Calano le tenebre

di Losiliel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Per la stesura di questo racconto mi sono attenuta a Il Silmarillion e alla sezione The Annals of Aman di HoME - vol. 10 (Morgoth's Ring), tralasciando quasi completamente le modifiche esposte nella sezione The Later Quenta Silmarillion dello stesso volume.

 


 






CALANO LE TENEBRE

Capitolo 1

 

 

________________________
 

Nelyafinwë (Russandol) = Maedhros
Tyelkormo (qui chiamato anche Tyelko) = Celegorm
Curufinwë (Curvo) = Curufin
Ambarussa = Amras e Amrod
Morifinwë (Moryo, Carnistir) = Caranthir
Káno = Maglor

WARNING: per punti di vista molteplici, ma ben segnalati all'inizio di ogni sezione

_______________________

 

 

 

I

NELYAFINWË

 

 

Prima delle tenebre, arrivarono le grida.

Una moltitudine di grida, all'interno della sua testa.

Come poteva essere? Nelyafinwë non apriva mai la sua mente. Non l'aveva fatto con la madre, quando era piccolo, né con il fratello più caro. Non l'aveva fatto ai tempi della sua grande amicizia con il cugino.

Eppure ora qualcosa violava la barriera che aveva eretto a difesa dei propri pensieri: una disperazione improvvisa, che lo fece vacillare.

La penna che reggeva tra le dita sussultò, macchiando di inchiostro la lettera che stava scrivendo a sua madre, il periodico resoconto delle attività sue e dei suoi fratelli, che non poteva più farle di persona da quando erano confinati nella fortezza di Formenos.

Nelyafinwë abbassò le palpebre e si concentrò. In un attimo tornò a sigillare la mente.

Fu allora che si accorse che non tutte le urla erano all'interno della sua testa.

Sollevò lo sguardo dal suo lavoro, allontanando una ciocca ramata dal viso, e si tese in ascolto.

Nel clima di perenne allerta che si respirava in esilio, soprattutto ora che il padre era lontano, convocato dalle stesse Potenze che l'avevano bandito, il suo sconcerto fece presto a volgersi in apprensione.

Ripose la penna nella custodia, e si alzò rapido. Nella camera che gli era stata assegnata, quasi spoglia se paragonata a quella in cui era solito vivere in città, c'era un balcone esposto a nord che dava sul retro dell'edificio. Lo raggiunse e vi si affacciò.

I pochi abitanti della fortezza, gente di suo padre che aveva scelto di seguirlo nel suo allontanamento forzato, erano all'apparenza tutti radunati nel piazzale sotto di lui. Molti correvano in preda al panico, altri sembravano paralizzati dal terrore. Udì il pianto di un bambino che non riuscì a individuare, e il lungo, ininterrotto, ululato di un cane. Una donna urlò, indicando il cielo. Nelyafinwë seguì il suo sguardo e un brivido freddo lo percorse.

All'orizzonte il cielo manteneva ancora un certo chiarore, per quanto fosse già velato da un'insolita sfumatura grigiastra, ma proprio sopra di lui un'ombra cupa era scesa a coprire la volta celeste, come se la fonte di luce incessante che proveniva da sud fosse improvvisamente venuta a mancare. 

Trattenne il fiato, senza neppure accorgersene, mentre cercava di convincersi che quel fenomeno che sovvertiva le leggi di natura aveva altre spiegazioni oltre a quella evidente, che non riusciva ad accettare.

– Non è possibile… – mormorò poi, incapace di far fronte all'assurdo, e lasciò la stanza in poche rapide falcate, precipitandosi giù per le scale, saltando i gradini due alla volta.

Nelyafinwë aveva imparato che il modo migliore per reagire all'imprevisto era vincolarsi alla realtà e fare ciò che andava fatto. C'era sempre un modo corretto di agire o, almeno, uno meno sbagliato degli altri, e attenervisi era la via per non cedere alla paura. Era diventata un'abitudine per lui; quella che da fuori sembrava fredda razionalità, era il solo mezzo che conosceva per mantenere il controllo quando le cose si mettevano male. 

Ma davanti a ciò che aveva visto nel cielo, e a ciò che soggiornava appena oltre i confini della sua mente, anche le consuetudini più radicate vennero meno. Nelyafinwë si trovò ad attraversare di corsa la fortezza pronto a saltare sul primo cavallo e a precipitarsi a sud, verso la città, incurante del pericolo e del bando che gravava sulla sua testa, per accorrere in aiuto del padre, per accertarsi che la madre fosse illesa, o forse solo per non trovarsi a dover rimpiangere decisioni prese anni prima, più di quanto non stesse già facendo. L'allontanamento da Tirion era stato decretato da Námo in persona, ma altre separazioni era stato lui stesso a volerle, e non aveva mai smesso di pentirsene.

Non riuscì ad arrivare oltre il salone d'ingresso.

Finwë era lì, sull'uscio spalancato, stagliato contro la luce morente come l'ultimo baluardo di razionalità contro il sorgere della follia. Affrontava l'oscurità avanzante nel suo abito azzurro e indaco, alto e fiero come se ancora la sua testa fosse stata cinta dalla corona.

Al suo avvicinarsi si voltò. Nelyafinwë si fermò all'istante, sorpreso da ciò che vide sul volto del nonno: non paura o sconcerto, solo quella salda compostezza che sempre lo caratterizzava. Anche la sua voce era ferma e decisa quando parlò: – Ragazzo mio – disse, – abbiamo poco tempo.

– Cos'è accaduto? – domandò lui, cercando di ricomporsi per essere all'altezza del comportamento di chi aveva di fronte.

– Una catastrofe – dichiarò Finwë, e per un attimo sembrò cedere sotto un peso eccessivo persino per le sue spalle. Ma poi scosse la testa, come per recidere un contatto, e tornò a guardare il nipote dritto negli occhi.

– Abbiamo poco tempo – ripeté, – ecco cosa devi fare.

Il nonno poteva anche averlo chiamato "ragazzo mio", come faceva quando erano in famiglia e le formalità non erano necessarie, ma Nelyafinwë non faticò a riconoscere la voce del Re dietro quel tono secco e perentorio, e inconsciamente tutto il suo corpo si tese per ascoltarne gli ordini.

Tuttavia, col pensiero continuava a tornare a quelle grida che avevano invaso per un attimo la sua mente, come se, concentrandosi abbastanza, potesse riconoscerne una tra le migliaia.

Finwë sembrò accorgersene, perché gli si avvicinò e gli pose una mano sulla spalla: – Non temere per Fëanáro – lo rassicurò, – se fosse accaduto qualcosa a uno dei miei figli, lo saprei.

Nelyafinwë annuì. E si vergognò un poco, perché non era del padre la voce che stava cercando. Ma il nonno concluse: – Lo stesso vale per i tuoi cugini.

E, senza lasciargli il tempo di elaborare ciò che questa affermazione comportava, gli voltò le spalle e, tornando presso il portone, gli disse chiaro ciò che voleva da lui: – Devi mettere in salvo i tuoi fratelli e la nostra gente.

– Dove li devo condurre? – domandò Nelyafinwë che, in parte rassicurato dalle parole del nonno, stava velocemente tornando alle vecchie abitudini, anteponendo ciò che gli veniva richiesto a ciò che desiderava fare.

– C'è un posto a nord-ovest, poco oltre il bosco dove siete soliti cacciare. Un altopiano che ospita un Lago Lucente. – Il nonno gettò un'occhiata oltre l'uscio, verso il cielo, poi azionò il meccanismo che accendeva tutte le lampade che illuminavano il salone.

– Lo conosco – confermò Nelyafinwë, socchiudendo gli occhi davanti alla luce improvvisa. Non si era accorto che si era già fatto così buio.

– Raduna tutti – Finwë tornò verso di lui senza smettere di dettare ordini, – portate con voi armi e viveri, molte coperte, lanterne quante ne puoi trovare. Presto il buio sarà totale, e arriverà il freddo. Lascia i gioielli.

– Sì – rispose Nelyafinwë, mandando a memoria l'elenco. – E tu cosa farai… – chiese, – … signore? – aggiunse poi, ricordandosi che in quel momento era al Re che stava parlando.

Il nonno ignorò la sua domanda e continuò: – Assicurati che tutti i tuoi fratelli stiano bene e assegna loro dei compiti… 

– So cosa fare coi miei fratelli – Nelyafinwë afferrò il nonno per un polso, per paura che eludesse nuovamente la sua domanda.  – Tu che farai? – ripeté, sorpreso dalla propria audacia: non aveva mai osato interrompere il Re in questo modo, né aveva mai visto qualcuno fare altrettanto, salvo suo padre.

Ma Finwë, a quanto pareva, non aveva intenzione di eludere alcunché, perché rispose senza la minima esitazione: – Io lo aspetterò qui.

Nelyafinwë lasciò la presa. Per qualche motivo non si era aspettato una risposta così diretta, una risposta che, per di più, confermava il suo timore più grande: – È lui, vero?

– Sì – rispose il nonno, senza aggiungere altro.

Non c'era bisogno di ulteriori spiegazioni. Il Vala che aveva a lungo tentato di irretire suo padre aveva finalmente gettato la maschera su ciò che realmente bramava: l'opera più preziosa mai prodotta dalle mani di Fëanáro, e adesso stava venendo a prenderla.

