don't be shy, you are right

di miss potter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** body and soul ***
Capitolo 2: *** don't look at me, i'm a wreck ***
Capitolo 3: *** that's amore ***
Capitolo 4: *** anything you are is all I want ***
Capitolo 5: *** the essence of your love ***



Capitolo 1
*** body and soul ***


All’Istituto era calata puntuale l’atmosfera ovattata ed elettrica della sera, e la stessa aria frizzantina che si respira alle porte della notte, o di una tempesta, si poteva fiutare nell’ampia ma poco affollata sala delle armi assieme all’odore acre del sudore e quello dolciastro del legno verniciato di fresco. Le esclamazioni e gli incoraggiamenti dei due ragazzi in allenamento riecheggiavano al centro della palestra come un concerto di tuoni.

“Per quanto sia al corrente del mio devastante fascino, non sono una bambola di porcellana, Alec!” fu il commento sarcastico di Jace, esalato tra un breve risolino e un profondo sospiro che, volente o nolente, tradiva una leggera spossatezza. “Non ci stai neanche provando.”

Il ragazzo moro si corrucciò, appena offeso, mentre davvero si sforzava a tenere disteso a terra il suo parabatai sedendo sul suo grembo e bloccandogli le braccia muscolose sopra la testa bionda. Erano gli occhi di lui, tuttavia, a catturare maggiormente l’attenzione del più grande dei fratelli Lightwood; due topazi selvaggi lo squadravano dal basso con aria di sfida, dietro le aureole dorate di ciglia e sotto le sopracciglia costantemente corrugate. Se non fosse stato per il sogghigno da Stregatto che gli scopriva un canino, Alec avrebbe scommesso che Jace avesse intenzione di sfoderare da un momento all’altro il suo pugnale per infilzarlo.

Sospirò distogliendo lo sguardo, e lo lasciò andare. Si strofinò il dorso di una mano sulla fronte imperlata di sudore e dunque contro uno zigomo per celare il lieve rossore che imporporava le guance scarne dell’adolescente mentre si alzava da terra e si lisciava la maglietta stropicciata (che una volta doveva essere stata nera).

“Che idiota,” sussurrò Alec quasi tra sé, porgendogli però una mano per aiutarlo ad alzarsi e cercando di non indugiare troppo con i grandi occhi blu sul fisico scultoreo di quel biondino tutto pepe.

Jace rise di gusto al borbottio stizzito del cupo fratellastro, ed accettò il palmo caldo di lui balzando in piedi come una cavalletta.

“Quindi abbiamo finito per oggi?” domandò sfregandosi le mani, un pizzico di sincera aspettativa nella voce.

Alec afferrò l’asciugamano di Jace gettandoglielo in faccia in un gesto che profumava di goliardia prima di cingersi il collo col proprio. A malapena soppresse un sorriso quando il suo avversario brontolò per la scortesia.

“Corri dalla tua pel di carota, dongiovanni,” lo prese in giro il giovane Shadowhunter abbassando lo sguardo dove sembrò essersi sollevata una leggera nebbia di malinconia, tutto d’un tratto.

“Ehi! Si chiama Clary, lo sai. E ti proibisco di affibbiarle nomignoli,” esclamò bonariamente Jace puntando la propria bottiglietta d’acqua in direzione di Alec come se impugnasse la sua spada angelica. “E… grazie infinite. Volevo portarla a cena fuori, stasera.  E magari anche al cinema!”

Alec annuì, fingendo di essere anche solo vagamente interessato alle uscite romantiche di Jace. Insomma, su quella immensa cotta aveva messo una gigante pietra sopra… no? O forse, cose del genere richiedevano più di qualche settimana per essere smaltite, soprattutto se l’ebbrezza ti aveva accompagnato per anni indisturbata.

“Fico,” fu l’unico commento del moretto mentre si tamponava le tempie, un groviglio di sentimenti contrastanti e fastidiosi nello stomaco. “Divertitevi.”

Jace roteò gli occhi cerulei al soffitto abbassando le spalle e sgonfiando repentinamente il petto – Alec notò – ancora nudo.

“Cosa c’è che non va, fratello?” chiese affettuosamente, un tono questo che poco si conciliava con la natura essenzialmente impetuosa e collerica di Jace, il quale però, accanto ad Alec, sembrava ammorbidirsi come di solito ci si sforza di fare coi bambini.

Il ragazzo più alto gli indirizzò un’occhiata fintamente distratta nel disperato tentativo di apparire più indifferente possibile a quel piccolo interrogatorio. Dannata la sua odiosa incapacità a camuffare le emozioni, fonte di ogni dramma.

Fece spallucce.

“Proprio nulla, Jace,” gli sorrise pacato, e sperò con tutto cuore che il sangue che sentì irrorargli le guance venisse scambiato per i postumi di un allenamento che l’aveva lasciato effettivamente… accaldato. “Va’, sono sicuro che ti starà già aspettando.”

Per niente tratto in inganno da quella finta faccina angelica, che spesso celava un annichilimento dettato dal bene comune, Jace strinse le labbra sottili portandosi le mani sui fianchi squadrati. Ovviamente, era a conoscenza dei sentimenti di Alec per lui. La faccenda prima o poi era venuta a galla… anche se con la violenza di un geyser a pieno regime ed in piena faccia. L’unica cosa di cui Jace si pentiva era il fatto di non averne mai realmente discusso, con Alec. Insomma, sarebbe stata una fase che avrebbe superato alla grande, prima o poi. Jace era innamorato di Clary, e Alec… Beh, lui era suo fratello, anzi… erano parabatai, uniti da un rapporto più forte di qualsiasi legame di amicizia o di sangue. E certo, Alec era un bel ragazzo, leale e, anche se a suo modo, dolce. Ma amore… Ah, l’amore è un’altra cosa.

“Mm. Sicuro. Che programmi hai, tu?”

Alec scoppiò in una risata tutto meno che ilare.

“Avanti, non ho otto anni. Posso stare benissimo da solo senza il mio adorato fratellino per una sera!” esclamò ironico senza tuttavia ritornargli lo sguardo. “Sto ancora un po’ qui, ho solo bisogno di… distendere i muscoli.”

Leggi: prendere a cazzotti qualcosa che non sia la faccia lentigginosa di Clary.

Alec tossicchiò, amareggiato, rimproverandosi per aver anche solo pensato una cosa del genere.

“D’accordo, come vuoi…” sospirò Jace in un’alzata di spalle, tornando subito allegro. “Ma non stancarti troppo. Ti ho dato del filo da torcere stasera, o sbaglio?”

Piccole ma non proprio innocue saette parvero scaturire dagli occhi cobalto di Alec.

“… Sparisci.”

Prima che si mettesse male, o che si facesse troppo tardi, Jace agguantò il borsone della palestra senza miracolosamente ribattere, e in una risata cristallina salutò con la mano Alec trottando fuori dalla sala rivestita di specchi. Il Nephilim si ritrovò così solo, con la sola compagnia della sua immagine riflessa sulle quattro pareti della stanza che puzzava di unguento per il cuoio e ormoni.
Un silenzio di tomba gli piombò addosso come un pesante sacco di sabbia, e dovette piegare il collo e chiudere gli occhi qualche secondo prima di esalare un profondo respiro e riuscire a tornare concentrato. Ora si poteva udire solo il rumore leggero e regolare del suo respiro, dentro e fuori, dentro e fuori, e di qualche solitaria vertebra quando mise da parte l’asciugamano umido per distendere la schiena, torcerla appena a braccia sollevate, e dunque sciogliere i nodi della tensione accumulata.

Nell’amata solitudine della palestra deserta di sera, quando tutti erano ormai rientrati nelle loro stanze o usciti per godersi i rari momenti di libertà che la carriera concedeva, Alec si sentì finalmente libero. Libero di respirare appena più lentamente o di indugiare in una breve apnea; libero di muoversi a piacimento nello spazio; libero di fermarsi a tempo indeterminato, sedersi, stendersi; libero di emettere suoni, minuscoli gemiti di piacere quando i tendini allentavano la loro pressione sui nervi, e di non rendere conto a nessuno se non a se stesso. Avrebbe così tanto voluto gridare, urlare fino ad irritarsi la gola ed infrangere quegli enormi specchi sulla cui superficie lucente si contorceva la propria immagine.

Jace adorava guardarsi mentre si allenava, mentre Alec di solito era troppo impegnato ad osservare Jace invece di verificare la correttezza dei propri movimenti. E dunque gli parve di peccare di vanità quando si concesse una lunga occhiata sui lineamenti di un corpo slanciato, addestrato al combattimento, giovane ma dove già incombevano i segni delle battaglie a cui nessun ragazzo della sua età dovrebbe mai nemmeno assistere. Decine di sottili cicatrici color panna adornavano, assieme alle rune scure, la pelle delle sue braccia poderose, su cui passò delicatamente e distrattamente i palmi callosi delle mani cosparse di taglietti.

Serrò la mandibola con astio nei riguardi di quelle sue dita, riflettendo sul fatto che a nessuno sarebbe piaciuto esserne accarezzato… Non erano dita nate per amare. Solo per stringere armi, attaccare e distruggere. Che piacere avrebbero mai potuto regalare, mani del genere?

In un moto di collera, Alec si piantò le unghie poco curate sui bicipiti, graffiandone lentamente la cute fino ai gomiti nodosi. Linee rosse si aggiunsero alla carta geografica che era la sua pelle, e non perse nemmeno tempo a lamentarsene. Si sfilò rabbiosamente la t-shirt lasciandola cadere a terra come un serpente in muta, ansioso di abbandonare la vecchia corazza per dare il benvenuto alla sua rinnovata natura.

La pelle nuda del torso dello Shadowhunter rabbrividì al contatto con l’aria tiepida, e la preoccupazione che questo fosse il modo migliore per beccarsi una broncopolmonite finì per essere l’ultimo dei suoi pensieri. Si slacciò gli anfibi gettandoli in un angolo e restando a piedi scalzi sul parquet della palestra: il contatto tra la pianta dei piedi e il legno evocò nel ragazzo una sensazione di gioia quasi primitiva, e presto si rese conto di sentire l’urgente bisogno di muoversi.

Gli occhi di Alec si posarono, quindi, su un vecchio stereo posto su un tavolino anonimo accantonato in un angolo della sala, opaco di polvere ma ancora funzionante. Isabelle lo utilizzava per il riscaldamento, ogni tanto, quando non si allenava con Alec e Jace. Era un lusso che raramente gli Shadowhunter potevano concedersi, allenarsi da soli. C’era sempre qualche mossa o tattica nuova da apprendere, e in due o più si ottenevano sempre migliori risultati in minor tempo. Tutta la vita di un guerriero doveva essere dedicata all’efficienza, non c’era spazio per l’intimità. In ogni senso del termine.

Alec si avvicinò titubante all’apparecchio, non prima però di essersi attentamente guardato attorno, quasi timoroso che un occhio indiscreto lo stesse spiando. Si sarebbe rivelato quantomeno spiacevole.

