al parabrezza: sollevò il tergicristallo e lo afferrò, convinto che si trattasse di pubblicità e pertanto già pronto ad appallottolarlo e gettarlo via. Però...che c'era scritto? Un nome e un numero di telefono?
Ebbe un pessimo presentimento. Dubitava fortemente che potesse trattarsi del tentativo di adescamento messo in atto da qualche fan e, per fugare ogni dubbio, fece velocemente un giro intorno alla macchina.
Eccola. L'ammaccatura era lì, in tutto il suo splendore.
Sbuffò contrariato, esaminando il danno. Niente di irreparabile, tanto più che avrebbe pagato l'assicurazione, ma suo padre sarebbe andato su tutte le furie ugualmente. Era mai possibile che dovesse succedere una cosa simile l'unica volta che prendeva la sua auto preferita senza avvertirlo? Non aveva ritenuto necessario farlo, aveva fretta di sbrigare alcune commissioni noiose oltre ogni dire e poi non l'aveva nemmeno trovato in casa, visto che, come al solito, non ci avrebbe rimesso piede almeno fino a sera inoltrata.
Si consolò pensando che non tutto il male veniva per nuocere. In definitiva gli era andata bene, aveva incontrato una persona onesta che gli aveva lasciato gli estremi.
Concluse che fosse inutile stare ad angustiarsi lì dov'era, meglio farlo in un posto più confortevole: malgrado inizialmente avesse pianificato di evitare la doccia, ormai era quasi completamente fradicio, per cui con un sospiro si decise ad entrare nell'abitacolo.
Una volta dentro si passò una mano fra i capelli, per domare le ciocche ribelli e gocciolanti che gli si attaccavano dispettosamente alla fronte, e si rigirò il biglietto zuppo d'acqua fra le dita, facendo attenzione a non strapparlo. Notò che era scritto su un brandello di carta proveniente dal retro di un volantino che pubblicizzava i piatti di un Izakaya①, ne era visibile anche il nome: Taito, situato nella zona di Roppongi. Ma quel locale non aveva chiuso più di sei mesi fa?
Scosse la testa, chiedendosi perché mai dovesse preoccuparsi di far caso a dettagli così insignificanti, e passò a decifrare il nome, armandosi di pazienza. Aggrottò le sopracciglia, concentrato, mentre tentava di identificare i kanji scarabocchiati da quel guidatore della Domenica che, oltre ad essere un conducente dalle abilità discutibili, pareva avere anche una pessima grafia. Naturalmente l'inchiostro sbavato dalla pioggia non aiutava nella comprensione, ma...sembrava proprio chiamarsi Hy...ūga, sì. Che coincidenza. Comunque non poteva essere lui, in primis perché a quell'ora avrebbe dovuto trovarsi a diecimila chilometri di distanza, e poi perché il numero di cellulare, da quel poco che si capiva, non era il suo.

Se lo ricordava ancora chiaramente, nonostante non l'avesse più composto da quando aveva lasciato il paese. Kojirō aveva cambiato numero e si era comprato un nuovo cellulare per essere reperibile in Italia, ma alla fine lo usava di rado per chiamare nella madrepatria, a causa delle tariffe proibitive: ciononostante, era quasi sempre lui a farsi sentire da dove gli capitava, per esempio da una cabina dei giardini pubblici o dal telefono di un bar, con cadenza assolutamente irregolare e incurante del fuso orario. Sovente il suo apparecchio squillava nel cuore della notte, e non poteva neppure ovviare al problema spegnendolo prima di andare a dormire, altrimenti quello avrebbe ripiegato contattandolo sul fisso, svegliando così anche i suoi.
-Non ho sempre il tempo per stare a far telefonate, io – Aveva puntualizzato, con fare alquanto detestabile, la prima volta che gli aveva chiesto di prestare più attenzione alla differenza di fuso – e poi mica dobbiamo raccontarci la storia delle nostre vite. E' giusto per sapere se sei ancora vivo. -
Ottima argomentazione, difatti le loro conversazioni solevano durare un tempo compreso fra i tre e i cinque minuti. Nessuno dei due era affetto dal temibile morbo della Parlantina Feroce e Inarrestabile, grazie al cielo.

