Attack on Genderbend

di Neverland98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***



Capitolo 1
*** I ***


A TE, FRA 2000 ANNI


-Ah!-
Non appena apro gli occhi, non posso fare a meno di ricacciare un grido.
Ho le guance umide. Sto piangendo.
Un'altra volta.
Non va bene. Per niente.
Ho gli occhi pieni di lacrime, la vista annebbiata.
Mi asciugo il viso bruscamente, con la manica della giacca.
Non ricordo cosa ho sognato. Mi capita spesso, del resto. Abbastanza spesso da essere preoccupante.
Mika mi sta osservando. E' inginocchiato accanto a me, sulla fresca erba verde. Sembra preoccupato. Non è una novità.
A quanto pare riesco sempre a dargli qualche buon motivo per preoccuparsi, come fossi una specie di cagnolino ribelle. Davvero non lo capisco, certe volte.
D'accordo, lui è migliore di me. E' più forte. Più deciso. Sembra sapere sempre cosa fare.
Lo riconosco.
Quando sono con lui, e vale a dire la maggior parte del tempo, devo ammettere che non riesco a liberarmi di una fastidiosa forma di gelosia. Vorrei tanto essere come lui.
Anche se Mika non sembra vedere la differenza tra di noi come qualcosa di negativo, riesce sempre a renderla palese.
E' sempre lì, pronto a dirmi cosa è giusto e cosa non lo è. Cosa posso e cosa non posso fare. Accidenti, abbiamo la stessa età. Siamo entrambi dei bambini.
​Sa essere persino fastidioso. Capisco che è per il mio bene, ma vorrei che la smettesse di trattarmi come una sorellina di cui prendersi cura. Vorrei semplicemente che avesse più fiducia in me.
Il sole splende su di noi. E' una giornata splendida. In giorni come questi, è facile dimenticarsi di vivere in una gabbia.
Una gabbia sicura, ma pur sempre una gabbia.
- Mika...-
I suoi capelli corvini sono scompigliati morbidamente dalla dolce brezza primaverile.
-Dovremmo tornare a casa.- dice.
Il paesaggio intorno a me finalmente acquisice colore e realtà. E subito riconosco le mura. Alte. Imponenti. Invalicabili.
Le sbarre della gabbia.
- Cosa... cosa ci facciamo qui?-
Mika scuote la testa. Recupera da terra i rami secchi che abbiamo raccolto nel bosco. Li solleva e se li issa in spalla come se nulla fosse. Regge il carico ingente con eleganza, come se non pesasse affatto. Come se fosse del tutto normale per un bambino di nove anni essere tanto forte. All'inizio attribuivo questa sua caratteristica al fatto che fosse maschio. Mi ero convinta che fosse naturale per me essere più debole.
Col passare dei giorni, ne sono sempre meno sicura.
I suoi profondi occhi scuri si incatenano ai miei. Aggrotta le sopracciglia non appena si rende conto.-Stai piangendo.-
Non è una domanda.
Non rispondo. Non mi va di parlarne. Soprattutto non con lui.
Sembra che proprio non riesca a capire. Non capisce il mio desiderio bruciante di lasciare le Mura, di vedere il mondo. Per lui sono solo sogni, illusioni. Per me è una vera e propria esigenza. Non posso semplicemente ignorare l'evidenza, come fanno tutti. Non posso dirmi soddisfatta di un'esistenza in gabbia. Questo mondo è mio. Mi appartiene dal giorno in cui sono nata.
E' per questo che intendo unirmi al Corpo di Ricerca. E ancora una volta, quando ne ho parlato con Mika, è sembrato estremamente deluso. E anche arrabbiato. Secondo lui sono una stupida. Secondo lui sto sputando in faccia alla fortuna che ho di essere nata in una famiglia che mi ama, in un posto sicuro. Ha detto che se mi unissi al Corpo di Ricerca, finirei soltanto divorato dai Giganti, quei mostri che vivono al di là delle Mura. La ragione della mia prigionia.
No, proprio non capisce.
Marina, invece.
E' stata lei la prima ad accendere in me la scintilla, la voglia di conoscere e di esplorare. E' la mia migliore amica da che ho memoria. E' la ragazzina più intelligente che conosca. C'è qualcosa nei suoi occhi, una luce speciale. Io e Mika siamo i suoi unici amici, e lei è la nostra unica amica.
Spesso ci capita di salvarla dalle altre ragazzine. Marina è diversa da loro. Non le interessano i ragazzini o le bambole. Preferisce i libri che i suoi genitori, membri del Corpo di Ricerca, le hanno lasciato dopo la loro more. Marina è un'esclusa. Come me.
Ricordo il giorno in cui corse da me, brandendo un libro polveroso che lei trattava come la più preziosa delle gemme preziose. All'inizio non capivo perchè si comportasse così. E' stato solo dopo averla ascoltata parlare delle distese di sabbia e d'acqua salata al di là delle mura che ho realizzato. Non sono nata per morire qui. E nemmeno lei. Dobbiamo andarcene, a prescindere dalla mia famiglia e da Mika.
Lo guardo di sottecchi.
La sua mente sembra distante anni luce. Mi chiedo cosa stia pensando.
Sulla strada di casa oltrapassiamo la folla di allegri uccellini in gabbia. Ci imbattiamo anche in quegli idioti che venerano le Mura come divinità. Secondo loro, dovremmo essere riconoscenti. Secondo loro siamo fortunati.
Certo, come no.
D'accordo, magari è vero. Le Mura ci proteggono, e noi siamo effettivamente fortunati per i cento anni di pace che ci siamo tanto faticosamente guadagnati.
E allora perchè mi sembra di soffocare? Perchè questo spazio, queste strade, mi sembrano troppo piccole? Perchè mi sento come un topo in trappola?
 
