Unterkinder

di WikiGabry
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Bonjour, Paris! ***
Capitolo 2: *** L'inizio della fine ***
Capitolo 3: *** Ultima notte a Parigi ***



Capitolo 1
*** Prologo: Bonjour, Paris! ***


Ricordo come fosse ieri il giorno del mio trasferimento in Francia, seppur all'epoca avessi solo tre anni e mezzo.
Ma partiamo dal principio...
La sera del 31 dicembre 1934, a pochi attimi dallo scoccare del nuovo anno, Armando Rovani corse emozionato all'anagrafe, annunciando che sua moglie Margherita aveva appena partorito suo figlio: in altre parole, io.
Quando l'impiegato gli domandò quale nome avrebbe voluto affibbiarmi, lui rispose:-Alessandro, come il grande condottiero macedone...
In teoria, quindi, il mio nome effettivo sarebbe questo, ma per tutta la vita sono stato chiamato con l'abbreviativo di "Sandro", che comunque non mi dispiace...
Ci mancò poco che l'uomo scrivesse tutto ciò che aveva detto mio padre, che per fortuna lo fermò in tempo: meno male, altrimenti mi sarei dovuto chiamare Alessandrocomeilgrandecondottieromacedone Rovani...
Ora che ho parlato della mia nascita e dell'origine del mio nome, facciamo un piccolo salto in avanti nel tempo...
Correva l'anno 1938, e presto l'estate avrebbe lasciato spazio all'autunno, con i suoi venti freschi e sue foglie rosse.
La sera del 18 settembre, mi trovavo nella mia casa di Torino in compagnia dei miei genitori.
Stavo prendendo a calci (se si possono definire tali quelli di un bambino di quasi quattro anni) la palla dei Mondiali che si erano svolti in Francia quell'anno (un regalo di mio padre), quando mia madre accese la radio.
Una voce con un forte accento romagnolo sbraitava qualcosa sulla "difesa della razza italiana".
Io ero troppo piccolo per comprendere ciò che l'uomo alla radio stava dicendo, ma mia madre spalancò gli occhi e osservò mio padre con gli occhi lucidi:-Ma noi che cosa abbiamo fatto?-gli domandò
-A quanto pare-commentò mio padre-Nell'Italia odierna essere ebrei è una grave colpa: il Duce si è fatto prendere troppo la mano dal suo alleato...
Ebbene sì, i miei erano israeliti: oggi non sarebbe di certo un delitto, ma all'epoca di certo lo era...
Mia madre incrociò le braccia:-Io non voglio far crescere Sandro in un paese del genere!
-Che cosa dobbiamo fare, allora?-domandò papà 
-Espatriare, è ovvio-affermò mia mamma-La Francia è vicina, e non ha restrizioni per noi ebrei...
-In effetti, là c'è anche abbondanza di lavoro...-fece notare mio padre e, dopo un attimo di riflessione, decise-Va bene, possiamo emigrare a Parigi.
-Quanto tempo abbiamo?-domandó la mamma
-Almeno un mese e mezzo-disse papà-Ma, per sicurezza, sarebbe meglio partire entro la fine di settembre.
-Ok-accettò mia madre
Io non capivo tutti questi discorsi bizzarri da adulti, e non avevo idea che da lì a poco la mia vita sarebbe cambiata per sempre...

