Blessed Memory

di Ormhaxan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. Prologo ***
Capitolo 2: *** 02. ***
Capitolo 3: *** 03. ***
Capitolo 4: *** 04. ***
Capitolo 5: *** 05. ***
Capitolo 6: *** 06. ***
Capitolo 7: *** 07. ***
Capitolo 8: *** 08. ***
Capitolo 9: *** 09. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***



Capitolo 1
*** 01. Prologo ***



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Disclaimer: La storia che state per leggere è di proprietà della rispettiva autrice, non vuole avere alcuno scopo di lucro, e ha come fonti principali i seguenti testi: Matilda of Scotland: a Study in Medieval Queenship, © Lois L. Huneycutt, 2003; Memory and Gender in Medieval Europe, 900-1200, © Elisabeth M. C. Van Houts, 1999; Britain's Royal Families: The Complete Genealogy, © Alison Weir, 2011; Henry I, © C. Warren Hollister, 2001; The ecclesiastical history of England and Normandy, © Orderico Vitale, 1114 - 1142.



 
«E’ immensa fonte di piacere osservare la regina, la quale non ha eguali in grazia e bellezza, nascondere il suo corpo, ciò nondimeno, sotto un velo di ampie vesti.
E così, con nuova modestia, desidera celarsi, senza sapere che nulla di ciò che risplende di luce propria può essere nascosto dal sole, il quale, facendo capolinea tra le nubi, la pervade con i suoi raggi.»
1 – Marbodio, Vescovo di Rennes.
 





Scozia, XI secolo.






Le campane suonarono a festa per ore, rallegrando, con il loro andirivieni, l’atmosfera tra le strade della città e l’animo dei più umili in quel giorno autunnale di letizia; i loro rintocchi, puntuali e aucuti, annunciavano l’imminente arrivo della famiglia reale e dei nobili che erano giunti, da ogni parte della Scozia e anche dai regni confinanti, per porgere i loro omaggi all’infanta principessa.
Il regno era finalmente in pace: la tregua con l'Inghilterra governata dal Conquistatore2, avvenuta in seguito dell’ennesima faida tra i due reami da decenni nemici, avrebbe riportato serenità e prosperità al popolo scozzese tanto a lungo provato dalla guerra e dalle feroci incursioni dei normanni, concesso tempo prezioso al sovrano per ricostruire il suo esercito e recuperare le forze necessarie.
Proprio per celebrare questa tregua, erano giunti alla corte di Malcolm III di Scozia3 il figlio primogenito del Conquistatore, Robert di Normandia, e la di lui madre e signora, la regina Matilde delle Fiandre: questi erano stati designati, in un gesto di sincera amicizia, come padrino e madrina della principessa dai reali scozzesi, scelti tra molti con un atto di buona fede che era stato accettato con stupore ma anche onore, poiché niente come una nascita era in grado di avvicinare due regni tanto distanti come quelli della Scozia e dell’Inghilterra.

Il sole spendeva alto nel cielo terso in quel giorno di inizio autunno, donando vitalità alle purpuree fronde morenti degli alberi circostanti, risplendendo attraverso le colorate vetrate a sesto acuto della chiesa, tra i preziosi tendaggi delle lettighe in cui, sorridenti e fiere, risiedevano le nobildonne.    
La notizia della nascita di un nuovo membro della famiglia reale si era sparsa per il regno il mese precedente, durante gli ultimi giorni di quella che era stata un’estate calda e mite, ma solo in quell’occasione il popolo tutto avrebbe avuto modo di intravedere per la prima volta l’infanta, così come aveva già fatto altre sei volte dall’inizio del regno di Malcolm III.
Edith, questo il nome che era stato dato alla bambina - un nome scelto per onorare la memoria della regina Edith del Wessex4, consorte del defunto sovrano anglosassone Edward il Confessore, la cui corte era stata frequentata in giovane età sia da Malcolm che dalla sua regina, la allora principessa Margaret del Wessex – era la quinta figlia della coppia reale5, la prima femmina dopo quattro maschi forti e robusti, e la sesta per suo padre Malcolm, il quale vantava di un altro figlio, Duncan, avuto dalla prima unione con la defunta Ingibjörg di Norvegia.
La sua nascita era stata fonte di grande gioia per i suoi genitori, che tanto desideravano una bambina, quella stessa bambina che in futuro sarebbe stata una chiave preziosa per appianare nuovamente i contrasti tra i popoli delle terre britanniche e unire la stirpe anglosassone con quella normanna.

La processione dei nobili entrò lenta nel battistero adiacente alla chiesa di Dunfermline6, percorrendo la navata alla fine della quale, solenne e adornato con ampie fogge preziose, troneggiava il Vescovo Forhad7 di Saint Andrew; proprio quest’ultimo, come aveva già fatto per gli altri principi della corona, avrebbe battezzato la principessa davanti agli occhi di Dio e degli uomini, concedendole così l’accesso al regno dei cieli.8
Nei minuti che seguirono, le parole del Vescovo vennero pronunciate lente e solenni, così come quelle dei padrini della bambina, i quali furono invitati, sotto lo sguardo attento di Malcolm e Margaret, attorno alla fonte battesimale colma di acqua santa benedetta.
Il principe e la regina, attraverso un solenne giuramento, si fecero testimoni di quell’atto e della salvezza dell’anima della neonata; quest’ultima, dopo essere stata cosparsa con olio santo, simbolo della guerra contro il peccato, venne immersa per tre volte nella candida fonte battesimale, riuscendone immacolata e libera dal peccato.
Fu dopo la candida vestizione, però, che accadde qualcosa di propiziatorio, quello che sarebbe stato visto come un presagio divino: Edith, mostrando la sua indole curiosa e caparbia che sempre l'avrebbe contraddistinta, afferrò con una mano paffuta il velo di lino che ricopriva il capo di Matilde delle Fiandre, su cui era stata posta una semplice tiara, simbolo della sua regalità, facendolo ricadere su di lei, vispa neonata che la consorte d'Inghilterra teneva tra le braccia, profetizzando così ciò che sarebbe accaduto due decenni più tardi: Edith, per volontà divina, sarebbe cresciuta in grazia e bellezza, diventata lei stessa una regina. Regina d'Inghilterra. 9

 
*



1. Traduzione da me fatta tratta da questa citazione: "It causes pleasure to see the queen whom no woman equals in beauty of body or face, hiding her body, nevertheless, in a veil of loose clothing. Here alone, with new modesty, wishes to conceal it, but what gleams with its own light cannot be hidden and the sun, penetrating his clouds, hurls his rays."
2. Appellativo dato a Guglielmo di Normandia, conosciuto anche con l'epiteto di Bastardo, primo sovrano normanno d'Inghilterra.
3. Malcolm III di Scozia era figlio di Duncan, il sovrano scozzese ucciso da Macbeth; entrambi sono inclusi nell'omonima tragedia di William Shakespeare.
4. Nel libro "Matilda of Scotland: A Study in Medieval Queenship" e in altre fonti più antiche, si spiega così l'origine del suo nome.
5. Prima di lei, la coppia reale aveva avuto almeno quattro figli, tutti maschi. In ordine erano: Edward, Edmund, Æthelred ed Edgar.
6.Situata nell'attuale contea di Fife, in Scozia, la cittò di Dunfermline fu il luogo in cui Malcolm e Margaret si sposarono e stabilirono la loro corte.
7. Fu colui che sposò la coppia raale intorno al 1070. Non si sa chi fu a battezzare Edith, quindi ho immaginato lui come officiante della funzione.
8. Secondo il pensierio cristiano-cattolico, coloro che non sono battezzati, e nello specifico i bambini, dopo la morte non possono accedere al Paradiso e sono reclusi nel Limbo.
9. Questa curiosa vicenda, successivamente interpretata come un omen, viene riportata in molti testi, tra cui quelli citati tra le mie fonti, che risalgono ad una lettera scritta a quei tempi dall'Abate di Gloucester, Gilbert Foliot.





Angolo Autrice: Salve, gente! Nel mio amore sconsiderato per le teste coronate e durante le mie ricerche, mi sono imbattuta per la prima volta nel personaggio di Edith, poi conosciuta come Matilde, consorte di Henry I.
Per chi non sapesse chi Edith sia, posso dire che lei è la madre della più famosa Matilda, Signora degli Inglesi, moglie in seconde nozze di Goffredo Plantageneto, Conte d'Angio e di Normandia, e madre del primo sovrano di stirpe Plantagenta, Henry II. Della vita di sua figlia Matilde si narra anche in romanzi stoici quali "I Pilastri della Terra" di Ken Follet.
Spero che questo prologo vi abbia incuriosito, così come la trama, e che qualcuno mi lasci un parere sincero.

Alla prossima,
V.

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Capitolo 2
*** 02. ***



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Scozia, 1086
 
 
 


Lo scalpitio di piccoli piedini infantili riecheggiò tra i corridoi del castello scozzese, accompagnato da spensierate e calorose risate capaci di riscaldare perfino le fredde mura di pietra secolare; capelli rossi e biondi racchiusi in nastri e preziose spille svolazzavano nell’aria fresca del primo pomeriggio, tuniche del colore della lavanda e del cielo terso primaverile frusciavano sfiorando il pavimento in pietra, le candidi pelli lattiginose.
Molti avrebbero trovato quella scena disdicevole per due principesse del sangue, paragonato le infanti a delle figlie del popolo, senza grazia o istruzione alcuna; eppure, presso la corte di Margaret e Malcolm, queste scene erano solite presentarsi puntualmente tra i corridoi delle sale private dei reali e dei loro figli.
Sin dalla nascita della più piccola delle due, battezzata Mary, la maggiore, Edith, aveva stretto con la prima un legame indissolubile, fatto del più puro e innocente dei sentimenti, di quell’affetto che solo due sorelle possono condividere.  
Mary era nata due anni dopo Edith, in una notte fredda e ostile di metà inverno, una di quelle in cui la neve cade copiosa mentre il vento, ululante, la spinge prepotente sui rami degli alberi solo in apparenza morti, sulle fronde dei sempreverdi, sui merli dei castelli e sulle mura sorvegliate da infreddoliti soldati.
Sarebbe stata l’ultima figlia della coppia reale, la penultima dei loro figli, poiché alla sua nascita seguì, due anni dopo, quella dell’ennesimo figlio maschio, battezzato con il nome di David, il quale sarebbe diventato sovrano di Scozia dopo i suoi fratelli. 

Per Edith quegli anni trascorsi accanto ai suoi fratelli e i suoi genitori erano stati meravigliosi, ricchi di storie narrate dai menestrelli e dagli emissari stranieri che, puntualmente, giungevano da paesi lontani e si riunivano presso la corte di suo padre; sua madre, nella sua immensa devozione cristiana, era stata una madre attenta e premurosa, severa quando le situazioni richiedevano, ma sempre presente per gli adorati figli che, nonostante l’età adulta sempre più vicina, continuavano a radunarsi attorno a lei e ascoltare in silenzio le sue letture con attenzione e curiosità. Persino suo padre, Malcolm III, soleva partecipare a quei particolari e riservatissimi momenti famigliari quando la politica e gli affari di stato non lo trattenevano lontano dai suoi figli e dalla sua amata moglie; lui, più di tutti, adorava ascoltare il suo melodioso della voce di Margaret, della donna che aveva sposato per dovere molti anni prima e che, con il tempo, aveva imparato ad amare incondizionatamente; lui, principe esule in tenera età dal suo paese natio, non aveva avuto la fortuna di crescere secondo i precetti tradizionali, con degli insegnanti degni del suo rango, e questo aveva influito sulla sua istruzione, rendendolo quasi del tutto analfabeta.1
Fu Edith a raggiungere per prima le stanze della madre, scalzando di svariati metri la sorella minore che, a causa della sua statura più piccola, aveva un andatura più lenta; nelle stanze, illuminate dalla tiepida luce del giorno e adornate riccamente secondo il gusto anglosassone che da sempre contraddistingueva la regina, le bambine trovarono una donna vestita con abiti monastici, dallo sguardo severo e i lineamenti del viso spigolosi: Edith non la riconobbe immediatamente, poiché molti anni erano trascorsi dall’ultima volta che la donna aveva presenziato alla corte dei suoi genitori, ma dopo un attento pensare riconobbe in quel volto capace di incutere timore sua zia materna, sorella minore di sua madre, Christina.

«Sei cresciuta dall’ultima volta che ti ho visto, Edith. – esordì la donna, di dieci anni più giovane della sorella, ma ugualmente segnata dalle vicissitudini della vita – Tu, invece, devi essere Mary.»
La voce di Christina era incolore, i suoi occhi erano di una tonalità di nocciola scuro, diversi da quelli chiari della loro adorata madre; sebbene le due donne avessero fisicamente molto in comune, nei modi e nei tratti della minore non c’era la delicatezza e la dolcezza che aveva permesso a Margaret di conquistarsi l’affetto di suo marito, dei suoi figli e, soprattutto, del suo popolo: gli abiti che indossava erano austeri, fatti di un tessuto umile lungo fino ai piedi, e neanche un ciuffo dei suoi capelli chiari tagliati corti era visibile sotto il pesante velo dai bordi bianchi o attraverso il candido soggolo2 che le incorniciava il viso.
«Lady Christina. – Edith fece una riverenza, mostrandosi composta ed elegante – Sono lieta di rivedervi in Scozia.»
Non aveva molti ricordi di quella donna, a dire il vero tutto ciò che ricordava erano vaghe immagini di lei e sua madre insieme, del suo viso sempre serio e della sua avversione per  i saltimbanco e gli artisti di strada che, durante le festività, allietavano le vaste sale del castello di Edimburgo, luogo che la famiglia reale prediligeva al più antico casello di Dunfermline, loro residenza ufficiale, per passare la Santa Pasqua.
«L’ultima volta che vi ho viste tu eri una bambina, mentre tu, Mary, eri ancora in fasce. – ricordò con un flebile sorriso – Sono lieta di vedere che le tue figlie stanno crescendo in salute, secondo i precetti cristiani e che ben presto saranno abbastanza grandi da prendere marito e generare figli sani e robusti.»
Margaret sorrise senza aggiungere altro e, rivolgendosi alla sue figlie, disse: «Sedete accanto a me, bambine, affinché io possa parlare con voi e informarvi di alcune importanti decisioni che sono state prese per voi e per il vostro futuro da me e da vostro padre.»
Le due sorelle si scambiarono uno sguardo guardingo, occhi verdi negli occhi verdi, e con timore crescente si sedettero accanto alla madre, esaudendo la sua richiesta.
Sarebbe stata una discussione rapida, Edith lo capì subito, poiché era breve il tempo che li separava dall’ora di cena e dalla successiva messa a letto; presto sua madre si sarebbe raccolta in preghiera insieme a sua sorella Christina, lasciando fuori da quelle stanze il mondo intero, ogni argomento di carattere politico e famigliare.
Margaret guardò dolcemente le loro figlie, le bambine che, fino a pochi anni prima, aveva tenuto tra le braccia e fatto addormentare cantando canzoni della sua terra e pensò a quando il tempo fosse trascorso velocemente: Edith avrebbe compiuto a breve sei anni e Mary aveva da poco concluso il suo quarto anno di vita; le stanze del castello erano diventate troppo piccole per contenere tutti quei figli, i frutti maturi del suo ventre che Dio aveva concesso a lei e al suo sposo, e ora che anche David si era aggiunto alla dinastia dei Dunkeld3 era tempo per lei di separarsi da alcuni di loro.
«La mia adorata sorella, Christina, è stata nominata badessa dell’Abbazia di Romsay, nel sud dell’Inghilterra. – esordì con calma la regina – E’ un titolo che non tutti hanno la fortuna di ricevere, un compito ricco di impegni e fatica che lei ha accettato di buon cuore; è un’occasione preziosa non solo per lei, ma per tutti noi, poiché il convento è uno dei più prestigiosi di tutto il regno del Conquistatore, perfetto per due principesse del sangue per raffinare i propri studi ed essere educate secondo i precetti cattolici.»
«Io e vostra madre abbiamo parlato a lungo, - intervenne la badessa – e a sua volta lei ha conferito con vostro padre il re, decidendo che è nel vostro interesse di future spose di nobili principi continuare i vostri studi sotto la mia tutela, in una comunità così fiorente per le fanciulle della nobiltà come quella di Romsay.»
«Ci state mandando via. – appurò Edith – E’ per qualcosa che abbiamo fatto, Madre? Vi abbiamo in qualche modo fatto torto, disonorato voi o il nostro nobile padre?»
«Mia cara… - Margaret accarezzò il viso della maggiore con la punta delle dita affusolate – Questa non è una punizione, ma un importante regalo che vi è stato fatto; ora non riuscite a capirlo e non vi biasimo, ma vedrete che con il tempo riuscirete a comprendere. Inoltre, Christina si prenderà cura di voi, sarà i miei occhi e le mie orecchie, e tra le mura di Romsay sboccerete e diventerete le nobili fanciulle che siete destinate a diventare.»
«Non voglio lasciarvi… - piagnucolò Mary, stringendo la mano della sorella – Vi supplico, Madre, non mandatevi lontano da voi.»
«Non dovrete lasciare subito la corte e la Scozia, c’è ancora del tempo: prima dovranno passare le festività pasquali e solo quando la corte lascerà Edimburgo per ritornare a Dunfermline, voi inizierete il vostro viaggio verso sud.»
«L’abazia vi piacerà, vedrete: è un luogo di pace e di sapere, in cui ogni donna trova il suo ruolo in questo nostro difficile mondo, sia questo accanto ad un nobile uomo o come sposa di Nostro Signore. – Christina sorrise algida – Magari, sarà proprio una di voi a trovare la fede e l’amore di Dio nel suo cuore, accettare il convento come la sua dimora ultima.»



 
**



Quella sera, durante il banchetto, Edith non toccò cibo e fu stranamente taciturna. Neanche i saltimbanco, da sempre suo diletto, riuscirono a togliere dal suo viso l’espressione corrucciata che rendeva la sua fronte aggrottata o a distendere in un puerile sorriso le sue candide labbra lievemente arricciate.
La sua mente acuta continuava a ripensare all’annuncio che sua madre aveva fatto a lei e a sua sorella poco prima del calare del sole, alla decisione di mandarle lontano per essere cresciute nel sud di un paese straniero, sotto l’ala di una donna austera che la aveva sempre intimorita: avrebbe fatto anche lei la fine di suo fratello Æthelred, la cui indole pacata e non incline alla politica lo aveva destinato a vivere una vita di preghiera e celibato in un monastero benedettino?4 Anche il suo futuro era già stato segnato, la sua vita destinata ad essere trascorsa dietro le mura di un convento, priva dell’amore di un uomo e dell’affetto della famiglia? Dopo tutto, Christina aveva auspicato per una delle due molti anni trascorsi nella grazia di Dio, nei suoi desideri più segreti e inespressi pregava affinché una delle sue nipoti seguisse le sue orme.

«Perché quell’aria triste, sorella? – Edmund, secondo dei suoi fratelli maggiori, si sedette accanto a lei, occupando la sedia lignea rimasta momentaneamente vuota – Non è da te rimanere impassibile davanti ai saltimbanco e non hai nemmeno toccato il cibo.»
Edmund aveva notato quasi immediatamente l’atteggiamento della sorella minore, il suo sguardo sempre attento gli aveva fatto capire che c’era qualcosa che non andava, qualcosa che turbava il suo animo e si rispecchiava nel suo corpo.
«Si tratta di qualcosa che dovrei sapere?»
«Nostra madre mi ha detto che, al termine di queste festività pasquali, io e nostra sorella Mary lasceremo la corte e viaggeremo con Lady Christina5  verso il convento di Romsay, nel sud dell’Inghilterra, dove apprenderemo i precetti degni del nostro rango.»
«Romsay è un eccellente luogo di istruzione, ho sentito dire che le lady più importanti del regno hanno ricevuto là la loro istruzione; per voi dovrebbe essere un onore e non una punizione poter crescere sotto l’attenta tutela della sorella di nostra madre.»
«E’ così lontano… - sussurrò lei, continuando a tenere la fronte aggrottata e guardandosi la punta dei piedi fasciati nei calzari di pelle – Non vi rivedrò mai più.»
Edmund sorrise: «Non essere sciocca. Certo che ci rivedrai e prima di quanto tu possa immaginare; nostro padre sentirà moltissimo la mancanza delle sue figlie e non appena il momento sarà consono vi manderà a chiamare per riprendere la vostra posizione a corte o per passare con noi le feste.»
«E tu? – chiese, guardandolo con la coda dell’occhio – Mi scriverai ogni volta che potrai, verrai a trovarmi di tanto in tanto?»
Edmund l’abbracciò, concedendosi uno slancio di affetto pubblico non consono per il suo rango, un gesto che, in una situazione diversa, non avrebbe mai azzardato.
«Ogni volta che potrò. – rispose – Lo prometto.»