Nelyafinwë cominciò a camminare avanti e indietro, ragionando ad alta voce: – Dobbiamo difenderli, dobbiamo custodirli… papà vorrebbe…

– Ragazzo mio – lo interruppe il nonno, – non avremmo la forza di proteggerli nemmeno se ci barricassimo nella fortezza armati di tutte le nostre armi, ed è troppo tardi per cercare di nasconderli altrove, ci è quasi addosso, e temo che non sia solo. Ma anche se lo fosse, non riusciremmo a sfuggirgli. Non dimenticare chi è.

Nelyafinwë riconobbe amaramente la verità alla quale era arrivato anche lui. Dopotutto gli stessi Valar non erano riusciti ad avere la meglio sul loro pari ribelle, nemmeno quando erano stati avvertiti del suo ritorno.

Si fermò davanti al nonno e solo lunghi anni di pratica nel contenere le proprie emozioni gli permisero resistere all'impulso di alzare la voce, o di stringere i pugni, o di manifestare la sua rabbia impotente in altri modi inopportuni.

– Quindi, non ci resta altro che… fuggire? – sputò fuori l'ultima parola, come un'imprecazione.

Ma Finwë si erse in tutta la sua altezza e un lampo attraversò i suoi occhi grigi screziati di celeste, occhi che riflettevano la potenza di colui che aveva condotto la sua gente attraverso terre popolate dalle ombre, che l'aveva governata sia sotto le stelle che alla luce benedetta, con coraggio, saggezza e quello spirito indomito che faceva di lui il primo di tutti i Noldor.

– Io sono Finwë Noldoran – disse, – e non cederò mai di un passo davanti a chi ha portato la sofferenza tra la mia gente.

Il significato di quell'affermazione colpì Nelyafinwë come un pugno nello stomaco.

– Allora…

Allora ti sacrificherai inutilmente, voleva dirgli, perché i Silmarilli andranno perduti in ogni caso, ma a causa della tua decisione mio padre soffrirà due volte, infatti di certo la tua vita è più importante per lui di tutte le gemme di questo mondo. Ma non riuscì a concludere la frase. Voleva credere che fosse così, voleva crederci con tutto il cuore, ma non ne era più tanto sicuro.

– Allora resterò con te – concluse, e nel dirlo ebbe la certezza di aver preso la decisione giusta.

Ma il nonno la pensava diversamente. – Nelyafinwë! – esclamò, enfatizzando la prima parte del suo nome come per sottolineare la gerarchia, – arriverà anche per te il momento di affrontare lo stesso nemico, ma non è ora. Adesso è il momento di obbedire al tuo Re.

Poi la sua espressione severa si ammorbidì un poco. – Tu sei un figlio della luce – disse, piano, e gli accarezzò una guancia, con un gesto carico di tenerezza, – ma io conosco l'oscurità, e non la temo. 

Nelyafinwë si trovò a guardare in quegli occhi sinceri, e all'istante seppe che era vero.

Allora provò ancora più forte la sensazione che il suo compito fosse proprio quello di restare a fianco del suo Re fino alla fine, e gli sembrò che nella sua vita non ci fosse poi più molto da perdere e che, anzi, se fosse rimasto, molte sofferenze sarebbero state risparmiate a lui e a tanti altri.

Ma poi il Re ordinò: – Ora va', ti affido i tuoi fratelli. Fëanáro avrà bisogno di tutti voi.

E Nelyafinwë chinò il capo in segno di obbedienza, o forse lo fece per indugiare un istante ancora contro la mano del nonno, in quell'ultima carezza.

Poi, come sempre, fece ciò gli veniva chiesto.

 

 

 

II

TYELKORMO

 

 

Quando Tyelkormo vide arrivare l'oscurità non ne fu sorpreso. Da diversi giorni le cose non erano come avrebbero dovuto essere. C'era una strana vibrazione nell'aria, come un'increspatura nel tessuto del creato, che rendeva gli animali irrequieti. Huan stesso non si allontanava mai dal suo fianco, e spesso si metteva a ringhiare, senza una ragione apparente.

Fino a qualche tempo prima, la sua reazione istintiva di fronte a queste anomalie, sarebbe stata chiedere consiglio al suo vecchio maestro, Oromë, colui che gli aveva insegnato, tra mille altre cose, come espandere le proprie percezioni per entrare in contatto con la natura che lo circondava.

Ma da quando il bando gravava sulla testa di suo padre, e ancor di più da quando le Potenze avevano fallito a catturare quell'infido doppiogiochista, nonostante fossero state avvertite dal nonno del suo ritorno, la fiducia di Tyelkormo nei Valar era calata drasticamente, e cominciava a nutrire forti dubbi anche sul suo mentore.

Non volendo addossare altre preoccupazioni ai fratelli, già tesi al limite della sopportazione, né tantomeno a Finwë, aveva chiuso la mente contro il turbamento del mondo e aveva atteso di vedere cosa sarebbe accaduto, aspettandosi il peggio.

E il peggio era arrivato il pomeriggio in cui erano calate le tenebre.

Lui si trovava nelle le scuderie, una costruzione di legno lunga e bassa, eretta sul retro della fortezza, e stava preparando il suo cavallo per raggiungere gli Ambarussa nel bosco.

Da quando il padre li aveva lasciati per quella strana convocazione, infatti, il piccolo aveva cominciato a mostrare segni di inquietudine e il gemello, con l'aria di superiorità che sfoggiava sempre quando il minore si mostrava incerto, come a voler sottolineare che potevano anche condividere l'aspetto ma oltre a quello poco o niente avevano in comune, aveva chiesto a Tyelkormo di accompagnarli a caccia per distrarlo. 

Gli Ambarussa erano partiti quel mattino per allestire il campo che li avrebbe ospitati per alcuni giorni e lui era impaziente di unirsi a loro; grazie a Eru l'esilio li costringeva a stare lontani dalla città, non a rimanere vincolati all'interno della fortezza. Non ne sarebbe uscito vivo, altrimenti.

Ma non appena mise piede fuori dalle scuderie, Huan, che lo seguiva da vicino, gettò il muso all'indietro e lanciò un ululato raggelante, che lo spinse a guardare in alto a sua volta. Il cielo sopra di loro aveva assunto una tonalità inconsueta, scura, ben diversa dal perlaceo di cui si tingeva quando Telperion si sostituiva al suo dorato compagno, o dal candore opaco di quando si rannuvolava per donare la pioggia alla terra. Era un fenomeno mai visto, inconcepibile. E sul quale non ebbe il tempo di ragionare perché, nello stesso momento, sentì le grida provenire dalla fortezza.

Tyelkormo lasciò il cavallo e cominciò a correre. Non in direzione dell'edificio principale, ma verso una piccola costruzione di mattoni, a pianta circolare, poco distante, dal cui tetto si innalzava un alto camino. Il fumo che ne usciva indicava senza possibilità di errore che chi stava cercando era lì.

Spalancò la porta della fucina, ignorando ciò che l'occupante della costruzione chiamava "la prima regola imprescindibile". Huan entrò al suo seguito, infrangendo un'altra serie di leggi non scritte.

– Curvo! – gridò alla figura di spalle, intenta al lavoro davanti al fuoco di forgia. – C'è qualcosa che non va.

– La tua presenza qui, tanto per cominciare. – Curufinwë si voltò verso di lui; tra le mani, rivestite da guanti che gli arrivavano fino al gomito, stringeva una lunga pinza di ferro. – Quante volte ti devo dire… – riprese, seccato, ma si interruppe quando il suo sguardo incrociò quello del fratello. Come sempre a Curvo bastava una singola occhiata per registrare ogni cosa e capire al volo tutto quello che c'era da capire.

Tyelkormo riconobbe quell'impercettibile contrazione della mascella, segno dello sforzo che il fratello stava facendo per mantenere il volto impassibile e, forse per la prima volta nella sua vita, lo vide fallire. – Papà… – sfuggì dalle labbra tese di Curvo.

– Papà se la cava benissimo da solo – tagliò corto Tyelkormo.

Vedere l'incertezza sul viso del fratello era inconsueto e spaventoso come… come assistere alla discesa delle tenebre, appunto. Tyelkormo distolse lo sguardo per concedergli il tempo di ricomporre la sua espressione indifferente senza metterlo in imbarazzo, poi tornò a fissarlo.

Agli occhi di tutti Curufinwë era tale e quale il padre e lì, nella penombra della stanza, con i capelli scuri legati in un'unica treccia, le braccia muscolose che terminavano nei guanti di pelle spessa, il torace coperto unicamente dal grembiule di cuoio, anche lui doveva ammettere che la somiglianza era impressionante. Persino la piega degli occhi, che gli conferiva uno sguardo sprezzante, ricordava quella del padre. In suo fratello era solo un po' più artefatta.

Ma Tyelkormo, forse per la sua capacità di percezione affinata in anni di allenamento o per una particolare predisposizione verso quel fratello, aveva imparato ad andare oltre l'aspetto fisico, oltre quella maschera di arroganza e di superbia che sempre l'altro sfoggiava. 

Ciò che vedeva lui, quando guardava Curvo, era un animale in gabbia. Sbarre costruite da lui stesso per proteggersi dal mondo intero, che avevano finito per intrappolarlo in una recita dell'Elda di cui portava il nome.

Tyelkormo sperava che prima o poi quella prigione sarebbe crollata, che suo fratello sarebbe stato libero di essere ciò che realmente era: un degno erede di suo padre, non la sua copia malriuscita. E non smetteva mai di provocarlo, per far sì che ciò accadesse, per non lasciare che si arrendesse ad essere nient'altro che il riflesso di un Elda, per quanto il più famoso, ma che facesse emergere la propria grandezza.

