Dimmi il tuo nome

di Vera_Davvero
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Mi sveglio di soprassalto quando un alito di vento gelido mi sfiora la spalla. Sembra quasi una carezza tangibile, anche se non lo è. Apro gli occhi e rizzo immediatamente a sedere.
Quando mi sono addormentata? Non me ne sono nemmeno resa conto. La testa mi gira, non è mai stata così pesante.
Ma dove sono? Mi guardo attorno e sento il sangue gelare nelle vene.
Che posto è questo?
Una spiaggia. Sono coricata in mezzo alla sabbia …
Vedo tutto sfocato, i miei sensi si confondono. Ci metto qualche secondo, qualche momento in cui tutto ondeggia instabile davanti ai miei occhi.
E’ buio. E’ l’unica cosa che capisco immediatamente. E c’è il mare.
Pian piano torno in me. Batto le palpebre un po’ di volte.
Il vento continua a soffiare, sollevando nuvole di sabbia. Devo stare attenta, se mi entra negli occhi è la fine.
Mi alzo in piedi, traballo un po’, ma riesco a stare in equilibrio. E finalmente realizzo dove mi trovo.
Lo scenario è tetro, cupo, illuminato solo dalla luce di una luna color latte, così grande e pallida da fare paura. Colora la spiaggia di un tenue color argento, e dona alle foglie della foresta che confina direttamente con la spiaggia stessa l’aspetto di tante dita scheletriche.
Il mare è scuro ed agitato. La spuma delle onde si deposita sulla sabbia umida e brilla, gelida e salata.
Ma il vento è la cosa più brutta. Freddo, penetrante. Sfiora l’acqua e muove le foglie e la sabbia. Regna incontrastato in questo posto spettrale. Agita i miei capelli in continuazione, ed anche il mio vestito.
Mi sfrego le braccia per scaldarle, e le scopro impregnate di sabbia e salsedine. Ora che ci faccio caso, anche i miei capelli ed il vestito color porpora che indosso sono sporchi di sabbia bagnata.
Perché mi trovo in queste condizioni? Sono confusa, ed ho paura.
Si, ho paura. Chi non ne avrebbe al mio posto? Sono sola, fa freddo, è notte e sono in un posto che non conosco.
Cosa faccio? Che devo fare?
Un tuono esplode sopra la mia testa. Sussulto dallo spavento, e mi scappa un gemito. Dove sono? Perché sono qui?
Perdo il controllo del mio corpo e dopo qualche istante mi rendo conto di non essere più sulla spiaggia. Sto correndo a perdifiato nella foresta.
Rametti sottili come lame di un rasoio mi sfregiano le braccia ed il viso, ma non sento il dolore. Penso solo a correre.
Dal cielo arriva qualche goccia. Ci mancava solo il diluvio …
 L’acqua inizia improvvisamente a scrosciare, violenta. La terra inizia a bagnarsi.
Metto giù male il piede. Scivolo, cadendo rovinosamente nella malta. Mi tiro su, ed alla luce della luna vedo un ombra rossa sul mio gomito. Sangue. L’odore metallico si mescola con quello della pioggia e ritorna ai miei sensi, causandomi una nuova vertigine.
Mi rialzo in piedi, goffamente. Mi guardo attorno. Oddio. Non ricordo più da dove sono venuta.
Fermi tutti! Quella è una grotta.
Una grotta! Benissimo, non è esattamente quello che mi aspettavo, ma è un buon inizio. Posso ripararmi la sotto.
La raggiungo e mi accomodo all’asciutto. Mi strizzo i capelli e ci passo in mezzo le dita, per liberarli dalla sabbia che ancora li riempie. Braccia e gambe ormai sono quasi completamente pulite. Il viso anche.
Mi abbraccio le ginocchia ed affondo il viso nel vestito porpora che indosso. Ha una consistenza morbida e mi arriva fino alle caviglie. Un po’ vecchio, ma mi piaceva così tanto quando …
Quando …
 