 
 
Angolo Autrice:
Salve a tutti! Innanzitutto grazie a chi è arrivato fin qui * abbraccia fortissimo *
L'idea è alquanto singolare, ne sono consapevole. Eppure è da un po' che mi passava per la mente. Una Eren, un Mikasa, una Armin eccetera...
Che dite? Vale la pena continuare? Fatemelo sapere numerosi, non voglio continuare a scrivere schifezzuole XD
Bacioni!

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Capitolo 2
*** II ***


A te, tra 2000 anni
- Parte II -
 
 
 
Ho tradito la sua fiducia, lo so.  Ce l'avrà a morte con me, in questo momento. Non mi importa. Ho fatto la cosa giusta. Se il prezzo da pagare per proteggerla è il suo odio, va bene così. Non importa.
Ho già perso troppi familiari. Meglio saperli vivi e arrabbiati che inghiottiti dalle tenebre per l'eternità.
"Helen vuole entrare nel Corpo di Ricerca."
Ecco cosa ho detto. La verità. Un segreto. Una confidenza.
Non ho potuto evitarlo. Dopo lo scontro di questa mattina con il signor Hannes, le mie speranze di riuscire a dissuaderla sono sfumate nel nulla. E' fatta così, Helen. Sembra che più ostacoli le si palesino sul cammino, più abbia voglia di percorrerlo.
La ammiro. E' forte e determinata e non le importa nulla di quello che pensano gli altri. E' onesta con se stessa. Sa quello che vuole.
Helen non stava più nella pelle, oggi, quando le campane hanno suonato per annunciare il rientro dei soldati del Corpo di Ricerca.
Mi ha trascinato in mezzo alla folla, arrampicandosi per riuscire a vedere qualcosa oltre le tante teste schierate ai lati della strada.
Eppure, la gioia nei suoi occhi è andata lentamente scemando, trasformandosi in delusione man mano che quegli "eroi" si mostravano per quello che davvero erano. Esseri umani. Esseri umani intrappolati in un mondo crudele.
Un mondo in cui ad una madre non è concesso riavere il corpo del proprio figlio ed è costretta ad accontentarsi di un braccio, di un arto.
Un mondo in cui gli esseri umani non sono che formiche sotto la lente implacabile di mostri dalle origini sconosciute.
Il dissenso tra la folla era palpabile. Perchè sprecare tanti soldi per finanziare delle imprese suicide?
Era quello che si domandavano tutti.
Tranne Helen.
Non mi sono accorto in tempo delle sue intenzioni. Quando ha colpito con un ramo secco uno degli uomini che si lamentavano.
Se non altro, sono riuscito a trascinarla via prima che finisse per prenderle di santa ragione.
Io, dal canto mio, vorrei solo trascorrere una vita tranquilla, quella che ai miei genitori è stata brutalmente strappata. Helen non può capire cosa si prova nel vedere la tua famiglia, le persone che ami, morire davanti ai tuoi occhi. Il senso di impotenza. La frustrazione. La rabbia.
Helen può fare affidamento su due genitori splendidi, che le vogliono bene dal profondo dell'anima. Per questo so di aver fatto bene a rivelare i suoi progetti per il futuro. Sua madre, Carla, è stata subito dalla mia. E' una donna in gamba, e Helen nutre un profondo rispetto verso di lei. Se facciamo fronte comune, forse riusciremo ancora ad evitare a Helen una morte atroce.
Mi ha stupito la reazione di suo padre.
Ero convinto che lo zio ci avrebbe spalleggiato, invece è sembrato comprendere il desiderio di sua figlia.
Le ha persino promesso di mostrarle i segreti che nasconde nello scantinato. Ad ogni modo, ora è lontano.
 
 
 
***
 
 
 
