Favourite Worst Nightmare

di Cranberry_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** One- ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** Three. ***



Capitolo 1
*** One- ***


Il sole splendeva.
Non era come i soliti giorni in cui era alto nel cielo e basta, era proprio splendente. Si rifletteva nel mare e rendeva tutto più interessante da guardare, più luminoso, più bello. O almeno, Liza vedeva tutto così.
E’ come quando il mondo è una merda completa, ma tu sei così fottutamente assorta sugli aspetti meravigliosi della tua esistenza, da bypassare tutto il resto. Lo chiamano amor proprio; per me, è solo menefreghismo. Liza Micheals era felice e non perché il sole splendeva su una città della quale, come accennato prima, ben poco le fregava, ma perché nella sua vita la fortuna la faceva da padrona. Insomma, diciannove anni, capelli biondi, occhi verdi, un culo assurdo e tutto il mondo ai tuoi piedi. Sembrerà pure la trama di un film, ma era semplicemente la sua vita e non c’era niente di più bello che essere consapevole del fatto che nulla può distruggere qualcosa di tanto perfetto da sembrare assurdo. Ma, ne siamo proprio sicuri?
--
Le mani del biondo correvano sicure sulla schiena della ragazza, piegata sulla scrivania della stanza di lui. C’era un bel sole, ma era coperto dalle tende blu, quelle che la madre di Liza gli aveva regalato per il loro primo anno insieme. Luke pensava ancora a quanto fosse un regalo di merda, come del resto tutto nella sua vita da un po’ di tempo.
Ma adesso era lì, bello e popolare, che si scopava Jacky o Jessy o una roba così (lui l’aveva memorizzata semplicemente come “belle tette”) sulla scrivania di camera sua. E che ti importa se i voti non vanno e se quel piccolo briciolo di rimorso ancorato alla tua anima ti urla che hai una ragazza da quasi un anno e mezzo. Luke Hemmings sta soffrendo. E poco importa se il mondo, il karma e il giudizio divino bombardano la sua coscienza di piccole fitte: lui continuava a spingere e lei continuava a gemere e va bene così. Vero?
--
-La ciambella è per il tuo ragazzo?- chiese Alaska con fare disinteressato.
Liza prese il sacchetto tra le mani profumate alla crema d’arancio che metteva sempre e fresche di manicure, guardando l’amica annoiata.
-Potresti anche chiamarlo per nome, Al. Sai quanto questo tuo atteggiamento mi urti.-
-A me urta lui. Tenta di apprezzare il fatto che lo sopporti a tal punto da riuscire a parlarne senza tagliarmi le vene.- Liza si voltò, distogliendo la vista dalla sua migliore amica che la fissava col suo solito sguardo sarcastico. Alaska Mirrel non aveva mai avuto uno speciale rapporto col suo ragazzo, Luke, e viceversa. La bionda si ritrovava spesso a pensare a quello che sarebbe successo se un giorno avesse per un semplice sfizio personale lasciato quei due in una stanza. Quasi sicuramente, conoscendo Alaska a rimetterci sarebbe stato Luke.
La sua amica aveva i capelli biondi, con una tintura ben fatta ma tradita da un’evidente ricrescita che partiva dalle radici. Eppure erano belli, lunghi e selvaggi, abbinati alla perfezione con quegli occhi verdi dal taglio quasi orientale che tanto colpivano chiunque li guardasse. Ma quello che più colpiva di Alaska non era di sicuro il suo volto o il suo fisico, quanto il suo essere. Era naturalmente carismatica e affascinante, dal momento in cui ti guardava fino a quello in cui (ma solo se ne aveva davvero voglia) ti rivolgeva la parola. Il suo aspetto era solo una decorazione, quello che c’era dentro tutto il resto del pacchetto.
-Comunque sì, è per lui. Non lo vedo di persona da 3 giorni, è così stressato dagli esami che a stento esce di casa.-
Alaska finse di asciugarsi una lacrima e guardandola con espressione disperata: -Quale terribile indegnità! Come possono sembrare anche solo sopportabili le nostre strade senza Luke Hemmings pronto a percorrerle!-
-Chiamami quando sarai tu ad essere anche solo sopportabile, tesoro.- esclamò la bionda con uno sbuffo –A dopo!-.
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-E’ stato grandioso.-
-Puoi dirlo, babe.-
Luke non era solito usare soprannomi idioti, nemmeno con Liza, ma si era appena accorto di aver completamente dimenticato il nome di quella ragazza. E di sicuro non poteva chiamarla Belle Tette come mentre stavano facendo sesso, quindi si arrangiava e basta.
I sensi di colpa non avevano ancora bussato alla sua porta, quando fece il fatale errore di guardare alla sua destra, sulla scrivania. La cornice capovolta sembrava salutarlo; era quella con la foto sua e di Liza, quella che si erano scattati per il loro primo mese, che avevano trascorso sulla spiaggia, un’idea di sua madre ovviamente. Sentì un peso che gli si stringeva attorno al cuore, e il battito di quest’ultimo che aumentava a dismisura; era troppo orgoglioso per ammetterlo, ma nonostante non fosse la prima volta che tradiva la sua ragazza, quella consapevolezza gli apparve devastante e diversa, e gli occhi gli diventarono lucidi. Entrò nel panico.
E, come al solito, fece la cosa sbagliata.
-Ma cosa fai?- esclamò Belle Tette con una risatina.
-Ti senti pronta per il round numero 2?-
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Liza sbatté la porta, che quasi simultaneamente si aprì di nuovo per poi chiudersi con un tonfo. Lindsey Lee Jones aveva fatto la sua comparsa.
Era impossibile non notarla, sia per la  sicurezza con la quale camminava senza mai smettere di guardare dritto davanti a sé, sia per il modo in cui si presentava.
 I Jones possedevano quasi metà della città, il padre e lo zio di Lee erano a  capo di un’azienda pubblicitaria con filiali sparse per le principali capitali del mondo, quindi per Alaska non era strano domandarsi come Lee e lei potessero aver legato. Era tanto improbabile quanto fantastico.
Se avesse dovuto trovare un’espressione con cui descrivere la ragazza sarebbe sicuramente stata “completamente fuori di testa”. Non parlava molto, non ne aveva bisogno. Alta un metro e ottanta, il suo segno distintivo erano i capelli rosso fuoco, sempre in perfetta piega nonostante la tinta decisamente fuori dal comune, ma forse anche Lee era un po’ così. Bella, perfetta, ma al contempo canonicamente fuori dal comune.
Passava di festa in festa, e automaticamente di letto in letto; a detta di Liza era “una bella troietta”, ed in parte anche a detta di Alaska, ma le voleva troppo bene per associare proprio a lei una cosa del genere, nonostante non si facesse scrupoli a dirglielo ogni qual volta scherzassero insieme (quindi praticamente sempre).
-Novità?- masticò la rossa.
-Margo non c’è?-
-Scuola. Doveva provare.-
-Capito.-
-Beh, non hai risposto alla domanda.-
-Sta andando a fargli una sorpresa, a casa sua.-
Ora, bisogna sapere che Lee Jones e le dimostrazioni di affetto fanno a pugni; ma che se Alaska dice una cosa del genere, con un tono del genere, un abbraccio è l’unica cosa con cui si può rispondere.