Apro gli occhi. Ancora una volta sono scivolata nel sonno senza essermene accorta.
Mi stiracchio. Davanti a me c’è sempre la foresta, ma lo scenario è diverso.
La tempesta è passata. Deve essere mattino. Sento alcuni uccelli lanciare il loro grido al giorno che viene. Il mio sguardo si perde nelle mille sfumature di verde della foresta.
Mi alzo, ancora un po’ stordita dal freddo e dalla paura ed esco titubante dal mio rifugio di roccia.
Mi sistemo il vestito. Alcuni laccetti del corpetto sono rotti, altri anneriti, ma per fortuna tutto è rimasto intatto. Meglio, se mi capita di incontrare qualcuno, se qualcuno verrà a salvarmi avrò un aspetto decente.
Muovo qualche passo nella foresta.
Si, qualcuno verrà a salvarmi.
Ogni persona ha qualcuno che tiene a lei, che la cercherebbe quando si perde … come è successo a me.
Verranno, posso stare tranquilla.
I miei piedi affondano nella terra madida. Le scarpette sono ormai ricoperte di fango, ma fa lo stesso. Non ho certo intenzione di togliermele.
Cammino per una decina di minuti. Intanto mi guardo in giro. Il posto è esotico e piacevole. Non è così male. Lo potrei quasi definire affascinante.
Un grido di un uccello mi fa trasalire. Acuto, stridulo, intenso. Proprio sopra la mia testa. Poi un fruscio di ali. Il tempo di vedere una macchia rossa e qualche piuma stagliarsi contro il cielo nuvoloso, ed ecco che il volatile era sparito.
E’ tutto così strano qui. I colori, l’umidità, l’odore della natura.
Mi fermo.
Laggiù! Laggiù fra le fronde! E’ un sentiero!
Si! Un sentiero sterrato, una sottile striscia di terra che deve portare per forza da qualche parte.
Evvai!, esulto. Un colpo di fortuna, finalmente.
Lo raggiungo. Il sentiero si fa strada attraverso il bosco, serpeggiando fra gli alberi e i cespugli. Una volta arrivata in un centro abitato potrò … informare qualcuno della mia presenza. E allora qualcuno verrà a riprendermi, verrà a salvarmi.
Cerco di non pensare, e continuo a camminare. Intanto libero i capelli da rametti e foglie secche. E’ un lavoraccio. Ho i capelli mossi e lunghi, e districarli sembra un impresa.
Cammino per un’oretta buona. Ancora nessuna traccia di un villaggio, di una città. Per quanto ancora dovrò vagare senza meta prima di trovare riparo?
Il tempo pare dilatarsi. Più vado avanti, più sento affievolirsi in me la speranza di arrivare davvero da qualche parte.
E se non trovassi nulla? Se non ci fosse nessuno a cui chiedere aiuto? Se mi trovassi … che so, in un’isola deserta?
Lentamente, come un fuoco che inizia a consumare piano a piano le sterpaglie, e si prepara ad esplodere in un incendio rumoroso e devastante, così sento arrivare il panico. Lo sento ardere dentro di me, e di colpo sento la necessità di correre. Non importa se non ho le forze per farlo, perché non ho mangiato da … da … non importa, anche se sono stanca, dolorante, priva di energia … devo correre, devo scappare, devo …
I miei piedi pestano con violenza il suolo ad ogni falcata. Mi ritrovo ad odiare questo posto, sono confusa, spaventata, terrorizzata dall’assenza di risposte.
Ma poi rallento, mi fermo, tossisco con violenza. Ci metto qualche momento per riprendermi, per far tornare i miei polmoni a gonfiarsi con regolarità, senza far male.
La gola mi brucia come se avessi dentro di essa centinaia di spilli, ma il bruciore passa in secondo piano.
Laggiù, dietro quella curva … poco più avanti di dove mi trovo …
Sono impronte quelle che vedo?

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Sto seguendo le impronte, sentendo finalmente un barlume di speranza  rinascere in me, come un fiore delicato che, dopo la tormenta, inizia timidamente  a dischiudere i petali alla prima luce del sole.

Sono impronte umane, chiare e nitide sulla terriccio umido. Allora c’è qualcuno in questo posto! Non sono sola!