Ma ora, nel vedere sul volto di Curvo l'incrinarsi di quella maniacale compostezza, si chiese per la prima volta se non sarebbe stato meglio lasciare le cose come stavano, se quella prigione non fosse già divenuta un rifugio, e le sbarre un sostegno, e se il loro infrangersi non avrebbe arrecato al fratello non la liberazione, bensì la caduta definitiva.

Durò un istante, poi Tyelkormo scosse la testa, nel modo tutto suo di scacciare i pensieri scomodi; ciocche di capelli chiari gli ricaddero sul viso e se ne allontanarono. Veloce come era arrivata, la malinconia scomparve e lui tornò alla realtà. Non c'era tempo da perdere in inutili elucubrazioni.

Rapido, si avvicinò a una finestra e ne scostò la tenda, invitando Curvo a guardare fuori con un cenno del capo: – Cosa pensi stia succedendo? – domandò.

Suo fratello era il più giovane di loro, esclusi i gemelli, ma era anche il più svelto in quanto a capacità di analisi, secondo forse solo a Russandol. Tyelkormo non dubitava che lui avesse già la risposta. 

Curvo si tolse rapidamente i guanti e si avvicinò anch'egli a una finestra (non quella presso cui stava lui, notò Tyelkormo con una punta di amarezza), vi si affacciò e guardò il cielo. 

– Non lo so – rispose, con l'aria di chi aveva già fatto una decina di ipotesi e ne stava valutando le conseguenze. 

I due si scambiarono una breve occhiata e, in un attimo, si misero in azione, guidati quella profonda intesa che esisteva da sempre tra loro, nonostante il minore lo negasse.

Tyelkormo individuò la casacca rossa di Curvo appesa a un piolo e gliela tirò. Il fratello, che nel frattempo si era tolto il grembiule e l'aveva scagliato sul tavolo da lavoro, la prese al volo e la indossò con un ampio movimento circolare, che servì ad avvicinarlo a un ripiano su cui erano appoggiate alcune spade appena affilate. Tyelkormo richiamò Huan presso di sé con un cenno del capo, mentre protendeva il braccio destro in direzione del fratello, la mano aperta. Curvo, con la veste slacciata che gli volava attorno come un mantello, afferrò due spade e con un lancio preciso fece finire l'elsa di una delle due dritta nella mano che la attendeva.

Il tutto era durato quanto un battito di ciglia.

– Ma qualsiasi cosa sia, non ci coglierà impreparati – concluse Curvo, con decisione.

Tyelkormo soppesò la lama, e un lampo di sfida si accese nei suoi occhi. Con un'arma in pugno tutti i suoi sensi si allertarono all'istante. Ogni dubbio, ogni timore, ogni incertezza svanì davanti alla possibilità di affrontare qualsiasi minaccia a viso aperto, a fianco del fratello. Fu percorso da un brivido di eccitazione, sentì tutti i muscoli tendersi e percepì l'essenza di Huan che splendeva come fiamma poco distante. 

E quando Curvo gli passò accanto diretto alla porta, Tyelkormo fu investito dal calore della sua pelle a lungo esposta al fuoco, dall'ondata di rabbia che il fratello portava con sé per sottomettere la paura, e dal suo odore, di faville e metallo fuso.

– Seguimi – disse Curvo, come chi sapeva che sarebbe stato obbedito, e uscì.

Tyelkormo non se lo fece ripetere.

 

 

 

III

MORIFINWË

 

 

Morifinwë sollevò lo sguardo dal progetto al quale stava lavorando, con la chiara sensazione che qualcosa non andasse. In piedi, davanti al tavolo del laboratorio su cui era disposto un modello in gesso delle mura della fortezza, si passò una mano tra i lunghi capelli scuri, lasciandovi strisce di polvere bianca.

Gli sembrò di sentire un lamento insistente ai margini della percezione, che si affrettò a escludere dalla mente, e notò un leggero calo della luce, che attribuì a un improvviso rannuvolamento.

Non aveva tempo da perdere. Si era ripromesso di terminare il progetto per la fortificazione delle mura prima del rientro di suo padre, che poteva avvenire da un momento all'altro, per quanto ne sapeva lui. Morifinwë non aveva idea di quanti giorni sarebbe durata quella farsa.

Per un attimo ripensò a quanto si era indignato nel vedere Fëanáro partire così, disadorno, quasi dimesso, come un qualunque Elda di basso rango (anche se, trattandosi di suo padre, non avrebbe mai potuto passare per un Elda qualunque, a prescindere dal rango). Poi le parole di Curvo, stranamente prive di sarcasmo, gli avevano chiarito il motivo di quella scelta: "Mai concedergli quello che vogliono, se li vuoi mettere in difficoltà." E lui aveva capito: tra suo padre e le Potenze ormai era scontro aperto.

Morifinwë scosse la veste amaranto per allontanarne la polvere di gesso, ottenendo solo di aggiungervi altre chiazze chiare. Ogni volta che gli capitava di ripetere quel gesto, gli sembrava di sentire ancora sua madre che gli diceva di indossare almeno un grembiule prima di lavorare la pietra. Si sforzò di abbandonare quel pensiero, che non avrebbe portato altro che dolore, e di tornare a concentrarsi sul suo lavoro.

Ma in quel momento capì cosa l'aveva distratto. Non un contatto mentale indesiderato, non l'insolito calare delle ombre, ma una voce.

Russandol stava gridando. Lo sentiva impartire ordini dalla finestra aperta sul cortile.

Morifinwë si mise in ascolto, facendo inconsciamente scorrere il labbro inferiore tra i denti. Il maggiore dei suoi fratelli era capace di farsi obbedire senza mai alzare la voce, bastava che dicesse una parola e tutti erano lì a pensare che fosse la cosa più ragionevole da fare. Se ora stava gridando, questo poteva significare una cosa soltanto: erano in guai grossi.

Tuttavia lui non era uno che si faceva prendere dal panico con facilità. Aveva delle certezze e, nonostante tutto quello che era successo negli ultimi anni, ancora ci si aggrappava testardamente, sfoggiando di volta in volta indignazione, o indifferenza, a seconda del caso, quando provavano a contraddirlo.

Una di queste certezze era che nulla di irrimediabile poteva accadere nella Terra Benedetta.

Le difficoltà a cui tutti loro potevano andare incontro nel Reame Beato non erano nulla se paragonate a quelle che molti dei suoi simili avevano dovuto affrontare quando abitavano nelle Terre ad Est. Aveva letto molti testi che ne parlavano, e conosceva diverse persone, tra cui suo nonno, che erano nate e avevano vissuto per lungo tempo in Endor. Si era fatto raccontare cosa significava vivere dove la luce era scarsa, dove bisognava faticare anche per trovare il cibo, dove si aggiravano creature malvagie e le belve feroci vagavano libere, e la terra stessa era ostile. Gli avevano parlato di venti capaci di sradicare gli alberi e di tuoni che provenivano dal sottosuolo, che potevano spaccare il terreno come fosse legno secco.

Quelle erano cose di cui preoccuparsi, e di cui si sarebbero preoccupati, pensò Morifinwë con un brivido misto tra la paura e l'eccitazione, se suo padre avesse continuato ad andare dritto sulla strada che aveva intrapreso. Ma qui niente di grave poteva loro accadere. Qui, all'ombra del Taniquetil, dove il Signore del Respiro di Arda si diceva fosse in contatto con lo stesso Eru, tutto era sotto controllo.

Eppure adesso sentiva Russandol che gridava, e non c'era certezza che potesse cancellare questo fatto.

Lasciò il tavolo e si affacciò alla finestra. Il laboratorio prendeva un'ampia sezione del piano terra dell'edificio e delimitava il lato ovest del piazzale, che in quel momento era più affollato del solito. Molte persone andavano e venivano trasportando oggetti che ammassavano sul pianale di un carro. Morifinwë riconobbe provviste, pellicce, molte lampade e altri pacchi di cui non riuscì a indovinare il contenuto. Ad un tratto vide Curvo, con la veste insolitamente in disordine, e Tyelko, seguito da Huan, arrivare insieme con un carico di armi.

Morifinwë si sporse per cercare il maggiore dei suoi fratelli, seguendone il suono della voce, e lo trovò poco distante, di spalle, alto e sicuro, a dirigere quel caos apparente senza mostrare incertezze.

Come se avesse percepito la sua presenza, Russandol si voltò e lo vide.

– Moryo, per tutti i Valar! – gridò, – recupera Káno e venite ad aiutarci!

Morifinwë si accorse solo in quel momento dell'assenza di Káno, e forse fu proprio questo che lo spinse a non perdere altro tempo e ad affrettarsi a eseguire ciò che gli veniva chiesto. I due maggiori avevano sempre avuto un rapporto speciale, ma da quando erano a Formenos sembravano diventati inseparabili. Káno difficilmente lasciava il fianco di Russandol.

Lanciò un ultimo sguardo al modello abbandonato sul tavolo, con la spiacevole sensazione che il suo lavoro incompiuto sarebbe rimasto tale, e si precipitò fuori dal laboratorio, su per le scale, per attraversare la fortezza fino alla stanza del fratello.

Káno aveva la camera più grande, non solo per poter tenere con sé i suoi numerosi strumenti o per una questione di acustica, come aveva detto al padre per giustificare la sua richiesta, ma perché per lungo tempo era stato convinto che la moglie l'avrebbe raggiunto in esilio. Non era stato così, nessuna di loro l'aveva fatto.

