Racconto Blu

di tixit
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Due Anni Prima ***
Capitolo 2: *** La Bilancia del Caso e del Destino ***
Capitolo 3: *** La Danza del Papavero del Nord ***
Capitolo 4: *** Per Rialzarti Devi Aver Finito di Cadere ***
Capitolo 5: *** Lascia Che Il Cuore Curi Lentamente Le Sue Ferite ***



Capitolo 1
*** Due Anni Prima ***


Disclaimer: la maggior parte degli elementi della storia non mi appartengono, ma sono in parte della mitologia norrena ed in parte dei film della Marvel che mostrano Loki e gli Jotun
 

Due Anni Prima

Farbauti interruppe il brusio dei Maestri con un gesto. “I calcoli sono esatti?” chiese.

 

Heldi fece un cenno di assenso. I lunghi capelli blu scuro ondeggiarono ai lati del volto: a differenza di Farbauti, che li portava raccolti in una lunga treccia, Heldi li teneva sciolti, un mantello folto e scuro sopra il semplice mantello blu della sua Gilda.

 

“Dobbiamo decidere se e quando avvisare Asgard.” disse in tono sbrigativo Farbauti “Personalmente credo sia generoso avvisarli in modo che si preparino all’inevitabile. Ma,” aggiunse, con un tono che non ammetteva repliche "ne discuterà il Consiglio."
Non era una decisione da lasciare solo ai Maestri, e nemmeno solo ai Guerrieri: i primi erano troppo abituati alla vita, tanto da darla per scontata e desiderarla sopra ogni cosa - cosa non avrebbero fatto per prolungare di un singolo miserabile minuto una singola miserabile esistenza? Come se la morte non fosse inevitabile... - e i secondi erano troppo abituati al pensiero della propria morte per provare pena per quella altrui.

 

“C’è qualcosa che si potrebbe fare…”

 

“Potere non è dovere,” rispose lentamente, come se parlasse ad un bambino, solo il tono della voce, gelido come una lama di ghiaccio ed altrettanto letale, tradiva che la pazienza per il giovane Heldi era solo apparente, “soprattutto,” aggiunse guardando Heldi con occhi di fuoco, “non è volere.”

 

“Quel corpo celeste, passando vicino alla loro orbita…” Heldi passò la mano sullo Specchio, “Puoi vedere tu stesso, Fratello…”

 

Farbauti si concentrò mentre le immagini mentali di un incendio devastante, con gli animali terrorizzati in fuga, invadevano la sua mente, tentando di cancellare l’azzurro gelido della stanza in cui si trovava per discutere con suo fratello e gli altri Maestri.
Furono seguite dalle immagini di un terremoto e di un’onda di terra che devastava un mondo.

 

Un diagramma sarebbe bastato, decise spassionatamente, dei numeri avrebbero funzionato in modo egregio, era stato un Maestro anche lui prima di scegliere di diventare un Guerriero, ma gli era chiaro che Heldi voleva colpirlo emotivamente. Colpirlo al cuore che non aveva.
Heldi non stava mostrando, stava chiedendo.
 

“Tutti dobbiamo morire, prima o poi.” disse Farbauti  guardando l’altro freddamente. “Questo è un modo come un altro, forse il meno atroce perché naturale.”

Fissò Heldi negli occhi, sentendo che il seidhr gli scorreva sotto la pelle, poteva sentire da lì lo sfrigolare di quel dissenso mal contenuto  “Non ci sarebbe nessuno da incolpare, solo il Caso. Sarebbe solo una vera sfortuna. E la sfortuna, Fratello, capita.”

 

Heldi non disse nulla, ma lo sguardo non era convinto - le striature chiare sul corpo azzurrino parvero ancora più chiare. Farbauti pensò irritato che suo fratello minore non aveva ancora imparato a non tradire le proprie emozioni - era un bene che non fosse un Guerriero, o sarebbe già morto da un pezzo.
Poi sospirò “Un Consigliere con una coscienza...”

 

“Mi hai scelto tu, Mio Signore.” mormorò Heldi abbassando lo sguardo, ma Farbauti sapeva benissimo che quegli occhi rosso rubino stavano sicuramente ridendo.

 

“Vediamo questa soluzione.” replicò gelido. Uno Jotun per essere uno Jotun deve nascere tale, ma non basta: deve anche imparare. E per imparare deve riflettere, meditare e, soprattutto, commettere errori.
Sperò solo che Heldi capisse tutte le conseguenze delle sue possibili decisioni.
Lo sperò per Heldi. E per tutti loro.



Questo succedeva due anni prima.
 
Note: la storia nasce da un'altra fanfiction del fandom Lady Oscar, Quel vischio con sotto un bacio, dove alcuni personaggi pensano ai fatti loro e si narrano l'un l'altro parti della mitologia norrena che riguardano il vischio, vedendoci dentro eco dei casi loro che li turbano (chi pensa ad un amore che non è stato, chi si strugge per uno non corrisposto, chi si chiede cosa sia essere una buona moglie, chi pensa al proprio padre e pensa di non esserne figlio, chi sotto sotto fa fatica ad accettare un fratello sempre e comunque...).
Una dei personaggi in particolare, che si identifica preoccupata un pochino in Loki, e che legge di nascosto storie d'amore invece di studiare storia, ha in mente una sua versione di Farbauti e di Laufey, molto romantica - la storia è per lei: la fanfiction che la ragazzina scriverebbe, se vivesse in un'epoca in cui c'è spazio per esse (in realtà ne scrivevano tante, tutte riletture di miti!).
Non ci sono grosse pretese: il racconto sarà breve, semplice, che può piacere ad una ragazzina. Ringrazio comunque chi la seguirà: non è facile con una fanfiction "scritta" da un personaggio di un'altra fanfiction, ambientata in tutto un altro fandom.
 