Di musica ne sapeva quanto di ciglia finte. Non riusciva a ricordare l’ultima volta in cui aveva ascoltato una canzone che gli piacesse per davvero, poiché all’Istituto l’unica musica vagamente orecchiabile era generata da piccole casse nell’ufficio di Hodge – ex ufficio di Hodge – appassionato di Vivaldi. Poi c’era Jace, che quando veniva colpito da attacchi di noia particolarmente seri si dilettava a sbatacchiare il suo stilo sui tavoli d’acciaio della cucina al ritmo di qualche melodia groove anni Novanta. E puntualmente si guadagnava una sberla ben assestata sulla nuca da parte di un molto infastidito Alec.

Il ragazzo sospirò profondamente, accarezzando la copertina in plastica dell’unico cd appoggiato sullo sportellino dello stereo. Lo prese in mano, bilanciandolo sul palmo, e come se pesasse ottanta volte tanto lo aprì. Il disco non riportava alcuna etichetta, solo la firma di sua sorella a grandi lettere tonde a pennarello rosso.

“Forse non dovrei…” pensò sollevando il cd ed aprendo lo sportellino per infilarcelo dentro. “E se poi Izzy lo scopre e se la prende?”

Scosse la testa all’idea, parecchio stupida. Isabelle era abituata a condividere le sue cose coi fratelli, anche perché essendo l’unica femmina non aveva mai dovuto contendersi vestiti e trucchi con altri se non con sua madre.

Anche se… 

Alec si mordicchiò le labbra squadrando il tasto play con diffidenza, ma prima che potesse accorgersi di averlo davvero premuto la musica cominciò a risuonare incalzante per tutta la sala.

D’istinto ed arrossendo violentemente, Alec abbassò del tutto il volume; un paio di note appena più rigorose rispetto ai suoi parametri di musica l’avevano già lasciato col fiatone… Non osava pensare a cosa sarebbe successo se avesse girato al massimo quella piccola, insignificante rotella.

Aumentò appena il volume, sempre di più, fino a farlo tornare al livello di partenza, né troppo alto né troppo basso.

La musica lo avvolse nota dopo nota, una melodia moderna generata a computer, di quelle che si ascoltavano nelle discoteche di Brooklyn, a quelle emozionanti feste di centinaia di persone che avrebbero imbarazzato Alec a morte. Non era mai stato tipo da locali, lui, né da musica assordante o balli sfrenati; preferiva esprimersi nell’intimità di una stanza deserta, in un ambiente familiare e sicuro, dove potesse ascoltare i propri pensieri e lasciarsi completamente andare senza doversi guardare le spalle ogni momento da demoni assetati di sangue angelico o fate a caccia di un partner sessuale.

Tornò al centro della sala, un piede davanti all’altro, camminando senza fretta al ritmo sempre più invitante del motivo. La voce della cantante risuonò corposa e decisa, appena roca, sensuale e stuzzicante… ed Alec si ritrovò a trattenere il respiro, come guardando giù da una scogliera, colto di sorpresa dalla vertigine del momento.

Take a breath
Rest your head
Close your eyes
You are right


Quelle parole sembrarono accarezzare le orecchie di Alec come vere e proprie labbra appoggiate sui suoi lobi, labbra calde e leggermente umide, ammiccanti mentre lo invitavano a seguire le loro istruzioni.

Inspirò a fondo dalle narici per poi espirare lentamente dalla bocca mentre abbassava le palpebre e quindi il mento, allungando le ossa cervicali.

Un brivido incandescente gli attraversò la schiena nuda, dalla nuca fino al coccige oltre l’elastico dei pantaloni scuri da ginnastica, come due dita gentili ed esperte. E andava davvero tutto bene.

Just lay down
To my side
Do you feel my heat
On your skin?


Poté quasi avvertire le lacrime spingere dietro le palpebre chiuse a causa della folgorante sensazione di benessere che gli ardeva in corpo, riscaldando e stimolando quell’anima tormentata, prigioniera al suo interno.

Ad occhi chiusi, ormai sempre più immerso nel torpore sprigionato dalla canzone, cominciò pian piano ad osare: ondeggiò lentamente le anche, le ossa sporgenti del bacino a formare un otto sempre più ampio e profondo, le braccia, abbandonate lungo i fianchi, che si sollevarono appena, poi fin sopra il capo riccioluto. Il tutto senza aprire gli occhi sovrastati dalle folte sopracciglia corrugate in un’espressione di estasi crescente.

Take off your clothes
Blow out the fire
Don’t be so shy
You’re right
You’re right

Take off my clothes
Oh bless me Father
Don’t ask me why
You’re right
You’re right


Il riflesso di un timido sorriso assorto sorse spontaneo dalla solita penombra, caratteristica quasi costante del volto mesto del giovane, il quale ora sembrava indossare l’espressione beata di un ergastolano a cui è stata concessa una nuotata nell’oceano.

Lontano dal mondo, dai giudizi, dai pettegolezzi e soprattutto da ogni regola ed etichetta, Alec Lightwood ballava al centro della sala delle armi con la leggiadria e la soavità di una farfalla in una prigione, facendo vibrare le proprie ali fragili sul metallo arrugginito delle loro catene.

Si voltò, il viso rivolto al suolo in massima concentrazione, le labbra carnose e rosse di eccitamento appena schiuse, la linea sinuosa dei pettorali e dei muscoli dell’addome che si contraeva accompagnando in un movimento fluido la distensione delle cosce, delle spalle, delle braccia che come le spire di una medusa solitaria ondeggiavano sciolte, le mani giunte quasi in preghiera. Un rito pagano, era questo, distante mille miglia da qualsiasi forma di restrizione e compostezza che reprimevano Alec dalla pubertà.

Come sarebbe stato… toccarsi? Niente di particolarmente peccaminoso, solo… sfiorarsi? Ad esempio, come sarebbe stato far scorrere le dita, quelle falangi dure e impietose, lungo la linea altrettanto mascolina dei fianchi, lungo il costato infinito che gli avrebbe invidiato qualsiasi coetaneo e reclamato qualsiasi persona dotata di vista e un minimo di gusto? Come sarebbe stato farsi toccare?

Home I stay
I’m in, come in
Can you feel my hips
In your hands?

And I’m laying down
By your side
I taste the sweet
On your skin


Lasciò andare un gemito soffocato, del quale si pentì all’istante perché era forse la prima volta che si stava lasciando così andare, una mano dietro la nuca con le dita affondate nei boccoli sudati e l’altra sull’addome contratto.

Spalancò solo per un attimo gli occhi, arrossendo di botto quando scorse la propria immagine allo specchio, quella di una creatura tutta muscoli e vene in rilievo; gli sembrava di essere in presenza di un completo sconosciuto: le guance cremisi, i capelli sconvolti, gli occhi lucidi, il labbro inferiore maliziosamente stretto tra i denti… l’immagine di un lascivo Cupido pronto a scoccare la propria freccia, non certo quella di un accigliato dio della guerra.

Distolse lo sguardo da quel ragazzo così sfacciato che pareva strizzargli l’occhio da dietro la superficie vitrea della parete, e decise di dargli le spalle.
 

Chiudendo nuovamente gli occhi, cercò di ricordarsi le mosse di Isabelle quando ballava, quando sembrava che tutto quanto le venisse fuori così naturale tanto da fargli persino dubitare che fossero parenti. Quando danzava, così come quando combatteva, la ragazza era in grado di sfoderare la bellezza selvaggia e potenzialmente letale della vedova nera. Ad Alec, seduto da solo a braccia conserte in un angolo o di guardia all’entrata del locale, era capitato più di una volta di incantarsi ad osservarla muoversi con la grazia di una pantera a caccia; con un viso da bambola lambito dalle lunghe ciocche di capelli color ebano, ondeggiava i fianchi tondi accompagnando il ritmo di qualsiasi forma di musica, dalla più lenta alla più animata, adattandosi a qualsivoglia compagnia, ridendo e scherzando con chiunque, leggiadra. Sapeva tirare fuori il meglio da tutti, Isabelle, senza perdere mai la sagacia e l’astuzia indispensabili nel mestiere. E poi c’era Jace, che quando ballava pareva essere uscito direttamente da una copertina di Vogue. Perché Jace non danzava, lui sfilava, e faceva della discoteca, come del campo di battaglia, la sua passerella. Come Izzy, sapeva rivelarsi un’arma micidiale all’occorrenza, ma chi poteva rimanere indifferente a quella sua incantevole faccia d’angelo dannatamente sexy? Avrebbe scatenato una rissa nel bel mezzo di una tranquilla festicciola di quartiere pur di essere notato, risultato che di solito otteneva con un semplice sorriso sghembo e un occhiolino al momento e alla persona sbagliati.

Cercò di imitare i movimenti dei fratelli, l’imbarazzo che lo corrodeva da dentro come una larva dentro un frutto pronto a maturare, l’incapacità di allentare del tutto la presa sull’armatura quasi infrangibile che in diciotto anni di vita aveva imparato a costruirsi addosso...

In my heart dress
Raise so much faster
I draw myself in holy water
And both my eyes just got so much brighter
And I saw God, oh yeah, so much closer


La canzone cominciava ad entrare nel vivo ed Alec a rituffarsi dentro quel conturbante dialogo che questa stava sostenendo con ogni muscolo del suo corpo scavalcando l’autorità del cervello. Così, il giovane non si accorse del piccolo barlume violetto generatosi sulla porta della palestra che si dilatò fino a trasformarsi in un passaggio. Ad un tratto, ne sbucò, con la nonchalance di un ospite giornaliero non del tutto gradito, la luminosa figura di Magnus Bane, il quale accennò un paio di passi accompagnato da una fitta nuvola di glitter. Lasciatosi alle spalle il portale, arricciò il naso.

“Cielo, la camera da letto di Luigi XVI era più profuma— ”

Lo Stregone quasi non si strozzò con la sua stessa saliva.

Alec continuava a ballare vicino agli specchi come se nessuno lo stesse guardando; in fretta e furia, Magnus si nascose dietro una colonna, facendone capolino solo per continuare ad osservare il giovane di nascosto, sforzandosi a non sbavarsi sulla costosa giacca in seta color melanzana.

“Dio, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi i nostri addominali quotidiani…” commentò sottovoce, osservando l’adolescente ondeggiare suddetti a bocca aperta.

In the dark
I see your smile
Do you feel my heat
On my skin?


Ad un tratto, Alec sembrò acquistare coraggio e, accarezzandosi lascivamente le anche strette e flessuose, si inginocchiò a terra continuando a disegnare piccoli cerchi col bacino ed allo stesso tempo oscillando avanti e indietro, i palmi aperti sulle cosce.

Tale visione costrinse Magnus a piantare le unghie così accuratamente limate e smaltate nel cemento armato della colonna, fino a farsi male.

Take off your clothes
Blow out the fire
Don’t be so shy
You’re right
You’re right

Take off my clothes
Oh bless me Father
Don’t ask me why
You’re right
You’re right


“… e non indurci in tentazione, ma liberaci dai glutei sodi. Amen.”

Nel momento stesso in cui Alec cominciò a strusciarsi contro il pavimento e ad emettere piccoli gemiti di evidente liberazione da qualsivoglia freno inibitorio, lo Stregone di Brooklyn si costrinse ad uscire allo scoperto e tossicchiare elegantemente per non finire a masturbarsi dietro il muro come un tristissimo quindicenne davanti alla sua prima rivista pornografica.