 

*



1. Nel suo libro, Queens Consort: England's Medieval Queens, Lisa Hilton scrive che Malcolm III era analfabeta ma che, nonostante tutto, si dilettava nell'ascoltare sua moglie leggere; in un altro libro di età contemporanea alle vicende narrate e dedicato alla vita di Santa Margaret del Wessex, sua consorte, viene descritta una scena in cui il sovrano sostiene amorevolmente un libro per sua moglie.
2. Soggolo: abbigliamento femminile tipico del medioevo e di parte del rinascimento che consisteva in una striscia di tela o di un velo che cinge il collo e fascia il viso. Il soggolo è sempre stato, inoltre, un indumento monastico caratteristico.
3. La dinastia dei Dunkeld regnò in Scozia tra il 1034 e il 1290. Il suo capostipite fu Duncan I, padre del padre di Edith, Malcolm III, mentre l'ultima discendente fu Margaret di Scozia, nipote dell'ultimo sovrano della dinastia, Alexander III. Margaret non fu mai incoronata regina e il suo regno non ebbe mai un inizio legittimo.
4. Si sa molto poco della figura di Æthelred. Le fonti sostengono che fosse di salute cagionevole, non adatto alla vita politica e per questo motivo fu scelta per lui una vita monastica. Fonti su di lui lo vedono come monaco benedettino presso l'abazia di Dunkeld, in Scozia, mentre la sua morte sarebbe avvenuta nel Somerset.
5. Essendo il concetto di parentela completamente diverso da quello che intendiamo oggi, ed essendo Christina un'estranea per la bambina e il fratello, ho ritenuto opportuno che Edith si riferisse a lei chiamandola con l'appellativo di lady piuttosto che con quello di zia.




Angolo autrice: Salve, gente! Secondo ma primo capitolo effettivo di questa storia. Ho voluto introdurre al meglio la corte scozzese in quel periodo, le abitudini e il modo in cui Edith e i suoi fratelli sono cresciuti; ovviamente, avendo Edith trascorso solo i primi sei anni insieme alla sua famiglia, ci sono davvero poche fonti riguardo la sua infanzia, ma tutte parlano di anni spensierati e una vita domestica - se così possiamo descriverla - felice.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, che non sia stato troppo noioso vista la scarsità dei dialoghi e di ricevere pareri.

Alla prossima,
V.

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Capitolo 3
*** 03. ***



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La lettiga che l’avrebbe condotta, insieme a sua sorella Mary, presso il convento di Romsay, si fermò davanti alla sua piccola e infreddolita figura.
Pioveva quel giorno, il cielo grigio coperto di nuvole minacciose rispecchiava il suo animo e il vento che soffiava forte da ovest muoveva le fronde degli alberi circostanti, dando loro un’aria tetra e tipicamente invernale.
Le festività erano arrivate e passate con estrema velocità, in un susseguirsi di ricchi banchetti e andirivieni di nobili scozzesi; quasi due mesi erano trascorsi dall’annuncio che sua madre, la Regina, aveva fatto alle sue due figlie, eppure Edith non era ancora riuscita ad accettare quello che sarebbe stato il suo futuro imminente: il suo cuore sarebbe sempre appartenuto alla Scozia, a quella terra apparentemente aspra e ostile che era la sua casa, e anche se sapeva che quella dolorosa separazione era stata presa per il suo bene, per darle un istruzione degna del suo rango, il pensiero di passare in un convento gli anni che la separavano dal diventare una fanciulla adulta e in età da marito la opprimeva.
Christina, quella che sarebbe divenuta molto presto l’unica figura familiare per le due bambine, era una donna taciturna, sempre accigliata, il cui suo unico interesse era la preghiera e la religione; nessun gesto di affetto o di compassione sarebbe scaturito da quella donna, nessuna parola di conforto sarebbe stata pronunciata e nessuna lacrima sarebbe stata asciugata.
Edith sarebbe stata sola, unico conforto per sua sorella Mary, e avrebbe dovuto combattere affinché la mente dei suoi reali genitori non venisse persuasa a condannarla al velo e a una vita trascorsa dietro le mura di un convento.
«E’ ora. – disse algida la Badessa loro zia, posando una mano ossuta sulla spalla della maggiore – Prendete congedo dai vostri genitori e salite sulla lettiga. Ci aspetta un viaggio lungo e tortuoso fino a Romsay.»
La donna, vestita in nero, scomparve nella penombra della lettiga ed Edith le fu riconoscente per aver concesso a lei e a sua sorella qualche minuto da sole per dire addio ai suoi fratelli e ai suoi genitori.
«Le mie splendide figlie. – fu la Regina a parlare per prima, chinandosi appena in avanti e circondando gli esili corpi delle bambine tra le sua braccia – So che renderete vostro padre e me orgogliosi, che tra le mura del convento di Romsay crescerete sane e forti, apprenderete tutto ciò che una principessa scozzese deve sapere. Presto saremo nuovamente insieme, mie adorate, e anche se le lettere non potranno colmare la distanza che ci separa, saranno un modo per essere vicine.»
Baciò entrambe sul capo e, sciolto l’abbraccio, tornò ad assumere una postura regale e un atteggiamento imperscrutabile.
«Addio, mie adorate. – fu Malcolm III a prendere la parola – Siate sempre misericordiose e caritatevoli; amatevi l’un l’altra, siate gentili e non dimenticate mai chi siete: voi siete le mie figlie, sangue scozzese, nate per indossare una corona. Possa Dio proteggervi sempre e far incrociare presto le nostre strade.»
«Addio, Padre. – sussurrò in una riverenza rispettosa Edith, imitata da Mary – Possa Dio concedervi una lunga vita, un regno prospero e in pace.»

In quel momento, Edmund ed Edward, fratelli maggiori delle principesse, si accostarono a quest’ultime.
«Vi scorteremo fino al confine che separa la Scozia con il regno del Conquistatore. – annunciò Edmund, cogliendo di sorpresa le sorelle – Là ci saluteremo, ma fino ad allora vi staremo sempre vicino.»
Quelle parole riuscirono a strappare un sorriso nelle bambine, il primo che Edith si concesse dopo giorni trascorsi nella malinconia per i posti che non avrebbe più rivisto e nello sconforto di dover abbandonare tutto ciò che le era più caro. Sapere che avrebbe goduto di altri giorni con i suoi fratelli, di momenti preziosi che avrebbe conservato gelosamente nella sua memoria, rese il distacco da Edimburgo meno amaro.

I quattro cavalli dal bianco manto iniziarono il loro lento percorso poco dopo, uscendo dalle mura del castello scortati dai principi della corona e da moltissimi soldati scozzesi.
All’esterno delle mura, curiosi e impazienti, si erano riversati fiumi di gente giunta per dare il loro commiato alle principesse, per vederle un ultima volta e far sentire loro il calore del popolo scozzese: nessuno di loro le avrebbe mai dimenticate, sebbene sarebbero passati molti anni prima del loro ritorno in Scozia, un ritorno che si sarebbe dimostrato nient’affatto lieto, poiché sarebbero stati i lutti e le guerre a riportare le due principesse nel loro paese natio.
Prima che l’imponente castello scomparisse alle loro spalle, Edith si girò più volte ad ammirare per l’ultima volta quel luogo che un tempo era stato freddo e inospitale, ma che sua madre Margaret aveva reso accogliente adornandolo con preziosi arazzi, piatti d’oro e d’argento, tessuti provenienti da terre lontane aldilà del mare e portati in Scozia da mercanti dalla pelle olivastra che parlavano molteplici lingue; persino i suoi barbosi precettori le sarebbero mancati e anche le punizioni severe che sua madre le infliggeva di tanto in tanto per insegnarle le buone maniere e cosa fosse giusto o sbagliato per una principessa cristiana.
Più di ogni altra cosa, però, le sarebbero mancati i momenti intimi passati insieme ai suoi genitori e ai suoi fratelli; più di qualsiasi cosa, ancor più delle canzoni dei menestrelli e delle acrobazie dei saltimbanco, le sarebbe mancata la dolce voce di sua madre che leggeva per lei e per gli altri suoi adorati figli.
Nessuno leggerà mai più qualcosa per me, si ritrovò a pensare tristemente, ma forse potrei iniziare io a leggere per Mary, così da farla sentire meno sola.
Sì, sarebbe stata lei a prendere il posto di sua madre, continuando così quella intima tradizione.
E un giorno, anche io leggerò ai miei figli e i miei figli leggeranno ai loro figli.
Con quei pensieri in testa, dondolata dal movimento oscillatorio della lettiga, Edith continuò a guardare il paesaggio scorrere, ad osservare assorta i secolari pini dalle punte frastagliate che sembravano toccare il cielo, i rossastri picchi intenti ad intagliarsi una piccola cavita negli imponenti tronchi di quegli stessi alberi; cercò di non soccombere al turbinio di emozioni che stavano turbando il suo animo, di celare gli occhi velati di lacrime, sforzandosi di essere forte, di mostrare un atteggiamento degno di una principessa: quando Mary si assopì sulla sua spalla, lei le accarezzò i capelli nello stesso modo in cui soleva fare di tanto in tanto loro madre, iniziando a fantasticare sui gli anni a venire, sull’uomo che un giorno avrebbe chiesto la sua mano e a cui le avrebbe dato figli sani e forti. Christina osservò quelle scene con occhio attento, rimuginando sui piani del tutto diversi che aveva in serbo per il futuro della giovane nipote, un futuro che lei immaginava privo di unioni felici e figli.


 
**



Si separarono da Edward ed Edmund tre giorni dopo, prendendo congedo sul confine che separava il regno della Scozia dalla regione della Northumbria, territorio governato dagli uomini al servizio del sovrano normanno.
«Ricorda la promessa!» sussurrò Edith all’orecchio di suo fratello Edmund, mentre quest’ultimo la sollevava leggermente da terra e l’abbracciava stretta.
«Non potrei mai dimenticare. – rispose e le scompigliò affettuosamente i capelli – Mi mancherai tantissimo, sorellina. Entrambe mi mancherete.»
«E’ tempo di andare! – esclamò algida Christina, rimasta per tutto il tempo nella lettiga – Asciugate le lacrime e dite arrivederci ai vostri fratelli prima che sia tardi.»
«Arrivederci, Edith. – salutò Edward, baciando prima la maggiore e poi la minore – Arrivederci, dolce Mary.»

Il viaggio proseguì per un'altra settimana: arrivarono nello Hampshire nella mattina dell’ottavo giorno, dopo aver costeggiato la sponda orientale del fiume Test; la struttura in robusta pietra del convento benedettino era immerso nel verde, e le grandi vetrate ad arco acuto finemente colorate e adornate con scene di vita dei santi risplendevano alla luce dei raggi del sole. Accanto, poco più nascosto, c’era un secondo edificio, molto più modesto del primo, costruito in pietra e legno, che Edith identificò immediatamente essere il convento: là, tra quelle mura ricostruite solo pochi decenni prima dai monaci e dagli abitanti del villaggio poco distante, anche questo ricostruito dopo gli attacchi e i saccheggi dei vichinghi, Edith avrebbe studiato, affinando la sua cultura, la sua conoscenza delle lingue, tutto ciò che le sarebbe servito per diventare una vera principessa; là, insieme a sua sorella Mary, avrebbe trascorso i successivi cinque anni, cinque lunghissimi anni che sarebbero terminati con il loro trasferimento presso il convento di Wilton, edificio che la stessa donna di cui portava il nome, Edith del Wessex, regina consorte di Edward il Confessore, aveva ricostruito e in cui le giovani fanciulle avrebbero trascorso altri due anni.

 


*


Angolo Autrice: Salve, gente! Capitolo questo di passaggio, forse leggermente noioso e in cui non accade molto, ma comunque importante ai fini della storia. Nel prossimo ci sarà un salto temporale di qualche anno, dove vedremo come Edith affronterà la vita nel convento e più avanti ancora non è esclusa l'introduzione del protagonista maschile, tale Henry di Normandia.
Grazie, al solito, a tutti coloro che leggono, seguono e lasciano una recensione.

Alla prossima,
V.

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Capitolo 4
*** 04. ***



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Caen, un anno dopo.





La processione procedeva lenta verso est, in un corteo solenne composto da nobili e da clerici accorsi da ogni parte della Normandia per porgere il loro ultimo saluto a quello che era stato il loro sovrano.
Il feretro dell’uomo che era stato Duca di Normandia, Conquistatore, Bastardo, re d’Inghilterra, giaceva in una bara finemente adornata, trainata da maestosi cavalli e sorvegliato da nobili soldati le cui famiglie erano fedeli alla dinastia dei normanni dai tempi del regno del di lui padre, Robert di Normandia.
La pioggia sembrava avergli graziati: sebbene nuvole minacciose si fossero più volte affacciate all’orizzonte, neanche una goccia d’acqua era caduta, rendendo la marcia meno faticosa e il viaggio meno irto di pericoli o rallentamenti.
Curiosi affollavano i lati delle strade sterrate, addossandosi l’uno sull’altro nella speranza di scorgere il feretro dell’uomo che, pur essendo il loro signore, era sempre stato uno sconosciuto; bisbigli alternati a schiamazzi si alzavano dalla folla, parole pronunciate utilizzando la lingua del volgo, termini molto spesso incomprensibili per quei nobili abituati a vivere nel lusso e a ignorare la povera gente.
Henry ne colse alcune, parole appena udibili, dall’accento aspro come la vita di quegli uomini; lui, più di tutti, non era abituato a quella lingua, si sentiva estraneo nella terra che aveva dato i natali a suo padre e ai suoi fratelli: lui, terzo figlio maschio del Conquistatore e della di lui regina, Matilda delle Fiandre, era stato il primo della loro progenie a nascere nella terra che per secoli era stata sotto il dominio degli angli e dei sassoni, il primo a parlare fluentemente quella lingua che, per anni, era stata una dei nemici più difficili da sconfiggere per quello che era stato il primo sovrano inglese di stirpe normanna.1
Roteò gli occhi e sbuffò quando l’ennesimo rintocco dell’ennesima campana proveniente dal piccolo villaggio vicino arrivò alle sue orecchie, greve saluto al suo sovrano, monito della morte che un giorno, forse non troppo lontano, avrebbe fatto visita a tutti loro.

“Questo suono funesto mi fa rabbrividire. – sussurrò la fanciulla che cavalcava accanto a lui, intirizzita nonostante il lungo e pesante mantello che le copriva le spalle appena ricurve e il ventre prominente – Non riesco a sopportarlo.”
“Se non riuscite a sopportarlo allora non sareste dovuta venire. – la rimproverò con astio il giovane uomo che da più di un anno era divenuto il suo amante – Affrontare un viaggio del genere nelle vostre condizioni, così prossima al parto, è stato da sciocchi, ma dopo tutto è nota la stoltezza di voi donne del nord.”
Sybilla2 abbassò lo sguardo, stringendosi nelle spalle basse come una penitente davanti al castigo inferto dalle amare parole di un clerico, consapevole di aver preso una decisione delicata contro il volere del suo uomo: si era messa in viaggio con lui, decisa ad affrontare quella lunga e lenta marcia, per timore di rimanere sola presso quella corte normanna ostile verso gli stranieri e le donne come lei e di dover dare alla luce il suo primo figlio senza nessuno al suo fianco.
Presto, ben presto, sarebbe iniziato il suo confinamento e Sybilla, da giovane nobil donna colta e istruita, sapeva che a Caen avrebbe ricevuto il miglior aiuto possibile; sapeva, inoltre, che lasciare da solo Henry per troppo tempo avrebbe potuto minacciare la sua già delicata posizione, condurlo irrimediabilmente verso i caldi letti di altre giovani donne smaliziate, lontano dal suo cuore e dal figlio che avrebbe ben presto visto la luce.
Sybilla non era una stolta, nonostante i suoi quindici anni era ben consapevole di ciò che significava essere l’amante di uno dei figli del sovrano d’Inghilterra, anche se questo era il suo ultimo figlio, colui che aveva ereditato non corone ma un’ingente somma di denaro; Henry era un giovane uomo smaliziato, affascinante, intrepido e con il potere di far cadere ogni donna ai suoi piedi; era bello, bello come pochi uomini in tutta la Normandia  e l’Inghilterra, e tra tutte le donne di quelle terre aveva scelto lei, la figlia di un nobile normanno stabilitosi dopo la conquista a Alcester, nella regione centrosettentrionale del Warwickshire, come sua amante ufficiale.
“Perdonatemi, - disse avvicinandosi a lei e destandola dai suoi pensieri – non avrei voluto turbarvi. Sono ancora molto scosso dalla morte di mio padre e se dovesse succedere qualcosa a voi o al bambino a causa dell’affaticamento provocato da questa lunga ed estenuante marcia, non potrei perdonarmelo.”
“Va tutto bene. – rispose con dolcezza lei, concedendosi perfino un sorriso – Sono consapevole che con la mia testardaggine vi ho provocato ulteriori pensieri, ma non potevo abbandonarvi in questo momento così incerto delle vostra vita, lasciarvi solo. Abbiamo bisogno l’uno dell’altra adesso e poi voglio che questo bambino nasca in un luogo dove suo padre possa proteggerlo.”
“E’ il mio primogenito, non importa se di sangue reale o illegittimo, e per questo proteggerò sempre la sua vita, i suoi affetti e i suoi interessi.”

 


**


Caen era come Henry se la ricordava: una città dalle vie anguste, piena di ambulanti, la cui aria era pesante e fetida. Suo padre aveva sempre amato quella città, destinato moltissimi soldi per edificare opere di finissima costruzione; persino sua madre aveva adorato Caen, il luogo in cui, per alcuni anni, lei e il suo consorte erano stati felici dopo l’unione che era costata loro due monasteri3, eppure lui si era sempre sentito un estraneo.
Henry apparteneva all’Inghilterra, al luogo in cui era nato e cresciuto, non alla Normandia, a quella terra che tanto aveva cercato di fare sua senza mai riuscirci davvero.

— Che Brevis-ocrea4 si tenga pure queste terre, che ci faccia ciò che vuole. - pensò mentre osservava la città ricoperta dall’oscurità della notte attraverso la finestra ogivale del castello adiacente alla chiesa di Saint-Étienne in cui, due giorni dopo, suo padre sarebbe stato sepolto -  E’ sempre stato un debole, un fantoccio che i nobili normanni utilizzeranno a loro piacimento e questo mio padre l’ha sempre saputo, ecco perché per anni ha tentato di diseredarlo; ecco perché ha dato a Rufus l’Inghilterra, dono che lui ha preso con sommo gaudio e di cui si è già fatto padrone senza perdere tempo.5 Quando il momento giusto arriverà, il mio momento arriverà, saprò essere spietato e conquistarmi ciò che sarebbe dovuto essere mio di diritto.

“Henry. – Sybilla si portò al suo fianco e gli sfiorò una spalla – L’ora è tarda e il viaggio è stato lungo e faticoso. Inoltre, presto i vostri fratelli inizieranno a scagliarsi l’uno contro l’altro come belve affamate e voi avrete bisogno di riposo per affrontare i giorni che seguiranno. Venite a letto, venite da me.”
Il giovane la guardò con la coda dell’occhio, ammirando il suo viso ovale illuminato in parte dalla luce delle candele che bruciavano nell’angolo sud della stanza, i suoi capelli scuri a cui le fiammelle conferivano una sfumatura rossastra che lui trovò affascinante.
Si ritrovò a pensare che il suo fisico minuto fosse ancor più bello grazie alla gravidanza, che i suoi seni fossero ancor più tondi e morbidi di come se li ricordava e per un momento ebbe l’impulso di trascinarla verso il letto e farla sua nonostante i divieti delle sacre scritture e di quei blateranti chierici che non facevano altro che ricordargli di come Dio ritenesse peccato giacere con una donna gravida.
“Siete bellissima. – le rispose, cogliendola di sorpresa, accarezzandola e baciandola dolcemente sulle labbra morbide e umide. – Il desiderio che provo per voi mi sta bruciando come il fuoco sta bruciando la cera di queste candele.”
“Dio punisce chi viola una donna durante la gravidanza. – ricordò suo malgrado, nonostante anche lei lo desiderasse – Non possiamo.”
“E perché mai non dovremmo? Dopo tutto, siamo due peccatori, due amanti che hanno generato un’anima innocente fuori dal sacro vincolo del matrimonio. Perché mai dovrebbe interessarmi la punizione divina, quando il solo stare con voi è visto dagli altri come un peccato?”
“Henry…”
La zittì, prepotente, con un bacio; circondò il suo corpo con le sue braccia, trascinandola di peso verso il letto e dopo quasi quattro mesi, in cui entrambi si erano imposti di stare lontano l’uno dall’altra, cedettero ad una passione incontrollabile.


