Revenge - Demons come from the sky

di Pathetic
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La nuova Profezia ***
Capitolo 2: *** Scelta OCs ***
Capitolo 3: *** La Pergamena Perduta ***
Capitolo 4: *** Il Paese dei Balocchi ***
Capitolo 5: *** Il Gioco del Cerchio ***
Capitolo 6: *** Incubi ***
Capitolo 7: *** La Quiete prima della Tempesta ***
Capitolo 8: *** Graeci et Romani ***



Capitolo 1
*** La nuova Profezia ***


 
 
 
 La nuova profezia
 
 
 
Seduta sugli spalti della grande arena del Campo, Bloom si godeva il sole estivo sulla pelle.
Era una bella giornata con un cielo limpido e una timida brezza che ti permetteva di non soffocare, perfetta per gli allenamenti di scherma che si stavano consumando sotto i suoi occhi. Si attorcigliò un dito tra i capelli, sbadigliando; non aveva dormito per niente bene quella notte, si era svegliata poco prima dell’alba e non era riuscita più a chiudere occhio.
E sapeva che non era un buon segno.
Tornò a concentrarsi sulle poche nuvole che ricoprivano il cielo, bianche come la tazza di latte con cui aveva fatto colazione ma molto più limpide e distanti. Erano ormai due anni che risiedeva in quel Campo come Oracolo di Delfi ed era in assoluto il miglior lavoro che avesse mai potuto desiderare, se di lavoro si poteva parlare. Il potere le era stato passato da una donna sui quarant’anni, riccia con un viso alquanto gentile; all’inizio aveva pensato che sarebbe stata una grande responsabilità ma con l’andare avanti dei mesi aveva potuto comprendere che, effettivamente, la vita al Campo Mezzosangue era abbastanza monotona.


Era appoggiata ai gradoni quando una fitta la costrinse a piegarsi in avanti come sospinta da una forza invisibile. Sentiva un campanello tintinnare da qualche parte e una voce infantile, lontana, doveva appartenere a un bambino piccolo ma non riusciva a capire cosa dicesse. Le sembrò di perdere per un attimo il contatto col terreno e al colore della polvere si sostituì un suono inaudito, acuto, pieno di lamenti. D’un tratto sentì mille urla in testa, come un vagone di grida di guerra e sentiva nell’aria un odore salmastro, qualcosa di acre e simile al pianto. Percepiva un dolore alla gola che sapeva di singulto e davanti ai suoi occhi si susseguirono mille immagini, talmente veloci da non riuscire nemmeno a distinguerle. Le vide macchiarsi di verde, un verde accecante che monopolizzò tutti i suoi sensi.
E poi tutto fu chiaro.
Quella pellicola dai colori accesi riprese a scorrere, ma ora poteva capirla, poteva conoscerla.
Sentì uno scossone, come se la sua mente si fosse improvvisamente divisa e qualcosa la spinse a parlare, una forza che sapeva non essere sua.

 
Sotto strali di sangue il ricordo è perduto,
nel rimorso di un dio, Ilioneo è caduto:

il bambino che è morto con le mani in preghiera,
ucciso dall’alto di una dea offesa.
Ma una morte straziata brama vendetta,
tingerà il sole e la luna di una tremenda tristezza.
Spezzerà il cielo e cadrà sangue giù dall'Olimpo,
unico pegno dell'ira di un bimbo.
Per uccidere i demoni chiamati alla morte
vi è un unico dardo scagliato in sorte,
lo porta il fanciullo con grande dolore
ma colui che l'ha ucciso peccherà di cuore.
Una guerra amara, senza giusto o sbagliato,
nata dal cuore di un figlio odiato.
 
 
Vide il verde spegnersi come una stella, bruciarle la vista e lasciarla in un oblio nero e pieno di fuliggine. Si aggrovigliò su sé stessa come una bambola di pezza e l’ultima cosa che vide, vivida e spettrale, fu lo sguardo del bambino che avrebbe imparato a temere.
 
 
 
 
 
 
*** ♥ ***
 
Hey guys! Ça va?
Sono qui con una nuova interattiva, che spero vi abbia incuriosito ^-^
Sono passati trent’anni dalla fine di Gea e Rachel ha passato il testimone a Bloom, una giovane ragazza vogliosa di mettersi alla prova come Oracolo di Delfi.
Sappiate sin da subito che in questa storia le persone muoiono, piangono, si disperano e hanno complessi mentali più o meno critici su chi sono e quello che devono fare.
Per chi non l’avesse capito, la storia è basata sul mito di Niobe e Latona (uno dei miei preferiti)

Bene, passiamo subito alle regole:
 
♠ Cosa accetto:
  • Semidei romani o greci
  • Semidei tra i 12 e i 17 anni
  • Disturbi psichici, fisici o psicofisici, fenomeni sensoriali, deliri o nevrosi
    ALT: I problemi mentali non sono uno scherzo, informatevi bene e non metteteli a caso perché mi arrabbio come un leone!
 
♠ Cosa non accetto:
  • Qualunque problema legato alla droga
  • Problemi mentali alla cavolo (guai a voi che osate)
  • Poteri esagerati o troppo complessi
     
    Unica altra richiesta è: non createmi solo eroi e chirichetti, dov’è finita la gente cattiva?
    Ora passiamo direttamente alla scheda (i campi in corsivo sono facoltativi):
     
     
     
    Dati anagrafico-fisici
     
    Nome:
    Soprannome:
    Cognome:
    Età:
    Nazionalità:
    Descrizione fisica:
     
    Dati sociali
     
    Genitore divino e rapporto con esso:
    Genitore mortale e rapporto con esso:
    Storia personale:
     
    Dati psicologici

    Descrizione caratteriale:
    Modo di porsi nei confronti degli altri:
    Malattie o disturbi:
     
    Dati ideologici
     
    Concezione della vita:
    Valori/Disvalori che lo condizionano:
     
    Dati vari

    Poteri:
    Arma:
    Cosa ama:
    Cosa odia:
    Orientamento sessuale:
    Persona da cui potrebbe essere attratto:
    Persona da cui non potrebbe essere attratto:
    Richieste particolari:
    Altro:
    Prestavolto:
     
     
    Per qualunque domanda non stentate a chiedere.
    Lasciatemi una recensione con il sesso e il genitore divino del vostro rampollo.
    Dopo la mia risposta, avete una settimana di tempo per mandarmi la scheda del vostro OC per MP.
    Siate puntuali!
    E non sparite dopo avermi inviato il vostro personaggio o vi potrei affatturare ^-^
     
    Vi comunico che gli aggiornamenti non avranno una data precisa, ma mi impegnerò a pubblicare i capitoli ad intervalli umani.
     
     

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Capitolo 2
*** Scelta OCs ***


 
Okay, le iscrizioni si sono chiuse ufficialmente e scegliere è stata dura perché mi avete mandato un sacco di personaggi adorabili e ho dovuto rinunciare a molti di loro c.c
Ho letto le schede, ragionato e raggruppato gli OCs in buoni e cattivi … curiosi di sapere dove siete stati smistati?
Allora vi lascio alla mietituraehm alla scelta degli OCs :3 + i miei
 
 
 
Heroes:
 
Bloom, Oracolo di Delfi
Giovane e spigliata, energica, entusiasta del suo ruolo ma ancora tremendamente inesperta.
Vuole rendersi utile, aiutare il Campo e i suoi compagni ma per farlo dovrà imparare a gestire l'enorme potere che racchiude dentro di sé.
 
 
 
 
 
 
Karim Sharif, figlio di Bellona
Un grande stratega, un abile combattente e un valoroso condottiero. Leale, coraggioso, un comandante che persegue i propri obbiettivi fino alla morte.
Un guerriero con elmo e armatura, ma dietro ogni grande uomo ci sono tanti piccoli difetti.
 
 

Francis Lawyer, figlio di Iris
Se il Campo fosse il set di qualche film, Francis sarebbe sicuramente il protagonista. Sicuro di sé, protettivo, impavido e mai sopra le righe. Si è conquistato la fiducia e il rispetto degli altri semidei, ha dimostrato forza di volontà e grande valore. Ma è avventato, impulsivo, e commetterebbe gravi errori per amore.
 

 
Jackson Langdon, figlio di Marte
Fedele, onesto, leale, un ragazzo che si è fatto strada tra i Romani per le proprie virtù e il proprio coraggio. Non è un leader e nemmeno brama di esserlo.
Allegro, socievole, si fa amare ma nessuno armadio è sgombro di scheletri e dietro ogni luce vi è un’ombra.
 

 
Chloe Murray, figlia di Ilizia
Alcuni vivono per combattere, per uccidere, per ricercare una lontana gloria e il potere, Chloe no. Il suo posto è aldilà delle retrovie, dentro una tenda di gemiti e singulti, tra i feriti di guerra e i compagni che non ce la faranno. È lì che deve stare a tentare di dare un po’ di sollievo e misericordia alla sofferenza che dimora sovrana.
Paziente, delicata, tranquilla, tutte doti che la distinguono dagli altri.
 

 
Noah Sunlight, figlio di Selene
Emana speranza e allegria, sempre pronto a vedere del buono nelle persone. Un bimbetto ingenuo e troppo gentile per il mondo, pieno di altruismo e voglia di dare una mano.
Pochi riescono a resistere al suo sguardo da bambi.
 

 
Agatha Collins, figlia di Hermes
Curiosa, spericolata e piena di vita. L’incarnazione di una bambina nel corpo di una ragazza. È grintosa, un po’ goffa, smagliante e pronta a cimentarsi in nuove imprese.
 

 
Ophelia Lemaire, figlia di Kronos
Schiva, metodica e taciturna, rifugge il contatto con gli altri, li etichetta, li evita. Ma è leale, con saldi principi morali ed è molto astuta, intuitiva, abile. Non sa tenere a freno la lingua, è tagliente, spesso in modo crudo. È una rosa, ma vuole a tutti i costi nascondersi tra i rovi.
 

 
Lavi Firee, figlio di Hypnos
Non riesce mai ad appassionarsi a niente, non vi è una sola attività che lo abbia invogliato per più di una settimana. È beffardo, pungente e un po’ ambiguo nelle sue parole, è quello che ti mette la pulce nell’orecchio solo per vederti uscire di testa. Ama la musica e spesso suona e canta, se non dorme. Non è esattamente il più coraggioso del Campo, ma è un ottimo esploratore della dimensione onirica.
 

 
Johannes Weilschmidt, figlio di Apollo
Un figlio della musica che non può cantare, sembra quasi uno scherzo. Minuto e delicato, di una bellezza di cristallo, disponibile per chiunque ma fondamentalmente introverso e restio a iniziare una conversazione. È solidale, corretto e abituato ai soprusi, e in fin dei conti anche un ottimo infermiere.
 
 
 
Austin Thoreman, figlio di Hermes
Gentile e solare, cerca d’andare d’accordo con tutti ma sa essere anche un tipetto frizzante. Odia chi cerca di tappargli le ali, potrebbe rivelarsi più tigre di quanto non sembri all’apparenza.
 

 
Quinn Richards, figlio di Tyche
Tom Sawyer: furfante, truffatore, un po’ svitato e sempre pronto a rischiare tutto. Un piccolo demonio vintage che non passa certo inosservato.
L’onore per lui è un concetto quasi astratto, lo butterebbe tra i sogni dei figli di Hypnos senza tanti complimenti.
 

 
Valérie Petit, figlia di Tacita
Venuta su tra funamboli e giocolieri, nei colori della strada e gli applausi del pubblico. Piena di fantasia, romantica, poco realista e un tantino sprovveduta. Allontana i pregiudizi e si schiera contro la violenza, e ancora molti si chiedono come abbia fatto a superare le prove di Lupa.
 

 
Clyde Bonnell, figlio di Melpomene
Qualcuno potrebbe definirlo debole, troppo emotivo e incline ai sentimenti. Ma sono questi i suoi valori, delle imprese e delle follie dei mezzosangue non potrebbe fregargliene di meno.
È l’arte la vera arma del mondo, e questo, Clyde l’ha capito benissimo.
 
 
Rex Malek, figlio di Asclepio
Timido, sfuggente, silenzioso, è il tipo di ragazzo che rimane a guardare senza buttarsi nella mischia.
Quel tipo di persona che non viene capita da nessuno, non nella vita reale.​

 

 
Annaliese Edelstein, cacciatrice di Artemide
Tranquilla, mite e quasi anonima, un angelo a prima vista. Aveva dodici anni quando si è consacrata ad Artemide e l’immortalità l’ha salvata dall’impertinenza e la ribellione degli adolescenti.
È gentile, timida, malinconica ma ha una mira quasi infallibile, e questo grazie ad anni e anni di addestramento.
 

 
 
 
 
Villains:
 
 
Galem Pain, figlio di Mania
Sadico, folle, crudele, che vi aspettavate da un figlio di Mania? Un tenero, piccolo e docile agnellino? Oh, no, grosso errore. Potrebbe scuoiarvi per questo, lui non è un bravo ragazzo.
Bisogna dire però che ama fare domande, ama far parlare le persone, solo che a volte deve usare certi metodi per farle parlare, ma non è un sanguinario.
 
 
 
Gabriel Santhall, figlio di Alalcomenea
Insofferente, quasi macchiavellico, un ragazzino che non è mai cresciuto davvero. Figlio della pretesa, della richiesta, della vendetta. Non avrà pace finché non otterrà quello che vuole.
È sempre pericoloso viziare i propri bambini.
 

 
Marshall Allen, figlio di Afrodite
Freddo, bello e dannato, con lo sguardo di chi osserva l’amore sciogliersi nell’acido. È astuto, manipolatore e col cuore in un groviglio d’acciaio.
Perché le storie d’amore, dopotutto, fanno sempre una brutta fine.
 

 
Heather Nightmare, figlia di Eros
Irriverente, inappropriata, dal carattere sboccato e disinibito. Le frecce di suo padre sono strali di sangue, il suo sguardo una sfilettata ad un cuore in frantumi.
Odia i lieto fine, sono così noiosi.
 

 
Hawley Collins, figlio di Persefone
Caustico e scostante, impertinente, sprezzante. Non ama le persone, le trova irritanti. Ama però gli animali, soprattutto quelli piccoli, si contorcono da morire quando li brucia; è una cosa divertente.
 

 
Oz Wonder, figlio di Silvano
Dicono che sopra ad ogni calcolatore vi sia un sorriso, qualcosa a dire “Siamo amici, vero? Andiamo d’accordo” e che anche un angelo può rivelarsi un mostro.
Ma Oz non è un mostro, le cose devono avere un ordine, è così, e ad Oz non piace quando le cose non sono al loro posto.
 

 
Lilith Black, figlia di Melione
Seducente, tentatrice, una leonessa che si finge preda e affonda gli artigli. Alcuni potrebbero definirla viscida, subdola persino, una donna che sa benissimo quello che vuole, che sa attendere perché la vendetta è un piatto che va servito freddo.
 

 
Oralee Higher, figlia di Efesto
La perfezione uccide e chi più di Oralee può comprendere? Rimanere chiusa in una stanza con tutte quelle bambole bionde e belle, quelle piccole demoniette così delicate e perfette.
Oralee odia la perfezione, è un’ossessione, una bestia che ha infangato il suo cuore e l’ha messa a tacere.
Perché Oralee vuole essere perfetta, ma non è egoista.
 

 
 
Venidikt Petrauska, figlio di Eris
Un sempliciotto a primo impatto, di quelli che ti chiedi da dove siano spuntati fuori. Ma Venidikt non è quel tipo di ragazzo per cui provare compassione, no, lui è particolare.
Sorride sempre, nessuno ha mai visto il suo volto spoglio di sorrisi, o forse sì, ma non l’ha mai raccontato a nessuno.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** La Pergamena Perduta ***



La Pergamena perduta
 
 


“Shh, si sta svegliando”

Sentiva la testa scoppiare come se mille spilli le punzecchiassero il cervello, si sentiva debole e una leggera nausea le solleticava lo stomaco. Provò ad alzarsi, ma ogni suo tentativo non faceva che capovolgere le pareti della stanza e farle perdere quel poco di equilibrio che era riuscita a racimolare.
Qualcuno stava cercando di passarle dell’ambrosia, ma i suoi occhi vagano per conto proprio e non riusciva a mettere a fuoco i suoi compagni. Nemmeno le voci erano nitide, li vedeva muovere le bocche ma i suoni rimanevano confusi e la sua testa barcollava sul suo collo, sfinita.
Sprofondò nuovamente nel morbido cuscino e richiuse le palpebre, cercando di dare un ordine ai pensieri che continuavano a vorticare, storditi. Sentì una mano tiepida sulla fronte, che avesse la febbre? Non lo sapeva, ma il mondo stava piano piano ricominciando a delinearsi dentro di lei, quell’accatastarsi di voci iniziò finalmente  a districarsi e anche i colori che le annebbiavano la vista cominciarono a smettere di sovrapporsi l’uno sull’altro, dandole una visione più chiara di ciò che le stava accadendo attorno. Quel ticchettare che le pulsava in testa divenne meno assordante e il profumo di ciliegi meno intenso di quanto non fosse.
Riaprì le palpebre e questa volta riuscì a delineare perfettamente il volto caldo e gentile di Chloe, non sembrava particolarmente agitata, anche se infondo non lo era mai.
“Come ti senti?” domandò con quel suono vellutato dai violini, aveva sempre avuto una voce morbida e incantevole, e Bloom invidiava quel tocco di gelsomini che riusciva a sentire quando Chloe parlava.
Sbatté qualche volta le palpebre prima di rispondere, il malore che provava aveva già cominciato a svanire, ma per la testa le scorrevano tante di quelle domande.
“Che è successo?” ora che i suoi sensi tornavano a mischiarsi poteva percepire una certa tonalità canarina nell’aria, qualcosa di chiaro e splendente che dimorava sempre nell’infermeria.
“Cosa ricordi?” domandò una voce maschile ai piedi del letto. Solo allora Bloom si rese conto degli altri tre semidei, che la osservavano curiosi.
Cercò di ritornare indietro nel tempo, negli ultimi istanti che la sua mente rammentava con chiarezza, ma più tentava di ricostruire quel puzzle più la sua memoria si rifiutava di collaborare. Aveva un buco nero al posto dei ricordi, era sicura di essere uscita a prendere una boccata d’aria con Francis e che questi si fosse allontanato per parlare con uno dei suoi tanti fratellastri, stava guardando il cielo davanti agli allenamenti di scherma, quando qualcosa l’aveva strappata dal Campo..
Poi non vi era che il buio.
“Hai pronunciato una profezia, Bloom” le suggerì Chloe, aveva una strana luce negli occhi “Francis ha sentito tutto, e pure gli altri”
“U-una profezia?” balbettò la ragazza, presa di sorpresa. Non era possibile, se ne sarebbe ricordata. Erano due anni che cercava di rendersi utile e l’Oracolo non aveva mai parlato, nemmeno una volta.
“Parlava di un bambino” mormorò il figlio di Iris “E di una vendetta, qualcosa che ha a che fare con i gemelli divini”
“C’era qualcosa sulla luna e il sole” aggiunse Chloe “Chirone arriverà a momenti, Austin l’ha già informato.”
Si sentiva ancora frastornata, sia dai capovolgimenti che da quello che aveva appena udito.
Una profezia. Aveva predetto una profezia e non se lo ricordava nemmeno.
Si portò una mano tra i capelli, alzandosi a sedere sul letto tra gli sguardi contrariati dei suoi infermieri, erano ben in tre ad assisterla e Johannes la fissava fragile con un calice di nettare tra le mani minute.
“Da quanto tempo sono qui?” domandò allora Bloom, non aveva ancora mandato giù il colpo, ma doveva saperlo.
“Non molto, Francis ti ha portato qui non appena sei svenuta. Austin è corso da Chirone appena dieci minuti fa” la tranquillizzò Chloe, e Bloom sospettava che fosse l’influenza di sua madre a farle mantenere la calma.
“Com’era la profezia?” esclamò così, senza pensarci, ma Francis non ebbe nemmeno il tempo per rispondere.

La porta dell’infermeria si aprì all’improvviso rivelando la grossa figura di un grande Centauro, accompagnato da due giovani mezzosangue.
Calpestò le assi del pavimento con gli zoccoli fino ad arrivare al letto bianco dove sedeva Bloom Carnivall, con quei suoi lunghi e lisci capelli color rubino e gli occhi azzurro cielo.
“Dunque è così, una profezia” esclamò Chirone, ma non sembrava una domanda. Non aveva un’aria particolarmente estasiata, come invece lo erano quelle di Chloe, Johannes e Austin, c’era un’ombra ad oscurargli gli occhi, quasi preoccupazione. Tra le dita callose stringeva un foglietto spiegazzato e strappato da qualche quaderno di seconda mano, a giudicare dal colore della carta, e sopra di esso l’inchiostro ne macchiava il vuoto con parole e sentenze.
Glielo porse sotto i candidi occhi e Bloom lo prese senza esitazione, aveva bisogno di conoscere quelle parole, avrebbero dovuto essere incise nella sua mente e non su uno stupido pezzo di carta da bruciare e disperdere nel vento.
Fissò quelle acri e spigolose scritte senza quasi riconoscerle, c’era un vago odore di pino che le stuzzicava i sensi ma l’inchiostro d’acquamarina si disperdeva nella carta fino ad imprimersi nel cervello. I suoi occhi fissavano increduli quelle forme tanto ostili e piene di fuliggine, ma non riuscivano a comprenderle.
“Sangue?” domandò Bloom alzando gli occhi sul suo Maestro “Che vuol dire? Chi è Ilioneo?”
Il volto di Chirone era deturpato da un’aria grave, ma i suoi occhi rimanevano due pozzi pieni di risposte, anche se Bloom era troppo giovane per sapere che molte di quelle risposte le sarebbero state negate.
I mezzosangue che si erano radunati attorno al suo letto cominciarono a muoversi nervosi, forse finalmente consci del pericolo.
“Fu un bambino” esclamò Chirone senza giri di parole, Ophelia lo affiancava, pronta a cogliere ogni singolo spettro o segreto nel tono del Centauro.
“Un bambino parecchio incazzato” scrollò le spalle Austin, che non aveva ben accettato l’atmosfera lugubre che era piombata sui suoi compagni e, anzi, esibiva il migliore dei suoi sorrisi carichi di contagio e splendore, con quel ciuffo sbarazzino che gli dava sempre l’aria di un piantagrane.
“Nacque ultimo di sette fratelli” continuò Chirone ignorando le parole del figlio di Hermes “Un bimbo giovane, troppo piccolo per comprendere il mondo o la giustizia. Sua madre offese gli dei, si vantò dei suoi belli e valorosi figli peccando così di superbia; Latona non perdonò l’offesa, mandò i suoi figli, Apollo e Artemide a vendicarla. Le loro frecce tolsero il respiro a sette giovani guerrieri e sette splendide fanciulle. Ilioneo morì con le mani ancora alzate in preghiera, tutti gli dei udirono la sua voce, un grido che echeggiò per tutto l’Olimpo. Fu Apollo stesso a scagliare la freccia che gli spezzò il respiro”
“Perché?” domandò Chloe, allibita “Perché se la sono presa con i figli, che c’entravano loro con la follia della madre?”
“Cosa le successe?” domandò invece Bloom.
“La morte dei figli consumò Niobe fino alle lacrime, vagò per terre e lande desolate fino a cadere in ginocchio e tramutarsi in pietra. Ancora oggi cadono calde lacrime dalla sua roccia, fiumi di disperazione che bagnano la terra e ricordano ai mortali la sua offesa e la sua punizione.”
“Ma non è giusto”
Chloe non sembrava ancora comprendere quel mito, e forse avrebbe continuato a rifiutarsi di farlo.
“La profezia parla di una guerra” mormorò Bloom, sovrappensiero. Le sembravano ancora frasi lontane e senza senso, ma aveva un sentore dentro al petto, un qualcosa che la spingeva a credere che quella profezia, per quanto strana e lugubre fosse, stava per compiersi.
“Le profezie non sono mai chiare” proruppe Chirone con amarezza “Narrano il futuro, mostrano ciò che avverrà, ma sta a noi affrontare quel destino impervio e non permettergli di distruggerci”
Bloom si rigettò con le iridi sul cupo foglietto che stringeva tra le dita, qualunque cosa li attendesse, non era certamente un qualcosa di cui essere felici.
“Non c’è traccia di vittoria in queste parole” i colori che percepiva erano stantii, aspri e raggrumati, sentiva come un nodo alla bocca dello stomaco mentre fissava quelle lettere piene di luce.
“Forse sarebbe meglio radunare i Capo Cabina e fare una riunione” suggerì Francis senza distogliere lo sguardo dal volto cupo dell’amica.
“Sì” annuì Chirone “Austin, saresti così gentile da far girare la voce? Voglio tutti alla Casa Grande, c’è molto di cui discutere”
Lanciò un’ultima occhiata all’Oracolo, che con occhi vitrei continuava a studiare le parole che aveva pronunciato, e si diresse verso la porta dell’infermeria, quell’espressione pensierosa che ancora non si decideva ad evaporare dal suo volto.

*** ***

“Non pensarci troppo” le fece coraggio il figlio di Iris sedendole accanto, dopo aver gentilmente domandato a Chloe e agli altri di lasciarli un po’ da soli.
Era facile per lui parlare, si disse Bloom, non doveva certo sentirsi responsabile del destino del Campo. Era un grande guerriero, certo, uno dei più valorosi e fidati compagni, ed era un buon amico, forse il migliore che Bloom avesse mai avuto, ma non aveva sulle spalle una responsabilità tanto grande.
“Dovrei ricordarmene, sono l’Oracolo”
“No” scosse la testa Francis con gentilezza “Lo spirito di Delfi è l’Oracolo”
“Che è racchiuso dentro di me” sottolineò la ragazza “Dovrei conoscere il futuro, è il mio lavoro eppure è tutto così confuso e incerto”
“Irritante?” le sorrise “Da quanto tempo è che fai l’Oracolo? Venti minuti?”
“Due anni” sbottò la rossa rabbuiandosi, strinse il foglio con più forza, quasi a volerlo accartocciare.
“Due anni di silenzio” soggiunse il ragazzo “Non essere troppo dura con te stessa, sarà il tempo a rendere tutto più chiaro”
“La fai così facile” brontolò Bloom rilassandosi un pochino.
“Ma è facile. O vinciamo, o perdiamo, il futuro non è così contorto”
“Dimentichi la parte in cui il mondo cade nel caos, o quella in cui moriamo di una morte atroce” sollevò le sopracciglia la ragazza, guardandolo intensamente.
“Sì, be’, non ci resta che sperare di vincere, allora” sghignazzò, per nulla preoccupato del destino avverso che incombeva con minaccia sul suo capo.
Bloom sospirò, quella faccenda non la convinceva ancora. Si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e tornò a fissare il figlio di Iris.
“Dovresti andare alla Casa Grande” esclamò all’improvviso “Sei stato tu a suggerire una riunione, dopotutto”
“Giusto” si alzò dal letto il biondino “Vieni con me?”
Non le lasciò nemmeno il tempo di rispondere che si avviò verso l’uscita con passo sicuro, certo che l’avrebbe seguito. Molti dei Capo Cabina dovevano essere già presenti al tavolo da ping pong, non voleva essere l’ultimo.
Bloom lanciò un’ultima occhiata al foglietto stropicciato e all’inchiostro scarlatto che vi era impresso, scese dal letto con un agile salto e se lo infilò in tasca. Si sentiva nuovamente in forze, pronta a fare chiarezza e rendersi utile per i suoi compagni e per il destino dell’universo.
Okay, forse ti stai esaltando troppo. Non è Star Wars la riprese la sua coscienza, ma Bloom non ci badò poi molto. Far parte di quella realtà sconosciuta era ancora sensazionale e piacevolmente sorprendente, era incredibile che appena due anni prima si trovasse a Pittsburg a mangiare un BigMac con le sue amiche, e ora era al Campo Mezzosangue e l’antico Oracolo di Delfi era racchiuso dentro di sé, in attesa di uscire e mandare il mondo a putt***.
Alt alt alt, ragazzina, cos’è sto linguaggio scurrile? Ridacchiò da sola appena un attimo prima di varcare la soglia dell’infermeria, sua madre l’avrebbe linciata se l’avesse saputo.