“E-ehm!” esclamò godendosi la visuale mentre con l’andatura felpata di un felino affamato si accostava al guerriero inginocchiato sul pavimento.

Alec quasi non schizzò fuori dalla propria pelle.
 

 




Canzone: "Don't be so shy", Imany

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Capitolo 2
*** don't look at me, i'm a wreck ***


Senza nemmeno preoccuparsi di identificare l’intruso, Alec corse a spegnere la musica inciampando un paio di volte sui suoi stessi piedi prima di finire carponi davanti allo stereo e zittirlo con una manata sullo sportello, che si aprì in un lamento di ferraglie.

“Oh, Dio—” uggiolò scattando in piedi, otto tonalità di rosso diverse in faccia, e si mise alla disperata ricerca della maglietta per coprirsi.

Magnus ridacchiò dinnanzi a tale scena, le braccia conserte sul petto ampio.

“Oh, sì. Ogni due, trecento anni si convince a condividere con la Terra alcuni dei suoi angeli più interessanti, glielo devo riconoscere…” fu il commento del Nascosto, le labbra lucide di burro cacao all’albicocca piegate in un sogghigno più significativo di mille parole.

“Magnus!” Esclamò Alec avvolgendosi il petto nudo con la t-shirt, le mani troppo malferme per riuscire ad indossarla. Guardò lo Stregone – impeccabile, come sempre – come se questi gli avesse appena sparato. “Non ti ho… sentito entrare. Cosa… cosa ci fai qui?”

Magnus si avvicinò ulteriormente di un paio di passi, ora abbastanza prossimo al Nephilim per poterne odorare l’essenza: un fiore di pesco in boccio bagnato di rugiada… gioventù illibata, da uscirci pazzi.

Inspirò a pieni polmoni quel profumo che ora gli sembrava tanto gradevole quanto la vista che gli si presentava di fronte.

Alec fremette abbassando lo sguardo, come se potesse percepire il peso di quelle attenzioni su ogni centimetro del proprio corpo sudato di cui non andava fiero.

“Grazie al cielo, perché altrimenti avrei rischiato di perdermi un vero spettacolo. E mi ha invitato la tua deliziosa sorellina. Deve consegnarmi dei documenti, sai… noiose pratiche che in ogni caso non avrei mai letto nemmeno in altri ottocento anni di vita,” rispose evasivo esaminando piuttosto attentamente, invece, la curva armoniosa dei fianchi dello Shadowhunter. “Curioso come tu riesca a muoverti con tale grazia e… trasporto per essere un killer professionista, Alexander.”

“… Ed eccolo alla carica,” Alec pensò nel brevissimo accenno di riflessione razionale rimastogli nel constatare come non ci fosse una parte del suo corpo che non si sentisse terribilmente esposta sotto quello sguardo ferino. La sua lucentezza era stata sapientemente messa in risalto da una leggera ombra di trucco viola scuro sugli angoli esterni degli occhi dal particolarissimo taglio orientale.

Da qualche tempo, oramai, Magnus Bane stava esplicitando un particolare interesse nei confronti di Alec, e di tali attenzioni quest’ultimo non si sarebbe mai del tutto abituato, come anche del suo nome pronunciato per intero. Del suo nome per intero su quelle labbra, per essere precisi.

“Non sono un… killer,” contestò lo Shadowhunter, dandogli velocemente le spalle anche per celare quel rossore che non c’era verso di contenere. Tuttavia, così facendo, espose involontariamente le rune, disegnate da una mano esperta, lungo la linea flessuosa della spina dorsale e sul costato pallido. “Non ho mai ucciso.”

Ma lo Stregone era in un’altra dimensione, al momento. Si prese il suo tempo per indugiare il più a lungo possibile sulle scapole in rilievo del giovane angelo, e per un attimo si aspettò che da quelle ossa di una perfetta forma triangolare si dispiegasse un maestoso paio di ali.

In un altro paio di silenziosi passi, Magnus si ritrovò così vicino ad Alec che se avesse allungato un braccio avrebbe potuto facilmente sfiorargli le creste iliache.

“E da quando tale virtù si accompagna a tanto dispiacere?”

Alec rabbrividì, la coda dell’occhio ad allertarlo della prossimità dello Stregone, l’epidermide dell’insopportabile calore del suo respiro. Magnus profumava di sandalo e menta piperita, di carta antica e cannella.

“Magnus…” mormorò Alec, a mezza voce e tremando appena, ma non di freddo.

“Alexander, guardami.”

“Non—Non dirai a nessuno di… quello che hai visto stasera, mi sono spiegato?”

L’improvviso tono autoritario del giovane Nephilim, per una frazione di secondo, fece contare una intera schiera di costellazioni allo Stregone, che si mordicchiò un labbro sorridendo come una volpe in un pollaio mentre appoggiava i propri artigli gentili sulle spalle del ragazzo, che sussultò.

“Resterà il nostro piccolo segreto, tesoro,” disse con voce tranquilla, bassa, rassicurante. “Ma ora guardami. Voglio i tuoi meravigliosi occhi blu su di me.”

Per non peggiorare le sue condizioni, oramai disperate, e per non dare motivo a Magnus di avvicinarsi ulteriormente ed insistere, Alec ubbidì, fronteggiandolo. Magnus era leggermente più alto di lui, i tratti esotici e giovani di un ventenne sui cui occhi però pesavano secoli di storia e avventure ed esperienza. Era un tipo di sguardo, quello, di cui se ne vedono pochi in giro, col potere magnetico di catturarti e costringerti ad amare il tuo aguzzino per il resto della tua insignificante vita mortale, perché semplicemente non ti potrebbe capitare niente di meglio, non vorresti niente di meglio, nemmeno se vivessi per mille anni.

Alec stava già per abbassare gli occhi, sottomesso al proprio imbarazzo, prima che due dita ingioiellate poste sotto al suo mento accorressero in soccorso.

“Così…” soffiò Magnus praticamente sulle sue labbra, la testa appena inclinata. Un ciuffo magenta di capelli lucidi di gel gli scivolò sulla fronte ampia ed abbronzata, risparmiata da qualunque imperfezione tipica della gioventù, o ruga di espressione. “Il mio bellissimo Alexander.”

“M—Magnus, io non…” cominciò ad agitarsi Alec, irrigidendosi alla carezza e al complimento.

“Shh.”

Magnus allungò una mano sulla maglietta che le dita pietrificate di Alec ancora stringevano, per invitarlo a lasciare la presa. Ed Alec, di nuovo, si riscoprì incapace a resistergli, ogni neurone in cortocircuito.

“Non devi nascondere il tuo corpo. Non c’è niente di sbagliato nel suo aspetto o nel modo in cui si muove, in cui lo muovi quando pensi che non ci sia nessuno a guardare…”

La voce di Magnus vantava la musicalità del canto di un usignolo.

“Sì, ma tu non chiamarmi tesoro.”

Alec pensò anche, quando scontrò le proprie labbra con le sue e Magnus gemette appena colto alla sprovvista, che quel suono non poteva che provenire da una bocca con un sapore così buono.

Le labbra dei due giovani cominciarono a rincorrersi a perdifiato come due daini innamorati ed inebriati dal profumo della primavera, stagione promettente e ricca, gentile e feconda, in cui ogni cosa sembrava tornare possibile dopo il lungo inverno, secco ed impietoso. E tale si sentiva Magnus, dopo secoli di vuoto riempito da illusioni e facce insipide che avevano finito per causargli solo dolore dopo la caduca ed insignificante ebbrezza a cui gli immortali sono condannati. Con Alec, oh, con lui era diverso: nonostante l’eterna giovinezza, Magnus credeva di essere di nuovo capace di assaporare la vita nelle sue più cangianti sfumature, dove non un secondo eguagliasse il precedente, ed ogni suono e colore e sapore vibravano di novità. Era certo di aver trovato finalmente qualcuno con cui passare i suoi monotoni giorni, in cui tutto aveva perduto il senso e la noia s’era inesorabilmente sostituita al costante mutamento tipico di un’età che dimostrava da troppo tempo.

Circondò con entrambi i palmi il viso arrossato di Alec, ad occhi chiusi, definendone coi polpastrelli i tratti spigolosi, e gli sovvenne di tutte le statue di marmo perfette ed immuni al trascorrere del tempo che aveva ammirato nel corso della vita; Alec non era perfetto, però. Alec, sebbene fosse sangue angelico quello che scorreva nelle sue vene, portava con sé e su di sé i segni di un’esistenza vissuta intensamente, non sempre facile. La pelle del giovane Nephilim presentava alcuni difetti, piccoli nei o cicatrici sottili, che tuttavia gli donavano un aspetto peculiare che aveva il potere di stregare Magnus e costringerlo, troppo spesso, ad imbambolarsi nell’osservazione di quei dettagli ai suoi occhi così speciali.

“Bellissimo,” sussurrò a mezza voce tra un tenero bacio ed un morsetto accattivante, giusto per spolverare un pizzico di pepe su quel momento già di per sé eccitante.

Alec, paonazzo, scosse appena il capo, rituffandosi quasi frettolosamente nel bacio per evitare che il compagno notasse la sua esitazione di fronte all’ennesimo complimento.

Magnus non era certo tipo da farsi prendere per il naso, però.

“Shh, lo sei. Bellissimo,” ripeté una seconda, una terza, una quarta volta, e se si fosse reso necessario ne avrebbe fatto il proprio mantra finché non avesse convinto il timido guerriero a credergli. “E indecente, se posso osare…”
“Smettila,” quasi non si soffocò con la saliva, Alec, a quelle parole pronunciate con voce arrochita, interrompendo il contatto tra le loro labbra infatuate l’una del sapore dell’altra.

Nascose dunque il viso sopraffatto dalla vergogna nella curva sinuosa e calda del collo di Magnus prima di tornare a proferire verbo con la gola chiusa, i palmi delle mani premuti contro il petto di lui.

“Tu giochi sporco,” bofonchiò sulla stoffa morbida della camicia di Magnus, che ghignò su uno zigomo del ragazzo dai capelli color onice.

“Sono uno Stregone, ho i miei trucchi, gioia,” commentò sagace, e spostò le mani sulla schiena poderosa di Alec per riguadagnare lo spazio che questi aveva rubato loro in un moto di inspiegabile, adorabile imbarazzo. “Ma la cosa che adoro di più, sai qual è?”

Alec scosse la testa, incapace a ritornargli lo sguardo.

“È che sai essere… così, senza rendertene minimamente conto o impegnandoti, al contrario del pallone gonfiato che ti ritrovi come parabatai e di cui mi dimentico costantemente il nome.”

“Ehi… Jace è— molto sicuro di sé,” brontolò Alec corrucciandosi.

“A te non serve metterti in mostra come una bestia da circo. Tu sei… selvaggio, una creatura indomita che non ha bisogno di ruggire per farsi notare. E non hai la minima idea di cosa riesci a farmi, ad ispirarmi, semplicemente parlando o camminando, o quando sorridi tra te quando pensi che nessuno ti stia guardando.”

Parlava lentamente, Magnus, come se stesse recitando un antico poema epico dove ogni sillaba è preziosa.

Sfiorò a fior di labbra la curva di una delle guance di Alec, sempre più rosse.