Le impronte mi guidano lungo il sentiero, fino a che non vedo la foresta iniziare a diradarsi, e finalmente lascio gli alberi alle mie spalle.

Davanti a me sta un villaggio.

Qualche decina di case che si affacciano su una strada principale di terra battuta, tutte con porte e finestre sprangate. Da qualche comignolo vedo uscire un rivolo di fumo, simbolo che, più di tutti gli altri, mi indica che sì, c’è vita in questo posto.

Perché, a parte quel segno, non c’è traccia di anima viva. Nessuno cammina per la strada, nessuno si affaccia alle finestre, o spalanca le persiane per fare entrare un po’ di luce. Non si sentono voci, se non il delicato sussurro del vento che soffia, sollevando qualche foglia al suo passaggio. Non ci sono suoni, eccetto quello appena percettibile del mio passo incerto.

Non ho idea di che ore siano, ma ad occhio potrebbe essere mezzodì. Non vedo il sole, oltre la spessa coltre di nubi grigie sopra di me. E’ strano, comunque: mi aspettavo di trovare almeno qualcuno lungo le strade. Invece sono tutti riparati in casa … perché? Temono forse qualcosa?

Avanzo fino a raggiungere la piazza del paese. Un pozzo al centro, con un secchio appeso ad una corda usurata che dondola, scricchiolando, sotto la spinta della gelida aria che si è sollevata.

C’è una taverna, sulla sinistra, ma le porte sono chiuse. Il mio sguardo fa per passare oltre, quando con la coda dell’occhio scorgo un particolare che mi fa gelare il sangue.

La finestra è chiusa, le persiane serrate. Ma nella stanza che sta al di là di essa, c’è una luce. La luce di una candela, suppongo. Illumina la stanza a sufficienza da fare scivolare i suoi raggi attraverso le sue fenditure.

Ma fra la luce e la finestra c’è una sagoma.

La vedo perfettamente disegnata sulla finestra, un’ombra con fattezze umane. Sta lì, immobile, al riparo dai miei occhi, ma non abbastanza da non essere notata. Un’area nera come la pece, circondata dalla luce soffusa della stanza, affacciata alla finestra.

Potrebbe essere un uomo, o una donna. Non saprei dirlo. Ma guarda dritto verso la piazza. Dritto verso di me.

Indietreggio, mentre sento la paura risorgere dentro di me, come una bestia assopita che inizia a svegliarsi.

Ma come mi volto, per fuggire con lo sguardo quella sagoma agghiacciante, e fisso lo sguardo su una vecchia casa di legno che sta sul lato opposto della piazza, resto paralizzata.

Due finestre, in quella casa.

Due sagome che mi fissano, esattamente nello stesso modo di quella della taverna. Una sagoma è sottile e minuta, l’altra più bassa e tarchiata, ma sono ciascuna affacciata ad una finestra sprangata, entrambe rivolte verso di me. Il loro profilo, nero, in netto contrasto con la luce alle loro spalle, è netto e ben delineato, quasi surreale.

Con il cuore che trema nel petto, così come tremano le mie mani, torno sui miei passi, e mi lascio alle spalle la piazza. Percorro la strada principale, con la testa bassa, e lo sguardo rivolto verso i miei piedi, perché so che se dovessi alzarlo e rivolgerlo alle case che si affacciano su questa strada, li vedrei tutti.

Vedrei finalmente tutte le persone che abitano questo posto. Le persone che dovrebbero essere in strada, a fare affari, a intrattenersi chiacchierando con il vicino o a passeggiare lungo il sentiero.

Le vedrei affacciate alle finestre, attraverso le fenditure delle persiane, come sagome nere e spersonalizzate, come ombre che sorvegliano minacciose il loro territorio, che spiano il mio passaggio nel silenzio più totale.

Ma non guardo. Non le voglio vedere. So che ci sono, ma mi limito ad accettare la loro presenza. Non voglio guardare …

 

Un rumore di passi alle mie spalle.

Non faccio in tempo a voltarmi.