Il cielo era ancora limpido e cristallino, molti dei mezzosangue erano ancora fuori ad esercitarsi con arco e frecce e tra di loro poté chiaramente distinguere la chioma infuocata del figlio di Hypnos, che aveva appena posato la sua balestra, probabilmente per accorrere come lei alla Casa Grande.
Cercò di attirare la sua attenzione e proseguire insieme per la strada, ma dovette sbracciarsi per diverso tempo per farlo guardare nella sua direzione. Fu un figlio di Apollo ad avvertirlo.
“Lavi!” stava lottando per non ridere, soprattutto quando i loro occhi si scontrarono come fuochi e le sue labbra si piegarono in un sorrisetto storto. Si affrettò a posare l’arma sulla pedana di tiro e liberarsi di frecce e faretra, prima di correrle incontro e investirla con un enorme sorriso.
“Milady, avete richiesto i miei favori?” domandò con un caricato inchino, riuscì persino a mantenere le magre e lunghe gambe distese mentre si tuffava con la faccia nel verde del prato e riaffiorava con un sorriso malandrino e un che di decisamente ambiguo.
“Stavi andando alla riunione, giusto?” domandò Bloom tentando di contenere le risate che scivolavano fuori dalle labbra.
Oui, Austin mi ha detto di sbrigarmi e che Chirone ha qualcosa di importante da dirci” alzò le spalle il rosso, cominciando a camminare al suo fianco verso la Casa Grande.
Superarono alcuno figli di Demetra che cavalcavano degli agili pegasi dalla bruna criniera e un piccolo puledrino che trottava dietro di loro, sembrava piuttosto entusiasta della passeggiata.
“Scommetto che sai di che si tratta” esclamò il figlio di Hypnos squadrando la compagna con un’occhiata che ne sapeva una più del diavolo. Era spigliato e beffardo, ma era abile a cogliere i dettagli nelle persone e l’aria pensierosa di Bloom non gli era di certo passata inosservata.
“Sì, si tratta di una profezia”
“Una profezia? Vuoi dire che l’Oracolo…” si morse la lingua prima di completare la frase, aveva sentito dire che le profezie non portavano mai a nulla di buono, in più Bloom non sembrava nemmeno tanto contenta, cosa che avrebbe dovuto metterlo in guardia. Gli balenò nella testa l’idea di chiederle qualcosa in proposito, ma la ragazza scosse la testa prima ancora che potesse aprire la bocca, anticipando la sua domanda.
Perciò sbuffò e tornò a rituffarsi con le iridi violacee nell’edificio poco distante, era stato riverniciato da poco di un giallo pallido e smorto –che aveva fatto storcere il naso a diversi figli di Apollo. Il portico non era cambiato di molto, i quattro gradini di legno scuro li trasportarono alla massiccia porta d’ebano che dava sulle lunghe assi del pavimento. Al suo interno, un grosso e caldo tappeto in pelle accoglieva gli ospiti e sulle pareti due grosse teste di leopardo.
“Potrebbero infilare qualche playstation da qualche parte” suggerì Lavi guardandosi attorno, quel luogo somigliava molto a qualche baita di campagna, completamente isolata dalla tecnologia e il mondo moderno.
“Scommetto che ce n’è una nella Casa di Hermes” sghignazzò un ragazzo alto e con le spalle larghe entrando dopo di loro, con quella camicia a scacchi e le cuffiette che fuoriuscivano dalle tasche dei pantaloni –complice il tono provocante e quel fare da bellimbusto- Bloom non aveva dubbi che si trattasse di Quinn, Capo Cabina della Casa di Tyche.
“Sicuro” sbottò Lavi con un gran sorriso “Quelli non si fanno mancare niente”
“E sono in grado di procurarsi qualunque cosa” sottolineò il nuovo arrivato raggiungendoli e facendo per entrare nella sala dove già sedevano diversi semidei, in attesa.
“Siamo gli ultimi?” domandò Lavi incrociando gli occhi di qualche compagno e individuando alcune sedie libere vicino a Clyde, uno dei pochi abitanti della cabina ventisei.
Si sedette proprio vicino a quest’ultimo, mentre Quinn prendeva posto accanto a Chloe e Bloom si sedeva a fianco di un silenzioso Rex Malek, poco distante da Chirone.
“No” rispose giustamente il Centauro “Austin dovrebbe arrivare a momenti insieme ai Capo Cabina delle case numero sette e quindici”

Non passò molto dalla sua frase all’arrivo dei tre mezzosangue mancanti, ma nonostante questo qualcuno (Quinn) trovò comunque il tempo di sintonizzare l’mp3 sugli Europe e iniziare a spararsi la voce di John Norum nelle orecchie.
Quando però ricevette un calcio allo stinco, capì finalmente che la riunione aveva avuto inizio. Smise di barcollare con la testa e sprofondò sulla sedia ad ascoltare la profonda voce di Chirone e quel suo modo allampanato di far sembrare ogni minima cosa una tragedia.

“Sono passati anni dall’ultima profezia e almeno quattro estati da quando ho mandato dei semidei come voi in missione. Il mondo è pericoloso là fuori, per questo siete stati addestrati a combattere e difendervi dai mostri che …”
Se lo avessero preso con le mani nel sacco, Lavi avrebbe giurato di aver prestato massima attenzione. Ma la verità era che le sue palpebre continuavano inesorabilmente a calare sui suoi occhi e il discorso di Chirone aveva già cominciato a sfumare. Perché la gente doveva sempre perdersi in chiacchiere? Non era in quella stanza che da cinque minuti scarsi e già il mondo di suo padre lo richiamava a sé, sentiva il viso ciondolare sulla spalla e minacciare di scontrarsi sul tavolo da ping pong, così appoggiò le braccia alla superficie e, piano piano, iniziò ad abbandonarsi alla morbida nuvola di sonno che gli aveva già rubato i pensieri…

*** ***

Gli parve di scivolare dentro un budino alla vaniglia, il che non era affatto spiacevole, e sprofondare in una gelatina insapore fino a ricadere sul duro pavimento di granito che lo attendeva. Cercò di sgranchirsi le ossa come quando ci si sveglia e cominciò a guardarsi attorno: doveva trattarsi di una scuola, probabilmente americana, ma l’oscurità dei corridoi lasciava presagire che fosse deserta. Iniziò ad addentrarsi sempre più a fondo, le porte delle aule si susseguivano all’infinito fino a raggiungere una rampa di scale che proseguiva verso il basso.
Lanciò un’occhiata alle sue spalle, era sempre un sogno ma si sentiva ugualmente restio a proseguire. Aspettò qualche istante, ma i colori delle pareti non parevano intenzionati a sbiadire o sciogliersi in un’altra scena.
Non aveva scelta.
Prese un respiro profondo e cominciò a scendere i gradini, il suo cuore pompava sangue nel suo petto ma i suoni che gli giungevano alle orecchie erano sordi, come di un corpo che batte su un muro di cemento.
Cercò di farsi coraggio e si lasciò attirare dalle tenebre del piano sotterraneo, l’odore era maleodorante, un tanfo che gli punzecchiava le narici e gli faceva storcere il naso dal disgusto. Un retrogusto ferroso lo faceva stare sull’attenti, come un gatto che guardingo si nasconde nell’ombra del divano pronto a balzare fuori. I mobili disposti ai lati erano ricoperti da un leggero strato di polvere e un vecchio pianoforte suonava note stonate da qualche parte nel buio. Avanzò di qualche altro passo fino a raggiungere una piccola luce che filtrava da una porta socchiusa. La serratura doveva essere rotta, e Lavi ne fu grato perché poteva percepire quasi distintamente due voci parlare da dietro la porta.
“Non me ne frega niente di quel posto” stava dicendo qualcuno, aveva una voce giovane e famigliare ma Lavi non riusciva bene a capire a chi appartenesse “Possono andare tutti all’inferno!”
“Dovresti fargliela pagare”
proruppe un’altra voce, stavolta sconosciuta e più matura della prima “Una vendetta, nessuno più di te potrebbe comprendere”
A Lavi dava l’idea di un serpente che striscia, uno di quei vermi che si contorcono e scivolano dentro le orecchie quando sei morto. Aveva un tono basso, di quelli che non alzano quasi mai la voce, ma era velato da un che di ombroso e conturbante, come una miccia che scivola su un pavimento di benzina.
“Sarà divertente” s’intromise una terza voce: femminile, piccante, di sfida “Li vuoi tutti morti, quei bastardi, no?”
Non riusciva a capire di che stessero parlando, di chi stessero parlando.
“Soffriranno molto?” aveva una s particolarmente marcata e Lavi continuava a ripetersi di aver già udito quella voce in passato.
“Sì, se ne hai voglia” continuò la seconda voce, quella piene di scheletri e armadi.
“E se non ne avessi?”
Ci fu un momento di silenzio e Lavi attese, sempre più appiccicato alla porta e col respiro sospeso nel vuoto.
“Anche”
Stava per inciampare e ricadere contro la porta, ma qualcosa lo strappò dai contorni improvvisamente meno nitidi del sogno. Si sentì scivolare fuori da quel regno bruscamente e ripiombare nella sala della Casa Grande con ancora la voce viscida di quel ragazzo nella mente.

*** ***
 
“… così da poter colpire il suo assassino in modo diretto.” stava dicendo una figlia di Atena proprio in quel momento. Da parte sua, Lavi non aveva idea di cosa stessero discutendo e Clyde cercava di trattenere un mezzo sorriso che minacciava di sorgere sulle sue labbra morbide e fine.
“Ha raccontato il mito di Niobe e Latona, e hanno cominciato ad avanzare ipotesi sul significato della profezia” gli bisbigliò il figlio di Melpomene nell’orecchio, mentre gli altri semidei continuavano a seguire le varie possibilità con interesse. Molti di loro sognavano un’impresa da quando avevano messo piede al Campo, anni addietro, e Lavi avrebbe potuto giurare che fremevano all’idea di parteciparvi.
“E dov’è che dovrebbe colpire Apollo, scusa?” domandò Austin, leggermente confuso dal suo discorso.
A quella domanda, molti dei semidei sprofondarono in un silenzio meditabondo che fece sollevare molti occhi in direzione del Signor D, che sorseggiava annoiato la sua Diet Coke e leggeva notizie di gossip sulla Gazzetta dell’Altare. Sembrava che Ares si fosse fatto beccare nuovamente in compagnia di Afrodite ed Eros avesse vinto una corona d’alloro e piume di fenice alla lotteria organizzata da Hermes.
“Eh?” esclamò il dio del vino fissandoli a sua volta, poi si ricompose.
“La Casa di Apollo” mormorò Chirone, al suo fianco in una vecchia sedia a rotelle in ferro e plastica nera.
“Oh, sì, certo” annuì il Signor D “La Casa di Apollo, è ovvio”
“Che cos’è la Casa di Apollo?” si rabbuiò Philadelphia Mindless, una giovane figlia di Afrodite che era da poco divenuta Capo Cabina, dopo l’abbandono del Campo di George Bradford.
“Il luogo in cui Apollo si reca ad ogni fine giornata, se non si intrattiene da qualche altra parte. La dimora in cui risiede per la maggior parte dell’anno” spiegò Chirone concitatamente ma con esemplare pazienza.
“E dov’è?” domandò Quinn sollevando le morbide sopracciglia in un’espressione curiosa e tranquilla.
“E dove altro può stare quell’idiota dai neuroni fusi nel sole?” alzò le spalle il Signor D riprendendo il suo giornale “A Waikiki, alle Hawaii”
“Alle Hawaii?” ripeté Clyde con sorpresa, e Lavi si ritrovò a pensare che per un tipo come Apollo nemmeno Los Angeles sarebbe stata poi tanto male.
“Sta in un resort sulla spiaggia, quello con gli ombrelloni rossi e l’usciere sulla porta” sbiascicò il dio poco prima di sprofondare in un interessante articolo sulle cravatte di Eolo.
“È quello il punto” esclamò Austin con convinzione “È lì che dobbiamo andare, avete sentito la profezia: dobbiamo parlare con Apollo”
“Dice anche che l’unica arma con cui potremmo sconfiggere il bambino è proprio la freccia che tiene in mano” aggiunse Francis con fare pensieroso. Un giorno avrebbero dovuto vedersela con quel ragazzino e il suo esercito, e per ucciderlo avrebbero dovuto obbligatoriamente sottrargli lo strale dalle mani, il che significava affrontarlo apertamente.
“Sarebbe meglio avvisare il Campo Giove” suggerì Ophelia, che era rimasta ad ascoltare e ragionare per tutto il tempo della riunione.
“Sì, più tardi invierò un messaggio per metterli in allerta” annuì il Centauro mettendosi più comodo. Aveva ancora quell’espressione seria dipinta sul volto e i piccoli occhi scrutavano attenti l’intera sala.
“Quindi sta per compiersi” esclamò Austin senza tanti giri di parole, Quinn lo fissò per qualche istante, probabilmente pensando la stessa cosa.
“Ci sarà una guerra” alzò gli occhi Bloom “E dovremo combatterla”
 
*** ***

“È stata la riunione più lunga a cui abbia mai preso parte” ridacchiò Francis uscendo dalla Casa Grande insieme all’amica dai capelli color zenzero.
“E non abbiamo nemmeno deciso chi partirà” esclamò Austin sgranchiendosi le braccia, dalla tasca dei jeans fuoriusciva una penna che Bloom era sicura di aver scorto sul tavolino accanto al fuoco.
“Non sappiamo molto su quello che ci aspetta” alzò le spalle Francis, quieto “Non ci resta che aspettare e vedere che succede”

A qualche passo più avanti, un frizzante figlio di Hypnos continuava a torturarsi la mente con mille domande.
Lavi era sicuro di aver già sentito quella voce, c’era un suono lagnante tra le parole che aveva pronunciato, un che di viziato e insopportabile che avrebbe fatto girare le valvole a qualsiasi adulto. Era giovane, un ragazzo che aveva conosciuto da qualche parte, in qualche strampalata situazione e che la sua memoria aveva però rimosso.
Era così preso dalle sue elucubrazioni che non si accorse nemmeno di star andando a sbattere contro una giovane e spericolata figlia di Hermes.
“Ehi” alzò gli occhi giusto per incontrare quelli più esagitati e pieni di vita di Agatha Collins. Sembrava occupata a svitare un paio di chiodi in ferro da uno strano aggeggio di metallo che teneva tra le mani.
“L’hai preso a un figlio di Efesto, quello?” domandò con una risatina il rosso, mentre la ragazza continuava a svitare i chiodi e se li infilava in tasca.
“Già” esclamò con un gran sorriso “Non so a cosa serva, ma non importa”
Aveva due vispi occhi malandrini che non facevano che posarsi ora su Lavi ora sulla parete d’arrampicata da cui discendeva una scia di magma bollente.
“Ti piace arrampicare?” domandò Lavi per iniziare una conversazione.
“Sei stato alla riunione?” chiese invece la figlia di Hermes, ignorando la sua domanda.
Il rosso sbatté le ciglia, stranito, ma annuì col capo “Austin te ne parlerà appena farà ritorno in cabina”
“Sì, ma al momento è occupato con qualcuno” ridacchiò l’altra, prima di tuffarsi nel verde del prato e raccogliere una margherita.
“Okaay” gli piaceva come ragazza, ma era un po’ troppo sopra le righe per lui, che doveva stare attento alle emozioni troppo forti. Così decise di raggiungere di nuovo la sua Cabina e passare il resto del pomeriggio nel suo letto, qualche figlio di Apollo gli avrebbe certamente riportato la balestra sul far della sera, e Lavi aveva bisogno di immergersi di nuovo in quella dimensione onirica alla ricerca delle risposte che da solo non riusciva a trovare.
 
*** ***

Intanto, alla Casa Grande…

Erano rimasti soli, ormai, gli altri mezzosangue erano già usciti e il Signor D aveva preferito rinchiudersi nel suo studio, lontano dal baccano di quegli stolti ed inutili semidei.
“Sembra preoccupato” esclamò la figlia di Kronos, intuendo gli zigomi ombrosi del suo Maestro.
Chirone si limitò a lanciare uno sguardo fuori dalla finestra, oltre i confini della barriera magica. I suoi occhi erano specchi di pensieri e meditazioni, era vecchio per quel mondo ma ancora le forze e la vitalità non l’avevano abbandonato. Si tirò indietro con la sedia a rotelle mentre si muoveva per il largo tappeto e il fuoco schioppettata nel camino.
“Gli dei hanno molto di cui pentirsi, alcune volte la morte riesce a lasciare un segno indelebile persino sul cuore degli immortali. Ilioneo è forse uno dei più grandi rimorsi di Apollo, ucciso dal suo stesso arco e perito sotto i suoi stessi occhi”
“Intende dire che Apollo è dispiaciuto di averlo ucciso?” domandò Ophelia mettendosi a sedere sulla poltrona, di un verde acido.
“Dispiaciuto? Apollo ne rimase devastato, quella morte gli rimase impressa per secoli e millenni, e ancora oggi stuzzica il suo pianto”
C’era amarezza in quelle parole, Ophelia riusciva a percepirla distintamente mentre i suoi occhi precipitavano in quel mito di sangue e per la testa rimbombava una sola domanda.
“Il mito non fa alcun accenno al rimorso dei gemelli” si ritrovò ad esclamare e per un attimo il suo volto apparve confuso.
Chirone non si scompose a quelle parole “No, molte delle versioni che ci sono pervenute celano questa parte significativa, ritraggono gli dei con crudeltà narrando la punizione di Niobe, insegnano a non sovrastarli con superbia e mantenere il buon senso, ma la lacrima che solcò il volto di Apollo mentre la freccia scoccava e spezzava il respiro del fanciullo è rimasta sepolta nei secoli”
“Cioè non esiste alcuna prova del suo pentimento?”
“No, affatto. Una c’è” si avvicinò a quell’unico scaffale provvisto di libri e ne tirò fuori una vecchia pergamena.
“Quello è…”
“Il mito” annuì Chirone raggiungendola “Hermes è sempre stato un ragazzino vivace, a quei tempi era ancora molto giovane. Fu lui a far stilare la vera storia di Niobe e Latona, diceva di averlo fatto per deridere la debolezza di Apollo, ma la verità è che si è sempre dimostrato particolarmente legato al fratello maggiore da quando è riuscito a sfuggirgli all’alba del suo secondo giorno di vita, e gli dispiaceva vederlo tanto in pena. Ma questo non ha importanza”
Le passò il rotolo ingiallito con estrema cura, e Ophelia poté sentire la carta ruvida sfiorarle le dita, talmente fragile da poterla spezzare con un soffio.
“So che la terrai al sicuro” mormorò Chirone, non c’era tentennamento nel suo sguardo stavolta “Fanne buon uso”
Abbassò lo sguardo sulla pergamena che ora stringeva tra le mani, era rilegata da un nastro dorato e se la avvicinava al volto, era sicura di poter sentire il profumo di alloro e acqua di mare.
Slegò il piccolo nodo che la teneva racchiusa e srotolò finalmente la pergamena lasciando che i suoi occhi ambrati scorressero sull’inchiostro fino e spigoloso della storia, e dentro di sé si chiese se fosse stato Hermes stesso a scrivere e quella fosse la sua grafia o avesse delegato il compito a qualcun altro.
Sprofondò nella lettura come se fosse un romanzo fantasy pieno di draghi e foreste, e si sentì stringere il petto mentre Apollo compiva il massacro ordito dalla madre e i mortali cadevano uno ad uno sotto le sue frecce.

[…] L’ultimo, Ilioneo, un bambino piccolo, vedendo a uno a uno cadere i fratelli in un bagno di sangue che aveva reso rosso il prima lucente pavimento della palestra, piangendo levò le piccole mani al cielo, e sillabando una preghiera con le poche parole che la sua lingua infantile conosceva disse tra i singhiozzi: «O dei, tutti» ignaro che non tutti sono da supplicare, «pietà!»
A quella preghiera del bambino, rivolta anche a lui, Apollo si commosse, il suo occhio divenne lucido di pianto, inutilmente cercò di trattenere la freccia che era già partita, solo riuscì con un fulmineo movimento dell’arco a deviarne leggermente la mira. E infatti la freccia non colpì il cuore del bambino dove inizialmente era stata orientata, ma lo sfiorò di lato, sfortunatamente quanto bastava a spegnere il suo respiro, mentre Apollo abbassava l’arco senza comprendere perché la freccia fosse stata più rapida del suo volere divino, e aveva gli occhi lucidi di pianto vedendo le mani del bambino ancora sollevate in preghiera, ma a terra, nel sangue che usciva a fiotti dal suo cuore. […]

Quando, qualche minuto più tardi, alzò gli occhi spezzati dal mito, Chirone si stava già avviando verso la porta, impaziente di ritornare alla sua forma equina.
Arrotolò nuovamente la pergamena nel suo laccio di fili dorati e se la infilò nella larga borsa color felce. Quel grido al cuore non aveva ancora smesso di echeggiare tra le sue costole come a volerle frantumare, e il peso di quella storia grava sulla sua spalla come piombo sciolto nel vento.
Ma Ophelia sapeva che, per quanto infida e spettrale fosse, la conoscenza era l’unico modo che avevano per poter comprendere.

Una guerra era alle porte, e loro non sapevano nemmeno con quali armi combatterla.
 
 

 
 

***  ***
 
Ecco il primo capitolo ù.ù

È incentrato interamente sui buoni, ma già dal prossimo avremo le telecamere puntate sia sul Campo Giove che sui Villains, che da quanto ho potuto notare hanno già conquistato buona parte del pubblico :3
Quando ho cercato il mito di Niobe su internet ho trovato solo versioni in cui Apollo non provava il minimo rimorso per aver ucciso tutti quegli innocenti, so la parte che avete letto proviene da un libro che ho sullo scaffale.
Molti dei personaggi sono solo accennati ma avranno modo di ritagliarsi un angolino nelle prossime puntate ù.ù
Io ho già in mente delle scene malate fantastiche! per i nostri antagonisti … a volte riesco a stupire persino me stessa è.è
No, okay forse Gotham e il Trono di Spade mi stanno influenzando un po’ troppo x.X

Grazie a chi ha recensito lo scorso capitolo e a chi recensirà questo *kiss*
ci risentiamo alla prossima!
Pathetic

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Capitolo 4
*** Il Paese dei Balocchi ***


Il Paese dei Balocchi
>

   
“Hanno combattuto bene” esclamò con voce profonda il pretore, sedendosi nuovamente sul suo scranno. I ludi di guerra erano nuovamente giunti al termine e molti dei legionari si rilassavano con un caldo bagno alle terme o con un sano riposo. Il cielo si era già tinto di rosso, tanto che le stradine ingombre di sassi si svuotavano con il ticchettare delle lancette.
“Sì” annuì una giovane dai capelli ramati “Ma alcuni si sono distinti più di altri”
Aveva due occhi del colore dell’ambra e un paio di orecchie piccole e asimmetriche che le davano l’aria di un folletto, ma in quelle iridi giovani e vispe spiccava un che di strategico e pericoloso. Non a caso era diventata pretore dopo solo un anno di addestramento militare al Campo Giove, e i suoi compagni della prima coorte avevano capito sin da subito di che pasta fosse fatta.
Karim osservò la sua compagna con un’occhiata silenziosa, Alyx poteva anche sembrare una docile ancella a prima vista, ma lui sapeva che dietro il volto delicato e il fisico snello si nascondesse una predatrice.
“Non lo metto in dubbio, ma dobbiamo tener conto delle singole capacità di ogni nostro legionario”
“Le uniche capacità che lodo, mio fido collega” scoccò la figlia di Mitra “Sono le prestazioni fisiche e il coraggio”
Karim non disse nulla. Il loro era un rapporto basato sul reciproco bisogno di compensarsi per guidare la legione, non si trovavano d’accordo su numerose faccende, prima fra tutte quella dei poteri. Alyx, così come la maggior parte dei legionari della prima coorte, denigrava quei semidei che possedevano abilità non comuni incoraggiando la forza e la velocità dei suoi compagni. Aveva sempre avuto una mentalità piuttosto chiusa a riguardo, lodava i guerrieri che dimostravano i propri talenti nell’arte della guerra e li prediligeva, screditando la parte restante di legionari.
Karim, d’altra parte, cercava di contenere le proprie simpatie e frenare gli impulsi della ragazza, che troppo spesso avrebbero potuto destabilizzare l’equilibrio del Campo.
Si sistemò meglio sulla sedia, davanti a loro il tavolo rimaneva immobile, sommerso di pergamene e pugnali di oro imperiale. Poteva scorgere una cartina del Senato in mezzo a tutti quei fogli.
Era passata una settimana da quando l’augure, un certo Garrett Prewett, aveva letto un presagio oscuro nelle viscere di un coniglietto immacolato. Era corso da loro ad avvertirli, ovviamente, con ancora la toga tangerina indosso e gli occhi blu velati da un che di mistico e profetico. Le sue parole lo avevano scosso, tre parole unite insieme con un grave avvertimento, un presagio che aveva fatto impallidire diversi senatori.
“Qualcuno è tornato” aveva detto Garrett con ancora il fiatone che rincorreva la sua voce.
Quello che poi Karim aveva udito era ben impresso nella sua memoria, ogni singola pausa o virgola si era incisa nella sua mente come un mosaico e più i giorni passavano più ritornava a ragionarci e ragionarci.
“Ci sono notizie dall’augure?” domandò all’improvviso, riemergendo dai propri pensieri. Sperò per una volta di avere una risposta positiva, un qualcosa che concretizzasse i suoi timori e li rendesse reali, così da poterli affrontare e sconfiggere.
Ma Alyx scosse la testa, abbandonando lo sguardo altero che aveva mantenuto per tutto il tempo. Garrett si era ripromesso di consultare altri pupazzetti ma non era venuto a conoscenza di nient’altro, il che stava cominciando a spazientire il pretore.
“Nulla di nuovo, le uniche cose che sappiamo sono quelle che ci ha riferito la scorsa volta” l’espressione contratta che le aveva scurito il volto fino a quel momento era scomparsa, sostituita da un tono preoccupato e allarmante.
Perché sì, Alyx Frightwar preoccupata avrebbe fatto impallidire Letus stesso.
Stava per aggiungere qualcosa, ma dei passi fuori dalla tenda catturarono la sua attenzione. Sentirono la ghiaia del terreno fremere sotto una serie ritmata di calpestii, il fruscio dei tendaggi color amaranto e un giovine in armatura leggera che si faceva largo fino a loro. Si tolse l’elmo e un groviglio di ciocche ricce e scure ricaddero pesantemente sulla fronte appiccicosa, aveva due occhi celesti e astuti che richiamavano la scaltrezza di Mercurio e un paio di calzari che gli delineavano le caviglie. Un fisico invidiabile, così come ogni atleta del Campo, e una carnagione appena olivastra che risaltava lo sguardo chiaro e sottile.
“È arrivato un messaggio dal Campo Mezzosangue” dichiarò il legionario porgendo una pergamena intrecciata di fili d’argento. Mantenne un portamento eretto sinché Alyx non gli fece segno di congedarsi, mentre Karim studiava le parole che vi erano incise e l’inchiostro nero che bagnava la carta.
“È di Chirone” esclamò dopo diversi minuti di silenzio, alzando finalmente gli occhi dal foglio “L’Oracolo ha parlato”
Le porse la pergamena, così che potesse constatare lei stessa la profezia. La prima cosa che Karim aveva pensato leggendola era che somigliava molto ad una premonizione più specifica di quello a cui Garrett aveva già potuto risalire dagli animali di pezza che aveva sacrificato.
“Un bambino che vuole vendetta” sussurrò Alyx, meditabonda, tentando di cogliere ogni particolare si celasse dietro quelle parole.
“L’augure ha parlato dei gemelli divini se non ricordo male” esclamò Karim, ridestando la compagna.
“Sì, anche la profezia menziona il sole e la luna” annuì la ragazza scostandosi una ciocca di frangetta dagli occhi.
“Una guerra che si chiuderà nel sangue” borbottò il figlio di Bellona, erano troppi anni che gli dei non si facevano sentire, o meglio, che non li mettevano di fronte a battaglie che avrebbero potuto perdere. E ora che era giunto il momento, si trovavano tra le mani una profezia su un Olimpo in rovina e un maledetto bambino che meditava di raderlo al suolo.
“Non ci sono molti indizi stavolta” alzò un sopracciglio Alyx voltandosi verso l’altro pretore “Nessun accenno a quanti semidei partiranno per l’impresa, nessuna meta da raggiungere, non dice niente”
Avrebbe voluto dissentire, ma riprendendo sotto gli occhi la profezia e studiandola con più attenzione, si rese conto che, effettivamente, sotto quel punto di vista non li aiutava granché.
“Dunque?” domandò nuovamente fissandolo con curiosa insistenza.
Karim sospirò “Dunque niente, aspetteremo. Se non è l’Oracolo a darci qualche indizio, lo faranno gli dei a tempo debito.”
Conosceva l’impulsività della figlia di Mitra, sapeva che si stava trattenendo dal sbraitargli contro, ma avevano capito entrambi di non poter agire senza una ferrea guida e per quello che sapevano adesso, sarebbe stata una missione buttata al vento.
“Non amo aspettare” bofonchiò la ragazza alzandosi dalla sedia a facendo svolazzare appena il mantello di un rosso vermiglio. Raggiunse il tavolo scuro e vi posò sopra il messaggio di Chirone, insieme alle mille altre carte ricoperte di inchiostro e ad un singolo calamaio su cui era posata una penna d’oca di un viola scuro e antico. Un’aquila di bronzo era ricamata sullo stemma appena sopra l’impugnatura e la punta da cui sgorgavano lacrime nere era infida e sottile come un fioretto.
Lanciò un ultimo sguardo al ragazzo prima di voltarsi e varcare la soglia della grande tenda.
Karim non se la prese, sprofondando maggiormente sulla sedia con la mente ancora impressa nelle parole che non abbandonavano più la sua testa. Erano anni che nessuna profezia si affacciava alla loro realtà e sinceramente non aveva nemmeno poi così tanta voglia di gettarsi in un’impresa a rotta di collo né mettere a rischio la vita dei suoi compagni.
Era sicuro di una cosa, però, qualunque fosse la minaccia era troppo presto per affrontarla, e non avevano modo di prevenirla, perciò avrebbero fatto meglio ad aspettare e attendere che il pericolo si mostrasse più chiaro e raggiungibile.
Si grattò un orecchio, forse dormendo avrebbero potuto scoprirne di più. Fissò le tende scure prima di alzarsi, doveva parlarne con Garrett.
 