Morifinwë avanzò con cautela. Era una stanza molto accogliente, e, di solito, molto luminosa, perché aveva un'ampia terrazza rivolta a sud, affacciata sul viale d'accesso che tagliava il parco per arrivare dritto al cancello tra le mura. Ora la luce era così scarsa che i mobili emergevano come sagome amorfe dalle ombre: il letto, una lunga cassapanca, un tavolo dalle linee aggraziate, la grande arpa in un angolo, un divano coperto da cuscini dai colori ormai spenti.

Nessuna traccia di Káno. Morifinwë fece per tornare sui suoi passi, quando la sua attenzione fu attratta dall'arco che dava sul terrazzo, attraverso il quale, come in uno specchio distorto che trasformava la realtà nel suo opposto, sembrava entrare la tenebra invece che la luce.

Lo oltrepassò, sentendo le proprie certezze che pian piano andavano in frantumi. Ciò che vide lo sconvolse al punto che sulle prime non si rese nemmeno conto di aver trovato chi stava cercando. 

L'orizzonte, perennemente acceso dall'uno o dall'altro Albero, o dal fondersi delle due radianze in quel miracolo di sfumature di cui l'occhio non si sarebbe mai saziato, ora era un ribollire di dense nuvole nere, come polvere di carbone fattasi liquida, un'eruzione pulsante dal cui cuore si dipanavano grigi tentacoli che invadevano il cielo, come dita scheletriche che ghermivano la luce.

Davanti a questo incubo fattosi reale, Káno si ergeva immobile. Le mani avvinghiate alla ringhiera, gli occhi spalancati sulla catastrofe, i capelli onde scure che assecondavano il soffio incostante di un vento malato. 

Non un battito di palpebre, non un alzarsi e abbassarsi del torace al ritmo del respiro sotto la sua camicia leggera, che si gonfiava quando l'aria penetrava a raffiche dallo scollo sul petto. Morifinwë fu scosso da un tremito e si accorse solo in quel momento di avere freddo.

– Káno! – esclamò, sperando contro ogni logica che bastasse questo per strappare il fratello da quella stasi innaturale.

Ma l'altro non diede segno di averlo sentito.

Morifinwë esitò. 

Non sapeva mai come reagire davanti alle richieste d'aiuto, e ancor meno sapeva reagire quando l'aiuto, seppur necessario, non veniva richiesto. Semplicemente, non era mai stato il suo ruolo. In famiglia c'era Tyelko al quale appoggiarti, se finivi in guai che non volevi arrivassero alle orecchie dei genitori, Káno se avevi bisogno di conforto, Curvo per lo studio (posto che avessi qualcosa da dargli in cambio) e Russandol per tutte queste cose insieme. Morifinwë non era avvezzo al ruolo dell'aiuto. Era più abituato a quello di colui che si tiene in disparte.

Quando era nato, i suoi tre fratelli erano già piuttosto grandi e lui era rimasto un po' isolato. Non che gli fosse importato poi molto, a lui non dispiaceva affatto starsene solo, di quando in quando. I rapporti con gli altri, li trovava faticosi. Preferiva passare per un insensibile, piuttosto che esporsi nel tentativo di comunicare le proprie emozioni, preferiva sembrare meno intelligente di quello che era, che affannarsi a trovare le parole giuste per esporre i concetti.

E anche se il suo carattere introverso col tempo si era ammorbidito, soprattutto a causa dell'esuberanza incontenibile di Tyelkormo che aveva finito per coinvolgerlo quasi di forza nella vita dei fratelli più giovani, nei confronti dei due maggiori la soggezione non era mai stata superata completamente, e provava per loro ancora un po' di quella riverenza che di solito si riserva ai genitori. 

Il che gli rendeva più difficile affrontare la situazione attuale. Era anomala, scomoda, a ruoli invertiti.

Torturandosi tra i denti il labbro inferiore, cercò di pensare a cosa avrebbe fatto Russandol, e non riuscì a darsi una risposta. Pensò per un attimo di andare a chiamarlo, ma l'orgoglio lo bloccò.

Alla fine, sull'orlo del panico, urlò: – Che cos'hai? 

Che idiota, lo sapeva benissimo che cosa aveva. Quell'involontario tentativo di intrusione mentale, che lui aveva scacciato senza nemmeno pensarci, in suo fratello doveva aver preso il sopravvento. Káno era sempre stato molto propenso all'apertura della mente, ricettivo verso tutti. Troppo disponibile. Troppo fiducioso. 

– Devi chiuderli fuori! – gridò, col terrore che cresceva, non osando ancora toccarlo. 

Alla fine, colto dalla disperazione, gli afferrò i polsi e gli strappò le mani dalla balaustra, tirandolo verso di sé per evitargli di cadere in avanti. Káno, perdendo la presa gli finì addosso. Rialzando la testa dal suo petto, il fratello gli rivolse un'occhiata confusa: – Russa… – cominciò, – Moryo?

– Ehm, già. – Morifinwë arrossì. Farei volentieri a meno anch'io di essere qui. Voleva dirgli, con asprezza.

Invece chiese: – Come stai?

– È… è passato – balbettò Káno, con l'aria di stare anche peggio di prima. Brividi sulla sua pelle e la fronte imperlata di sudore, gli occhi colmi di spavento. Poi aggiunse: – Grazie, Carnistir.

Morifinwë indietreggiò di un passo, a disagio per l'intimità evocata da quel nome e per le parole di gratitudine, che non era abituato a ricevere. Stringeva ancora i polsi del fratello e temette di essere sul punto di fare qualcosa di stupido, come abbracciarlo, o tirargli uno schiaffo per riportarlo alla realtà con modi più drastici, ma prima che potesse decidersi, Káno mormorò: – È la fine del mondo.

– Non lo è affatto – reagì Morifinwë, fingendo spavalderia. Era un atteggiamento talmente radicato in lui, che nemmeno si accorse di quanto risultava fuori posto.

– Papà sistemerà tutto – insistette, e, nel pronunciarle, si accorse di non credere a una sola parola. – Oppure lo farà il nonno – si corresse.

Ma Káno scosse la testa, si sfilò dalla sua presa, e lo precedette di corsa nel corridoio.

 

 

 

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Note finali

01.
Grazie a tutti per aver letto! E un grazie particolare alle ragazze che in questi giorni, con i loro consigli o con le loro parole incoraggianti, mi hanno dato fiducia per procedere con la scrittura: Kanako91, Melianar e Tyelemmaiwe.

02.
Nomi e titoli
Fëanáro = Fëanor
Noldoran = Re dei Noldor
Signore del Respiro di Arda = Manwë

03.
Maedhros e Celegorm fanno riferimento a un episodio narrato nel Silmarillion. Quando Melkor, dopo un periodo di latitanza, si presenta a Formenos e viene respinto malamente da Fëanor, Finwë invia dei messaggeri a Manwë per riferirgli dell'accaduto, ma Oromë e Tulkas non fanno in tempo a mettersi sulle sue tracce.

04.
Il Lago Lucente
"Le rugiade di Telperion e la pioggia che cadeva da Laurelin, Varda le conservava in grandi tinozze simili a laghi lucenti, che per tutta la terra dei Valar erano come sorgenti di acqua e di luce". (Quenta Silmarillion, cap. 1 - L'inizio dei giorni)

05.
Tolkien sostiene che la trasmissione del pensiero sia rafforzata da alcune condizioni di urgenza, tra cui dolore e paura. Ho immaginato che gli Eldar, davanti alla morte degli Alberi, abbiano provato entrambe le cose in modo così intenso da comunicarlo involontariamente a tutti i loro simili. In ogni caso Tolkien precisa anche che "se, accorgendosi di stare ricevendo un pensiero, la mente si chiude, nessuna urgenza o affinità permetterà al pensiero del trasmittente di entrare". (Ósanwe-kenta)

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***




 

CALANO LE TENEBRE

Capitolo 2

 

 

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Ambarussa il maggiore = Amras
Ambarussa il minore (Pityo) = Amrod
Nelyafinwë (Russandol) = Maedhros
Tyelkormo (qui chiamato anche Tyelko) = Celegorm
Curvo = Curufin
Káno = Maglor
Moryo = Caranthir

WARNING: per punti di vista molteplici, ma ben segnalati all'inizio di ogni sezione
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IV

AMBARUSSA

 

 

Presso la tenda che avevano eretto quella mattina in attesa dell'arrivo di Tyelkormo, in una radura dove spesso si accampavano quando andavano a caccia in quei boschi, Ambarussa assisteva al sopraggiungere della fine. 

Intorno a lui il mondo stava crollando. L'oscurità era calata all'improvviso, il freddo scendeva veloce, le grida stazionavano in fondo alla mente. Sembrava che tutto stesse per essere inghiottito dal Vuoto.

Da qualche istante sentiva anche le belve spaventate che si avvicinavano circospette. Era un buon cacciatore, sapeva che le belve spaventate diventavano feroci.

Eppure, niente di tutto questo bastava a intimorirlo. Ambarussa aveva imparato a sopprimere le proprie paure fin dalla più tenera età. Aveva sviluppato un carattere determinato, che davanti alle difficoltà diventava quasi testardo. Il padre stesso gli aveva riconosciuto quella dote, in più di un'occasione.

C'erano ben poche cose che Ambarussa non sarebbe stato in grado di affrontare.

Purtroppo non si poteva dire altrettanto del suo gemello. 

Pityo, il piccolo, così l'aveva chiamato il padre, e Ambarussa non poteva che trovarsi d'accordo, perché per quanto i due condividessero un aspetto che li rendeva quasi indistinguibili, lui si era sempre ritenuto il più grande, il più forte, il più capace. 