Una mano mi affetta il polso. Una figura alta ed imponente mi trascina in un vicolo.

Sto per gridare, ma nel momento in cui il fiato mi scivola in gola, quella figura mi sbatte la schiena contro una delle case di legno, e mi copre la bocca con l’altra mano.

Mi ritrovo davanti due occhi come due pietre di giada. Verdi, ma di un verde opaco, spento. E duri, duri come la pietra. Occhi che da soli sarebbero capaci di ridurmi al silenzio.

Ma l’uomo che mi tiene prigioniera, che tiene una mano sulla mia bocca, e che ancora mi stringe il polso con l’altra, non lo immagina, probabilmente.

Trascorre qualche istante, e io resto immobile, come una statua. Probabilmente nemmeno sto respirando. Sento solo quella mano forte e decisa premermi sulla bocca, e quegli occhi trafiggermi con uno sguardo affilato.

Poi l’uomo parla. Ha una voce baritonale, diaframmatica.

“Cosa credevi di fare?”

Si aspetta davvero che gli risponda, se continua a tenermi tappata la bocca?

“Non è sicuro per nessuno camminare alla luce del giorno. Soprattutto per te”

La mano scivola via dalla mia bocca.

Il mio respiro è rapido e superficiale. Ma almeno ho ripreso a respirare.

Continuo a fissare quell’uomo, incerta e spaventata. Ha i capelli colore dell’oro, ma sono spettinati e sporchi. E’ alto, con le spalle larghe e robuste, e il fisico possente. Indossa abiti consunti, scuri, e porta ai piedi degli stivali rovinati.

Lui non mi sta guardando. Ha rivolto il suo sguardo verso la strada principale, la strada da dove mi ha appena tratto al riparo. E’ sempre deserta, e anche se il sole continua a nascondersi oltre le nubi spesse e minacciose, è comunque più luminosa del vicolo in cui siamo nascosti, al momento. Un vicolo che passa in mezzo alle case di legno di questo bizzarro, spettrale villaggio, e che diventa più tetro ed oscuro man mano che procede …

“Allora?” mi incalza l’uomo. “Cosa pensavi di fare, camminando come se nulla fosse in mezzo alla Strada?”

Deglutisco a vuoto, perché ho la gola secca.

“Mi sono persa …” comincio. Ma mi blocco subito.

La mia voce … è … questa?

Mi suona così diversa. Diversa da solito. E’ strano, no? Ognuno dovrebbe riconoscere la propria voce. E’ l’unica che si ha la certezza di sentire ogni giorno della propria vita.

La mia è così … estranea. E’ flebile, puerile. Non la ricordavo così …

Provo a cercare nella mia memoria quel ricordo, ma … ma scivola via prima che io possa raggiungerlo. Che suono mi sarebbe familiare? Che suono dovrebbe avere la mia voce, se non questa?

“Persa?” ha domandato nel frattempo l’uomo, inconsapevole delle domande che affollano la mia mente, e del mio disperato sforzo di cercare una risposta.

Annuisco.

“Come puoi esserti persa?” domanda, confuso. Lo vedo scrutare il mio viso con sospetto e poi domandarmi: “Come puoi esserti persa? Qui è impossibile perdersi”

“No, non lo è”

“Dico sul serio. Nessuno in questo posto maledetto potrebbe mai perdersi lungo la Strada”

“Ti dico che io non ho idea di dove mi trovo”

Lui esita. “Non … non è possibile”

La voce delicata e fresca che esce dalla mia gola, la voce che stride con le mie aspettative, sta per confermargli ancora una volta che non so minimamente dove mi trovo …

Ma lui mi interrompe.

“Come puoi perderti in un posto che conosci da tutta la vita?”

Scuoto la testa. “Io non sono mai stata qui prima d’ora”

Gli occhi color giada si spalancano. Vedo le sue labbra schiudersi per dire qualcosa, ma non esce nulla. Chiude la bocca e mi fissa a lungo.

“Com’è possibile?” domanda d’un tratto. “Come puoi non conoscere questo posto?”