*** ***
 
Avevano scelto proprio un bel posticino per passare la notte, o almeno era quello che continuava a ripetersi Hawley mentre Heather spostava i banchi in disuso, rovesciando diverse pile di fogli scarabocchiati e un paio di matite mangiucchiate a terra. Aveva appena finito di abbassare le tapparelle vecchie e malandate delle finestre, lasciando filtrare quel poco di luce del cielo al tramonto. Era come se il sole si fosse lasciato alle spalle una scia di ambre e rubini e le stelle vi si riflettessero contro: uno spettacolo.
Avevano rubato e trasportato in quell’aula dei materassini color cobalto perché al moccioso non piaceva l’odore della. Era una scuola abbandonata già da diversi anni, anche se molti dei materiali si trovavano ancora sugli scaffali e alla lavagna c’erano diversi gessi spezzettati e pronti all’uso.
Masticò sonoramente la gomma che aveva in bocca perlustrando l’aula con gli occhi azzurri; non che gli importasse, ma qualche banco si era rovesciato e dei biglietti stropicciati e intrisi di inchiostro facevano bella mostra di sé sulle piastrelle a scacchiera.
“Qualcuno non ha studiato” sghignazzò tra sé e sé mentre calciava un temperino di plastica arancione che gli era finito accanto alle consumate scarpe da ginnastica nere, su cui spiccava ancora il simbolo delle Adidas.
Si sgranchì le braccia nude con movimenti circolari delle spalle, una di quelle infinite stronzate che t’insegnano a scuola, poco prima di spaccare finalmente qualche faccia a dodgeball.
“Come mai le hai strappate?” domandò con un movimento del mento Heather Nightmare indicando la stoffa rotta da cui partivano singoli filamenti che gli graffiavano i bicipiti.
Alzò le spalle “Le maniche sono da sfigati” e tirò fuori una sigaretta dalla tasca dei jeans.
“Fumi? Devi essere proprio un duro” esclamò la ragazza con un’espressione vagamente ironica, mentre l’altro faceva per accenderla e tirare un tiro.
“Abbastanza per rovinarti tutto il cerume che hai addosso” borbottò lui a mezza bocca, non si preoccupò nemmeno di aprire la finestra. Se qualcuno avesse avuto da lamentarsi, poteva muovere il culo e aprirsela da solo.
Heather non fece una piega e si andò a sedere dietro la cattedra con ancora un sorrisetto di sfida appoggiato alle labbra, accavallò le gambe e si mise comoda sulla sedia. L’orologio appeso alla parete doveva essere rotto perché la lancetta continuava a ticchettare in avanti e indietro in modo continuo, eterno ed estenuante.
“Quanto cazzo ci mettono?” non era conosciuto per essere un tipo paziente, e questo Heather lo sapeva, ma non era passata più di un’ora e mezza da quando gli altri si erano messi in viaggio. Probabilmente non sarebbero tornati prima della mattina o il pomeriggio successivo.
“Ritorneranno” alzò le spalle la figlia di Eros, mentre la vecchia maniglia della porta si abbassava con un colpo deciso e un ciuffo di capelli castani faceva il suo ingresso nell’aula dalle pareti color piombo.
Tra le braccia teneva qualche paia di sacchetti di patatine e un paio di merendine della macchinetta infondo al corridoio. Heather notò che aveva qualche leggero taglietto superficiale sulla mano destra e le nocche erano arrossate.
“Quello schifo di macchina non andava” sputò Gabriel col suo solito tono lagnoso, appoggiando le bibite su uno dei banchi liberi. Marshall lanciò uno sguardo agli altri due come a dire Che volete che faccia? E lasciò cadere il cibo sullo stesso banco di legno verniciato.
“Dovevi metterci le monetine” gli suggerì Heather alzandosi da dietro la cattedra e andando a raggiungere uno dei pacchettini di Chips, insieme a una Gazzosa.
“Questa è mia” mugugnò il figlio di Alalcomenea quando Marshall fece per prendere una lattina di Red Bull, facendo alzare un sopracciglio al ragazzo più grande.
Hawley sbuffò “Ti sei grattato le palle con un cactus, per caso? Sono tutte uguali” e afferrò la suddetta lattina, l’aprì e prese una grossa sorsata.
“Ti ho detto che è la mia, cazzo” strepitò l’altro increspando le labbra, e Hawley avrebbe tanto voluto sbattere quel figlio di papà sul pavimento dell’aula e sistemargli quegli zigomi.
“Ehi” s’intromise Marshall, mentre la figlia di Eros si godeva lo spettacolo con un sorrisetto “Ce n’è abbastanza per tutti, e vedete di non finire tutto, non ho voglia di andare a comprare qualcosa in negozio”
“E chi ha detto che dobbiamo pagare?” sghignazzò Heather, ignorando la pigrizia del figlio di Afrodite. Si aggiustò il colletto della camicia in jeans sbiadita che indossava e un singolo raggio di sole illuminò l’anello d’ametista che portava al dito, prima di svanire dietro le finestre e tramontare sotto il cielo.
“Qualcuno ha qualche idea sul tipo che Galem è andato a prendere?” buttò lì Marshall stappando una Pepsi, aveva proprio voglia di rinfrescarsi la gola con qualcosa di dolce e frizzante.
Si passò una mano tra i capelli, mentre le sue pupille scure incontravano quelle dei compagni, in cerca di risposte. Nessuno di loro proferì parola, la maggior parte scosse la testa o ignorò completamente la domanda, continuando a sgranocchiare la sua merendina croccante ai cereali.
“Non peggio di lui” mimò con le labbra Hawley facendo un segno in direzione di Gabriel, le cui occhiaie sotto gli occhi apparivano sempre più violacee e scontrose.
Si rilassò un pochino, era inutile porsi domande assurde, poi non era neanche detto che quel tipo accettasse –e in quel caso dubitava che Galem lo avrebbe lasciato tornare per la sua strada. L’unica cosa che potevano fare era cercare di alleggerirsi la serata, magari con un qualche film, e tentare di dormire un po’.
C’era un vecchio computer impolverato all’angolo della stanza, su un tavolo poco più piccolo della cattedra, forse avrebbe potuto vedere se funzionava ancora. Sulla parete, infatti, era appesa una grande LIM e l’apparecchio attaccato al soffitto non sembrava in cattive condizioni. Era quasi sicuro che quel figlio di buona donna tenesse un portatile dentro lo zaino, e magari qualche chiavetta usb con qualche merdoso film nerd. Guardandolo almeno, aveva la faccia di uno capace di stare sui videogiochi per ore.
“Hai qualcosa per il computer?” domandò tranquillamente, indicando con la testa la LIM spenta.
Gabriel sollevò gli occhi dal cibo solo per posarli prima sulla lavagna interattiva e poi sullo zaino grigio che aveva lasciato sul pavimento, vicino alla parete.
Marshal sorrise.
Nerd.


*** ***


Lavi si svegliò di soprassalto con ancora il cuore in tumulto e il fiato corto, quello che aveva visto non gli era piaciuto proprio per niente, soprattutto per la sua totale inutilità. C’era proprio bisogno di sognare sua madre che gli intimava di finire i compiti minacciandolo di incastrargli la testa nell’arpa?
Lavi era sicuro di no.
Sogno di merda. Borbottò tornando ad adagiarsi tra le coperte, avrebbe voluto ributtarsi nel mondo di suo padre, ma qualcuno aprì la porta della cabina e il cielo purpureo gli aprì le palpebre a forza.
“Ti ho svegliato?” domandò una voce soave e leggera, mentre un ragazzino con un buffo berretto plumbeo faceva il suo ingresso con passo felpato.
“No” mugugnò il figlio di Hypnos, tirandosi su coi gomiti contro il suo volere e puntando lo sguardo su Noah, un vispo quindicenne con ancora la frangetta di cioccolato a sfiorargli la fronte pallida.
“Mi hanno mandato a portarti questa” bisbigliò il figlio di Selene mostrandogli la balestra. Lavi annuì e gli indicò dove poggiarla, poi si tirò su a sedere e pregò Zeus affinché facesse comparire una tazza di latte, cosa che ovviamente non avvenne.
Noah, dal canto suo, cercò di sistemare l’arma in modo tale che non cadesse e appoggiò la faretra con le frecce sulle assi del pavimento, rialzandosi. Si era mostrato ben lieto di riportargli la balestra quando i figli di Apollo gliel’avevano chiesto, vedendolo passare. Stava giusto cercando qualcosa da fare per intrattenersi, prima di passare da Agatha per quella cosa.
“Ecco fatto” annunciò tutto contento voltandosi verso il ragazzo dai capelli rossi con un sorrisone a illuminargli la faccia “Hai bisogno di qualcos’altro?”
Ci mise un po’ Lavi a metabolizzare la domanda e scuotere la testa in segno di diniego, ancora assorto dal suo incubo e con la mente impastata nelle parole di sua madre e le equazioni di matematica.
Sbatté le palpebre qualche volta e vide Noah inghiottire, dondolarsi sui suoi piedi e infine saltare con le sue converse e uscire dalla Cabina, il tutto con un disturbante, inspiegabile e sincero sorriso.
Scivolò per i gradini e quasi cadde tra l’erba verde del giardino, sotto i ridacchiamenti di qualche figlia di Demetra, ma vide bene di rialzarsi celere dal suolo e proseguire per il suo cammino verso la casa numero undici, dove era sicuro di trovare Agatha Collins e tutti i suoi progetti.
Quasi corse quando vide il suo fratellastro uscire dalla Cabina, probabilmente esortato da Agatha stessa, e dirigersi verso l’arena con la spada legata in vita.
“Agatha, scelgo te!” gridò balzando in Cabina e facendo fare un salto a Balthazar Greyhole, figlio di Hermes di quattordici anni che stava cercando di togliere l’etichetta ad un cd che aveva rubato poco prima di venire al Campo per l’estate.
“Oh, sei tu” si consolò il riccio guardando il ragazzo muoversi per la stanza in cerca di qualcuno.
“È in bagno, torna tra poco” alzò le spalle il giovane ladruncolo, gettando la carta appiccicosa sul pavimento ingombro di sacchi a pelo. C’erano sempre tanti ospiti nella Cabina undici, più dei letti disponibili a dire il vero.
“Okay” si lasciò cadere sul letto, dondolando le gambe e fissando Balt mentre sistemava i bagagli. Stava per offrirsi di aiutarlo a disfarli, ma un movimento repentino sulla soglia della porta lo avvisò che Agatha era arrivata.
“Fuori, abbiamo da fare!” gridò con trasporto la figlia di Hermes, facendo saltare per la seconda volta il suo fratellastro, e spingendolo fuori senza nemmeno aspettare una protesta. Chiuse la porta e si girò verso il suo amico, mentre Noah si era tolto le scarpe e giaceva a gambe incrociate sul lenzuolo verde mare della ragazza.
“Progetto Cupido in azione” trillò, precipitandosi a tirare fuori un paio di quadernetti a scacchi e righe colorate da sotto il letto e un astuccio da uno dei cassetti dei suoi fratellastri. Si buttò sul materasso, esattamente di fronte al figlio di Selene, e allungò una mano nella fessura accanto alla parete per riesumare una vecchia penna a sfera blu.
“Abbiamo molto di cui discutere” annuì con solennità, prima di aprire uno dei quaderni a quadretti e rivelare infiniti e minuscoli schemi pieni di frecce, nomi e didascalie scarabocchiate con innumerevoli colori e pennarelli. Non c’erano date, perciò era impossibile ricavare quando aveva avuto inizio quel lavoro, ma dal grande numero di pagine inchiostrate si poteva dedurre che era durato almeno qualche settimana –dell’estate prima.
“Hai notato qualcosa?” domandò il figlio di Selene dando un’occhiata agli schemi dell’amica, Agatha annuì lentamente, pensierosa, perlustrando le scritte con gli occhi castani. Sembrava molto concentrata, più del solito ad essere sinceri, e le sue sopracciglia ballavano in un’espressione avida di ricerca.
“Ah ah! Austin” sillabò la giovane sedicenne puntando il nome verde muschio con l’indice, lo smalto sull’unghia si era tutto consumato e sembrava più di un pallido salvia slavato “Sono sicura che questa sarà l’estate giusta!”
Accanto al nome del ragazzo, cerchiato con un grosso pennarello glitterato, partiva una lunga freccia che andava a congiungersi col nome di un altro mezzosangue del Campo, e sotto vi erano un mucchio di disegnetti ridicoli e poco convincenti –almeno per una persona normale.
“Due dracme che ce la fa” scommise il ragazzo fissando Agatha con uno sguardo sbrilluccicante.
L’altra fece una smorfia “L’ho già detto io che andrà bene stavolta”
“Okay, allora niente scommessa” non gli piaceva litigare con lei, tutti i figli di Hermes erano tremendamente dispettosi e la possibilità di ritrovarsi un rospo tra le lenzuola non lo attirava molto.
“È con lui?” domandò Agatha, dimenticandosi il resto “Vero?”
Noah annuì, essere il Capo Cabina della sua casa era molto utile per quella faccenda, soprattutto quando c’erano di mezzo le riunioni con Chirone.
“Dovevi vederlo” sghignazzò “Era completamente fuori, come un pallone”
Agatha non stentò a crederci, conosceva bene suo fratello, se lo sarebbe aspettato.
“E Clyde invece?” esclamò all’improvviso il quindicenne “Mi sembrava non stesse poi malaccio con la ragazza di Afrodite, o sbaglio?”
“Oh no, Ester non fa per lui. Non ce li vedo insieme, non so, non mi ispirano”
Si portò un paio di dita sul mento e per un attimo assomigliò a quella statua del museo, quella che Noah aveva intravisto durante una gita scolastica.
Non era una brutta giornata per rinchiudersi in casa ad architettare tutta quella roba, il sole doveva essere tramontato già da qualche minuto e la cena doveva essere lì lì per essere servita, il che li obbligava a darsi una mossa.
“I tuoi fratelli saranno qui a momenti” mugugnò il figlio di Selene lanciando un’occhiata alla porta.
Lei alzò le spalle “Li chiudo fuori”
Non riuscì a trattenere una risatina, contraddirla era inutile ma pensare a un gruppo di adolescenti dai folti capelli scuri e gli occhi più languidi del mare in processione sugli scalini della Cabina numero undici, era un pensiero troppo divertente.
“Possiamo vederci domani” ragionò, cercando di riprendersi le scarpe che aveva lasciato cadere sgraziatamente sul pavimento.
“Cos’è, hai sonno?” lo prese in giro, mentre l’altro alzava gli occhi al cielo.
“Lo sai che io non dormo”
“Mai?”
Noah si ritrovò a dondolare un po’ la testa di lato, con i loro occhi che si scontravano come cielo e terra “Quasi”

*** ***


Lilith odiava i fienili, non era mai stata attratta dalla vita di campagna e benché meno dalla puzza di capra e concime che aleggiava nell’aria.
Avevano superato buona parte della periferia per raggiungere quell’area e camminato per lunghe stradine in pianura, con le scarpe che pestavano i sassolini lungo il sentiero e un paio di animaletti che attraversavano la strada come lepri.
Ogni tanto doveva voltare il capo all’indietro per vedere che fine avesse fatto Oralee, che spesso si chinava per terra con quella sua bambola di porcellana dai boccoli castani e la veste in pizzo, rosa conchiglia. Si era sempre chiesta perché le bambole avessero quell’espressione tanto triste e immutabile sul volto candido e privo di imperfezioni.
Ralee aveva solo un anno in meno di lei, ma era molto più bassa e aveva uno sguardo perso, incantato. Indossava sempre vestitini leggeri, da bambola, e aveva quei capelli asimettrici e tutti mezzi colorati che certo non mancavano di dare nell’occhio mentre camminava per il marciapiede della città o si fermava al semaforo con quei suoi piccoli stivaletti.
Ora era china sul sentiero con in mano un mostriciattolo verdognolo che si divincolava nella sua presa. Alzò i grandi occhi allampanati su Lilith, che cercò di non schifarsi troppo davanti alla lucertola che tentava invano di darsi alla fuga.
“A Hawley piacerà” esclamò Oralee con un ammiccamento, oh era sicura che gli sarebbe piaciuto come regalo, magari avrebbe anche potuto strappargli un sorriso, o qualcosa del genere.
La bionda alzò un sopracciglio “E hai intenzione di tenerla in mano per tutto il viaggio?”
Parve considerare per un attimo la possibilità, ma dei passi svelti le si avvicinarono di fretta, oscurando quel poco di sole che ancora non si era deciso a tramontare.
“Mettila qui” le passò un barattolo di vetro e un tappo, aspettò che la ragazza vi inserisse la lucertola e si rimise il barattolo sotto il cappotto nero. Chiunque si sarebbe stranito a vedere qualcuno coperto in quel modo sulla soglia dell’estate, ma era stata una settimana particolarmente turbolenta e il vento tirava forte anche in quel momento.
Lilith sospirò, cominciava a dubitare della fama del giovane figlio di Mania. Certo, delle volte riusciva a scorgere un bagliore maligno nel suo sguardo, ma finora non aveva ancora potuto constatare quanto quel ragazzo sapesse essere cattivo. Anzi, più volte aveva cercato di soddisfare i desideri di Oralee o quelli di Gabriel, un altro ragazzino troppo cresciuto ma ancora in grado di frignare quanto un moccioso.
Sospettava che fosse solo una scenata, ovviamente, una sorta di ‘dai per avere’ o qualcosa del genere. Quei mossi capelli di cioccolato fuso e le pallidi iridi perlate, unite al fatto che fosse di qualche centimetro più basso di lei, lo facevano sembrare un lupetto affamato, complice la lunghezza dei canini e il sorriso largo e folle.
“Dobbiamo camminare fino a quel capanno” li avvisò, esortando Oralee a riprendere il cammino insieme a loro. Avevano promesso al bambino di riuscire a raccogliere altri seguaci mentre era in viaggio verso il Campo Mezzosangue, e non volevano certo mancare di parola.
“Chi dobbiamo prendere?” domandò Lilith fissando il volto olivastro di Galem, il cui sguardo vagava già oltre le mura del fienile a rincorrere il loro bersaglio.
“Un vecchio amico”
Non ci misero poi molto a raggiungere la fattoria, Lilith poteva notare diverse capre gironzolare per il prato senza una guida, la porta di casa era aperta e una fievole luce penetrava dagli spifferi delle finestre socchiuse.
“C’è qualcuno?” esclamò a gran voce, cercando di cogliere ogni minimo movimento. Una gallina le tagliò la strada da sinistra e continuò a zampettare per il giardino, seguita da un gallo altero e uno stuolo di buffi pulcini giallo oro.
Oralee fece per prenderne uno, ma Lilith le fermò la mano. Le piacevano i pulcini, non li avrebbe donati a Hawley.
Galem raggiunse a piccoli passi la soglia dell’entrata e bussò due volte con le nocche, in un’inutile attesa che fece sbuffare la figlia di Melione.
“Venidikt?” proclamò il giovane romano avanzando per la piccola cucina “Un uccellino mi ha detto che eri qui”
A poco a poco entrarono tutti, guardandosi attorno. Lilith sapeva che ci fosse qualcuno, primo perché quel bambino  non sbagliava mai, e secondo perché se lo sentiva dentro.
Era una bella casetta: povera, con le piastrelle piccole e un tavolo in legno di ciliegio su cui erano ancora posati dei bicchieri di vetro, sui due mobili visibili Lilith poteva notare dei centrini fatti a mano e un vaso pieno di tulipani. Non c’era la lavastoviglie e una pentola giaceva ancora incrostata sul fondo del lavello, dal rubinetto gocciolava dell’acqua che risuonava immobile nella stanza.
A parte i rumori che provenivano dagli animali di fuori, la casa sembrava deserta, se non fosse stato per un singolo scricchiolio che proveniva dalla camera accanto. Galem assottigliò la vista, ma non si mosse continuando a fissare l’apertura che dava sull’altra stanza. I cardini della porta sembravano spezzati, come se fosse stata tolta con la forza di un calcio e lo stipite era rivestito di crepe lunghe e sottili.
“Siamo qui per parlare” promosse il figlio di Mania, ma Lilith era sicura che fosse pronto a tirare fuori il coltello da un momento all’altro, così avvicinò la mano alla collana, in guardia.
Oralee stava dietro di loro con la spada ancora dentro al fodero, sembrava tranquilla.
Dopo lunghi, brevi ed estenuanti minuti di silenzio e tensione, una figura alta e ben piazzata comparve da dietro il muro. Aveva una statura talmente elevata che dovette abbassare la testa per passare sotto l’arcata di un metro e novanta, i muscoli ben in vista sotto la maglia color prugna e i jeans sfilacciati che gli delineavano le gambe toniche. Occhi avidi del colore del crepuscolo, ciglia scure e un volto pallido distorto in un’espressione curiosa, i capelli erano biondi e ingellati, tirati all’indietro in una capigliatura più nobile, un grosso naso spellato sopra le morbide labbra straniere. Sì, perché Lilith riteneva che quei lineamenti fossero troppo slavi per appartenere alla loro terra.
La superava di molto, a dire il vero sovrastava ognuno di loro di almeno una manciata di centimetri. Un grosso bestione, ecco la prima cosa che aveva pensato quando se l’era trovato davanti. Avrebbe fatto di certo la sua figura tra le loro schiere, questo era un dato di fatto.
“Sono Galem” si presentò il ragazzo, senza distogliere lo sguardo dall’omone che aveva davanti. Cercava di mantenere quell’aria accogliente, ma Lilith riusciva a scorgere un accenno di ansia sul suo viso, come se stesse misurando ogni parola e si fosse ripetuto quel discorso nella mente per tutto il viaggio.
Il ragazzo inclinò la testa di lato, squadrandolo meglio.
“Ci siamo visti al Campo, sai? Forse non ti ricordi di me. Io e alcuni dei miei compagni romani siamo venuti da voi per qualche giorno; eravamo in missione e abbiamo trovato ospitalità da voi”
Dalla sua espressione, la figlia di Melione era sicura che non si ricordasse di lui, anche se Lilith non sapeva dirsi se era una cosa bella o brutta.
“No? Fa niente” scrollò le spalle il figlio di Mania “Siamo qui per affari”
Ancora una volta, gli occhi pallidi di Galem scintillarono di quella voglia oscura “Se puoi mettere giù il coltello da macellaio”
Le orecchie di Lilith si drizzarono a quell’affermazione. Osservò meglio il profilo robusto del ragazzo che avevano davanti: teneva una sorta di pastrano piegato sul braccio. Lo vide sorridere lievemente e appoggiare il giaccone sullo schienale di una sedia della cucina, rivelando una grossa lama in ferro e bronzo celeste.
Inghiottì a vuoto.
“È un machete” lo corresse Venidikt con un forte accento russo, che svincolò alcuni accenti e ne inclinò altri.
Galem sorrise e si sedette su un’altra delle sedie disponibili, mentre gli altri lo imitarono in silenzio. Lilith avrebbe voluto appoggiare le mani sul tavolo, ma si accorse che Galem le teneva ben in grembo, e lanciò un’ultima occhiata al grosso coltello posato sulla superficie della tavola.
“Mi piace qui” mormorò il Romano “Un posto tranquillo, pieni di pulci e letame da concimare”
Venidikt poté percepire del sarcasmo nella sua voce, eppure Galem era quasi attratto dalla possibilità di abbandonare i clacson della strada e lasciarsi alle spalle vicini seccanti e smog da respirare.
C’era una mosca che continuava a sbattere contro il vetro chiuso della finestra.
Stock.
Stock.
Stock.
Un amico ci ha suggerito che tu sei la persona giusta per un certo lavoro” cominciò “Ovviamente, se non ti interessa togliamo le tende e ti lasciamo alla tua campagna”
Se avesse alzato le mani in gesto di resa, sarebbe stato più teatrale, ma non si fidava con quell’arnese a pochi centimetri dal corpo.
“Vedi, sarò conciso: ci sarà una guerra, una grande guerra e abbiamo bisogno di amici, persone affidabili, capisci? Ora, io so cosa vuoi tu, so cosa ti piace e posso dartelo” aspettò qualche secondo prima di continuare, si umettò le labbra e cercò di essere il più invitante possibile “La vedi questa ragazza qui? Il suo nome è Oralee, credo che andreste d’accordo. Vedi, quello che voi fate potrebbe incastrarsi alla perfezione con quello che io faccio.”
Forse era un po’ troppo generico, si stava tenendo sul limitare del bosco senza mai scontrarsi con gli alberi, ma era uno dei suoi maggiori pregi.
Lo vide particolarmente interessato stavolta, aveva la sua più completa attenzione.
Prese un lungo respiro “Non abbiamo alcuna morale, non seguiamo regole scritte da altri; noi accettiamo gli altri, li accogliamo, promoviamo ciò che li fa stare bene. Perché se una cosa ti piace, non può essere poi così sbagliata, no?”
Lilith era troppo astuta per non capire il gioco a cui stava giocando Galem. Era un bravo oratore, non c’erano dubbi, ma il concetto base da cui era partito e dal quale aveva tirato fuori tutte quelle parole era uno: la verità.
Sì, perché Galem in quel momento era sincero, talmente sincero che le frasi scorrevano una dopo l’altra come piastrine, gli occhi rimanevano vigili a tenere sotto controllo il machete e l’espressione di Venidikt aveva cominciato a distorcersi in un sorriso appena accennato.
Se non fosse stato per il grosso coltello da macellaio che si portava appresso, Lilith non l’avrebbe etichettato come potenzialmente pericoloso. Aveva una buona stazza ed era probabilmente in grado di sbatterti al muro e tenerti fermo mentre ti strangolava, ma non aveva quell’aria da cattivo ragazzo. Anzi, sembrava proprio un sempliciotto da due soldi, ma Lilith dubitava che Ilioneo li avrebbe condotti da lui se così fosse stato.
“Unisciti a questa spedizione e prometto che saprò divertirti” convenne Galem con un sorriso largo, anche gli occhi erano più pallidi e sgranati stavolta, e la voce si era fatta più lenta e strascicante, un bisbiglio quasi “A tutti noi piace giocare, è un po’ il nostro Paese dei Balocchi, sai? Sarà divertente”
“Balocchi?” ripeté Venidikt sollevando un sopracciglio “Che cos’è un balocco?”
“U-un giocattolo” si spiegò meglio Lilith, dal tono di Galem aveva potuto comprendere quanto avessero bisogno di lui. Non sapeva ancora quali fossero le sue doti o se si sarebbe dimostrato un ottimo acquisto, ma dovevano almeno provarci. Al massimo, se ne sarebbero sbarazzarti come si fa con un bambolotto rotto.
“Si gioca da voi?” chiese il russo con un sorriso largo. Non sapeva se fosse per i lineamenti duri, le fattezze da sovietico, la stazza da energumeno o semplicemente perché teneva un machete come un bambino tiene un lecca-lecca, ma a Lilith quel sorriso non prometteva nulla di buono.
“Sì” esclamò Galem, convincente, le sue sopracciglia danzavano sui suoi occhi chiari come in ipnosi, tentando in qualche modo di chiudere quella farsa e farlo entrare nel gruppo “Ti piace giocare, non è vero?”
 