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“Michel Clifford camminava a passo spedito verso la dannazio..”
-Nha, che idiozia, sembra una frase uscita da Bukowski, che cazzo scrivi. Ok riproviamo.-
“Micheal Clifford, un metro e novanta di musc..”
-Fanculo.-
E fu cosi che Micheal Clifford, decise che la scrittura non faceva sicuramente per lui. Stava provando a trovarsi un qualche tipo di talento o anche solo un hobby più o meno da quando aveva cominciato l’ultimo anno, ma fino a quel momento l’unico che aveva potuto attribuirsi, ripetute volte, era quello di ubriacarsi molto velocemente alle feste dei suoi compagni di corso. Proprio come la notte precedente.
Ora nella sua testa era in corso una rissa alquanto dolorosa e lui aveva solamente voglia di iniettarsi un paio di flebo zeppe di caffè endovena, ma gli era rimasto un solo talento da testare, ed era per questo che attendeva impazientemente fuori dall’entrata dell’auditorium scolastico l’uscita di Constantine Minelli. Lui/Lei avrebbe dovuto tecnicamente fare Mariaketis di cognome ma era così appassionato dai musical di Broadway, ed era così gay che probabilmente si era già fatto cambiare il cognome anche all’anagrafe da un pezzo.
Il ragazzo si passò nervosamente una mano tra i capelli neri, scompigliandoli quasi come se non lo fossero già abbastanza. Poi, annoiato, decise di agire, ed entrò di sua spontanea volontà nel territorio del Minelli.
E lì la vide.
Margo Roth Spellman la prima volta, a detta di Micheal, fu come il crescendo di una canzone di Bowie. Come quella che lei stava adattando al piano in quel momento. I capelli corvini le incorniciavano il volto vitreo, quasi da bambola e il vestitino viola le copriva a malapena le cosce mentre copriva i tasti del pianoforte. Il ragazzo sapeva chi era, insomma come si faceva a non conoscerla, ma venire a sapere che suonava il pianoforte e vederla da così vicino senza il suo gruppo di amiche/vipere perfette a circondarla, faceva il suo effetto. Dopo un lasso di tempo passato a fissarla spudoratamente, la vide che salutava Minelli con due baci sulle guance, spostandosi sullo spazio del pavimento che la separava dal ragazzo con la sua andatura da folletto, quasi volasse, e  parandosi poi davanti a lui.
I due presero a fissarsi e Micheal giura tutt’oggi che la sua sudorazione in quel momento, per quanto la cosa sia disgustosa, avrebbe potuto dissetare tutto il terzo mondo. E poi…
-Scusa, ma stai bloccando il passaggio.-
“Cazzo.”
-Cazzo.- disse lui spostandosi automaticamente e guardando ovunque tranne che davanti a sè –Che figura di merda, sono Micheal comu…-
Ma lei era già andata via.
-…nque e sei davvero bella e penso di volerti sposare.-
-Clifford, parli da solo per caso?- parlò Minelli, arrotolandosi il foulard rosa salmone attorno al collo quasi inesistente e avvicinandosi a lui.
-No, pensavo ad alta voce.-
-Il che, figliolo, equivale a parlare ad alta voce. Ad ogni modo, cosa ti porta da queste parti?-
-Oh giusto.- Micheal sembrò essersene ricordato in quell’esatto momento
-Mi chiedevo se lei potesse farmi delle ripetizioni extra su determinati argomenti. Sa, strumenti, solfeggio, cose così. Mi piacerebbe sapere se sono portato.-
Il volto paffuto dell’uomo si illuminò, e dopo due secondi il ragazzo si ritrovò stretto nella morsa soffocante e profumata del suo abbraccio.
-Prof, lei sa di… profumo da donna.-
-Clifford, se vuoi imparare davvero l’arte della musica e della vita dal maestro qui presente, ti conviene chiudere la bocca.-
--
Changes di David Bowie nelle orecchie e la copia della chiavi alla mano, Liza si sentiva sicura di sé e felice come solo chi sa cosa sta per vedere si può sentire. Non provò a chiamarlo ad alta voce, non si curò di togliere gli auricolari o di guardare attentamente l’attaccapanni su cui era chiaramente poggiato un cappotto femminile, cosa strana visto che Luke viveva da solo e che fuori c’erano almeno 25 gradi. Non si curò nemmeno di passare per la cucina, dove erano ben visibili due bicchieri di rosso rovesciati e un paio di mutandine galleggianti tra vino e cocci. E non si curò di camminare con passo forte perché Luke, poverino, probabilmente dormiva ancora. E David Bowie cantava di cambiamenti così forte nelle sue orecchie che nemmeno i gemiti selvaggi provenienti dal piano di sopra riuscivano a superare il suono della barriera acustica.
La busta della caffetteria era nelle sue mani e lei si specchiò sistemandosi i capelli già perfetti, prima di prendere un fiore dal vaso accanto alla cappelliera e salire le scale con passo felpato.
Un piccolo tonfo la scosse nonostante gli auricolari, e lei pensò che magari il suo Lukey stesse facendo palestra. Ma niente, in palestra non c’era. La porta del bagno in fondo al corridoio era spalancata e come poteva ben vedere non era nemmeno lì. Quindi le restava solo la camera da letto.
Liza sorrise di felicità ed impazienza, strano quanto il destino ci giochi brutti scherzi proprio quando fa di tutto per apparirci favorevoli. E forse da qualche parte nello spazio-tempo lei è ancora lì a sorridere felice, prima di girare la maniglia della porta che come al solito Luke non si era premurato di chiudere a chiave. E sempre da qualche parte nel tempo lei apre la porta e non vede Luke che si scopa una delle sue compagne di corso ad educazione civica, ma lo vede dormire teneramente avvolto dalle coperte. Ma chiaramente questa dimensione, per quanto crudele questo possa sembrarci, non coincide con la realtà. E chiaramente adesso lei nella realtà urlava, mentre il caffè si spargeva lentamente a terra formando un alone giallastro sulla moquette fresca di pulito. E lì in quella chiazza, a galleggiare fradici ed indifesi c’erano tutti i suoi sentimenti.
In frantumi.
  -Mi chiamo Valeria e benvenuti alla mia prima storia su questo sito.
Fino ad oggi sono sempre stata una lettrice abbastanza silenziosa, ma ad un tratto mi sono detta "perchè no?" e ho beccato una delle cose che avevo salvato sul computer pubblicandola a random con ancora l'intero cibo di Vigilia, Natale e Santo Stefano sullo stomaco e sui fianchi.
Passando oltre queste inutili informazioni, spero che voi lettori possiate apprezziate questo lavoro per il semplice fatto che c'è un po' di me in ognuno dei personaggi, specialmente nelle ragazze a cui come qualcuno di buon occhio avrà già notato ho dato 3 dei nomi delle protagoniste femminili dei romanzi di John Green,(  mentre per LIza è stata semplice affinità col suo nome.); ho scelto i 5sos come personaggi maschili perchè apprezzo molto la loro musica, e perchè mi hanno molto ispirata sin dalla prima volta in cui ho visto/letto una loro intervista, sembrandomi perfetti come personaggi. Detto questo, grazie molte a chiunque abbia avuto davvero il coraggio di arrivare sino alla fine di questo primo capitolo, se vi va lasciate una recensione per farmi sapere se pensiate sia bella, brutta, un'autentica merda o giù di lì. Grazie ancora per il vostro tempo e alla prossima <3 
 

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Capitolo 2
*** 2. ***


In molti dicono che un’amica che ride delle tue sventure non è una vera amica. Questo spiegava in breve perché Alaska si sentisse così tanto una merda in quel preciso momento.