Mi fa male la testa. Ho la mascella indolenzita. L'ultimo pugno è stato più forte del solito. Devo proprio averle fatte arrabbiare. Stringo i denti e mi sforzo di ricacciare indietro le lacrime.
La più grossa delle tre è talmente forte da riuscire a sollevarmi facilmente, afferrandomi  per la maglietta.
Si sente un "tud" sordo, quando con la schiena colpisco il muro dietro di me.
Non so come andrà a finire, stavolta.
- Che problema hai, eretica?- mi domanda quella grossa, a pochi centimetri dal mio viso. Sembra divertita, eppure c'è qualcosa di ebete nella sua espressione. E' ridicolo che io lo pensi, considerata la mia situazione, ma quasi provo pena per lei. Non deve essere facile vivere senza un cervello funzionante.
- Se non ti piace prenderle, dalle anche tu!- insiste. Le sue due amiche sghignazzano.
Mi faccio forza, le lacrime mi appannano la vista.-Co... Col cavolo!- balbetto.-Non intendo scendere al vostro livello! -
Mi preparo psicologicamente alla perdita di qualche dente, ma, con mia grande sorpresa, mi accorgo che le mie parole hanno avuto il loro effetto.
- Scusa?- nonostante il tono minaccioso, non riesce a nascondere un lieve tremore.
La loro inaspettata reazione mi dà coraggio.- Voi sapete che sto dicendo la verità. Ecco perchè mi state picchiando invece di rispondermi come si deve.
La faccia di quella grossa è praticamente appiccicata alla mia. Non è abbastanza intelligente da nascondere la propria incertezza.
-E'... è così! Voi mi state dando ragione, non è vero?!- urlo.
-Chiudi la bocca, razza di stupida!-
Nella mia mente, ogni cosa rallenta. Vedo distintamente i movimenti che compie il suo braccio mentre si alza, mentre la mano si chiude a pugno e si dirige verso i miei denti. Istintivamente, chiudo gli occhi.
E' un riflesso incondizionato di tutti glie esseri umani di fronte al pericolo.
Come se non vedendolo, potesse scomparire.
E' una cosa infantile, ma è quello che il genere umano continua a fare da cento anni a questa parte.
Ha eretto mura invalicabili, si è rintanato.
Se i giganti non si vedono, allora non esistono.
Ma, d'altro canto, se il mondo all'esterno non si vede, allora non esiste.
-Fermi!-
Non ci credo. Ho il cuore che mi martella nel petto. Ormai stavo già pregustando il sapore del sangue, quando la sento.
La riconoscerei tra mille. E' la voce della mia migliore amica.
- Cosa pensate di fare?!- strilla Helen, correndo verso di noi. Le tre ragazzone si girano verso di lei, sorridendo beffarde.
Effettivamente, lo confesso, il fatto che Mika non sia ancora apparso dietro di lei mi preoccupa notevolmente.
-E' Helen!- esclama quella che fino a pochi secondi fa mi teneva sospesa a mezz'aria. -Stavolta è qui per il nostro sangue, quella piccola bastarda!-
Si voltano verso di lei e stringono i pugni, pronte a colpire. Non finirà bene.
Ma poi lo vedo, e dentro di me non posso fare a meno di sentirmi estremamente sollevata.
Quando lo vedono loro, invece, hanno una reazione un po' diversa.
- Ha portato anche Mika, siamo fritte!- esclamano, sudando freddo. Senza pensarci due volte, totalmente dimentiche della mia esistenza, decidono di tagliare la corda e scompaiono in fondo alla strada.
Mi accascio, il mio cuore inizia finalmente a rallentare. Ora che l'adrenalina sta svanendo, però, il dolore si fa più vivido.
- Oh, ma guardali- esclama Helen, che nel frattempo mi ha raggiunta.- E' bastata la mia sola vista per farle fuggire. Razza di vigliacche.-
- Non è proprio così.- obietto, con un filo di voce. -A dire il vero, sono fuggiti quando hanno visto MIka.- cerco di mettermi in piedi, usando il muro come sostegno.
-Ehi! Va tutto bene, Marina?- la voce della mia amica è cambiata di colpo. La preoccupazione ha preso il posto della rabbia. Mi allunga una mano per aiutarmi a rialzarmi.
La guardo, indecisa.
E' un gesto semplice, fatto con le migliori intenzioni, ma stavolta non mi va. E' davvero questo che voglio essere?, mi domando. Per tutta la vita, sarò un peso per i miei amici?
-C...ce la faccio da sola.- stringo i denti, mi spingo contro il muro e, faticosamente, riesco ad issarmi sulle gambe.
 
 
***
 
 
 
Siamo seduti sul prato. Vicino al fiume che attraversa il distretto, tagliandolo a metà. Non c'è nessuno da queste parti, è uno dei motivi per cui ci veniamo spesso.
Ci piace stare alla larga dalla folla il più possibile.
Marina ci sta raccontando del suo ultimo scontro con le bullette del quartiere.
-E così ho detto loro...- fa un respiro profondo, quasi sconsolato.-...che l'umanità dovrebbe uscire, un giorno. E poi mi hanno picchiata, chiamandomi eretica.-
Sbuffo. E' davvero seccante.-Uffa. Perchè tutti ti guardano così se dici di voler uscire?- il sassolino che ho tirato rimbalza sul pelo dell'acqua un paio di volte, prima di affondare.