Anche adesso, nella situazione di estremo pericolo in cui si trovavano, dove potevano contare solo su loro stessi, Pityo se ne stava lì, in piedi, paralizzato dal terrore, con lo sguardo smarrito spalancato contro il cielo nero. Sembrava in pieno delirio, e balbettava parole spezzate.

Lui ne riconobbe soltanto una: – Mamma.

Ambarussa imprecò, lasciando libero sfogo all'insofferenza, e reagì quasi per contrasto, per dimostrarsi ancora una volta diverso da quel fratello debole, che nei momenti difficili sembrava regredire al livello di un bambino.

Accatastò nel centro della radura la legna che avevano raccolto quel mattino e accese un grande fuoco. Recuperò gli archi, le faretre e i pugnali, conficcò alcune frecce nel terreno a portata di mano.

Infine afferrò il fratello per un polso e, con poca grazia, lo trascinò vicino al fuoco, alla luce. Lo guardò negli occhi, scuri e assenti, allo stesso livello esatto dei suoi, e trovò confermati i propri timori: il piccolo sembrava aver perso completamente il contatto con la realtà.

A quella vista, la rabbia che cercava così tenacemente di alimentare minacciò di abbandonarlo. Dovette sforzarsi per ricordare a sé stesso che la compassione era debolezza, e la debolezza era la prima cosa da evitare in un frangente come quello. Anzi, era la prima cosa da evitare e basta.

Prese il viso del fratello tra le mani e lo tenne fisso davanti al suo. – Ambarussa, guardami! – gli ordinò, chiamandolo col nome che condividevano. La sua voce era ferma, anche se non dura quanto avrebbe voluto.

A volte bastava questo per placare le ansie del gemello. Come se vedere un'immagine di sé capace di mantenere il controllo gli desse la forza per recuperare la calma.

Ma non questa volta. Pityo perseverava nel suo sguardo assente, come perso su luoghi a lui preclusi.

Ambarussa si domandò ancora come fosse possibile che il suo gemello fosse così diverso da lui. Era irritante, peggio, era un affronto personale: il fratello non aveva il diritto di indossare il suo stesso corpo, di essere chiamato persino col suo stesso nome, se non possedeva nemmeno un briciolo di quel coraggio richiesto a tutti i figli di suo padre!

Eppure era sempre stato così. Ambarussa ricordava ancora quelle notti, da bambini, quando si svegliavano di soprassalto sentendo i genitori litigare nella stanza accanto alla loro. Parole dure, cariche di risentimento, che filtravano attraverso le pareti anche se chi le pronunciava si sforzava di non alzare la voce.

Era stato lui, allora, ad avventurarsi fuori dal suo letto, raggiungere il gemello, prenderlo per mano e trascinarlo su per le scale fino alla camera di Russandol, dove finalmente si addormentavano al suono della voce del maggiore che gli raccontava una storia.

E quando, col tempo, le liti si erano fatte più accese e Ambarussa, ormai ragazzino, non aveva più voluto mostrarsi debole agli occhi dei fratelli più grandi, era stato lui ad accogliere il gemello nel proprio letto, a tenerlo stretto tra le sue braccia, e a consolarlo nel solo modo cha aveva trovato. Era entrato nella sua mente e aveva scacciato la confusione e la paura con tutta la determinazione e il coraggio che era riuscito a mettere insieme.

Alla fine la madre se n'era andata, le grida erano cessate, e non c'era stato più motivo di condividere il letto o la mente.

Ambarussa aveva allora provato un disagio indefinibile, come se la partenza della madre non fosse stato l'inizio di un nuovo equilibrio, ma il preludio di qualcosa di ancor più disastroso. E con un certo fastidio, perché mostrarsi debole a sé stesso era persino peggio che farlo agli occhi dei fratelli, aveva dovuto ammettere che da quella condivisione col fratello anche lui aveva tratto conforto.

Così, le rare notti in cui Pityo, preso dal timore che anche il padre potesse abbandonarli, o da chissà quali altri a lui sconosciuti, si rifugiava sotto le sue coperte, lui gli faceva posto nel suo letto ormai troppo stretto e dormiva ancora col piccolo tra le braccia, anche se questo comportava lo svegliarsi con qualche arto intorpidito o con una manciata di capelli che gli finiva in bocca.

Aveva però rifiutato di concedergli il conforto della condivisione della mente. Basta, gli aveva sussurrato all'orecchio, un notte, all'ennesima richiesta del fratello. Siamo troppo grandi per questo genere di cose, buone per i mocciosi che chiamano la mammina perché hanno paura della propria ombra.

Così si era giustificato, ma la verità era che non sopportava più di essere messo di fronte a quelle paure infantili, col rischio di scoprire che, in fondo, erano sempre state anche le proprie.

Ambarussa aveva superato. Aveva soppresso. Era andato avanti. Ambarussa non aveva più bisogno di nessuno.

E Pityo aveva smesso di domandare.

Adesso però non vedeva altra strada per riportare il fratello alla realtà che ricorrere a quella pratica a cui si era sottratto anni prima. Non poteva permettersi di lasciarlo in quello stato fino all'arrivo dei soccorsi (non dubitava che Russandol o Tyelko sarebbero presto arrivati): aveva bisogno di aiuto se volevano restare in vita fino a quel momento.

Allora lo fece sedere in terra, si sfilò la casacca e gliela appoggiò sulle spalle. Gli allontanò dal viso una ciocca di capelli sfuggita dal nodo che legava i suoi ricci scarlatti dietro la nuca e si sedette al suo fianco. Poi gli prese una mano tra le sue e, ricorrendo a tutta la dolcezza che nel corso degli anni si era sforzato di reprimere, implorò: – Ambarussa, lasciami entrare.

E senza attendere la risposta, che credeva scontata, si accinse ad accedere alla mente del fratello, pronto a sostituire la paura con quel minimo di sicurezza di cui disponeva. Era passato molto tempo dall'ultima volta, e si trovò a procedere con insolita cautela e con un certo imbarazzo, confidando però nel fatto che, appena il fratello avesse percepito la sua presenza, l'avrebbe accolto senza esitare.

Invece, del tutto inaspettatamente, Pityo lo respinse.

E come se non bastasse, il fratello cominciò a tremare, sebbene sedesse proprio di fronte al fuoco, anzi sembrava quasi che il fuoco stesso, invece che dargli conforto, lo spaventasse ancora di più. Lo sentì mormorare parole senza senso sul mondo intero divorato delle fiamme.

Il maldestro tentativo di Ambarussa aveva ottenuto l'effetto opposto a quello sperato.

Allora il maggiore fu preso dal panico: una cosa era decidere di non entrare più nella mente del fratello, un'altra era venirne respinto. Le tenebre potevano anche calare sul mondo, per quel che gli importava in quel momento, ma lui non sarebbe mai stato separato da suo fratello!

Perse il controllo e forzò il contatto, incapace di ritirarsi di fronte a quel rifiuto.

Pityo continuò a opporre resistenza per qualche istante, poi cedette all'improvviso.

Ambarussa precipitò in un pozzo di nera disperazione, e ne fu sopraffatto. Non era preparato a ciò che trovò: lì non c'erano più i timori di un bambino, quello di essere abbandonato, di restare solo al mondo, e non c'erano nemmeno le paure di un adulto, quella di non riuscire a trovare la propria strada, di non essere all'altezza delle aspettative… Laggiù c'era il terrore di un intero mondo condannato alla sofferenza, c'erano le paure di tutte le madri che avrebbero pianto i loro figli, di tutti i padri che avrebbero fallito nel difenderli, di tutti i figli che sarebbero rimasti soli ad affrontare la fine. Come potevano essere racchiuse nella mente di suo fratello?

Ambarussa annaspò. Ecco il motivo per cui Pityo cercava di tenerlo fuori, realizzò, mentre affondava senza possibilità di scampo in quel ribollire di visioni apocalittiche: il fratello non stava cercando di respingerlo, ma di proteggerlo.

Fece un labile, vano, tentativo di riemergere, ma presto scoprì che la disperazione era contagiosa, che le sue misere certezze non erano altro che castelli di sabbia spazzati dall'onda, e in fondo gli sembrò che nulla avesse senso, neppure cercare di resistere.

Grazie a Eru, il gemello sembrò tornare in sé proprio in quel momento, e con uno sforzo che dovette impegnarne la mente tanto quanto il fisico, Pityo riuscì a chiuderlo fuori.

Fu come il colpo di una frusta: Ambarussa venne scaraventato indietro nel suo corpo, che parve non gradirne la presenza. Un nodo gli serrò le viscere e lo fece piegare in due. Si girò di lato appena in tempo per non investire entrambi col contenuto del suo stomaco.

In preda ai conati, sentì vagamente le mani del fratello su di sé che gli impedivano di crollare in avanti, e quando si riebbe, con gli occhi chiusi contro le lacrime che minacciavano di sfuggirgli, il respiro spezzato, la gola dolorante, sentì quelle stesse mani che lo aiutavano a rialzarsi, che gli pulivano delicatamente la bocca con un lembo della manica, che gli accarezzavano una guancia.

Ed erano mani che non tremavano.

Come poteva, il custode di tutta quell'angoscia, avere mani che non tremavano? Come poteva non mettersi a urlare, o a piangere, o crollare a terra schiacciato dal peso della disperazione?

Ambarussa si trovò a dover riconoscere ciò che aveva cercato di negare per tutta la vita: tra loro due, non era Pityo quello debole.