Liza l’aveva chiamata verso le dodici, dicendole con voce rotta che aveva bisogno che l’andasse a prendere. Alaska aveva capito subito che era quasi sicuramente successo qualcosa di molto grave con Luke, ed aveva tentato di seppellire sotto tutta la rabbia che montava verso il ragazzo quella piccola scintilla di soddisfazione che cresceva in lei.
Perché lei aveva sempre odiato e , tutt’ora odiava Luke Hemmings a tal punto che, suo malgrado, aveva cominciato a piacerle. Ne aveva parlato solo con Lee e Margo, assolutamente certa che nessuna delle due, nemmeno in preda ai postumi della più colossale sbornia, ne avrebbero mai fatto parola a qualcuno;
giurava in continuazione a sé stessa che c’aveva provato, dio se c’aveva provato, a levarselo dalla mente in ogni modo possibile ed immaginabile, seguendo svariati metodi anche abbastanza discutibili propostigli da tutta la sua cerchia di conoscenze. Aveva seguito il metodo di Lee, andando a letto con metà della squadra di football del campus che frequentavano, un paio di giocatori di lacrosse e il capitano del team di pallanuoto, cominciando dopo tutto questo non solo a sentirsi una grandissima troia e a temere di aver contratto una qualche infezione venerea, quanto a capire dopo l’ennesimo atleta che non era così che si sarebbe levata dalla testa quel preciso ragazzo, considerando anche il fatto che continuava incessantemente a fare paragoni tra lui e qualunque ragazzo le passasse accanto. Aveva bisogno di qualcosa di diverso, e fu così che passò al metodo di Margo iscrivendosi ad un corso di yoga e meditazione. Faceva lezione ogni giorno e aveva trasformato la sua stanza in una specie di piccola oasi spirituale con tanto di poster del Buddha a grandezza naturale, candele al patchouli e luci talmente soffuse da averle fatto scordare l’esatta disposizione dei mobili prima che la sua stanza cadesse in quello stato di buio perenne.
Ma nemmeno questo aveva funzionato, e dopo l’ennesimo straziante weekend a base di lacrime versate sull’ultimo post di Liza su facebook (un selfie alquanto provocante di lei e Luke davanti allo specchio in costume, 142 likes, tra cui anche il suo, che ipocrita) il lunedì seguente era passata all’ultimo metodo: il suo (questo non prima di una piccola ricaduta nel metodo Lee, avuta portandosi a letto il suo istruttore di yoga).
Il metodo Alaska consisteva molto semplicemente nell’ignorare i suoi sentimenti, attendendo il giorno in cui la sua vera anima gemella, un uomo come Alex Turner, o Drake giusto per fare un esempio, avesse bussato alla sua porta con un mazzo di rose in mano e un sorriso da “Vuoi sposarmi?” stampato sula faccia.
Nel frattempo però, avrebbe dovuto distanziarsi il più possibile da Luke e quale modo migliore per farlo se non mostrarsi come sua acerrima nemica?
Lo trovava un comportamento infantile e assolutamente stupido, ma non c’è cosa più difficile che trattare con indifferenza la persona per cui si prova qualcosa, il che è un po’ come passare davanti ad una piscina in una giornata maledettamente afosa senza nemmeno sentire il bisogno di tuffarsi, cosa pressoché impossibile.
Ora Alaska era in macchina, davanti alla casa della sua più segreta ossessione, pronta a recuperare la sua migliore amica.
Liza era bellissima mentre usciva dalla porta nonostante il trucco colato e l’espressione piena di tristezza; guardandola negli occhi Alaska si sentì ancora più malvagia, e represse definitivamente ogni sentimento al di fuori della rabbia e della compassione, perché nonostante tutto lei era consapevole del fatto che Liza venisse prima di Luke, e nemmeno i sentimenti che provava verso di lui l’avrebbero tenuto al sicuro dalla sua ira, non appena avesse scoperto cosa le aveva fatto.
La bionda aprì lentamente la portiera della Mini verde bottiglia decisamente scassata di Alaska entrandoci pesantemente, quasi si trascinasse dietro un corpo non suo.
-Gli spacco il culo subito o mi dici prima cosa è successo?- chiese Alaska, col tono di voce basso ma con gli occhi fiammeggianti.
-Parti-
-Liza, dimmi subito cosa ha fatto quel figlio di p…-
-Mi ha tradita. Tante volte. Adesso parti, non ce la faccio a stare qua.-
Alaska Mirrell era sempre stata un’abnorme stronza. Era il suo modo di essere e di vivere la vita, quasi un occhio per occhio. Eppure nonostante avesse capito dopo quella frase che tra Liza e Luke le cose potevano ritenersi assolutamente concluse,  proprio non riusciva a sentirsi felice. Quanto più ferita, quasi come se il ragazzo non avesse tradito solo la sua amica, ma anche e sopratutto lei; sapere che colui il quale desideri con tutta te stessa è impegnato felicemente con la tua migliore amica non è di certo un sogno comune a tutti, ma sapere che è “impegnato felicemente” con mezza scuola è un colpo al cuore. Forse fu lì che l’immagine idilliaca che Alaska aveva di Luke Hemmings cominciò a fare crack, forse fu lì che lei cominciò a comprendere quanto magari fosse una cosa buona che lui la vedesse solo come l’amica irritante di Liza.
Ma dopo un paio d’ore passate in un bar sulla spiaggia, tanti Margarita per lei, una coca light per Liza ed innumerevoli lacrime condite da insulti, la ragazza arrivò ad una sola misera quanto schifosa conclusione: per il suo cuore non era cambiato proprio un cazzo.
 
La consapevolezza che si ha nel momento in cui capiamo di aver rovinato qualcosa è paragonabile ad una caduta libera. Sì, perché noi sbagliamo sempre, continuamente, senza porci limiti, ma nessuno di quegli sbagli per quanto possiamo ritenerli tali assume il peso che acquisisce nell’esatto momento in cui capiamo che “cazzo, ho davvero mandato tutto a puttane”.
E Luke Hemmings era in quell’esatta situazione. La cheerleader era da poco uscita dalla porta con un “ci si vede in giro” vergognosamente sussurrato, e lui era lì lì per trattenerla; aveva paura di restare da solo con sè stesso e con i suoi pensieri. Non metteva in dubbio l’aver provato qualcosa per Liza, né tantomeno il fatto che lo provasse ancora, ma allora perché? Non se lo sapeva spiegare nemmeno lui.