-Beh, perchè nei cento anni passati tra le mura, la vita è stata molto pacifica.- mi risponde Marina. Mantiene lo sguardo basso, all'ombra della frangia folta.
E' l'espressione che assume ogni volta che il suo cervello è all'opera, ogni volta che si concentra. Ha le sopracciglia che quasi si toccano tra loro,  e fissa lo sguardo su un punto distante. - La gente ha paura che in questo modo si finisca per invitare qualcuno di "loro" ad entrare in città.-
Ha le gambe poggiate al petto e le braccia incrociate sulle ginocchia.
Questa volta la sua voce tradisce risentimento.-Il governo ha decretato che manifestare qualsiasi forma di interesse per il mondo esterno è taboo.-
Affondo i palmi delle mani nell'erba.-Il re se la sta solo facendo sotto.-
-Hai ragione.- concorda la mia amica.- Ma è davvero questa l'unica ragione?- aggiunge, con fare assorto come qualche istante fa.
Solo che questa volta il suo sguardo è fisso all'orizzonte, sul cielo che si tinge di arancio e vermiglio con l'avvicinarsi del tramonto.
-Sono le nostre vite che mettiamo in gioco.- puntualizzo, tra i denti. -Sono cavoli nostri.-
-Non credo proprio.-
E' la prima volta che interviene da quando siamo qui. Fino ad ora, Mika se n'era rimasto in silenzio, chiuso nel suo guscio.
-Scordatelo.- il suo tono è perentorio.
Io e Marina ci giriamo verso di lui, entrambe troppo sorprese per dire qualsiasi cosa.
- Non accadrà.- sentenzia infine Mika, con la sua voce profonda.
Improvvisamente mi torna in mente quello che è successo poche ore fa. Mi sento fremere di rabbia. Non sopporto il modo in cui Mika si senta così in diritto di intromettersi nelle mie scelte.
-Il che mi ricorda- lo guardo con astio.-a che diavolo pensavi quando hai detto quelle cose ai nostri genitori?!- sbotto.
Marina sgrana gli occhi, confusa.
-Non ho mai detto che avrei cooperato.- replica Mika, senza scomporsi. A volte ho quasi l'impressione che mi guardi con sufficienza. Si sente davvero così superiore a me? Accidenti.
-Allora... com'è andata?- si intromette Marina, conciliante. E curiosa.
- Ecco...- al pensiero della discussione con mia madre, mi si stringe il cuore. Anche se quella di entrare nei Corpi di Ricerca è una decisione che spetta solo a me, non posso fare a meno di desiderare l'appoggio di entrambi i miei genitori.-Non erano esattamente felici e contenti...- sospiro.
-...Posso immaginare...-
Le sue parole mi colpiscono come un pugno. -Cosa?- sbotto.-Hai intenzione di unirti anche tu al coro e dirmi di fermarmi?!-
-Beh...è pericoloso.- osserva Marina.-Ma ti capisco. Nemmeno io riesco a comprendere coloro che credono di vivere al sicuro all'interno di queste mura. Certo, hanno resistito cento anni, tuttavia non abbiamo alcuna garanzia che non possa succedere oggi, eppure...-
Marina non fa in tempo a completare la frase.
Un rumore tremendo. Come un'esplosione, fa tremare la terra. In lontananza, riesco a malapena a distinguere i colori brillanti di un fulmine che si abbatte.
Mi accorgo che persino Mika è impallidito.
-Cos'è stato?- balbetta Marina, bianca come un lenzuolo, una volta in piedi.
- Quello era un terremoto?- suggerisco, ancora con la pelle d'oca. -Andiamo a vedere!-
Sto per scattare, quando mi accorgo che Marina ci ha dato le spalle e ha già iniziato a correre.-Marina, cosa cavolo stai...?-
Sembra non sentirmi. Oltrepassa rapidamente la stradina e svolta l'angolo. Dopodichè, però, si blocca. Sembra una statua. Ha la bocca spalancata e lo sguardo atterrito. Le braccia che penzolano lungo i fianchi.
-Ehi! Riesci a vedere qualcos?- urlo, il cuore mi martella nel petto. Corro per raggiungerla, Mika è dietro di me.
Il tempo sembra essersi fermato. La folla è immobile. Si potrebbe sentire il rumore di uno spillo che cade a terra. I nostri sguardi, gli sguardi di tutti, sono rapiti dalla nube nera all'orizzonte, oltre le mura. Un fumo densissimo, proprio dove ricordo di aver visto cadere il fulmine.
E poi, compare.
Una mano.
Una mano enorme. Cinque dita fumanti, un intrico di muscoli scarlatti e carne scoperta. Si avvinghiano alle mura, provocando crepe profonde.
- Non può essere...!!- riconosco la voce di Marina, accanto a me, ma non riesco a muovermi. I suoni mi giungono ovattati, come se stessi sognando. -Que... quelle mura sono... alte quasi cinquanta metri...- la mia amica non riesce a capacitarsene, come tutti, del resto. Il suo cervello brillante e razionale cerca di trovare una spiegazione, posso quasi sentirlo lavorare.
Il fumo si fa più denso, la nube più spessa.
E' uno di "loro".
Ed ecco che compare. Accanto alla mano.
Una testa. Un complesso intreccio di carne scoperta, due file di denti perfetti, infallibili. Gli occhi piccoli e penetranti.
Un gigante.