 
**



Il funerale ebbe luogo due giorni dopo e non mancò di imprevisti spiacevoli.
Tutto era stato disposto secondo le ultime volontà del sovrano e solenni messe erano state celebrate in tutta la Normandia; ogni chiesa a Caen aveva fatto risuonare per giorni le proprie campane a lutto e per più di una settimana la Chiesa di Santo Stefano, la stessa che William di Normandia aveva costruito, aveva ospitato le spoglie mortali del vincitore di Hastings.
L’acre odore d’incenso saturava l’architettura romanica quella mattina, si estendeva attraverso pallidi fumi per tutte le lunghe navate, sopra i matronei gremiti da donne velate, sino alle volte a crociere sovrastanti e al coro antistante; ogni nobile era presente alla funzione, persino il fratellastro del sovrano, Oddone, vescovo di Bayeux rilasciato dalla sua prigionia a Rouen per volontà del fratello che, in punto di morte, aveva perdonato ogni dissenso.
Henry accolse tutti loro, unico figlio presente in quel giorno che molti definirono triste e funesto; sempre lui prese posto nel banco ligneo poco lontano dal feretro reso gonfio e putrido a causa della peritonite che, dopo una caduta a cavallo improvvisa, lo aveva portato in poco tempo alla morte — morte che, con il suo disgustoso odore, riusciva a sovrastare anche quello dell’incenso.
Il primo disguido avvenne poco più tardi, durante la funzione celebrata sia dal vescovo che dall’abate di Caen: un cittadino, volto provato e vestito con abiti logori, venne a reclamare un pagamento in argento per essere stato, lui e la sua famiglia, ingiustamente depredato di alcune terre sulle quali la chiesa aveva costruito senza alcun permesso.
Fu Henry, lasciata momentaneamente la funzione, ad occuparsi della faccenda: con pazienza ascoltò le pretese dell’uomo e successivamente si consultò frettolosamente con quelli che erano stati i consiglieri di suo padre e adesso erano i suoi, i quali dimostrarono la veridicità dell’accaduto e risarcirono il malcapitato.

Quando, più tardi e terminata la messa solenne, il peggio sembrava essere passato e il corpo del suo defunto padre e signore stava per essere calato nella sacra tomba in cui avrebbe finalmente trovato pace, avvenne un altro nefasto e spiacevole avvenimento: il corpo massiccio del sovrano si dimostrò troppo largo per la tomba posta sul pavimento e scavata nelle fondamenta della chiesa, tanto grande da provocare una lacerazione nei suoi arti, dai quali uscì un disgustoso odore di morte che si andò a diffondere per tutta l’architettura romanica — architettura che presto divenne mezza vuota a cause del suddetto olezzo.
Anche Henry, disgustato e pieno di disappunto, abbandonò frettolosamente la chiesa insieme alla sua amante: salito di tutta fretta su di una lettiga, si ritrovò a pensare e ripensare a come ciò che era appena successo fosse stato l’ennesimo e ultimo torto che suo padre gli aveva arrecato e di come un giorno sarebbe stato lui, il suo figlio minore e indegno di qualsiasi attenzione, a governare sui territori adesso appartenenti ai suoi ignobili fratelli e a ridere sulla sua tomba.



 
*




1. E' risaputo che William il Conquistatore non parlasse l'Inglese; come lui, neanche suo figlio e successore, William Rufus, era fluente nella lingua. Fu Henry ad essere il primo sovrano di stirpe normanno a parlare e scrivere fluentemente l'inglese, essendo lui anche l'unico dei figli maschi di William ad essere nato in Inghilterra.
2. Sybilla, nota anche come Aliziæ nelle fonti ufficiali, fu una delle amanti più importanti di Henry I, sicuramente la più importante e quella che ebbe con lui la relazione più duratura. Era figlia del Conestabile di Warwick, Robert Corbet d'Alcester, e diede al sovrano almeno sei figli. In molte fonti, a lei è attribuita anche la maternità del maggiore dei figli illegittimi di Henry I, Robert di Gloucester, mentre altre lo danno figlio di una donna di Caen - essendo lui nato a Caen - o di una donna senza nome figlia di una nobile famiglia di nome Gay o Gayr dello Oxfordshire. In questa mia storia, sarà lei la madre di Robert.
3. La costruzione dell'abbazia degli Uomini, insieme a quella delle Donne, fu il prezzo di una penitenza inflitta a Guglielmo il Conquistatore da papa Niccolò II. Infatti, al fine di rafforzare i legami tra i due più potenti principati del nord della Francia, Guglielmo decise di sposare la cugina Matilde delle Fiandre, figlia di Baldovino V, conte delle Fiandre, nonostante l'esplicito divieto, a causa dell'eccessiva consanguineità degli sposi, espressa da papa Leone IX durante il concilio di Reims del 1049. Guglielmo ruppe tuttavia il divieto papale sposando la cugina nel 1053, e in cambio del perdono fondò due monasteri benedettini a Caen: l'Abbazia degli uomini, dedicata a Santo Stefano, e l'Abbazia delle donne, dedicata alla Santa Trinità. William e Matilda sono sepolti rispettivamente nella prima e nella seconda chiesa.
4. Appellativo che William diede al suo figlio Roberto. Significa stivali corti.
5. William Rufus, William II, venne incoronato sovrano d'Inghilterra il 26 di Settembre, due settimane dopo la morte del padre avvenuta a Rouen.


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Capitolo 5
*** 05. ***


 
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Romsay Abbey, Hampshire – Caen, Normandia; Settembre – Dicembre 1087


 




Avevano appena iniziato a servire il pranzo quando la notizia giunse per mezzo di un messaggero proveniente da Londra. Come tutti i giorni, anche in quello che era iniziato apparentemente come uno fra tanti, stavano servando una pietanza povera, di quelle che Edith trovava degne di un qualsiasi contadino di umile nascita e della sua famiglia: era una minestra povera di farro, coltivato nell’orto adiacente al convento e messo in ammollo per chissà quante ore, abbastanza da ridurlo ad una poltiglia di un colore simile al fango. Era stato condito con poco, piccoli tuberi e ortaggi come le carote e le cipolle, anche queste coltivate e raccolte dalle suore nei mesi trascorsi, mentre il sale scarseggiava come sempre.
Edith ne prese un cucchiaio, portandoselo alla bocca e buttandolo giù senza neanche assaporarlo, troppo disgustata da quella poltiglia inadeguata a quella stagione – era solo metà Settembre e le temperature erano ancora calde, troppo per un pasto consono ai mesi freddi che sarebbero venuti più avanti.
Con la coda dell’occhio guardò sua sorella Mary, anche lei disgustata tanto quanto lei da quel cibo, e anche se durante quell’anno trascorso le era stato inculcato da Lady Christina e dalle sue adepte che ogni cosa era un dono del Signore e per tale motivo andava accolto a braccia aperte e con umiltà, la maggiore delle principesse scozzesi non riusciva a capire perché due giovani fanciulle del loro rango fossero costrette a tale miseria.
“Non ce la faccio.”
Edith voltò il capo alla sua sinistra, verso Mary, osservando la più piccola mentre cercava, con occhi chiusi e naso sottile arricciato all’insù in una smorfia di disgusto, di buttare giù l’ennesimo boccone della pietanza a base di farro.
“Devi mangiarla, Mary, o Lady Christina si adirerà e prenderà la verga. – la rimbrottò la maggiore, avvicinandosi di più alla minore per non essere sentita dalle suore che, tranquille, stavano consumando la pietanza dall’altro capo del lungo tavolo ligneo – Fa finta che sia una gustosa pietanza, una di quelle che mangiavamo presso la corte di nostro Padre, in Scozia.”
“Non ce la faccio. – disse per la seconda volta la piccola principessa – Non riesco a ricordare com’era prima, il gusto delle pietanze o il viso dei nostri nobili genitori.”
“Mary… - Edith le strinse una mano, sentendosi immensamente triste: Mary era stata portata via dalla sua dimora troppo precocemente, a neanche un anno di distanza dall’abbandono delle stanze riservate ai più piccoli dei principi reali, dalle premure delle balie e dal suo ingresso ufficiale a corte; era stata una decisione affrettata e precoce, questo era ciò che pensava Edith, e per questo motivo non riusciva a non biasimare i suoi genitori. – Sei una principessa scozzese, sorellina, ed entrambe dobbiamo ricordare i nostri ruoli: cosa direbbe nostra madre se ci vedesse ora, capricciose come delle comuni bambinette?”
“Cosa sta accadendo qui? – Lady Christina si era avvicinata, portando il sguardo gelido e severo sulle nipoti – Ancora capricci, ancora ingratitudine?”
Le due bambine si sguardarono intimorite, tremando di anticipata paura al pensiero delle punizioni che, anche solo una risposta sbagliata, avrebbe causato loro; Edith deglutì nervosamente, sentendo bruciare sotto il pesante vestito monacale che sua zia la costringeva ad indossare1 le ferite appena cicatrizzate che le ultime percosse con la verga lignea della sua nobile e pia zia le avevano procurato.
“No, Badessa, nessun capriccio. – rispose – Mary si è scottata la lingua a causa del calore della pietanza e questo le ha provocato dolore.”
“E’ questo che succede quando ci si abbandona al vizio capitale dalla Gola. – sussurrò algida la Badessa – Quando il pranzo sarà terminato, mi aspetto almeno cinque Ave e tre Padre Nostro da te, Mary.”
Mary stava per annuire e dire qualcosa, quando una delle sorelle entrò con passo frettoloso e viso imperlato leggermente di sudore nella sala grande dove le suore si riunivano per mangiare, informando la Badessa che un messaggero era giunto dalla capitale e che, sia lei che le principesse, erano state convocate.

“Così il nostro sovrano è spirato a Rouen, nella sua amata Normandia. – annunciò asciutta Christina, riponendo sul ripiano dello scrittoio la lettera – Possa Dio averlo in gloria, dare forza al suo erede, nonché nostro nuovo sovrano, William Rufus, per governare saggiamente durante i difficili anni di regno che lo attendono. Amen.”
“Amen.”
“Milady, non capisco: com’è possibile che sia Rufus l’erede del Conquistatore? – chiese perplessa Mary – Lord Robert è il suo primogenito.”
Christina sorrise sghemba: “Aye, Robert è il suo primogenito ed è per questo che è succeduto al padre prendendo il titolo ereditario di Duca di Normandia; al suo secondogenito, Rufus, sono andati i territori che il Bastardo ha conquistato con il sangue della nostra gente.”
“Eppure il Conquistatore aveva tre figli. – ricordò Edith – Perché non lasciare l’Inghilterra a Henry, il quale è nato e cresciuto in queste terre?”
Christina rise di gusto: “Henry è uno sciocco che si diletta nell’arte della guerra e in quella delle gonnelle2 delle donne. – asserì la donna – Ha appena diciannove anni, eppure ha già un’amante, una peccatrice di nobili natali che sta per dargli un figlio, un bastardo. Dio non sorride a tali peccatori, uomini e donne dall’animo macchiato, ed è per questo che Lord Henry ha avuto quello che meritava: cinquemila sterline e qualche terra sperduta appartenuta alla sua defunta madre, che Dio l’abbia in gloria, nel Gloucesershire.”
“Assisteremo ad una incoronazione, dunque.”
“Non essere sciocca, Mary, certo che no. – smentì prontamente Christina, spegnendo ogni speranza nella giovane nipote – Vostro fratello Duncan, forse, inviato presso la corte inglese per fare le veci di vostro padre; magari i vostri fratelli Edward ed Edmund, ma certamente non voi, piccole principesse dimenticate da tutti in un convento nel sud dell’Inghilterra.”
Gli occhi di Mary si riempirono di lacrime e, per la seconda volta, Edith dovette starle vicino per evitarle qualche punizione: quella donna era spregevole, pensò mentre l’osservava sogghignare divertita, non mancava mai di umiliarle e di farle sentire inferiori a lei e a chiunque in quel convento. La odiava, la odiava con tutto il cuore e benché fosse peccato, un’ emozione opposta a quella della carità cristiana, quel sentimento non si sarebbe mai tramutato.
In quel momento, Edith giurò a se stessa che non avrebbe mai più permesso a nessuno di sminuirla: lei era una principessa reale scozzese, la figlia di un sovrano amato dal suo popolo, e un giorno sarebbe diventata la moglie di un Duca o, con un po’ di fortuna, di un sovrano straniero.
Sarebbe diventata regina, signora di un popolo, e sarebbe stata amata e rispettata da tutti.
Tutti, anche dalla sua crudele zia, la quale sarebbe stata costretta ad inchinarsi al suo cospetto e ubbidirle come qualsiasi altro suddito.



 
**



“E’ nato! – la levatrice entrò nella stanza in cui, per ore, Henry aveva atteso in apprensione e preghiera – Un maschio, Milord, un bambino sano e forte. Madre e figlio stanno bene.”
Era iniziato Dicembre, il freddo e il gelo erano giunti a Caen, nella dimora di proprietà di Henry, eppure in quel momento il cuore del giovane si riempì di uno strano calore che mai, prima, aveva provato.
In risposta a quell’annuncio il giovane sorrise, compiaciuto e felice. Finalmente, dopo tanto tempo, aveva qualcosa per cui essere grato a Dio, un motivo per festeggiare: non erano stati facili i mesi successivi alla morte si suo padre, il suo futuro era incerto come poche volte lo era stato, e per la prima volta nella sua vita il giovane uomo si sentiva perso e straniero nella sua stessa casa — Robert non lo voleva in Normandia e neanche Rufus lo aveva convocato per giurargli fedeltà o vivere presso la sua corte.

Nonostante il divieto di entrare in un luogo impuro come quello di una stanza dopo il parto, si precipitò con passo svelto verso le stanze di Sybilla, situata nell’ala ovest della dimora — non vedeva la sua amante da mesi, da quando era iniziato il suo confinamento e il desiderio di stringerla nuovamente tra le braccia era più forte di qualsiasi legge.
“Mia adorata! – esclamò entrando nella stanza in cui, affaticata e stanca, Sybilla aveva dato alla luce il suo primo figlio; si precipitò al suo capezzale, inginocchiandosi ai piedi dell’ampio letto a baldacchino e le sorrise – Mi avete reso immensamente felice.”
“Henry… - Sybilla sorrise stanca – E’ un maschio, un bellissimo bambino.”
Entrambi portarono lo sguardo verso l’angolo della stanza, dove una seconda levatrice stava lavando e vestendo il neonato: Henry ordinò di portarlo immediatamente da lui, affinché potesse prenderlo in braccio e conoscerlo, ordine che fu prontamente eseguito.
Quando il suo sguardo si posò per la prima volta sul viso paffuto di suo figlio, Henry sorrise nuovamente: quello, si disse, era un miracolo divino. Il loro miracolo, il suo primogenito, un maschio a cui avrebbe dato non solo il suo affetto, ma anche grandezza e gloria che sarebbero riecheggiate in tutta Europa nonostante il suo lignaggio. Nonostante tutto, quel bambino adesso addormentato tra le sue braccia avrebbe avuto un ruolo nella Storia, nel futuro dell’Inghilterra.
“Ha i vostri capelli scuri. – notò immediatamente il ragazzo, seduto sul bordo del letto ligneo intagliato con ancora il neonato tra le braccia – Lo chiameremo Robert, in onore di vostro padre, Lord Corbet: un nome altisonante, non trovate? Degno del figlio di un principe reale.”
“Aye, un bellissimo nome. – Sybilla posò una mano sulla guancia del suo amante e lui la baciò castamente sulle labbra – Sono così felice, Henry; così immensamente felice.”
Henry sorrise lievemente e, per la prima volta dopo tanti mesi, ammise sinceramente: “Anche io, mia amata, anche io.”

 


*
 

1. Edith stessa racconta, nelle fonti che ci sono pervenute, che sua zia Christina la costringeva - presumibilmente la stessa sorte toccava anche alla più piccola, Mary - ad indossare indumenti monastici contro la sua volontà.
2. Ovviamente, la parola gonnella qui è intesa in termini medioevali, ovvero per definire la sopravveste o tunica portata indifferentemente da uomini e donne.





Angolo Autrice: E rieccomi nuovamente! In questo capitolo, molto di passaggio, vediamo come stanno affrontando la vita presso il convento Edith e Mary, mentre sul continente Henry conosce il suo primo figlio, Robert, figura molto importante nei decenni che seguiranno.
Nel prossimo, forse, ci sarà un altro salto temporale o comunque ci sarà sempre più attenzione su Henry, visto che per lui gli anni successivi alla morte del padre saranno più che movimentati e quindi degni di nota.
Grazie, al solito, a tutti voi che leggete, a coloro che seguono o hanno deciso di seguire questa mia storia e a chi recensisce! :3
Come per le mie altre storie, non so bene quando riuscirò ad aggiornare nuovamente - non prima del venti del mese, forse anche fino ai primi di Ottobre - quindi vi chiedo di portare pazienza.

Alla prossima,
V.
 

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Capitolo 6
*** 06. ***



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Romsay Abbey, Inghilterra – Castello di Tour Le Comte, Coutances, Normandia – AD 1091
 
 






Corse a perdifiato, fino a quando le sue gambe lo consentirono; corse a perdifiato, desiderosa di allontanarsi il più possibile da quel convento divenuto la sua prigione, fino a quando i suoi piedi non incespicarono nell’odiata tunica monacale e non si ritrovò con le ginocchia e le mani, livide a causa delle punizioni corporali che Lady Christina continuava imperterrita a infliggere alle nipoti, affondate nel terreno ancora impregnato e reso fangoso dalla copiosa pioggia caduta nei giorni appena trascorsi.
Furiosa e con le guance rigate di lacrime piene di rabbia e disperazione, Edith si strappò dal capo il tanto odiato velo, simbolo sensibile della sua infelice condizione, scaraventandolo tra le foglie d’erba punteggiate di rugiada del mattino e iniziando a calpestarlo con tutto il peso del suo esile corpo: poco le importava che si sarebbe completamente imbrattato di terra fangosa, neanche il pensiero di una severa punizione – probabilmente il digiuno, sicuramente la verga - per quel gesto apparentemente blasfemo l’avrebbe fatta desistere dallo sfogare tutto il suo malessere, frutto di quella sua misera vita che, contro ogni sua volontà, era costretta a vivere.

Il cielo era così azzurro quella mattina, così limpido da far quasi male agli occhi; il sole, sfera di calore che ruotava attorno alla Terra1, dava ai suoi capelli finalmente liberi dal giogo del velo una tonalità di rosso scarlatto e riscaldava le sue guance già accaldate dalle lacrime che, da qualche istante, avevano smesso di rigare il suo viso.
Per Edith sembrava quasi impossibile che, non molto lontano da Romsay, i nobili inglesi fossero in lotta tra loro, divisi tra la fedeltà al legittimo sovrano d’Inghilterra, William II, e il di lui fratello maggiore, Robert di Normandia, uomo orgoglioso e disposto a tutto pur di prendere possesso del trono che, a suo dire, gli spettava di diritto.
Persino il suo nobile zio, fratello minore di sua madre, Edgar Ætherling2, unico erede maschio del casato di Cerdic e discendente dalla casa reale del Wessex, sovrano proclamato ma mai incoronato della terra che il Bastardo aveva conquistato con il sangue, si era schierato pochi mesi prima con Robert, andando contro l’ira di Rufus: quando, mesi più tardi, Robert aveva dovuto ammettere l’amara sconfitta e chinare il capo davanti al fratello minore, Edgar, come del resto gli altri nobili giudicati come traditori, si era visto confiscare le sue terre e aveva cercato asilo presso la corte scozzese di Malcolm III.
 Come se tutto ciò non fosse stato abbastanza, i vecchi asti fra la Scozia e l’Inghilterra stavano lentamente riaffiorando e le voci di viandanti e soldati che giungevano all’abbazia in cerca di ristoro sussurravano di un imminente scontro al confine tra i due regni, i quali avrebbero combattuto per le terre che, molti anni prima, il Conquistatore aveva donato alla Scozia come simbolo di pace.

Se una guerra tra i due regni sarà inevitabile, la mia vita e quella di Mary saranno a rischio? Se le cose dovessero diventare critiche per qualsiasi delle due fazioni, potrei diventare un ostaggio del nemico?
Tutte quelle paure facevano apparire ridicole le difficoltà che ogni giorno affrontava nel convento, persino le punizioni corporali e le umilianti parole di Lady Christina. Forse, pensò Edith, essere costretta a portare quei vestiti severi e quell’odioso velo era un modo per proteggerle, per farle sembrare delle comuni novizie e non delle principesse scozzesi – delle principesse scozzesi come tante, senza dote e senza un futuro certo, come soleva ripeter loro Lady Christina.

Edith sospirò: se solo suo padre le avesse richiamate a corte per prendere il posto che spettava loro di diritto; se solo la sua mano fosse stata promessa, nonostante la sua giovane età, a qualche lord influente e i preparativi per le future nozze già organizzate.
Solo il mese prima, all’età di undici anni, Edith era finalmente diventata donna: le sue candidi vesti erano state macchiate dal purpureo simbolo di fecondità, trasformandola a tutti gli effetti in una donna, in una fanciulla in età da marito.
Presto, — continuava a ripetersi — un messaggero giungerà dalla Scozia con la notizia del mio fidanzamento e io sarò finalmente libera di lasciare questo porto e iniziare a vivere. Presto, diventerò una nobil donna e farò il mio ingresso nelle corti più influenti dell’isola con tutti gli onori che si confanno ad una principessa scozzese.