Il tradimento non era nel DNA della sua famiglia, gli era stato inculcato come un tabù, qualcosa che si poteva a stento pronunciare, figuriamoci mettere in atto. Eppure eccolo lì, seduto sul divano della sala da pranzo a rimuginare su quanto si sentisse una merda e su come fosse potuto succedere tutto quello. E rivedeva ogni cosa chiaramente, quasi fosse successa in quel momento, quasi fosse ancora la prima volta. Quasi fosse ancora un anno prima, con Liza in vacanza-studio a Tokyo e lui imboscato nello spogliatoio con Taylor DeSantis, la vice delle cheerleader. Che poi Luke pensava a lei solo come un’oca; bel culo, ma un’oca completa. Non era come Liza, non aveva sempre il sorriso pronto ed un repertorio di frasi fatte che solo pronunciate da lei potevano veramente fare effetto. Non aveva i capelli biondi naturali e la pelle di seta, non era così… perfetta.
Luke aveva avuto quella perfezione a portata di mano per tutto quel tempo sentendosi incompleto. “Ingrato”, gli urlava ogni parte del suo corpo.
Era come se una enorme lampadina gli si fosse accesa nel cervello: capiva tutto, vedeva tutto, ed un improvviso senso di nausea gli si formò alla base dello stomaco. “L’ho tradita” urlavano tutti i suoi neuroni “Mi ha lasciato”; migliaia di insulti continuavano a rincorrersi, come se uno valesse l’altro, come se nessuno valesse abbastanza. Si alzò di scatto, per correre in bagno. Salendo le scale quasi inciampava nella chiazza formata dalla busta della caffetteria, quella che Liza aveva portato con sé, un conato più forte degli altri si manifestò e il ragazzo si ritrovò ad aumentare il passo. Arrivato in bagno vomitò la cena del giorno prima, ed alcune lacrime clandestine gli solcarono le guance, “Lacrime di coccodrillo” avrebbe detto Alaska. Già, Alaska.
Probabilmente era stata lei a raccogliere la Liza tremante che lui non aveva nemmeno avuto il coraggio di rincorrere; quella che ha amato ma che nonostante tutto ha tradito tante di quelle volte da perderne il conto. E per cosa? Per ritrovarsi qui a piangere come una ragazzina, con la nausea che sale e una voglia assurda di rompere ogni cosa? Si fiondò nella doccia bollente, quasi strappandosi i vestiti da dosso, e nella sua testa la risata sarcastica di Alaska Mirrell aveva sostituito gli insulti che si stava rivolgendo ormai da mezz’ora. Cosa avrebbe detto Alaska? Cosa avrebbe fatto Alaska? Liza gli aveva raccontato che anche lei aveva tradito diversi dei suoi ragazzi, molte volte. Secondo Liza era perché Alaska si sentiva incompleta; “Le manca qualcosa, o qualcuno. Non può essere soddisfatta se non ha ciò che soddisfa il suo cuore, il corpo viene dopo” e Luke non sapeva perché ricordava proprio quella conversazione. Sarà perché quella era la prima volta che vedeva Alaska sotto una luce diversa, non come la stronza dedita a rovinargli l’umore con le sue battutine sfacciatamente sarcastiche. Sì, perché Alaska in quel momento era uguale a lui, sapeva come lui si sentiva. Incompleto.
Ed anche ustionato. Regolò la doccia ad una temperatura accettabile, ed appoggiò la fronte sul muro lasciando che l’acqua tiepida potesse scorrere libera sul suo capo e sui pettorali. E decise che non poteva finire così, c’avrebbe riprovato, non poteva lasciarsi scappare Liza e non poteva continuare a sentire tutto quel macabro ronzio di voci nella sua testa.
E non aveva cambiato idea un’ora dopo, sdraiato sul letto con i Green Day che quasi gli foravano entrambi i timpani e la foto di lui e Liza impressa su quella foto ancora capovolta che bruciava come una fiammata, dritto al cuore. Avrebbe riprovato, ma come? Già, come.
Nella sua mente prese forma una sola soluzione, e portava il nome di Alaska Mirrell.
Lee era andata da sola alla festa di Joshua Kendricks, perché tanto avrebbe fatto amicizia sul posto. Andava sempre a finire così, lei alle feste quasi ogni giorno e le altre in giro per la città a dare un senso alla loro vita.
A volte si metteva a pensare, altre volte addirittura parlava dei suoi problemi a qualcuno senza gli occhi coperti da una delle decine di paia d’occhiali da sole sparsi per la sua camera o senza fare nessuna battuta cattiva; ma erano casi rarissimi, isolati e soprattutto poco considerevoli, almeno secondo lei.
Ma perché parlare seriamente di qualcosa se di cose veramente serie nella tua vita non ne hai nemmeno una? Lee non capiva come fosse possibile, quindi per non fare la figura della scema stava zitta e basta la maggior parte del tempo. Non zitta-taciturna come Margo, ma zitta-misteriosa come lei; che poi ai ragazzi piacciono da morire quelle che parlano il giusto o ancor di più quelle che non parlano per niente quindi ben venga!
Lee i ragazzi li vedeva come loro vedevano lei, divertimento allo stato puro; e sotto questo punto di vista Alaska riusciva ad esprimere i suoi pensieri alla perfezione. Sì perché non c’era una sola volta in cui Alaska non avesse fatto un commento su un ragazzo che lei non avesse fatto silenziosamente giusto un attimo prima. L’unica differenza era che quella che dopo se li portava a letto era Lee, ad anche quella che veniva considerata come “quella facile” o denominata con francesismi quali “troia”, “succhia cazzi” o giù di lì.
Ma in fin dei conti a lei poco importava, perché aveva tutto e quel paio di critiche rivolte al suo stile di vita non la scalfivano, anzi. Aumentavano la sua auto-considerazione.
Il pensiero centrale della vita di Lee era che, se non sono i ragazzi a portarti a letto ma sei tu che porti a letto loro, ragionando quindi nello stesso modo subdolo e scontato comune a quasi tutti gli uomini, allora non sei una troia. Hai semplicemente capito che il sesso è vita, che il sesso ti piace e che soprattutto, non hai nessuna paura di ammetterlo. E, che dio la perdoni, Lee lo ammetteva a sé stessa ogni giorno della sua vita, quando si svegliava, quando si guardava allo specchio o quando si accorgeva degli sguardi che i ragazzi le lanciavano.
Proprio come quelli che le stava lanciando un ragazzo dall’altro capo della piscina. Biondo, alto, coi capelli che quasi gli toccavano le spalle larghe, un paio di skinny jeans così stretti che a Lee venne da chiedersi se fosse in grado di muoversi e una maglia dei Misfits. La ragazza prestava ormai pochissima attenzione alle parole di Winona, una biondina amica di Liza, che stava sparlando da un’ora dell’attuale fidanzata del suo ex ragazzo essendo entrambi i personaggi presi in considerazione presenti alla festa, ma si girò ugualmente per far finta di star ascoltando. Ma il ragazzo non c’era più.
“Cazzo”
-E nonostante il video di lei che fa un servizietto al prof di educ…-
-Winnie, scusa, mi sembra di aver visto Alaska. Vado a cercarla.- e senza nemmeno aspettare una risposta si incamminò verso l’altro lato della piscina. La casa di Joshua era enorme, Lee l’aveva conosciuta bene dopo un loro incontro abbastanza intimo durante il quarto anno di liceo. E lei sperava con tutta sé stessa che il biondino misterioso non fosse andato a ficcarsi in uno dei giardinetti laterali, perché con le sue Jimmy Choo tacco dodici sarebbe stata un’impresa impossibile trovarlo senza fratturarsi qualcosa.