Quel giorno, l'umanità ricordò.

E poi, accade l'impensabile. Un rumore terribile, assordante. La terra trema, un vento implacabile si sprigiona quando, con una ginocchiata, il Gigante crea una breccia nelle Mura.

La paura...

Quello che segue, sono istanti di confusione e panico più totali. Tutto ciò che poggia sul suolo si solleva, e nel giro di un istante è spazzato via. Case, carri, persone.

... Di una vita sotto il loro dominio...

Urla e strepiti riecheggiano ovunque. Il terrore non è più solo un ente astratto, ma qualcosa di concreto. Quasi mi sembra di vederlo.

L'umiliazione di vivere come uccelli in gabbia.
 
 
 
Angolo autrice:
Ehilà!
Rieccomi con il nuovo capitolo, che ne pensate? Ho cercato di seguire fedelmente il manga, quindi vorrei davvero sapere cosa ve ne pare.
Un bacione grandissimo a tutti!
 
 

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Capitolo 3
*** III ***


III
 
Distretto di Throst
 
 
 
 
 
I primi raggi del sole filtrano attraverso i vetri della finestra.
Disegnano dita di luce sul pavimento che rimbalzano sulle coperte.
Li guardo giocare, espandersi a macchia d'olio man mano che il sole si alza nel cielo.
Sono di nuovo rimasta sveglia fino all'alba.
Mi capita spesso.
Da piccola potevo dormire fino a mezzogiorno inoltrato, ma da qualche anno è diverso.
Da qualche anno riesco a chiudere occhio solo poche ore a notte, durante le quali sogno qualcosa cui continuo ad ambire anche durante il giorno: la libertà.
Mi guardo intorno.
Una stanza da letto mediocre. Adatta ad una persona mediocre.
In una casa mediocre.
O meglio, una prigione.
Mi metto a sedere, appoggiandomi con le spalle allo schienale del letto.
Gli uccelli cinguettano fuori dalla finestra. Li invidio.
Con le loro ali, sono liberi di andare ovunque desiderino.
Possono decidere della loro vita, senza nessuno che dica loro cosa fare.
Prendo il nastro grigio dal comodino, intreccio i capelli lunghi e lascio che la treccia cada sulla spalla destra. Mi scosto la frangia dalla fronte. Sono sudata.
E' sempre così. Come se quel poco di sonno che dormo durante la notte mi costasse una fatica immensa.
Mi faccio forza e mi alzo. I
nfilo la prima casacca scura e i primi pantaloni che trovo, poi torno a letto.
Roteo gli occhi al cielo - o meglio, al soffitto pieno di crepe  e muffa nerastra.
Sospiro. Posso fare solo una cosa per passare il tempo. Una delle cose che mi piace di più.
Afferro l'album da disegno e la matita poggiati sul comodino.
Mi sdraio prone, adagio l'album sul cuscino, mi tiro le coperte fin sulla testa e, puntellandomi sui gomiti, inizio a disegnare.
E' una cosa molto infantile, ma mi sento al sicuro sotto le coperte.
E' come se riuscissi a creare un angolino tutto mio nella prigione che mi circonda.
La matita si muove quasi autonomamente sul foglio.
Dopo poco, all'ombra di due sopracciglia folte e arcuate,  due occhi scuri mi fissano dal foglio.
Hanno un taglio particolare, allungato, ma ampio. L'iride è calcata, nerissima. Penetrante.
Mi piacciono tantissimo. E' la prima volta che mi sento così soddisfatta di un disegno.
Con i polpastrelli sfumo gli angoli, in modo da creare un'ombra delicata sotto le sopracciglia.
Sto molto attenta. Ho paura di sbagliare e rovinare tutto.
Sarebbe uno spreco, dubito che riuscirei di nuovo a creare qualcosa di così perfetto.
Due occhi così affascinanti.
La fronte è ampia, il naso lungo e dritto. Una linea perfetta, leggermente all'insù. Quel tanto che basta per conferire un po' di delicatezza all'insieme marcato e mascolino del viso.
Persino le ombreggiature e gli sfumati sono al posto giusto.
Non so cosa mi sia preso, oggi.
E' come se nella mia mente avessi un'idea precisa di cosa voglio rappresentare, come se stessi facendo un ritratto ad un modello immaginario.
Lo vedo davanti a me. E' bellissimo. La rappresentazione dei tratti somatici che più mi piacciono.
In altre parole, non posso fare a meno di constatare, con un po' di malizia, è l'incarnazione del ragazzo dei miei sogni.
Qualcosa di freddo e bagnato mi solletica la guancia.
E' una gocciolina di sudore, realizzo sorpresa.
Non pensavo di aver faticato tanto.
Ma è solo quando cade sul disegno e forma una macchia sbavata che devo trattenere un'imprecazione.
Con le dita cerco di limitare i danni.
Non vorrei rovinare questo disegno per nulla al mondo.
Sono persa in contemplazione, quando la sua voce mi fa trasalire.
-E' pronto!- urla, dal piano di sotto.
Mi si accappona la pelle. Ma che ore sono?
Guardo fuori dalla finestra. Il sole è alto in cielo, e il cinguettio pacifico degli uccellini è stato sostituito da un intrecciarsi di voci disarmoniche provenienti dalla strada. Con orrore, capisco che è mezzogiorno passato.