 
*** ***

 
 
Ehi, okay è passato un po’ ma per me le estati sono sempre poco produttive ù.ù
In questo capitolo abbiamo avuto un assaggio di altri personaggi, soprattutto villains
Non mi perderò in troppe chiacchiere, ma ho in serbo grandi cose per il prossimo capitolo *^*

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Capitolo 5
*** Il Gioco del Cerchio ***


Il Gioco del Cerchio
 
 
Avevano passato la notte alla fattoria, con gli animali che belavano o muggivano appena fuori dalla finestra e i grilli che producevano quel fastidiosissimo rumore nell’erba alta del giardino, appena dopo la staccionata da ridipingere.
Galem aveva qualche vaga idea su dove fossero i proprietari della fattoria, anzi, la scia di sangue rappreso che aveva scorto alla porta spalancata del capanno lo aveva rassicurato che gli animali avrebbero avuto cibo di cui sfamarsi ancora per qualche giorno.

Avevano rubato un’auto lungo il tragitto, niente di troppo costoso -una mazda berlina di un rosso veneziano- e si erano diretti a velocità ben poco trattenuta verso la periferia della città, dove gli edifici cadevano sempre più in dissesto e gli appartamenti sfumavano in vecchi muri screpolati e disabitati, fino a giungere nei pressi di un piccolo boschetto che dava sulla vecchia scuola superiore su cui ancora svettava la scritta Albert Fish High School of Michigan. L’edificio sembrava essere stato abbandonato nei primi anni duemila, tanto che il color paglierino sembrava essersi sbiadito al sole.
Parcheggiarono l’auto nel vecchio parcheggio e scesero, quel posto non era messo poi così male dall’esterno, certo, alcune finestre erano rotte e qualche vecchia tapparella era precipitata al suolo in uno dei temporali estivi che si era affacciato su quella parte della città. Quando però varcarono la soglia della grande entrata, su cui per altro svettava ancora un vecchio avviso a caratteri stampati, il suono dell’abbandono che giunse loro alle orecchie accompagnava il pavimento sporco e l’odore di chiuso che tentava di scardinare le uscite e riversarsi nell’aria.
Dei vaghi mugugni spezzarono il breve silenzio che avevano potuto apprezzare.
“Che cos’è stato?”
Lilith non poteva vedere Galem in faccia in quel momento, troppo occupata a tentare di capire da dove provenissero quei lamenti, ma il viso di quel torbido bastardo si era appena infranto in un infido e fulmineo sorriso.
Sollevò le spalle, tranquillo “Ho pensato che anche Gabriel avrebbe gradito un piccolo regalino al nostro arrivo, e poi non c’è niente di meglio di un’amabile gioco di squadra per festeggiare il nostro nuovo amico. Ho mandato Oz a fare acquisti…”
Avanzò per la penombra del corridoio con passo quieto e felpato, sapeva essere particolarmente silenzioso quando voleva, poteva essere un vantaggio in un assalto.
D’altra parte, in Lilith aveva già cominciato a muoversi una singolare sensazione, qualcosa che l’aveva costretta a incatenare le iridi grigio fumo ai movimenti fluidi a canzonanti del figlio di Mania.
Ad ogni metro che percorrevano, i suoni divenivano sempre più limpidi, tanto che il mugugno ombroso e lontano si era trasformato in una voce più umana, Lilith era quasi sicura che chiunque fosse quel tipo, era stato imbavagliato con uno straccio per impedirgli di parlare. Conosceva abbastanza Oz da sapere che qualunque tattica avesse messo in atto per prenderlo, non doveva essere stata particolarmente piacevole.
Arrivarono davanti a una porta chiusa, in legno d’acero, la maniglia d’ottone arrugginita. Dei passi lenti che stazionavano la stanza aldilà della soglia serrata.
Galem bussò con pazienza affine, finché –qualche istante dopo- un ragazzo dai capelli di platino non venne ad aprire. Non aveva una carnagione particolarmente olivastra, o forse erano solo le occhiaie mostruosamente in evidenza a farlo apparire tanto pallido, l’unico aspetto che forse non avrebbe intimorito erano le due stalattiti azzurro ghiaccio che dimoravano nei suoi occhi, sembravano una cocciuta barriera a separarlo dal mondo, qualcosa di duro e vagamente crudele.
Alle sue spalle, qualcosa tentava di muoversi, ostacolato dalle spesse e strette corde che lo tenevano legato alla sedia di scuola e ne bloccavano i movimenti.
Lilith non era ancora entrata in quell’aula, ma già poteva pregustare quel sapore metallico defluire sul pavimento, se lo sentiva nelle vene ad ogni lamento di quel malcapitato.
“Chi è lui?” domandò Oralee piegando appena la testa di lato, così da avere una visuale più chiara dell’uomo che Oz aveva rapito e poter scrutare meglio quel volto e quelle sue rughe appena accennate. Doveva essere sulla quarantina, anche se il livido violaceo che gli deturpava lo zigomo sinistro ne alterava di qualche tacca i lineamenti.
Galem sorrise all’esile ragazzina che gli stava accanto “Una vecchia conoscenza”
“Tua?”
“Oh no” scosse la testa il Romano “Lilith, saresti così gentile da andare a chiamare Gabriel? Digli che ho una sorpresa molto speciale per lui”

Oralee camminò fino alla parete che aveva di fronte e appoggiò il barattolo di vetro accanto al battiscopa di legno, quella piccola lucertola verdognola la fissava con quei suoi piccoli occhietti da rettile squamato, zampettando sulla superficie trasparente. Era proprio un bel regalo, pensò rialzandosi da terra.
Strinse di più la bambola che aveva in braccio e tornò a fissare l’uomo legato alla sedia. Non le piaceva il taglio anonimo dei suoi capelli scuri né gli abiti che indossava; la camicia ormai sudata si accompagnava alla cravatta come un condannato al cappio e i pantaloni erano di un disgustoso color fango. Storse il naso mentre il suo sguardo risalì a fissare le rughe del viso e la piccola gobba che faceva apparire il suo naso molto più grosso. D’altro canto, doveva ammettere che aveva dei begli occhi verde bosco.
“Chi è?” domandò di nuovo, senza staccare gli occhi di dosso al malcapitato.
Galem si trovava a pochi metri di distanza, con la spalla destra pigramente appoggiata allo stipite della porta aperta e Oz che contemplava brevemente l’omone che si erano portati dietro.
“Si chiama Venidikt” mormorò il figlio di Mania, ignorando la domanda della ragazza “Ci darà una mano, o almeno è quello che ha detto quel ragazzino
C’era così tanta calma in quella stanza, così poche parole sprecate che sembrava quasi surreale il fatto che un uomo fosse stato legato e imbavagliato proprio al centro dell’aula.
“È stato difficile portarlo fin qui?” domandò Galem con improvviso interesse, voltandosi verso Oz, che sembrava ancora particolarmente colpito dalla stazza del gigante.
Alzò le spalle “Si è divincolato, l’ho colpito.”
Una piccola risatina si mosse per la stanza, e in un battibaleno Galem si era staccato dalla parete e avvicinato al quarantenne immobilizzato sulla sedia.
“Deve scusarlo” mormorò con lentezza “Sa, Oz ha … come dire … una piccola ossessione: non gli piace quando la gente fa di testa sua; si potrebbe definire un maniaco del controllo in un certo senso.”
Sfiorò coi polpastrelli il livido violaceo che aveva sul viso. Non si era fatto la barba, poteva notare un principio di peli fuoriuscire dalla pelle arrossata.
“Ci siamo fermati in una cartoleria mentre eravamo in viaggio” esclamò il Romano allargando gli occhi pallidi “E ho preso un oggetto che potrebbe interessarle!”
Si portò la mano al giacchetto scuro che indossava ed estrasse un piccolo contenitore di plastica dalla tasca, aveva i bordi di un azzurro chiaro e al suo interno uno strumento di ferro sfoggiava un’opaca lucentezza e un che di nuovo e scolastico.
“È un compasso!” esclamò Galem con trasporto e folle esaltazione, sembrava un bambino di fronte a una spada e il largo sorriso che aleggiava sulle sue labbra non portava a nulla di buono.
“Lei è un insegnante di matematica, giusto?”
Il bavaglio che portava gli impediva di parlare, ma non sembrava creare alcun problema a Galem, che continuava quella conversazione come se il professore gli avesse risposto di sì.
“Non sono mai stato una cima in geometria, ma dovrei ricordare ancora come si usa” tirò fuori lo strumento dal fodero e cominciò a rigirarselo tra le dita “Tuttavia, questa non è la mia festa di compleanno”
Si voltò verso la porta aperta, era sicuro che Gabriel ci avrebbe messo una manciata di istanti ad arrivare.
“Lei, Signor Woodstock, sta per essere la star del gioco!” aveva una risata particolare, acuta e scattante, e non riusciva a trattenere la trepidazione “GABRIEL? Ho un regalino per te, tesoro. Muoviti!”
Poteva percepire il battito cardiaco del quarantenne aumentare fino all’aritmia, avrebbe voluto avere un udito supersonico solo per godersi quell’andatura angosciante e piena di terrore.
“Ahahah, Ralee, perché non ci canti una canzoncina? Quella che vuoi. Un po’ di musica per il nostro ospite!”
“È ora di giocare?” inclinò la testa di lato, la ragazza. Aveva già individuato un buon posto dove porre la sua bambola.
Galem continuò a sorridere. “Manca ancora il festeggiato per lo spettacolo, ma possiamo aprire il sipario!”
“Possiamo fare il gioco del cerchio?”
“Che cos’è il gioco del cerchio?” domandò Oz alzando un sopracciglio. Ralee si avvicinò a una delle sedie libere e vi ci appoggiò sopra la bambola, di modo che potesse vedere tutti loro giocare, poi tornò dagli altri con un’espressione più serena e impaziente di cominciare.
Camminò dritta verso l’alto ragazzo dal taglio di capelli biondo e irregolare, tirati all’indietro con tanto gel da mescolarli con la carnagione pallida e gli evidenti segni di ustione da raggi ultravioletti. Era rimasto fermo e rigido per tutto il tempo, con un’espressione curiosa e i pensieri che gli si aggrovigliavano l’uno sull’altro.
Oralee era piccola,ma accanto a lui sembrava proprio una bambina, e probabilmente era così che Ven la vedeva.
Una cipollina piena di ciuffi colorati e un bizzarro vestitino che cozzava con le calze bordeaux e gli stivaletti scuri.
Ralee avrebbe potuto essere benissimo la sua, di bambola.
Arrivò a giusto qualche centimetro dal largo giaccone del russo, da cui tra l’altro usciva un odorino selvatico, e sorrise piegando la testa per l’ennesima volta “Vuoi giocare con me?”
Ven ascoltò quella voce melliflua e infantile accarezzargli le orecchie, sembrava un grissino vista dalla sua altezza, ma tutti i colori che accompagnavano il suo corpo la facevano apparire poco più pericolosa di un burattino.
Fissò quei suoi occhi scuri per meno di un secondo prima di annuire, poi la sua espressione si accigliò.
“Un cerchio? Tondo?” chiese muovendo gli indici a disegnare una circonferenza nell’aria.
La ragazza annuì con la testa, e si voltò verso Oz e Galem.
Il figlio di Mania non pazientò un istante “E gioco del cerchio sia, principessa”
Si spostò di un  passo all’indietro e aspettò che Oz facesse lo stesso prima di riprendere la parola “Tuttavia, credo che debba essere Gabriel a fare gli onori”

In quel mentre, un rumore di passi catturò l’attenzione di tutti i presenti. Sulla soglia d’entrata sbucò una figura giovane e magra, dalla pelle poco olivastra e una chioma di capelli fini e nocciolati. Aveva delle occhiaie appena pronunciate sotto gli occhi e un’espressione infastidita che svanì non appena i suoi occhi si posarono sull’uomo vecchio e stanco che era rimasto seduto per tutto quel tempo.
“Che cazzo ci fa lui qui?” sbottò malamente, ricordava ancora tutti i brutti voti che aveva dovuto portare a casa a far firmare e il modo in cui lo aveva bocciato agli esami di fine anno.
Fu Galem a sciogliere quella spiacevole tensione che era venuta a crearsi “Ho pensato che un gioco di gruppo sarebbe stato l’ideale per unirci e dare il benvenuto a Venidikt, e poi …” continuò con un’alzata di spalle “Sarebbe stato scortese non invitare il mattomatico qui presente al tuo sedicesimo compleanno, o sbaglio? Dimmi che non ci vuoi giocare e puoi tornare su dagli altri, in ogni caso ho un regalino per te.”
Gli passò il compasso che lo aveva dilettato negli ultimi minuti e indicò con un cenno del mento il professore che ancora li squadrava con orrore da dietro le corde.
Ralee si avvicinò al festeggiato con un tenue sorriso “Mi piacciono i suoi occhi”
Ripensò un attimo a quell’insegnante severo che lo richiamava ad ogni lezione, al quarantenne dalla fronte sudata e quel suo vestito gessato, persino lì, in quella vecchia aula dalle parete incrostate, indossava ancora quella stupida cravatta a righe su una camicia ormai logora.
Guardò lo strumento che ora aveva per le mani e di nuovo il suo insegnante, e finalmente un bagliore si fece spazio nei suoi occhi.
“Li vuoi?” strinse maggiormente il compasso tra le dita e avanzò di un passo.
Ralee batté le mani “Sì!”
“Bene” afferrò il volto dell’uomo con la mano sinistra mentre la destra avvicinava la punta all’occhio “Ora stia fermo, o dovrò bocciarla all’esame pratico”
Il volto di Gabriel ora non era più inciso nella pretesa di avere qualsiasi cosa, no, ora c’era quella luce strana a illuminarlo, e mai come in quel momento parve più simile alla madre. Oh, Alalcomenea sarebbe stata fiera della vendetta folle che ardeva dentro al cuore di suo figlio, del modo in cui impugnava quello strumento di ferro e si apprestava a cavare gli occhi di quel bastardo con precisione immane.
Aprì le asticelle di qualche centimetro e gli allargò le palpebre con la forza.
Le prime urla, non le udì nessuno perché Galem rise più forte, si piegò un poco in avanti per avere una visione migliore e la sua lingua si leccò le labbra inconsciamente.
Gabriel era troppo occupato a girare il compasso e piantare le unghie nel volto dell’uomo per accorgersene. Vedeva il rosso dei suoi occhi macchiargli la vista e discendere giù per la guancia, i lamenti atroci che emetteva strozzati dal bavaglio, dal sudore che lacrimava sul suo viso e lo faceva puzzare.
Oh, sì.
Quell’odore ferroso impregnava la stanza più dell’odio che riversava in quel compasso, sentiva quel bastardo tentare di rifuggire a quel contatto e sottrarsi, invano.
Oh, no.
Gliel’aveva detto, quel giorno. Glielo aveva detto che gli avrebbe cavato gli occhi col compasso se non l’avesse promosso.
Ma quel bastardo non gli aveva dato retta.
Avrebbe dovuto ascoltarlo.
Invece no. Si era approfittato del suo essere professore e aveva dettato legge e impartito ingiustizie, lo aveva vessato per tutto l’anno e, dopo tutto, era ora che al professore fosse data una lezione.
Finì il giro con un solo movimento del polso, non aveva mai fatto un cerchio così perfetto in anni di scuola.
Le sue labbra erano ancora smorzate da una smorfia di profondo disgusto per l’uomo che aveva appena martoriato, ma il petto era già più leggero.
“Non male, direi che una B- dovrebbe bastare, eh, che ne dice, prof? Vuole una A? Per quella ci vuole un altro cerchio.”
“Dagli la possibilità di scegliere” sghignazzò Galem indicando il bavaglio che gli impediva di parlare.
Gabriel sbuffò “Bene” si sgranchì le spalle “Mi dica che si accontenta di una B- e non passeremo al prossimo esercizio”
Woodstock mugugnò qualcosa di incomprensibile da dietro la benda che aveva sulla bocca e strinse di più i braccioli della sedia.
“Come? Non si capisce, parli più forte” si portò una mano sull’orecchio, poi sorrise “Vuole tentare una A? Non si accontenta mai lei!”
Con la risata di Galem nelle orecchie, Gabriel impugnò nuovamente il compasso come fosse un coltello e lo puntò sull’altro occhio. Stavolta si godette ogni singolo lamento e grido che fuoriuscì dalla gola dell’uomo: sempre più forti, sempre più agognanti.
Girò una volta, due, tre, tutte le volte che voleva, ancora e ancora, finché la presenza di Oralee alle spalle non si fece più pressante.
“E va bene” sbottò estraendo il compasso “Prenditeli!”
Galem non ci pensò un secondo, avvicinò le dita al volto dell’uomo con la velocità di un felino e strappò prima un occhio e poi l’altro. Così, senza pensieri. Li passò alla ragazza e Ralee li fece scivolare in un barattolo di vetro più piccolo, prima di posarlo accanto a quello con la lucertola.
Ora la stanza traboccava di grida e un uomo si divincolava sulla sedia come un matto, folle, trucido, pieno di sangue.

“ E ora che non ha più la vista” gli tolse il bavaglio, Galem “Possiamo giocare!”
Lo spinse giù dalla sedia e lo sistemò in ginocchio sul pavimento freddo dell’aula, e gli intimò di non muoversi.
Strinse la mano di Ralee con la sua e invitò gli altri a fare lo stesso, mentre la ragazzina si allungava per prendere quella di Venidikt e questi afferrava il polso di Oz, sempre più curioso e perplesso.
Il figlio di Mania era radioso “E ora, Ralee, canteresti la filastrocca per noi?”
Si strinsero in cerchio e Oz diede un calcio così forte al ginocchio del professore che Galem si stupì di non sentire alcun crack nell’’aria.
Ma le urla cessarono.
Ralee sorrise.
Si mossero in cerchio.
E cominciò a cantare.

Accerchiato, catturato
non scappare!
Accerchiato, catturato
a che gioco vuoi giocare?
Alla fine dell’alba
ci possiamo divertire insieme
Accerchiato, catturato
chi c’è dietro di te?


Si fermarono all’improvviso, immobili come cadaveri.
“Chi c’è dietro di te?” domandarono in coro con le iridi puntate sull’uomo per terra.
Lo chiesero di nuovo.
Di nuovo.
E quelle voci parevano terrificanti in quel momento, una domanda che si ripeteva nel silenzio dell’aula e l’odore di sangue e sudore che si mischiava all’ossigeno.
“Chi c’è dietro di te?”
“Non lo so!” Ralee si era sempre chiesta se un uomo senza occhi potesse piangere e ora che vedeva le lacrime rigare quel volto insanguinato poteva finalmente togliersi il dubbio.
“Risposta sbagliata”
Dietro di lui, il sorriso largo di Galem aumentò e dalla cintura tirò fuori un piccolo stiletto appuntito dalla vaga forma di un crocifisso.
“Non ti servono tutte le dita per scrivere, vero?” domandò prima di afferrare la sua mano sinistra e affondare la lama nella carne.
Urlò di nuovo.
Rise ancora.
E intanto il sangue usciva a fiotti.
Urlò ancora.
Rise di nuovo.
E sul pavimento c’erano tre dita senza vita.
Pianse.
E l’altro si rimise in piedi, riprese il suo posto e mise via lo stiletto di ferro.
Oz diede un altro calcio.
Le urla smisero.
E Ralee riprese a cantare da dove si era fermata.

Accerchiato, intrappolato
non scappare!
Accerchiato, intrappolato
il bimbo che perse il gioco
Alla fine dell’alba
ti taglieremo la testa
Accerchiato, intrappolato
chi c’è dietro di te?


Si fermarono di nuovo all’improvviso, una nuova ombra alle sua spalle incombeva con l’arma già pronta da tirar fuori.
“Chi c’è dietro di te?” domandò di nuovo il coro.
E di nuovo l’uomo rispose.
“L-la ragazza” balbettò, aveva la voce assai diversa da come Gabriel la ricordava. Era più debole, fragile, piena di tremori.
Ralee sorrise.
“Io sono proprio qui, alla tua destra”
Risposta sbagliata.
Woodstock contò i battiti del suo cuore mentre un coltello spezzava la sua schiena e le sue costole.
E di nuovo un sacco di urla.
Oz aspettò a rimuovere il pugnale, gli piaceva non sentire il benché minimo rimorso a quelle grida, lo faceva sentire potente, meno umano.
Gli tirò un calcio per farlo smettere e rimosse il coltello.
Disse a Ralee di continuare la filastrocca.

Accerchiato, torturato
non scappare!
Accerchiato, torturato
giocherai anche tu con noi, sarà divertente
Alla fine dell’alba
giocherai con noi per sempre
Accerchiato, torturato
chi c’è dietro di te?


Nessuno ripeté quell’ultimo verso.
L’uomo singhiozzò più forte di prima.
Risposta sbagliata.
Ven gli mozzò un piede.

Oralee stavolta non cantò.
 “Hai perso”

E gli tagliarono la testa.



 
*** ***



Bonsoir ;) capitolo interamente dedicato ai cattivi ù.ù ma volevo aggiornare prima di andare al mare ^-^
Due premesse:
- Il nome della scuola (totalmente inventata) si rifà ad Albert Fish, un noto serial killer condannato alla sedia elettrica nel 1936.
-  Il gioco del cerchio è Kagome Kagome, vocaloid horror del famoso gioco giapponese ;)*
Bene, non posso che augurarmi che il capitolo vi sia piaciuto e fiondarmi a vedere il film con Jim Carrey ehm rendermi disponibile per ogni vostra perplessità.
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito lo scorso capitolo e … e basta. Auguri a chi fa l’università, visto che non ho idea se hanno le vacanze estive o meno .-.
Quando ci rivedremo avrò un anno in più ù.ù
 
*Per chi volesse metterlo in pratica:
1. Utilizzate una benda per la vista non un compasso.
2. Armatevi di una corda come frusta non di coltelli.
E divertitevi!
Mi esonero da qualsiasi responsabilità legata a lividi, dolore fisico, lacrime e sadismo.





 