Passò vicino al bancone degli alcolici, dove un Micheal Qualcosa che frequentava alcune lezioni con lei stava ballando mentre sventolava i pantaloni sopra la testa a mò di Magic Mike. Qualche ragazza si tuffò in acqua, spruzzandole le cosce lasciate scoperte dalla mini-tuta in seta che indossava e bagnandole le decolleté. E proprio mentre si girava pronta a fulminarle con lo sguardo, le sue caviglie si incrociarono, facendole battere violentemente la testa sul pavimento, mentre tutto attorno a lei diventava buio.
Si svegliò dopo un lasso di tempo imprecisato, con Winona ed altre due ragazze a fissarla preoccupatissime, come del resto stavano facendo un’altra decina di persone.
-Lee! Oh mio Dio, come ti senti? Per poco non morivi lì per terra!-
E Lee aveva molta voglia di dirle che non sarebbe di sicuro morta e che in  quel momento l’ultima cosa di cui aveva bisogno erano le sue urla da oca compassionevole, ma come al solito restò in silenzio. Le tempie lentamente smisero di pulsare e, sorretta dal trio di bionde platinate, riuscì a rimettersi in piedi sussurrando un grazie piatto e ricominciando a camminare nonostante l’andatura instabile. L’autista sarebbe passato alle 4 e mezzo, il cellulare lo aveva ovviamente scordato a casa e pur volendo chiamare qualcuno, non era ben sicura che sarebbe venuto lì apposta solo per lei. Era in momenti come questi che Lee si chiedeva se in fin dei conti aveva davvero tutto ciò di cui aveva bisogno.
Magari parlando di più e pensando in maniera diversa ora sarebbe stata in macchina con qualcuno, stanca sì ma al sicuro. E invece era lì, sola. E sapeva che questo cruccio sarebbe scomparso in fretta dalla sua testa, ma per quei momenti in cui si impossessava del suo animo faceva un male cane, come una pugnalata che la trafiggeva.
Alaska diceva sempre che “Nemmeno il dolore più grande ti fa mal se sei completamente sbronzo”. E quindi, perché no?
Dopo un’ora erano le due e mezzo, lei era disperatamente ubriaca e stava ballando su uno dei tavolini adibiti a cubo, nell’immenso salone. Probabilmente il cristallo si era scheggiato con la punta dei suoi tacchi a spillo ma a Joshua poco sarebbe importato, e a Lee ancor meno perché il biondino di prima era di nuovo lì sotto e la guardava, ci avrebbe giurato, più intensamente di prima. E il sorriso si amplificò, i fianchi cominciarono a rallentare e lei scese dal tavolino ormai sudicio, buttandosi in pista, con un paio d’occhi messi lì a bruciarle le spalle.
-Lo so cosa stai facendo.-
Era stato più veloce di quanto ci si sarebbe potuto aspettare, Lee era meravigliata quando si girò verso di lui. Non disse nulla (ovviamente) continuò semplicemente a ballare, avvicinandosi di più al corpo muscoloso che nonostante i tacchi la sovrastava di un paio di centimetri.
-Mi hai sentito, Lindsey?- lei spalancò gli occhi e senza fermare il movimento si girò verso di lui.
-Come fai a..-
-Me l’hanno detto. Sembra che qui intorno ti conoscano tutti molto bene.-
Lei sorrise sfacciata: -Oh, non molto bene. Se no saprebbero che odio essere chiamata Lindsey. –si avvicinò al suo volto puntando verso le labbra del ragazzo, prima di voltarsi all’ultimo secondo posizionando la bocca accanto al suo orecchio, il mento che sfiorava la parte del collo lasciata libera dalla t-shirt –Se vuoi starmi simpatico, e io so che tu lo vuoi, chiamami Lee.-
Tornata a guardarlo negli occhi, due pozzi verdi chiaramente distinguibili nonostante le luci soffuse, lo trovò che sorrideva divertito.
-Va bene, Lee. Io sono Ashton.-
-E ti piace, Ashton?- disse lei strusciandosi sul cavallo dei suoi pantaloni.
-C..Cosa?-
-Quello che sto facendo.- Lee aumentò il movimento, e dopo poco percepì il tocco delle mani del ragazzo sui suoi fianchi quasi contemporaneo al suo sussurro.
-Da morire. Mi piace da morire.-
Erano finiti a letto dopo innumerevoli tentativi da parte di lui di parlarle, tutti abilmente schivati da Lee. Era bravo da morire, ed era anche simpatico e soprattutto gentile; e non gentile in quel senso noioso o cavalleresco, gentile nel senso che nonostante Lee come al solito avesse parlato poco o nulla, si era quasi sentita in colpa a schivare quei tentativi insistenti ma mai impertinenti, e quei sorrisi che nessuno le aveva mai fatto prima d’ora. Di solito i ragazzi non la guardavano nemmeno negli occhi una volta a letto, si limitavano a fare ciò che serviva a loro e basta; Ashton invece non solo aveva tenuto le iridi incastonate alle sue, ma si era preoccupato più del piacere della ragazza che del suo stesso, e le aveva screpolato le labbra a forza di baci e non si era lamentato per i graffi causati dalla troppa passione, né per i morsi che reprimevano le sue urla. Era stato gentile, così gentile che a Lee quasi dispiaceva, per la prima volta nella sua vita, di non poterlo rivedere un’altra volta.
-E’ stato..-
-Il migliore che abbia mai avuto.-
Erano sdraiati sul letto della stanza dei genitori di Joshua, che Lee aveva aperto con le chiavi nascoste dentro al vaso cinese accanto alla porta, e quelle ultime parole, per quanto impossibile potesse sembrare, le aveva pronunciate proprio lei. Era felice, ma non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi, le faceva male. E lui non sembrava impaziente di andarsene come lo erano di solito tutti gli altri, anzi, ma lei sapeva che le cose cominciate così velocemente possono finire solo  velocemente.
-Sono le quattro e mezzo passate, penso di dover andare.-
-Resta, ti prego.-
“SI!”urlava una vocina impertinente nella sua testa.
 –No, mi dis..mi dispiace. L’autista mi aspetta.-
-Almeno dammi il tuo numero.-
La risata partì come un riflesso involontario, ma Lee osservando l’espressione contrariata di lui sentì una fitta di senso di colpa prenderla tutta.
-Ci vedremo prima di quanto ti aspetti. Non abbiamo bisogno di parlarci, sai.-
Uscendo dalla stanza non ci credeva nemmeno lei a quello che aveva detto, ma era più facile rifiutarsi di credere ad una realtà che ci sembrava impossibile invece che aumentare i presupposti con i quali ci si può solamente ferire. E lentamente il passo ri-diventò spavaldo e la testa continuò a fissare dritta davanti a sé fino a quando non intravide Tom, l’autista, scendere per aprirle lo sportello posteriore della Range Rover nera.
Solo in quel momento si voltò verso la porta finestra e lì lo vide, cercava lei tra la massa di corpi barcollanti che affollava il patio. E Lee avrebbe davvero voluto provare qualcosa di lontanamente simile alla soddisfazione, ma l’unico sentimento che la stava lentamente consumando, era il rammarico.