Accidenti, le ore sono letteralmente volate.
Fisso la finestra per qualche istante, a bocca aperta. Probabilmente con un'espressione ebete.
Non riesco a capacitarmene. E' come se fossi stata risucchiata da quell'accidenti di disegno.
- Jane! E' pronto!-
Insiste. Oh, accidenti.
Un'altra goccia di sudore cade sul foglio. Questa volta non mi trattengo dall'imprecare. Cerco di fare il possibile per rimediare al danno, ma il mio è un gesto maldestro. L'impronta del pollice per eliminare la goccia d'acqua è troppo frettoloso, così il nero dell'ombra sbava e altera il contorno perfetto del naso. Cerco di rimediare con la matita, ma i passi che sento farsi sempre più vicini mi impediscono di concentrarmi.
Devo sbrigarmi. Presto sarà qui.
Accidenti. Accidenti. Accidenti.
Ed eccola, come previsto.
La porta si spalanca  all'improvviso e sbatte contro il muro.
Per un secondo, il mio cervello va in tilt. Ha una sola priorità: nascondere il disegno.
Non deve vederlo. Non deve vederlo. Non deve vederlo. Non deve vederlo. Non deve vederlo.
Salto - letteralmente - giù dal letto, spingendo via la coperta.-Ti ho detto di bussare!- strillo, furiosa.
Mia madre è sulla porta. La figura massiccia brandisce in una mano una padella ancora fumante.
- Cos'è quella cosa? L'hai portata qui?-
- Non scendevi, quindi ti ho portato il pranzo.-
Si avvicina. Nonostante il profumino sia più che invitante, e il mio corpo si è ricordato di avere uno stomaco, indietreggio.
- Devi smetterla. E' chiaro? Non ce la faccio più. Sei soffocante!-
Stringo i pugni.
Sono arrivata al limite della sopportazione.
Mia madre è sempre stata un tipo iperprotettivo, asfissiante e, a lungo andare, insopportabile.
Il tipo di madre che ti presenta agli altri bambini, pregandoli di giocare con te, mettendoti in ridicolo davanti a tutti.
Quella che se cadi mentre stai correndo, ti sgrida in mezzo alla piazza, dandoti dell'imbranata ed insistendo di riportarti a casa in braccio, perchè anche se hai undici anni, sei comunque piccola e troppo debole per reggere il dolore di un ginocchio sbucciato.
Il tipo di madre che non ti permette di uscire di casa per più di due ore, che ti segue se ti allontani troppo, che ti aspetta a braccia conserte se fai un minuto di ritardi.
Il tipo di madre che non ti ascolta, che non accetta il fatto che tu stia crescendo e che tu non sia più una bambina indifesa.
Il tipo di madre che vorrebbe che tu fossi simile a lei, perchè sei la sua figlia femmina adorata, e invece, anzichè interessarti di ricamo e cucina, ti piace giocare con i maschi, sporcarti di fango e fare la lotta. E, soprattutto, più che il matrimonio, sogni di diventare un soldato e di andartene di casa.
Il tipo di madre, in una parola, che più che una madre è un carceriere.
Odio che entri in camera mia all'improvviso. Disegnare, per me, ha un valore altissimo. E' un momento in cui le mie emozioni più disparate, quelle che persino io non comprendo, prendono forma sulla carta. Si trasformano in qualcosa di concreto, che posso guardare e contemplare.
I miei disegni sono preziosissimi, è come se fossero parte integrante di me. Ne sono gelosissima e non sopporto che qualcuno li tocchi o addirittura li guardi senza il mio permesso.
Specialmente mia madre, che è convinta di conoscermi fin nel profondo della mia anima, quando non è così. Accidenti. Non è così.
- Ma ti ho portato il pranzo...-
Rieccola, con quegli occhioni da cagnolino bastonato. Come se la cattiva della situazione fossi io. La figlia che non vuole bene alla madre. Non ce la faccio più. Non vedo l'ora di arruolarmi nell'esercito, entrare nel Corpo di Gendarmeria e scomparire definitivamente dalla sua vita.
- Non mi va!- sbotto.
Sta per replicare, ma io sono più veloce. Le sbatto la porta in faccia.
E' un tonfo così forte che fa tremare il muro.
Per una frazione di secondo, quasi penso di aver esagerato. Ma è solo per una frazione di secondo.
Rimango un po' così, ferma, tentando di calmarmi.
Devo finire il disegno.
Ho ancora i pugni serrati.
Mi guardo alle spalle: il letto è un disastro. Le coperte sono a terra, così come il cuscino. Nessuna traccia del disegno.
Mi chiedo dove possa essere. Ricordo soltanto che volevo nasconderlo, ma non ho idea di dove.
Poi, con orrore, mi accorgo di stringere qualcosa nella mano destra. Qualcosa di freddo al tatto.
Lentamente, schiudo il pugno.
E il disegno è lì. Stropicciato. Sbavato. Irriconoscibile.
Sento le lacrime pungermi gli occhi.
Lacrime di frustrazione. Di rabbia.
Rivolgo un'ultima occhiata disgustata al foglio che stringo tra le mani. Poi lo strappo.
 