– Scusa – riuscì a balbettare, a capo chino, sopraffatto dalla vergogna. E non si riferiva alla forzatura della mente, allo spettacolo sgradevole a cui l'aveva costretto, alla manica imbrattata. O almeno, non solo a quello.

Voleva credere che ciò che aveva visto nella mente di suo fratello fosse dovuto esclusivamente al calare delle tenebre e alle grida che assediavano le loro menti, che il piccolo non era stato in grado bloccare.

Ma una parte di lui, che sembrava emergere dall'infanzia, gli insinuava che non era così: che tutto questo andava avanti da anni, che mentre lui lo accusava di debolezza e gli rifiutava il conforto, le paure del fratello erano mutate in angoscia, e l'angoscia in disperazione. E che tutto si sarebbe potuto evitare se lui non avesse abbandonato il gemello a sé stesso, se non gli avesse rifiutato l'aiuto, se avesse cercato di capirlo.

Pityo, come se gli avesse letto nel pensiero, e forse era davvero così, perché rimaneva ancora una traccia di quel contatto profondo, mormorò: – Non è stata colpa tua…

Ma se voleva dire altro, Ambarussa non lo seppe mai, perché quando i loro sguardi si incrociarono, fu come se non fosse trascorso un solo istante dai tempi in cui condividevano il letto e i pensieri, le paure e le speranze, e si ritrovarono uno tra le braccia dell'altro. 

Ambarussa non riuscì più a frenare le lacrime, frasi incoerenti sfuggirono dalle sue labbra: – Scusami… non sapevo… non immaginavo… ho sbagliato tutto… 

Parole vuote, che non potevano disfare le sue colpe, e nonostante ciò sentiva il piccolo negare contro la sua spalla, e gli fu grato di quella concessione.

– Andrà tutto bene – continuò Ambarussa per consolare sé stesso al pari del fratello, – adesso siamo di nuovo insieme, mi occuperò io di te… 

E Pityo si strinse a lui con più forza.

 

Ambarussa aveva completamente dimenticato la loro situazione di immediato pericolo (le tenebre che avvolgevano il bosco non erano nulla in confronto a quelle che aveva visto nel cuore del fratello) e così non sentì il fruscio alle sue spalle, né lo scalpiccio quando un grosso animale gli si avvicinò furtivamente da dietro, finché questo non arrivò ad appoggiargli il muso in grembo.

Allora tornò alla realtà e staccandosi di dosso il fratello quanto bastava per guardarlo negli occhi, esclamò: – Ambarussa, guarda, c'è Huan! È arrivato Tyelko!

Poi alzò lo sguardo e vide l'oscurità trafitta dalla luce di lanterne, e sentì la voce di Tyelkormo che gridava: – Russandol! Li ho trovati!

 

 

 

V

FINWË

 

 

Finwë fece velocemente un ultimo giro del piano terra della fortezza, per assicurarsi che tutti l'avessero abbandonato.

Cominciò dai locali riservati a coloro che, pur non essendone obbligati, per lealtà nei confronti di suo figlio avevano deciso di seguire Fëanáro anche in esilio, poi passò alle aree comuni: le cucine, il laboratorio, la biblioteca.

Quando ebbe la certezza che non fosse rimasto nessuno, scese nei sotterranei.

Si affrettò lungo un corridoio illuminato da lampade argentee simili a grandi cristalli, che sbucavano a intervalli regolari da nicchie nelle pareti ai suoi lati, e gettavano cerchi di luce sul pavimento di pietra chiara. La galleria terminava con una porta chiusa, di un legno quasi bianco, ma percorso da venature più scure che sembravano lingue di fiamma che si irradiavano da un centro di fuoco.

Finwë si fermò appena prima, e aprì una porta sulla parete di destra, entrando nell'armeria. Questa si estendeva, più lunga che larga, in corrispondenza di tutta l'ala ovest della fortezza, illuminata dalle stesse lampade argentee, che qui aderivano al soffitto in due corsie che correvano parallele.

Contro le pareti lunghe, ordinate su file e file di rastrelliere, erano disposte armi in numero incalcolabile, lame di ogni genere forgiate da Fëanáro e dai suoi fabbri. Spade lunghe a due mani e spade leggere a lama ricurva, il cui acciaio era stato ripiegato mille volte su sé stesso per ottenere un'affilatura insuperabile, pugnali di tutte le dimensioni e poi, ancora, lance e alabarde e daghe.

Molte mancavano, portate vie dai suoi nipoti, lo si capiva dai numerosi spazi vuoti sui ripiani, ma ne rimanevano ancora a sufficienza da fornire a Finwë un'ampia scelta, se l'avesse desiderato.

Lui le ignorò tutte e si diresse velocemente alla parete sul fondo. Qui, sorretta da due ganci conficcati nella pietra, era appesa una spada racchiusa in un logoro fodero di cuoio. L'elsa, ricoperta da una striscia di pelle annerita dall'uso, non presentava alcuna decorazione, né era abbellita dalla presenza di pietre preziose.

Senza indugio, Finwë la rimosse dai supporti e la sguainò. 

La lama, sebbene lucente e ben conservata, era chiaramente di un metallo meno pregiato rispetto alle altre custodite nell'armeria, e le numerose tacche che la incidevano dimostravano che era stata sottoposta a una lunga usura. Era senza dubbio un'arma meno efficace di quelle forgiate dal suo primogenito.

Ma era la sua spada. Era la spada con cui aveva guidato il suo popolo fuori dalle tenebre, con cui aveva difeso la sua gente nel lungo viaggio verso la salvezza. Era la spada che aveva fatto di lui un Re.

Finwë inclinò la lama davanti a sé, fino a vederci rispecchiati i suoi occhi. La soppesò nella mano destra e tracciò nell'aria immobile un paio di fendenti, come a volerne verificare la maneggevolezza, poi la rimise nel fodero e la agganciò alla cintura.

Infine lasciò i sotterranei con passo deciso, e salì rapidamente al secondo piano, diretto ai suoi alloggi privati. Sperava gli rimanesse abbastanza tempo per un'ultima cosa.

Ma quando passò davanti alle camere che erano state abitate dai suoi nipoti, il suo incedere si fece meno sicuro.

Il ricordo della loro recente separazione, così precipitosa da non permettergli quasi un ultimo saluto, gli fece desiderare di poterli rivedere ancora una volta, e prima che potesse rendersene conto si trovò a vagare dentro e fuori da quelle stanze, e a indugiare con lo sguardo sui quei piccoli particolari che emergevano dalle ombre e che, ai suoi occhi attenti, narravano un'intera vita.

Un fascio di lettere sul letto di Káno, un ciondolo di legno appeso a un chiodo in camera di Tyelkormo, cassetti chiusi da un lucchetto alla scrivania di Moryo. Un bracciale con inciso sopra il suo nome sul comodino di Curvo. Dagli Ambarussa, un letto in disordine e uno rifatto.

In camera di Nelyafinwë si fermò un istante, quando vide sul tavolo l'ultimo foglio di una lunga lettera le cui altre pagine erano già ripiegate dentro una busta indirizzata alla madre.

Nella fievole luce che ancora riusciva a raggiungere l'interno della stanza, si riusciva a malapena a distinguerne le parole. 

"Per quando riceverai questa lettera, avrai forse visto nostro padre. Non stare in pensiero nemmeno per lui. Non permetteremo che gli accada nulla, sai di cosa siamo capaci quando siamo tutti insieme… e qui mi accorgo di non aver scelto l'argomento giusto per rassicurarti. Ma ricorda che c'è il nonno con noi e, non ultimo, che, confinati qui, siamo di fatto costretti a stare lontano dai guai."

Staccato di qualche riga, invece che la firma, Nelyafinwë aveva scritto altre quattro parole.

"Madre, un'ultima cosa"

Poi uno sbaffo d'inchiostro, e nient'altro.

C'è il nonno con noi. Le parole riecheggiarono nella testa di Finwë, mentre piegava il foglio con cura e lo riponeva nella busta insieme agli altri.

Quando finalmente si decise a uscire nel corridoio, la sua determinazione venne nuovamente messa alla prova. Proprio di fronte alla camera di Nelyafinwë c'era una porta i cui battenti erano chiusi dal giorno in cui suo figlio aveva lasciato la fortezza.

Finwë sapeva che non poteva più permettersi di indugiare. Eppure avanzò di un passo e appoggiò una mano aperta sul legno lucido.

Sapeva che doveva affrettarsi. Invece l'altra mano raggiunse la maniglia, come guidata da una volontà propria.

Fëanáro.

Non riusciva a distaccarsi da lui.

Era certo che fosse vivo, ma nonostante questo ogni tentativo di contatto mentale era fallito. Voleva credere che fosse per colpa di quel caos creato dalle anime sopraffatte dalla sofferenza, ma una parte di lui, quella che non era mai riuscita a liberarsi dal senso di colpa, gli suggeriva che il suo primogenito lo stava respingendo di proposito, che era arrivato il momento, tanto temuto, della separazione definitiva.

Appoggiò la fronte alla porta, accanto alla mano. Era liscia, e fresca. Gli costò uno sforzo enorme non aprirla.

Stava perdendo tempo. Peggio, stava perdendo il controllo delle proprie azioni.

Trasse un respiro profondo e si raddrizzò, poi voltò le spalle alla stanza del figlio e andò diretto in camera sua, percorrendo il corridoio ormai buio senza attardarsi ad accendere lampade.