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Capitolo 3
*** Three. ***


Una settimana intera,  giorni ed un weekend, passati nella più assoluta disperazione.
Liza aveva analizzato ogni aspetto della sua vita passata e presente alla ricerca di qualcosa da condannare per cui il Karma avrebbe potuto porla davanti a quell’ostacolo, ma nulla. A suo modesto parere, nessuno dei suoi errori era così grave, né lei era in grado di sorreggere un peso così devastante.
Appena tornata a casa, una settimana prima, dopo la serata con Alaska e la mattinata distruttiva, si era premurata di distruggere qualunque oggetto potesse ricordarle anche solo minimamente Luke Hemmings e la storia che avevano avuto. Foto, album, regali, fotografie e decine di fiori messi ad essiccare tra le pagine dei suoi romanzi preferiti, era tutto finito in alcuni sacchi che aveva chiuso a chiave nel ripostiglio della soffitta. Voleva cancellare tutto, quasi come se eliminando Luke dalla sua mente sparisse anche il dolore che c’era nel suo animo; e sarebbe anche stata una cosa plausibile, ma come si fa ad eliminare qualcuno così?
Semplicemente non si può. E Liza questo lo aveva compreso una volta tornata nella sua stanza, ora molto più spoglia di prima ma nella quale lei era ancora capace di vedere, sentire Luke; lo vedeva steso sul letto insieme a lei, un aroma ormai lontano di dopobarba costoso e tabacco ad inondarle le narici, e lo vedeva dietro alla sedia della scrivania che la distraeva mentre lei tentava di studiare per l’esame del giorno dopo.
-Sei troppo stressata, devi rilassarti bimba- le diceva baciandole il collo e solo a pensarci, a Liza veniva involontario toccarsi gli stessi lembi di pelle che avevano toccato le labbra di lui e le quasi sembrava di sentire i solchi che le avevano lasciato. Non si notavano, molto probabilmente non c’erano nemmeno ma Liza li sentiva, sulla pelle, nella sua mente, nella sua testa, ma non nel suo cuore. Sì, perché se c’era una cosa di cui era sicura era che Luke le mancava da morire, ma che non avrebbe mai accettato un suo ritorno, perché un tradimento non è qualcosa a cui ti abitui di norma, figuriamoci se hai avuto l’onore di vederlo letteralmente coi tuoi stessi occhi.
Per 3 giorni non aveva chiuso occhio prima che sorgesse il  sole. Il suo problema era il buio. Appena chiudeva gli occhi si vedeva di nuovo apparire quella scena davanti agli occhi e si sentiva maltrattata, si sentiva sporca, violata da qualcosa che non avrebbe dovuto scalfirla così tanto perché sarà pure una cosa pessimistica da credere, ma se stai insieme ad un tipo come Luke un tradimento prima o poi te lo saresti sempre aspettato. Le ci erano volute tutte le tisane rilassanti che erano avanzate in dispensa e un paio di dischi classici di Margo per dormire 7 ore stentate e bene o male  andava avanti così; con Alaska che ogni giorno le portava la colazione all’università, i croissant al cioccolato che lei puntualmente non finiva ed il caffè doppio che invece finiva troppo presto. Con Alaska a casa sua di pomeriggio a tentare di farla ridere, con Alaska a cena che faceva battute stupide insieme a suo padre, con Alaska che le proponeva una festa insieme a Lee, Lee che proponeva feste insieme ad Alaska  e Margo che veniva e semplicemente stava lì ad avvalorare le tesi di Alaska e a sorriderle con quel cipiglio impassibile e rilassato che caratterizzava il suo volto. Un giorno si erano addirittura presentate tutte e tre a casa sua, armate di edizioni nuove e vecchie di Vogue e Cosmopolitan piene zeppe di post-it  messi a segnalare  tutti i migliori consigli per uscire da una relazione a testa alta secondo gente famosa di cui, detto chiaramente, le importava ben poco, ma che le avevano comunque fatto capire quanto bene volesse a loro e quanto loro, sebbene avessero modi bizzarri nel dimostrarglielo, ne volessero a lei.
E adesso, al settimo giorno, Liza sarebbe stata pronta ad affrontare il suo ostacolo più grande: gli allenamenti delle cheerleader. Il solo osservare di sfuggita la divisa blu e nera le provocò una fitta al petto, ed il pensare che avrebbe dovuto rivedere Tanya (la “troia traditrice” come l’aveva sobriamente soprannominata Alaska) dopo ciò che era successo, e stavolta vestita ed in posizione eretta le faceva venire la nausea; bevve una delle sue tisane, si infilò in fretta e furia la divisa e le sue Nike bianche ormai consumate dal tempo accorgendosi di essere già in ritardo. Ma appena aprì la porta  andò a sbattere contro qualcosa o meglio, contro qualcuno. Lindsey Lee Jones era lì che la guardava, subito seguita da Alaska.
La rossa faceva come al solito la sua figura, col metro e settantasei, le gambe fasciate dallo stretto pantalone di pelle ed una camicia bianca leggermente sbottonata a coprirle il seno prosperoso.
-Dove cazzo hai intenzione di andare?- esclamò Alaska dietro di lei.
-Io a..agli allenament..-
-Rettifico- disse spostando di peso Lee per puntarle un dito contro –Dove cazzo hai intenzione di andare con questi capelli?-
 
 
 
 
Alaska o, più specificamente, Lee, l’avevano completamente trasformata.
Le avevano piastrato i capelli legandoglieli in due trecce lunghe ed ordinate, e l’avevano truccata e agghindata quasi dovesse andare al MET gala.
-Non puoi andare nella tana del nemico senza fargli salire almeno un briciolo d’invidia- le aveva sussurrato Lee dopo averla osservata a lavoro finito.
-E credimi, raggio di sole- disse Alaska ghignando soddisfatta –Così , di invidia ne fai. Ed anche parecchia.-
E Liza se ne accorse appena mise piede nell’enorme palestra del campus, dagli sguardi delle sue compagne di squadra, che appena la videro entrare smisero di parlare tra di loro e si limitarono a fissarla stupite. E Liza sapeva di essere attraente, ma sapeva anche che dietro alla meraviglia di quegli sguardi si nascondeva qualcos’altro.
Gli allenamenti proseguirono alla perfezione, con Liza che si sentiva quasi utile  per la prima volta in sette giorni e Tanya che guardava solo il pavimento. E andava bene così, Liza evitava di correggerla, evitava anche di pensare a lei lì dentro come alla ragazza che si era fatta il suo Luke. Per la prima volta sentiva che sarebbe andato tutto liscio. O quasi.
-Liza, scusa, posso parlarti un secondo?- a chiederlo era stata Delilah, una moretta formosa, sempre messa alla base delle piramidi umane.
-Certo, dimmi tutto.-
-In privato, se no..se non ti dispiace.-
Lee si accorse che qualcosa non andava  solamente guardando l’andatura di Liza appena uscita dal portone della palestra; barcollava fin troppo e fissava un punto indefinito davanti a sé; diede subito di gomito ad Alaska facendole alzare gli occhi dall’ennesima partita di Candy Crush.
Liza quasi non le nota, è Alaska a chiamarla ad alta voce facendole voltare il viso verso di loro. I suoi occhi sono vacui, spenti e si nota che ha pianto.