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Capitolo 6
*** Incubi ***



Incubi
 

La ferita aveva appena smesso di sanguinare quando Johannes si allungò per prendere ago e filo da sutura. Era un brutto taglio ma nulla di irreparabile, aveva visto di peggio negli anni, ogni settimana si ritrovava a rimettere in sesto semidei scivolati dalla parete di lava e ragazzini che si erano messi a giocare sconsideratamente col fuoco greco, perlopiù figli di Efesto o Ermes. Non che gli dispiacesse, l’aria che si respirava in infermeria era intrisa di oli ed erbe medicinali e una delle sue sorellastre era solita spruzzare un profumo di camomilla nell’aria ogni mattina.
-È rilassante- continuava a ripetergli con insistenza quando lui tentava invano di convincerla a cambiar fiore. Sheerin aveva sempre avuto una qualche curiosa predilezione per le piante più semplici e anonime, quelle che puoi trovare un po’ ovunque,  le margherite ad esempio. Ma suo fratello no, Johan preferiva di gran lunga i fiori più candidi, non rari, non sgargianti, quelli semplici ma non scontati. Per come la pensava lui avrebbe fatto volentieri un salto alla cabina di Demetra a procurarsi qualche gelsomino per arredare i comodini disposti tra i vari letti. Erano in molti a sostenere che l’infermeria andasse riarredata e il figlio di Apollo era dalla loro parte, non avrebbe certo sostenuto tutti i cambiamenti che la progenie di Afrodite richiedeva, ma non sarebbe stato scontento di qualche piccolo ritocco qua e là. Il pavimento era ricoperto da un parquet color nocciola e le pareti erano di un orrendo panna acido, coi letti disposti similmente agli ospedali delle retrovie e una schiera di ampolle e medicinali mortali disposti in modo piuttosto confusionario sulla scrivania che ricopriva un intero lato della stanza. Non c’erano tende, era stata forse la prima cosa che Johannes aveva notato mettendoci piede per la prima volta, anni prima. Era da allora che era convinto che qualche buon suggerimento non avrebbe fatto altro che migliorare l’aspetto estetico di quel posto.
Mentre pensava a tutte queste cose si assicurò attentamente che la ferita non fosse infetta e si girò verso il comodino che aveva accanto. Ogni volta che tirava fuori il filo da sutura e il portaghi il ragazzo o la ragazza che sedeva sul lettino era solito sfoderare uno di quei soliti sguardi sprezzanti e già pronti a iniziare una lite, ma Johan rimaneva ben fermo sulle sue decisioni: non avrebbe sprecato nettare e ambrosia per ferite superficiali e semplici botte da disattenzione, in più non riusciva proprio a capire come un semplice ago potesse spaventare tanto la gente.
Si raddrizzò sulla sedia, approfittando del fatto che il taglio che doveva ricucire era proprio sotto il labbro inferiore, il che avrebbe frenato ogni tentativo di opporsi da parte del giovane che aveva di fronte. Inforcò la pinza con la mano sinistra e avvicinò l’ago a uno dei lembi di pelle arrossata. Non aveva mai amato cucire, ma la sutura era una delle tecniche che più lo affascinavano, poteva apparire un po’ rozza e vecchio stile, ma ogni volta che ancorava gli occhi a quel filo di lino Johan riusciva quasi a sentire la ferita rimarginarsi. Era una procedura chirurgica nemmeno troppo complicata il cui unico scopo era facilitare la rimarginazione di un brutto taglio, ma rimaneva comunque la sua cura prediletta.
Modellò il filo in modo da avere un nodo perfetto e si assicurò che i margini fossero dritti, così da avere una sutura in opposizione, poi tagliò il filo e si preparò per un altro nodo. Si era ritrovato spesso a dover sentile mille lamenti da parte dei suoi pazienti a causa di questa sua scelta, ma Johan non aveva mai battuto ciglio. Una sutura interrotta garantiva una tenuta e una solidità maggiore rispetto a quelle continue in cui viene utilizzato un solo filo per ricucire la ferita. Quello che il giovane figlio di Apate aveva sotto al labbro non era nulla di poi così grave, anzi, Johan era sicuro che il taglio si sarebbe rimarginato in poco tempo.
I punti interrotti che era solito fare per quel tipo di ferite cutanee gli garantivano di dosare meglio la tensione dei singoli nodi, ma erano anche una gran seccatura per chi rimaneva seduto ad aspettare poiché richiedevano un tempo maggiore e un’attesa apparentemente infinita, soprattutto se il malcapitato era risaputo per essere un tantito iperattivo, così come la maggior parte dei semidei. Johannes non aveva mai avuto problemi con la pazienza, forse proprio perché era un infermiere e si ritrovava gran parte del giorno con altri medici quieti. Trasmettere tranquillità era una delle doti che contraddistingueva i figli di Apollo e di Asclepio, anche perché un dottore agitato non farebbe altro che far danni e metter ansia alle persone.
Mentre continuava a manovrare il filo e ricuciva bene i lembi aperti della ferita, Johan sentì distintamente la porta dell’infermeria aprirsi e richiudersi con calma e un paio di passi indecisi muoversi tra i letti semi vuoti. Conosceva bene quella camminata  lenta e a tratti interrotta, aveva un passo felpato e silenzioso come quello di un ladro, ma non apparteneva a nessun figlio di Ermes. Aveva passato diverso tempo a osservare i suoi colleghi e ormai conosceva a memoria i loro rituali del mattino. Chloe ad esempio era solita bere una tazza di tè ogni volta che l’infermeria cominciava a svuotarsi e non c’erano più pazienti da visitare, Max invece, uno dei suoi fratellastri, strascicava sempre i piedi quando ancora il caldo delle lenzuola non lo aveva abbandonato e Rex … lui non si faceva notare più di tanto, non era nemmeno capace di sbattere la porta –o almeno era quello che si diceva in giro- da tanto era quieto e sempre in ombra. Raggiungeva il suo posto senza salutare nessuno e questo aveva alzato parecchi pregiudizi nei suoi confronti, si limitava a svolgere il suo lavoro e andarsene. Johan era forse uno dei pochi che erano riusciti a parlargli un paio di volte, sempre se scrivere su un foglio di carta valeva come conversazione. All’inizio pensava che si somigliassero loro due, che fossero entrambi tipi tranquilli che amavano il silenzio di tanto in tanto, poi però aveva notato qualcosa, dei comportamenti che lo allontanavano parecchio dall’assomigliargli: quel suo essere schivo e solitario, così avaro di sorrisi e goffo nel gioco di squadra. Non era una delle persone più in vista del Campo e probabilmente anche una delle meno amate, ma Johan non si era permesso di invadere la sua privacy e superare quei limiti che Rex aveva messo tra sé e gli altri. Non era molto socievole o espansivo, non amava le persone, a volte sembrava persino ignorare gli altri, come se non fossero degni di nota e non meritassero neanche uno sguardo. Era per questo che molti avevano cominciato ad evitarlo o per meglio dire a non dargli corda. C’era qualcuno al Campo che era riuscito a cavargli qualche parola di bocca, quando Johan l’aveva saputo aveva voluto sapere il nome della ragazza che era riuscita brillantemente a superare le sue barriere e non si era stupito nello scoprire che si trattava di Agatha Collins, quella frizzante figlia di Ermes che si cacciava sempre in mille guai e non sprecava occasione per parlare con chiunque.
Scosse la testa, ignorando quei pensieri e tornando ai nodi che stava sistemando. Quando ebbe finito, sollevò lo sguardo verso il giovane seduto sul materasso e lo congedò con un tiepido sorriso e un cenno con la testa, non si premurò nemmeno di agguantare il taccuino che aveva appoggiato sulla superficie del tavolino, ormai tutti conoscevano quei suoi semplici segnali e non aveva più alcun bisogno di sostituire la voce che non aveva mai avuto con delle parole d’inchiostro su carta gialla per congedare qualcuno dall’infermeria.
Si sollevò dallo sgabello d’acero pallido che aveva sopportato il suo peso per tutto quel tempo e fece per rimettere a posto gli utensili di cui si era servito. Nel girarsi intravide i corti capelli scuri di Rex e le sua braccia olivastre e nel vederlo si chiese per l’ennesima volta perché mai Chirone si ostinasse a ripromuovere quelle magliette arancioni e non optasse invece per un abbigliamento assai più classico. Aveva sempre pensato che i vestiti moderni dei semidei stonassero con l’ambiente e le statue bianche che dimoravano nel giardino. Era ancora strano muoversi tra le armi e gli anelli di qualche marca famosa, era tutto così assurdamente anacronistico. Non credeva ci fosse anche un solo adolescente laggiù che non si sarebbe messo una toga o sandali in cuoio né figlie di Afrodite che si sarebbero rifiutate di indossare bracciali d’oro e corone d’alloro. Avrebbero potuto cucire tuniche diverse per ogni cabina, ognuna con le sue caratteristiche tipiche e allora sì che non sarebbe stato strano osservare le bighe percorrere tracciati di terra e pietre spezzate, coi cavalli che nitrivano e si buttavano nella polvere alzata dagli zoccoli.
Dovette aspettare che quell’immagine sbiadisse prima di tornare alla realtà, Rex continuava a miscelare delle erbe in una piccola scodella di ceramica dalla quale fuoriusciva un odore selvatico che andava a mescolarsi con la camomilla che vigeva nell’aria. Johan camminò fino alla fila di cassetti, ne aprì uno e mise apposto l’attrezzatura, poi tornò a osservare le boccette colorate e le fiale che ricoprivano la superficie del tavolo, ognuna di loro conteneva un medicinale semitrasparente che avrebbe facilitato la guarigione delle ferite più gravi, mentre le boccette disposte sull’altra scrivania non erano altro che nettare e se ne servivano solo se necessario, avevano i tappi simili all’oro e il vetro pareva cristallo. Non era uno spettacolo splendido come le ampolle che ricoprivano gli interni della casa di Ecate, con quei liquidi spesso fluorescenti e i profumi che ti invitavano a berli. Johan non si sarebbe mai messo a rovistare tra quelle ampolle gobliformi così come non si sarebbe mai avvicinato ai veleni della cabina numero ventisette, quella dedicata alla progenie di Achlys.
Fece scricchiolare la schiena in un modo che avrebbe fatto accapponare la pelle a tante figlie di Nosos o Phobos e dispose in maniera più accurata i vari farmaci riunendoli per gruppi e affidandosi alle etichette che vi erano attaccate. Questo era uno dei migliori pregi di Chloe, quello di etichettare gli occhi così da poterli spostare con ordine e precisione. A proposito di Chloe Murray, quel pomeriggio avrebbero avuto il turno insieme se solo Johan non si fosse fatto convincere da Lavi a fargli da psicanalista. Ogni volta che il figlio di Hypnos aveva qualche sogno andava ad acchiappare Johan e lo obbligava ad ascoltare ogni suo dettaglio, che il giovane figlio di Apollo appuntava su un block notes. Era la solita storia, all’inizio Johannes pensava che fosse perché il suo genitore divino era il dio della profezia e dunque il suo aiuto avrebbe potuto far chiarezza sulle questioni più oscure dei sogni, ma poi aveva notato che questo suo rendersi sempre disponibile aveva spinto Lavi ad approfittarsene. Ora lo chiama anche per i sogni più inutili, perciò Johan non sapeva più cosa aspettarsi da quel pomeriggio. Avrebbe potuto infischiarsene, ma c’era sempre la possibilità che stavolta Lavi aveva davvero sognato qualcosa di importante. Dunque non aveva alternative.
I turni dell’infermeria non erano mai poi così lunghi, ognuno rimaneva in quel piccolo ospedale per un’ora prima di passare il testimone a qualche altro suo compagno e il turno di Johan pareva giunto a termine insieme alla mattinata. Ogni giovedì mattina infatti Johannes aveva il tempo di prender parte a qualche attività del Campo prima di andare a rendersi utile in infermeria, verso le undici. Un’ora dopo, rimetteva a posto gli utensili ed era pronto per andare a mangiare al padiglione della mensa. Un po’ gli pesò per quel figlio di Apate che aveva ricucito, mangiare con i punti di sutura sotto il labbro non doveva essere particolarmente piacevole.
Lasciò a Rex il compito di chiudere l’infermeria come ogni giovedì e si rituffò nel sole caldo d’estate. Amava il sorriso di suo padre, benché a lungo andare gli ustionasse la pelle. Aveva una carnagione piuttosto pallida che si sposava perfettamente coi suoi capelli di platino, lisci come fili. Non aveva mai avuto particolare amore per il proprio corpo, quando si guardava allo specchio non vedeva che un insieme di ossa spigolose che mal si accompagnavano alla sua bassa statura. Per una ragazza essere piccola e graziosa era pure carino, ma per un maschio era una vera e propria maledizione. I capelli dei suoi fratellastri erano più simili ai raggi del sole, all’oro, ai campi di grano incendiati dall’estate, i suoi erano smorti, pallidi come la neve d’inverno, sembravano persino appassire sotto il cielo terso di giugno e ancora di più sotto quello di luglio. I suoi occhi parevano perle di nuvole ed erba, sottili, delicati come le labbra rosate. Non aveva nulla contro il suo aspetto efebico, ma avrebbe preferito qualche muscolo in più o un metabolismo che gli permettesse di non sembrare un grissino. Quando tirava di spada agli allenamenti finiva sempre a combattere contro una ragazza o un ragazzino più piccolo, i figli di Ares lo sfottevano spesso ma si era abituato alle loro provocazioni e aveva imparato ad affrontarli, più o meno. Fortunatamente non era la loro vittima preferita.

Quando arrivò al padiglione della mensa, parte dei semidei era già seduta alle tavolate e i suoi fratellastri chiacchieravano animatamente davanti a un buon tagliere di formaggio, Johan poteva già percepire il profumo di prosciutto entrargli nelle narici e notò che Agatha Collins, al tavolo di Ermes, stava già addentando una morbida croissant alla marmellata spruzzata di zucchero, una di quelle con l’impasto che sa di miele. Si chiese da dove l’avesse presa e perché mai la mangiasse a pranzo, ma infondo la Cabina tredici faceva sempre tutto di testa sua.
Si lasciò cadere sulla panca di legno con gli occhi puntati sul cibo che aveva sotto al naso, c’era di tutto su quel tavolo: patatine fritte, hamburger, verdura, puré e un sacco di altri cibi tra cui avrebbe potuto decidere. Alla fine optò per il manzo accompagno dalle carote e una pagnotta morbida.
Da dove era seduto poteva vedere una chioma di capelli scuri muoversi nella lieve brezza e sentire la voce di Clyde che, al tavolo dietro di lui decantava l’ennesima tragedia di Shakespeare. Ogni volta che lo faceva imbambolava praticamente qualsiasi ragazza della mensa, che rimanendo a fissarlo con occhi a cuore si dimenticava completamente del cibo e dello stomaco che brontolava. Clyde era un bel ragazzo, sotto qualsiasi punto di vista. Portava i capelli corti, castani come le radici di un albero e aveva una carnagione vagamente olivastra che faceva contrasto con le labbra rosse e gli occhi d’acqua piovana. Aveva un fisico allenato al punto giusto, non si sforzava mai troppo e portava un tatuaggio floreale sulla coscia destra. Aveva un bell’aspetto ma non era per quello che tante ragazze gli sbavavano dietro. Suo padre era un coreografo abbastanza famoso e in generale tutti i suoi parenti erano legati all’arte più delicata del canto e della danza, ma Clyde si era sempre dimostrato un appassionato di letteratura e di poesia, in particolare di Romeo e Giulietta. Aveva sempre preso parte ad ogni recita della scuola ed era sempre stato il protagonista, aveva come un talento naturale e si esercitava molto sia a recitare che a ballare e cantare, suo padre lo aveva iscritto ad un corso di scherma già da piccolo e giunto al Campo aveva deciso che la sua arma sarebbe stata sottile ed elegante, affilata come i frammenti di un cuore spezzato e letale come la piuma di uno scrittore. Aveva scelto il fioretto e diceva sempre che la sua spada era pura poesia, come la sua anima.
Ecco, era per questo che Clyde aveva tutto questo seguito femminile. Era un ragazzo romantico alla ricerca del suo amore tragico ed era inutile aggiungere che molte ragazze volevano essere la sua Giulietta.
Aldilà della sua ossessione per la letteratura e la sua ostinazione a scrivere poesie e dediche, Clyde era pericolosamente bravo col fioretto. Era rapido, aggraziato come uno spadaccino, feroce quanto un moschettiere. Pochi erano riusciti a batterlo in duello e Johannes sapeva il perché: tutti i ragazzi che gli andavano contro non erano che adolescenti che avevano appena preso in mano una spada, Clyde si era esercitato in una palestra per tutta la vita, la parete della sua stanza era ricoperta di medaglie. Lui e il suo fioretto erano un tutt’uno, per questo era imbattibile. Johan non era un idiota, non credeva ai protagonisti dei libri, quelli che sfoderano un talento innato e si dimostrano meglio degli dei. Aveva visto la fatica nei volti dei suoi compagni, li aveva visti cadere a terra durante gli allenamenti, dormire per ore e ore al termine della giornata. Era l’allenamento a rendere un semidio un combattente, il talento poteva influire fino a un certo punto ma doveva essere coltivato.

Cercò di togliersi dalla testa le battute di Amleto e tornò a concentrarsi sul suo pasto. L’aria che si respirava al Campo sembra impregnata di un qualcosa simile alla tensione da quando l’Oracolo aveva parlato. Quelli più piccoli non avevano preso la cosa molto sul serio, ma i più grandi avevano cominciato a fare domande e Chirone aveva iniziato a non rispondere, il che non era d’aiuto.
La profezia aveva menzionato il mito di Niobe, dunque era palese che il nemico che avrebbero dovuto affrontare altri non era che un bambino di forse sei anni. Si chiese quanti al Campo sarebbero stati in gradi di sgozzare un fanciullo. Forse nessuno.
Riprese in mano il taccuino che aveva in tasca, si era appuntato la profezia in una di quelle pagine per poterla studiare con più attenzione. La parte iniziale era un chiaro riferimento a uno dei miti più discussi della Grecia ma rivelava una parte ben più oscura: il rimorso di Apollo. Johan sapeva che suo padre era buono, ma non aveva mai avuto l’occasione di leggere una versione di quella storia in cui il divino Apollo aveva provato il benché minimo dispiacere per la strage compiuta. Aveva letto versioni in cui era stata Latona stessa a comandare l’uccisione di tutti quei figli e versioni in cui erano stati i gemelli di Zeus ad esigere una vendetta per il torto subito dalla loro madre, in nessuna di quelle storie Apollo piangeva per la freccia scoccata né si menzionava il nome del bambino più piccolo. Doveva trattarsi di una delle versioni più antiche, quelle che non erano passate sotto il giudizio degli uomini e avevano mantenuto la loro verità.
Ripuntò gli occhi sulla profezia, appena dopo la breve sintesi di Niobe e Latona si parlava della vendetta che ardeva nel cuore di Ilioneo, di un tentativo di rivalsa contro Apollo e Artemide.
Era il settimo e l’ottavo verso a fargli corrucciare la fronte, non riusciva a capire come il cielo potesse spezzarsi e come dall’Olimpo potesse discendere sangue, avevano un che di macabro quei due versi. Il verso successivo gli metteva quasi più ansia, quali demoni? Johan sperò di non combattere contro creature informi fuggite dagli inferi.
Il resto era chiaro, la chiave del successo della missione era la freccia che Ilioneo si portava appresso, il che di certo non facilitava le cose.
Si portò una mano tra i capelli, quella notte non aveva dormito per niente bene e nemmeno quella prima. Ricordava poco dei suoi incubi, delle urla stridule e delle biglie che scivolavano su un pavimento sporco. Probabilmente erano sogni normali, nulla che valesse la pena ricordare, ma quelle grida gli erano entrate dentro come marchi incisi a fuoco sulla pelle.

“Corri, Jack!”continuava a ripetere il vento, aveva un suono velato dall’odio mentre il corridoio della casa si rivestiva di brividi e il temporale che faceva tuonare il cielo scattava foto alle pareti della casa come il flash di una macchina fotografica. Johan credeva che quelle polaroid avrebbero vagato nell’aria della notte fino a giungere chissà dove, in un luogo in cui nessuno avrebbe potuto vederle.
Le assi di legno scricchiolavano ad ogni passo, era troppo buio per vedere chi aveva accanto ma Johan sapeva di trovarsi nel passato. Quelle tende vecchie e consumate, il soffitto privo di lampadario e nessun interruttore sul muro.
Un grido spezzò la tempesta che infuriava fuori dalla finestra, oltre i vetri rotti e gli alberi che si piegavano nella pioggia. Johan sentì il cuore freddarsi come quello di un morto quando un bimbo gli passò attraverso, superandolo come fosse un fantasma invisibile e ormai privo di vita.
Ebbe appena il tempo di voltarsi e vederlo correre per lo stretto corridoio quando un’altra saetta illuminò gli interni dell’abitazione. C’era uno specchio davanti a lui, era stato appoggiato malamente alla parete ma Johan seppe d’aver intravisto un uomo in quel riflesso, proprio alle sue spalle, dietro di lui e con in mano un’accetta.
“Jack” parlò l’uomo e Johan avrebbe voluto acciuffare il piccolo e portarlo via con sé, ma i contorni di quell’incubo avevano già iniziato a svanire. La casa vorticava su sé stessa, ormai non riusciva più nemmeno a vedere ma lo sentiva urlare. Le pareti si strapparono via come carta da regalo, ogni briciolo di consapevolezza sbiadì insieme al sogno, Johan si sentiva tirare e strattonare come in un vortice e nelle orecchie aveva ancora la voce di Jack, del bambino che correva, del bambino che urlava, del bambino che infine moriva.
L’ultima cosa che vide prima abbandonare quella casa furono le biglie che scivolavano sulle assi del pavimento e si fermavano sul battiscopa.


Non era stato un bel sogno, si era risvegliato di soprassalto col fiato corto e il sudore freddo a ghiacciargli la fronte. Non era riuscito a capire da dove fosse venuto fuori, perché l’avesse sognato. Ci aveva rimuginato sopra per buona parte della mattinata prima di comprendere che fosse solo un incubo, eppure era così vivido.
Nemmeno in quell’istante, con gli occhi fissi sul piatto e la mente piena delle chiacchiere dei suoi compagni riusciva a togliersi quelle urla infantili dalla testa. Fu in quel momento che si chiese se Lavi avesse fatto un bel sogno quella notte.

*** ***

Aveva aspettato per ore l’arrivo del figlio di Apollo, seduto sul letto della sua Cabina con ancora il pigiama stropicciato addosso. Aveva dormito per tutta la notte senza nemmeno svegliarsi, un sonno lungo interrotto solo dalla tromba del mattino –che lo aveva fatto dannare per il fatto che la Cabina di Hypnos fosse fin troppo vicina a quella di Ares.
Non era durata molto la sua veglia, forse una manciata di minuti perché poi era sprofondato in un altro incubo. Sì, esatto, proprio un incubo.
Si passò una mano tra il groviglio di capelli rossi che aveva in testa e un singolo ciuffo gli finì davanti agli occhi ricordandogli per l’ennesima volta perché sua madre l’avesse chiamato Lavi. Si chiese per un attimo quale nome avrebbe scelto se la sua amica non avesse fatto riferimento alla lava incandescente dei vulcani d’Italia quando l’aveva visto per la prima volta in ospedale, con quei ciuffetti rossi e spelacchiati. A volte si era domandato persino se non avesse dovuto chiamarsi Pompeii, come la città distrutta. Però gli piaceva il suo nome, era originale e per nulla scontato, non c’era il pericolo di trovarsi davanti un altro come lui. E se fosse successo, Lavi aveva deciso che l’avrebbe chiamato Ambrogio. Il suo nome non poteva di certo essere oggetto di condivisione.
Si lasciò ricadere sul cuscino mentre Johannes, che nel frattempo era entrato nella Cabina, si metteva comodo su uno dei letti disponibili. Gli piacevano quelle sottospecie di sedute, lo facevano sentire uno di quei pazienti dei film.
Aspettò qualche altro secondo, ma non di certo per mettere insieme le parole in una frase sensata. Era una di quelle persone che partivano con discorsi che si articolavano l’uno all’altro fino a non far capire più niente ai propri interlocutori.
Dato che sapeva che Johan non avrebbe mai iniziato a parlare, Lavi decise di iniziare quel monologo di racconti e riflessioni.
“È iniziato tutto quand’ero bambino, sono cresciuto sul grande palcoscenico di un teatro troppo vasto, tentavano tutti di insegnarmi a ballare, a cantare, a suonare, ad essere come loro, ma io ero troppo pigro. Sono narcolettico, sai? Ah, quante volte mi hanno beccato a dormire sulle sedie degli spettatori o nei camerini dietro le quinte…”
Johan gli batté il block-notes in testa. Non era venuto fin lì per sentire le sue stupidate.
Lavi si massaggiò la fronte con una smorfia “E va bene!”
Prese un profondo respiro e cercò di riportare a galla i suoi sogni.
“Ieri ho sognato una scuola, era un edificio vecchio quindi presumo sia stata abbandonata da anni. Era buio, probabilmente notte e mi trovavo nel piano sotterraneo, sai, quello più lugubre dove di solito vengono ammazzate le persone, gli horror hanno fatto i soldi con sta cosa” un’occhiata incendiaria del figlio di Apollo lo indusse a riprendere il filo.
“Comunque, c’erano delle voci dietro una porta socchiusa. Due ragazzi e una ragazza, credo di aver già incontrato uno di loro, ma non mi ricordo chi diavolo è. Aveva una voce strascicata, odiosa, come di un lamento e credo che avesse gli incisivi staccati perché la sua s fischiava in modo abbastanza fastidioso. L’altro tipo … non credo d’averlo mai visto, ma non mi piaceva. Aveva un tono lugubre, intriso di veleno, acido come il latte avariato, mentre la ragazza aveva una voce più suadente, piccante e con un che di risentimento che mi ha fatto storcere il naso.”
Sapeva che stesse solo descrivendo un paio di voci che aveva udito, ma Lavi sentiva che erano importanti, che quel luogo avrebbe potuto essere la chiave o quantomeno un indizio su cosa doveva aspettarsi.
“Ma non è finita qui” scosse la testa il figlio di Hypnos. Aveva cercato spesso di riprendere quel sogno ma non c’era riuscito, tuttavia aveva sognato qualcos’altro.
“Questa notte ho dormito molto profondamente, non mi sono svegliato nemmeno una volta, neanche una” guardò Johan negli occhi per fargli capire che non stava scherzando “Ho fatto un sogno orribile.”
Non era stato orribile perché aveva potuto viverlo come sulla sua pelle, anzi, come sogno era stato piuttosto confuso, rapido e pieno di bagliori, ma gli era rimasto attaccato al cuore e gli aveva dato così tanta angoscia che non era nemmeno riuscito a sottrarsi ai suoi artigli, a tornare alla realtà.
“Ho sentito la cenere nell’aria, come incenso sparso per tutta la città, un sacco di grida per la strada e la polvere che si alzava fino a farmi soffocare …”

Sentiva gli occhi bruciare a causa dell’incendio che divampava davanti a sé, aldilà delle vetrine del negozio di giocattoli i bambolotti si deformavano come sciolti nell’acido. Vedeva quei volti da bimbo assumere smorfie mostruose e la pelle annerirsi come tronchi arsi. Sentiva nelle orecchie le urla dei mortali ma davanti ai suoi occhi non c’erano che figure indistinte, sfuocate dal fumo nero che ricopriva la città. Non riusciva a capire dove fosse, in quale delle infinite strade di New York si trovasse.
Si coprì la bocca con la felpa mentre si guardava attorno, degli sprazzi di luce illuminavano il cielo, oltre il manto bollente del fuoco e la pioggia che cadeva sui palazzi. Tentò di concentrarsi, di trovare una faccia amica in tutta quella desolazione di fiamme e lacrime che si infrangevano nelle pozzanghere.
Provò a muoversi, le gambe funzionavano. Camminò per qualche metro prima di intravedere una figura accucciata al suolo, doveva essere umana perché non riusciva bene a riconoscerla. Era a terra e un rivolo di sangue le scendeva dalla testa solo per mischiarsi all’asfalto. Sentì un conato di vomito e voltò lo sguardo, si sentiva mancare il respiro. Provò a muoversi di nuovo ma stavolta le sue gambe cedettero, sbatté a terra col busto senza nemmeno capire il motivo. Forse era inciampato in qualcosa. Tornò a guardare le sue gambe e si sentì mancare.
Erano rotte.
Due stecchi spezzati che non facevano che farlo urlare dal dolore.
Alzò lo sguardo verso il fumo, c’era un ragazzo senza volto che lo fissava con in mano uno stiletto.
-No. No, ti prego-
Era un sogno, ma Lavi non riusciva a non avere paura, sentiva il cuore pulsare e riempirgli le tempie. Quel ragazzo guardava proprio lui, non c’era nessun altro.
Arrancò con le braccia, tentando di sfuggirgli, qualcuno urlava nel buio, ma Lavi non riusciva a sentire quasi niente. Sputò a terra e le sue mani graffiarono la pioggia. Sentiva il ragazzo dietro di sé avvicinarsi e sapeva di non potergli sfuggire.
Puntò gli occhi in un punto indefinito, oltre la coltre oscura che lo attorniava, là dove sapeva che avrebbe trovato un bambino. Non aveva mai avuto così paura di un moccioso.
-Ti prego-
Appoggiò il mento sull’asfalto sporco, le lacrime gli rigarono le guance fino a miscelarsi tra le pietre. Aveva il terrore di voltarsi, sentiva già la pelle trafitta da quella lama maledetta e nel suo cuore non c’era che pietà.
Sentì il corpo irrigidirsi e un vento freddo spazzare via la nebbia. Per un attimo vide qualsiasi cosa: i palazzi in fiamme, il cielo in rovina, il sangue che ricopriva le strade e un sole non più d’oro che tramontava dietro le nuvole. Pure lassù, tra le rovine che un tempo erano state l’Olimpo, Lavi non poteva vedere nient’altro che morte.
A qualche metro di distanza, Ilioneo lo fissava con occhi d’acciaio. Aprì la bocca per parlare, ma quello che Lavi sentì non fu altro che un’orrenda poesia.


 
Languido oro sgorgherà nel tempio,
il Signore di un'epoca grigia,
le Chiese all'istante fumanti d'incenso,
per le strade i mortali e le loro folli grida.

 

Quello che poi Lavi vide fu un’immagine che gli si incatenò al cuore: in mezzo a quell’inferno, tra i demoni che rubavano i sogni ai vivi e l’icore che scorreva nella pioggia, Ilioneo sorrideva.
 
 


 
*** ***


Ed eccomi con un nuovo capitolo, stavolta dalla parte dei buoni.
Non ho molto da dire se non che spero vi sia piaciuto. Se avete qualche domanda potete chiedermela per recensione o ask me se preferite ;)
Non so dirvi quando esattamente riuscirò ad aggiornare, spero presto, ma con l’incombere della scuola scrivere è sempre un inferno. Tuttavia, di solito scrivo più regolarmente con l’arrivo dell’autunno perché devo seguire una sorta di scaletta di cose da fare, mentre in estate vige il Caos assoluto.

Ora, vi va di fare un gioco con me? Se siete arrivati fin qui significa che avete letto tutti Il Gioco del Cerchio e ormai sapete come funziona.
:)
Bene.
Il concetto è fondamentalmente lo stesso: chi sbaglia viene fatto fuori :D
Le istruzioni del gioco sono molto semplici: se sparite, io taglio la gola al vostro personaggio. È chiaro? :D
Fantastico. Il gioco ha inizio.





 

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Capitolo 7
*** La Quiete prima della Tempesta ***


La Quiete prima della Tempesta
 



Non aveva mai amato particolarmente quelle giornate fredde e uggiose, ma d’altronde non poteva di certo aspettarsi che per tutta l’estate splendesse il sole. Si strinse maggiormente nella sua divisa mentre la mano che stringeva la sua spatha di oro imperiale rimaneva ben salda all’impugnatura. Erano già passate un paio di ore da quando aveva iniziato il suo turno di guardia insieme a Matt, un guerriero della Terza Coorte nonché suo compagno di baracca. Erano arrivati al Campo nel medesimo anno e avevano cercato di darsi man forte per tutto il periodo in cui quella maledettissima piastrina era stata messa in mostra al loro collo. Non era stato facile farsi accettare, soprattutto da quelli della Prima Coorte, ma alla fine erano riusciti a ritagliarsi un posto tra le fila della legione.
Quando ripensava al passato, Jackson rivedeva i giorni che aveva trascorso alla Casa del Lupo, là dove era stato addestrato fino a sputare sangue. Erano passati anni dal giorno in cui vi aveva messo piede per la prima volta, ma al solo pensiero risentiva i muscoli contrarsi nelle sfide che aveva dovuto affrontare, tutti quei percorsi e combattimenti che gli avevano imbrattato i capelli di sudore e terriccio.
Non si vergognava ad ammetterlo: era stata dura. Alzarsi ogni mattina con ancora i vestiti sporchi del giorno prima; maneggiare un’arma che non aveva mai visto; imparare le arti della guerra, il latino; e superare tutti gli ostacoli che la dea Lupa aveva in serbo per lui. Ogni volta che impugnava la sua spada del colore del miele e fendeva l’aria poteva risentire quell’odore di pini, abeti e fatica, il sapore del ferro in bocca e quegli occhi oscuri che lo fissavano nell’ombra. Era un ragazzino nemmeno poi tanto alto allora, sperduto, confuso, pieno di domande, ma non si era tirato indietro. Si era macchiato di terra ad ogni caduta, aveva sentito il sapore della sconfitta e quello della rivincita, la voglia di riprendere a combattere come mai prima di allora. Sapeva di avercelo nel sangue, combattere lo faceva sentire vivo, essere sempre sul punto di morire gli trasmetteva un’adrenalina che un semplice essere umano non avrebbe mai potuto comprendere. Quando stringeva quell’elsa scura Jax non era più il ragazzo pieno di dubbi, ma un Romano della dodicesima legione fulminata.