“Non capisci cosa mi provocano le fossette che ti si generano qui, le rare, splendide volte in cui ridi, e quando poi arrossisci perché ti spaventa il suono della tua risata,” sussurrò, spostando quindi la bocca adorante sulla fronte del suo ragazzo. “La piccola ruga tra le sopracciglia quando sei assorto e schiudi appena le labbra in contemplazione del vuoto. In quei momenti, vorrei così tanto entrarti dentro per comprendere quali misteri si celano in te, Alexander…”

Alec tossicchiò, soggiogato da tale confessione e dalle parole scelte per essere infine sussurrata direttamente dentro il suo padiglione auricolare, così sensibile. Soprattutto quando le dita esperte di Magnus ora sembravano intenzionate a stanziarsi a tempo indeterminato sulla zona lombare della propria schiena nuda.

“Ma tu, per me,” continuò il ragazzo dai tratti orientali, “rimarrai sempre un mistero, non è vero? Perché sai meravigliarmi ogni giorno, senza sosta, ogni volta in maniera sorprendentemente unica. Sei meglio di qualsiasi alba, che ogni mattina sorge sempre nello stesso punto e puntuale illumina la Terra. Tu… no, tu mi cogli costantemente impreparato e—”

“Oh ma insomma, quanto parli?”

Alec decise di interromperlo una volta per tutte con l’ennesimo bacio a labbra aperte, carezzandolo giusto con un accenno di lingua, il che per Magnus risultò essere la sospirata conferma del suo discorso così brutalmente e piacevolmente interrotto.

Peccato che non passò molto tempo prima che l’incanto venisse nuovamente spezzato…

“Oh, per l’Angelo, ragazzi…”

Una voce femminile, squillante come una campana a festa e più briosa dell’aria pura di montagna, riecheggiò per tutta la palestra causando il quasi infarto di Alec ed un sospiro esasperato da parte di Magnus, il quale se ne allontanò di malavoglia.

Isabelle Lightwood li osservava incredula – ma non eccessivamente, e da quanto poi? – con una spalla appoggiata allo stipite della porta, in una mano un faldone di documenti dall’aria  impossibilmente noiosa e sul volto struccato ma vivace un’espressione di incancellabile giubilo.

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Capitolo 3
*** that's amore ***


“Izzy—Io non… Noi non…” tornò a balbettare il maggiore interrompendo ogni contatto con Magnus come se questi scottasse, gli occhi cerulei piantati su quelli color carbone della ragazza come a scusarsi per la propria condotta.

“Fratellone,” ridacchiò sommessamente la giovane accennando un paio di passi aggraziati verso i due ragazzi, i lembi della vestaglia in seta color avorio svolazzanti come ali d’angelo sui fianchi generosi. “Non pensare neanche lontanamente di poter sfuggire alle mie domande sulla tua interessantissima ispezione orale. Dopotutto, tengo alla tua salute.”

E con l’ennesimo risolino un po’ frivolo da sorella inorgoglita, Isabelle riuscì nel suo intento di fare arrossire Alec fino ai limiti dell’incredibile. Tutto sommato, Magnus non era l’unico ad apprezzare quel particolare tono di rosso sulle guance del giovane Shadowhunter, come anche il sorriso timido di quest’ultimo quando si rendeva conto dell’impossibilità di celare il misfatto.

“Mia cara, sempre così premurosa. Ti ringrazio,” sciorinò mieloso lo Stregone, allungando una mano dove Isabelle appoggiò il faldone.

La ragazza fece spallucce gettandosi con nonchalance dietro una spalla la chioma di folti capelli bruni legati in una morbida treccia. Anche in tenuta casalinga, Isabelle Lightwood era in grado di emanare un fascino tutto suo, come il profumo di un fiore raro ricoperto di spine.

La sua pelle, liscia e leggermente olivastra, profumava di gelsomino.

“Confido nella solita riservatezza, Stregone,” così dicendo gli fece l’occhiolino, in caso non fosse abbastanza chiaro che Magnus, per Izzy, era molto più che un Nascosto. Magnus era semplicemente la ragione per cui il suo adorato fratello non veniva più tormentato da incubi notturni, o per cui cantava sotto la doccia, o sorrideva assorto mentre giochicchiava col cibo a cena. E Isabelle gli sarebbe stata grata fino al suo ultimo respiro, per questo ed altro.
Lo Stregone di Brooklyn le restituì l’affetto.

“Ovviamente, angelo mio,” …beccandosi un’occhiata storta da Alec. “Ti ho mai delusa?”

“D’accordo, voi due…” interruppe il ragazzo dagli occhi color del cielo intrecciando le dita di una mano a quelle di Magnus, facendolo restare piacevolmente di sasso. “Iz, non dovresti essere a letto?”

Isabelle scoppiò a ridere.

“La notte è giovane, mio caro fratello. E io non ho più cinque anni…”

Oh. Alec avrebbe dovuto immaginarlo.

“Consiglierei il Versace in sangallo nero,” intervenne Magnus prontamente, vestendo i panni dello stilista di fiducia di Isabelle. “… E l’intimo verde petrolio.”

Magnus!” Alec esclamò indignato, occhieggiando il suo ragazzo come una pudica zitella illibata a cui è stata lanciata una provocazione carnale.

“Dici?” chiese Isabelle, per niente scossa, portandosi un indice alle labbra carnose e reclinando la testa. “Meliorn apprezza il nero su di me, effettivamente.”

“Oh, santo cielo… Io me ne vado.”

Tuttavia, Alec non fece a tempo ad avanzare di un passo che un braccio di Magnus già gli avvolgeva la vita, trattenendolo stretto al proprio fianco.

“Ciò significa che io e Alexander abbiamo ‘casa’ libera?” mormorò questi, assottigliando ancora di più gli occhi color dell’oro in un ghigno a cui Isabelle rispose arricciando maliziosamente il naso.

“Aspetta,” disse Alec. “Come fai a sapere che… oh, Isabelle.”

“Oh, Alec,” ridacchiò sua sorella, intenerita, arricciandosi una ciocca ribelle attorno ad un dito. “Avevo sentito – okay, ho origliato – che Jace aveva programmato un appuntamento con Clary per stasera, ed io ho dovuto dare buca a Meliorn già la settimana scorsa per quello stupido allenamento dove avete insistito a coinvolgermi. Non potevo rifiutare ancora, capisci?… Né esimermi dal proporre a Magnus una serata intima, solo voi due, qui.”

“Qui? Quando mamma e papà—”

Se mamma e papà lo verranno a sapere, volevi dire?” Incalzò quella peste che si ritrovava come parente.

Magnus le diede ragione con un’alzata di sopracciglia ed un cenno, dunque abbassò lo sguardo complice per rivolgerlo quasi implorante ad Alec, che ora si teneva la base del naso tra indice e medio.

“Prometto di fuggire allo scoccare della mezzanotte, mio principe…” Magnus gli baciò teneramente e a lungo uno zigomo.

Alec sussultò, e si morse l’interno di una guancia perché il destino non poteva essergli stato così ostile da porlo nella stessa stanza con le uniche due persone al mondo a cui gli era semplicemente impossibile negare qualcosa.

“… E va bene.”

Isabelle applaudì saltellando sul posto, mentre Magnus gli sorrise più apertamente sul collo lasciandoci poi un altro bacio umido.

“Ma— ho delle condizioni.”

“Oh, che noia che sei. Sentiamole…” sospirò la ragazza, le mani sui fianchi.

“Tu,” la indicò, le sopracciglia corrugate, “non fare niente che non farei io.”

A quel punto, dopo un paio di secondi di silenzio tombale, Isabelle e Magnus scoppiarono a ridere in sincrono.

“Con tutto il rispetto, ritengo che per quello sia già tardi, tesoro mio…” si intromise Magnus mordendosi il labbro inferiore per imporsi di smetterla di sghignazzare, guadagnandosi una gomitata nelle costole dal suo ragazzo.

“Dico davvero, Izzy. Niente drink delle fate, niente vol au vent delle fate, niente… giochetti delle fate. Sono stato chiaro?”

“Cristallino, guastafeste che non sei altro!” esclamò Izzy sopprimendo invano un ghigno birichino, ma già gli dava le spalle facendo svolazzare una mano a mo’ di saluto. “Io e Meliorn ci guarderemo negli occhi tutta la serata recitandoci poesie di Pablo Neruda sorseggiando due tisane senza zucchero.”

Alec già stava per replicare a quell’evidente provocazione, se non fosse stato per quel braccio ancora solidamente arpionato alle sue anche. Isabelle, con una risata zuccherina, li lasciò soli.

“E cosa hai da dire per me, mm?” mormorò quella dannata voce comparabile alle fusa di un dannato gatto nel suo dannato orecchio.

“Tu… beh— Tu dormirai sulla poltrona,” fu la decisamente poco pronta replica di Alec, di nuovo paonazzo.

“Ah, quindi mi permetti di restare per la notte!” esclamò Magnus, facendo scomparire l’impiccio cartaceo che gli occupava una mano con un sonoro schiocco delle dita. Finalmente poté tornare ad accarezzargli con entrambi i palmi la curva mascolina della mandibola.

Alec sentì lo stomaco sprofondargli nelle viscere.
“Non ho detto que— ehm, forse.”

“Sul mio nome e soprattutto sul sentimento di profondo rispetto ed affetto che provo nei tuoi confronti, prometto di non agire in contrasto al tuo onore e alla tua sensibilità.”

Ora pure la stanza aveva cominciato a girare assieme alla sua testa.

“Oh.”

Magnus sorrise teneramente prima di lasciargli l’ennesimo bacio a tradimento tra mandibola e gola e dunque allontanarsi da un Alec visibilmente scosso.

Lo Stregone si sfregò i palmi indossando un’espressione che non prometteva nulla di buono e dirigendosi a grandi passi verso il corridoio che conduceva in cucina.

“Sarai affamato. Che ne pensi se ti preparo qualcosa di speciale mentre ti dai una rinfrescata?”

Alec sospirò sollevato; dopotutto, Magnus pareva essersi deciso ad allentare un po’ la presa sui propri nervi.

“Penso che… sia okay, grazie,” disse il giovane guerriero stringendosi nelle spalle.

Magnus gli regalò un sorriso allegro prima di strizzargli l’occhio e sparire oltre la porta socchiusa della palestra nel fruscio della sua pregiata camicia di seta.

Alec fece appena in tempo a riacciuffare tutte le sue cose sparse praticamente ovunque per la stanza e correre nel piccolo bagno degli spogliatoi dove si lasciò andare ad una imprecazione a denti e pugni stretti: ma che immenso cretino. Non solo Magnus lo aveva visto mentre, beh… mentre ballava a quella maniera così inopportuna. Adesso al più grande dei fratelli Lightwood stava risultando difficile, se non impossibile, persino guardarsi in faccia.

La smorfia di profondo imbarazzo e costernazione dipinta sul proprio volto lo fissava infame dal minuscolo specchio quadrato appeso sopra a uno dei lavandini… e il ragazzo soppresse il desiderio di sputarsi addosso. Dov’era finito il giovanotto provocante e sicuro di sé di neanche qualche minuto prima, spigliato e irriverente?