Il primo della trafila di starnuti che lo avrebbe colto di lì a poco gli lasciò sottilmente intendere che fosse giunta l'ora di rimettersi in moto verso casa, sospendendo lo sdoganamento di flashback, a meno che non intendesse buscarsi un raffreddore. Mentre ripiegava il biglietto e se lo infilava in tasca, pensò distrattamente a quanto facesse freddo e poi, benché avesse decretato da tempo la completa inutilità dell'arrovellarsi sulla questione, riprese a rimuginare su Kojirō e sul suo modo di eclissarsi elegantemente per giorni interi. Certo, non che gli desse mai la soddisfazione di cercarlo, sia chiaro. Oltretutto l'esiliato non amava particolarmente connettersi ad Internet②, e ciò era un ottimo deterrente per l'uso del computer, che gli avrebbe permesso di sentirsi un po' più spesso.
Eppure, circa una settimana prima, aveva ricevuto una sua mail. Stringata e scritta per metà in italiano, affascinante idioma di cui lui però non spiccicava mezza sillaba: arguendo che non potessero essere cose importanti non gliene aveva chiesto la traduzione, accontentandosi delle scarne informazioni fornitegli in giapponese, per altro piuttosto futili.
Da lì in poi la situazione si era fatta stagnante, perché non ne aveva più avuto notizie. Come da copione, non si era ancora degnato di fargli sapere quando – e se, dato che non si poteva mai dare niente per scontato trattandosi di lui – sarebbe ritornato in Giappone per il break natalizio. Avrebbe voluto chiamare per domandarglielo, ma immaginava che fosse occupato e l'ultima cosa che voleva era disturbarlo.
O meglio, l'ultima cosa che voleva era incominciare a dare evidenti segni di impazienza, facendogli capire anche soltanto vagamente quanto non vedesse l'ora di rivederlo.

Non appena si richiuse la porta alle spalle, Kojirō si rese conto di essere stanchissimo, e non solo per via degli strascichi del famigerato jet-lag o per le seccanti faccende che aveva dovuto sbrigare quel pomeriggio. Doveva essere l'adrenalina che veniva avidamente riassorbita dopo gli svariati contorcimenti di stomaco dovuti alle frecce notate all'ultimo, alle marce grattate con rabbia, ai semafori ansioliticamente sempre troppo lunghi e agli incroci nefasti forieri di tensioni e imprecazioni.
Tutto questo stress per un innocuo giretto in auto di neanche mezz'ora?
Sì, innocuo un par di palle, si disse. Per fortuna non era durato di più, altrimenti chissà cos'altro sarebbe potuto succedere.
Gettò con noncuranza la giacca sull'appendiabiti in corridoio, alzò il termostato di un paio di gradi e si lasciò cadere sul divano, a mo' di bracciante agricolo che si riposa dopo diciotto ore filate di lavoro pesante, intenzionato a sprofondare nel sonno a suon di zapping selvaggio. I suoi fratellini erano al doposcuola e sua madre doveva essere uscita a fare la spesa, quindi per una volta poteva godersi in santa pace l'ambito monopolio del telecomando. Non si sentiva un granché in forma e poltrire ancora un poco gli avrebbe sicuramente giovato, anche perché in fin dei conti non aveva impegni improrogabili per quelle feste.
A parte uno. E non era nemmeno una cosa urgente, dopotutto era appena tornato e di tempo ne avrebbero avuto. Prima di mettersi in contatto con lui stabilì che fosse il caso di di riprendersi un po', e si acclimatò meglio, diventando una specie di tutt'uno col sofà.
Si sarebbe volentieri venduto un rene piuttosto che ammetterlo, ma c'erano stati dei picchi in quell'anno trascorso all'estero in cui si era sentito solo come un dente caduto. I suoi nuovi compagni di squadra si erano rivelati essere veramente odiosi, almeno all'inizio, perché non aveva certo tardato a fargli notare che non aveva scritto “Gioconda” in fronte o “Welcome” sul didietro.
Dei primi tempi ricordava in maniera vivida la sgradevole impressione di avere un bersaglio tatuato sul collo: chi si sarebbe conquistato cinquanta punti con un bel centro perfetto? Ghignò fra sé e sé. L'impatto col calcio professionistico era stato ostico, eccome, ma in un certo senso gli era servito, si era fortificato più di quanto non lo fosse già.
E NO, quella cosa non era affatto urgente, si ripeté muovendosi inquieto contro lo schienale. Fissò per qualche minuto lo schermo, gracchiante amenità pubblicitarie, con gli occhi vacui e la mente completamente altrove.
Senza che ci facesse caso, il suo sguardo inebetito si posò sull'orologio appeso alla parete di fronte. Le cinque e mezza.
Chissà cosa stava facendo. Se l'avesse chiamato adesso, dicendogli che si trovava già in Giappone, sicuramente gli avrebbe fatto una bella sorpresa.
Macché, rifletté scuotendo la testa, gli sarebbe venuto un colpo, altro che effetto sorpresa.
Neanche il tempo di finire di formulare il pensiero che aveva già raggiunto il cordless nell'ingresso e composto il numero, dopo essere balzato su dal divano come spinto da una molla invisibile.