Il 29 settembre, dunque, di buon mattino, raggiungemmo in macchina l'Aeroporto di Torino-Aeritalia, per poi imbarcarci per l'Aeroporto di Parigi-Le Bourget, lo stesso in cui Charles Lindberg era atterrato alla fine della sua prima traversata atlantica.
Arrivati nella capitale francese, sotto un bel sole, il tassista portò noi e le nostre innumerevoli valigie al quartiere di Clignancourt, non lontano dalla famosa Basilica del Sacro Cuore e da Montmartre: là si trovava l'appartamento che mio padre aveva acquistato dopo una lunga trattativa con il precedente proprietario.
Faceva parte di un piccolo condominio, sito in una zona piena di verde e con diverse scuole nelle vicinanze, che più tardi avrebbero provveduto alla mia istruzione.
Salimmo al primo piano, dove era situata la nostra nuova dimora: era bella e spaziosa, con tutto ciò che occorreva per trascorrere una vita piacevole.
Stavamo per richiudere la porta, quando una voce maschile attirò l'attenzione dei miei genitori:-Hello!
Si trattava di un uomo dai capelli neri, con al suo fianco la moglie, che invece era bionda, ed era appena uscito dal portone di fronte al nostro
I miei, che masticavano un pochino inglese, cominciarono subito a fare conoscenza con quelli che dovevano sicuramente essere i nostri vicini.
Mentre i quattro parlavano, notai un bambino (che pareva più o meno della mia età), che era appena apparso sulla porta della casa dei due coniugi.
Era abbastanza simile a me, poiché era di corporatura media e con gli occhi azzurri: l'unica differenza erano i capelli, poiché i suoi erano biondi e ricci, mentre i miei erano castani e lisci.
Il piccolo si avvicinò a me, ed io, per iniziare a conoscerlo, gli dissi il mio nome:-Sandro
Lui sorrise amichevolmente, e poi mi disse il suo:-Ethan
Poi notò il mio pallone dei Mondiali, che si trovava sulla soglia della mia nuova casa, lo prese e mi chiese:-Do you want to play with me?
Non capivo la sua lingua, ma intuii quello che mi voleva dire, quindi annuii, ed io e lui cominciammo a lanciarci la palla a vicenda.
Giocammo così per un po', ma poi i nostri genitori terminarono i convenevoli e tornarono nelle rispettive case, invitando i figli a fare lo stesso: io ubbidii, ma non prima di aver salutato con la mano il mio nuovo amico, che replicò con lo stesso gesto.
Una volta richiusa la porta, mio padre mi disse cosa loro ed i genitori di Ethan si fossero detti: a quanto pare, si trattava di una coppia di ebrei inglesi, Winston e Diana, arrivati a Parigi una settimana prima di noi, poiché l'uomo aveva trovato lavoro alla fabbrica della Citroen, e ne aveva procurato uno anche a mio padre.
Scoprii inoltre che Ethan era nato circa un mese dopo di me: più precisamente, il 27 gennaio 1935.
Ero felice: la mia nuova vita francese era cominciata nel migliore dei modi...

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Capitolo 2
*** L'inizio della fine ***


ANGOLO AUTORE:
Se questo capitolo dovesse sembrarvi troppo corto, sappiate che è ancora di introduzione, e la storia vera e propria partirà dal successivo :)
Spero che vi piaccia comunque ;)
Arrileggerci 
WikiGabry

Facciamo un altro salto in avanti nel tempo, e giungiamo al giugno del 1940.
Erano trascorsi quasi due anni dal mio arrivo a Parigi, e la qualità della vita continuava ad essere ottima.
Mio padre lavorava alla Citroen insieme a William, e mia madre aveva trovato lavoro in un piccolo negozietto gestito da alcuni amici francesi di Diana
Io ed Ethan, invece, eravamo diventati super-migliori amici: dal giorno in cui ci eravamo conosciuti, avevamo passato le giornate a giocare con il mio pallone nel parco vicino al nostro palazzo.
Avevamo anche imparato a comprenderci tra di noi, visto che, dopo due anni di permanenza nella capitale, avevamo entrambi imparato relativamente bene il francese e, nelle nostre famiglie, oramai si parlava solo quella lingua.
In quei tempi, stava arrivando l'estate, e con lei la felicità del popolo.
Peccato che quest'ultima sarebbe stata brutalmente stroncata da lì a poco...