 
 
 
 
 
 
Angolo autrice:
Ehiehiehi!
Finalmente compare uno dei miei personaggi preferiti: Jean!! (O Jane, in questo caso, lol)
Anyway, il capitolo riprende quello che succede in uno degli episodi speciali, in cui ci viene spiegato a grandi linee il rapporto difficile di Jeanboy con la madre.
Io, però, ho cercato di reinventarlo e integrarlo per farlo quadrare con questa versione femminile del nostro eroe.
That said, non vedo l'ora di sapere cosa ne pensate! * freme*
Bacioni!!
 

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Capitolo 4
*** IV ***


IV


 
La parte più bella, era il salto iniziale. Quando ti sollevavi da terra e ti sentivi trascinare verso l'alto, come una molla.
I piedi a mezz'aria, il vento contro. A volte, potevi persino credere di volare.
Potevi persino sentirti libero. Quando gli arpioni si conficcavano in una parete più fragile, quando le corde robuste avvinghiate intorno al tuo corpo come serpenti, ti portavano in alto, verso quella corte plumbea che i più stupidi osavano chiamare cielo.
Non era il cielo quello, ovviamente. Il cielo, se eri fortunato, lo intravedevi a sprazzi dove quel crudele soffitto di terra lasciava filtrare i flebili raggi del sole.
Per il resto, se alzavi lo sguardo, intravedevi le radici bitorzolute degli alberi, oppura, attraverso le grate dei tombini, capitava che la piuma di qualche uccello scivolasse fino negli abissi.
Questi erano i Sotterranei. Puzza di urina, oscurità e rassegnazione.
La morte era una presenza costante nei Sotterranei.
La vedevi camminarti accanto. Ti fissava dagli angoli della strada, incarnata dai numerosi corpi agonizzanti. La mancanza di luce solare implicava una serie di malattie, il più delle volte mortali.
Levy era vissuta lì da sempre. Dopo la morte di sua madre, era stata cresciuta dallo zio. Aveva imparato ad utilizzare un pugnale prima ancora di saper scrivere.
Senz'altro sapersi difendere, nei Sotterranei, aveva la priorità su tutto. La disperazione intrinseca di quell'abisso, induceva gli esseri umani che ci vivevano a camminarsi l'uno sull'altro, a divorarsi a vicenda pur di accaparrarsi qualche minuto in più di quella che molto gentilmente si poteva definire vita.
Fin da subito, Levy aveva dimostrato un'intelligenza vivissima e una grande capacità di apprendimento. Quando suo zio l'aveva abbandonata a se stessa, era riuscita a cavarsela alla grande.
In un primo momento da sola.
Poi aveva incontrato Faelyn e le cose erano cambiate. Nonostante tutto, nonostante gli insegnamenti di suo zio e gli ammonimenti riguardo il farsi degli amici e nonostante Levy ci avesse provato davvero a stare da sola e ad allontanarsi da chiunque, finiva sempre per legarsi troppo a qualcuno. Nel corso della sua vita, questo suo modo di essere le sarebbe costato più di quanto potesse immaginare.
Faelyn Church era una ladruncola dai capelli biondi e due profondi occhi azzurri. Azzurri come quel cielo che Levy, nel suo cuore, moriva dalla voglia di vedere.
Si erano incontrate, anzi scontrate, durante una rapina ad una carrozza merci.
Il veicolo era fermo in un angolo della strada, mentre il suo conducente si era allontanato per concludere uno scambio con un altro tizio. Levy teneva d'occhio la carrozza già da un po'. L'aveva seguita fin da quando l'aveva vista entrare nei Sotterranei.
Essendo di corporatura minuta, Levy riusciva agilmente a sgattaiolare tra i passanti e a nascondersi senza dare nell'occhio.
Era un vantaggio non da poco, per una ladra.
Appena aveva visto il conducente della carrozza scendere, non aveva esitato. Era la sua occasione.
Sfoderato il pugnale che nascondeva in una manica della camicia, con l'agilità di un felino era scattata sulla carrozza, atterrando silenziosamente al posto del cocchiere. Era stata talmente attenta che persino i cavalli erano sembrati accorgersi appena della sua presenza, intenti com'erano a sgranocchiare una carota che il loro padrone aveva allungato prima di appartarsi.
Levy non aveva perso tempo.
Stava per aprire il vagone merci quando qualcosa l'aveva colta di sorpresa. Come un'apparizione, una sagoma incappucciata, avvolta in un pesante mantello scuro, si era calata dall'alto silenziosa come uno spettro. Levy era rimasta a bocca aperta, e lei non era tipo da stupirsi tanto facilmente.
La freccia umana che era calata davanti ai suoi occhi ora la scrutava all'ombra del cappuccio. Con un movimento impercettibile della mano, aveva richiamato a se due pesanti corde culminanti in arpioni affilati. Passata la sorpresa iniziale, aveva capito immediatamente di cosa si trattasse. Il dispositivo per il movimento tridimensionale. Nei Sotterranei, era un bene prezioso. Più di quanto si potesse immaginare.
In genere lo si vedeva utilizzare (in maniera anche un po' imbranata) esclusivamente dal Corpo di Gendarmeria, eppure la figura davanti a Levy sembrava tutto tranne che una guardia.
Un pensiero interessante si fece strada nella sua mente.
Considerata la propria eccellente abilità in combattimento, avrebbe potuto mettere fuori gioco l'avversario e rubargli il dispositivo per poi rivenderlo al miglior offerente. Se avesse giocato bene le sue carte, sarebbe anche riuscita a guadagnare abbastanza da comprare il permesso per lasciare quella fogna in cui viveva. L'idea era così allettante che si sentì pervadere da adrenalina come mai prima in vita sua. In una frazione di secondo, il pugnale sguainato, si lanciò addosso alla misteriosa figura. Questa parve sorpresa.
Non tanto di essere stata attaccata, in quella situazione era la cosa più probabile che potesse accadere. No. Era stata sorpresa dalla forza contenuta nel corpicino sottile di Levy.
Erano in molti a fare questo errore.
La sagoma incappucciata cadde a terra con un tud sordo, che risvegliò l'attenzione del proprietario della carrozza.
L'uomo grasso e di mezz'età lanciò un urlo minaccioso e si precipitò verso la carrozza, abbandonando il suo collega.
Pazienza. Ormai a Levy non importava nulla della carrozza. La sua mente era totalmente catturata da quel dispositivo luccicante.
Nella caduta, il cappuccio pesante che oscurava il volto della sagoma cadde, rivelando un volto femminile e dai tratti che richiamavano, in qualche modo, quelli di una volpe. L'avversaria sorrise sorniona, dopo essersi ripresa dalla caduta, e volse in fuga. In un primo momento Levy le fu dietro all'istante. Poi, però, la biondina lanciò l'arpione verso l'alto, che si conficcò prontamente nel cemento crepato dell'edificio vicino. Fu una questione di secondi. Stava per sollevarsi, e Levy sapeva che in quel caso non sarebbe più riuscita a riprenderla. Sarebbe sparita insieme alla sua via di fuga. Non poteva permetterlo.
Con uno scatto quasi sovrumano, la raggiunse al mezzo metro di distanza dal suolo in cui era già arrivata e le afferrò saldamente le gambe. Quella fece per divincolarsi, scalciò, ma la presa di Levy era d'acciaio.