Quando Jun aveva letto il nome sul display, gli era quasi scappato il ricevitore di mano.
Era tornato da poco, ma ci aveva messo meno di un minuto a sbarazzarsi della fastidiosa presenza degli abiti umidi e appicicaticci, che parevano esserglisi incollati alla pelle serica. Constatò con una smorfia che i suoi capelli emanavano una velata fragranza di Cane Bagnato N.5, e gongolò all'idea di concedersi un profumato e bollente bagno ristoratore “caratterizzato dall'esotico sentore di Vetiver, che assicura alla toilette maschile una freschezza intensa e dinamizzante i cui benefici persistono a lungo” -, come recitava soave l'etichetta del flacone③. Confidando in questa promessa ne versò un consistente quantitativo nell'acqua, dalla cui superficie iniziò a lievitare una schiuma voluttuosamente soffice dall'aroma avvolgente.
Ottimo, i presupposti per riuscire a distendersi c'erano tutti. Si ostinava a prenderla con divina imperturbabilità, ma si stava rivelando essere assai snervante avere come sovrano incontrastato dei propri pensieri una certa persona attualmente lontana. Avvertiva il bisogno impellente di distogliere l'attenzione, fosse anche per un unico quarto d'ora di illusoria serenità.
Aveva già un piede nella vasca quando udì il telefono trillare e, manco a dirlo, in casa non c'era nessuno che potesse rispondere al posto suo.
Rivolgendo un silenzioso anatema al meraviglioso tempismo di certa gente, si legò un asciugamano in vita e percorse rapido l'interminabile corridoio per raggiungere il cordless, rassegnato a rimandare di qualche istante i propri propositi rilassanti.
Di certo non si aspettava che potesse essere proprio lui, che per giunta lo chiamava ad un orario umanamente accettabile.
Non solo. Da casa.
Resosi conto della cosa, aveva esitato un paio di squilli più del necessario per ripigliarsi e darsi il tempo di calmare il batticuore.
Quel deficiente era già rimpatriato.
Difatti, lo accolse la sua voce tracimante di boria, probabilmente convinto di aver organizzato la sorpresa del secolo.
-Indovina dove sono.
-A casa tua. Lo vedo dal numero, genio.