Immaginò come sarebbe stato tornare a casa, ritrovare i suoi genitori e i suoi fratelli: chissà che faccia avrebbero fatto nel vederla così cresciuta, un fiore dai colori caldi sul punto di sbocciare.
Ancora adesso, nelle notti insonni e nei momenti di malinconia, ripensava alla sua casa in Scozia, cercando di non far sbiadire le fugaci memorie d’infanzia nascoste ai confini della sua mente, forme nebbiose sempre più labili, ombre di ombre.
Di tanto in tanto ricordava la risata di suo fratello Edmund, gli occhi vispi di Edgar, i preziosi consigli di Edward; ricordava i sorrisi fugaci e rari di sua madre, i buffetti di suo padre e i momenti spesi tutti insieme a leggere passi della Sacra Bibbia o gesta di eroi leggendari vissuti secoli e secoli prima.
Chissà che tipo di bambino era diventato David, si domandò assorta nei suoi pensieri, a chi dei suoi fratelli somigliasse di più; era ancora un bambino in fasce quando lei era andata via, di lui non aveva alcun ricordo se non le guance paffute e le urla assordanti che, di notte, rimbombavano nei corridoi delle stanze riservate ai più piccoli.

Raccolse il velo dalla nuda terra in cui lei lo aveva scaraventato e, come meglio riuscì, lo ripulì e si avviò con andatura lenta verso l’abazia: in quel momento, Edith avrebbe tanto desiderato sentire nuovamente le risate dei suoi fratelli e le disperate esclamazioni delle sue balie, ma, suo malgrado, tutto ciò che avrebbe udito sarebbero state le inclementi esclamazioni di Lady Christina e il rumore della verga di legno che fendeva l’aria.
 

 

**
 



“E così i miei fratelli si sono alleati contro di me, - Henry sorrise con sarcasmo – molto gentile da parte loro.”
Portò la pergamena alla vivida fiammella di una candela, osservandola bruciare lentamente: dopo più di un anno di guerra per il trono inglese, sia William che Robert erano venuti alla reciproca conclusione che, oltre che la pace, ognuno sarebbe divenuto l’erede dell’altro in caso di prematura morte senza eredi. Henry, al contrario, sarebbe stato escluso da qualsiasi successione, cancellato completamente dalla loro linea di sangue.
Non che li biasimasse, certo, non dopo ciò che era successo e il suo comportamento ambiguo e pretenzioso tenuto sin dalla morte del loro non poi così tanto compianto padre: prima aveva chiesto a Robert, il primogenito divenuto Duca di Normandia, un titolo e delle terre da amministrare in cambio di parte della sue eredità monetaria, somma che al maggiore era servita per rinforzare le casse del suo regno e per attaccare William Rufus pochi mesi dopo; da quello scambio, Henry aveva ottenuto il titolo di Conte di Coutance, delle terre situate nell’omonima regione della bassa Normandia in cui aveva stabilito la sua dimora e stretto alleanze preziose, molte delle quali sarebbero continuate per tutto il corso della sua vita.
Allo stesso modo, si era recato in Inghilterra presso suo fratello Rufus, ora William II, per ottenere parte dell’eredità materna situata nella contea di Gloucester, situata sul versante ovest dell’Inghilterra e al confine con il regno del Galles: aveva ottenuto ben pochi risultati da quel viaggio, Rufus non si era mostrato incline ad assecondare le richieste, a suo dire sfacciate e arroganti, mosse dal minore e per questo motivo si era visto costretto a tornare a mani vuote in Normandia nell’autunno del 1089.
E così altri tre anni erano trascorsi per Henry tra guerre, prigionie scaturite da false dicerie e cospirazioni, le quali avevano portato suo fratello Robert, preda della paranoia, a comandare al suo prelato leccapiedi, tale Odo, Arcivescovo di Bayeux, di arrestarlo con l’accusa di tradimento e di tenerlo rinchiuso, sotto la sua rigida custodia, durante tutto l’inverno successivo nei freddi appartamenti di Neuilly-la-Forêt: in quei mesi, Robert lo aveva spogliato di ogni titolo e ricchezza, desideroso di sbarazzarsi di lui una volta per tutte, ma i nobili normanni erano stati di opinione differente e il Duca si era visto costretto a rilasciarlo suo malgrado e a permettergli di ritornare ai suoi domini.

“Cos’avete intenzione di fare, mio caro? – Sybilla era con lui quando, nel cuore della notte, era giunta la notizia – Combatterete o cercherete di far tornare loro il buon senso?”
“Dubito che ai miei fratelli sia rimasto buon senso. – rispose algido, continuando a fissare un punto indefinito davanti a lui – Non mi resta altro da fare se non radunare i pochi nobili che ancora mi sono fedeli, assoldare un esercito di mercenari che aumenti le fila dei miei soldati e, se necessario, ritirarmi a ovest, a Mont-Saint-Michel, unica roccaforte ancora sotto i miei comandi che potrebbe resistere ad un assedio di qualche mese.”
Sybilla si morse un labbro, preoccupata: quel piano era rischioso, non c’era alcun dubbio, ma sembrava l’unica via per riuscire ad avere salva la vita o, almeno, morire in modo degno di un grande condottiero normanno.
“E quali ordini hai per me, per nostro figlio e per quello che, presto, vedrà la luce?”
Henry si voltò, osservando il viso contratto di Sybilla, il suo ventre ampio e sempre più prominente: la sua amante stava per portare a termine la sua seconda gravidanza, mancavano pochi mesi alla nascita del bambino e questo rendeva le cose ancor più complicate per il figlio del Conquistatore  e la sua amante.
“Robert non vi farà alcun male. – rispose nella speranza di sembrare convincente – Non vi ha arrecato alcuna offesa quando mi ha imprigionato per un lunghissimo inverno a Neuilly-la-Forêt e non lo farà neanche adesso. Inoltre, non posso rischiare di portare voi e nostro figlio in un luogo che presto verrà assediato, condannarvi ad un parto che avverrebbe in situazioni precarie, ancor più pericolose per la vostra vita e quella del nostro secondogenito.”
“Il nostro, certo, ma non il tuo. – Sybilla si strinse nelle spalle e fece un passo indietro – Vi ho lasciato andare un’unica volta, ancora troppo provata dalla nascita di Robert per seguirvi oltremare, e questo è bastato per farvi cadere tra le braccia di un’altra donna e procreare un secondo e anche un terzo figlio.”
“Sybilla, vi prego, non parliamo nuovamente di quella donna e dei gemelli nati da fugaci incontri generati da ore di bagordi e coppe di vino bevute con troppa ingordigia. – le strinse una mano e, seppur insofferente, Sybilla non la ritrasse – Non spendiamo gli ultimi momenti insieme a parlare di una donna che non amo, che non significa e mai significherà nulla per me.”

Ansfride, questo il nome della donna che aveva intrattenuto Henry presso la corte inglese di suo fratello Rufus, era la vedova di un nobile minore, tale Lord Anskill, perito qualche anno prima durante una campagna di guerra comandata dal Conquistatore.
Le aveva dato un figlio, William, un fanciullo di dieci anni di robusta statura e promettente nell’arte della spada, ma ben poco era stato il sostentamento che la vedovanza aveva portato.
Voci di corridoio sostenevano che Ansfride fosse stata per alcuni mesi l’amante di Rufus, ma che ben presto lui si era stufato di lei; nonostante questo, però, il sovrano le aveva concesso di rimanere a corte e le aveva donato un vitalizio annuale di poco più di una dozzina di sterline per condurre una vita degna di una donna nata e vissuta tra gli agi.
Com’era accaduto con Rufus, anche Henry non era stato immune al suo fascino e, ebbro del vino, aveva passato quasi due settimane in sua compagnia, permettendole di scaldargli il letto durante le solitarie notti inglesi. Nove mesi dopo, Ansfride aveva dato alla luce due gemelli, un maschio e una femmina, battezzati rispettivamente con il nome di Richard e Juliane.3

“Eppure avete riconosciuto quei bambini, vi siete offerto di crescerli con ogni riguardo degno della prole di un principe, - Sybilla non era ancora riuscita a perdonare quel tremendo affronto, l’aver scoperto del tradimento tramite una lettera che annunciava la gravidanza di quella donna a lei sconosciuta era stato un duro colpo, un tradimento che, nonostante gli sforzi di Henry per fare ammenda, aveva intaccato profondamente il loro rapporto – Dite di amarmi e io vi credo, vi ho sempre creduto, eppure sapere di essere così facilmente rimpiazzabile…”
“I piaceri della carne non sono paragonabili al balsamo che siete voi per il mio spirito, tantomeno all’amore profondo e incondizionato che provo per voi e per nostro figlio. – Henry fu in piedi in un baleno, si inginocchiò al suo cospetto come tante altre volte aveva fatto in quei mesi trascorsi – Voi siete la mia unica fonte di gioia, la mia sola felicità. Senza di voi la mia vita non avrebbe alcun senso, niente avrebbe senso. Vi amo con tutto il mio fragile essere di uomo, Sybilla, e questo non cambierà mai.”
“So che mi amate, so che le vostre parole sono sincere, eppure non posso dimenticare. – passò la piccola mano tra i capelli e sul viso del bel principe normanno – Non posso far finta che ciò che è accaduto non sia mai avvenuto, tantomeno posso dimenticare la mia condizione: sono la vostra amante, Henry, una qualsiasi e un giorno, chissà quando, potrei essere messa da parte insieme ai nostri figli e a questa incerta vita che stiamo condividendo.”
“Sapete che non posso sposarvi, non adesso. – Henry si alzò in piedi e prese il pallido e stanco viso della giovane tra le sue mani dai polpastrelli callosi – Non ho nulla da offrirvi, Sybilla, non un titolo e neanche una dimora degna di voi. Sono figlio di reali, certo, ma a momento non ho alcuna pretesa sul ducato di Normandia, tantomeno sull’Inghilterra.”
“Inoltre rimanere celibe vi consente di potervi legare in qualsiasi momento con un qualche saldo regno come la Francia o la Scozia. – concluse Sybilla per lui, sottraendosi ancora una volta dalle sue carezze – Non sono sciocca, Henry: sono nata e cresciuta tra giochi di potere, io stessa sono stata praticamente scaraventata nel vostro letto da mio padre con la vana speranza che voi mi sposaste; so come vanno queste cose, so bene che rimarrò sempre e soltanto la vostra amante e questo mi sta bene.”
Deglutì a fatica, cercando di non cedere alle forti emozioni a cui la gravidanza e quel momento delicato la stavano sottoponendo: “Abbiamo questo. – continuò, portando le mani dell’uomo che amava sul suo ventre e sorridendogli – Abbiamo il nostro amore, i nostri figli e questo mi basta. Fino a quando mi amerai incondizionatamente, fino a quando il vostro cuore sarà mio e mio soltanto, questo mi basterà.”
“E se un giorno dovesse giungere una donna straniera, qualche principessa decisa a reclamare questo mio cuore?” chiese provocatorio, senza sapere che quel giorno sarebbe giunto insieme ad una fanciulla scozzese dalla chioma dai colori del sole al tramonto.
“Se quel giorno dovesse mai arrivare, - rispose lei prima di baciarlo – combatterò con tutte le mie forze per difendere e preservare ciò che da sempre mi appartiene.”
 



*


 
1. In quegli anni si seguiva il Sistema Tolemaico o Geocentrico, istituito nel II secolo, che vedeva la Terra fissa al centro dell'Universo, con il Sole che orbitava attorno ad essa.
2. Edgar Ætherling, figlio di Edward l'Esiliato, fu proclamato re d'Inghilterra nel 1066, ma per la sua giovane età non fu mai incoronato e a lui si preferì il Conte del Wessex, Arold Godwinson, poi Arold II, il quale venne successivamente ucciso in battaglia dal Conquistatore. Edgar è anche conosciuto con l'epiteto di re perduto d'Inghilterra.
3. E' molto improbabile che Richard e Juliane fossero gemelli, anzi posso dire che questa è una licenza che mi sono presa, in quanto non è mia intenzione approfondire il legame tra Henry e Ansfride, la quale fu per alcuni anni una delle amanti ti Henry I. Nonostante ciò, entrambi i figli avuti da lei hanno avuto una parte importante nelle vicende legate al regno di Henry e, più in generale, in alcuni avvenimenti storici degni di nota.






Angolo Autrice: Salve, gente! Lo so, questo capitolo arriva con molto ritardo, ma come aveva anticipato nel precedente è stato un periodo movimentato e, mio malgrado, scrivere questo sesto episodio è stato più lungo del previsto. Per farmi perdonare, però, l'ho ampliato notevolmente, così da avere un capitolo più lungo rispetto ai precedenti. Spero, infine, che vi sia piaciuto e ringrazio tutti colore che hanno letto, che seguono la storia e chi vorrà lasciare e ha lasciato una recensione! ;)

Alla prossima,
V.

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Capitolo 7
*** 07. ***


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Arrivarono al castello di Tour Le Comte due giorni dopo. Il sole era sorto da poco più di un’ora quando il manipolo di soldati entrò, indisturbato, all’interno delle mura della roccaforte guidato dal loro comandante e signore; i suoi raggi tiepidi accarezzavano appena il versante est del castello e le mura di pietra abbandonate giorni prima da coloro che avrebbero dovuto presidiarle.
Robert di Normandia cavalcava uno stallone da guerra dal manto chiaro, indossava un’armatura degna del suo rango, appartenuta a suo padre e, ancora prima, al padre di suo padre, il quarto Duca di Normandia da cui aveva preso il nome. Aveva un’aria solenne, quasi intimidatoria, ma nel suo animo non c’era alcun desiderio di vendetta nei confronti dei poveri sciagurati che, loro malgrado, erano stati dimenticati dentro e fuori quelle mura dal loro signore e ora temevano per la loro vita: si disse che sarebbero bastate le promesse di una futura e ipotetica vendetta nei loro confronti a piegarli, loro che, nonostante tutto, erano pur sempre i suoi sudditi – certo, era Henry il loro signore, ma era lui il Duca di Normandia, il sovrano indiscusso del regno.
Giunti nel cortile che conduceva all’ingresso del castello, uno stalliere impacciato e giovane, forse anche troppo, accorse con andatura alquanto goffa e, afferrate le briglie di cuoio con mani ossute che tradivano con il loro palese tremore le sue paure, lo aiutò a smontare da cavallo dopo un inchino alquanto impacciato.
Robert si concesse un secondo per osservarlo meglio: visto da vicino, lo stalliere sembrava ancor più giovane di quanto non gli fosse apparso in un primo momento; i suoi occhi erano occhi di chi non aveva mai conosciuto la guerra e il suo viso scavato, contornato da capelli simili per colore e spessore alla paglia, tradiva una condizione di salute alquanto cagionevole.

“Non c’è nulla da temere, ragazzo – gli disse con voce incolore – non sono qui per vendicarmi su di voi. Dimmi, chi è che detiene il comando a momento?”
“S-sono andati via tutti… - rispose con timore reverenziale, senza osare guardarlo negli occhi scuri – Lord Henry è andato via d-due g-giorni orsono, portandosi con se molte provviste e gli uomini migliori, ma ha l-lasciato qui la sua c-concubina e s-suo figlio.”
“Lady Sybilla è qui?”
Aveva conosciuto Sybilla anni prima, quando era solo un fiore in boccio e suo fratello era stato accusato di alto tradimento, rinchiuso su suo ordine a Neuilly-la-Forêt con la vana speranza di liberarsi una volta per tutte di lui, il fastidioso fratello minore che proprio non riusciva a ricordare il suo posto e mostrare gratitudine.
Ricordava ancora quel loro primo incontro, le sue guance arrossate dal pianto e il bambino di pochi anni stretto tra le sue braccia; ricordava i suoi occhi azzurri velati ma fieri, degni di una giovane donna di nobili natali che non si sarebbe mai piegata e che avrebbe combattuto fino alla fine per difendere la vita del suo prezioso bambino e la sua.
Era stato immediatamente affascinato da lei, dalla figlia di Warwick1 spesso dipinta da suo fratello come sciocca e testarda, ma che per lui meritava solo rispetto e ammirazione, una felicità che i suoi occhi troppo spesso tristi non trapelavano.
“Nelle sue stanze, Milord. – rispose l’altro con un lieve cenno del capo – T-tutti noi stavamo a-aspettando il vostro arrivo.”

Henry doveva essere completamente impazzito per lasciarla nuovamente sola, in balia degli eventi, pensò Robert mentre si dirigeva con passo svelto verso le stanze dove Sybilla lo stava attendendo, oppure sapeva fin troppo bene che lui non le avrebbe mai fatto del male, che il suo animo di nobile cavaliere non lo avrebbe mai e poi mai condotto a recare offesa o, peggio, mettere a morte una donna innocente e il suo figlio ancora infante.
Inoltre, se le voci che aveva udito erano vere, Sybilla portava in grembo un altro figlio, un secondo illegittimo che presto avrebbe visto la luce.

Sempre che madre e figlio non periscano nel difficile e incerto momento del parto. In quel caso, le mie mani saranno pulite e io non avrò alcuna colpa. Le mancanze saranno esclusivamente di Henry, una punizione per la sua vita trascorsa nel peccato della lussuria e della cupidigia. —



Non aveva dormito quella notte e neanche la notte precedente. Da quando Henry era andato via, scappato per trovare un luogo sicuro in cui sfuggire all’ira dei suoi fratelli, Sybilla non aveva trovato pace: cosa sarebbe capitato al suo amato e quale destino Dio avrebbe riservato a lei e ai suoi figli?
Henry l’aveva rassicurata, riteneva suo fratello Robert un animo nobile, un uomo che mai avrebbe disonorato la cavalleria uccidendo o torturando una donna innocente e persino gravida senza motivo, troppo timorato di Dio per alzare solo un dito contro un bambino, sangue del suo sangue, di neanche quattro anni e, nonostante il suo istinto di madre continuasse a metterla in guardia, anche lei sapeva che le loro vite non erano in pericolo.
Robert aveva provato fin da subito una strana forma di compassione per lei, sfortunata amante di un principe senza titoli e senza terre, costretto prima alla prigionia e adesso alla fuga; aveva provato pena per lei, ma allo stesso tempo ne era stato affascinato, quasi ammaliato ed era proprio in questo sentimento la forza di Sybilla: in quel gioco di potere, in cui gli equilibri erano sempre precari e in ogni momento il perdente poteva divenire vincitore, lei avrebbe dovuto giocare al meglio ogni sua mossa, mostrarsi accondiscendente verso il nemico, assecondarlo in ogni suo volere nonostante la sua eterna fedeltà nei confronti dell’uomo che amava.

Maman?2” Robert sgranò gli occhi sentendo forti rumori provenire da fuori e, confuso e assonnato, si strinse alla madre.
“Va tutto bene, non temere. – Sybilla accarezzò la sua testolina scura, stringendolo a sua volta – Tuo zio, il Duca, è giunto con i suoi uomini, ma non ci farà alcun male. Non abbiamo nulla da temere.”
Sorrise al suo primogenito, cercando di sembrare abbastanza convincente da tranquillizzarlo, benché anche lei non fosse del tutto sicura della sua affermazione: Robert avrebbe potuto benissimo rinchiuderli chissà dove, prenderli come ostaggio in un tentativo estremo di piegare e distruggere definitivamente Henry, mandare il suo innocente bambino chissà dove, lontano da lei.
Se Henry dovesse perire, probabilmente mi costringerà a prendere il velo e passare il resto della mia vita dietro le tetre mura di un monastero, ad espiare tutte le mie colpe, impedendomi per sempre di rivedere i miei figli.

Fuori, un preoccupante andirivieni, accompagnato da fastidiosi brusii di voci confuse, si fece più incalzante: Sybilla aveva lo aveva previsto; aveva previsto il prostrarsi della servitù e di chiunque fosse ancora rimasto in quel castello ai piedi del Duca, parole di eterna fedeltà in cambio della vita. Robert li avrebbe risparmiati, poiché presto avrebbe avuto bisogno del loro appoggio per evitare nuovi tumulti in quella zona della Normandia, ma avrebbe comunque lasciato lì uomini a lui fedeli per non rischiare qualche tentativo di sommossa da parte di coloro che, suo malgrado, sarebbero sempre stati fedeli a suo fratello minore.
Non rimase neanche sorpresa quando, poco dopo, la porta dall’altra parte della stanza si aprì e il Duca fece il suo ingresso: si era praticamente fiondato da lei, impaziente di avere risposte, conferme circa i sospetti che da giorni lui e Rufus, adesso William II, nutrivano riguardo i piani di Henry.
Sybilla lo guardò sottecchi, trovandolo immutato nell’atteggiamento e nei lineamenti: più basso di statura rispetto a Henry, aveva il suo stesso portamento fiero; i capelli, più chiari e corti di quelli del suo amante, erano ugualmente ondulati e l’ovale del suo viso era perfettamente identico, mostrava stessi zigomi leggermente sfuggenti e mascella squadrata.
I suoi occhi scuri la scrutarono, sul suo viso comparve un lieve sorriso divertito – anche la prima volta che si erano visti lei era seduta sul bordo del letto, stringeva suo figlio tra le sue braccia e lo guardava con gli occhi di un cerbiatto impaurito – ma dalle sue labbra contornate da una lieve barba non uscì alcuna parola: Robert si tolse il mantello foderato di pelliccia, riempì un calice con del buon vino, che trangugiò avidamente, e si mise comodo su di uno scranno posizionato vicino alla finestra che dava sul lato ovest del castello.