La mattina dell'11 giugno 1940, Parigi si svegliò normalmente, sotto un caldo sole tipico della tarda primavera.
Dopo la colazione, il mio primo pensiero era, come sempre, andare a giocare al parco con Ethan.
Io e lui aprimmo le porte delle nostre rispettive case nello stesso momento, e facemmo per scendere giù dalle scale:-Alt!-intimò mio padre, prendendoci entrambi per il collo della maglietta-Oggi non potete uscire!
-Perché?-piagnucolammo in coro io ed Ethan
-Siamo tutti in pericolo...-mormorò William, nel frattempo apparso sull'uscio di casa sua con la moglie
Ethan lo guardò in maniera spaventata e interrogativa al tempo stesso:-Che cosa vuol dire, papà?
-Il governatore ha dichiarato che Parigi è diventata città aperta-dichiarò Diana-I nazisti potrebbero giungere qui da un giorno all'altro...
-I nazisti?-ripetei io-Cosa sono?
-Meglio che tu non lo sappia, piccolo mio-disse mia madre, affranta, per poi ripetere-Meglio che tu non lo sappia...
Ad ogni modo fummo riportati in casa, e non ci fu permesso di uscire per i successivi 10 giorni, per sicurezza.
Tre giorni dopo, molti uomini armati, che parlavano una lingua incomprensibile alle nostre orecchie e portavano sui vestiti il simbolo di un'aquila, entrarono in città e, sulla Torre Eiffel, fecero sventolare una bandiera rossa, con al centro un cerchio bianco contenente un bizzarro simbolo nero, che all'epoca né io ne Ethan conoscevamo.
A dirla tutta, avrei preferito non averci mai avuto a che fare...

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Capitolo 3
*** Ultima notte a Parigi ***


Dal giorno dell'arrivo dei nazisti, la vita di noi ebrei parigini cambiò in peggio.
Tutti noi israeliti fummo costretti a portare un simbolo della nostra religione, la stella di Davide, sul nostro vestiario.
I tedeschi permisero però agli adulti di continuare il proprio lavoro e a noi bambini di iniziare o proseguire il nostro percorso scolastico, a differenza di quanto accadeva in Germania o in Italia nel medesimo periodo.
Io ed Ethan cominciammo quindi regolarmente le elementari nel settembre del 1940: eravamo abbastanza bravi a scuola (stazionavamo sull'8 di media) ed i professori apprezzavano molto noi ed i nostri interventi, ma non potevamo dire lo stesso di buona parte della gente di Parigi...
La fornaia del mio quartiere, ad esempio, da quando i tedeschi erano entrati a Parigi, affermava di voler vendere il suo pane (il migliore della città) solo a degli "ariani"...
Quando avevo sentito per la prima volta quest'ultima parola, avevo storto la bocca, quasi divertito, non sapendo cosa volesse dire.
Ma io ed Ethan scoprimmo a nostre spese il significato del vocabolo, e fummo costretti a chiedere al padre di un nostro compagno di classe cattolico di comprare ogni settimana il pane anche per noi, con i franchi che gli avremmo fornito al momento.
Per fortuna, egli era un brav'uomo, e non si fece troppi problemi, accettando di buon grado, ma noi ebrei rimanevamo sempre molto, troppo discriminati.
L'arrivo dell'estate era per me ed Ethan il momento migliore dell'anno, e non solo per il contemporaneo avvento delle vacanze...
Io ed il mio migliore amico, infatti, agli inizi di giugno del 1941, avevamo scoperto un piccolo torrente in un boschetto nei pressi di Parigi e, dopo molte occhiate dolci fatte ai nostri genitori, avevamo ottenuto il permesso di andarci da soli, in bicicletta: il ruscello era ben nascosto nella piccola foresta, per cui nessuno, ad eccezione di noi due e delle nostre famiglie, conosceva la sua posizione, e quindi eravamo del tutto esenti da insulti razzisti.
Il momento di entrare in acqua, inoltre, era un'autentica liberazione: togliendoci i nostri vestiti, ci liberavamo per almeno un'oretta e mezza di quella maledetta stella, che oramai stavamo iniziando ad odiare e che pesava moltissimo sul nostro cuore...
La stagione calda era quindi diventato sinonimo di libertà per me ed Ethan, ma presto questo diritto ci sarebbe stato negato...