Di fronte a quella replica pacata e laconica, Kojirō si espresse con un grugnito pregno di significati intrinsechi. Tipico. Sarebbe dovuto arrivarci subito, accidenti a lui e alla sua improvvisa e insensata fretta. Si morse un labbro, rendendosi conto che non aveva affatto pensato a cosa dirgli, sempre per la ragione di cui sopra. Fortunatamente, dopo quella battuta d'arresto, fu l'altro a rompere il momentaneo silenzio che si era creato.
-Bentornato.
Non era stato esattamente un bentornato, anzi. Non gli era successo niente di buono da quando, appena tre ore prima, era uscito dalla catalessi che l'aveva portato a dormire tutta la mattina fino al primo pomeriggio, dopo aver trascorso la notte in bianco giocando alla Playstation, vittima dell'insonnia e con l'opprimente sensazione di avere la testa piena di sabbia per gatti. Ma il tono caldo e morbido con cui pronunciò quell'unica parola gli diede i brividi e gli instillò una dose considerevole di stamina, che spazzò via sia la stanchezza degli ultimi due giorni sia l'indecisione di quell'istante.
Con il cordless in una mano e la giacca già buttata in spalla si infilò le scarpe abbandonate nell'ingresso, esclamando:
-Resta dove sei, vengo da te.
Con studiato pressapochismo, Jun simulò uno sbadiglio e bofonchiò, stiracchiandosi:
-E chi si muove. Sono reduce da un pomeriggio di commissioni tediose oltre i confini dell'umano sentire, non avrei voglia di uscire neanche per vedermi con te. Anzi, men che meno per vedermi con te.
Sì, anche tu mi sei mancato, pensò sarcastico Kojirō prima di rispondergli schioccando la lingua, a metà fra il serio ed il faceto.
-Figuriamoci. Occhio che ti voglio in forma per quando sarò lì, vedi non farti male mentre scendi dal piedistallo. Non so perché, ma ho l'impressione che diventi sempre più alto.

Col cavolo che stavolta avrebbe usato la Corolla, si disse uscendo dalla propria abitazione senza curarsi di prendere un ombrello o di controllare di aver chiuso bene porte e finestre. Un incidente al giorno bastava e avanzava, grazie.
Come da consuetudine invernale, la coltre di buio era già calata, nonostante fossero a malapena le sei di sera. La fioca luce dei lampioni illuminava la strada, brulicante di salary-men sulla via di casa, studenti tiratardi e massaie cariche di borse della spesa. A testa bassa e a passo svelto, con la visiera del berretto calcata sugli occhi – unica protezione che si era concesso contro vento e pioggia -, dribblò agilmente i passanti e raggiunse la stazione della metro più vicina, infilandosi velocemente in quegli anfratti sotterranei non riscaldati.
Rabbrividendo, si sfregò le mani intirizzite. Aveva scordato di riesumare i guanti dalla valigia, e faceva un freschino degno di nota. Certo che l'esimio Signor Gelo si stava impegnando sul serio, quel giorno! Il respiro tiepido si condensava sospeso a mezz'aria, convergendo in una nube evanescente e tessendo tortuose volute prima di disperdersi: la temperatura si era abbassata ulteriormente e doveva essere ormai prossima allo zero, a giudicare anche dalla ex-pioggia trasformatasi in nevischio rarefatto. Niente di nuovo, da un paio di settimane l'intero paese si trovava in balia di una morsa siberiana che faceva fioccare cifre bassissime, peggio che durante i saldi di fine stagione.
Attese qualche minuto l'arrivo del treno e gli parve di rinascere non appena prese posto sul vagone squisitamente climatizzato. Chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal piacevole tran-tran, beandosi del teporino quasi commovente che sprigionava il suo sedile④.
Sì, gli era mancato. I duelli verbali, le frecciatine vicendevoli, la sottile intesa di fondo, il capirsi alle volte semplicemente scambiandosi uno sguardo. Tutte cose che, attraverso un freddo ed impersonale apparecchio telefonico, andavano un po' perse, per non parlare poi del contatto fisico, che gli era mancato in un modo persino doloroso.
Decisamente, l'ascetismo non faceva per lui.