Una volta entrato, andò subito alla finestra, sotto la quale era riposto un grande baule. Ne sollevò il coperchio ed estrasse uno scrigno di legno sul quale era intarsiato il simbolo della sua casata. Lo appoggiò sul letto e lo aprì.

Al suo interno, ripiegata con estrema cura, c'era una sciarpa dal tessuto raffinatissimo, ricamata con tale perizia da somigliare più a un dipinto su tela, che a un intreccio di sottilissimi fili dai colori diversi. E proprio come fosse un arazzo, da un'estremità all'altra il ricamo narrava la storia di Finwë e del suo popolo, dal Risveglio alla costruzione di Tirion, su uno sfondo blu scuro intessuto d'argento, mentre il retro era altrettanto stupefacente, perché, su un fondale azzurro e oro, raccontava la storia di Finwë e della sua prima moglie, dal momento in cui si erano conosciuti, in Aman, fino a poco prima della nascita di Fëanáro.

Finwë si avvolse la sciarpa attorno al collo, un giro solo e le due estremità che ricadevano fin quasi a terra. Era un gioiello ben più prezioso di qualsiasi collana potesse sfoggiare: le mani di Míriel l'avevano tessuta, la sua piccola, indomita, cocciutissima Míriel. Facendo scorrere tra le dita quella stoffa leggera, lo colpì il pensiero che presto avrebbe raggiunto la sua attuale dimora, e si chiese per un attimo come funzionassero le cose laggiù, se avrebbe avuto la possibilità di comunicare con lei, in qualche modo, e in tal caso, se avrebbe trovato qualcosa da dirle.

Poi, spinto dallo scorrere incessante del tempo, spostò la sua attenzione su ciò che rimaneva nello scrigno: un cerchietto d'oro, molto semplice, formato da due fascette che si univano sul davanti in un intreccio nel quale era incastonata una piccola pietra azzurra, che proveniva dalla sponde stesse del Cuiviénen. Un retaggio dei tempi antichi, quando lui ancora non era un Re, ma un condottiero, e la fanciulla che gli aveva donato quella pietra non era sua moglie, ma un'amica.

La cara, carissima Indis, che avrebbe in seguito abbandonato la sua gente per amor suo, che avrebbe accettato le difficoltà di un legame unico nel suo genere, e che gli avrebbe donato quattro figli meravigliosi quanto il suo primogenito, e avrebbe reso la sua vita qualcosa di meritevole di essere vissuta anche dopo che il suo cuore era stato spezzato.

Finwë si cinse la fronte col cerchietto d'oro, sfilò i lunghi capelli dalla sciarpa e li fece ricadere liberi sulla schiena, poi si incamminò giù per le scale, col cuore colmo del ricordo di sua moglie e dei loro figli, che non avrebbe più rivisto, e dei loro nipoti, che gli erano cari quanto quelli a cui aveva appena detto addio.

Alla fine giunse all'ingresso e sostò sull'uscio. Le tenebre ormai avvolgevano la fortezza e la luce generata dalle lampade del salone, che proveniva dalle sue spalle, gettava ai suoi piedi una pallida finestra che faceva da cornice alla sua sagoma scura.

Finwë raddrizzò le spalle e puntò lo sguardo dritto davanti a sé, come potesse bucare l'oscurità con la sola forza di volontà. 

Ma dentro, i suoi pensieri cominciarono a vagare fuori controllo e il suo sguardo interiore cercò di sondare il futuro, alla disperata ricerca di ciò che sarebbe accaduto, per dare un senso alla storia del suo popolo, e alla sua stessa vita, che ora giungeva al suo temine. 

Forse, si disse, la sua morte sarebbe servita per far tornare insieme la sua gente, sotto un unico stendardo, accomunata dal desiderio di ottenere la vendetta per il loro Re. Forse i Noldor, sotto la guida di Fëanáro, avrebbero lasciato Aman per tornare nella loro terra natia, perché non c'erano dubbi su dove sarebbe andato a rifugiarsi il Nemico.

E gli sembrò di vederli davvero, di nuovo uniti, forti di esperienze, capacità, conoscenze, armi, che ai suoi tempi non potevano neppure immaginare, combattere insieme per riconquistare ciò che gli apparteneva: la loro terra, le loro opere sublimi, la loro supremazia, e cacciare l'Avversario una volta per tutte, per riuscire là dove anche i Valar avevano fallito. Che impresa degna di essere ricordata nei canti, più epica persino di ciò che era stata la Grande Marcia!

Dalle sue labbra socchiuse sfuggì un sospiro e la sua mano raggiunse l'elsa della spada senza che lui se ne rendesse conto. Pensieri che fino a quel momento aveva tenuto confinati nel profondo del cuore ebbero libero accesso alla sua mente.

Quanto avrebbe voluto prender parte all'impresa. Quanto avrebbe voluto vedere i suoi figli e le sue figlie fianco a fianco a Fëanáro, e i suoi nipoti, non più divisi, farsi strada con onore nelle Terre dell'Est. Quanto avrebbe voluto rivedere le lande sconfinate nelle quali aveva vissuto durante la sua giovinezza e, perché no, magari ritrovare il caro amico di un tempo per combattere di nuovo al suo fianco. Elwë. A lungo l'aveva cercato, a lungo aveva pianto la sua assenza.

Finwë sbattè le palpebre, più volte, per impedire alle lacrime di raggiungere i suoi occhi.

Poi, all'improvviso, rise di sé stesso, riconoscendo quelle visioni per ciò che erano veramente: i vaneggiamenti di uno spirito prossimo a raggiungere le Sale dell'Attesa.

Vecchio sciocco, ritorna alla realtà.

Lottò per rallentare il respiro e per tenere a bada il battito del cuore.

Dove sono finiti i tuoi nervi saldi, la tua proverbiale saggezza? 

Non era un futuro per lui, questo delirio che aveva preso forma nella sua testa. Se lui fosse fuggito, Melkor avrebbe preso i Silmarilli, e Fëanáro sarebbe partito sulle sue tracce da solo, perché in pochi lo avrebbero seguito se il motivo non fosse stato la vendetta, il riscatto, l'orgoglio, ma solo la riconquista di quei gioielli che il figlio custodiva così gelosamente da non far partecipe alcuno della loro bellezza.

Riportò l'attenzione di nuovo su ciò che lo circondava. Ora le tenebre erano tali che sembravano proiettare un'ombra sul pavimento all'interno dell'edificio, nello stesso modo in cui poco prima era stata la luce a illuminare il selciato ai suoi piedi.

La fine era vicinissima.

Finwë lasciò che i pensieri, i ricordi, i dubbi e le visioni lo attraversassero, fino ad arrivare a infrangersi contro l'unica, solida, immutabile verità, che rendeva inutile ogni altro ragionamento: lui non sarebbe mai arretrato davanti al Nemico.

Allora il suo volto si distese, il battito del cuore si placò, e lui fece l'ultimo passo che lo portò fuori dalla fortezza, chiudendo il portone dietro di sé.

Sono pronto, pensò, e non era mai stato così sincero. Eppure, alle sue labbra affiorarono parole altrettanto sincere: – Ma non vorrei andarmene. 

Un sussurro che riassumeva la dicotomia di una vita intera. Una terra o un'altra, una moglie o un'altra, un figlio o un altro… e infine, la scelta ultima: la vita o la rinuncia ad essa. 

Finwë sguainò la spada e attese il compiersi del suo destino.

 

 

 

EPILOGO

NELYAFINWË

 

 

Nelyafinwë aveva fatto quello che gli era stato chiesto.

Aveva condotto gli abitanti della fortezza presso il piccolo Lago Lucente indicatogli dal nonno, uno specchio d'acqua di dimensioni esigue, la cui luce si stava affievolendo sempre più. Aveva fatto allestire un accampamento, aveva disposto degli uomini armati a guardia del perimetro, e si era assicurato che tutti i suoi fratelli fossero al sicuro.

Adesso si sentiva libero di fare ciò che riteneva giusto. 

Prese il suo cavallo e si incamminò lungo il sentiero che attraversava il bosco, attento per quanto possibile a non fare rumore. Avanzò nel buio più assoluto finché non fu certo di essere abbastanza distante, poi si arrischiò a scoprire un poco la lampada che portava con sé, e alla luce azzurrognola che ne scaturì proseguì più spedito. Quando il sentiero cominciò a farsi più ampio, decise montare a cavallo. Ma proprio in quel momento una figura uscì dal bosco e si mise davanti a lui, bloccandogli la via. Al suo fianco, la sagoma di un cane enorme.

– Pensavi di andare da solo? – lo interrogò Tyelkormo.

Il fratello aveva un arco sulle spalle, una spada al fianco, un pugnale al polpaccio. Non sembrava intenzionato a farsi dissuadere.

Nelyafinwë fece comunque un tentativo: – Devi rimanere a presidiare l'accampamento.

– Curvo e io ci siamo già spartiti i compiti – ribattè il fratello. – C'è lui al comando.

– Gli Ambarussa?

– Káno se ne sta prendendo cura.

– Moryo? – domandò ancora Nelyafinwë, terminando il conto dei fratelli.

Una voce alle sue spalle: – Sono qui.

Nelyafinwë si voltò: Moryo li aveva raggiunti, portando con sé anche il suo destriero. La spada al fianco, l'elsa di due pugnali lunghi che gli spuntavano da dietro le spalle, la cotta di maglia che gli proteggeva il corpo non lasciavano spazio ai dubbi: nemmeno lui sarebbe rimasto all'accampamento. Come se non bastasse, Tyelkormo si portò a fianco del fratello minore, in una presa di posizione inequivocabile.