“Dannazione…” mugolò sottovoce, affondando tutte e dieci le dita nei capelli scuri, selvaggi, umidi di sudore, sforzandosi invano di appiattirli lungo la linea dello scalpo. Sospirò ancora, inorridito nei confronti della propria immagine riflessa, e distolse frettolosamente lo sguardo sopprimendo a malapena un moto di pianto.

Il getto d’acqua tiepida della doccia striminzita dello spogliatoio agì da calmante sui nervi a fior di pelle di Alec, che con abbondante olio di gomito aveva usato la spugna abrasiva per grattare via ogni traccia di sudore con rabbiosa forza, come se assieme alla sporcizia e alla fatica della giornata di allenamenti potesse cancellare anche quell’opprimente senso di vergogna.

Uscì dal bagno con attorno alla vita un asciugamano di cotone grigio ed i capelli bagnati. Buttatosi addosso la prima maglietta nera a mezze maniche ed un paio di pantaloncini corti fino al ginocchio, a passi cauti raggiunse la cucina da cui proveniva un insolito ma piacevole odore di spezie.

“Ah, Alexander. Bentornato,” trillò la voce calda e affettuosa di Magnus, i cui fianchi stretti erano sapientemente stati fasciati da un grembiule da cuoco.

“Ciao…” disse quasi tra sé Alec, osservando il ragazzo dai capelli screziati e la carnagione color cannella intento a destreggiarsi tra pentole e padelle sui fornelli. “Cosa cucini di buono?”

Magnus si voltò velocemente per rivolgergli un sorriso enigmatico, che sembrava anticipare chissà quali prodezze, prima di tornare a mescolare lentamente quella che doveva essere una sorta di salsa all’interno di un pentolino di rame.

“È una sorpresa, mio caro. Prometto di non deluderti.”

‘E come potresti?’ pensò Alec concedendosi un sorriso sotto i baffi mentre prendeva posto al tavolo già apparecchiato. Gli occhi limpidi e cerulei come il cielo d’estate del ragazzo non si scollarono un attimo dal profilo del sommo Stregone al lavoro.

Appoggiò il mento al palmo di una mano, il gomito vicino al proprio piatto, come incantato.

“Il profumo è ottimo,” commentò ad alta voce, sforzandosi di complimentarsi almeno una volta al posto di Magnus. “Di solito siamo costretti ad arrangiarci con le zuppe di Izzy, quando nostra madre non c’è. Sanno tutte incredibilmente di pollo, ma si dice che anche le cavallette sappiano di pollo…”

Ora, l’effetto collaterale di un Alec che tentava di fare conversazione per non pensare a quanto fosse socialmente imbarazzante sfociava di solito nel suo rendersi ancor più sconveniente, ad esempio cominciando a blaterare a macchinetta come in quel momento.

Il giovane Shadowhunter arrossì, rendendosene improvvisamente conto, ma Magnus ridacchiò affettuosamente.

“Isabelle, Isabelle…” scosse il capo, un ciuffo di capelli colorato gli ricadde sulla fronte alta. “Ti vuole molto bene, sai?”

Le sopracciglia di Alec si corrugarono a quel cambio repentino di argomento.

“Immagino di sì,” mormorò, come perso nella matassa dei propri pensieri. “Si preoccupa sempre… troppo.”

“Oh, tu no?”

“Sì, ma… è diverso,” ribatté Alec, giochicchiando col lembo della tovaglia a scacchi. “Lei è più piccola, ma già così… libera, ribelle.”

C’era della malinconia, invidia, piuttosto che preoccupazione, nel tono roco di Alec, e Magnus si voltò nuovamente verso di lui, un sopracciglio sollevato, mentre con cautela toglieva la pentola dal fuoco.

“Sa badare a se stessa. Ha più grinta e coraggio lei nel proprio dito mignolo che tanti Shadowhunter in tutta una vita,” commentò distrattamente lo Stregone, aggiungendo un pizzico di sale al suo preparato.

“Oh, perché di Shadowhunter tu sei un esperto, mm?”

Tale frecciatina, sibilata dal giovane Nephilim in un ghigno appena abbozzato, produsse una fragorosa risata in Magnus che gli restituì, al posto di una replica, l’ennesimo occhiolino.

A quel punto, Alec rimase in silenzio, osservandolo sovrappensiero mentre versava gli spaghetti nello scolapasta e poi il tutto di nuovo nella padella assieme al sugo che vi borbottava allegramente. Lo Stregone cominciò a far saltare la pasta con l’abilità di uno chef professionista.

Alec, incuriosito, si sporse appena in avanti, facendo leva sui gomiti.

“Non… ti saresti dovuto disturbare, comunque. Avremmo potuto ordinare qualcosa al take-away,” disse, poco sincero.
Magnus si corrucciò bonariamente, indirizzando al suo ragazzo un’espressione di amorevole biasimo.

“Non permetterò che il mio angelo mangi da asporto praticamente tutte le sere. E poi… farebbero la fila in molti per poter vantare un ragazzo che ti prepara una cena speciale con una ricetta così antica come questa qui, signorino.”

E detto ciò, con un pizzico di orgoglio, gli presentò davanti una scodella piena quasi fino all’orlo di succulenta pasta rossa, il profumo invitante del sugo che stuzzicava le narici di Alec, già con l’acquolina in bocca.

“Wow. Dove hai imparato?”

Armato di mestolo e forchettone, Magnus rise leggero mentre cominciava a servire il compagno con una abbondante porzione di pasta.

“Ricetta di una adorabile signora di Roma. Doveva essere… il 1933. Che estate indimenticabile… anche se piuttosto cocente. L’aiutai a ottenere un lasciapassare per la Svizzera ai tempi del regime fascista.”

Alec assottigliò lo sguardo, la forchetta sospesa a mezz’aria neanche fosse un pugnale avvelenato.

“… E no. Non ci sono andato a letto,” soggiunse Magnus roteando gli occhi, come leggendo i pensieri del suo sospettoso Shadowhunter, non ancora del tutto convinto.

“Mm,” mugugnò questi, attendendo che Magnus lo raggiungesse prima di portarsi una buona forchettata di pasta alla bocca. “Dio, è…”

“Troppo salata?” chiese Magnus girando abilmente la forchetta nel proprio piatto, una punta di timore nel tono di voce.

“Perfetta.”

Compiaciuto, Magnus schioccò le dita e dal nulla apparve sul tavolo, vicino ai piatti, una bottiglia di vino rosso e due calici di cristallo.

Alec sorrise masticando, ormai assuefatto dai trucchi di magia del compagno.

“Addirittura?”

“Questo ed altro per il mio Alexander,” rispose semplicemente Magnus stappando la bottiglia e versandone un dito dentro al bicchiere di Alec, quindi nel proprio. “Assaggia.”

Alec si portò alle labbra appena sporche sugo il calice e, con simulata aria da intenditore, assaporò la bevanda di un profondo color bordeaux.

“Niente male…”

“Ah, niente male eccome…” lo imitò Magnus, annusando delicatamente il vino prima di sorseggiarlo e gustandolo a lungo. “Che annata feconda, il ’99.”

Alec sollevò un sopracciglio appoggiando il bicchiere sul tavolo.

“… 1899. Parigi, l’estate dell’amore.”

“Oh, Mags.”


La cena si prolungò per un paio di incantevoli ore insaporite dai racconti delle mirabolanti avventure attorno al globo di Magnus, delle risate cristalline di entrambi, dei loro sorrisi nascosti dietro ai sempre più facili bicchieri di vino francese, e dei sospiri innamorati di Alec mentre lo Stregone, con il suo usuale tono spigliato, commentava le richieste più folli dei clienti.

Si era fatta quasi mezzanotte quando gli occhi di Alec si posarono casualmente sull’orologio a muro appeso in cucina: era davvero trascorso tutto quel tempo?

“Magnus?”

“Sì, dolcezza?” rispose questi mentre sparecchiava, particolarmente soddisfatto del proprio operato.

Alec sorrise scoprendo i denti, le guance rosse per il vino e sicuramente non solo per quello.

“Ti va di… vedere la mia camera?”

Ma che… Okay, era suonata decisamente meglio nella sua testa. Se possibile, il ragazzo dagli occhi blu arrossì ancora di più.

Magnus appoggiò ogni cosa che teneva in mano sulla prima superficie orizzontale disponibile per voltarsi a fronteggiarlo. Si slacciò il grembiule, gettandolo sul lavandino con davvero poco riguardo.

“Mi va di vedere la tua camera, sissignore.”

Alec rise basso, alzandosi da tavola con la testa che gli girava appena. E davvero, non poteva aver bevuto così tanto vino… Doveva essere decisamente qualcos’altro.

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Capitolo 4
*** anything you are is all I want ***


Prese per mano Magnus e, quasi con passo solenne, lo condusse davanti alla porta di camera sua.
Si mordicchiò il labbro inferiore, una mano sulla maniglia di ottone opaco.

“Non è… niente di che. Solo—”

Ma lo Stregone di Brooklyn non gli permise di concludere la frase perché le sue labbra si erano già spostate su quelle del ragazzo appena più basso, la mano morbida e calda del Nascosto su una guancia rovente del Nephilim.

“Fammi vedere, e basta,” sussurrò Magnus sulle labbra di quest’ultimo.

Alec, senza parole né energia per ribattere, aprì la porta con le dita malferme della mano che non stringeva quella di Magnus. La sua camera da letto si presentava tanto spoglia quasi quanto una cella, un letto a una piazza e mezza era addossato su di un lato al muro bianco vicino ad una piccola finestra, poi un comodino con sopra un libro ed una abatjour, una poltroncina di pelle nera lisa, un armadio di ferro graffiato, ed infine una minuscola scrivania cosparsa di fogli bianchi, qualche arma e dei vestiti lasciati sullo schienale della seggiola: un vero carcere per i gusti più sopraffini e meno minimali di Magnus.

“Mi piace,” esordì, nonostante il naso arricciato.

Alec rise malinconico, appoggiando imbarazzato la fronte su una spalla poderosa di lui.

“La detesto anche io. Mamma non mi ha mai permesso di avere… poster, dischi, tanti libri come in qualsiasi stanza di un normale adolescente. Isabelle ha il permesso di tenere quella montagna di vestiti e trucchi in camera sua solo perché è una femmina, ne sono sicuro.”

Ed eccola di nuovo all’attacco, quella nota di soffusa invidia fraterna, che però non sfuggì a Magnus.

“Beh, vedila così. Più spazio di manovra.”

Ed ovviamente tale commento gli fece guadagnare il più che prevedibile scappellotto sul petto da parte di un sempre più disagiato Alec.

Magnus venne accompagnato all’interno della stanza e fatto sedere sul materasso sottile del letto rivestito da ruvide lenzuola bianche. Alec si chiuse la porta alle spalle, raggiungendolo subito dopo con gli occhi piantati sul pavimento in linoleum.

“Senti…”

Magnus lo osservava rilassato, decisamente tutto l’opposto di Alec, al contrario incapace a distogliere lo sguardo dalle unghie dei propri piedi scalzi. Anche questi presentavano diverse cicatrici, ad esempio quella di quando, in seguito ad una caduta durante un allenamento, si era rotto l’alluce a quindici anni.

Chiuse gli occhi, le mani strette a pugno sul grembo.

“Ti… devo essere sembrato maleducato, prima. Mi dispiace.”