-Cosa mangi in Italia? Sei grasso come un lardino.
Giust'appunto, a proposito di punzecchiatine e compagnia bella. Non che sperasse di venire accolto con un abbraccio vinavilitico o un bacio passionale in stile “Via col Vento”, comunque.
Aveva messo su qualche etto, va bene, di muscoli, per lo più. Lui tutto quel grasso mica lo vedeva.
Gli allungò cappotto e cappello mentre si toglieva le scarpe da ginnastica bagnate, lasciandole alla rinfusa sulla pedana del vestibolo. Gli scoccò un'occhiata al vetriolo e, inarcando un sopracciglio, borbottò:
-Wow, non hai perso il tuo simpatico aplomb, vedo. A parte che non è lardo, fidati che se assaggiassi la vera cucina italiana non ti sorprenderesti.
Jun afferrò le cose che gli porgeva e sorrise sardonico senza aggiungere nulla, veleggiando dalla parte opposta della stanza per sistemarle sull'appendiabiti. Lo osservò sedersi sull'ampio divano della sala con un tonfo – lui sì che aveva fatto del non formalizzarsi un'arte - per poi poggiare comodamente i piedi sopra il basso tavolino da salotto in pregiato legno noce massello, con le sponde sagomate e il vetro smerigliato. Se l'avesse visto sua madre, probabilmente avrebbe avuto un mezzo mancamento.
Lui stesso in un'altra occasione forse l'avrebbe ripreso, se non altro per imprinting: era una reazione quasi automatica, dopo tutte le volte in cui in passato la genitrice gli aveva amabilmente rotto le scatole, intimandogli di fare attenzione a non sgualcire quel dannato tavolinetto dall'inutile funzione puramente decorativa.
Ma lei non c'era. Non c'era nessun altro, se non l'unica persona che realmente gli interessasse.
-Allora, proprio ti faceva schifo avvertirmi per tempo, vero? Scommetto che come minimo sarai arrivato ieri – gli fece con nonchalance, sedendoglisi vicino e accomodando i piedi accanto ai suoi.
Kojirō tossicchiò, biascicando che non faceva alcuna differenza ai fini dello scopo, poi non si trattenne dal lanciare un poderoso starnuto. A dire il vero gliel'aveva preannunciato, in quella famosa mail scritta mezza in italiano. Nella parte in italiano, appunto.
Stava per farglielo presente, pregustando già un po' di sano sfottò da perpetrare ai danni della sua ignoranza verso una lingua di cui lui, invece, masticava qualcosa, quando l'altro propose:
-Senti, accendo il kotatsu, che ne dici? Non ho bisogno di beccarmi anche i tuoi germi, ne ho già abbastanza dei miei. Credo di essermi buscato un mezzo raffreddore, oggi.
Il kotatsu. Una delle gioie della vita. Abbandonò seduta stante l'idea di bullarsi di lui - anzi, aveva smesso di ascoltarlo da quando aveva pronunciato la fatidica parola - e lo guardò con occhi acquosi, mentre gli tornava alla memoria che da oltre un anno non ne vedeva uno. Che nostalgia.
Si accomodarono in un'altra stanza, più piccola e fredda rispetto alla precedente – dotata di un impianto di climatizzazione stellare -, nel cui centro campeggiava l'unico oggetto utile a riscaldarsi in quell'ambiente, ovvero un tavolino basso accerchiato da un paio di morbidi strati di futon. Kojirō non diede il tempo al dispositivo integrato di fare il proprio dovere, ossia di riscaldare la coperta ad hoc, perché vi si infilò sotto a gambe incrociate non appena il padrone di casa lo accese. Fu una specie di ritorno alle origini, completato dallo stravaccamento inconsulto a faccia in giù sul liscio legno lucido e da un languido sospiro melodrammatico. Jun sogghignò e gli si accoccolò di fianco, appoggiando anch'egli una guancia sul tavolo.
Rimasero per un po' a scrutarsi in quella posizione assurda, gli sguardi pieni di una sorta di estatica contemplazione, mentre fuori la neve si era fatta più consistente e la parte inferiore dei loro corpi veniva lentamente avvolta da un clima subtropicale – lasciando, per contro, quella superiore immersa nell'Antartide.
-Lo sai? - Esordì Kojirō ad un certo punto, semi perso in quel tripudio di beatitudine – Sarà anche per poco, ma avevo davvero voglia di tornare. Non tanto per il Natale o quelle altre cazzate lì, quanto perché alla fine non esiste posto migliore di casa propria.
Jun lo ascoltò pontificare senza proferire commenti, limitandosi ad annuire. Era vero. Lui non aveva avuto grandi esperienze di vita all'estero, né le bramava, ma condivideva il suo pensiero. Seguendo un impulso allungò una mano e gliela passò fra i capelli corvini, infrangendo così l'impalpabile vetro infinitesimalmente sottile, ma al contempo fastidiosamente oppressivo, che si era interposto fra di loro. Non si erano neppure sfiorati da quando si erano rivisti, come se persistesse, a livello metafisico, un'inspiegabile distanza e un vago disagio che straniva entrambi. Poco ci era mancato che non si fossero salutati con una virile e nerboruta stretta di mano.
Era da tanto che non provavano quella sensazione, avevano quasi dimenticato che potesse esistere, ma era bastato quel semplice gesto spontaneo per dissolverla come neve al sole.
Fu un attimo, e Jun si ritrovò avvolto da un abbraccio che non ricordava. O meglio, che non ricordava perché in tutto quel tempo si era imposto di non rievocarlo, per salvaguardarsi. Per non soffrire troppo.