“Dunque le voci sono vere: aspettate un figlio. – la guardò con sufficienza, soffermandosi per un breve istante sul ventre leggermente gonfio, poi tornò a osservare fuori – Peccato che suo padre non possa assistere al lieto evento.”
“Lord Henry sa che ci saranno altre occasioni per conoscere suo figlio, modo e tempo per recuperare il tempo perduto. – rispose tranquilla Sybilla – Non è a lui che porto rancore.”
Robert sorrise amaramente: “Non siete cambiata affatto, siete sempre la giovinetta innamorata e malleabile che ricordavo. Eppure vi ritengo molto più intelligente di così, una giovane donna che vale molto più di questo, di una posizione instabile e di un amante in perenne bilico tra la vita e la morte.”
“Henry mi ama…”
“Henry ama solo se stesso. – sottolineò piccato l’altro, arricciando il naso in una smorfia – Crede che tutto gli sia dovuto, prende ciò che vuole quando vuole, senza riflettere. E’ presuntuoso, tracotante, voltagabbana e, credetemi, non ha idea di cosa sia la fedeltà. Non c’è da stupirsi che sia finito così, a fuggire come un codardo verso Mont-Saint-Michel, una fortezza allo stesso tempo inespugnabile e letale per coloro che la scelgono come ultima roccaforte: non c’è via d'uscita da quella fortificazione.”
“Henry è più scaltro di quanto immaginiate, Duca. Inoltre vorrei ricordarvi che, nonostante la vostra bassa considerazione per la sua fedeltà, non avete esitato a conferirgli il titolo di Conte di queste terre quando avevate bisogno di denaro per fronteggiare Rufus. – gli ricordò piccata – Quello stesso titolo che gli avete tolto poco dopo, accusandolo ingiustamente di tradimento.”
“Volete negare forse le sue mire verso il ducato? – Robert stava diventando nervoso, intollerante alle parole della donna – Stava fomentando una ribellione, avrebbe cospirato con Rufus per detronizzarmi, di questo ne sono certo… una mossa falsa e sarei stato spacciato. Ma adesso tutto è diverso: adesso Normandia e Inghilterra sono unite e lui è solo una fastidiosa pedina che presto verrà mangiata dai pezzi più forti.”

Per la prima volta da quando la conosceva, Robert vide incertezza sul volto di Sybilla, timore e paura per il suo uomo: Henry, il suo futuro in Normandia, era oramai condannato, forzato a scegliere tra la morte e l’esilio.
Eppure, vedere Sybilla sull’orlo della disperazione gli fece male, lui che era sempre stato impassibile, immune agli affetti – suo padre non lo aveva mai considerato, era solito schernirlo e burlarsi di lui con epiteti offensivi, mentre sua madre era sempre stata troppo remissiva e lontana per poter fare ammenda; i suoi fratelli, d’altra parte, lo avevano sempre visto con distacco, con freddezza, mentre l’unico che lo aveva davvero amato, Richard, era morto troppo presto nel sud dell’Inghilterra, durante una battuta di caccia.3

“Non recherò alcun male a voi o al fanciullo, di questo avete la mia parola d’onore - riprese subito dopo, guardando per la prima volta Robert, il primogenito illegittimo di suo fratello, che molto gli somigliava – Vi darò le migliori levatrici per il parto, a condizione che voi veniate con me a Domfront, dove avrete un occhio di riguardo e sarete ospite di Lady Agnes, Contessa di Ponthieu.”
“Dove sarò controllata a vista e tutta la mia corrispondenza sarà letta. – lo corresse lei, sorridendo amaramente – Come se avessi scelta…”
“Che ci crediate o no, non voglio esservi nemico. – sospirò – Nonostante questo, vorrei chiedevi di non sfidarmi e di non mettere a dura prova la mia pazienza: so essere molto accomodante e generoso con chi mi è fedele, ma so anche essere spietato con chi tradisce la mia fiducia dimostrandosi un ingrato.”
“E cosa ne sarà dei miei figli?”
“Vivranno con voi fino a quando non arriverà il momento di avviarli verso una nuova strada, - rispose – militare o ecclesiastica, chissà. Qualunque sarà il loro destino, posso assicurarvi che sarà molto più radioso di quello che avrebbero avuto dal loro stesso padre.”
“Immagino che il mio, invece, sarà quello di devota moglie di qualche vostro nobile in cerca di fortuna, magari il velo in qualche monastero, oppure mi rimanderete in Inghilterra da mio padre?”
“Dubito che vostro padre voglia riprendervi dopo i vostri trascorsi. – sentenziò crudelmente – La vostra dote è già stata destinata alle vostre sorelle, una parte minima è stata data a Henry, benché lui non abbia mai avuto intenzione di sposarvi, ma magari potrei rimedire io; magari, con il tempo impareremo a conoscerci meglio, apprezzarci vicendevolmente, e magari chissà, anche diventare intimi amici.”

Sybilla tremò disgustata al sol pensiero: sebbene Robert fosse affascinante, sebbene le sue parole e i suoi modi fossero allettanti per molte donne, niente l’avrebbe mai convinta a provare simpatie per lui o, peggio, diventare la sua amante.
Desiderò di essere con Henry, non importa se dietro le mura di una fortezza sotto assedio oppure in esilio; Sybilla voleva stargli accanto, stretta nel suo forte abbraccio, inebriata nel suo profumo e nel calore del suo corpo di uomo forgiato da battaglie che, come nessun altro, riusciva a tranquillizzarla e farla sentire forte.
Chissà se mai lo avrebbe rivisto…

“Parleremo ancora, più avanti, ma ora ci sono altre cose più importanti a cui devo pensare. – Robert sorrise al bambino e baciò la mano di Sybilla – Pensate a ciò che vi ho detto e tenetevi pronta a partire: lasceremo questo posto nel giro di due giorni. Se avrò notizie da comunicarvi, state certa che le avrete, quindi evitate di averne usando sotterfugi di stramba natura o sarò costretto a prendere provvedimenti che non vi piaceranno.”
Sybilla non rispose: strinse i pugni, cercando di contenere la rabbia che stava prendendo forma al centro del suo petto e pensò esclusivamente ai suoi figli e al giorno in cui Henry sarebbe tornato e avrebbe vendicato i torti da loro subiti.
L’osservò abbandonare la stanza, udì le sue parole che, perentorie, ordinavano a due soldati di sorvegliare la porta delle sue stanze e seguire i suoi movimenti; quella che Robert le aveva decantato come libertà, altro non sarebbe stata che una prigione dorata, una gabbia in cui, come un uccellino dal manto colorato, avrebbe abitato contro il suo volere.

 



*



1. Sybilla era figlia del Conestabile di Warwick, Robert Corbet d'Alcester.
2. Termine francese usato affettuosamente per chiamare una madre. Il termine risale a prima del '200 e appare in alcuni scritti di Aldobrandino da Siena.
3. Richard, Duca di Bernay, era il secondogenito maschio del Conquistatore. Morì giovane durante una battuta di caccia nella New Forest e fu successivamente seppellito nella Cattedrale di Winchester. Trent'anni più tardi, anche suo nipote Richard perderà la vita nella stessa foresta, durante una battuta di caccia.




Angolo Autrice: Hello, folks! Capitolo dedicato interamente a Sybilla, personaggio che, ammetto, sto amando sempre di più. Per l'occasione, ho messo momentaneamente da parte la classica immagine di apertura/copertina per una gif tratta da Kingdom of Heaven - Le Crociate, e che rappresenta la mia Sybilla ideale. Voi, ovviamente, siete liberi di immaginarla con fattezze diverse da quelle della splendida Eva.
In conclusione, spero che il capitolo vi sia piaciuto e ringrazio tutti voi che leggete in silenzio, seguite e recensite.

Alla prossima,
V.

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Capitolo 8
*** 08. ***


 


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Mont-Saint-Michel, Normandia – 1091
 

 





Henry si portò una mano alla bocca, ricacciando indietro un conato e, disgustato, voltò il capo.
Il tanfo di morte e sudiciume stava, giorno dopo giorno, saturando l’aria, rendendo quasi impossibile respirare; fuori le mura, oltre la distesa di terra mista a sabbia, gli uomini di William e Robert continuavano il loro assedio, attendendo senza fretta una mossa del fratello minore, consapevoli che, prima o poi, quella roccaforte circondata in buona parte dal mare si sarebbe rivelata la loro arma vincente: non c’era alcune via d’uscita da quei cunicoli sotterranei, nessuna flotta per prendere il largo e affrontare il mare in quel periodo ostile a chiunque provasse a solcarlo.
Per giorni e giorni si era cercata una soluzione, un modo per contrastare i trabucchi e le catapulte posizionate non lontano delle sponde dell'acqua; per giorni il minore dei figli del Conquistatore aveva sperato di riuscire a tener testa agli uomini accampati in tende disposte in file ordinate, ma con il passare del tempo la speranza stava diventando sempre più flebile. Henry era divenuto un topo in trappola e, in meno di tre settimane, la mancanza d’acqua potabile stava mettendo in ginocchio tutti loro; numerosi soldati erano già periti a causa della dissenteria, molti altri iniziavano ad avere problemi di malnutrizione e persino i più leali nobili, da sempre alleati di Henry, stavano iniziando a dare segni di cedimento. Da qualche giorno, corpi senza vita avevano iniziato ad ammassarsi negli angoli più tetri della fortezza, dati alle fiamme dopo essere stati cosparsi con pece nera come la notte più buia. Il sol ricordo di quelle immagini e del nauseabondo odore di morte misto a bruciato provocò ad Henry un secondo conato.
“Accatastatelo insieme agli altri e, se necessario, bruciatene il corpo.”
Era l’ennesimo ragazzo che moriva a causa della dissenteria provocata dalla mancanza di acqua potabile e dalle scarse condizioni igieniche; proprio la malattia era ciò che stava uccidendo i suoi uomini, decimandoli molto più di quanto avessero fatto le frecce e le spade, l’esercito anglo-normanno capeggiato dai suoi fratelli.
Forse, iniziava a chiedersi Henry, la sua tracotanza e il suo orgoglio lo avevano spinto troppo oltre, verso un punto di non ritorno; forse, avrebbe dovuto fermarsi tanto tempo prima, contento di ciò che aveva, dei titoli e delle terre che Robert gli aveva conferito – e che aveva perso ingiustamente, a causa della paranoia di Brevis-ocrea, dell’invidia dei suoi consiglieri privati che da sempre lo disprezzavano.
Per la prima volta si pentì di aver respinto con sfacciata sicurezza la proposta di pace di Rufus, aver scagliato frecce contro la sua reale figura e il suo bianco ronzino, ottenendone una banale dardo conficcato nel posteriore del cavallo e parole di insopportabile tranquillità; il sovrano d’Inghilterra non si era fatto turbare, anzi aveva sorriso, mostrato calma e un atteggiamento degno di un re che aveva ricordato a Henry il loro defunto padre, da sempre considerato diverso da William e allo stesso tempo così simile in quella delicata circostanza.
“Terminate questa follia, fratello. – aveva supplicato davanti alle porte della fortezza con voce squillante il secondo sovrano di stirpe normanna d'Inghilterra – Non c’è vittoria per voi e lo sapete. Aprite le porte e arrendetevi; accettate la sconfitta e l’esilio e giuro, sul Volto Santo di Lucca1, di non cercare alcuno scontro con voi o i vostri uomini.”
Poteva fidarsi di lui e delle sue ingannevoli parole? Avrebbe mai potuto permettere ai suoi uomini di rischiare la vita senza neanche combattere?

Stanno morendo sotto i miei occhi, uno dopo l’altro e io non riesco a prendere una decisone. Sono davvero degno di essere figlio di mio padre, del condottiero normanno vincitore di Hastings, primo sovrano d’Inghilterra della sua stirpe?

Decisioni dovevano essere prese e subito: presto la marea sarebbe nuovamente aumentata, sommergendo ogni cosa attorno alle mura, impedendo a Henry qualsiasi mossa. Avrebbe dovuto aspettare un’altra settimana, forse dieci giorni prima di rivedere la bassa marea, prima che la natura matrigna concedesse a lui e ai suoi uomini un passaggio abbastanza sicuro da prendere per uscire da Mont-Saint-Michel, dalla prigione che lui stesso si era scelto.

 


**




“Non possiamo più indugiare, Henry.”
La voce grave di William de Grandmesnil2, secondogenito maschio di Hugh, sceriffo di Leicester e grande condottiero nella battaglia di Hastings, non ammetteva repliche; seduto all’estremità opposta del lungo tavolo attorno al quale, poco prima, uomini fedeli a Henry si erano radunati, troneggiava con la sua altezza su tutti, mostrando per la prima volta dall’inizio dell’assedio preoccupazione e determinatezza.
Benché la sua famiglia non avesse mai visto di buon occhio lo scapestrato figlio minore del Conquistatore, preferendogli il più saggio Robert o il più temibile William Rufus, il giovane dai capelli biondi aveva deciso, deluso dal tradimento del Duca di Normandia nei confronti della loro famiglia, alla quale aveva preferito i subdoli e spietati Belesme, di offrire i suoi servigi a quello che, per poco tempo, era stato conte di Coutances.
Ben presto Henry si era dimostrato ai suoi occhi un giovane uomo degno del suo rango, erudito e scaltro, alle volte forse troppo irruento, ma sempre fedele e riconoscente con coloro che riuscivano a conquistare la sua fiducia.
Con il passare dei mesi avevano instaurato velocemente una salda amicizia fatta di complicità e preziosi consigli, consigli che Henry accettava di buon grado, essendo William più grande di lui di tre anni e già esperto nella guerra e negli assedi delle città. Insieme avevano condiviso vittorie e ricchi bottini e, sempre insieme, avrebbero affrontato questa bruciante sconfitta.
“Ho già perso molti dei sessanta uomini a me fedeli e per come si stanno evolvendo le cose non posso rischiare di perderne ancora. — proseguì de Grandmesnil, ricordando la tragica situazione in cui tutti loro si trovavano e cercando lo sguardo assorto dell’altro nel tentativo di persuaderlo una volta per tutte — Dobbiamo accettare la sconfitta, Henry, chiedere un parlè con i vostri fratelli e sperare nella loro clemenza. Questo oppure la lenta morte che ci attende se continueremo a rimanere in questo castello tramutatosi in un cimitero.”
Henry continuò a tenere lo sguardo fisso su di un punto indefinito del tavolo ligneo, perso nel vuoto. William aveva ragione: ogni sua decisione aveva portato alla sconfitta e anche se la ragione gli diceva che il patteggio e le suppliche erano l’unica scelta sensata, il suo orgoglio di cavaliere sussurrava inarrestabile di sguainare le spade e affrontare i suoi fratelli faccia a faccia, morire gloriosamente piuttosto che accettare l’esilio.

Cosa ne sarà di Sybilla se io dovessi morire? Cosa ne sarà di Robert e del bambino non ancora nato? Loro sono tutto per me, la mia sola gioia e non posso permettere al mio egoismo di prendere il sopravvento e ottenebrarmi la mente. Devo sapere che sono al sicuro, che sono e saranno sempre al sicuro, nonostante il funesto futuro che mi attende. —

“E sia, dunque: mandate un messaggio al Duca e al Re, dite loro che sono disposto a incontrarli, a negoziare la mia resa e quella dei miei uomini, affrontare la mia sorte.”


 


**





Esilio.
Quella parola fu pronunciata con leggerezza dai suoi fratelli, tramutò in realtà le sue paure, i suoi sospetti, ciò che da giorni aveva cercato di accettare. Henry sapeva che sarebbe stato inevitabile eppure il colpo non fu meno duro: la Normandia non era mai stata la sua vera casa, certo, eppure in quei pochi anni trascorsi in quella terra aveva iniziato a maturare un senso di appartenenza, grazie anche alla popolazione che, sin da subito, aveva provato per lui simpatia e rispetto.
La sentenza avvenne in una tenda allestita di tutta fretta tra l’accampamento di Robert e Rufus e la fortezza di Mont-Saint-Michel, dove impazienti attendevano gli uomini e i comandanti al servizio di Henry, anche loro condannati al medesimo esilio; i fratelli maggiori non si erano dimostrati stupiti dalla decisione del minore di scendere a compromessi, anzi avevano apprezzato il suo buon senso che, a parer loro, lo aveva condotto alla scelta migliore per tutti.
“Ho semplicemente fatto ciò che ritengo giusto. L’ho sempre fatto e sempre lo farò: nonostante la vostra ingordigia, nonostante ciò che voi ritenete giusto, io ho semplicemente combattuto per ciò che mi spetta di diritto, per le terre di nostra madre e per una misera parte di quelle di nostro padre.”
“Avresti dovuto accontentarti di quelle che ti ho donato in cambio di parte della tua eredità, fratello; — rispose algido Robert — Avresti dovuto metterti da parte, recitare la parte del suddito fedele, invece hai dovuto oltrepassare i limiti, cercando di accaparrarti le terre del Gloucestershire, ordire chissà quali complotti alle nostre spalle.”
“O, forse, la verità è che segretamente mi hai sempre temuto, fratello. – rispose a tono Henry, che oramai non aveva altro da perdere – Io sono sempre stato il preferito di nostro padre e, se non fosse stato per la legge e per l’amore che nostra madre provava per te, sarei stato io il degno duca di Normandia.”
“Attento a ciò che dici, Henry. – ammonì Rufus, molto più calmo di Robert – Nostro fratello ha già mostrato fin troppa magnanimità nei tuoi confronti e, se fossi in te, non rischierei di provocarlo ulteriormente.”
“Tieniti pure l’affetto di nostro padre, non mi è mai importato. —disse Robert, ghignando – L’affetto non ti ha reso duca o re, non ti ha reso ciò che sono io; spero solo che l’esilio ti faccia crescere, meditare sulle tue azioni. Io, da parte mia, terrò fede alle mie promesse e farò del mio meglio per prendermi cura della tua concubina e dei vostri bastardi.”
“Bastardo! Cosa le hai fatto?” Henry scatto in piedi, colto da un moto di ira, ma prontamente delle guardie lo fecero sedere.
“Nulla che possa disonorarla, se può farti sentire meglio. – Robert sorrise sghembo, mostrando il suo essere subdolo e viscido – E’ in buone mani presso Lady Agnes, Contessa di Ponthieu, al sicuro dietro le solide mura di Domfront, una fortezza in cui è praticamente impossibile entrare o uscire senza essere visti.”
“Voglio scriverle una lettera, spiegarle ciò che è accaduto. – annunciò Henry – Non permetterò a nessun altro di darle la notizia, non rischierò che la sua mente venga avvelenata da voi o dai vostri sudditi. Voglio che sappia che non sarà per sempre prigioniera e che l’aspetterò a Parigi.”
“Sei uno sciocco, Henry, se credi che Filippo o il suo erede, il Grosso3, ti daranno rifugio presso la loro corte. Nessuno vorrà immischiarsi con te, tantomeno io permetterò a Sybilla di continuare a rovinarsi la vita con te, esiliato principe senza eredità o titolo. No, lei rimarrà in Normandia, presso la mia corte e sarà rispettata e onorata come tu non hai mai fatto e mai potrai fare.”
“Lei non sarà mai tua, Robert. – sibilò velenoso come un serpente Henry, guardandolo con odio – Non importa cosa le dirai, non importa quanti gioielli e vestiti le regalerai, lei non ti darà mai il suo cuore, poiché quello appartiene e sempre apparterrà a me.”
“Questo lo vedremo, fratello. – Robert mantenne il suo sguardo e, con un gesto autoritario della mano, ordinò alle sue guardie di scortare fuori la tenda il furibondo Henry – Fai buon viaggio oltre i confini del mio regno e possa la nostra strada non incrociarsi nuovamente.”



 
*
 


1. Il Volto Santo di San Lucca è un crocifisso, posteriore al 700, conservato in un tempietto costruito nel '400 e situato nella navata sinistra della cattedrale di San Martino a Lucca. Inoltre, "By the face of Lucca" era il giuramento consueto di William Rufus.
2. Circa William de Grandmesnil non si hanno molte informazioni, se non quelle che era il secondo figlio di High de Grandmesnil e che sposò Mabel, figlia di Roberto il Guiscardo, conosciuto anche come Roberto d'Altavilla, conte di Puglia e Calabria. Per questo motivo, essendo la sua vita avvolta nel mistero, seppur la sua famiglia si direttamente coinvolta con alcune vicende storiche riguardante Henry, ho voluto dargli risalto. Tutto ciò che è scritto in questo capitolo riguardo il ruolo di William durante l'assedio è frutto della mia fantasia, non essendoci fonti che lo vedano coinvolto.
3. Epiteto con cui è definito Louis VI di Francia, quinto sovrano della dinastia capetingia.