Lo Stregone aggrottò le sopracciglia.

“Di cosa stai parlando?”

Alec si morse un labbro.

“Quando… sei comparso dal nulla sorprendendomi a… ballare. Ti ho ordinato di non parlare con nessuno di quello che avevi visto. Mi rendo conto di essere stato scortese. Mi dis—”

“Oh, Alexander…”

Magnus allungò entrambe le mani su quelle contratte del suo ragazzo, che in tutta risposta finalmente sollevò lo sguardo, confuso. Gli occhi felini del Nascosto brillavano di empatia.

“Non ti rendi conto che passi la maggior parte del tuo tempo a scusarti? E anche quando non lo fai a parole, te lo si legge nello sguardo. Sembri… terribilmente mortificato per qualsiasi cosa tu possa fare, o essere.”

Alec aprì le labbra per parlare, e si stupì quando da esse non riuscì a farne uscire nessun suono. Le serrò nuovamente, scegliendo di guardare l’intreccio delle loro dita dove il contrasto tra le due diverse carnagioni gli fece sorridere l’anima.

“Forse perché lo sono,” rispose dopo svariati secondi di silenzio.

“Come ti ho già ripetuto, non ne hai alcun motivo,” disse Magnus rafforzando la stretta. “Ti osservo, Alec. Ti osservo sempre. E… non prendermi per uno stalker, ma non posso fare a meno di notare il cambiamento nel tuo atteggiamento a seconda di chi ti sta di fronte.”

Lo Shadowhunter ascoltava con attenzione le parole del compagno, grato che questi avesse preso in mano le redini del discorso capendolo al volo, grato di non doversi spiegare oltre, di non vedersi costretto a mettersi a nudo più di quanto già si sentisse.

“Vedo come guardi Jace.”

Alec sollevò repentinamente lo sguardo, un’ombra di panico in esso.

“Magnus, non…”

“Lo so. Lo so che l’hai superata, quella fase,” gli sorrise sincero Magnus. “Tuttavia, non puoi negare che ti attragga ancora, nel suo… modo d’essere quello che è. E lo stesso con Isabelle. Quando combattono così come quando danzano, o sorridono o semplicemente parlano. Provi invidia nei loro confronti.”

Un pesante sospiro lasciò i polmoni di Alec, che a quel punto ritenne improduttivo e sciocco dissentire. Jace ed Isabelle erano sempre stati i cocchi dell’Istituto, sebbene poco più giovani di Alec. E Alec non era mai stato capace di ignorare gli sguardi di sottile delusione e rimprovero da parte dei suoi genitori quando non riusciva a rispecchiare i canoni e a colmare le aspettative. Sarebbe stato a capo dell’Istituto, un giorno, ed erano questi la sua vita, il suo destino. Avrebbe sposato una Shadowhunter, dato vita a una nuova famiglia. Sarebbe morto in battaglia, la sua persona sarebbe stata ricoperta di ogni onore e le sue ceneri si sarebbero mescolate a quelle dei suoi antenati. Avrebbe portato gloria e rispetto al nome Lightwood. Ma quando Robert e Maryse sorridevano in quel loro modo freddo di sorridere a Jace ed Isabelle, poteva percepire il peso della colpa che sapeva di portarsi addosso come un flagello, la colpa di essere diverso e goffo e insicuro. Immeritevole delle sue rune e del suo nome. Alexander, il protettore. Quando non si era mai sentito così tanto bisognoso di essere protetto, una volta ogni tanto.

“Quando mi guardo allo specchio,” cominciò, a voce bassa e malferma, “vedo una macchina da guerra, disegnata e costruita per massacrare e… ed essere forte, resistente, efficiente. Non riesco a vedere altro oltre questa pelle rovinata, oltre le rune senza le quali probabilmente non sarei nessuno. Non… ho la grazia di Jace, non possiedo il coraggio di Isabelle, e a volte—” e qui la voce si incrinò una volta per tutte, costringendo il ragazzo a guardare il soffitto per arrestare le lacrime. “Invidio persino mio fratello Max, per non esserci più, per non aver dovuto subire la crudeltà che lo aspettava al di là della propria infanzia.”

Magnus serrò la mascella. Non gli piaceva la piega che stava prendendo questo discorso, ma non lo interruppe.

“Non ha mai saputo cosa vuol dire dilaniarsi dentro, rinunciare a una parte di sé pur di appagare le speranze di chi tiene la tua intera carriera, la tua sola vita mortale tra le mani. Non ha mai dovuto incrociare gli sguardi di sospetto, di disgusto talvolta per i corridoi di questa dannata prigione, o i sorrisi falsi di circostanza. E io… ci ho provato, Magnus. Ci ho provato, e ho lottato, mi sono sforzato a…” un altro sospiro soffocato tra cuore e gola, “a guardare le ragazze. A parlare con loro, a… rispondere ai loro sorrisi, a… toccarle. Io non—”

Al che Magnus abbassò lo sguardo, come scottato dall’immagine del suo dolce Alexander così provato da una sofferenza con cui doveva avere a che fare ogni giorno. Era come guardare il sole, una stella avvolta nelle fiamme.

“Alexander, basta così…”

“No, io…” insistette il giovane, le guance segnate dai pesanti solchi delle lacrime, le mani grandi ma fragili, tremanti tra quelle di Magnus. “Io davvero mi sono impegnato, come fosse una parte di un allenamento, un dovere verso la mia specie, verso la mia famiglia. Una volta… c’era questa ragazza, Sylvia, che mi avevano presentato i miei genitori ad una festa. Indossava un vestito di pizzo bianco, che le ricadeva morbido sulle spalle e corto intorno alle ginocchia. Era bellissima. Bellissima.”

Magnus strinse le labbra assottigliandole in una linea tagliente, come se il pugnale che stava trafiggendo il petto di Alec avesse ferito anche lui.

“Ma mi resi conto che non stavo guardando lei, che non desideravo lei, Sylvia. Mi resi conto che… volevo solo allungare le dita su quel vestito bianco. Desideravo catturarne la leggerezza, provare a pensare a come mi sarei sentito io se… se solo—”

Al primo vero singhiozzo da parte di Alec, Magnus si voltò a fronteggiarlo, il viso a pochi centimetri dal volto sconquassato dalla vergogna del compagno.

Era sicuro – sperava – che da qualche parte ci fosse una pena abbastanza equa per chi facesse soffrire creature tanto belle e delicate come Alexander Lightwood. Se non su questa Terra, almeno all’Inferno.

“Alexander, guardami.”

Il ragazzo aveva perso la facoltà di proferire parola, ridotto a un ammasso di singulti incontrollabili e grosse lacrime ad inondargli le acquamarine incastonate nelle sue orbite. Alec guardò lo Stregone come un naufrago sull’unica scialuppa alla deriva in una tempesta in mezzo all’oceano guarderebbe una lingua di terra.

“Non c’è niente, assolutamente niente per cui tu ti debba vergognare, mi hai capito bene? Niente,” sibilò nervosamente lo Stregone, le dita ingioiellate intrecciate a quelle più spesse e callose, malferme dello Shadowhunter.

Questi strizzò le palpebre da cui colavano in piccoli rivoli le lacrime che ormai non aveva più senso cercare di arginare.

“Tu dici che invidio i miei fratelli perché non hanno paura di esprimere se stessi. Io li invidio perché non hanno alcun motivo per cui non farlo. Jace è l’incarnazione della mascolinità, fuggirebbe solo dinnanzi ad un indumento di colore rosa; Isabelle è… la bambola di casa, una bambola che può permettersi di tutto a parte il non essere notata. Non fanno scalpore le ali dell’eye-liner sui suoi occhi, o l’ombra del rossetto sulle sue labbra. Perché… è normale, è ovvio che una ragazza si trucchi, desideri indossare bei vestiti, come che un ragazzo non voglia altro dalla vita che l’ennesimo pugnale o set frecce di nuovo design per il suo compleanno. È… come se fosse scritto nelle stelle, che così debba essere.”

Magnus si limitò ad un pesante sospiro che tradiva anni, secoli di sopportazione della filosofia della “specie” a cui apparteneva Alec, il quale stava appena cominciando a rendersi conto di quanto fosse profondamente sbagliata e malata. Nessuna novità per l’immortale, una solfa  di cui si era stancato persino di indignarsi, oramai.

Prima di tornare a parlare, Magnus appoggiò la bocca contratta sulla linea della mascella umida di lacrime di Alec, in un bacio che poteva vantare la leggerezza di una farfalla.

“Alexander, dì soltanto una parola e ti porto via di qui.”

Il ragazzo socchiuse gli occhi, seguendo con un minimo movimento del collo quella carezza intima, andandole incontro, lo sguardo fisso nel vuoto dinnanzi a sé.

“Via dove?” Chiese.

“Via,” sussurrò Magnus lambendo con le labbra il mento del compagno. “Budapest, Los Angeles, Adelaide, Palermo… il mio loft.”

Se non fosse stato che un opprimente dolore lo stava strangolando, Alec ne avrebbe riso, di quell’invito. Invece, si limitò a sorridere amaramente, la vista offuscata da un pianto ridotto al silenzio.

“Magnus…”

“Vieni con me,” insistette lo Stregone, e finalmente il viaggio delle sue labbra trovò porto sicuro sulla bocca bagnata e corrugata in una smorfia di sofferenza del ragazzo dai tristi occhi blu. “Ti mostro la mia collezione di ombretti.”

Nonostante il groppo alla gola, questa volta Alec ridacchiò, genuinamente divertito dal disperato tentativo di Magnus di spolverare ilarità laddove non ci sarebbe stato spazio nemmeno per un nuvoloso sorriso. E quello di Magnus, posato sulle labbra distese del suo ragazzo, era il sole.

“Il mio scemissimo Stregone.”

Alec gli circondò le spalle con entrambe le braccia, spingendoselo addosso prima di accendere la miccia di uno di quei baci che ubriacano più di un falò estivo sulla spiaggia, il sapore di sale e alcol sulla lingua, il canto del mare dentro le orecchie, la notte stellata dietro le palpebre.

Magnus non poté che assecondarlo: gli assalì la bocca in un bacio assetato che avrebbe placato l’arsura delle parole che nemmeno in un altro secolo di vita avrebbe trovato per convincere Alec della sua sfolgorante bellezza. Come descrivere la sabbia ad un cieco? Non può capire che cos’è finché non gli si permette di affondarci le dita dentro.

“Alexander…” mugolò Magnus, mordicchiandogli l’arco di Cupido, il glamour nei propri occhi che lentamente calava. Alec si separò da lui solo per non perdersi lo spettacolo delle sue pupille che si assottigliavano. “Ti amo per quello che sei, e ti amerei anche se domani decidessi di indossare solo… gli orrendi tubini di tua madre, o continuassi a metterti magliette scolorite e jeans strappati. Ti amerei anche se mi rubassi i lucidalabbra, se ti tingessi capelli di verde, o se volessi bucarti le orecchie. Non capisci che ti amerei da morire che tu rimanga uguale a come sei ora o che tu voglia portare le scarpe di tua sorella?”

A quel punto, Alec abbassò lo sguardo, troppo imbarazzato, nonostante fosse appena più a proprio agio solo per il fatto di starne discutendo con la persona più importante della sua vita. Che poi, cosa aveva appena detto? Lo amava?