Tante volte se l'era detto.
Difficilmente si può dire di conoscere fino in fondo qualcuno.
Quante persone conosceva? Parecchie, senza dubbio.
E quante di loro poteva dire di conoscere appieno?
Poche, pochissime. Forse nessuna.
Certi aspetti della personalità umana sono imperscrutabili, e spesso o sono sconosciuti anche a sé stessi, oppure ci si guarda bene dal rivelarli a qualcuno. Persino chi all'apparenza è più cristallino e candido può nascondere dei lati oscuri inaspettati capaci di spiazzare il prossimo.
Gli era anche capitato, diverse volte, di avere a che fare con gente dalla psiche insondabile.
C'era qualcuno, però, che non gli aveva mai mentito, che si era sempre mostrato per come era realmente, che non aveva mai fatto mistero delle proprie debolezze, affrontandole anzi con una forza degna di un bulldozer.
“Sono fatto così, lasciami in pace. Se non ti sta bene, quella è la porta.”
Così gli aveva detto un giorno, dopo che si era permesso di fargli un appunto su...cos'era? Probabilmente una sciocchezza, non lo ricordava neanche.
Permaloso, poco garbato, testardo.
Ma sincero, sempre e comunque dannatamente sincero.
Lo sentiva. Così come riusciva facilmente ad intuire l'artificiosità di un sorriso o di uno sguardo, allo stesso modo percepiva la sua assoluta sincerità, la genuinità delle sue reazioni e la visceralità delle sue emozioni.
Una persona che non recitava mai, che non indossava maschere, fossero di sopravvivenza, di convenienza o volte al nascondere i cosiddetti “lati oscuri”. Tutti, prima o poi, ne facevano uso, compreso lui stesso, se le circostanze lo imponevano.
E adesso quella persona era lì con lui, dopo tanto tempo. Ne aveva ritrovato le braccia calde e avvolgenti, che lo avvinghiavano stretto, forte come mai avevano fatto.

Jun sapeva di pulito, di bagno appena fatto, era la piacevolezza impersonificata.
Lui, forse, dopo la tensione del pomeriggio in auto e la corsa per arrivare lì, un po' meno.
E comunque non importava un granché a nessuno dei due, in quel frangente.
Aspirò il suo profumo, lasciando che gli riempisse le narici, prima di cedere ad un bacio che non aveva proprio niente da invidiare alla sopracitata saga di “Via col Vento”.
Passò dalle labbra al collo, impossessandosene con un impeto ferino, senza risparmiarsi un morso o due. Dal modo in cui l'altro gli respirava sulla spalla, come se fosse stata l'unica riserva di ossigeno in tutta la stanza, capì quanto avessero bisogno di quel tipo di contatto. Se ne erano privati fin troppo a lungo, non era più il caso di rimandare. Gli era perfino venuto caldo, complici i trenta gradi e rotti che sprigionava il kotatsu.
Aveva sperato che quello potesse essere il suo ultimo pensiero razionale prima di indurre la propria coscienza a disertare, quando lo udì mormorare, col volto sprofondato nella sua clavicola: -Senti...senti. Fermiamoci un attimo.-
Mh? Kojirō sollevò la testa e lo guardò allucinato, il viso atteggiato in un'espressione alla “Questa è bella, ma se non abbiamo neanche iniziato!”
Un paio di risoluti occhi color Novembre si piantarono nei suoi.
-Mio padre non ci sarà fino a stasera, ma mia madre non ho la più pallida idea di dove sia. Potrebbe rincasare in qualsiasi momento.
Kojirō, recalcitrante ad immedesimarsi nel ruolo del chierichetto proprio adesso che gli si erano risvegliati certi salubri istinti, abbaiò in risposta che allora avrebbe anche potuto metterci ore, per quello che ne sapeva lui.
-Quando torna smetteremo. Non c'è da preoccuparsi.
Jun, conoscendolo, sapeva che quello “smettere” non sarebbe stato così facile come voleva dargli a bere, quindi decise di porre subito fine alle effusioni. Era troppo poco sicuro lasciarsi andare alle passioni ancestrali in casa sua, non in quel giorno in cui sua madre, non essendo fuori per lavoro ma per chissà cosa, costituiva una minaccia incombente.