Strinse gli occhi nelle nubi che oscuravano il cielo, sarebbe stata una notte fredda e piena di pioggia, forse anche una delle più tempestose. Era già qualche settimana che il tempo pareva essersi atrofizzato nell’inverno.
“Non sembra il tempo ideale per una buona passeggiata a Nuova Roma” sollevò le spalle Matt puntando le iridi celesti appena sopra le punte degli alberi “Un vero peccato, ma almeno dormiremo freschi stanotte.”
Jackson poteva percepire una nota sarcastica nella prima frase, lanciò uno sguardo al compagno mentre il vento piegava i fili d’erba del grande prato verde oliva e i rami degli abeti si colpivano l’un l’altro. Aveva un’aria serena nonostante le strane voci che erano cominciate a girare al Campo, qualcuno mormorava l’inizio di una nuova profezia, qualcun altro le solite idiozie sugli dei e le loro liti.
Jackson era troppo giovane per sapere quanto sangue avevano versato le ultime profezie, aveva sentito dei racconti su prodi semidei e forze antiche, ma non erano che parole influenzate dall’immaginazione di chi gli stava accanto. La profezia dei Sette, ad esempio, era stata predetta trent’anni prima, decenni fin troppo lontani perché Jax potesse conoscerli. Tutta la sua vita occupava solo metà della lunga attesa che aveva accompagnato il silenzio dell’augure.
Non sapeva molto sull’aruspicina che vigeva ancora a Nuova Roma o sulle profezie che si presentavano in modo assai più macabro e sovrannaturale al Campo Mezzosangue. Qualcuno gli aveva parlato di un fumo verde che fuoriusciva dalla bocca dell’Oracolo, di un contorcersi agonizzante e di un’amnesia improvvisa, il che gli faceva pensare più alla stregoneria che non all’antica Grecia. Non gli sarebbe piaciuto affatto fare da spettatore a una visione del genere.
Lasciò che i suoi polmoni si riempissero dell’aria ormai intrisa di pioggia e si rimise con la schiena dritta, a volte dimenticava la corretta postura che il suo Centurione soleva ripetergli con insistenza.
-Sei un soldato, non un contadino.- continuava a ripetere con forza e spesso Jackson sarebbe stato ben felice di fulminarlo con un’occhiataccia. C’erano parti di Bronn che proprio non sopportava, ad esempio il suo essere così ligio al portamento e il suo spronarlo a dare sempre di più, anche quando Jax non si sentiva più il fiato e la testa gli pulsava dallo sforzo. Gli era grato per la fiducia che riponeva in lui, per il suo essere sempre pronto ad istruirlo nonostante avesse già superato i dieci anni di servizio e potesse tranquillamente congedarsi con tutti gli onori. Bronn era rimasto, aveva continuato ad aiutarlo a contenere e controllare i suoi poteri, e a buttarlo giù dal letto per una sana e stancante corsa mattutina. Da parte sua, Jackson aveva sempre odiato i riscaldamenti, tutto quel tempo buttato in esercizi noiosi e strazianti solo per prendere in mano una spatha e iniziare a combattere. Non era uno stupido, sapeva che servissero a riscaldare i muscoli ed evitare così gli strappi, eppure ancora non riusciva proprio a digerirli.
“Ci dovrebbe essere il tramonto da quella parte” indicò Matt, sollevando il mento verso una porzione di cielo ad ovest. Se quella pelliccia di grigio zucchero filato non si fosse messa ad oscurare il paesaggio, Jackson era sicuro che avrebbe potuto vedere una splendida tela dai colori caldi e fruttati, come un frullato di pesche e fragole che andava a ricoprire la volta e l’infinito firmamento che li attendeva. Non aveva mai avuto un grande interesse per le stelle, quelle piccole lucciole che stavano lì a fissarlo ogni notte e vegliavano sui suoi sogni non gli avevano mai fatto né caldo né freddo, ogni volta che alzava la testa a mezzanotte non vedeva nient’altro che un cielo bucato da mille occhi splendenti e sentiva di perdere l’equilibrio per qualche istante. Sua madre glielo aveva sempre detto che non era tipo da campeggio.
Tornò con gli occhi alla cotta di maglia che gli rivestiva il petto, non era molto visibile da sotto l’armatura di bronzo, ma ogni volta che si muoveva Jax poteva percepire gli anelli di ferro tintinnare appena. Prima di mettere piede al Campo Giove, non avrebbe mai immaginato che indossare una tunica rossa che gli copriva gran parte delle cosce sarebbe stato tanto comodo. Le uniche cose che gli avevano fatto storcere il naso e che ancora non condivideva appieno erano i calzari, lunghi sandali chiusi a stivaletto che andavano ad intrecciarsi per tutto il polpaccio con strisce di cuoio che irritavano le pelli più sensibili. Ci aveva messo un po’ ad abituarsi, ma ancora rammentava con nostalgia le comode scarpe da ginnastica e i pantaloncini della tuta. Forse la parte che aveva trovato meno scomoda era stata, con suo immenso stupore, l’elmo d’ottone, munito di cresta di crine di un rosso splendente, paraguance e paranaso. La prima volta che l’aveva visto aveva pensato che gli sarebbe stato d’intralcio, ma poi aveva dovuto ricredersi. Gli dava un’aria assai più seria, lo difendeva dai colpi che avrebbero potuto ucciderlo ed era stato costruito su misura perché non si scostasse di un centimetro. Valérie diceva persino che gli risaltava lo sguardo.
Sentì Matt muoversi un poco spostando il peso da un piede all’altro come faceva quando stava per dire qualcosa di importante.
“Credi che stia per succedere qualcosa di brutto?”
Jackson si voltò a guardarlo, aveva un’espressione stranamente pensierosa e meditabonda, come se stesse ripercorrendo dei brutti ricordi e tentasse in qualche modo di riportarli a galla.
“Che cosa intendi?”
Oh, Jax sapeva perfettamente a cosa si riferisse Matt. Garrett, il loro augure, era stato così indaffarato in quella settimana da sollevare molti dubbi e il giorno prima avevano potuto scorgere Karim Sharif, il loro pretore, raggiungerlo e seguire con attenzione i suoi auspici. Tutti li avevano notati insieme; Garrett era un augure un po’ strano, non sacrificava molti animali nel tentativo di scoprire il volere degli dei nelle loro viscere, tuttavia sembrava particolarmente interessato al volo degli uccelli e a ciò che essi tentavano di suggerirgli.
Jackson ignorava come una persona potesse capire il futuro guardando dei semplici corvi, ma Karim sembrava avere molta stima del loro augure, perciò non poteva fare a meno di adeguarsi.
“Sono tutti in fermento negli ultimi giorni, più ansiosi del solito. Ho sentito che Chirone ha inviato un messaggio dal Campo Mezzosangue; non è un buon segno.”
“No” concordò il figlio di Marte “Stanno succedendo cose strane ultimamente”
Non era superstizioso, ma aveva notato anche lui che il vento aveva cominciato a tirare più forte di notte, come se Elio tentasse in qualche modo di spingere il sole a risorgere e allontanare le tenebre e gli incubi.
Già, incubi. Jackson ne aveva fatti molti, alcuni completamente assurdi come ci si aspetterebbe da un adolescente, ma altri erano stati talmente vividi che non aveva potuto ignorarli. Passeggiando per le vie di Nuova Roma aveva scoperto di non essere l’unico, erano in molti ad aver sognato scene tragiche e bambini. Ancora non sapeva cosa avrebbe potuto significare, ma di certo non era una coincidenza. Non per dei semidei, non con una profezia alle porte.

La tromba suonò proprio in quel momento, quando le cupe elucubrazioni di Jackson avevano avuto inizio e tentavano di ingrigire il suo viso.
Si raddrizzò con le spalle per l’ennesima volta e lasciò andare l’elsa della spatha che teneva chiusa nella guaina, legata alla cinta di cuoio. Tornò dentro insieme a Matt mentre un colpo di vento li trapassava come spettri. Mentre facevano ritorno videro altri due legionari camminarli incontro per prendere il loro posto come sentinelle. Si salutarono con un breve cenno del capo e proseguirono per la loro strada.
Aveva proprio bisogno di fare un salto alle terme e rilassare i muscoli in un bagno caldo. Era stata una giornata dura, aveva passato la mattina a rimettere in ordine l’armeria insieme a una figlia di Vulcano e a pranzo il suo stomaco era rimasto serrato negli incubi che lo avevano rincorso la notte prima, aveva preso parte agli allenamenti insieme ai suoi compagni della Terza Coorte e poi aveva dovuto presiedere al turno di guardia del tardo pomeriggio. Mancava ancora un’oretta alla cena che si sarebbe svolta al padiglione della mensa, ma sinceramente non aveva poi tutta questa fame. Si era sforzato di mangiare qualcosa all’ora di punta, aveva mandato giù qualche buon bicchiere dal sapore dolciastro e poi si era buttato a capofitto nei propri compiti con ancora il fantasma di quella bambina a stuzzicargli la memoria.

Era stato un sogno strano, pallido, aveva sentito un odore sgualcito di farmaci e le luci delle lampade appese al soffitto gli avevano scavato le pupille con rudezza. Aveva percepito un suono di passi continui e la divisa bianca di un dottore superarlo senza fretta. Si trovava in un’ala dell’ospedale, uno dei reparti più alti dell’edificio, forse al quinto piano e c’era un lettino immobile all’angolo della stanza. Raggomitolata sotto le coperte, una figura tutta esile e sottile dormiva quieta sul cuscino. All’inizio aveva pensato si trattasse di un bambino, ma avvicinandosi aveva potuto notare dei lineamenti più femminili, scavati dalla malattia e derubati dal colore rosso del sangue. Non aveva capelli sul capo e le dita parevano aghi di pino, spigolosi come stalattiti.
Accanto al letto, appoggiata a una sedia che aveva fatto ormai radici nel pavimento, una donna sedeva con sguardo perso ad osservare la figlia. Non c’erano lacrime a scavare il suo volto, ma aveva negli quell’oblio che solo la morte può portare.

Jackson non sapeva se quella visione, se così si poteva chiamare, apparteneva a un passato nemmeno troppo lontano o fosse uno scorcio del presente che si stava avverando da qualche parte nel mondo. L’ambiente era troppo famigliare per fargli pensare ad un passato o ad un futuro lontano, le tecnologie dell’ospedale erano quelle del loro tempo.
Quando aveva aperto gli occhi al mattino, si era ritrovato mille brividi sulle braccia e le occhiaie sul volto della ragazzina ben impresse nella mente.
La notte prima ancora una della Quarta Coorte si era svegliata di soprassalto urlando e aveva farneticato per tutto il giorno su dei bambini in orfanotrofio. Quando quel racconto gli era pervenuto alle orecchie, Jax non aveva voluto crederci. Troppo macabro per essere udito o narrato, una di quelle storie che hanno bisogno di buio e silenzio prima di poter essere raccontate.
Anche Matt aveva scorto qualcosa, Jackson ne era sicuro. Ne aveva avuto il sospetto sin da subito, ma aveva avuto una conferma solo qualche minuto prima, quando gli aveva accennato i suoi timori.
Prese fiato e si voltò verso di lui “Hai sognato anche tu un bambino, non è vero?”
“Cosa?!”
Matt balzò dalla sorpresa, fissandolo cupamente con quelle sue iridi grigie e metalliche, poi scosse la testa.
“A me puoi dirlo”
“Mi prenderesti in giro” tornò a fissare il selciato di pietre e sassi che stavano percorrendo per raggiungere le terme, era strano vederlo così scosso. Da che lo conosceva, Jackson aveva avuto miriadi di occasioni per deriderlo, ma non l’aveva mai fatto.
“Matt” lo richiamò “Siamo amici”
Il figlio di Robigus rimase in silenzio per qualche altro istante e il compagno dovette dargli una spallata per indurlo a parlare.
“E va bene” scrollò le spalle il biondo, preparandosi a snocciolare quel che si era tenuto per sé “Credevo d’aver sognato la vacanza che ho fatto con la mia famiglia in campagna, ma poi mi sono reso conto che il posto mi era del tutto sconosciuto. Non credo nemmeno mi trovassi negli USA, vedevo tutti quei bambini magri saltare da un tetto all’altro con la polizia alle calcagna, alcuni di loro tenevano delle mele o qualche pezzo di pane all’aglio. Dovevi vederli, correvano come lepri.”
Jackson ascoltava con interesse mentre teneva l’elmo pesante sottobraccio e inchiodava gli occhi davanti a sé, verso un edificio color perla che si innalzava oltre le capanne. “E?”
Matt inghiottì a vuoto “Uno di loro è scivolato e … beh sai com’è la polizia nei quartieri poveri.” Jackson annuì, da piccolo aveva visto qualche vecchio film. Non era riuscito ad apprezzarli appieno: mancavano di effetti speciali, non erano disponibili in 3D e risalivano ancora ai primi anni duemila perciò la qualità grafica non era decisamente delle migliori.
Tornò a guardare davanti a sé, concentrato.
“Che fine ha fatto il bambino?”
Matt scosse la testa “Non lo so, il cielo pieno di sole si è infranto in una notte fredda appena dopo il pestaggio, credo d’aver scorto un cane muoversi tra le stradine buie, ma non ne sono sicuro.”
Si tenne per sé le sue considerazioni, quel piccolo furfante doveva essere povero per rubare della frutta al mercato e scappare con la sua banda di trovatelli, a scuola la maestra gli aveva fatto vedere un film indiano con delle scene simili, anche se ora non ricordava bene il nome.

Tornò a concentrarsi sulla strada e intravide le porte delle terme proprio davanti a sé, si affrettò a salire i gradini e varcarne la soglia.
Non ci mise poi molto a disfarsi dell’armatura e deporre le armi sulla banchina, accanto alla tunica. Appoggiò il pilum e si passò una mano tra i capelli scuri, sentiva il sudore bagnargli la fronte appiccicosa e i corti capelli castani erano attecchiti sotto il peso dell’elmo. Si sentiva terribilmente stanco, sciupato dal maltempo e dalla routine della legione. Cercò di rilassarsi le spalle e prese un lungo respiro, prima di voltarsi e dirigersi verso le calde sale da cui proveniva tutto quel vapore.
Raggiunse la vasca fumante in pochi passi portandosi dietro un asciugamano, per un attimo gli balenò in testa l’idea di tuffarsi, ma era sicuro che i bagnanti già immersi non avrebbero gradito la sua entrata in scena. Raggiunse i gradini a lato della piscina e si lasciò investire dal vapore dell’acqua, tiepido come gli abbracci di sua madre.
Si lasciò trasportare dall’acqua fino ad appoggiarsi al bordo tiepido e prendere un lungo respiro. Quel posto era forse l’unico con un minimo di quiete, soprattutto con l’augure che girovagava a farneticare di vendette e tragedie.  Jackson aveva bisogno di tranquillità, di un luogo in cui poter poggiare la testa e svuotarla di ogni preoccupazione. A volte si chiedeva come potesse Karim risultare così imperturbabile, mantenere la calma e il contegno in ogni situazione. Lui non ci sarebbe riuscito e forse era per questo che non aspirava al titolo di pretore, gli bastava rendersi utile e avere una baracca da poter chiamare casa e dalla quale poter tornare a fine giornata, non era un tipo ambizioso.
Si chiese per un attimo come stessero andando le cose al Campo Mezzosangue, se vi fosse un via vai di semidei curiosi e pieni di tormenti o vivessero le loro attività con calma e ferrea disciplina.
Non poté non trattenere un sorrisetto. Da quanto gli era stato raccontato, Greci e disciplina non andavano di pari passo. Aveva sentito che vi fosse più libertà in quel Campo, che la gente fosse più insolente, meno servile e decisamente poco addestrata. Lì al Campo Giove vigeva molta più severità, più regole e i pretori non erano così flessibili e accondiscendenti con chi osava disobbedire ai comandi. I figli di Mercurio erano quelli più difficili da emendare alla legione, troppo spericolati e ribelli per poter essere relegati a una vita di restrizioni. Alcuni di loro avevano causato gravi danni anche dopo anni di addestramento e conservavano ancora quel loro essere vivaci, curiosi e spesso maldestri. Jackson li trovava simpatici dopotutto, non sarebbe stato in grado di conversare con loro senza venir derubato dei sesterzi che aveva in tasca, ma li trovava comunque dei tipi allegri e piacevoli da ascoltare.
C’era un ragazzo però che talvolta gli tornava ancora in mente. Non era un figlio di Mercurio né di qualche altra vispa divinità, un reietto che non aveva superato nemmeno il primo anno da probatio. Se ci pensava bene, poteva rivedere i suoi mossi capelli castani e quelle iridi fredde e marine, da squalo. Ricordava ancora il suo sorriso largo e folle, quel non so ché di cattivo e sadico che gli balenava negli occhi ogni volta che qualcuno si faceva male. Era stato al Campo forse per un paio di mesi, ma Jackson poteva sentire la sua risata ogni notte.
Aveva partecipato una sola volta ai ludi di guerra e aveva pugnalato  quattro avversari e due compagni come un bambino inforchetta la carne che ha nel piatto, con forza, senza rimorso.
Karim lo aveva bandito subito con disonore e per la prima volta da che era al Campo, Jackson aveva visto ardere la rabbia negli occhi del suo pretore.
Non aveva idea di che fine avesse fatto quel ragazzo, da solo in balia dei mostri che abitavano il mondo. Forse era morto. Da una parte gli dispiaceva, anche se ben poco propenso al gioco di squadra, quel giovane era pur sempre un semidio, una sorta di fratello per Jackson. Si chiese per un attimo se non avrebbero potuto fare di più per lui, essere più pazienti, cercare di capire quale fosse il problema e tentare di risolverlo.
Sospirò, odiava il passato. Era come un enorme calderone di schifezze che si versava addosso ogni volta che si fermava a pensare. Non era proprio in grado di liberare la mente da ogni dubbio o pena, e questo era il motivo principale per cui le sue notti erano tanto scompigliate.
Aveva la testa che gli martellava nelle tempie e un principio di sonno che l’avrebbe accompagnato nel mondo dei sogni quanto prima possibile. Non aveva voglia di dormire, di catapultarsi di nuovo in un altro incubo, ma le brevi onde della vasca lo cullavano come un infante e ben presto Jackson sappe che si sarebbe addormentato.
Provò a muovere i muscoli per mantenersi sveglio e pimpante, le ultime giornate al Campo Giove erano state piuttosto noiose. I loro pretori avevano deciso di comune accordo di non spifferare nulla ai legionari, perciò tra le Coorti avevano cominciato a vociferare storie assurde su non morti, aquile e qualche semidio greco che li avrebbe coinvolti nell’ennesima guerra contro divinità immortali.
Ovviamente non credeva quasi a nulla di queste dicerie, era palese che fossero frutto di una fervida immaginazione, anche se a volte Jax si domandava se non ci fosse un pizzico di verità in tutti quei racconti.
Fissò per un attimo la schiena di Matt mentre, come al solito, cominciava a fare l’idiota in mezzo alla piscina.
Che fossero segnali onirici? Non riusciva a credere nemmeno per un istante che tutti quei sogni fossero finti, semplici fantasie della stanchezza. No, c’era qualcosa di pericoloso nel modo in avevano scombussolato le menti dei suoi compagni. Ormai era certo che fossero degli avvertimenti, che Somnus stesse tentando di metterli in allerta in qualche modo, con qualche indizio sparso nella notte. Non gli piaceva il comportamento di Karim, era diventato evasivo, quasi monosillabico nelle risposte. Ormai l’atmosfera aveva cominciato a farsi tesa, i più piccoli faticavano ad addormentarsi e i più grandi vivevano le notti con grande affanno. Gli ultimi ludi di guerra erano stati quasi uno stratagemma per distrarre la legione dalla questione più importante: la profezia era cominciata.
Jackson ne era sicuro.


*** ***

Galem osservava la piccola piastrina che portava ancora al collo, rigirandosela tra le dita. Era passato più di un anno da quando era stato bandito dal Campo, ma d’allora non se l’era mai tolta.
“Non ti facevo un tipo nostalgico.” proruppe una voce pungente da dietro le sue spalle. Sentì Heather muoversi con passo svogliato nella piccola classe in cui si erano rifugiati. Era una ragazza piuttosto impressionante, doveva ammettere, erano mesi che viaggiavano assieme e Galem non aveva mai visto nemmeno un accenno di paura nei suoi occhi. Ovviamente sapeva che nessuno era immune al terrore, però quel carattere disinibito e provocante non poteva essere una maschera. Era sicuro che oltre quel desiderio di vana pazzia vi fosse una ragazza che, come tutte le altre, era in grado di urlare e piangere d’orrore. Tuttavia non aveva mai avuto particolare interesse a metterla alla prova, anzi trovava alquanto allettante l’idea di avere accanto una persona così tenace.
Sbuffò con un falso sorrisetto. Non gli mancava la legione e non sarebbe di certo tornato indietro se ne avesse avuto la possibilità, tutte quelle regole non facevano per lui. Galem era un ragazzo che amava fare ciò che gli dava piacere e vedersi confinato in una cupola di bontà e rispetto gli dava il voltastomaco.
“Dove sono gli altri?” domandò invece, alzando gli occhi prima su Heather e poi su Lilith, che come loro aveva deciso di rimanere in quell’aula silenziosa, forse per sfuggire alle continue liti che animavano Hawley e Gabriel.
“In corridoio, magari qualcuno di loro cadrà finalmente dalle scale” sollevò le spalle la figlia di Melinoe con un piccolo sorrisetto. Galem l’aveva sempre trovata una ragazza splendida con quei capelli di miele e quell’aria piccante e sempre pronta alla sfida. Sarebbe stata la sua compagna ideale, forse, se solo fosse stato in cerca di un’anima gemella.
Fece schioccare la lingua sul palato mentre nella testa si ripetevano le immagini di quella breve avventura. Non avrebbe mai immaginato di trarre tanta soddisfazione dal servire un bimbetto avido di vendetta, però così era stato e continuava ad esserlo. Stare in quella comitiva gli permetteva di immergersi sino al collo in ciò che gli andava di fare, non aveva limiti, nessun capo che gli dicesse di no o gli vietasse un qualche tipo di giocattolo nuovo. E a proposito di giocattoli, l’ultimo che aveva avuto si trovava ancora in quella vecchia aula, nel sotterraneo e probabilmente ci sarebbe rimasto per un altro po’, dato che nessuno di loro sembrava intenzionato a prendersi la briga di spostarlo.
Cercò di non ridere a quel pensiero, si era già divertito abbastanza per quel giorno. Ilioneo sarebbe stato via ancora per un po’, lontano da quella scuola sperduta nel Michigan. L’ultima volta che si erano incrociati era diretto verso Hollywood, ma Galem era sicuro che ormai fosse arrivato a Long Island o quantomeno nei pressi del Campo Mezzosangue.
Oh, non  vedeva l’ora che quella partita avesse inizio. Era stufo di stare nell’ombra ad aspettare, arruolare ragazzini indisciplinati –da che pulpito- e rimanere in quella stupida aula senza nulla da fare. Certo, Ilioneo aveva detto loro che avrebbero potuto spassarsela nelle città adiacenti nel frattempo, ma le settimane erano passate e il figlio di Mania cominciava ad essere stufo.
Provò a concentrarsi sul monotono ticchettare dell’orologio che Lilith aveva al polso, ma rinunciò dopo qualche secondo. La sua iperattività non aiutava in quei momenti, si sentiva annoiato e voglioso di rimettersi in gioco, straziato dai lunghi pomeriggi di attesa e impaziente di ributtarsi in un duello letale all’ultimo sangue.
Saltò giù dal banco su cui era seduto e raggiunse i vetri sporchi delle finestre. Le tapparelle erano vecchie e consumate, le tende lerce di polvere e acari, e dovette passare lo straccio della lavagna sopra il vetro per poter intravedere qualcosa all’esterno. Una coltre di alberi si estendeva per almeno un kilometro in direzione sud ovest, oltre la cui distanza Galem poteva intravedere i fili dell’elettricità tagliare l’aria e ingabbiare il piccolo agglomerato urbano che costituiva la città di Unforspeed, uno dei centri abitati meno in vista d’America. Era rimasto abbastanza indietro in fatto di informatica e tecnologia, per le strade erano ancora parcheggiate vecchie auto sverniciate e la maggior parte degli adolescenti non aveva mai visto un airboard. Nelle metropoli più avanzate come New York, Los Angeles o San Francisco, la maggior parte dei bambini nati dopo il 2020 non aveva nemmeno idea di cosa fosse uno skateboard o un paio di roller, gli unici residui di quei vecchi mezzi di trasporto erano tramandati da film di vecchia data o da nostalgici trentenni che passavano le loro giornate sulle piste.
Galem era un semidio, la tecnologia era spesso nemica dei mezzosangue, ma quand’era piccolo ricordava bene i ragazzetti di quartiere che si rincorrevano con i loro airboards o tentavono di catturare mostriciattoli colorati con i loro nuovi iPhone Shadow 13c. Una volta c’era Pokémon Go, o almeno era quello che suo zio John gli aveva detto.
Insomma, Unforspeed –come si evinceva dal nome- era una cittadina poco sviluppata, cocciutamente legata al passato e con un numero limitato di abitanti. Bastava pensare che i bambini frequentavano ancora le scuole pubbliche.

Fece scricchiolare il collo e si grattò la punta del naso, era così annoiato che sentiva il sangue ribollire pericolosamente nelle sue vene. Succedevano brutte cose quando percepiva quella sensazione magmatica nello stomaco, come se la sua discendenza divina si mettesse finalmente in mostra e manovrasse un po’ le menti dei mortali, rendendole folli. C’era sempre qualcuno pronto a perdere la testa per qualche breve istante quando il figlio di Mania era in vena di sollazzi, era come una processione. Quando Galem sentiva dentro di sé quel senso di angustia, sapeva che qualcuno stava per farsi male.
E questo lo faceva maledettamente sorridere.