“Io amo il tuo corpo,” continuò Magnus portando due dita sotto il mento di lui, avvertendo il suo stupore. “Ogni… sua particolarità. Voglio conoscere ogni suo segreto, voglio memorizzare ogni costellazione di nei e cicatrici, intendo apporre segni miei su questa pelle…”

Il più giovane rabbrividì quando l’altra mano di Magnus si insinuò sotto l’orlo della sua maglietta, sfiorandone la porzione del fianco spigoloso e dunque la linea dura del costato. Troppo dura. Non come quella morbida e sensuale di Isabelle.

“Magnus… io—” balbettò lo Shadowhunter, la gola improvvisamente secca, le mani arpionate alla camicia setosa dello Stregone di Brooklyn.

“Cosa vuoi, Alexander? Qualsiasi cosa, io posso dartela.”

E all’improvviso, lo sguardo di Alec venne attirato da una piccola fiamma cobalto che cominciò ad ardere tra le dita del compagno, quelle stesse dita sepolte sotto la stoffa ruvida della propria t-shirt nera, rilucendo sotto di essa.

Gli si strinse lo stomaco.

“No,” disse deciso afferrando la mano dello Stregone e tornando a guardarlo negli occhi, serio. “Non voglio… cambiare quello che sono.”

Magnus aggrottò le sopracciglia curate, ed estinse la fiamma che bruciava fredda sui propri polpastrelli all’istante; ma se possibile, assunse un’espressione ancor più confusa quando Alec allungò una gamba per sedersi a cavalcioni su di lui, le braccia intrecciate dietro al suo collo.

“Quello che voglio è… essere guardato, veramente essere notato, voglio smetterla di essere una comparsa, il satellite oscurato dal sole” disse a bassa voce, le labbra appoggiate sulla conchiglia dell’orecchio di Magnus. “Voglio potermi muovere…”

E detto questo, lo Stregone dovette sopprimere un gemito quando Alec parve voler riprodurre sul suo grembo i movimenti su cui lo aveva sorpreso ad indugiare quella sera, però più lentamente e con una punta di pudore.
Gli accarezzò le anche sotto la maglia mordendosi il labbro inferiore, vinto dalla bramosia.

“Voglio potermi guardare allo specchio, ed amare quello che ci vedo riflesso,” continuò il ragazzo sforzandosi a non cedere alla vergogna. “Non voglio essere solo un soldato addestrato ad obbedire tutta la sua vita, che ha dimenticato la tenerezza e che non è in grado di sostenere lo sguardo della passione.”

“Alexander, tu giochi col fuoco,” lo avvertì Magnus, che ben conosceva i propri limiti. Dopotutto, nelle sue vene scorreva sangue di demone.

“Ed è per questo…” proseguì Alec, come se lo Stregone non avesse aperto bocca. “… che solo con te riesco veramente a sentirmi me stesso, nonostante l’imbarazzo e la paura di non essere abbastanza per i tuoi standard.”

E a quel punto, nemmeno Magnus parve più interessato alle parole del più giovane, mormorate con voce roca e inconsapevolmente seducente: gli baciò il collo, avvertendo sotto la pelle la carotide, pulsante e viva. Era commovente il pensiero di avere tra le braccia una creatura così viva, dopo tutti gli esseri sovrannaturali con cui era stato, che in un certo senso aveva anche amato. Ed i pensieri galopparono incontrovertibilmente su Camille, e alle loro notti assieme… Rammentava quegli abbracci ruvidi, la pelle liscia, ghiacciata come i loro baci che finivano per avere tutti lo stesso sapore, il sesso come routine ed i sentimenti ridotti all’osso.

Perché allora si stupiva di quanto con Alec gli sembrava di tornare a respirare dopo una eterna apnea?

“Ma guardati, guardati…” miagolò sulla linea della sua trachea, non sapendo più dove mettere le mani, dove posare lo sguardo. “Sei un angelo ribelle. E non potresti eccitarmi di più, sì?”

Alec deglutì aggrappandosi al corpo di Magnus con le membra tremule, un fiore che teme di sbocciare perché ciò significherebbe essere davvero ammirato; è ciò che vuole dopotutto, no? Finalmente maturare, cominciare a liberare la sua vera essenza.

Dopo qualche istante di tentennamento, le labbra tanto strette da perdere il loro color rosato, lo Shadowhunter si distanziò da Magnus tanto bastava per potergli restituire lo sguardo, e gli sprofondò il cuore nelle viscere non appena allacciò il suo con gli occhi di lui, simili a quelli di un felino a caccia. Si portò le dita, che ora tremavano visibilmente, sull’orlo della maglietta, facendo per sfilarsela…

Alec,” singhiozzò Magnus, impotente di fronte allo spettacolo del petto ora nudo del suo ragazzo, che sarebbe sempre rimasta una sua grande debolezza.

“Cosa vuoi, Mags? Qualsiasi cosa, io posso dartela…” disse Alec in una tenera e oscenamente insicura imitazione della proposta dello stesso Stregone di Brooklyn. Appallottolò la tshirt trattenendola tra le dita, come a coprire parte del proprio petto esposto; un piccolo rash cutaneo macchiava la zona pallida sotto una delle clavicole, a testimonianza dell’ansia e della difficoltà nell’affrontare questo enorme ostacolo che era abbassare la guardia.

Magnus abbassò lo sguardo, abbagliato, e tutto d’un tratto si sentì inconcepibilmente sporco, quasi indegno di posare gli occhi su una creatura così pura, innocente ed irresistibilmente ingenua.

Sollevò un palmo e lo fece aderire alla zona di epidermide sotto cui poteva quasi sentire il cuore di Alec martellare, impazzito, all’unisono col proprio.

“Non capisci, non immagini neanche le cose che fai alla mia testa, Alexander…” Il tono di voce era quello di un uomo sofferente, un affamato posto davanti ad un banchetto che sapeva di non poter nemmeno sfiorare senza rimanerci soffocato. “Mi farai diventare pazzo.”

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Capitolo 5
*** the essence of your love ***


Non mosse un muscolo, teso come una corda di violino: non avevano mai parlato, sul serio, di un rapporto completo. Avevano… sperimentato qualcosa, certo, con l’immensa soddisfazione di entrambi, ma senza spingersi più in là perché semplicemente non c’era mai stata occasione di esplorarsi, prima che esternamente, nell’animo più profondo. E Magnus desiderava riservare quel momento speciale a quando tutti e due si fossero sentiti intimamente più connessi. E quella sera avevano compiuto un passo da gigante verso quell’obiettivo, mano nella mano.

“Va… tutto bene?” domandò preoccupato Alec, notando come il suo ragazzo si fosse imbambolato, apparentemente incantato in contemplazione delle rune sul proprio addome muscoloso.

Magnus si riscosse, sospirando profondamente. Gli sorrise dolce.

“Ma certo, tesoro,” rispose, le dita rispettosamente adagiate sui fianchi di Alec. “Solo che…”

Si maledisse da solo il secondo dopo aver pronunciato tali parole: Alec parve esserne… ferito?

Il ragazzo si irrigidì corrugando le folte sopracciglia scure.

“Ho… sbagliato qualcosa?” accennò con un filo di voce facendo per spostarsi dal grembo di Magnus, il quale non perse un secondo di tempo prima di stringerlo a sé, le braccia intrecciate dietro la schiena del compagno.

“Shh, tranquillo. Sei…” e soffiò, come a sottolineare quanto Alec sapesse togliergli il fiato. “… straordinario. Ma stasera sono successe tante cose. Vorrei solamente… discuterne ancora un po’ con te, parlarne davvero, seriamente. Sollevare leggermente il piede dall’acceleratore, non so se mi spiego…”

Alec non parve convinto.

“Sì, ma… tu mi vuoi? Nel senso… quel senso?”

Magnus si morse un labbro per non scoppiare a ridere. Oh, il suo Alexander…

“Più di quanto mille discorsi possano spiegare,” replicò avvicinandosi con smisurata lentezza con le labbra a quelle dell’ansioso, incantevole Shadowhunter. Deviò all’ultimo secondo il loro percorso, baciando così il mento di lui con devozione. “Dopo che mi hai concesso un assaggio di ciò che mi aspetta, che ci aspetta…” ed un altro bacio sulla curva della mandibola sotto l’orecchio. “Voglio che sia assolutamente tutto perfetto, quando accadrà.”

E quindi, finalmente, lasciò l’ennesimo delicato bacio sull’angolo delle labbra di Alec, il quale reagì nascondendo malamente un sorriso timido sulla guancia incipriata dello Stregone. Abbassò piano piano le palpebre, ancora gonfie dal pianto di poco prima, ed inalò: dopobarba al sandalo.

“E quando? Quando accadrà?”

“Presto, mia piccola, focosa fenice,” miagolò Magnus, e per farsi perdonare l’indugio lasciò che la propria bocca sorridente navigasse per l’oceano di latte del collo di lui. “Adoro il tuo profumo.”

Alec roteò gli occhi, senza riuscire a celare un ghigno paziente.

“Non definirei il sapone grezzo dell’Istituto ‘profumo’. E sei un fuoriclasse, tu, a cambiare discorso, mm?”

“Ah, ma io non parlo del sapone dell’Istituto, mio caro. Io parlo – e non ho affatto cambiato discorso – del tuo profumo. Quello che solo la tua pelle ha.”

Il ragazzo dagli occhi blu inarcò un sopracciglio, permettendo a Magnus di esplorargli quella zona del collo così sensibile.

“E che profumo ha la mia pelle, sentiamo?”

Fu il turno di Magnus, ora, ad inspirare a pieni polmoni, il naso possessivamente incollato alla curva del collo del suo ragazzo.

“Mm, il profumo della biancheria fresca, del cotone, della purezza…” sussurrò spennellando quella tela intonsa di piccoli baci a fior di labbra, una punta di lingua giusto per inserire un po’ di colore e movimento alla composizione. “Del semplice candore del bucaneve che però spicca in un mazzo caleidoscopico di altri fiori.”

“… Bucaneve?” Alec rabbrividì sotto quel tocco così riguardoso ed insieme elettrizzante.

Magnus tornò a osservarlo, lo sguardo adorante di un credente a cui si è appena palesato un angelo.

“Sboccia prima di tutti gli altri fiori facendosi poco a poco strada nella neve, resistendo alle temperature rigide del tardo inverno. È il fiore più vigoroso ed assieme pieno di grazia del mondo, secondo il mio modesto parere… Mi ricorda qualcuno.”

Alec arricciò il naso, divertito, e gli baciò velocemente la punta del naso.

“Ora te ne intendi anche di fiori?”

“Ehi, sto cercando di essere poetico; un po’ di rispetto, giovanotto!” Esclamò lo Stregone prima di mordicchiargli il mento squadrato, e dunque farlo davvero ridere per la prima volta dopo quel momento di umana debolezza.