Difficilmente il sesto senso del Principe sbagliava un colpo: come volevasi dimostrare, la signora Misugi, che si scoprì essere uscita per recarsi dalla suocera, rincasò di lì a poco.
Era un donna minuta, bella e raffinata che, come tutte le orientali, possedeva la mistica peculiarità di saper fluttuare nel tempo, facendosi scivolare gli anni di dosso con una disinvoltura disarmante. O magari, più semplicemente, era scesa a patti col diavolo, perché dimostrava una qualunque età compresa fra i trentacinque e i cinquantacinque anni.
Aveva salutato Kojirō sorridendo con il suo piglio signorile e compassato, e gli aveva posto qualche domanda - di pura cortesia – circa la sua esperienza italiana. Lui aveva risposto altrettanto educatamente, incollandosi un sorriso posticcio in faccia e maledicendola in cuor suo per essere tornata così presto, mentre Jun era rimasto ad osservare il quadretto un po' in disparte, ghignando sotto i baffi. Non sapeva dire bene perché, ma quella scenetta, ai suoi occhi, aveva un che di farsesco.
Fu in quell'istante che si ricordò dell'auto ammaccata di suo padre. Prima di metterne al corrente sua madre, avrebbe fatto bene a contattare quel tipo.
Raggiunse l'appendiabiti e rovistò nelle tasche del cappotto per ripescare il biglietto: si disse che avrebbe potuto chiamare in quel mentre, in fondo non si trattava nient'altro che di mettersi d'accordo per incontrarsi da qualche parte a compilare la procedura di constatazione amichevole.
Compose il numero e si ritirò in una stanza vicino, lasciando Kojirō e sua madre a raccontarsela. Sghignazzò sommessamente ripensando all'occhiata per metà terrorizzata e per metà furibonda con cui lo aveva pugnalato il compagno, alla mercé di quella conversazione forzata dal retrogusto imbarazzante.
Un momento. Era un cellulare, quello che sentiva squillare dal salotto?
Le coincidenze iniziavano ad essere un po' troppe, difatti gli rispose la voce dello stesso Kojirō che aveva lasciato di là poco prima.
-Non ci posso credere. Sei stato tu ad ammaccare la macchina di mio padre.
-Eh?- Fece l'altro, cascando dal pero. Poi anch'egli realizzò, e mugugnò in uno strascico di parole: -Però. Proprio un rientro col botto.
Jun ridacchiò. Quante probabilità esistevano di scontrarsi con l'auto di un conoscente, a Tōkyō? Una su dodici milioni, grosso modo.
E comunque, questo spiegava anche il vecchio volantino di quel locale chiuso da mesi, che il suo intuito gli aveva fatto notare fin da subito come un particolare un po' “anomalo”.
Doveva essere disperso nei meandri della sua auto da tempo immemore, fin da prima che lasciasse il paese.
-Ma che numero è quello scritto sul biglietto?
-Ho preferito far disattivare la vecchia scheda quando sono partito, non sapendo per quanto sarei stato all'estero. Per ora ne ho preso uno prepagato, per questo non ce l'avevi.
Ci pensò su un secondo poi aggiunse: -Ma si può sapere quante macchine avete? Questa mi mancava.
Jun non sapeva se mettersi a ridere per l'assurdità della situazione o se elargirgli affettuosamente qualche stoccatina ironica, poi si ricordò che stavano ancora parlando mediante il cellulare.
Cosa ancor più ridicola, considerato che, per una volta, si trovavano a pochi metri di distanza.
Finalmente.