-Che vuol dire?-      -Cosa è successo?- chiedono in contemporanea.
Liza si era seduta, quasi non riuscisse a reggere il peso delle parole che stava per pronunciare: -Non sono più nelle cheerleader.-
-Quelle stronze ti hanno cacciato?!- urlò Alaska balzando in piedi.
-No, ho lasciato.-
-Cos… Ma, non capisco, perché lo hai fatto?-
E a Liza viene da ridere, le viene da ridere forte, di una di quelle risate amare che nascono dai tuoi sentimenti più profondi e tristi. E ride, ride a crepapelle, con le lacrime agli occhi ed Alaska e Lee che la guardano impotenti senza sapere cosa aspettarsi.
-Par… Pare che- sonora risata –Luke si sia.. Pare che Luke si sia scopato quasi tutta la squadra sapete?- disse asciugandosi le lacrime, questa volta senza ridere –Sarò il fottuto zimbello di tutto il campus, cristo. Solo a pensarci io…non lo so. Me ne frego di ciò che pensano gli altri, ma io non so più cosa pensare.-
E nemmeno Alaska lo sa, perché mentre Lee porge un fazzoletto di carta a Liza con fare consolatorio lei ha migliaia di insulti che le frullano nella testa. E deve impiegare tutta la sua forza d’animo per non entrare dentro quella fottuta palestra a strozzare una ad una tutte quelle stronzette.
Le odia, le odia con tutta sé stessa, perché lei ha sempre avuto la decenza di guardare e basta. Guardare senza toccare, e non solo perché voleva fin troppo bene a Liza, ma perché è una questione etica, di puro orgoglio personale e lei  questo lo aveva capito a sue spese. Perché mentre Luke si scopava mezzo universo, lei era lì a struggersi per qualcuno che in questo momento era un gran bastardo ma che allo stesso tempo non riusciva a sembrarle disgustoso neanche un po’. Certo, voleva ucciderlo per il male che stava facendo a Liza tanto quanto voleva un suo bacio per placare il male che stava, da tempo, facendo a lei.
Il caffè di Kingston Road era stranamente vuoto, e Alaska fissava con invidia sottile Lee fumare una sigaretta appoggiata alla porta d’ingresso.
Staccava alle 7 ed erano solo le sei. Aveva sperato con tutta sé stessa di avere così tanto lavoro da impedirsi di pensare, ma chiaramente il destino aveva diverse intenzioni; non aveva smesso di ricordarsi quanto odiasse Luke Hemmings nemmeno per un solo secondo. Le veniva da piangere, poi da urlare e poi da piangere urlando, tipico no? Chi soffre in silenzio soffre il triplo.
Lee rientrò strascicando le catene posteriori dei suoi stivaletti, e vedendo la sua espressione disse con voce neutra: -Certo che deve essere difficile, per te.-
-Che vuoi dire?-
-Dico che te ne stai qui, a fingere di essere una stronza senza sentimenti quando poi senti  ogni cosa più di tutte noi messe insieme.- un ghigno sottile addobbava le sue labbra  -Sei brava a nasconderti dai giudizi, ma i tuoi sentimenti riesco a vederli io, sai.- si bloccò davanti al contenitore dello zucchero, cominciando a mangiarne un po’ da una bustina –Sai che cosa c’è però? Non mi va. Perché tu non devi, non puoi, soffrire per un tipo che nemmeno sa quanto male ti fa. Che senso ha stare male per qualcuno se quel qualcuno ignora completamente la cosa?-
Alaska sbuffò, sciogliendosi lo chignon: -Non puoi continuare a comportarti da bella tenebrosa del cazzo invece di rompermi le palle, Lee?-
L’altra scoppiò a ridere:- Bhe, scusa se mi preoccupo per te eh. Non lo faccio più, giuro.-
-Lo sai che non è questo- sospirò  -è che non lo so perché sto così. E non so perché tra tutti gli stronzi di questa terra mi è nata l’ossessione per lo stronzo numero uno, ragazzo della mia amica, uno tra i più…- si interruppe perché le guance le si erano arrossate e cominciò a pulire la macchinetta dell’espresso con gesti isterici – figli di puttana al mondo, che mi fa sembrare più volgare di quello che sono e che mi tormenta senza nemmeno rendersene conto e..cazzo. Sono fusa, Lee. Sono completamente andata.-
-Sì, lo sei.- sussurrò la rossa mentre superava il bancone e l’abbracciava stretta. E in quell’abbraccio c’erano tutte le parole che Lee non diceva e c’era una richiesta d’aiuto rimandata a quando Alaska avrebbe smesso di soffrire giusto quel po’ che bastava per capire che anche Lee non è che stesse una meraviglia; ma lei poteva aspettare anche per sempre.
-Mi dispiace immensamente  interrompere questo momento commovente- esclamò una voce sarcastica dal fondo del negozio –Ma una certa persona qui presente, nell’ultima conversazione che abbiamo avuto, tipo nel 1876,  mi ha detto che le sono cresciute le tette. E io davvero credo di non poter aspettare ancora prima di constatare questa cosa.-
Alaska si staccò incredula e Lee fece appena in tempo a tapparsi le orecchie prima che un urlo scuotesse la noiosa malinconia che aleggiava nella caffetteria.
-ROBERT GRANT CHE CAZZO CI FAI TU QUI!-
 
Alaska e Robert si erano conosciuti due anni prima; lei era al quarto anno di liceo e lui era venuto da Manchester con uno scambio culturale per un anno al progetto di belle arti frequentato anche da lei. Inglese fino al midollo e bello da far schifo, Alaska lo aveva inserito tra le sue priorità di conoscenza, anche provando a non concentrarsi sui suoi sentimenti per Luke che stavano nascendo in quel periodo quasi in contemporanea alla relazione con Liza. Ma Rob si era dimostrato più di quello che si aspettava; era come una lei al maschile, solo più simpatico ed estroverso con le altre persone, e in poco tempo erano diventati praticamente inseparabili. Alaska aveva passato da poco quello che era probabilmente stato il periodo più brutto della sua vita, e viveva in una bolla di menzogne che riusciva a far scoppiare solo mentre Robert era attorno a lei e se questa non era amicizia allora lei non sapeva come definirla. Si erano imbucati a decine di concerti, avevano fatto scommesse improbabili alle feste e si erano sbronzati fin troppe volte; una volta avevano addirittura passato la notte al fresco, accusati di un reato che ,stranamente, non avevano commesso. Poi come tutte le cose belle era finita e Robert era tornato a casa, lasciando vuoto un posto a mensa e nel cuore della ragazza. Ma adesso era di nuovo lì e per la prima volta in tanto, troppo tempo, Alaska vide le cose tornare a posto, le vide brillare come gli occhi verdi di Rob che attendevano, impazienti.
La mora corse verso il ragazzo dai capelli ricci, ancorandosi a lui, il quale la strinse ridendo ed aspirando a pieni polmoni quel profumo che tanto gli era mancato.
-Te l’ho detto, dopo quella cosa che mi hai scritto ho subito prenotato un volo per venire a vedere coi miei occhi, considerando che ti sei rifiutata di inviarmi una foto. Le tue tette sono una mia assoluta priorità, lo sai.-
-Stronzo, sono seria.- disse la ragazza dandogli un pugno leggero sullo stomaco.