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Trascorrono diversi istanti, prima che l’uomo smetta di fissarmi ad occhi spalancati. Sono sull’orlo della pazzia. Ma che diamine sta succedendo attorno a me?
Ma prima di potermi lasciare andare ai dubbi e allo sconforto, l’uomo riprende possesso del mio polso. Lo agguanta con la sua mano forte e, con presa decisa, inizia a trascinarmi con se lungo il vicolo. Dentro l’oscurità.
“Ehi!” esclamo. “Ehi, che stai facendo?”
Lui non mi risponde. Le nostre figure iniziano a scivolare nelle tenebre surreali che si addensano via via lungo la strada. Ci inghiottono, e inghiottono lentamente la poca luce del giorno. Avanziamo rapidi, o almeno, lui. Io non vedo nemmeno dove metto i piedi, e lui mi strattona per farmi tenere il passo, senza dire una parola.
Ad un certo punto vedo un timido bagliore di fronte a lui, una fiammella che, nonostante la debole intensità della sua luce, riesce a delineare i contorni della sua figura possente, facendola risaltare in mezzo al buio corposo che ci circonda.
“Da questa parte” dice, tenendo la torcia davanti a sé per illuminare il nostro cammino. Come ha fatto ad accenderla, mi domando, avendo una sola mano a disposizione?
Come sia possibile essere finiti in una tale completa assenza di luce resta un mistero che la mia mente si sforza di comprendere.
Ma poi, lentamente, inizio a capire: stiamo scendendo.
Lo realizzo dopo circa cinque minuti di marcia a ritmo sostenuto. Sento l’aria farsi più rarefatta, più umida e densa. E poi l’odore, l’odore della terra bagnata dopo la pioggia. L’odore di autunno, di foglie macerate.
“Dove siamo?”
“Cosa credi?” ribatte la mia guida, finalmente degnandosi di rispondere. “Siamo nell’unico posto sicuro nel raggio di … beh, nell’unico posto sicuro che ancora esiste”
Le sue parole non hanno senso per me.
“Ma che cosa dici? Non credo che queste … catacombe?” azzardo. “ … ecco, non credo che siano più sicure della Strada, là fuori. Siamo sotto terra, vero?”
“Soffri di claustrofobia per caso?” sbotta.
“No. Ma … come siamo arrivati …?”
Guardo sopra di me, domandandomi perché non l’ho fatto prima. Solo un’oscurità densa e soffocante,  ma l’eco dei nostri passi ritorna alle mie orecchie da quella direzione. Siamo sotto la terra. Marciamo come formiche in cunicoli scavati nella terra.
Non soffro di claustrofobia, ma inizio a sentirmi sopraffatta.
E adesso? Sto venendo trascinata nelle profondità della terra da uno sconosciuto potenzialmente pericoloso … che ne sarà di me?
Come faranno a trovarmi?
Come farò a tornare … a casa mia?
 