 


 

APPUNTI FINALI OZIOSI E SALOTTIERI

Oh Gesù, Giuseppe e Maria. Stavolta credo di aver toccato picchi di melensaggine alquanto infamanti per la mia persona, notoriamente cinica e spietata (dehihiohoh.) Forse dovevo rifarmi dopo l'ultima shot, in cui li ho fatti mezzo mollare. Mah. E comunque per me le scene hot sono e saranno sempre una croce da scrivere, per questo le tronco prima che l'atmosfera si scaldi troppo, mwahaha xD
Poi, ho preso una piccola licenza poetica circa la presunta patente di Koji e Jun. Non mi pare che nel manga la cosa venga mai accennata (o magari mi sbaglio, la mia memoria è un colabrodo).
E sì, Jun è una fottuta checca sostenuta.
Dimenticavo, il titolo nipponico è un vocabolo evocativo, che in italiano si può rendere come “ritorno a casa, al paese d'origine”. Non mi soddisfaceva la traduzione, quindi ho pensato di lasciarlo così. A dire il vero non mi soddisfa comunque, ma ormai ho rinunciato a trovarne di migliori U__U
A proposito del sottotitolo credo che non ci sia bisogno di spiegare niente, tutti ricorderanno lo spot della Barilla ^^;
Grazie di cuore per lo stoicismo che mi dimostrate leggendo, e per tutti i commenti ricevuti finora. Sigh, mi commuovete ;__;
In particolare grazie al prezioso betaggio di Kara (ti stronco se ti sento dire ancora che non ci sai xD), che mi ha aiutato a dissipare alcuni dubbi linguistici e svariati incartamenti verbali, perchè l'italiano è un sadico bastardo, a volte. Per quanto tu, dall'alto della tua spocchia di madrelingua, possa pensare di conoscerlo bene, quando meno te l'aspetti ti pone di fronte a dilemmi che ti lasciano impotente e con la faccia così ಠ_ಠ
Grassie infine anche a Rel e a Ken, che hanno diligentemente anteprimizzato. Vi Vi Ti Bi *__*


NOTE

①Per questo vi rimando all'onnipotente Google, io sono troppo pigra. Stesso dicasi anche per la definizione di kotatsu, googlate e avrete ogni risposta xD Comunque, sappiate che quei malefici tavolinetti riscaldati sono la perdizione totale. Punto. 

②Dall'Italia al Giappone le opzioni sono soltanto due: o chiamare direttamente – ma va tenuto presente che pochi telefonini giapponesi funzionano in Europa, e viceversa – , oppure inviare mail da un computer alla casella di posta elettronica immancabilmente associata ad ogni numero nipponico di telefonia mobile, che il destinatario riceverà in tempo reale sul proprio cellulare. Questo perché là non esistono gli sms, dubito che abbiano anche mai solo saputo cosa fossero; anzi, probabilmente sono ancora lì che ridono della nostra arretratezza tecnologica, dato che è dall'avvento degli apparecchi cellulari che comunicano utilizzando le e-mail, senza limiti di caratteri e con l'aggiunta di deliziosi set di iconcine e disegnini inutili – ma kawaiiii – da spedire come allegati.
Certo, dall'Italia uno potrebbe anche inviare le mail tramite la connessione Internet del proprio telefonino, ma spesso (da quel che ne so io SEMPRE) le tariffe sono esorbitanti, quindi alla fine conviene usare solamente il pc.

③Bagnoschiuma “L'Erbolario”. Direttamente dalla toilette di casa mia.

④Che ci crediate oppure no, in Giappone i sedili sono riscaldati. E' paradisiaco sedervicisi dopo aver vagato nel freddo più assoluto e sconfortante.

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