Alec si sforzò, senza grandi risultati, a sopprimere quella risata cristallina nell’incavo del collo robusto dello Stregone, le guance rosse d’amore che in quel momento lo facevano assomigliare più ad un papavero che ad un bucaneve, in realtà… Tornò a baciare Magnus con rinnovata passione, le mani grandi a circondargli la mandibola come una coppa da cui avrebbe assaporato il nettare più squisito. Quando si separarono, dopo una quantità di tempo indefinita, Alec si accorse di essersi lasciato sdraiare di schiena sulle lenzuola oramai stropicciate, piacevolmente intrappolato tra le braccia poderose di Magnus e le gambe a fasciare i fianchi dello Stregone, quest’ultimo a sovrastarlo col fiato corto.

“Mi manca il tuo letto…” commentò Alec accarezzandogli a pieni palmi il petto da cui pendevano minimo un paio di collane, arrossendo ancor di più. “Questo è troppo piccolo.”

Magnus catturò tra le proprie dita quelle di una mano dello Shadowhunter, sfiorandone il dorso con le labbra, nocca dopo nocca, ed infine il polso.

Alec strinse le labbra, poiché le proprie mani erano una delle prime cose di cui si vergognava a causa delle svariate cicatrici, dei tagli e dei calli, delle unghie scheggiate e delle cuticole mangiucchiate. Tuttavia, da come Magnus le trattava, pareva che questi non avesse mai visto nulla di più bello e meritevole di attenzioni in tutta la sua lunghissima vita.

“Anche tu manchi al mio letto, se è per questo…” disse fissandolo come un gatto in agguato dietro a un gomitolo di lana. “E a me manca svegliarmi accanto a te su suddetto letto.”

Alec rise nuovamente, lambendogli un fianco con un ginocchio e godendosi così quella piccola, dolcissima frizione di pelle contro pelle.

“Mi chiedo proprio cosa si possa fare a riguardo.”

Lo Shadowhunter non dovette aggiungere altro: il ragazzo lanciò un grido di sorpresa, soffocato in seguito da una risata a pieni polmoni quando Magnus, entusiasta, lo sollevò agilmente e senza fatica dal letto a una piazza accompagnandolo attraverso un Portale creato in un batter d’occhio accanto all’armadio, come un novello sposo con la sua amata tra le braccia attraverso la porta di casa.

“Sei completamente pazzo,” ridacchiò Alec tenendosi saldo al collo del suo ragazzo. Attraversando il Portale, lo assalì la classica sensazione che attanaglia lo stomaco quando si sogna di cadere… ma decise di non dare tutta la colpa di ciò a quell’incanto.

“Di te,” replicò questi al settimo cielo, raggiungendo il salotto del loft e dunque la soglia della camera da letto.

Che poi, camera da letto. Oltre ad essere la stanza più spaziosa dell’appartamento, la camera di Magnus appariva come una delle alcove di un ricchissimo pascià: l’enorme letto a baldacchino matrimoniale di ebano, meravigliosamente intagliato, troneggiava al centro di essa, le tende color rosso indiano appena scostate in un silenzioso ed ammiccante invito. Su di esso erano cosparsi almeno una decina di cuscini di velluto nero. Questa settimana, erano state scelte sontuose lenzuola di seta color senape, ed un copriletto verde smeraldo con fantasie arabeggianti di fili dorati. Se il corredo orientale con le carpe giapponesi ricamate a mano dell’ultima volta che Alec aveva visitato questa stanza gli era sembrato estremamente raffinato, ora non poté fare altro che lasciare cadere la mascella e boccheggiare senza parole.

“Se non ti conoscessi, direi che l’hai preparato…” disse infine mentre veniva adagiato sul morbido materasso con la delicatezza che si riserva ai neonati.

Il tessuto pregiato – e probabilmente molto antico – delle lenzuola avvolse la pelle secca del Nephilim in un abbraccio caldo, esotico, che però profumava incredibilmente di casa.

Magnus si limitò a fare spallucce e a nascondere sotto i baffi un ghigno colpevole prima di raggiungerlo, a gattoni, la camicia lasca sul petto di cui Alec poté ammirare la superficie glabra, color caramello. Gli salì una certa acquolina.
“Poche storie, Shadowhunter…” e la parola gli uscì in un mugolio troppo simile alle fusa di un gatto. “Spero che la nuova sistemazione sia di tuo gradimento.”

Quando Magnus arrivò a baciargli lascivamente una spalla, Alec si ricordò di essere a torso nudo: doveva aver lasciato la maglietta sul proprio letto all’Istituto. Oh, beh…

“Mm, tantissimo.”

Lo Stregone dai luminosi occhi color dell’oro lasciò scorrere le proprie avide labbra lungo tutta la linea del costato del suo Alexander, costringendolo a farsi esplorare e ad adagiarsi più comodamente sul letto. Si abbandonò nel mare di cuscini soffici, le braccia sopra la testa, i muscoli completamente rilassati così come anche i tratti del volto. Gli occhi socchiusi, Alec restò ad osservare le manovre caute e rispettose della bocca del Nascosto, ora all’altezza dell’ombelico, ora su una delle ossa sporgenti del bacino…

“Come diavolo fai a pensare di non possedere un corpo attraente?” sussurrò Magnus quasi più tra sé che ad Alec, il quale schiuse appena le labbra liberando un piccolissimo gemito di apprezzamento quando Magnus si decise finalmente a spogliarsi della camicia.

“Di fronte a te, chiunque si sentirebbe in soggezione,” fu la timida risposta di Alec.
Lasciato cadere l’indumento da qualche parte sul pavimento, Magnus sollevò lo sguardo d’ambra ammiccandogli sibillino.

“Chiunque. Ma tu non sei chiunque, o sbaglio?”

La luce soffusa della stanza mescolata con il riflesso della skyline della città che non dorme mai producevano incantevoli giochi di luce sulla pelle liscia e nerboruta di Magnus, seguendone le curve delle spalle massicce e quella meno armoniosa dei fianchi, la parabola della zona lombare dove la linea dei pantaloni lasciava giusto ad intendere agli occhi ora spalancati di Alec le meraviglie che sotto vi si celavano.

Affondò le dita di una mano nella chioma di lui, ancora unta di prodotti per capelli, separandone le ciocche e facendole ricadere morbide lungo gli zigomi alti del ragazzo a carponi accanto a sé.

Magnus scosse appena la testa, ed in un battito di ciglia sia trucco che acconciatura erano svaniti: ora Alec poteva finalmente ammirarlo in tutta la sua più naturale e primitiva beltà, gli occhi a mandorla addolciti, una volta privati dell’eye-liner, le labbra carnose non più rivestite di balsamo e brillantini, le guance più piene senza il loro contour. Una piccola cicatrice risaltava chiara vicino al sopracciglio destro… Sembrava ancora più giovane, e un po’ più fragile.

“Come vedi, anch’io sono meno perfetto di quanto vorrei dare a vedere.”

Ad Alec si strinse il cuore, poiché sapeva quanto a Magnus costasse dire ciò, lui che dell’apparenza per secoli aveva fatto il suo cavallo di battaglia ed il suo scudo più efficace. Tuttavia, adesso erano solo loro due, il mondo chiuso fuori, quel mondo crudele, fatto di giudizi e preconcetti, ed ogni arma poteva essere finalmente messa da parte. Ora Alec si sentiva solo un diciottenne libero di vivere la propria adolescenza concedendosi il lusso della tenerezza e delle emozioni.

Gli gettò le braccia al collo, improvvisamente bisognoso che ogni centimetro del proprio corpo goffo fosse a contatto con quello maestoso di lui.

“Sei perfetto…” pigolò, tra un bacio e l’altro. “E so che vuoi aspettare, ma voglio farti sapere che—che io ti desidero. Tanto.”

Fu come un pugno assestato in pieno stomaco, per Magnus. Perché la chimica, come la magia, semplicemente non mente, e non poteva ignorare il formicolio al centro del ventre generato ogni volta che Alec, consciamente o meno, gli si offriva a quel modo. La portata principale su di un piatto d’argento.

Magnus, forse per la prima volta in tutta quella serata, tremò visibilmente.

“Alexander, aspetta…” disse reggendosi con una mano alla testiera del letto per non gravare troppo sul corpo del più giovane, alla sua totale mercé. “Vorrei solamente che questa notte non si trasformasse in un pretesto per dimenticare il dolore, lo stress… Non desidero che tu viva tutto questo come un ulteriore motivo d’ansia, ma… voglio anche che tu non rimpianga nulla, ecco.”

A differenza di poco prima, le labbra di Alec si distesero in un sorriso indulgente.

“Sì, lo so. E non sai quanto ti sia grato per questo. E so anche che preferisci parlarne, prima… ma—la verità è che non ne so quasi niente,” confessò quest’ultimo, la nuca immersa in un morbido cuscino di pelliccia. “Non—saprei davvero cosa dirti.”

Profondamente intenerito, Magnus apprezzò la comprensione di Alec, come anche quel pallido tentativo di interscambio su un tema tanto complicato; si distese al suo fianco, senza interrompere le carezze distratte ma affettuose sull’addome piatto di lui. Poi, appoggiò la testa su un braccio piegato, così da tenere il viso struccato alla stessa altezza di quello di Alec. Lo guardava premuroso, dritto negli occhi.

“In realtà, essendo un bisogno perfettamente naturale, è l’istinto che ti guida per la maggior parte del tempo; importante è che non manchino mai intesa e comunicazione, sia verbale che non, da parte di entrambi. Ti chiederò sempre il permesso prima di fare qualsiasi cosa, spesso mi fermerò, rallenterò, ti guarderò negli occhi per capire se possa permettermi di andare oltre. Presterò orecchio ad ogni suono, osserverò ogni tuo cambio di espressione al fine di rendere l’esperienza il più gradevole possibile… e ti domanderò che cosa preferisci, come lo preferisci. E non dovrai avere nessuna vergogna a comunicare con me, in qualsiasi momento.”

Alec lo ascoltava con l’attenzione che aveva sempre prestato ai suoi allenatori, come se si stesse preparando per l’ennesima missione ad alto rischio; ma il volto di Magnus appariva rilassato, con quel suo sorriso sbarazzino di sempre addosso e gli occhi brillanti, appassionati, e zelanti, satolli dell’amore autentico che si dedica alle cose belle e delicate. Lo trattava come un umano, non come un ingranaggio di una macchina da assalto, una volta rotto facilmente sostituibile. Lo trattava e maneggiava come se avesse a che fare con un’antica e inestimabile opera d’arte, da proteggere e preservare.

Gli si strinse addosso, le braccia raccolte al petto in un bozzolo di seta e carne color avorio.

“Non sono mai stato un allievo particolarmente brillante, ma farò del mio meglio per imparare il più possibile col suo aiuto, professor Bane”, lo stuzzicò parlandogli sulle labbra in un sorriso frizzante prima di regalargli un altro bacio mozzafiato.

Sulle labbra turgide dello Stregone si accese un ghigno che si ammorbidì solamente per rispondere al bacio offerto da Alec; lo strinse nuovamente a sé, immergendosi nel silenzio quasi religioso della stanza interrotto solo dai suoni umidi della danza delle rispettive labbra e dai respiri irregolari, concitati. Avrebbe volentieri stregato la notte stessa, Magnus, pur di costringere la luna ad indugiare più a lungo nella volta celeste, regalando loro qualche ora in più da spendere assieme, lontani miglia da ogni dovere e pensiero: solo loro due, un duetto coordinato di cuori follemente innamorati l'uno del canto dell'altro... ed un letto fottutamente comodo.
 

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