“Siamo quasi arrivati” mormora, ad un ceto punto, credo più rivolto a sé stesso che a me.
“Ah si? Arrivati dove?”
Si blocca. Arrivo alle sue spalle e guardo avanti a noi. La luce della torcia illumina la fine del tunnel, ma invece di un vicolo cieco, invece di una parete di solida terra umida, vedo una biforcazione. Due sentieri di calibro più piccolo di quello che abbiamo seguito fino ad ora si separano di fronte a  noi.
… A sinistra. Ne sono sicura, sorellina. Dobbiamo girare a sinistra…
“Sorellina?” domando, perplessa.
L’uomo si volta verso di me e alza un sopraciglio. “Scusami?”
“Mi hai chiamata sorellina?”
Lui mi rivolge la sua completa attenzione. Scuote la testa, guardandomi come se fossi un fenomeno da baraccone. “Non l’ho fatto, invece”
Bugiardo. L’ho sentita benissimo la tua voce.
Come avrei potuto sbagliarmi? Non l’ho ancora menzionato prima, ma c’è un silenzio così assoluto e pesante che ogni suono sembra amplificato dentro questa galleria.
Lui ha detto quelle esatte parole, ne ero certa. E adesso lo nega.
Cosa ha intenzione di fare? Farmi passare per una pazza? Confondermi?
“Allora, dove stiamo andando?”
“Te l’ho già detto. Ora lasciami pensare”
“Pensare? A cosa esattamente?”
“Alla direzione. Queste maledette gallerie si somigliano tutte”
“Pensavo dovessimo andare a sinistra” gli ricordo.
Lui si volta verso il bivio. Poi ancora verso di me.
“A sinistra?”
“Si. L’hai detto poco fa”
“No, non l’ho fatto” insiste. Ma prima che io abbia il tempo di domandargli se mi sta prendendo in giro o meno, lui riprende: “Ma … ora che mi ci fai pensare, hai ragione. Dì un po’, sicura di non essere mai stata qui prima d’ora?”
Irritata, vorrei gridargli che fra noi due è lui quello ad avere dei problemi di memoria. Ma non lo faccio. Faccio un respiro profondo e mi lascio guidare dallo sconosciuto lungo la galleria di sinistra.
Camminiamo senza proferire parola per un’altra manciata di minuti.
Poi, dopo aver svoltato leggermente a sinistra, vedo qualcosa. Vedo una luce.
La fine della galleria. La fine di quel viaggio nelle tenebre.
Via via che ci avviciniamo, la vedo allargarsi, ma i miei occhi non riescono a scorgere cosa stia al di là.
“Siamo arrivati. Qui è sicuro, non devi preoccuparti”
“Dove siamo?”
Varcata la soglia della luce, strizzo gli occhi, i quali, abituati all’oscurità, ci mettono diversi istanti per abituarsi.
… ora puoi aprire gli occhi, tesoro …
… tesoro?
“Tesoro?”
“Cosa?” domanda la mia guida. “Che hai detto?”
“Io non ho detto niente”. Batto le palpebre. “Ma qualcun altro … oh cielo!”
La voce che ho appena sentito, e che, a quanto pare non apparteneva a nessuno, dal momento che c’è solo lui qui con me, passa immediatamente in secondo piano.
La galleria è sbucata in quella che sembra una città sotterranea, accolta nella più grande grotta che io abbia mai visto, più grande di quanto la mia mente potesse concepire. Io e lo sconosciuto la dominiamo dall’alto. Ci basterebbe scendere lungo questo pendio e addentrarci in quel caotico agglomerato di case. Da quassù non riesco a distinguere una pianta ben precisa, ma svetta fra tutti gli edifici quello centrale: se tutte le altre costruzioni non sono altro che vecchie e spoglie baracche, il palazzo che sta nel centro esatto della città è fatto di solida arenaria, con un portone verde e un soffitto di tegole.
Fra tutti i pensieri assurdi che si spintonano nella mente, ad uscire per prima dalla mia bocca è una domanda: “E’ una chiesa quella laggiù?”
“No” risponde l’uomo. “Quella è la Sala di Consultazione”
Nel momento in cui la mia guida pronuncia quel nome, una bizzarra frase esce dalla mia bocca, senza che il mio cervello possa in alcun modo impedirlo: “Bisogna scendere lungo la scala a chiocciola”
Lui si volta verso di me, perplesso. “Che … che cosa significa?”
Mi mordo il labbro.
Oddio. Non … non volevo dirlo. Non so nemmeno cosa stia a significare. Ma che mi sta succedendo? Prima sento le voci, ora parlo senza filtro, dicendo cose senza senso, fuori da qualsiasi contesto … che diamine mi prende?
Arrossisco e abbasso lo sguardo.
“Lo sai” dice l’uomo. “Sei proprio strana”
“Io sono strana?” ribatto. Indico con un gesto del braccio la città che dominiamo con lo sguardo. “E tutto questo cosa sarebbe? Normale?”
“Per me lo è. Per tutti noi”
“Noi?” domando. “Quindi qui ci sono delle persone … vere?”
“E ben presto le conoscerai. Andiamo ora”
“Andiamo dove?”
Lui si incammina lungo il sentiero che scende, tortuoso, lungo il pendio. “Alla Sala di Consultazione”

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