Angolo Autrice: Questo capitolo è stato un vero parto. Ho cercato troppe fonti, molte delle quali mi hanno portato fuori strada o fatto arrivare ad altro e, con la scoperta della figura di William de Grandmesnil, ho perso altro tempo ad indagare, perchè volevo qualcuno di fidato accanto a Henry, un vero amico, se possiamo dire così. William, nella sua vita nebulosa, si è dimostrato il perfetto candidato e spero che, nel proseguire della storia, voi possiate apprezzarlo. Ovviamente, se c'è qualcosa che mi è sfuggito o che può essere considerato sbagliato fatemelo notare, non essendo io una storica.
Detto questo, la foto, da me in parte modificata, è uno scorcio su Mont-Saint-Michel, sulla sua architettura rimasta quasi del tutto invariata nel corso del tempo.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e, al solito, vi invito a lasciare pareri! ;)

Alla prossima,
V.

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Capitolo 9
*** 09. ***


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Domfront, Normandia – Parigi, Île-de-France, 1091






Posò il suo sguardo sul viso della neonata addormentata sul suo grembo e sorrise dolcemente. Quattro mesi erano passati da quando Sybilla era giunta, suo malgrado, nel castello di Domfront, città normanna governata dallo spietato Robert de Belleme, Visconte di Hiémois e, per matrimonio, Conte di Ponthieu; quattro lunghi mesi erano trascorsi, durante i quali era stata solo apparentemente trattata come una donna libera tra i corridoi inospitali di quel castello e aveva dato alla luce il suo secondo figlio, una bambina in salute con folti capelli scuri che contraddistinguevano sia lei che il suo amante.
Henry.
Ogni volta che pensava a lui, Sybilla percepiva una stretta al cuore, un’immensa tristezza che le faceva riempire gli occhi azzurri di lacrime: l’uomo che amava era in esilio, era stato scacciato per sempre dalla Normandia e benché una parte di lei continuasse a sperare di rivederlo, giorno dopo giorno la speranza stava lasciando sempre più il posto all’amara consapevolezza di averlo perso per sempre.
Nessuna lettera era giunta da parte lui, nessuna che Robert, Duca di Normandia, aveva concesso di farle ricevere; tutto ciò che le rimaneva di lui era una ciocca dei suoi capelli contenuta nel medaglione d’oro che lui stesso le aveva donato e che lei portava sempre al collo e i suoi due figli, Robert e Sybilla, unica gioia della sua miserabile vita.

«Milady, state bene?»
Sybilla si riscosse dai suoi pensieri, asciugandosi frettolosamente una solitaria lacrima dispettosa che aveva rigato la sua guancia destra e annuì senza troppa convinzione a quella domanda pronunciata dall’unica persona che aveva conquistato le sue simpatie: Agnes di Ponthieu.
Agnes era una giovane di appena diciannove anni, schiva e timida, con scuri occhi color nocciola e folti capelli ricci dello stesso colore. Non era una bellezza da togliere il fiato, il suo naso a prima vista sembrava troppo pronunciato e mascolino, ma era di animo buono e aveva preso in grande simpatia l’amante di quell’Henry tanto odiato dal suo signore.
Era anche la vittima preferita di suo marito, Lord Belleme, che non mancava di percuoterla in ogni occasione, di disprezzarla e umiliarla non solo nella camera da letto ma anche in pubblico; spesso sulle sue braccia, sul suo collo e anche sul viso tondo portava i segni di quelle percosse, segni violacei che cercava inutilmente di coprire sotto ad un velo me che tutti, seppur ignorandoli, riuscivano a vedere chiaramente.
«Continuate a pensare a lui?» chiese ancora, senza bisogno di specificare chi fosse lui.
«Come potrei fare altrimenti? È l’uomo che amo, il padre dei mei figli e tutto ciò che desidero è sapere che sta bene, la speranza di poterlo un giorno riabbracciare.»
«Se può consolarti, ieri sera ho udito mio marito parlare di lui con i suoi uomini, sbalordito e preoccupato del fatto che, finalmente, Filippo lo abbia accettato alla sua corte parigina. – rivelò Agnes – Il Duca è preoccupato che il sovrano possa foraggiarlo, dargli abbastanza soldi per assoldare dei mercenari e così permettere il suo ritorno in Normandia.»
«Dunque è a Parigi! – esclamò con un sorriso ritrovato — Sono sicura che i suoi metodi di persuasione funzioneranno anche questa volta: Henry sa come accattivarsi il favore della gente, l’amore del popolo e con le giuste promesse…»
La mente di Sybilla pensò a Costanza, la figlia maggiore di Filippo, bellissima principessa francese in età da marito e ai suoi molti pretendenti: nessuno ancora aveva vinto la sua mano, benché molti fossero i papabili tra i nomi nella lista, e con l’arrivo di Henry a corte, principe inglese ambizioso e bello, molto presto anche il suo nome sarebbe finito su quella lista. Forse, pensò, il suo nome era già stato fatto e i preparativi per uno sfarzoso matrimonio reale già iniziati. Il sol pensiero le fece girare vorticosamente la testa.
Non che fosse mai stata tanto sciocca da pensare di poter un giorno sposare Henry, ma il pensiero di un’altra donna, una principessa straniera molto più bella ed elegante di lei, che avrebbe dato all’uomo che amava altrettanti nobili ed eleganti figli di alto lignaggio e legittimi, figli che avrebbero oscurato i suoi, le faceva troppo male.
«Ho udito che domani sera il Duca giungerà da noi e si fermerà per alcuni giorni. – disse Agnes, notando che Sybilla si era nuovamente ammutolita – Le cucine sono in fermento, io stessa sono stata incaricata di supervisionare il banchetto, ogni più piccolo particolare e quindi pensavo che, visto il vostro confinamento è finalmente finito da quasi tre settimane, sarebbe stata un’ottima occasione per il vostro ritorno in società.»
«Un’ottima occasione per indossare il mio vestito migliore e ammaliare il Duca, vorrai dire. – specificò algida Sybilla — Conosco fin troppo bene i suoi sentimenti per me, sentimenti che lui non si preoccupa di nascondere, ma non sono incline a ricambiarli.»
«Testarda! – l’apostrofò Agnes — Credete davvero che Henry tornerà da voi? Siete davvero sicura che il vostro amore basti davanti all’incertezza, a una vita colma di tribolazioni, senza alcun posto da chiamare casa?»
«So bene che Henry non ha più alcun titolo, che è solo il suo sangue ad aprirgli le porte delle corti, ma…»
«Ma cosa? – Agnes si portò le mani ai fianchi — È un uomo affascinante, in età da matrimonio e, che vogliate o meno ammetterlo, prima o poi sarà costretto a sposarsi. Dovrà sposarsi se vuole contare su di una dote, su delle terre, su di un futuro che non implichi vagabondare come un accattone di corte in corte insieme ad un’amante e a dei figli illegittimi».
Agnes sospirò: «Pensa almeno ai tuoi figli… — sussurrò avvicinandosi all’altra donna poco più grande di lei, seduta sulla lignea sedia accanto alla finestra — Robert potrebbe dar loro una vita agiata, sicurezza, un futuro. Dopo tutto, sono sempre i suoi nipoti.»
«Dubito che i legami di sangue contino qualcosa per il Duca. – Sybilla increspò le labbra in un sorriso amaro — Lo farebbe solo per me, per questa malsana ossessione che ha nei miei riguardi, ossessione che, tempo, scomparirà una volta che mi sarò concessa a lui.»
«Questo non potete saperlo».
«No, infatti, - concordò l’amante di Henry — non posso saperlo. Tutto ciò che so, Contessa, è che sono prigioniera mio malgrado in questo castello, presso la corte di un uomo sadico, senza cuore alcuno per chi gli sta intorno o per il suo popolo. So, inoltre, che devo proteggere ad ogni costo i miei figli da coloro che potrebbero arrecare loro danno, così da colpire indirettamente Henry, farlo restare il più lontano possibile dalla Normandia o, ancora, dall’Inghilterra».
«Motivo questo per scegliere con attenzione i vostri alleati. – Agnes si inginocchiò ai suoi pendi e cercò lo sguardo dell’altra — Siete una donna forte, Sybilla, una delle più caparbie che abbia mai conosciuto, ma siete pur sempre una donna e questo significa che, come me, siete alla mercé degli uomini che vi circondano».
«Il vostro è un ammonimento?»
«Un consiglio. — precisò la Contessa — Voi mi siete divenuta molto cara in questi mesi trascorsi qui, siete la mia unica amica e confidente; proprio per questo non voglio vedervi commettere degli errori, prendere delle decisioni che potrebbero nuocervi».
«Non preoccupatevi per me, Agnes. In un modo o in un altro me la caverò, come ho sempre fatto in questi anni trascorsi al fianco di Henry e tutto si risolverà per il meglio. – abbozzò un sorriso — Anche voi mi siete molto cara, soffro nel vedere cosa quel barbaro di vostro marito vi costringe a subire ogni giorno e voglio che sappiate che, qualsiasi cosa dovesse accadere in futuro, potrete sempre contare su di me». 



 
**



La corte francese era la più lussuosa e ricca che Henry avesse mai visto in tutta la sua vita. Era giunto a Parigi da qualche settimane eppure non si era ancora abituato a tutto quello sfarzo, ai cantastorie, ai musicisti, agli arazzi sui muri, all’abbondanza di cibo e alla ricchezza delle vesti dei franchi.
Filippo era stato un sovrano piuttosto indulgente, lo aveva accolto tra i nobili, anche se non erano mancate le proteste dei suoi consiglieri che, per molto tempo, avevano tentato di posticipare il suo arrivo; Henry era un cavallo pazzo, sebbene figlio di sovrani inglesi non aveva alcun titolo, alcuna terra, alcuna dimora a cui fare ritorno. Principe esiliato, come lo conoscevano nei territori della Véxin Français e in quelli circostanti alla capitale, aveva cercato, in quei mesi successivi alla disfatta di Mont Saint Michel, di assicurarsi la simpatia di molti nobili franchi, famiglie da sempre in lotta con la Normandia, che odiavano suo fratello Rufus e, ancor di più, il Duca di Normandia. Nonostante questo, però, i suoi intenti erano falliti, poiché nessuno di loro era interessato ad iniziare una guerra con i loro vicini, un conflitto il cui esito era più che mai incerto.

«Questi franchi sanno come fare il vino, non c’è che dire. — William de Grandmesnil si leccò le labbra e prese un secondo sorso generoso dalla coppa che stringeva tra le mani — Filippo è un sovrano caritatevole, anche se temo che uno di questi giorni presenterà un notevole prezzo da pagare».
William era rimasto con Henry durante tutti i mesi d’esilio, senza mai abbattersi o maledire il giorno in cui aveva incontrato il minore dei figli del Conquistatore; la sua fedeltà era rimasta intatta, tanto che adesso Henry si fidava ciecamente di lui, ma più il tempo passava e più il giovane normanno sapeva che qualcosa andava fatto: l’esilio, in alcuni momenti, era stata una condanna più pesante della morte, rendeva quest’ultima quasi attraente per loro che erano nati per impugnare una spada, per combattere, fare grandi cose degne del nome che portavano.
«Non ho intenzione di rimanere qui a bere vino e farmi riscaldare il letto da delle serve senza alcun valore. – dichiarò con voce bassa Henry, mentre il suo sguardo sempre attento vagava per la grande sala del banchetto — Oramai sono settimane che Filippo ci promette udienza, persino suo figlio ed erede ci evita, ma non potranno evitarci per sempre: ho bisogno di sapere se possiamo contrare su di loro, se posso ancora sperare o se devo arrendermi miseramente a questo mio destino infausto».
Presso la corte di Parigi, Henry aveva saputo che la sua amante, la donna che amava, aveva dato alla luce quasi due mesi prima il loro figlio, una bambina a cui era stato dato il nome di Sybilla. Anche suo figlio stava bene, era trattato con ogni riguardo presso quel castello tramutato in prigione che era Domfront, dimora dei Belleme, nel quale era stato imprigionato per ordine del Duca di Normandia, dell’uomo che bramava sua madre, la donna che apparteneva solo a lui, solo a Henry.
Il sol pensiero di Robert che la guardava con i suoi occhi scuri traboccanti di lussuria, che la toccava con le sue tozze mani, che la spogliava e la baciava gli dava il voltastomaco: per arrivare al letto di Sybilla, suo fratello maggiore avrebbe fatto qualsiasi cosa, persino avvelenarle la mente con notizie non vere, farle false promesse o, peggio, minacciarla.
Sentì il sangue bollire nelle vene, la rabbia montare al centro del suo petto: doveva fare qualcosa, doveva agire non solo per se stesso e per il suo onore, ma anche per coloro che amava e la cui vita era minacciata.
«Non importa ciò che Filippo mi chiederà di fare, quale accordo mi costringerà a siglare: devo agire e devo farlo subito, prima che sia troppo tardi. — Henry guardò William in una muta richiesta si supporto, di indiscussa fedeltà e fiducia — O, meglio, dovrei agire da solo, mandare messaggi a coloro che mi sono ancora fedeli: il Conte di Chester, Lord Redvers, i fratelli Mandeville. Loro mi supporteranno contro tutto e tutti e, forse, se quello che si dice è vero, anche la stessa popolazione di Domfront potrebbe schierarsi dalla mia parte pur di sbarazzarsi del tiranno che li governa».
«Cos’hai in mente, Henry?»
Henry ghignò malizioso, afferrò una coppa di vino appena riempita e, portata alle labbra ancora arricciate, ne bevve il contenuto con avidità: «Non ne sono ancora certo, ma presto… — nei suoi occhi brillò una luce nuova, un fuoco che poche volte William aveva visto bruciare — Presto il nostro esilio terminerà, l’Inverno lascerà il posto alla Primavera e noi torneremo a casa».



 
*

 


Angolo Autrice: Finalmente ritorno ad aggiornare! *sparge coriandoli*
Dovete davvero perdonarmi per questo ritardo imperdonabile, ma è stato un periodo infernale e questa è una storia piena di dettagli, fonti che devono essere lette e consultare, che mi portano via tempo e richiedono massima attensione. Tempo che io, negli ultimi mesi, purtroppo non ho avuto.
Niente timore, però, non ho affatto dimenticato Edith, Henry e Sybilla e le loro avventure. Spero che questo capitolo, seppur di passaggio, vi sia piaciuto e che ci sia ancora qualcuno che segue questa epopea! ^^"

Alla prossima,
V.

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Capitolo 10
*** 10. ***


 
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Avviso: Il capitolo che state per leggere contiene scene delicate, a tratti violente, non adatte ai più giovani.






 
Domfront, Normandia – Parigi, Île-de-France, 1092


 



Il giovane uomo venne trascinato nel cortile del castello di Domfront con una brutalità che poche volte Sybilla aveva visto: mani legate con una corda spessa che gli aveva logorato i polsi, ad una fune legata alla sella dell’imponente stallone da guerra del Conte di Ponthieu, portava in dosso delle vesti un tempo eleganti e aveva il viso scarno, pallido, incorniciato da capelli incrostati di fango appiccicati sulla fronte e sugli zigomi pronunciati.
Si diceva fosse un cavaliere al servizio dell’anziano lord di Courcì, Lord Hugh, il quale da sempre era in lotta con l’avaro de Belesme che, più di una volta, aveva cercato di conquistare con la forza i territori vicini e schiacciare i suoi pari con l’aiuto di subdoli stratagemmi o dello stesso Duca di Normandia, che molto era in debito con lui e che, in quel momento, stava smontando dal suo stallone bianco dopo aver fatto il suo regale ingresso, attraverso il ponte levatoio sospeso su di un largo fossato, nel cortile.
Era stato accusato, come Sybilla scoprì poche ore dopo, quando fu eretta in pubblica piazza un patibolo di solido degno, di aver complottato con il suo padrone, il cui nome aveva rifiutato di pronunciare nonostante le percosse e le lievi torture già subite – gli mancava un orecchio mozzato di netto e un paio di denti erano stati spezzati o fatti saltare con dei guanti di ferro — e per questo motivo era stato messo a morte.

«Chi ti ha mandato? Ve lo chiedo un’ultima volta».
La voce di Robert de Belèsme era algida, incolore, priva di ogni sentimento. La sua era una frase di circostanza più che una misericordiosa, poiché tutti sapevano che non c’era nulla che il subdolo conte amasse di più che vedere i suoi nemici piegati e spezzati.
L’uomo mugugnò e scosse la testa nonostante tutto, nonostante l’occhio che gli era stato cavato poco dopo l’arrivo nella città, nonostante le ferite e tutto il resto: non avrebbe detto nulla, oramai lo avevano capito tutti, quindi non ci fu altro da fare che procedere.
Sybilla osservò senza davvero guardare mentre lo trascinavano sulla forca, azzardò un’occhiata in direzione del Duca di Normandia, verso il Conte e, infine, verso Agnes, che nascondeva sotto un candido velo gli ultimi aloni giallastri delle percosse che suo marito le aveva inflitto giorni prima.
Tutto ciò sembrava l’inferno, si ritrovò a pensare con timore, un incubo dal quale nessuno l’avrebbe svegliata: il suo futuro era in bilico, avrebbe potuto ritrovarsi al posto di quel giovane da un giorno all’altro, senza un motivo preciso.
Lord Robert era pazzo, anche se non abbastanza pazzo da andar contro al suo signore, al Duca che stravedeva per lei. Ma per quanto ancora?
Mentre il nodo scorsoio veniva fatto passare attorno al lungo collo del condannato, nella mente di Sybilla riecheggiarono gli avvertimenti di Agnes: «Siete una donna forte, ma pur sempre una donna».
Una donna, una lady in esilio, dimenticata dalla sua famiglia e dall’uomo che amava, che poteva contare solo su se stessa, sulle sue arti, sul suo coraggio e sul suo spirito di sopravvivenza: non avrebbe permesso a nessuno di torcere un capello ai suoi figli, di metterli in pericolo; avrebbe fatto qualsiasi cosa per tenerli al sicuro, persino concedersi al duca di Normandia, diventare la sua amante.
La botola della forca venne aperta con un rumore sordo, muovendo l’aria fredda del tardo pomeriggio e tutto ciò che per minuti riecheggiò nel cortile fu il rumore di un collo che si spezzava di netto e quello di molti respiri che venivano trattenuti.

 


**



Il banchetto che fu organizzato poche ore dopo la sentenza di morte era fastoso, ricco di pietanze succulente, cucinate da cuochi esperti; sulla tavola, nei pregiati calici, veniva versato vino dal colore scarlatto, di un colore talmente intenso che ricordò a Sybilla il sangue incrostato sul viso e sulla tunica stracciata del ragazzo giustiziato quel pomeriggio.
Un conato di vomito le fece contrarre lo stomaco, la sua già poca appetenza svanì e persino il vino le sembrò imbevibile: non che quella fosse stata la prima messa a morte che avesse mai visto, suo padre aveva pensato a metterla davanti alla morte all’età di dodici anni quando, insieme ai suoi fratelli, fu convocata nel cortile della dimora in cui era nata per assistere alla decapitazione di un ladro e un omicida.
Un uomo che meritava la morte, non un giovane innocente.
Neanche quell’uomo, seppur crudele e con mani lorde del sangue di donne e bambini, aveva subito quello che aveva subito quel giovane, delle torture tanto atroci e barbariche da far inorridire anche un uomo nel pieno degli anni.
«Spero voi abbiate pensato alle ultime parole che ci siamo scambiati. — sussurrò Robert di Normandia al suo orecchio, attraverso il velo turchese appuntato tra i suoi capelli raccolti — Sono oramai passati mesi da quel giorno, voi avete avuto un secondo figlio e io sono stato impegnato in urgenti e delicate questioni, ma non per questo non ho pensato di tanto in tanto a voi e alla risposta che mi avreste dato».
«Preferirei non parlarne qui». disse asciutta Sybilla, continuando a guardare verso il fondo della sala grande, i ricami del pregato arazzo di cui ignorava la provenienza.
«Capisco. — Robert accennò un sorriso — Perché non ci ritiriamo nelle mie stanze, così da avere l’intimità che necessitate».
Le tese una mano, un braccio che, suo malgrado, non avrebbe potuto rifiutare e, senza troppa fretta, abbandonò il banchetto al fianco dell’imponente signore di Normandia, catturando lo sguardo di ogni commensale. 