Gli occhi azzurri dell'altra si posarono pieni di astio sul viso di Levy, ma era inutile. I cordoni legati alla vita della biondina gemettero un po', ma Levy era incredibilmente leggera, e riuscirono comunque a portarle entrambe sul tetto dell'edificio.
Quando ci furono arrivate, Levy sfoderò il pugnale e si preparò ad attaccare.
- Sei proprio interessata a questo, non è vero? - le chiese quella.
Levy non rispose.
- Beh, ti capisco.- sorrise sorniona, e di nuovo i lineamenti affilati del viso ricordarono l'espressione astuta di una volpe. Si passò una mano tra i capelli dorati.-Sicuramente stai pensando che se riuscissi ad ottenere questa bellezza, potresti rivenderla e andartene da questo inferno. Ti capisco, davvero.-
Camminava sul tetto in maniera tranquilla. Levy la squadrò. Era molto alta. Almeno venti centimetri più di lei. Slanciata, il fisico atletico. I capelli biondi ricadevano sulle spalle in una treccia sottile, dalla quale sfuggivano ciuffi arricciati che andavano ad incorniciarle il volto.
-Però, se fosse così facile, non credi che l'avrei fatto anch'io?-
Levy strinse il pugnale. Aveva proprio una gran voglia di piantarglielo nella schiena e fregarle il dispositivo. Chi lo sa per quale accidenti di ragione non se l'era squagliata.
- Il fatto è, vedi, che non è così semplice. Se anche lo vendessi, riusciresti a ricavare abbastanza per uscire una volta da questo posto.- accentuò "una volta" con il tono di voce, enfatizzando il tutto alzando il dito indice. - Ma poi dovresti tornare. Se vuoi rimanere lì sopra, ti serve la cittadinanza.-
Pazienza, pensò Levy. Comprerò anche quella. Si può comprare tutto.
Come se le avesse letto nel pensiero, la spilungona la guardò condiscendente.-E, credimi, ci vuole molto di più di un vecchio dispositivo rubato per ottenerla.-
Levy non si mosse.
- Che c'è? Non mi credi? E allora perchè pensi che non me ne sia andata, rispondi! A proposito, come ti chiami?-
Levy, lentamente, abbassò l'arma. Inutile illudersi. Quella ragazza aveva ragione. Era stato tutto inutile. Aveva rinunciato al carico della carrozza per niente.
- Levy.- rispose. Il grande autocontrollo che suo zio le aveva insegnato, le tornò utile. Le impedì di mostrare tutta la delusione che provava.
La ragazza, improvvisamente sembrò cambiare volto. Il sorriso astuto e tagliente si trasformò in uno affabile e amichevole. - Beh, tanto piacere! Io sono Faelyn Church!-
Levy non riusciva a crederci. Quel sorriso sembrava emanare un autentico calore. Un calore che non sentiva da quando sua madre... Beh, da tanto tempo. Ad ogni modo, si scosse. Ricordò le parole di suo zio: volere bene a qualcuno è una maledizione, e il dolore per la perdita di sua madre e il rancore per l'abbandono di quello stesso zio erano ferite abbastanza vivide da farle voltare le spalle al pericolo incombente.-Bene. Addio.-
- Come, te ne vai?- la voce di Faelyn era sinceramente delusa.
- Mi sembra evidente.-
- Ma... Aspetta un attimo. Come intendi scendere da qui?-
Maledizione.
Faelyn sembrò divertita e al contempo felice che Levy avesse bisogno di lei per andarsene.
- Troverò un modo.- mentì. - Potrei sempre ucciderti e fregarti quel bel giocattolino solo per scendere da qui.- in realtà non ne aveva la minima intenzione, ma un altro degli insegnamenti di suo zio era questo. Se ti senti debole, fa in modo che sia l'altro a sentirsi così.
- Non credo, sai.- replicò Faelyn.- Se l'avessi voluto, l'avresti già fatto. Ho notato l'agilità con cui mi sei saltata addosso, e come, ancora prima, eri piombata sulla carrozza. Ho sentito parlare di una ladruncola particolarmente dotata. Beh, a parte me, ovviamente. Comunque, credo di aver trovato un modo per raddoppiare i reciproci guadagni.-
Levy la guardò scettica.- Sarebbe?-
- Uniamoci. Lavoriamo in società, per così dire. Io ho il movimento tridimensionale. Posso insegnarti ad usarlo. Tu hai le tue abilità da ladra professionista... Riesci a pensarci? Se poco fa avessimo unito le forze anzichè suonarcele, quella carrozza e il suo carico sarebbero in mano nostra.- le strizzò l'occhio.
Levy ci riflettè un attimo. Quella Faelyn era proprio una tipa bizzarra, ma non aveva tutti i torti.
- E cosa ti fa credere che abbia bisogno di te per migliorare i miei guadagni? Me la cavo benissimo da sola. Dammi una sola buona ragione per cui dovrei accettare la tua proposta.-
Faelyn sorrise soddisfatta, come se non aspettasse altro che quella domanda e fremesse dalla voglia di rispondere.- Perchè stare da soli non è mai una scelta. Non del tutto. E poi, sai, in questo schifo di posto sarebbe bello avere un'amica.Sai qualcuno che possa ricordarsi della tua faccia da schiaffi dopo che sarai morta, e che ti possa anche salvare il culo se necessario.-
Levy valutò la risposta. Era sempre più convinta, ma il retaggio del caro zio Kenny era difficile da accantonare.
- Andiamo.- insistette Faelyn.-Dove vivi adesso?-
Levy distolse istintivamente lo sguardo.-Dove capita.-
-E che ne diresti di una casa vera? Con mobili veri e un letto vero? Magari in una delle zone più belle ... O meglio, meno schifose di questo postaccio? Perchè io ce l'ho, sai.-
Levy la scrutò attentamente. Sembrava sincera, e le sue erano valide argomentazioni. E una casa vera e propria non avrebbe guastato. Dopo tutto, lei aveva vissuto per strada da quando era bambina, da quando suo zio le aveva voltato le spalle fumando una sigaretta.
Me ne pentirò, si disse.
E i fatti avrebbero, purtroppo, dimostrato la veridicità di questa affermazione. Ma in quel momento, ovviamente, Levy non ne aveva idea.
Gli esseri umani sono animali sociali. E' nella loro natura creare legami, nonostante questo spesso sia la principale causa delle loro sofferenze.
- Affare fatto.-
Gli occhi di Faelyn si illuminarono.
- Ma sarà meglio che questo posto di cui parli sia pulito come si deve.-


 
 
Angolo autrice:
Ssalvee! E' da un po' che non mi faccio viva, scusate! Ma quest'ultimo periodo scolastico ha consumato ogni mia energia. Adesso, per fortuna, è finita e posso finalmente dedicarmi a scrivere scrivere e scrivere. Sono molto felice.
Ad ogni modo, l'incontro tra Farlan (qui Faelyn) e Levi (qui Levy) lo potete trovare nello spin-off del manga "A choice with no regrets", oppure su youtube, sottotitolato in inglese, l'omonimo OVA. Tuttavia, quanto ho scritto è una mia invenzione, perchè nel manga e nell'anime, Farlan e Levi vengono presentati già come "partners in crime", diciamo così, ma mi è piaciuto immaginare in che modo si fossero realmente conosciuti. Che ne pensate? Voi avete altre idee? Dai dai che fangirliamo!
Un'ultima cosa: il nome genderbent di Farlan. Anche se da come è scritto (Faelyn, appunto) non sembra, la pronuncia è molto più simile di quanto sembri. E poi è stupendo, ammettetelo.
E niente, vi saluto. Grazie mille per essere arrivati fin qui! Alla prossima!
 
 
 

 

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