Era la fine di novembre del 1943, e la neve aveva già imbiancato Parigi e buona parte della Francia occupata, ricordando ai bambini cristiani che non mancava troppo tempo al Natale.
Nonostante il gelo, la situazione in città era assai bollente: tra noi ebrei si respirava un clima di tensione, legato alla possibilità (estremamente alta) di una deportazione di massa nei lager.
Il ricordo del rastrellamento del Velodromo d'Inverno (avvenuto poco più un anno prima, il 16/17 luglio 1942), era ancora molto nitido nelle menti di tutti, e la paura di un nuovo rastrellamento si faceva sentire al massimo...
La sera del 28 novembre, in concomitanza con l'inizio della conferenza di Teheran, io ed Ethan, di ritorno di una battaglia a palle di neve contro i nostri (pochi) amici "ariani" durata tutto il pomeriggio, filammo nel bagno delle nostre rispettive case e ci facemmo una doccia: a voi, probabilmente, questo dettaglio non sembrerà importante, ma per me ed il mio migliore amico quella era l'ultima volta che la parola "doccia" stava a significare "getto d'acqua che si fa cadere sul corpo per pulizia"...
Cenammo regolarmente, poi, intorno alle 22:30, il telefono suonò e mio padre si bloccò di colpo, con un'espressione di terrore dipinta in viso.
Alzò la cornetta con le mani tremanti e disse:-Sì....Come?! Adesso?!...Quanto tempo abbiamo?...Ok...Grazie, Annette...Ciao...
Ripose la cornetta e mormorò:-Sono alle porte del quartiere...
Mia madre capì, riunì rapidamente alcune cose da mangiare e da bere, le mise in una grossa borsa e corse fuori dalla porta di casa, andando a bussare freneticamente alla porta dei Kane (il cognome di Ethan e dei suoi genitori), ripetendo più volte la frase che papà aveva mormorato poco prima.
Anche William e Diana appresero la situazione e misero insieme viveri.
Gli unici a non capire, manco a dirlo, eravamo io ed Ethan:-Sbrigatevi, bambini-ci incitò Diana-Dobbiamo correre nei sotterranei!
-Ma...-cominciò Ethan
-Andiamo nei sotterranei!-ripeté William-Il perché ve lo spieghiamo dopo...
Io corsi quindi rapidamente in casa, e presi il mio ormai celebre pallone: sapevo che solo tra le mie mani sarebbe stato al sicuro...
Scendemmo quindi nei sotterranei, e ci rinchiudemmo dentro alla cantina della famiglia Kane, che era a malapena sufficiente per contenere tutti noi sei.
Fu lì che io ed Ethan riuscimmo ad ottenere una spiegazione:-I tedeschi stanno rastrellando tutti gli ebrei di Clignancourt, ed arriveranno qui entro l'alba...-spiegò mio padre
-Dobbiamo impedire che ci prendano, per cui passeremo la notte qui...-aggiunse William
Io ed Ethan, quindi, ci stringemmo l'un l'altro, un po' per riscaldarci, un po' perché avevamo una paura incredibile di quanto stava per accadere:-Sembra di essere in un film...-mi sussurrò Ethan
-Già-concordai io-In un film dell'orrore, però...
Poi ci tirammo una coperta addosso, ed i nostri genitori ci imitarono: stavamo per passare la notte più lunga e brutta della nostra vita...

Gli adulti riuscirono a dormire un po', ma io ed Ethan non potemmo fare a meno di tenere gli occhi spalancati, con il terrore che qualche nazista bussasse alla porta, con l'intenzione di prelevarci.
Il nostro incubo si materializzò intorno alle 6:30 del mattino, quando un violento colpo di spranga ammaccò gravemente la porta d'acciaio della cantina.
In meno di mezz'ora, essa venne completamente danneggiata e scardinata: un uomo con la divisa delle SS si affacciò all'uscio, ci squadrò e, con un marcato accento teutonico, ghignò:-Bene, bene...Vi ho trofati, zporchi ebrei...
Il suo compagno, un collaborazionista francese, ci ordinò:-Uscite subito di qui!
Noi ubbidimmo, mansueti: il tentativo di nasconderci era fallito...
I due soldati ci condussero fuori dal palazzo, comunicandoci che potevamo portare con noi i nostri viveri.
Poi il francese notò il mio pallone:-Ti piace il calcio?-mi domandò
-Sì...-mormorai io
-Non potresti portare con te questo pallone...-commentò lui
Al solo pensiero mi vennero le lacrime agli occhi, ed il soldato collaborazionista, forse impietosito dai miei occhi lucidi, disse:-Ma per questa volta, posso fare un'eccezione...
Io sorrisi, anche se non ne avevo molta voglia, e l'uomo ci scortò presso una grande folla di ebrei: l'incubo stava per cominciare...

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