Le stanze di Robert erano riccamente addobbate, arredate con gusto: i mobili erano di ciliegio scuro, intagliati dai migliori artigiani della Normandia e sul maestoso letto a baldacchino posto al centro svettavano pesanti tendaggi color porpora, coperte di lino e morbide pellicce appartenuti a fieri animali.
Un imponente camino fatto di pietra, al cui interno bruciava da ore della legna, riscaldava le pareti in pietra nell’angolo che volgeva a Ovest, illuminando la stanza con fiammelle scarlatte, in un gioco di vividi arancioni e gialli. Altre candele bruciavano qua e là, senza però annullare completamente la penombra che ammantava gli angoli della stanza, alcuni punti vicino alla finestra da cui si potevano vedere i campi e il verdeggiante bosco poco lontano.
«Mia bellissima Sybilla». Robert posò entrambe le mani sulle spalle della giovane donna, facendola lentamente girare.
Benché non fosse molto alto, il primogenito del Conquistatore aveva un portamento fiero, dei vivaci occhi chiari che avevano ammirato molteplici angoli di mondo, visi di fanciulle che aveva bramato e avuto senza troppa fatica; i suoi capelli, leggermente ingrigiti all’altezza delle tempie, erano ricci come quelli di Henry, ma di alcuni toni più chiari; le sue mani, ampie e callose, erano molto più ruvide del minore, molto meno delicate.
«Ditemi, siete contenta? Avete tutto ciò che vi occorre per voi e per i vostri figli?»
«Come posso esserlo quando sono un ostaggio condannato a vagare come un fantasma per questi freddi corridoi, senza mai poter lasciare questo castello, la corte del sadico lord che lo abita?»
«Robert ha dei bruschi modi ed è poco incline al perdono, questo lo concedo, ma è anche un leale suddito, uno dei migliori che ho e mi fido ciecamente di lui. – disse Robert, assottigliando le labbra — Inoltre, i suoi ordini arrivano direttamente da me, e sebbene non ritengo che sia ancora giunto il tempo di farvi lasciare questo castello, sono anche certo che nessun male mai capiterà a voi o ai vostri preziosi figli».
«Non fino a quando non farò qualcosa di stupido o mi rifiuterò di giacere con voi».
Le labbra di Robert si incresparono in un ghigno furbo: «Siete sempre stata perspicace, Sybilla, alle volte credo che siate anche più intelligente del mio sciocco fratello. Io vi desidero, farei qualsiasi cosa pur di avervi, ma di certo non ho alcun desiderio nel trascinavi di forza su quel letto alle vostre spalle, denudarvi delle vostre belle vesti e prendervi con la forza. Non sono un barbaro».
«Alle volte, spesso, mi chiedo se la vostra bramosia non derivi solo ed esclusivamente dal fatto che io sia l’amante di vostro fratello. — confessò senza timore — Se, tramite me, non state cercando di dimostrare qualcosa a Henry, agli altri, a voi stesso».
«In questo caso non dovete temere: mi stancherò di voi non appena vi avrò avuta».

Sybilla indietreggiò fino ai piedi del letto a baldacchino, i suoi passi specchi di quelli di Robert che, senza perdere altro tempo, le tolse il velo dal capo e iniziò a slacciare i lacci del suo abito, delle sue sopratunica riccamente decorata e dalla quale si poteva intravedere, nella parte superiore, la bianca tunica.
Percependo i suoi capelli scuri ricadere in onde sulle sue spalle, Sybilla chiuse gli occhi e contrasse il viso, preparandosi al momento in cui sarebbe rimasta con solo la tunica da notte, la tunica attraverso la quale Robert avrebbe potuto ammirare ogni suo centimetro di pelle, davanti all’uomo che era la causa della sua infelicità.
Le mani del normanno erano fredde, erano ruvide a contatto con la pelle liscia e lattiginosa di lei, bramose mentre si spostavano sul suo corpo, la denudavano pezzo per pezzo: Sybilla trattenne il fiato quando, con un gesto brusco, la sua tunica venne abbassata e lei rimase totalmente nuda davanti a lui, all’uomo che adesso la stava osservando con lussuria, impaziente di mettere le mani sui suoi fianchi morbidi, sui seni divenuti abbondanti dopo due parti, sul suo inguine coperto da una morbida peluria scura.
Un groppo in gola la fece sussultare quando, con una dolcezza inaspettata, Robert le prese il viso tra le sue mani, costringendola ad alzare lo sguardo fino a quel momento tenuto basso: le labbra screpolate dell’uomo si schiantarono sulle sue con la forza di una tempesta, la sua lingua si insinuò nella sua bocca come il gelido vento tra le fessure di una porta e le sue braccia la strinsero forte, come a volerla marchiare a fuoco.
Niente di tutto ciò che stava accadendo era paragonabile e alle emozioni che provava quando stava con Henry, neanche la carezza più lieve alleggeriva il senso di colpa, il desiderio di piangere, urlare, ribellarsi.
Si impose di non pensare, di non pensare al presente, a ciò che stava accadendo, ma ai giorni che erano stati, alle lunghe notti trascorse con Henry, alle albe che avevano assistito al loro amore, testimoni della passione che da sempre contraddistingueva entrambi; pensò ai suoi figli, che dormivano tranquilli nell’ala opposta del castello, a come quel sacrificio li avrebbe tenuti al sicuro.
Sussultò e strinse le labbra fino quasi a farsele sanguinare quando Robert iniziò a baciarla ovunque, a mordere i suoi seni, i suoi fianchi, il suo collo; era vorace, egoista, non aveva considerazione di lei, di ciò che provava, dei suoi punti più sensibili – Henry avrebbe saputo come baciarla, l’avrebbe fatta ridere sfiorando con la punta del naso il suo collo, rabbrividire baciandola lascivamente dietro l’orecchio sinistro.
Henry. Henry. Henry. Solo e sempre Henry.

«No. No, io... — mugugnò, scuotendo il capo e i riccioli neri — Henry…» sussurrò in un singhiozzo, percependo le lacrime bagnarle il viso.
In quel momento tutto si arrestò: Robert la fissò con astio, con odio, avendo udito chiaramente quella parola, quel singolo nome che, più di ogni altro, era bandito.
Nei suoi occhi bruciò odio, ripugnanza, un disgusto così profondo da far scaturire in lui una reazione bestiale: una mano si chiuse attorno al collo di Sybilla, stringendo forte, sempre più forte, così tanto da farle mancare il respiro e temere il peggio.
«Meretrice…» sussurrò a pochi centimetro dal suo viso paonazzo, continuando a stringere.
«Avresti potuto avere me, il duca di Normandia; avresti potuto avere un futuro roseo al mio fianco, così come avresti potuto dare ai tuoi figli un titolo nobiliare, un matrimonio vantaggioso che io stesso avrei combinato. E invece…»
La scaraventò a terra, violentemente, poi la prese per i capelli e la trascinò per tutta la stanza, ignorando le sue proteste, le sue urla, le sue suppliche: il desiderio era scemato del tutto, ogni sua pulsione per lei era morta, sembrava un ricordo lontano. La sua pazienza  e la sua gentilezza si erano esaurite, ogni suo buon proposito nei confronti della meretrice amante di suo fratello si era estinto come una candela oramai consumata.
«Sparite dalla mia vista, non provate a farvi rivedere oppure la prossima testa che penzolerà dalla forca di questo castello sarà la vostra.»
Continuandola a trascinare per i capelli, Robert aprì la pesante porta di legno, e, incurante della nudità della dama, la spinse fuori dalla sua stanza, sotto gli occhi impassibili di due guardie poco lontane.
«Vi prego, Milord, pietà! – esclamò in lacrime — Concedetemi almeno una tunica».
«Pietà, dite? – Robert rise, poi afferrò la tunica di Sybilla, lasciata poco lontana dalla porta e, dopo averla strappata in più punti, la ridiede divertito alla legittima proprietaria — Ecco la mia pietà, Milady, la mia misericordia».


La pesante porta si richiuse con un tonfo davanti a lei, che fu costretta a ritornare quasi completamente nuda verso le sue stanze, sottoporsi allo sguardo spezzante, divertito e irrisorio di tutti coloro che incontrava nella penombra delle notte e che assistevano impassibili a quel misero spettacolo.
Sybilla non pianse mai durante il tragitto, ferita nell’orgoglio ma non piegata, senza sapere che altri avevano assistito a quell’umiliazione, persone che presto si sarebbero ridestate dal loro torpore forzato, avrebbero fatto sentire la propria voce e cessato quel dominio fatto di violenza e ingiustizie.


 


**





Venti giorni.
Tanto c’era voluto all’esercito di Robert e Rufus per sconfiggere il suo, mettere in ginocchio ogni singolo uomo rinchiuso dietro la fortezza tramutata in prigione di Mont-Saint-Michel, per piegare il suo animo e avere la sua incondizionata resa.
Sebbene i suoi fratelli maggiori avevano concesso, a lui come ai suoi pochi uomini rimasti fedeli in quei giorni bui, un sicuro lasciapassare verso le terre sotto il dominio dei Capetingi, verso la Véxin Français, lasciandogli almeno l’onore delle armi, un briciolo di amor proprio, ancora adesso, a distanza di quasi sei mesi, la sconfitta bruciava al centro del suo petto come una ferita ancora aperta e sanguinante.
Anche quella notte trascorsa alla corte di Filippo, come molte delle altre passate, non aveva trovato ristoro, un sonno profondo e tranquillo, capace di alleviare tanto il suo corpo quanto la sua mente.
Filippo continuava ad ignorarlo, così come lo ignoravano i nobili e, suo malgrado, Henry non poteva dar loro torto: con solo una manciata di cavalieri, un clerico e tre scudieri1 al suo seguito, quale signore lo avrebbe mai preso seriamente? Nessuno.
Inoltre, nonostante le richieste di soldi per assoldare un modesto esercito, a cui si sarebbero poi aggiunti gli uomini che lo attendevano fedeli in Normandia, nessuno avrebbe mai acconsentito a tale foraggio senza una reale garanzia di vittoria.
Una vittoria contro chi, poi e per fare cosa?
Se solo avesse avuto il supporto di qualche nobile, la certezza di poter conquistare con facilità qualche castello, magari con l’aiuto da parte degli stessi abitanti…

«Milord?» uno dei suoi scudieri aprì con timore la porta. Henry non si era neanche accorto che qualcuno aveva bussato più volte, chiedendo il permesso di entrare e fu sorpreso quando si vide poco distante il volto equino del giovane.
«Cosa vuoi?» chiese, seccato.
«Un uomo chiede di parlare con voi. — rispose — Sostiene di essere un amico, di avere notizie preziose per voi, di essere giunto da lontano solo per vedervi».
«Lontano, dice? E dimmi, da dove afferma di venire costui?»
«Da Domfront, Milord. Afferma di venire da Domfront».


 


*
 


1. Nel suo "The Ecclesiastical History of England and Normandy" Orderico Vitale scrive che il seguito di Henry all'epoca dell'esilio era composto di tali persone.

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Capitolo 11
*** 11. ***



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Henry osservò con un cipiglio corrucciato l’uomo che entrò con aria guardinga nelle sue stanze private: un pesante cappuccio marrone copriva il suo viso e dal lembo inferiore mantello consunto dalle tinte scure continuavano a picchiettare sul pavimento ligneo piccole goccioline d’acqua che, una dopo l’altra, stavano formando un’esigua pozza d’acqua piovana.
«Vostra Grazia, — lo apostrofò inginocchiandosi al suo cospetto e tirando indietro il cappuccio, rivelando una chioma scarmigliata e scura, un viso stanco e degli occhi color cioccolato contornati da occhiaie profonde — perdonate l’intrusione a quest’ora tarda. Il mio nome è Robert Harecher1 e giungo qui dalla mia città natia, Domfront.»
Il giovane uomo che Henry si trovò davanti aveva qualche anno più di lui, parlava con sicurezza, eppure i motivi del suo arrivo a Parigi erano ancora sconosciuti e questo fu un motivo sufficiente per il giovane figlio del Conquistatore per rimanere guardingo: dopo tutto, si disse mentre se ne stava seduto e stringeva con entrambi le mani i braccioli lignei dello scranno dalle venature scure, quell’Harecher avrebbe potuto essere una spia al servizio dello scaltro de Bellême o, ancora, di suo fratello Robert.
«Quali notizie giungono attraverso voi dalla città normanna? – chiese finalmente – Il mio nobile fratello ha per caso deciso di dimostrare pietà e riammettermi nei suoi regni?»
Ci fu un attimo di silenzio, seguito da un timida negazione: «Mi rincresce, Vostra Grazia, ma nessun perdono giunge con me da parte di vostro fratello. In vero, nessuno dei miei padroni sa che sono qui, poiché è la mia famiglia e il mio popolo a chiedere il vostro aiuto per sconfiggere i soprusi della famiglia de Bellême.»
Henry increspò leggermente la labbra sottili contornate da una barba ben curate, cercando di non ridere amaramente a quella richiesta: «Milord, se per caso non lo aveste notato, le mie uniche compagnie a momento sono quelle di un pugno di uomini senza troppa esperienza e di un prelato abbastanza folle da seguirmi in esilio per occuparsi della mia anima immortale. – rivelò aspramente – Nessuno in questo paese o in Normandia è abbastanza pazzo da concedermi un esercito, persino Filippo continua a tergiversare, ignorando le continue richieste di udienza, dimentico che io sia suo ospite. Ditemi, dunque, come potrei mai sconfiggere il vostro signore, uno degli uomini più potenti e scaltri al servizio di mio fratello il duca?»
«Vostra Grazia dimentica che molti sono quelli scontenti da vostro fratello, che tanti altri ancora non esiterebbero a darvi il loro aiuto per riconquistare ciò che vi è stato negato. – Robert di Domfront parlò con rispetto, il capo basso e lo sguardo fisso ai suoi piedi — Inoltre, non dimenticate coloro che odiano il mio signore: i Giroie, gli Hauterive, persino gli Alençon; tutti loro sono stati umiliati, hanno visto molti della loro famiglia essere uccisi brutalmente o mutilati, covato odio e vendetta per molti anni.»
Aveva sentito dei modi barbari utilizzati da Lord de Bellême per tenere a bada i suoi vicini e nemici: lui stesso non ne faceva segreto, anzi si pavoneggiava ogni volta che ne aveva occasione, sbeffeggiando i suoi nemici costretti alla sottomissione e ridendo delle sciagure a loro inflitte. Henry aveva ascoltato più volte quelle storie raccontate dal diretto interessato durante i banchetti a cui aveva presieduto per volere di suo fratello maggiore, udito quelle macabre vanterie che lo avevano nauseato fino a perdere l’appetito.
Voci correvano sotto forma di sussurri da mesi, chiacchiere passate di bocca in bocca che raccontavano di come i cittadini di Domfront fossero esasperati dal loro lord e meditassero una qualche sommossa per liberarsi dal suo giogo.
Le voci, però, erano sempre rimaste tali, o almeno fino a quel momento. Un momento che avrebbe potuto essere prezioso per Henry e per il suo futuro, un momento che avrebbe dovuto sfruttare con scaltrezza, senza svelare troppo le sue carte.
«Sarà anche come sostenete voi, ma rammento che Domfront è una città con forti cinte murarie, circondata da un fossato molto profondo e non cadrà prima di molti mesi di assedio: per allora, Bellême avrà già chiamato i rinforzi, l’esercito di mio fratello.»
Henry prese un sorso di vino dalla coppa precedentemente riempita da uno dei suoi paggi e proseguì: «Inoltre, tra quelle mura ci sono le persone che più amo al mondo, i miei figli e la loro madre e non intendo mettere in pericolo la loro vita.»
«Milord… — il giovane uomo deglutì a fatica, la gola improvvisamente secca e le parole difficili da trovare — Ciò che vi sto per rivelare non recherà alcun piacere alla mia persona o alla vostra; per questo motivo, vi supplico umilmente di cercare di contenere la vostra collera, per quanto questa sarà giusta e più che condivisibile.»
Henry si mosse improvvisamente scomodo sulla sua seduta, tanto impaziente quanto terrorizzato nell’udire le parole del giovane uomo al suo cospetto; una strana sensazione iniziò a strisciare subdola come un serpente dentro di lui, nel suo sangue, attanagliandolo al centro del petto.
Robert Harecher iniziò il suo racconto partendo dalla visita del Duca di Normandia presso la sua città natia: narrò del sontuoso banchetto in suo onore, dei giorni che aveva trascorso tra le mura del castello; narrò degli sguardi lussuriosi che, senza vergogna alcuna, aveva riservato esclusivamente a Lady Sybilla, alla gentile dama solo in apparenza libera di agire secondo la propria volontà. Infine, con capo basso e mani intrecciate che si torturavano per la vergogna di tale compito, raccontò della notte in cui il Duca aveva fatto chiamare Sybilla, ordinandole di raggiungere le sue stanze e passare la notte con lui con promesse di un futuro migliore, libero dal giogo della prigionia, per lei e i suoi due figli. Di tale notte, non aveva nascosto alcun dettaglio, nessun riprovevole avvenimento riguardante il dopo che si era consumato tra i freddi e semibui corridoi del castello.
«È stata mia moglie, che serve nel castello e si prende cura, tra le altre, anche di Lady Sybilla a raccontarmi l’accaduto, lo stato in cui l’ha trovata quella sera stessa e poi ancora la mattina dopo; è stata lei a raccontarmi del suo viso gonfio all’altezza di un occhio e le sue vesti da notte…»
«Basta!» Henry alzò una mano a mezz’aria, esclamando quell’ordine che venne udito più come una supplica.
«Un giorno, — proseguì in un sussurro rivolto più a se stesso che al normanno — mi prenderò la testa di mio fratello, così che paghi per ciò che ha fatto alla donna che amo. Prima, però, mi prenderò il suo regno pezzo dopo pezzo, mettendo in ginocchio i suoi alfieri, umiliando tutti loro.»
«La città di Dumfront sarà al vostro fianco, Vostra Grazia, aprirà le sue porte al vostro arrivo e vi osannerà come suo salvatore.»
Henry soppesò le parole del normanno, le quali parlavano di solidarietà e alleanza da parte di Dumfront e, con un po’ di fortuna, anche delle fortezze vicine. Dovevano solo aspettare il momento giusto, attaccare in un momento poco sospetto, quando la guardia sarebbe stata bassa: questo e l’aiuto di coloro che ancora gli erano fedeli — il Conte di Chester, Lord Redvers, i fratelli Mandeville — e di quelli che avevano subito soprusi da Bêlleme, sarebbe bastato a prendersi il castello e tornare finalmente dalla donna che amava. 

«Svegliate William de Grandmesnil e ordinategli di venire subito da me. Ditegli che Henry ha una missione da dargli, una missione che solo lui può compiere.»


 


**



Alla fine, Filippo di Francia aveva garantito cinquanta uomini, cinquanta mercenari ben addestrati in cerca di gloria e ricchezze.
Cinquanta uomini non era ciò che Henry aveva sperato — ne aveva chiesti cento — ma con l’aiuto dei suoi fedeli e della popolazione di Dumfront sarebbero stati abbastanza per prendere la città e i domini vicini.
Erano passati quasi due mesi da quella notte in cui Robert Harecher gli aveva fatto visita, l’inverno2 era quasi al suo termine e tutto era pronto per la conquista: William aveva cavalcato, non visto, verso i castelli dei nobili da sempre alleati del figlio minore del Conquistatore, portato preziose e segreti messaggi che parlavano di un ritorno in Normandia, della presa di uno castello e di una popolazione scontente che avrebbe aiutato tutti loro.
A quei messaggi, ognuno dei nobili signori aveva risposto con il proprio supporto, chiamano a raccolta i vessilli, mettendo in marcia un elaborato e astuto piano che avrebbe messo insieme quasi  trecento uomini.
Pazienti, attesero il momento propizio per attaccare, forti nella loro consapevolezza che lord de Bêlleme si sarebbe trovato, insieme ad un manipolo di uomini a lui fedeli, lontano dalla fortezza, impegnato a reprimere delle sommosse a Ovest, proteste che Henry stesso aveva fomentato, anche grazie all’aiuto dei lord di quelle zone.
La presa del castello e della città di Dumfront avvenne poco prima dell’alba, con l’aiuto delle ultime tenebre e degli uomini che, comandati da Robert Harecher, aprirono i cancelli e permisero a Henry di fare il suo ingresso al galoppo e mettere in ginocchio nel giro di due ore i restanti uomini d’arme rimasti a sorvegliare le cinte murarie.

«La città è nostra!» ruggì il figlio minore del Conquistatore, levando nell’aria gelida dell’alba la sua spada resa purpurea dal sangue di quei pochi che non si erano piegati e che, coraggiosi, avevano combattuto fino alla fine.
Altre grida di vittoria si levarono attorno a lui, riempiendo il cortile adiacente al castello, le strade dove la gente, troppo a lungo repressa, stava uscendo dalle umili dimore per acclamare e accogliere il loro nuovo signore, il nobile Henry che aveva librato tutti loro dal gioco della famiglia Bêlleme.
«Ben fatto, Henry. Una grande vittoria! — esclamò entusiasta William, abbracciando quello che era diventato come un fratello — Devo confessarlo, inizialmente ho pensato che il vostro piano fosse folle, una trappola che vostro fratello aveva preparato per voi, ma adesso che tutto è finito non posso fare altro che compiacermi e gioire con voi per questa schiacciante conquista.»
«Grazie, amico mio. – Henry accennò un sorriso — Non dimenticherò mai ciò che avete fatto per me, l’essermi stato vicino anche nei momenti più bui e quando sarà il momento prometto che vi ripagherò di tutto quanto.»
«So che lo farete. — disse l’altro, prima di notare che lo sguardo dell’amico si era spostato verso una delle finestre del castello alle sue spalle — Andate da lei, Henry. Andate dalla vostra donna e dai vostri figli.»
 