-A quanto pare lo studio grafico in cui lavoro ha una filiale qui a Sydney, ed io alcune persone da rivedere. Come la mia bellissima migliore amica, che continua categoricamente  a rifiutarsi di farmi vedere le tette.-
Lei sorrise e si abbracciarono di nuovo, stavolta più forte, in maniera più profonda, trasmettendo sensazioni che non potevano essere espresse a parole.
-Ah- sospirò lui –Gesù, è triste da dire ma a quanto pare è proprio vero.-
-Cosa..?- chiese Alaska, non completamente sicura di voler sentire la risposta.
-TI SONO CRESCIUTE!-
-Quindi? Come mai sei tornato?-
-Te l’ho detto, mi mancava troppo questo posto.-
-Solo il posto?-
Robert era arrivato il giorno prima, ma non aveva potuto aspettare più di tanto prima di fiondarsi al bar dove sapeva Alaska fosse impiegata. Lee lo aveva sempre considerato okay, ed ora lui, Alaska e lei facevano un bel trio lì, come lo facevano prima che lui tornasse in Inghilterra; Liza a quel tempo era impegnata con i primi allenamenti delle cheerleader quindi non passava molto tempo insieme loro ma se c’era qualcuno con cui Robert, oltre ad Alaska, aveva un’affinità assurda quella era Margo.
A prima vista chiunque avrebbe giudicato Margo come una snob, antipatica; ma una volta vicino a lei l’idea cambiava rapidamente, e Rob questa cosa l’aveva capita dalla prima volta in cui aveva avuto il piacere di osservarla suonare il piano. Diceva che Margo si apriva all’unico mondo che conosceva quando suonava, e che quel mondo era solamente suo, non quello in cui abitavamo tutti ma quello che si era creata per delle ragioni che chiaramente lei era l’unica a conoscere. Lee, dopo aver sentito quelle parole, pensò che nessuno, nemmeno lei che la conosceva da tempo immemore, avrebbe potuto descrivere meglio di Margo Roth Spellman; la ragazza enigma, come la chiamava Liza, e l’unica a conoscenza dei segreti di tutte loro ma che non sentiva il bisogno di raccontare i suoi nonostante ne fosse piena, a detta di Rob.
Anche Alaska si era accorta dell’affinità del suo amico con Margo, e la sensazione di vera e propria felicità che le si formava all’altezza del petto quando pensava a loro due insieme non si addiceva al suo carattere naturalmente pessimista. Ma le piaceva pensare che fosse possibile nonostante le chiare tendenze masochistiche di Margo, che lei potesse ricambiare i sentimenti di Rob; e, più di ogni altra cosa, le piaceva pensare che lui fosse tornato lì apposta per lei.
-Non solo per il posto, no.- disse il ragazzo sorridendo ad Alaska –Anche per tutte voi; sapete a volte mi sento poco virile a frequentare solo voi ragazze. Ma poi mi ricordo che c’è anche…Luke! Come sta Lukey?-
Lee quasi si strozzò col terzo caffè del pomeriggio ed Alaska avvampò, avvicinandosi minacciosamente al volto del ragazzo che cominciava a capire di aver nominato la persona sbagliata.
- Da quando te ne sei andato Sono cambiate molte cose, Rob. E una di quelle è Luke Hemmings. E se già prima mi era appena sopportabile, adesso gli strapperei le palle a morsi, chiaro?!- gli occhi azzurri di Alaska davano l’impressione di poter cominciare a lanciar fiamme da un momento all’altro. Ma nel profondo, con quella domanda involontaria, si era resa conto dell’effetto che Luke poteva causare ai suoi nervi, scattati tutti sull’attenti al solo sentir pronunciare il suo nome.
-Uh, baby. Sento la tua rabbia, sai che attizzi così?- disse Rob, senza chiedere altro.
-E tu sai che sei un gran bastardo?- rise lei trascinando con sé gli altri due ragazzi.
Il pick-up si fermò fuori dalla caffetteria, stranamente deserta.
Una portiera che sbatte, un paio di Vans che strisciano sul pavimento e poi tornano indietro all’improvviso. E Luke che inizia a fumare una sigaretta con fare molto, troppo nervoso. La verità gli era apparsa davanti agli occhi all’improvviso: temeva il giudizio di Alaska molto più di quello di Liza. Il perché era confuso; Liza ed Alaska erano sicuramente diverse, ma Liza non trovava quasi mai dei difetti in lui, mentre Alaska glieli avrebbe potuti elencare tutti in un lasso di tempo che andava dalle due ore al per sempre, ma Luke sapeva che gli serviva lei. Gli serviva la rabbia che avrebbe scaricato guardandolo dritto negli occhi, perché ricordare come lo aveva già fatto altre volte lo calmava, perché gli avrebbe ricordato che almeno qualcosa era rimasto, gli serviva ma allo stesso tempo la temeva. Come temeva il suo giudizio, che sapeva bene Alaska non avrebbe mancato di sbattergli letteralmente in faccia non appena lo avrebbe visto; per questo ora era lì fuori a nascondersi, lontano meno di un metro dalla sua resa dei conti, che aveva aspettato un’intera settimana. La sigaretta era a metà, e riflesso nel finestrino scuro della sua macchina vedeva la mora che scherzava con Lee e…Robert.
Fantastico, lui tornava dall’Inghilterra e la prima cosa di cui veniva a conoscenza era quanto il biondo per tutto quel tempo fosse stato un bastardo. La voglia di entrare in quella gabbia era drasticamente diminuita, ma Luke sapeva di doverlo fare; richiamò a sé tutta la determinazione che riuscì a trovare nel suo animo e spense la cicca della sigaretta sotto la suola della scarpa. Si tolse i Ray-Ban neri e si aggiustò il colletto della camicia, aprendo finalmente la porta.
Giurò di aver sentito un sospiro preoccupato, dentro la sua testa
La prima a vederlo fu Lee, che stava per sputare il suo caffè. “Che cazzo ci fa qui?” fu il suo unico pensiero. Alaska era di spalle e si voltò appena in tempo per vedere proprio la persona a cui stava pensando in quel momento che rispondeva al saluto un po’ meno espansivo del solito di Rob.
Dov’era tutta la rabbia repressa per un’intera settimana ora che ce l’aveva davanti? Lei non riusciva a sentirne nemmeno un po’.
Luke la guarda subito dopo l’ultimo sorriso fatto a Rob, ed è come una pugnalata. E’ la prima volta, sin da quando si conoscono, che Alaska lo guarda sapendolo completamente single, ed è da vera stronza pensare a questa cosa in chiave positiva mentre Liza è da qualche parte lì fuori a piangere disperatamente tutte le sue lacrime, ma ad Alaska viene spontaneo.
-Rob, andiamo a fumarci una sigaretta.- ordina Lee, e si alza in contemporanea ad un riluttante “okay” sbuffato dal ragazzo.
Ed è azzurro nell’azzurro, amore nella disperazione, ed il saluto di Luke parte in contemporanea al pugno di Alaska.
















Grazie a chiunque sia arrivato fino a questo capitolo, lascia una recensione se ti va!

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