Nelyafinwë capì che per convincerli avrebbe dovuto sprecare tempo prezioso. Accordando loro il permesso di seguirlo, almeno si assicurava implicitamente il comando della spedizione.

– Allora sbrighiamoci – disse loro, e montò a cavallo.

I fratelli inarcarono un angolo della bocca in un'espressione che rese per un attimo i loro volti diversissimi straordinariamente simili, e si affrettarono a condividere il destriero di Moryo.

I tre avanzarono al passo fino al limitare del bosco, poi si lanciarono al galoppo verso la fortezza, incuranti dell'oscurità, perché quelle terre erano loro familiari, e ne conoscevano a memoria ogni irregolarità del terreno. Huan li precedeva di poco, adeguandosi alla loro andatura. 

La fortezza giaceva nelle tenebre; dovettero arrivare fin sotto i suoi cancelli per accorgersi che erano spalancati. Procedettero spediti lungo il viale che attraversava il giardino, con Nelyafinwë davanti che reggeva alta la lampada, sebbene il cristallo che la costituiva, sospeso nella sua reticella, non fosse che un misero lumicino contro il buio innaturale di quella notte infinita.

Giunti davanti all'ingresso principale smontarono e sguainarono le spade. Huan cominciò a emettere un ringhio basso, e si portò al fianco del suo padrone. A Nelyafinwë sembrò di scorgere, con la coda dell'occhio, un debole scintillio azzurro tra l'erba ai lati del viale, ma subito la sua attenzione fu attratta da ciò che si trovarono davanti. 

Il portone era divelto dai cardini. Avanzarono circospetti, ignari di ciò che avrebbe potuto attenderli. Il salone era immerso in un'oscurità densa, ancora più fitta di quella che c'era fuori, come se fossero giunti nel cuore stesso della tenebra. La lampada non illuminava che pochi passi davanti a loro, il silenzio era opprimente.

– Aspettate. – Intimò Nelyafinwë sottovoce, e, appoggiate a terra la spada e la lampada, si fermò presso la porta per rimettere in funzione le luci del salone. Ma Tyelkormo era già corso in avanti e, a giudicare dallo schianto metallico che si udì, il fratello era inciampato su qualcosa. Nelyafinwë si voltò di scatto, verso la sala ora fiocamente illuminata.

E così lo vide. 

Nel centro del salone, Finwë, riverso in una pozza di sangue, il volto nascosto, schiacciato contro il pavimento, la spada ancora stretta in una mano, lorda di liquido scuro.

Nelyafinwë sbatté le palpebre più volte, incapace di dare un senso a ciò che i suoi occhi gli presentavano.

Tyelkormo, a terra poco distante dal corpo, il viso deformato in un smorfia di orrore, sembrava avere la sua stessa difficoltà. 

– No… – mormorò il fratello. Poi lo ripeté più volte: – No… no… no… – come se negando a sufficienza potesse disfare l'accaduto. Avanzò carponi, scivolando sul sangue che gli imbrattava le mani e le ginocchia, verso il corpo. Lo afferrò per le spalle e lo voltò a faccia in sù.

Nelyafinwë fu distratto per un attimo da un clangore alla sua sinistra: Moryo aveva lasciato cadere la spada sul pavimento di marmo e si era portato entrambe le mani alla bocca, lo sguardo inorridito fisso su ciò che Tyelkormo aveva rivelato.

Finwë con uno squarcio alla gola, la testa quasi staccata dal collo, il volto nero di sangue, gli occhi sbarrati e vuoti.

Tyelkormo, che lo teneva ancora tra le braccia, alzò il viso e fece vagare lo sguardo smarrito tutt'intorno, come se da qualche parte, proprio in quella sala, potesse esserci la risposta a quell'evento incomprensibile. Poi si fermò su Nelyafinwë e le sue labbra formarono un nome: – Russandol… 

Alla richiesta d'aiuto del fratello, Nelyafinwë si riscosse. Raggiunse Tyelkormo e si inginocchiò al suo fianco. Molto delicatamente sfilò il corpo del nonno dalla sua presa e lo distese, composto, sul pavimento. Gli chiuse le palpebre e gli ripiegò le braccia sul petto. Tyelkormo allora recuperò l'antica spada, che era scivolata dalla mano di Finwë quando lui ne aveva rivoltato il corpo, la ripulì col suo mantello e la consegnò al fratello. Nelyafinwë la rimise tra le mani del nonno, con la lama verso il basso, adagiata sul suo corpo. Poi notò che indossava una sciarpa, sembrava di fattura pregiata, adorna di molti ricami che ora risultavano irriconoscibili per il sangue che li impregnava. Gliela chiuse sul collo, per nascondere lo squarcio alla gola. 

Non poteva fare altro.

Infine, molto lentamente, si alzò e offrì una mano a Tyelkormo. Ma il fratello, con uno scatto, si tirò su da solo. E lì, in piedi di fianco al cadavere del nonno, coperto di sangue non suo, gettò la testa all'indietro e col volto sfigurato dalla rabbia e dal dolore urlò fino a consumare tutto il fiato che aveva in corpo. Poi prese il respiro e ricominciò a urlare.

Huan si accasciò ai suoi piedi e dalla sua gola scaturì un uggiolio penoso, sofferente, interminabile.

Moryo non si era mosso da dove stava, il volto rigato dalle lacrime, l'arma abbandonata sul pavimento. Sembrava fatto di pietra.

Nelyafinwë si impose di affrontare la tragedia fino in fondo. Tornò alla porta per recuperare la spada e la lampada, poi si diresse verso l'estremità opposta del salone. 

Nel passare accanto a Moryo, gli disse soltanto: – Andiamo. 

Accompagnato dalle urla di Tyelkormo, che si facevano sempre più roche e distanti, e dal suono ovattato dei passi di Moryo che si muoveva sulla sua scia, Nelyafinwë scese nei sotterranei fino a raggiungere il cuore della fortezza.

I cristalli alle pareti del lungo corridoio sembravano aver esaurito la loro riserva di luce, come prosciugati. La porta di legno chiaro che chiudeva la Camera del Tesoro era in pezzi. Su alcuni frammenti si riconoscevano ancora le tracce dello stemma della loro casata.

Nelyafinwë entrò, col fratello subito dietro.

La Camera era stata saccheggiata. Teche di cristallo in frantumi, scatole di legno intarsiato aperte sul pavimento, brandelli di velluto sui pochi scaffali ancora in piedi. Gli stessi muri erano solcati da enormi crepe e un rombo sinistro, accompagnato da una vibrazione del pavimento, fece loro temere che presto l'intero edificio sarebbe crollato.

Nelyafinwë si costrinse ad avanzare. Sulla parete opposta, c'era un'altra porta divelta: quella che conduceva alla Stanza di Ferro. La oltrepassò e si fermò sulla soglia. All'interno, su una una colonna di marmo bianco finemente scolpito, c'era ancora lo scrigno che custodiva i Silmarilli.

Era vuoto.

Nelyafinwë sentì che le gambe gli cedevano e appoggiò la schiena allo stipite dietro di lui. Moryo gli afferrò un braccio, forse per reggersi a sua volta, o forse per incitarlo ad uscire, ma lui a malapena se ne accorse.

Un boato, una nuova scossa, e dei calcinacci caddero dal soffitto: il segnale che presto tutto sarebbe crollato. Ma Nelyafinwë ancora non si mosse: negli occhi aveva solo l'immagine del nonno sgozzato, nelle orecchie il riverbero della grida di Tyelkormo. Una morsa gli serrava il petto e la mente affondava in un vortice oscuro. 

Poi la più terribile delle intuizioni eruppe, accecante e dolorosa come un lampo che squarcia le tenebre.

Se su di lui faceva questo effetto, come avrebbe reagito il padre?

 

Le parole di Moryo giunsero come un'eco dei suoi stessi pensieri: – È cominciata la fine del mondo.

 

 



 

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Note finali

01.
Grazie per aver letto!

02.
Quenya - Sindarin
Fëanáro = Fëanor

03.
I gemelli Amrod e Amras hanno una genesi dei nomi complicata: il padre li ha chiamati Pityafinwë e Telufinwë, la madre li ha chiamati entrambi Ambarussa. Fëanor ha voluto che Nerdanel cambiasse il nome di uno dei due, e lei malvolentieri ne ha chiamato uno Umbarto (condannato), cosa che chiaramente Fëanor non ha apprezzato e quindi ha modificato il suo nome in Ambarto. Nonostante ciò, pare che il nome Ambarto non sia mai stato usato da nessuno se non da Fëanor, e che i gemelli si siano sempre chiamati l'un l'altro Ambarussa (HoME vol. XII - The Shibboleth of Fëanor).

04.
Maedhros regge una lampada fëanoriana, una delle tante meravigliose invenzioni attribuite a Fëanor, costituita da un cristallo che emana luce azzurra sospeso in una reticella. (Unfinished Tales - nota 2 di: Of Tuor and his Coming to Gondolin)

05.
La Stanza di Ferro
"… e quivi, a Formenos, una gran quantità di gemme fu radunata, e con esse armi, e i Silmaril furono custoditi in una stanza di ferro." (Quenta Silmarillion, cap. VII - I Silmaril e le agitazioni dei Noldor)

06.
Nel mio headcanon Míriel è nata in Aman, ed è quindi molto più giovane di Finwë, mentre Indis è nata nella Terra di Mezzo e conosceva Finwë da prima della Grande Marcia.

 

 

 

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