Un rumore sordo richiamò i suoi pensieri al presente, facendogli voltare lo sguardo verso la porta dell’aula chiusa. Per un attimo rimase a fissare la maniglia con aria assente, poi si staccò dalla finestra e superò a grandi passi le piastrelle a scacchiera che rivestivano la stanza. Heather e Lilith erano già al suo fianco, sui loro volti spiccavano espressioni di perplessità e stizza.
“Quei due idioti se le stanno dando di santa ragione” borbottò la bionda con fare laconico, non sembrava particolarmente preoccupata della faccenda.
Dal canto suo, Heather non riusciva a comprenderla. Trovava quelle liti molto eccitanti, belle da vedere persino. Non condivideva l’irritazione della figlia di Melinoe, anzi, a volte si domandava se Lilith fosse in grado di godersi un buon spettacolo senza lamentarsi.
Tornò a rivolgere la sua attenzione verso il figlio di Mania, che sostava davanti all’entrata con occhi pallidi e glaciali. Ancora prima che aprisse la porta, Galem sapeva benissimo cosa avrebbe trovato aldilà della soglia.
Appoggiò le mani ambrate sulla maniglia in ottone, spingendola verso il basso e facendo una breve pressione per aprire la porta. Emise un cigolio spettrale rivelando il lungo corridoio rivestito di armadietti scassati e ragnatele, sembrava il set ideale per girare un documentario lungo e articolato. L’odore di chiuso permeava ancora l’aria e dietro gli armadi il ragazzo poteva quasi udire quei piccoli insetti zampettare sul muro. Quel posto era uno schifo: vecchio, lurido, abbandonato, una scuola lasciata a sé stessa da chissà quanto tempo. Avevano staccato l’elettricità decenni prima e le lampade a led erano incrostate di una marea di polvere che non sarebbe mai venuta via del tutto.
Galem si mosse nel buio tenue del corridoio, verso i rumori sordi che provenivano da dietro l’angolo. Ad ogni passo, la sensazione che aveva artigliato il suo stomaco diveniva più persistente e il suo cuore cominciava a pulsare più ritmicamente.
Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.
Strinse gli occhi quando un’ombra sul muro gridò agli altri di placarsi, agitava le braccia lunghe e nere come rami di un albero spoglio spostandosi sul pavimento freddo. Rimaneva a debita distanza, di questo Galem era sicuro, e scrutava la lite con occhi pigri e lontani. I suoi sforzi per fermarli erano flebili, lamenti che si prosciugavano prima ancora di aver lasciato la sua bocca.
Raggiunse a grandi falcate, quasi correndo, la fine del corridoio e voltò la testa. A prima vista non colse nulla, solo due sagome intente a scontrarsi, poi i suoi occhi riuscirono a riconoscerle: Oz si teneva da una parte dello stretto corridoio, poco dritto e con gli occhi affilati puntati sul ragazzo che aveva di fronte. Hawlay, da parte sua, rimaneva ben fermo dov’era, cocciuto e tronfio nella sua smorfia di impertinenza.
Lilith sopraggiunse al suo fianco in pochi secondi, estenuata “Ma che cosa …?”
Galem alzò un dito davanti alle sue labbra, mentre i suoi occhi pallidi rimanevano ancorati ai due ragazzi. C’era un che di estremamente eccitante nel modo in cui gli occhi di Oz balenavano sul figlio di Persefone, come aquile in cerca di una preda da dilaniare. Il suo volto chiaro in quel momento era gelido come il gesso e i suoi occhi parevano di pietra.
“Di’ al tuo cagnolino di stare a cuccia” sbottò Hawley con un che di canzonatorio, parlando con Galem, che continuò a fissarli con uno strano bagliore.
Oz era pericoloso, lo sapevano tutti. Era irascibile, iracondo, vendicativo e non sapeva darsi un freno. Quando era andato, era andato. Non c’era la possibilità che tornasse sui suoi passi, che la sua coscienza gli dicesse di fermarsi.
Ed era questo il motivo per cui anche Lilith, conoscendolo, poteva percepire la tensione che irradiava stando semplicemente in piedi, rigido come un boia.
Avrebbe voluto dire qualcosa, ma l’avvertimento di Galem era stato chiaro: stai zitta. Il figlio di Mania voleva quello che stava per succedere e sarebbe rimasto a guardare senza muovere un dito. Lilith ne era sicura.
Lanciò uno sguardo ai due ragazzi e rilassò un poco le spalle, i capelli biondi che si appiattivano sotto l’aria stantia del corridoio. Ormai il danno era fatto.
“Hawley?” lo richiamò il Romano con affabilità, aspettando che il figlio di Persefone gli rivolgesse la sua attenzione “Lo sai che a Oz non piacciono i bambini cattivi.”
Il ragazzo sbuffò, per nulla intimorito e rispose con lo stesso tono sprezzante “E che cosa vuole fare, mettermi in castigo?”
Ma non ebbe nemmeno il tempo di voltare il capo verso Oz perché il figlio di Tagete sia era già buttato contro di lui e dal collo del giovane sgorgava una scia di sangue scarlatto che usciva a fiotti dalla sua gola. Gli occhi di Oz balenarono sul volto di Hawley con ferreo odio, le mani strette attorno al suo volto ai suoi occhi sgranati e pallidi. Dalla sua bocca non uscì un fiato.
Estrasse il coltello come se avesse pugnalato un manichino di pezza e Hawley franò sul pavimento come un masso, la ferita che continuava a sanguinare e pulsare nella sua testa fino a farlo impazzire. Non riusciva a mettere insieme una parola di senso compiuto o a emettere alcun suono, ogni minimo movimento gli provocava delle lunghe scariche elettriche che gli accecavano la vista per istanti quasi eterni. Doveva aver beccato la carotide quel bastardo perché sentiva il suo stesso sangue defluire fuori dal suo corpo e macchiare il marmo sotto di lui, mentre le forze scemavano a poco a poco.
Figlio di puttana. Avrebbe dovuto saperlo che non l’avrebbe affrontato apertamente.
“Scusa, Hawley” sentì una voce pronunciare mellifluamente.
Bastardo.
Dei passi lo raggiunsero i breve tempo, felpati e gravidi di sdegnante ipocrisia. Il volto di Galem si delineò davanti al suo; la sua pelle ambrata, gli occhi da squalo, i capelli mossi e ombrosi. Non c’era niente di lui che avrebbe fatto pensare a un bravo ragazzo, figuriamo a un uomo d’onore.
Le sue labbra erano increspate in una smorfia, ma poteva quasi percepire un tenue divertimento che balenava appena dietro di esse.
Si piegò sulle ginocchia per scrutare meglio il suo volto, ora erano faccia a faccia.
“Niente di personale, amico mio” proruppe il castano estraendo un piccolo pugnale dalla tasca“ma questa giornata stava cominciando a diventare noiosa.”
Inghiottì a vuoto mentre la lama lo trapassava, sembrava un filo d’acciaio rovente che si insinuava nella carne e gli infilzava il cuore. Non aveva idea di che colore avesse la morte, pensava che fosse una luce fredda in un mare di sangue, ma quando il figlio di Mania lo uccise, l’unica cosa che Hawley vide fu il suo sorriso sadico e spietato.



 

*** ***


Devo uccidere qualcun altro? Perché ho già la lista pronta.
Io sono un po’ come Oz. Se dico una cosa, la gente deve fare quella cosa, altrimenti non va bene. Mi fa impazzire >.<

Comunque, è passato un po’ di tempo dall’ultimo aggiornamento. La scuola è iniziata, i compiti hanno cominciato a sbocciare come rose nere e appassite, le verifiche incombono con i loro artigli dietro ogni angolo e la vita ha finalmente un significato … no, non è vero. È gravida d’odio e vendetta come sempre -.-‘’
Ma sono tornata c: e come vi ho già detto ho già stilato la mia Death Note *sorrisosadico*
Potete salvarvi? Con un po’ di buona volontà da parte vostra e grande magnanimità da parte mia sì. E visto che io non perdono mai nessuno (sorrybutnotsosorry) la cosa è abbastanza difficile.

Detto ciò, torniamo a noi.
Qui finiscono tutte le menate mentali da Chi è chi? Cosa è cosa? Perché dal prossimo capitolo comincerà la vera storia ^-^
E visto che sono passate diverse settimane vi lascio con un pezzo del prossimo capitolo ù.ù





[…] Tirava un vento secco quel pomeriggio, sentiva l’aria riempirsi di sole e strangolarle la gola con fastidio mentre, seduta sull’erba verde e graffiante del prato, sfiorava con le dita le piccole margherite che si disperdevano sotto i suoi occhi. Era strano, aveva sempre immaginato che l’arrivo di una profezia avrebbe portato con sé un clima rigido e ostile, ben lontano dal calore che ustionava la sua pelle.
Sapeva che qualcosa era cambiato, che fosse la sua percezione di vedere le cose o la consapevolezza che qualcosa di più grande stesse per incombere su di loro, eppure era come se la natura non l’avesse capito, come se vivesse il suo corso con indifferenza, quasi insofferente agli dei e ai loro poteri. O magari se ne era accorta anche lei e voleva fingere di non avere paura del destino, o forse voleva solo illudere gli uomini e far credere loro che fosse tutto apposto.
Spostò lo sguardo sul foglio che aveva abbandonato nell’erba, sui colori che macchiavano la carta e le ricordavano le parole che lo Spirito di Delfi aveva espresso. Si era sempre chiesta cosa provasse la gente normale, che sinfonie udisse nei profumi, che emozioni vedesse nei colori, che fragranze percepisse nelle scritte che imbrattavano i muri. Il suo dottore da piccola le aveva detto di essere speciale, che solo a pochi era concesso di percepire la vita in quel modo e che la sinestesia era un dono. Crescendo, Bloom non aveva potuto che domandarsi se quel fenomeno sensoriale non fosse in qualche modo collegato allo spirito di Delfi. Forse il suo destino era già stato deciso alla sua nascita. […]





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Capitolo 8
*** Graeci et Romani ***


Graeci et Romani


Tirava un vento secco quel pomeriggio, sentiva l’aria riempirsi di sole e strangolarle la gola con fastidio mentre, seduta sull’erba verde e graffiante del prato, sfiorava con le dita le piccole margherite che si disperdevano sotto i suoi occhi. Era strano, aveva sempre immaginato che l’arrivo di una profezia avrebbe portato con sé un clima rigido e ostile, ben lontano dal calore che ustionava la sua pelle.
Sapeva che qualcosa era cambiato, che fosse la sua percezione di vedere le cose o la consapevolezza che qualcosa di più grande stesse per incombere su di loro, eppure era come se la natura non l’avesse capito, come se vivesse il suo corso con indifferenza, quasi insofferente agli dei e ai loro poteri. O magari se ne era accorta anche lei e voleva fingere di non avere paura, o forse voleva solo illudere gli uomini e far credere loro che fossero al sicuro.
Spostò lo sguardo sul foglio che aveva abbandonato nell’erba, sui colori che macchiavano la carta e le ricordavano le parole che lo Spirito di Delfi aveva espresso. Si era sempre chiesta cosa provasse la gente normale, che sinfonie udisse nei profumi, che emozioni vedesse nei colori, che fragranze percepisse nelle scritte che imbrattavano i muri. Il suo dottore da piccola le aveva detto di essere speciale, che solo a pochi era concesso di percepire la vita in quel modo e che la sinestesia1 era un dono. Crescendo, Bloom non aveva potuto che domandarsi se quel fenomeno sensoriale non fosse in qualche modo collegato allo spirito di Delfi. Forse il suo destino era già stato deciso alla sua nascita.

Prese un lungo respiro e allungò le dita verso il biglietto stropicciato che aveva sotto il naso, lo aveva torturato tra le mani per diversi minuti nell’arco di quella lunga giornata e anche il giorno prima, con gli occhi sfiniti dal sonno e il passo ondeggiante che la guidava verso il letto, non era stata in grado di disfarsene nemmeno per qualche ora e l’aveva appoggiato sul comodino, dimodoché potesse agguantarlo e analizzarlo nuovamente in ogni momento della notte.
Era irritata, sembrava che chiunque si ricordasse la profezia tranne lei. Avrebbe voluto essere utile, doveva essere utile in qualche modo, ma non riusciva a raccattare nemmeno un istante di quel passato così vicino, come se la sua mente avesse avuto un blackout in quei pochi minuti. Sbuffò, quelle lettere intrise di colore le facevano saltare i nervi. Aveva provato a distendersi nell’erba e prendersi una pausa per rilassarsi, ma non aveva funzionato molto bene. Era come ossessionata da quella profezia e più la osservava, più la studiava e più Bloom sentiva di essere vicina alla soluzione … anche se effettivamente non aveva idea nemmeno di cosa fosse la soluzione in questione.
Si passò una mano tra i lisci capelli color zenzero e mentre lo faceva sull’erba comparve un’ombra nera e il sole che le aveva infranto la pelle svanì nel nulla, alle sue spalle. Voltò la testa all’indietro, verso il ragazzo biondo e sorridente che le faceva da scudo dai raggi ultravioletti.
“Ancora qui ad arrovellarti il cervello?” domandò Francis con una quiete a cui l’Oracolo quasi non poteva credere. Si sedette a gambe incrociate sul terreno, di fronte a lei, e continuò a scrutarla con attenzione.
Bloom, da parte sua, si ritrovò a sollevare le spalle. “Non riesco a ricordare nulla.”
Aveva un’espressione così affranta in quel momento che il figlio di Iris parve barcollare un po’, alla fine le prese una mano tra le sue e le regalò uno di quei sorrisi acquosi che si danno ai bambini.
“I ricordi riaffioreranno” esclamò con convinzione “devi solo aspettare.”
“La fai facile tu” borbottò la ragazza “Sei un tipo tranquillo per natura. Ma tutti si aspettano qualcosa da me, okay? E io non ho nulla da dare o dire o fare, o qualsiasi altra cosa dovrebbe fare un Oracolo.”
“Nessuno si aspetta niente da te, non sei mica Wonder Woman!” sghignazzò il biondo, ma capiva perfettamente come si sentisse Bloom. Non voleva che si addossasse un peso così grande, aveva solo sedici anni e tutta la vita da vivere, c’era tempo per crescere e maturare.
Le prese il foglio dalle mani e se lo mise in tasca, tanto non sarebbe risalita a niente in quel modo. Aveva bisogno di distrarsi un po’.
Bloom non fece obbiezione, se da una parte fremeva per comprendere appieno quelle parole, dall’altra era sollevata che Francis le avesse tolto quel fardello da sotto il naso. Si sistemò meglio la canotta bianca che indossava e tornò a fissare le biglie grigie del figlio di Iris. Prima di incontrare lui, Bloom credeva che la progenie dell’arcobaleno avesse occhi vividi e ardenti, di un azzurro splendente o un verde penetrante. Colori accecanti, lucidi, accesi, invece Francis aveva gli occhi del colore della fuliggine, come di un camino spento da tempo.
Fece schioccare la lingua sul palato, prima di parlare“Quindi ci sarà una spedizione”
“Una missione” la corresse il figlio di Iris con benevolenza, nemmeno di fronte a una possibile guerra riusciva a perdere il controllo, sempre così tranquillo.
“E sai già chi partirà?”
Francis scrollò le spalle, vi sarebbe stata un’altra riunione in via della mattinata, ma lì su due piedi non aveva la benché minima idea di chi si sarebbe offerto volontario.
“È da ieri che si mormorano nomi tra le Cabine, ma nulla di ufficiale.”
La ragazza annuì, sovrappensiero. Ci aveva pensato tutta la notte e solo pochi volti si erano delineati nella sua mente. La verità era che la maggior parte dei ragazzi al Campo aveva passato solo una manciata di anni ad allenarsi e quasi nessuno di loro avrebbe affrontato una profezia impervia di sua spontanea volontà. E Bloom non li giudicava per questo, come avrebbe potuto? Lei che a mala pena riusciva a tenere in mano una spada.
“A che pensi?”
Bloom si ridestò al suono di quella voce e tornò a guardare gli occhi grigi e amichevoli di Francis, ancora non del tutto sicura se rivelargli la decisione che aveva preso o meno. Forse sarebbe stato meglio aspettare, era certa che si sarebbe opposto e che avrebbe tentato di dissuaderla.
“Niente di importante” scosse la testa “Senti, perché non ci vediamo dopo, ti va? Passo in infermeria a vedere come sta Chloe e poi …”
“Devo andare alla riunione dopo, ma non credo che durerà molto. Forse riusciamo a passare un’oretta insieme prima di pranzo.” ragionò il biondo, ancora non del tutto convinto.
Bloom si ritrovò a boccheggiare per qualche secondo, ma si riprese subito “Ah sì, certo. Allora … ci vediamo dopo.”
“Ci vediamo dopo.” ripeté il figlio di Iris lentamente lanciandole uno sguardo strano,  mentre la ragazza si rialzava dall'erba e comnciava ad allontanarsi.
Non era sicura di non aver suscitato il minimo sospetto nel biondo, ma contava sul fatto che negli anni si fosse fatto un’idea abbastanza chiara della stranezza che talvolta la prendeva. E puntava su quello.



L’infermeria non era poi così lontana e sapeva per certo che Chloe era là. L’aveva vista piuttosto scossa l’ultima volta e ancora di più dopo la riunione del giorno prima, ma non era riuscita a ritagliarsi un po’ di tempo per passare da lei. Ogni volta che la figlia di Ilizia era turbata, si rinchiudeva in infermeria a dare una mano, era come uno sfogo per lei. Bloom credeva che ognuno di loro avesse il suo modo per combattere le emozioni, ma non poteva non ammettere che quello di Chloe fosse anche quello più utile, e altruista.
Come pensava, appena varcò la soglia una chioma bionda e famigliare attirò i suoi occhi. Chloe stava sistemando le lenzuola di uno dei tanti letti vuoti e non sembrava essersi accorta della sua entrata.
Si avvicinò a lei con passo tranquillo, beandosi dell’odore floreale che permeava l’aria.
“Ehi” esclamò arrivandole alle spalle.
Chloe sobbalzò, presa alla sprovvista, ma sul suo volto si delineò ben presto un sorriso tiepido. Bloom non stentò a credere che fosse reale, la conosceva abbastanza bene da sapere che se non fosse stata realmente felice di vederla, non avrebbe finto di esserlo. Non era una di quelle persone che si mettono maschere solo per compiacere gli altri, lei era sincera.
La osservò attentamente mentre si passava una mano tra le crespe ciocche di capelli che le erano finite sul volto, e si lasciò cadere sul materasso che aveva appena finito di sistemare.
Prima che potesse protestare, Bloom prese un rapido respiro e aprì la bocca “Come stai? Non sembravi stare troppo bene l’ultima volta. Avrei voluto passare prima, ma con tutta la storia della profezia … ero così presa a tentare di capirci qualcosa, che il tempo è passato in secondo piano.”
“Non preoccuparti” la interruppe la ragazza, ignorando le pieghe delle bianche lenzuola e grattandosi il mento con fare innocuo.
Bloom la fissò un istante, finché non capì che non avrebbe continuato. Allora prese il coraggio tra le mani e si sistemò meglio sul materasso.
“Chloe, eri palesemente sconvolta dalla profezia. Siamo amiche, lo sai che con me puoi parlare.”
La figlia di Ilizia non disse niente per quello che parve un minuto lunghissimo, poi scrollò le spalle.
“Quel mito … insomma, non è possibile che abbiano fatto una cosa del genere, vero? L’idea che Apollo … che mio zio abbia dato inizio a un massacro del genere …” le parole scemarono insieme alla sua voce.
No. Dietro ogni famiglia si cela un passato oscuro, ed è chiaro che dietro una famiglia immortale vi siano molte più ombre, ma Chloe non poteva accettare quella verità. Non le sembrava possibile che un dio come Apollo, che il padre dei suoi compagni fosse un assassino. Non era da lui.
D’altronde però, i miti narravano di innumerevoli morti, di innumerevoli tragedie e in ognuno di questi miti era presente un dio. Solo che Chloe non voleva accettarlo, voleva continuare a credere nella bella famiglia dell’Olimpo che talvolta litigava, come qualsiasi altra famiglia.
Solo che la verità era un’altra.
“Se è davvero Ilioneo a volere vendetta, se il nostro nemico è davvero un bambino tanto piccolo … Bloom, nessuno qui avrebbe mai il coraggio di affrontarlo.”
Bloom rimase in silenzio, improvvisamente pietrificata. Chloe aveva ragione; nessuno lì al Campo avrebbe mai trovato la forza di colpire un fanciullo, né tantomeno di risvegliarsi al mattino e continuare a vivere la propria vita come se nulla fosse.
Però loro dovevano vincere, no? Erano i buoni dopotutto, nei film era sempre così.
Per un solo istante, Bloom si domandò chi fossero i cattivi in quella guerra. Loro avrebbero combattuto per la salvezza dell’Olimpo, dei propri genitori e del Campo Mezzosangue; Ilioneo invece avrebbe combattuto per una famiglia ch’era stata distrutta proprio dall’Olimpo.
Tornò a scrutare il volto della figlia di Ilizia, stavolta non c’era nessun sorriso su quelle morbide labbra.
“Dobbiamo farlo, Chloe. Dobbiamo almeno provarci.”
Non era una situazione facile, se ne rendeva conto, ma non c’era nient’altro che potessero fare.
La bionda non disse nulla e continuò a torturarsi le labbra con i denti, sembrava abbattuta. Erano amiche da molto tempo, praticamente da quando Bloom era stata designata come Oracolo del Campo e ormai si conoscevano come le proprie tasche. Ciò che pensava una, pensava l’altra. Ed è per questo che quando Chloe alzò lo sguardo verso di lei, Bloom seppe con certezza che le aveva appena letto la mente, e le sue parole non la sorpresero.
“Vuoi andare in missione.”
La sua voce era calma, ma il suo sguardo la penetrava quanto una spada d’acciaio. E Bloom non poteva mentirle.
Annuì con la testa “Ci ho pensato su. Non starò qui al Campo con le mani in mano, mentre qualcun altro affronta la profezia che io ho espresso; non riuscirei a perdonarmelo.”
Si aspettava uno sguardo di ammonimento o un tentativo di farla ragionare, di farle cambiare idea, ma Chloe non disse niente. Non fece niente. Si limitò a osservarla con un che di enigmatico e pensieroso, e d’un tratto fu come se gli ingranaggi del suo cervello avessero ripreso a funzionare.
I suoi occhi si illuminarono di quella che –Bloom poteva scommetterci- era la luce di una brillante idea, di un piano perfetto.
Le voltò le spalle e cominciò a camminare fino al lato opposto dell’infermeria, come a volerci pensare su per un’altra manciata di secondi. La rossa attese con impazienza e curiosità.
Quando finalmente si fu decisa, Chloe si voltò verso l’amica, un barlume di convinzione nel volto ambrato “Va bene, ma dovrai portarmi con te.”
“Cosa?”
Quella era l’unica cosa che Bloom non si sarebbe mai aspettata. Aveva sempre pensato a lei come a una ragazza delle retrovie. Non era un guerriero, non sapeva brandire una spada né tantomeno usare un arco, lei stessa si riteneva inutile sul campo di battaglia. Per questa serie di motivi, l’espressione che si disegnò sul volto della ragazza fu sorprendentemente esterrefatta.
“Promettimi che lo farai” la sua voce era come un ordine e Bloom, sebbene ancora restia alla cosa, non poté che acconsentire.
“Ok, ci andremo insieme, solo non capisco perché …?”
“Fidati di me.” Il sorriso che le baluginò sul viso fu incredibilmente piacevole da guardare, soprattutto se confrontato con l’aria lugubre che l’aveva rivestita fino a quel momento. Bloom avrebbe voluto chiederle di più, scoprire perché mai avesse deciso di prender parte a quella missione, però voleva credere in lei. Non avrebbe mai fatto nulla per danneggiare il Campo, lo sapeva bene, e dopo tutte le volte che l’aveva coperta con Chirone glielo doveva. Sì, perché Bloom non aveva preso sul serio la storia dell’Oracolo, soprattutto nei primi mesi al Campo. Aveva continuato a varcare i confini magici per motivi che a qualsiasi semidio sarebbero parsi inusuali: aveva voglia di fare shopping; gli mancava il cibo dei Fast Food; aveva bisogno della connessione ad internet. E Chloe le aveva sempre guardato le spalle. Quindi sì, poteva fidarsi di lei per una volta.



Ci era voluto molto perché l’intera sala da ping pong si riempisse dei portavoce delle varie Cabine e per tutto il tempo, Bloom aveva potuto sentire su di sé lo sguardo criptico di Francis Lawyer. Non avrebbe dovuto trovarsi lì e questo, il figlio di Iris lo sapeva benissimo. Sentiva i suoi occhi scavarle il viso con sospetto, erano amici da così tanto tempo che Franz avrebbe dovuto sapere già in anticipo cosa avrebbe fatto la ragazza. Più tardi avrebbe dovuto sorbirsi le sue prediche, ma fino a quel momento Bloom era intenzionata ad andare fino in fondo.
Quando anche l’ultimo membro del consiglio si fu seduto, Chirone si schiarì la voce e i suoi occhi antichi si posarono sul capo dei ragazzi che aveva cresciuto.
“La profezia è iniziata” proruppe con forza, probabilmente decidendo di non tergiversare e arrivare dritto al dunque.
Dai lati del tavolo si alzarono vari mormorii, che però vennero scacciati dall’impazienza del Centauro “Ho inviato un messaggio al Campo Giove e i loro pretori sono più che disposti a collaborare e inviare un gruppo di semidei in missione. Vi incontrerete in California, alla Baia della Mezza Luna, da lì non dovrete far altro che arrivare a Waikiki e …”
“Raggiungere la Casa di Apollo” concluse Quinn giocherellando coi pulsanti dell’mp3.
“E chi partirà?” domandò con più serietà Austin Thoreman, portavoce della Cabina numero undici.
Per qualche secondo nessuno fiatò, come in attesa di qualche tributo volontario, e Bloom decise di buttarsi.
“Io parteciperò” esclamò con convinzione e si trattenne dal voltarsi verso gli altri alla ricerca di una qualche obbiezione “E Chloe verrà con me.”
La figlia di Ilizia, al suo fianco, annuì con sicurezza. Nessuno là avrebbe mai scommesso un penny su loro due, tuttavia nessuno parve contestare.
Ora sì che Bloom poteva percepire l’occhiata insistente di Francis ed era sicura che se si fosse sporta a guardarlo, avrebbe potuto vedere un’espressione scura sul suo volto.
E infatti non si stupì di udire la sua voce, poco dopo.
“Non potete. Non sapete nemmeno brandire una spada, vi fareste uccidere.”
Aveva ragione, come al solito, ma stavolta Bloom non si sarebbe tirata indietro. Sentiva di dover partecipare, ne doveva fare parte.
“Forse” ammise con razionalità “Ma non starò qui al Campo mentre il nemico si prepara alla guerra. Io sono l’Oracolo.”
“Appunto. Tu enunci le profezie, ma siamo noi semidei a combatterle.” continuò il figlio di Iris, intestardito. Bloom sapeva quanto Francis potesse rivelarsi una testa calda delle volte, ma non aveva voglia di litigare con lui.
“Parteciperò a questa missione, che tu lo voglia o no.”
Franz strinse i denti, i suoi occhi grigi parvero contrarsi in un’imprecazione, ma poi i suoi polmoni si riempirono di un lento respiro e il suo volto rigido parve ammorbidirsi un poco, ma non abbastanza.
“Va bene, allora, ma se credi che ti lascerò andare a morire da sola, ti sbagli di grosso” si voltò verso Chirone tra l’irritato e lo spazientito “Andrò con loro.”
“E io mi unirò a voi” esclamò Clyde all’istante, dopo essere rimasto in disparte ad osservare lo scambio di battute tra il figlio di Iris e l’Oracolo di Delfi. Era un ragazzo alto e atletico, con abbastanza narcisismo e sicurezza da poter brandire una sciabola senza rischiare di darla in un occhio a qualcuno, dunque avrebbe potuto rivelarsi utile. Molto utile.
“E ci seguirà anche Rex” continuò poi con nonchalance, quasi ghignando all’espressione allarmata che si disegnò sul volto del figlio di Asclepio. Era un tipetto tutto solitario e taciturno, talmente anonimo che molti al Campo non si erano ancora fatti un’idea chiara sul suo conto. Non se la cavava male con l’arco, anche se si allenava perlopiù da solo nella foresta e rifuggiva dalle lezioni di gruppo della Cabina di Apollo. Nonostante questo particolare, Bloom rimase alquanto spiazzata dalla scelta del figlio di Melpomene. Stava per ribattere, quando un’improvvisa consapevolezza si fece spazio dentro di sé: se lei e Chloe potevano partecipare all’impresa, perché mai non avrebbe potuto partecipare anche un tipo come Rex?
Fu questo pensiero a frenarle la lingua, mentre Chloe e Francis accoglievano il nuovo arrivato.