Sybilla stringeva ancora il rosario tra le mani quando Henry entrò con la stessa forza di una tempesta di neve nelle sue stanze.
Con il fiato corto, il giovane uomo si fermò sullo stipite della porta, facendo vagare gli occhi scuri attraverso la sala, rilassando le ampie spalle e ammorbidendo lo sguardo solo quando notò la figura in penombra.
«Henry…»
Un nodo le stringeva la gola, quel momento le parve come uno dei tanti sogni che l’avevano accompagnata nel corso di quei mesi trascorsi nel castello; quando la distanza che gli separava venne annullata e, finalmente, Sybilla sfiorò con l’esile mano gli scuri ricci di Henry, entrambi realizzarono che niente di tutto ciò che stava accadendo era frutto della propria mente. Henry era là, davanti a lei, proprio come Sybilla era davanti a lui.
«Vi avevo promesso che sarei tornato, — le disse semplicemente, sfiorando con le dita libere dal guanto un piccolo ciuffo di capelli ribelli che ricadeva proprio al centro del suo viso ovale — e come ben sapete mantengo sempre le mie promesse.»
Sybilla si concesse un breve sorriso, chiedendo subito dopo: «Come avete fatto a prendere il castello? Come avete fatto a tornare in Normandia?»
«Tutto vi verrà spiegato a suo tempo, di questo non dovete dubitarne. — rispose, mentre un braccio andava a cingerle la vita — Adesso, baciatemi.»
Sybilla non se lo fece ripetere una seconda volta e, intrecciate le braccia dietro la sua nuca e in punta di piedi, lo baciò con trasporto e impazienza.

 


**




«Appena uscirò da questa stanza voglio vedere i nostri figli. Conoscere e prendere in braccio la nostra splendida figlia.»
Henry se ne stava a mollo in una vasca lignea, il corpo stanco immerso fino al mento nell’acqua calda che Sybilla aveva fatto preparare poco dopo il suo arrivo.
I due amanti avevano passato minuti lunghissimi a baciarsi, stringersi, piangere persino, e benché il loro desiderio di stare nuovamente insieme non solo nello spirito ma nella carne fosse forte, entrambi avevano ritenuto più opportuno chiamare qualcuno che aiutasse Henry a togliere la pesante armatura e preparasse un bagno caldo.
«Vostro figlio sarà contento di rivedervi, per settimane intere ha chiesto di voi.  Siete mancato a tutti noi, mio amato, ma credo che Rod3 abbia sentito particolarmente la vostra assenza.»
«Non sono stato presente per il suo compleanno e me ne rammarico. – ricordò Henry, rilassandosi sotto il tocco leggero di Sybilla, che con devozione gli stava lavando la schiena e le spalle doloranti — Mi farò perdonare quanto prima e questo vale anche per voi: avrei dovuto esservi vicino nel momento del parto e di questo vi chiedo perdono. Non avrei mai e poi mai dovuto abbandonarvi, ma ho fatto ciò che ho fatto…»
«Abbiamo deciso del nostro futuro insieme, mio adorato; nessuno vi biasima per la decisione presa, tantomeno io. Sono stati mesi difficili per entrambi, ma sappiate che qui dentro sono stata trattata bene, che la Contessa si è rivelata una buona amica, così come altre persone qui dentro.»
Lo sguardo di Henry si adombrò, nella sua mente ritornarono le parole di Harecher, il tremendo racconto della notte in cui…
Henry rabbrividì al sol ricordo. La rabbia montò nuovamente dentro di lui.
«So cosa mio fratello vi ha fatto. – confessò, tenendo lo sguardo fisso davanti a lui, sulla parete coperta da un arazzo riccamente decorato — So cosa è accaduto e per questo non posso che sentirmi responsabile.»
Sybilla sussultò, presa alla sprovvista, e abbassò lo sguardo senza dire nulla.
«Non ne parleremo più se è questo che volete, — riprese Henry — ma voglio che sappiate che un giorno mio fratello pagherà per ciò che ha fatto.»
Allungò una mano e strinse forte quella più piccola di lei, in un gesto che valeva più di mille parole: «Sì, pagherà caro il prezzo: inizierò con la sua amata Normandia, conquistandola pezzo dopo pezzo e finirò reclamando la sua stessa vita. Un giorno, non importa se mi occorreranno anni o decenni, Robert si inginocchierà al mio cospetto, in catene e umiliato, e in quel momento saprò che giustizia è stata fatta.»


 

*




1. Nel suo libro, The Ecclesiastical History of England and Normandy, Orderico Vitale scrive che colui che si recò a Parigi da Henry per dargli il sostegno della città di Dumfront si chiamava Robert Harecher.
2. Nello stesso libro, viene detto che la presa della città avvene in inverno.
3. Robert di Caen, poi Conte di Gloucester, viene anche chiamato Rodberto. Per differenziarlo con più facilità dagli altri Robert, come ad esempio di duca di Normandia, lo chiamerò quasi sempre con il diminutivo di Rod. 





Angolo Autrice: Salve, gente! Avrei voluto pubblicare prima questo capitolo, ma per una cosa o per un'altra alla fine sono riuscita a completarlo e rivederlo solo oggi.
Henry e Sybilla si sono, finalmente, uniti e questo capitolo della storia è finalmente chiuso. Ciò che viene descritto in questo capitolo, inoltre, è quasi tutto - ad esclusione del confronto iniziale tra Henry e Robert e il modo in cui avviene la presa della città, ovvero grazie all'aiuto dei cittadini - frutto della mia fantasia, poiché di questi avvenimenti si sa poco e nulla.
Dal prossimo, e per molti successivi, (ri)vedremo Edith e affronterò gli anni precedenti al matrimonio con Henry.
Detto questo, spero che la storia continui a piacervi e ringrazio chi vorrà lasciare una recensione! ;)

Alla prossima,
V.

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Capitolo 12
*** 12. ***



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Wilton Abbey, Wiltshire — 1093




 

La foggia azzurra del suo vestito era la più pregiata ed elegante che Edith avesse mai indossato. I ricami color dell'oro più splendente erano stati minuziosamente cuciti sulle maniche e sull’orlo superiore del vestito, dal quale fuoriusciva un piccolo lembo della tunica di lino, andando a formare intrecci che ricordavano elementi naturali.
Sua madre le aveva mandato in dono quello stesso vestito due mesi prima, in occasione di quello che sarebbe stato l’avvenimento più importante della sua vita da tredicenne: l’annuncio ufficiale del suo fidanzamento con Alan Rufus, Lord di Richmond, un nobile inglese di origini normanne molto più grande di lei — Edith non sapeva quanti anni avesse, ma voci sostenevano che il lord dalla rossa chioma fosse più vicino ai trenta che ai venti.
Erano stati i suoi nobili genitori a sceglierlo tra i molti partiti che avevano richiesto la sua mano, ritenendolo degno di un tale onore, di sposare una figlia di Scozia e ricavare da una così ambita unione onori e molteplici ricchezze: Edith, dal canto suo, che da sempre conosceva il suo valore e il suo rango, sapeva fin troppo bene che un unione del genere non avrebbe mai e poi mai portato con sé affetto o amore.
L’amore non era un sentimento per quelli come loro: sebbene tra i suoi genitori ci fosse affetto, forse un tenero sentimento d’amore, questo non era stato ciò che aveva condotto entrambi ad intraprendere la vita del matrimonio.
Come sua madre molti anni prima, anche lei avrebbe fatto il suo dovere per il suo popolo, adempiuto ai suoi doveri nella speranza che, un giorno non troppo lontano, il lord di Richmond diventasse qualcosa di più di un consorte e del padre dei suoi figli.

Alla sue spalle, le campane iniziarono a suonare, annunciando l’arrivo di una dozzina di uomini a cavallo, di Alan Rufus e del suo seguito.
Edith prese un respiro profondo, cercando lo sguardo di sua sorella Mary e di quello di colei che era diventata un’amica e confidente nonostante i quindici anni che le separavano: Gunhild, figlia Harold Godwinson, Conte del Wessex e ultimo sovrano anglo-sassone perito durante la battaglia di Hastings, quando lei era ancora in fasce, il che la rendeva a tutti gli effetti una principessa della corona.
Godwinson era stato preferito a suo zio Edgar, fratello di sua madre, poiché quest’ultimo considerato troppo giovane ed inesperto — all’epoca aveva quindici anni, aveva, come sua madre e tutta la loro famiglia, trascorso la maggior parte della sua vita lontano dall’Inghilterra e per queste ragioni fu ritenuto inadatto a regnare in un momento così delicato ed incerto, in cui la minaccia normanna era sempre più incalzante.

«Non date a vedere il vostro nervosismo, Principessa. — Gunhild, in piedi alla sua destra e con in dosso l’abito grigio chiaro riservato alle novizie, le strinse una mano e cercò di tranquillizzarla — Tutto andrò bene, vedrete.»
Edith annuì: non avrebbe permesso ai suoi dubbi e alle sue paure di prevalere sulla ragione e sulla sua determinazione; non avrebbe mostrato alcuna insicurezza, si sarebbe mostrata per quello che era, una fanciulla elegante e regale.
In quegli anni trascorsi a Wilton tutto era andato per il meglio, Edith finalmente aveva ritrovato la gioia di vivere, di essere se stessa, di non camminare con la costante paura della Badessa e delle sue punizioni. Finalmente, poteva indossare abiti colorati, ridere e scherzare senza timore alcuno, essere una nobile e non una monaca.

Non avrete le mie figlie, Milady, non vi permetterò di trasformarle in monache dal cuore di pietra come voi. Lasceranno questo posto entro due giorni, insieme a me e ai suoi fratelli. Dio piacendo, non le rivedrete mai più. —


Ricordava ancora le parole cariche di rabbia di suo padre quando, precisamente due anni prima, si era recato per la prima volta in quasi cinque anni al convento insieme a Duncan ed Edward, i suoi due fratelli maggiori; ricordava chiaramente il suo sdegno nel vederle indossare il soggolo e il vestito monacale, il dolore che aveva provato quando, in preda alla furia, il suo nobile signore le aveva strappato dal capo il velo, prendendo insieme ad esso per sbaglio anche una ciocca di capelli ramati che, per poco, non le si spezzarono alla radice.
Voi siete principesse scozzesi, — aveva detto loro con furia — non delle fanciulla di qualche casata minore decaduta mandate dalla propria famiglia a prendere i voti.

Due giorni dopo, come promesso da Malcolm, Edith e Mary avevano lasciato il convento su di una lettiga trainata da due cavalli dal bruno manto. Nessuna delle due si era mai voltata indietro, aveva rimpianto, nei due anni successivi, quel posto neanche per un istante.

Lo stallone da guerra nitrì e si fermò a pochi passi dai monaci e dalle fanciulle radunatisi all’esterno del convento per dar loro il benvenuto.
Polvere terrosa si alzò tutt’intorno a loro, rendendo difficile distinguere i tratti dell’uomo che, a passo sicuro, si stava avvicinando sempre di più; Edith assottigliò lo sguardo, cercando di non starnutire a causa della polvere, e strinse forte le mani posate elegantemente sul suo grembo.
Alan Rufus era molto più alto di lei, il suo corpo era possente, con ampie spalle larghe e braccia abituate a brandire spade e armi da combattimento; il suo viso era lungo, i suoi tratti affilati e tra i suoi capelli rossi spiccavano ciuffi argentei all’altezza delle tempie.
I suoi occhi azzurri come il cielo pallido al mattino incontrarono subito quelli di Edith, la sua bocca si distese in un sorriso, sebbene sforzato e privo di qualsiasi emozione.

«Principessa. — Alan fece un profondo inchino e, come richiesto dal costume, sfiorò appena il dorso della sua piccola mano con le labbra — È un onore incontrare finalmente la mia promessa sposa, poter ammirare con i miei occhi la vostra bellezza e asserire senza dubbio alcuno che le voci su di voi non vi rendono giustizia.»
Edith sentì le guance imporporarsi. Nessuno, prima, le aveva parlato in quel modo, usando un tono così lascivo e soave, delle parole che sono un nobile in età adulta e ben a suo agio con tale argomento poteva utilizzare.
«Milord, il vostro onore è anche il mio. — le disse, sperando che la sua voce non risultasse troppo insicura, troppo infantile — Benvenuto a Wilton. Spero che il viaggio non sia stato troppo lungo e faticoso; ad ogni modo, il Priore FitzRobert ha preparato per voi una stanza in cui potrete cambiarvi in vista della cena.»
«Un pensiero molto gentile. — disse, incontrando prima lo sguardo del priore, il quale rispose con un fugace gesto del capo, e poi quello di Gunhild, che abbassò prontamente il proprio — Vi rivedrò a cena, dunque, nella speranza di poter conoscervi meglio.»
«Certamente, Milord.» rispose Edith, facendo strada all’interno del convento.

 


**
  




Per un nobile qualsiasi quella cena poteva apparire frugale, ma per Edith fu il banchetto più ricco a cui partecipava da un anno a quella parte.
Sul lungo tavolo in legno era stato servito un intero maiale arrostito, ortaggi e verdure, pane fatto in casa, uno stufato condito con pregiate spezie orientali e dell’ottimo vino rosso prodotto dalle viti adiacenti alla struttura.
Non c’era alcuna musica ad accompagnare il tutto e rendere l’atmosfera più allegra, ma prima di iniziare a mangiare, subito dopo le preghiere di rito, il coro della chiesa si era esibito in un canto gregoriano che, Edith aveva notato, per poco non aveva fatto addormentare alcuni degli uomini al servizio di Alan.

«Quand’è stata l’ultima volta che avete incontrato il mio nobile padre?»
«Mi rincresce, ma non posso dire di averlo mai incontrato. — rispose Alan — È stato vostro fratello, Edward, a fare le veci di vostro padre: il vostro nobile fratello ed io ci siamo incontrati quattro mesi orsono presso la corte del nostro amato sovrano a Londra, abbiamo discusso della possibilità di una unione ed è stato sempre Edward a darmi la benedizione della vostra famiglia tutta.»
Edith non vedeva Edward da quando suo padre era giunto al convento di Romsay due anni prima e, quando ci ripensava, ricordava ancora il suo sguardo — probabilmente simile al proprio — incredulo nel rivederla faccia a faccia dopo così tanti anni.
Ricordava con calore il suo abbraccio, il modo in cui le aveva asciugato le lacrime dopo l’aggressione di suo padre nei suoi confronti, di come avessero passato, loro due insieme a Mary, la notte successiva a parlare e raccontarsi tutti quegli anni trascorsi lontani.
«Quali notizie giungono dalla corte del sovrano d’Inghilterra? — chiese ancora Edith, oramai giunta ad un’età che le permetteva di parlare, per quanto permesso ad una donna, di politica — Come sta il re?»
«Re William gode di buona salute, come forse ben sapete è nuovamente impegnato in alcune tensioni con la Scozia e la Normandia, quest’ultima adesso divisa tra la fedeltà del suo legittimo signore e quella data al figlio minore del compianto Conquistatore, Henry.»
«La sua fama accresce, dunque?»
In quegli anni Edith aveva udito solo sussurri circa Henry di Normandia e la fortuna che lo accompagnava dovunque andasse; sapeva che, malgrado tutto, era stato capace di tornare nella terra da cui era stato esiliato e conquistare una fortezza nella parte Est della regione, un castello nel quale si era stabilito da due anni.
«Molti sono quelli che si uniscono a lui, in poco tempo si è accerchiato di uomini fidati e capaci; io stesso, che non ho mai avuto molte simpatie per Henry, devo concedergli la mia ammirazione e il mio rispetto.»
«Nonostante ciò, egli per me rimane un lussurioso, un peccatore che persevera senza alcun pudore nel suo peccato. — proseguì Rufus — Mi è giunta voce giusto un mese fa che la sua amante aspetta il loro terzo figlio. L’ennesimo bastardo che…»
Alan si morse la lingua, ricordandosi che quella con cui stava parlando era pur sempre una fanciulla, una donna, una principessa scozzese: «Vi chiedo perdono, principessa. Queste mie parole non sono parole che un fiore delicato come voi dovrebbe udire.»
«Non c’è nulla da perdonare, Milord.» rispose con gentilezza Edith che arrossì violentemente l’istante successivo, quando Alan baciò prima il dorso e poi il palmo della sua mano sinistra.
Abbassò lo sguardo, nascondendo un sorriso dietro ad un calice di vino, pensando che, forse e con il tempo dalla sua, Alan Rufus si sarebbe dimostrato un buon marito.

 


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Era notte fonda ed Edith non riusciva a dormire. Troppe erano state le emozioni provate in quel giorno di fine estate e troppi erano i pensieri che le affollavano la mente; come se non bastasse, quella che stava giungendo al termine si era dimostrata una notte particolarmente afosa, una di quelle in cui si faticava a rimanere distesi su di un letto o trovare ristoro.
Stando attenta che nessuno la scoprisse, la principessa scozzese lasciò le sue stanze, sbucando nei corridoi di pietra illuminati da poche candele non ancora consumate. Passo felpato, si diresse verso l’esterno, stringendosi in un’ampia tunica da notte ricamata che andava a coprire quella sottostante, sempre di lino ma molto più leggera, che le ricadeva morbida quasi fino ai piedi e stando attenta a non essere vista da nessuno.
Con un po’ di fortuna, sarebbe ritornata nella sua stanza entro un’ora, non vista e con la mente e l’animo più leggero.
Era quasi arrivata alle scale che l’avrebbero portata dabbasso, al giardino interno del convento in cui sperava di trovare una fresca brezza notturna, quando una porta si aprì piano e lei fu costretta a nascondersi in un piccolo anfratto del muro per non essere scoperta.
Facendo attenzione a non esser vista, Edith sporse leggermente la testa all’infuori, abbastanza da riuscire a vedere due figure nell’ombra — un uomo e una donna — ferme sullo stipite della porta.
«È stato un errore. — stava dicendo la donna, il viso basso e la voce spezzata — Non sarei dovuta venire, non avrei dovuto concedermi così…»
«Rinnegate dunque ciò che è successo, i vostri sentimenti per me? — le chiese l’altro, portando una mano tra i lunghi capelli sciolti di lei — Quello che vi ho detto prima di farvi mia non cambia: io vi amo con tutto il mio cuore, Gunhild.»
Sentendo quel nome, il nome della sua amica, Edith sgranò gli occhi per lo stupore: da quando la giovane donna aveva un’amante, da quando quella relazione andava avanti, clandestina e peccaminosa?
«Non possiamo e lo sapete, — cercò di ragionare la mora, scuotendo il capo — Sono una novizia e voi… voi siete promesso.»
Le ultime tre parole furono appena percepibili: «Aye, sono promesso, ma solo perché voi non mi avete dato scelta. Pensavo di avervi persa per sempre, altrimenti non avrei mai accettato la mano della figlia di quel cane scozzese di Malcolm. Io amo voi e solo voi, mia adorata, amerò per sempre voi.»

Un colpo al cuore: quello che stava parlando con Gunhild, il suo amante, non era un uomo qualsiasi, ma era colui che aveva cenato al suo fianco, il lord che suo padre aveva scelto per lei, che molto presto sarebbe divenuto suo marito.
E lui amava un’altra donna, aveva dato il suo cuore a lei, a lei soltanto. Lui, Alan, non l’avrebbe mai amata.
«Pensate a ciò che vi ho detto, amore mio. Giuratemi che ci penserete…»
Con uno slanciò la baciò possessivamente e Gunhild non si ritrasse. Quel bacio, per Edith, fece più male di tutte le parole precedentemente scambiate: quel bacio non mentiva.
«Ci penserò.» rispose con il fiato ancora spezzato a causa della passione messa nel bacio appena terminato.
Alan sorrise nella penombra del corridoio, un sorriso che Edith non riuscì a cogliere: «Andate, ora, svelta. Ci rivedremo domani mattina nelle stalle, come promesso.»
«Come promesso.» fece eco lei prima di un ultimo bacio, prima di scomparire nella notte.

Quando la porta della stanza da letto di Lord Alan si richiuse, Edith uscì dalla penombra, rendendosi conto di star piangendo. Lacrime di rabbia, non di dolore.
Che stupida era stata, pensò, una sciocca ragazzina che per un momento aveva sperato in qualcosa di più per il suo futuro. Non ci sarebbe stato amore per lei, non in quella unione e neanche in quelle future; non ci sarebbe stato affetto, solo un’infinita solitudine.
Si asciugò le lacrime con il dorso della mano e, silenziosa com’era giunta, tornò alle sue stanze, al suo letto dove rimase stesa a fissare il grigio soffitto ammantato dei colori della notte fino all’alba, fino al momento in cui una delle sorelle non la chiamò per prepararsi al nuovo giorno.  


 



*



Angolo Autrice: E finalmente ritroviamo Edith! In questo capitolo sono successe alcune cose, ma vorrei soffermarmi su di una in particolare: la relazione tra Alan e Gunhild. Molti dibattono sulla natura di questa relazione, ritenendo che lui l'abbia rapita dal convento contro la sua volontà, mentre altri pensano che i due si amassero e che addirittura abbiano avuto una figlia. Io, per ragioni di trama, ho scelto la seconda. E, sempre per ragioni di trama, andrò a sintetizzare molto velocemente nel prossimo capitolo i successivi eventi tra di loro.
Ovviamente, questo avvenimento avrà molte ripercussioni nel futuro, specialmente sulla fiducia di Edith verso gli uomini e il rapporto matrimoniale.
Spero, infine, che questo capitolo vi sia piaciuto, quindi vi invito a lasciarmi oneste opinioni.

Alla prossima,
V.

 

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