Rex, da parte sua, non disse una parola, ma riuscì a lanciare un unico sguardo criptico a Clyde prima di sprofondare nuovamente nella sedia. Si sentiva come strangolato dagli sguardi dei presenti e avrebbe voluto alzarsi in piedi e lasciare quella sala senza voltarsi mai indietro, ma il suo corpo si era fatto rigido come un sasso e le sue gambe rimanevano impiantate al terreno come le radici di un albero. Sentiva i muscoli del viso contratti, soprattutto quelli della mandibola e una sensazione tanto spiacevole quanto famigliare aveva cominciato a diradarsi nel suo petto come una nebbia.
Si sentiva a disagio, aveva le mani sudate e il respiro gli scivolava fuori dal naso lentamente, come se cercasse di non far rumore, di non farsi udire. Aveva la bocca secca, come se la timidezza avesse risucchiato tutta la sua saliva e l’avesse lasciato lì a boccheggiare.
Non amava quella sensazione, quella di essere sotto i riflettori o di trovarsi in una stanza, circondato da persone. Odiava quella sua percezione della realtà, era come trovarsi dietro un vetro trasparente e aldilà di quella superficie, il mondo era pieno di colori, pieno di sorrisi. Ma lui non ne faceva parte, era confinato in quella cella di vetro e non aveva idea di come uscirne. Non c’erano porte, non c’erano finestre, alcune volte quasi non riusciva a sentire le voci degli altri, come attutite da quella superficie. Ecco, quel vetro era la sua pelle, la sua stessa pelle. E c’erano giorni in cui si chiedeva cosa vedessero le persone su quel vetro, se riuscissero a scorgere –dietro gli occhi appannati e il corpo rigido e immobile- le urla che animavano la sua mente e la paura che lo divorava.
E la risposta era no. Non vedevano mai niente.
Non voleva partecipare a quella missione. No, anzi sì. Non lo sapeva, era confuso. Una parte di lui continuava a gridargli che quella sarebbe stata la sua occasione, avrebbe potuto dimostrare agli altri chi era veramente, avrebbe potuto far parte di un gruppo, come aveva sempre sognato. E quando sarebbero tornati di nuovo al Campo, la gente si sarebbe ricordata il suo nome.
Ma se poi qualcosa fosse andato storto? Se avesse combinato un casino? Forse avrebbe dovuto restare al Campo. Sì, sarebbe stato più sicuro. Lui sarebbe stato al sicuro. Non era bravo a stare con gli altri, e comunque se la sarebbero cavati benissimo anche da soli, anche senza di lui, soprattutto senza di lui. Non avevano bisogno di lui, nessuno ne aveva bisogno a dire il vero. E a lui andava bene così; se ne sarebbe stato nella sua Cabina, come al solito. Era così che funzionava, no? Non poteva essere altrimenti.
Quindi sì, ora si sarebbe alzato e avrebbe detto a tutti che non aveva intenzione di prendere parte a quella missione. Sì, ormai era deciso. Non sarebbe partito.
Prese un respiro vuoto e quasi poté percepire le sue stesse costole dolere al pensiero di ciò che stava per fare.
Al tre mi alzo e lo dico. Lo avrebbe fatto. Non ci vuole niente: ti alzi, parli, ti scusi e ti siedi.
Uno. Ma poi perché avrebbe dovuto scusarsi? Non era mica stato lui a offrirsi volontario. Però magari loro si aspettavano delle scuse … sì, insomma magari avrebbe dovuto chiedere scusa.
Due. C’erano tutte quelle persone anche prima? Sentiva la testa intasata di pensieri e il tavolo da ping pong era circondato da mezzosangue intenti a parlottare tra di loro, mentre Chirone ragionava sul da farsi.
Tre. No, troppo presto. Conto di nuovo fino a tre e poi lo faccio.
Era terribilmente caldo in quella stanza, più di quanto si sarebbe aspettato. Si sentiva le guance scottare, sperò di non essere arrossito.
No. Cazzo, no. Ti prego, le guance rosse no. Abbassò lo sguardo sulle sue mani, che si attorcigliavano tra di loro nel disagio più totale.
E se avesse partecipato alla missione, invece? Forse avrebbe potuto farlo. Insomma, se Clyde l’aveva scelto, un motivo doveva pur esserci. Forse avrebbe potuto far fronte ai propri timori, forse sarebbe andata bene.
Stronzate, questi buoni propositi non vanno mai a finire bene, lo sai, si redarguì col pensiero. A volte pensava di essere pazzo per il modo in cui pareva conversare più con la voce che aveva in testa, che non con il mondo esterno. A volte si chiedeva se gli altri pensassero nello stesso modo, se anche loro avessero una vocina insistente –la coscienza, presumeva- che continuava a bacchettarli.
Certo che ce l’hanno, idiota. Non sei messo così male. Quella voce aveva ragione, erano pensieri stupidi.
Si sentiva lo stomaco in subbuglio, e non si era ancora alzato.
Era passato troppo tempo, ormai era tardi. Sarebbe sembrato scemo ad alzarsi dopo tutti i minuti che erano trascorsi. E se poi avesse balbettato? Se si fosse ingarbugliato nelle frasi, o avesse parlato a voce troppo sommessa?
Aveva fatto bene a rimanere seduto. Tzeh, come se volendo sarebbe mai riuscito ad alzarsi e aprire la bocca. Era un vigliacco, Rex lo sapeva bene.
Ed era proprio per questo che avrebbe partecipato a quella missione. Perché non aveva abbastanza coraggio per dire di no.
Un moto di tristezza gli sciolse le membra, il brusio dei compagni parve attutirsi e anche il suo cuore cominciò a rallentare.
Non era in grado di fare proprio niente, era inutile. E lo sarebbe stato anche in quella missione. Perché non poteva essere come gli altri? Perché cazzo era nato così? Se vi era davvero un posto per tutti nel mondo, qual era il suo? Lui, che a momenti neanche si sentiva umano da tanto era strano e diverso.
Ora basta, che se no poi piangi. Avrebbe anche potuto piangere, le sue lacrime erano come invisibili agli occhi delle persone. A scuola piangeva spesso e non se ne accorgeva nessuno, o magari non importava a nessuno. Aveva sempre preferito credere alla prima opzione.

Dall’altro lato del tavolo, Rex poté notare un’affabile Chloe che tentava di sorridergli, incoraggiante. Allontanò lo sguardo e lo posò sulla superficie verde del tavolo, avrebbe voluto sorriderle di rimando, ma si sentiva in imbarazzo quando qualcuno –chiunque- lo fissava e i suoi tentativi di increspare le labbra in un sorriso erano, come dire, imbarazzanti. Praticamente non era in grado di fare neanche quello. Che incapace.
Cercò di riconcentrarsi sulla conversazione che stava avendo luogo in quel momento. Avevano ricominciato a discutere del viaggio e di come avrebbero riconosciuto la Casa di Apollo.
“Forse dovremmo portarci dietro anche Lavi” si ritrovò a mormorare ad alta voce il figlio di Iris, meditabondo, e l’attenzione di tutti i presenti si spostò verso un ragazzo dai ricci capelli di fuoco che sonnecchiava bellamente nell’angolo. Nessuno si prese la briga di svegliarlo.
“Lo porteremo con noi” annuì con un sorrisetto Clyde, quasi incredulo di fronte alla narcolessia del giovane figlio di Hypnos. Davvero era in grado di dormire in qualsiasi situazione?
Si sistemò meglio il colletto della maglia e tornò a fissare il bel volto di Franz, con ancora quello stesso ghigno stampato in faccia. Il figlio di Iris incrociò i suoi occhi solo per un istante prima di continuare a rivolgere la sua attenzione al giovane Oracolo. Sembravano in attesa di rimanere da soli per dar sfogo a una grossa sfuriata e Clyde avrebbe giurato che quella volta ci sarebbe voluta più di una scrollata di spalle per far pace.
Erano una bella combriccola di sfasati, si ritrovò a pensare nel frattempo. Insomma, lui sapeva combattere, ma i suoi compagni erano abbastanza degli inetti. Chloe e Bloom non avevano mai preso in mano un’arma in vita loro, e Lavi sarebbe stato in grado di addormentarsi nel bel mezzo della battaglia, per quanto ne sapeva. Gli unici su cui poteva contare erano Francis e Rex, ma nessuno dei due era tutto questo portento. Sperò che i loro compagni di squadra romani fossero messi meglio.
 


“Cosa ti è saltato in mente?!” sbraitò il figlio di Iris, una volta uscito dalla Casa Grande.
Bloom tentò di non dargli corda, ma si sentiva ribollire il sangue.
“Vuoi farti uccidere? Non sapresti distinguere un forcone da una forchetta!”
“Non sono fatti tuoi! Non sei la mia balia, non devi seguirmi ovunque vada!” odiava quella parte di lui, quella che si sentiva in dovere di proteggere tutti. Non era una bambina, era in grado di guardarsi le spalle anche da sola.
“Sì, invece. Perché non sei palesemente in grado di fare due passi senza cacciarti in qualche guaio.”
“Ah, è questo quello pensi? Puoi restare benissimo al Campo se ti creo problemi, ho altri compagni al mio fianco.”
Franz sbuffò, come se l’avrebbe mai lasciata partire da sola. Però si sentiva ferito. Si era comportata come nulla fosse quella mattina e poi se ne era venuta fuori con quell’assurda storia nel bel mezzo della riunione, l’aveva colpito alle spalle!
E Bloom ne era cosciente.
“Sapevo ti saresti arrabbiato” esclamò dopo qualche istante di attesa, intercettando i pensieri del ragazzo “Ma, Fra, io devo venire con voi. Me lo sento.”
“Ti farai ammazzare” borbottò il biondo, ma il tono della sua voce stava già scemando e all’ira si stava cominciando a sostituire una sofferta rassegnazione.
“In quel caso ci faremo ammazzare entrambi” gli sorrise l’Oracolo. Sapeva che ne avrebbero riparlato, che quella conversazione non era finita, ma in quel momento aveva bisogno di un amico che la sostenesse, non di un litigio.
“E va bene” si lasciò andare il semidio “Ma dovrai fare quello che dico e se ci troveremo in una situazione critica …”
“Farò tutto quello che vorrai” lo interruppe la rossa con un sorriso birichino e complice allo stesso tempo “Allora, quando si parte?”
Sprizzava entusiasmo da tutti i pori, era elettrizzata da quella missione e il vago senso di preoccupazione sembrava essersi assopito nell’eccitazione.
“Oggi stesso” schioccò il figlio di Iris “Gli altri saranno già andati a preparare lo stretto necessario per il viaggio, sarà meglio sbrigarci. Il punto di ritrovo è davanti all’insegna del Campo Mezzosangue, vedi di non metterci troppo.”
L’ultima parte della frase dovette praticamente urlarla perché la ragazza si era già fiondata verso le sue stanze, giù alla caverna. Mentre la vedeva correr via, non poté che augurarsi che quell’avventura finisse bene, almeno per lei.



Quasi un’ora più tardi, un gruppetto di giovani semidei era pronto per partire. Chloe e Bloom si erano procurate due spade all’ultimo minuto, entrambe molto fine e facili da brandire. Chloe aveva preso lezioni sul finire dell’estate prima, ma non aveva ottenuto grandi risultati e non ricorda più granché delle varie mosse. Bloom invece non aveva proprio mai preso in mano un’arma in vita sua, il che era abbastanza patetico.
Era quasi buffo vederli insieme: Francis svettava per quanto riguarda l’altezza, ma nemmeno Clyde era poi tanto basso. Lavi aveva ancora una faccia frastornata dal sonno e i suoi capelli apparivano spettinati e spelacchiati come quelli di un cucciolo di ghepardo. Rex rimaneva un po’ in disparte, con gli occhi che non sapevano bene dove posarsi e le mani sotterrate nelle tasche dei jeans. Si sentiva un po’ fantasma, a dire il vero.
“Si parte!” gridò Lavi in un folle tentativo di tenere le palpebre aperte e convincersi a rimanere sveglio, per sicurezza cominciò a muovere anche il busto e le articolazioni.
“Non fare l’idiota” borbottò Clyde passandogli accanto e proseguendo verso il bosco, seguito a ruota dagli altri.
“Stavo solo cercando di rendermi utile. Ma se preferisci portarmi in braccio, posso anche smettere di combattere il sonno.” Alzò le mani il figlio di Hypnos, provocante.
Clyde sghignazzò “Non sei il mio tipo”
“Vuoi dire che hai un tipo preciso? Come siamo selettivi, pensavo che al cuor non si comandasse.”
Clyde si voltò a fissarlo e per un attimo le sue labbra si piegarono in una smorfia “Non mi piacciono i ragazzi, te l’ho già detto.”
“Ah-ah, e io ci credo.”
Il resto del bosco Lavi se lo fece di corsa, con Clyde alle calcagna. Se non altro quello era un bel modo per rimanere attivi.
 

*** ***


Tra i due pretori non era mai corso buon sangue, ma in quel momento Alyx aveva davvero superato sé stessa.
“Come hai potuto farlo?! Avremmo dovuto consultarci” la sua voce altisonante rimbombava nella tenda con clamore, incurante di ciò che avrebbero potuto pensare i legionari che passavano da quella parte.
Erano stati due giorni piuttosto rigidi tra la profezia dell’Oracolo e gli auspici del loro augure, e la tensione tra i due pretori era arrivata al culmine. Non erano mai andati realmente d’accordo e Karim sospettava che il loro rapporto sarebbe vacillato in ogni caso. Ma cosa aveva scatenato l’ira della figlia di Mitra, vi starete chiedendo? Ebbene, il giovane Karim Sharif ci aveva pensato su per ore prima di rispondere al messaggio di Chirone e aveva deciso autonomamente di inviare una missiva al Campo Mezzosangue per avvertirli che li avrebbero sostenuti inviando loro dei legionari per l’impresa. E questo ad Alyx non era andato affatto giù.
“Sia maledetto il giorno in cui sei divenuto pretore!” sputò tra i denti l’impavida guerriera, i capelli ramati che ondeggiavano appena e le sfioravano le spalle.
Karim serrò la mandibola, irritato. Poteva comprendere l’ammonimento da parte della compagna, ma quella scenata si stava protraendo anche troppo per i suoi gusti.
“Ho fatto ciò che ritenevo giusto. Chirone ha mandato una missiva ed io …”
“Chirone” sbuffò la ragazza “Lui e quel suo manipolo di scellerati, non hanno un minimo di disciplina.”
“Stai parlando dei nostri alleati, Frightwar” la mise in guardia il pretore e per un attimo i suoi occhi lampeggiarono di pericolo.
Alyx assottigliò le palpebre, le labbra ancora tirate in una smorfia di ribrezzo. Non aveva mai amato i Greci; erano poco compatti, disomogenei e scoordinati, e i più di loro si affidavano principalmente ai propri poteri, che non alle proprie abilità fisiche.
“Non ti permetterò di portare la legione in guerra, non senza il mio permesso.”
“È un’impresa!” scattò Karim “Abbiamo il dovere di aiutarli.”
Non avrebbe voltato le spalle al Campo Mezzosangue, poco importava se questo avesse significato dichiarare guerra alla sua collega. Per Karim la lealtà era tutto.
“Oh, e chi ti porterai dietro? Perché se credi di poter contare sulla Prima Coorte, ti sbagli di grosso. Loro sono sotto il mio comando, e nemmeno la Seconda Coorte sarebbe tanto stupida da seguirti. Non avete basi solide, non conoscete il vostro nemico; è una missione suicida.”
Karim era troppo furibondo per continuare quella conversazione. Non poteva credere che Alyx potesse essere tanto testarda, davvero avrebbe messo il proprio astio per i Greci davanti a una minaccia come quella? Karim non aveva davvero parole per descriverla.
Si trattenne a stento dallo scaraventare a terra l’anfora d’argilla che si trovava sul tavolo, e affrontò la figlia di Mitra con uno sguardo d’acciaio.
“Se non vuoi aiutare il Campo, allora fa pure. So già chi portare con me.”
“Non lo stai facendo per la legione, stai solo …”
“Sì, invece” la interruppe il ragazzo “Solo che tu non riesci a capirlo.”
La tenda si riempì di un silenzio di ghiaccio, mentre i loro occhi si squadravano come bestie feroci e i mantelli di entrambi ondeggiavano a pochi centimetri dal pavimento.
Alyx non gli credeva. Quale stolto l’avrebbe seguito in un’impresa come quella? Ciò che Karim stava facendo non era altro che seguire le fioche orme di un branco di sfasati di Long Island, e lei non avrebbe permesso al Campo Giove di tramontare per colpa della sua cieca alleanza.
“Vai, allora” lo canzonò quasi con derisione “Seguili come un cagnolino, ma ricorda: Roma sottomise la Grecia al suo potere, non divenne la sua ancella. E se mai dovessi avere bisogno di aiuto, non scomodarti a chiamare. Hai voltato le spalle alla legione nel momento stesso in cui mi hai tradito.”
Karim non ascoltò nemmeno quelle ultime parole perché si voltò prima e cominciò a incamminarsi a passo pesante fuori dalla tenda, mentre la voce di Alyx scemava di fronte alla nube dei suoi pensieri.
Avrebbe dovuto aspettarselo, non era mai stata in grado di mettere da parte i propri pregiudizi per il bene del Campo, figuriamoci se l’avrebbe fatto in quel momento.
Graecia capta ferum victorem cepit2. Avrebbe volute dirle, ma non sarebbe servito a niente; era testarda come un mulo!
Sentiva il sangue ribollire dentro le sue vene e l’improvviso bisogno di accanirsi contro qualcuno, magari uno di quei fantocci che i legionari in probatio utilizzavano per allenarsi con la spada. Oh, in quel momento sì che avrebbe sfoderato la sua spatha di oro imperiale e ne avrebbe fatto a pezzi uno, ma anche due. Sentiva la testa quasi scoppiare dall’ira e un’emozione scomoda aveva cominciato a diradarsi nel suo petto. Alyx era una scema, non amava utilizzare simili epiteti nei confronti di una ragazza, ma lei aveva davvero superato il limite. I due Campi erano alleati da ben trent’anni, da quando i famosi sette avevano scongiurato una guerra che avrebbe portato alla rovina degli dei e dell’Olimpo e che avrebbe risvegliato le antiche forze nemiche. Le gesta e le imprese dei semidei che furono erano narrate dai legionari più anziani alle giovani reclute perché ricordassero sempre il passato e non rischiassero di ricadere negli stessi errori, eppure era come se Alyx –ma non solo lei al Campo Giove- non avesse capito niente e continuasse sulla sua strada, imperterrita. E Karim non poteva sopportarlo.

Era così immerso in questi pensieri, che quasi non si rese conto d’essere arrivato. La fucina si ergeva in tutta la sua fatiscenza a pochi passi da dove si trovava il pretore, i capelli quasi sospinti dal vapore che fuoriusciva dall’apertura nel muro. Chiunque avesse costruito quella struttura, aveva deciso di non mettere alcuna porta d’entrata o uscita, dunque non vi erano né cardini né maniglie o assi di legno da sospingere per entrare. Sentiva il ferro dei figli di Vulcano battere sul metallo acceso, ma non ci fece poi così tanto caso. Sapeva bene dove avrebbe trovato la giovane figlia di Tacita. Valérie passava molti pomeriggi in quell’area del Campo, lontano dagli allenamenti che avrebbe dovuto seguire e al riparo dal blaterare dei ragazzi della Prima Coorte, che tra tutti erano di certo quelli più pettegoli.
Fece un largo giro della fucina fino ad arrivare sul retro, dove i suoi occhi si ancorarono alla figura smilza e sottile di una quindicenne imbrattata di resina e pigmenti. Valérie Petit non parve nemmeno notarlo e continuò a muovere le dita sottili sul muro di marmo della struttura. Aveva sempre amato dipingere e farlo nel calore dei fuochi che crepitavano dentro la fucina era ancora più rilassante. Dal camino sul tetto il vapore artigliava l’aria e l’ossigeno e risaliva nel cielo, lontano dai colori che ora svettavano sulla parete che la figlia di Tacita aveva davanti. Avrebbe tanto voluto dipingere i paesaggi di Monet o i fiori di Van Gogh, con quei colori incendiati dal sole e quel turbinio di pennelli che tempestavano la tela, ma non era mai riuscita ad emularli. Spesso si ritrovava a ricavare i propri pigmenti naturali dalle bacche o le erbe che crescevano in giro, ed era quasi estasiata dalle ombre vivaci che creava con le sue sole mani. Aveva tentato più volte di rappresentare gli dei, di ritrarre la Legione o semplicemente di abbellire un muro altrimenti spento, e innumerevoli volte si era ritrovata un manipolo di semidei che si dividevano tra chi la incolpava di deturpare le strutture del Campo e chi invece elogiava i suoi tentativi di rendere onore a Giove, mostrando la sua gloria e la sua forza. Ed era per questo che nei soli quattro mesi che aveva passato al Campo, Valérie si era spesso trovava a perdersi nei colori di una parete o di un pavimento. Una volta aveva persino passato il pomeriggio a ridipingere i sassi di una parte del selciato e accostarli in modo tale che formassero il volto di Augusto, ci era voluto parecchio tempo per farlo e quell’opera aveva folgorato persino i legionari della Prima Coorte, che non avevano osato obbiettare davanti alla bellezza di quell’arte. Nessuno si era permesso di criticare un omaggio al nipote di Cesare, nonché sommo imperatore di Roma. Ovviamente la pioggia aveva dapprima sfocato e poi lavato via i pigmenti dalle pietre, ma per qualche giorno chiunque era passato di lì aveva potuto osservare con meraviglia quell’operato, e per Valérie questo era l’importante.
Il più delle volte però i dipinti di Val non esprimevano niente, o meglio, erano talmente strambi e gravidi di luce che nessuno riusciva a decifrare il messaggio che si celava dietro i pigmenti. Karim si era sempre rifiutato di credere che la ragazza desse vita a forme senza significato, ma nemmeno quel giorno riuscì a capire cos’avesse disegnato. Quella che pareva una mano di donna stringeva due dischi celesti che rilucevano di una sfumatura d’oro e intorno alla mano si aprivano tre petali color amarena, rivestiti di strani simboli che non aveva mai visto. Due singole linee gialle viaggiavano perpendicolari ad artigliarsi al fiore, come due steli immobili.
Karim non era mai stato bravo ad analizzare i quadri, ma quelli di Valérie erano –secondo il suo punto di vista- i più contorti e sensazionali che avesse mai visto.
“Vedo che non sei agli allenamenti” proruppe all’improvviso e forse l’ira che ancora provava nei confronti di Alyx fuoriuscì dalla sua voce, perché d’un tratto la giovane figlia di Tacita balzò sull’attenti, presa alla sprovvista. Karim tentò di increspare le labbra in un sorriso tirato, ma non era sicuro di esserci riuscito appieno.
Prima che potesse anche solo iniziare a muovere le braccia nel tentativo di addurre una scusa per la sua negligenza, il pretore sollevò una mano, fermandola.
“Avrai di certo sentito parlare della nuova profezia” esclamò, cercando di intercettare ogni espressione del suo viso “Ebbene, il Campo Mezzosangue ha indetto un’impresa e ho dato loro la mia parola che Nuova Roma non si sarebbe tirata indietro.”
Aspettò qualche istante prima di continuare, Val era brava ad ascoltare e Karim aveva sempre pensato che nascondesse più talenti di quanto non desse a vedere. Ne era sicuro perché se così non fosse stato, non sarebbe mai riuscita a superare le prove di Lupa.
“Ho agito in completa autonomia e Alyx si è ritenuta offesa da questo mio comportamento, dunque guiderò la spedizione io stesso e ho deciso di portare con me due legionari che ritengo possano rivelarsi utili. Uno di loro sei tu. Prima di tutto, sappi che non ti obbligherò a seguirmi; la decisione spetta a te. Se hai sentito parlare degli auspici del nostro augure, saprai certamente che la missione a cui ti sto chiedendo di partecipare sarà impervia e non sgombra di pericoli, tuttavia ti spingo a non retrocedere e dimostrarmi la lealtà che hai giurato alla Legione. Non voglio mentirti assicurandoti che la tua vita sarà al sicuro una volta varcati i confini del Campo, ma ti giuro che finché sarai al mio fianco, il mio scudo sarà il tuo scudo. Valérie Petit, recluta della Quinta Coorte, ti chiedo ora e mai più: seguirai il tuo pretore in quest’impresa?”
Karim era sempre così: formale, austero, spesso rigido. Forse era proprio per questo che molti lo identificavano come una guida. Ispirava fiducia, era solenne anche solo nel modo di camminare o di portare il mantello, ed era spesso preso d’esempio dalle reclute più giovani.
Lui e Val non avevano un rapporto stretto, ma la ragazza si era sempre sentita accettata da quel pretore e in sua presenza, nessun aveva mai osato proferire una parola contro di lei. A modo suo, gli era riconoscente e quella avrebbe potuto essere la sua occasione per tornare nel mondo reale. Non poteva farsela sfuggire.
Senza alcun indugio, Val raddrizzò la schiena. In qualsiasi altra situazione, per parlare avrebbe usufruito del taccuino che portava nella tasca della borsa a tracolla che le ricadeva sulla tunica bianca e sporca di pigmento e resina, ma con Karim Sharif i gesti valevano più di qualsiasi scritta a pennarello.
Prese un respiro profondo e alzò il braccio sinistro in avanti, la mano destra stretta a pugno sul cuore e nella bocca un Ave! che il suo pretore non avrebbe mai udito. Lo sguardo dritto e fiero, fedele come pochi e un che di orgoglioso che si affacciava ai suoi occhi, di un blu profondo e imperscrutabile. In quel momento, Valérie Petit si sentì un vero legionario, sebbene fosse sprovvista di elmo, armatura e addirittura di un’arma. E Karim seppe d’aver trovato qualcuno pronto a seguirlo.
“Bene” esclamò nel suo solito tono serio e sbrigativo, anche se la sua voce tradiva una nota di sollievo “Prepara le tue cose, all’entrata del tunnel tra non più di mezz’ora.”
La recluta annuì con entusiasmo e partì alla volta della sua baracca, mentre Karim rilassava le spalle e si voltava verso il Colosseo, dove era certo che avrebbe trovato il semidio che stava cercando. Ma nel suo caso, l’egiziano era sicuro che Jackson Langodon non si sarebbe tirato indietro.
 
 


1Sinestesia: fenomeno sensoriale che si ha quando una persona, posta di fronte a uno stimolo appartenente ad un determinato percorso sensoriale, presenta un’esperienza percettiva ricollegabile a due vie sensoriali distinte e conviventi: quella normalmente indotta dallo stimolo preso in esame e un’altra.
Esempi:
vedere il colore rosso e udire un suono flautato
leggere una lettera dell’alfabeto e ricollegarla ad un determinato colore/suono/odore
mangiare una fragola e definirla troppo triangolare (e quindi ricollegare il gusto a una forma geometrica)
ecc.
Dato che Bloom è l’Oracolo, ho supposto che i poteri profetici abbiano alterato questo suo fenomeno sensoriale, generalizzandolo. Nella realtà, gli individui che presentano sinestesia sono riconducibili a una sola delle sue forme (c’è chi collega lettera/colore, chi suono/odore e avanti così)

2Graecia capta ferum victorem cepit: letteralmente “La Grecia conquistata conquistò il selvaggio vincitore” in cui selvaggio vincitore è riferito a Roma. La frase si rifà al fatto che quando i Romani conquistarono l’Antica Grecia, rimasero così affascinati dalla loro cultura, che vollero adottarla per il proprio Impero.

 

*** ***


Vive la France! Che cosa c’entra? Niente, ma guardando i colori del titolo del capitolo mi è venuto spontaneo ù.ù

Sono tornata!
E credo che questo sia (finora) il capitolo più lungo che abbia scritto :3
Lo so, vi avevo detto che sarebbe iniziata l’avventura, ma poi le mie dita hanno cominciato a battere sulla tastiera e … e l’impresa vera e propria partirà dalla prossima volta, sorry.

Ve l’ho mai detto che da piccola avevo un’idolatria per Cesare e in generale per tutto ciò che era Roma? Già. Volevo costruire una macchina del tempo per tornare indietro e combattere i Galli al fianco dei legionari dell’Impero *^* … insomma, i Romani spaccano!
Ma non perdiamoci in chiacchiere inutili!
Negli ultimi due capitoli avevo avvertito che qualche personaggio starebbe stato fatto fuori, ma poi ho pensato: perché ucciderli tutti? Quale peggiore supplizio se non quello di essere messi da parte ù.ù?
E ora sapete perché solo alcuni parteciperanno all’impresa, in modo più specifico:
Bloom, Chloe, Francis, Clyde, Rex e Lavi per i Greci.
Karim, Valérie e Jackson per i Romani.
Chiederei scusa, ma non sono una persona che si sente facilmente in colpa .-.

Stavolta i cattivi non ci sono, ma saranno presenti nel prossimo capitolo ;) quindi non preoccupatevi, avrete di nuovo la vostra dose di cattiveria c:

Beh, io ora come ora non ho più molto altro da aggiungere, quindi vi lascio. Spero di aggiornare il prima possibile e di non farvi aspettare troppo a lungo.
Per qualsiasi domanda, basta che andate sul mio profilo e cliccate sul piccolo mondo blu, che vi porterà direttamente sul mio account di ask.

Auf Wiedersehen ù.ù
​Pathetic

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