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Capitolo 2
*** La Bilancia del Caso e del Destino ***


La Bilancia del Caso e del Destino

Farbauti, appoggiato, con la spalla, in obliquo allo stipite della porta in legno blu cupo, osservava, pensoso, la Sala del Consiglio scolpita nel ghiaccio.
Si ravviò i capelli, portando dietro le orecchie le ciocche sfuggite alla sua lunga treccia. I Maestri, di solito, portavano i capelli sciolti, i Guerrieri li rasavano per non offrire appigli alle mani di un avversario durante il combattimento e lui li portava raccolti: era stato parte di una Gilda, aveva cambiato perché poteva essere tutte e due le cose e ne era orgoglioso. Non era l'unico - i vantaggi di una vita lunga.
Aveva cambiato anche per un altro motivo, ma, ora, da cinque anni, la data esatta scolpita nel suo cuore, non sarebbe stato in grado di tornare indietro: la lotta gli dava pace, la usava senza lasciarsene usare. O, almeno, questo era quello che sperava.
Sfiorò con i polpastrelli il legno ed il ghiaccio, ammirando il lavoro ben fatto e concentrando il pensiero su questi dettagli.

Utgard La Vecchia era stata costruita al Nord, prima del Nord Inaccessibile, in modo che fosse anche un giusto punto d’incontro coi Giganti Nomadi, loro fratelli maggiori; era distante dalla Zona Temperata del loro mondo, quella striscia che conosceva sia il gelo dell’inverno, sia il calore della breve estate degli Jotun.

Se sulla costa era l’uso che le case venissero parzialmente ricostruite all’inizio dell’inverno, rigenerandole e, a volte, mutandone la forma - esisteva addirittura una festa per questo evento, la Festa del Tetto - la Rocca Blu, dalle linee semplici ed essenziali, resisteva da secoli, con le sue stupende torri arrotondate: nessun artigiano aveva dita così delicate come il tempo.

Era stato su Asgard e aveva visto i palazzi con le porte d'oro, così diversi, nel loro sfarzo, dalla sobrietà della Rocca. Eppure, nelle intercapedini di ghiaccio, scorreva il vapore proveniente delle sorgenti sotterranee, risucchiato verso l'alto, dove, diventato acqua, usciva dagli sfiatatoi, scivolando lungo i fianchi delle torri, per poi ghiacciare, contrastando l'erosione naturale del vento. Il vapore rendeva l'interno della Rocca piacevole il giusto, senza che i loro abitanti fossero costretti a bruciare inutilmente gli alberi della Zona Temperata (la prima volta che aveva visto una vita di due anni bruciata senza rimedio in venti minuti solo per non coprirsi con stoffe più pesanti, era impallidito per la vanità degli Aesir). Le aperture sul tetto, disegnate dai loro ingegnosi Tecnici, provvedevano al ricambio dell'aria, senza che il gelo penetrasse oltre il necessario, ed un'alga blu, luminescente al buio, tappezzava il soffitto e la parte alta delle pareti, riducendo al minimo la necessità di torce, mentre stalattiti verticali di ghiaccio purissimo (abile opera dei loro artigiani) lasciavano filtrare la luce.

Da un lato l’immutabilità, le loro radici salde come il ghiaccio, dall’altro la mutevolezza, lo scorrere delle loro sorgenti calde sotterranee, l’esplosione di vita dell’estate, il cambiamento senza il quale nessuno mondo potrebbe davvero vivere. Nel mezzo la vita dello Jotun.

 

La riunione sarebbe iniziata solo dopo il Rito del Lavaggio: i 29 consiglieri, uno per ogni ora della loro giornata, in numero dispari per non raggiungere mai uno stallo (come in numero dispari erano i rappresentati di ognuna delle cinque Gilde che lo componevano), sarebbero scesi nella Grotta e si sarebbero immersi nelle sue calde piscine sotterranee, avvolti nel vapore, sdraiati sulle panche di roccia blu di Jotunheim, in cui a tratti apparivano dei cristalli a forma di prisma, dal colore brillante.
Un gesto simbolico e pratico che li invitava a liberarsi di quanto di inutile albergasse nelle loro menti, come l’idea di chi pensavano di essere o di cosa si illudevano gli fosse dovuto, che proveniva da aspetti personali di poco conto, se visti nella giusta prospettiva, o dal Caso.

Avrebbero osservato con rispetto le cicatrici sui corpi dei Guerrieri, i tagli sulle mani dei Tecnici, abituate a costruire, ricordando che non esistono solo le parole, ma che ogni decisione che avessero preso sarebbe stata seguita da un fatto, che per compiersi avrebbe richiesto un prezzo che qualcuno avrebbe pagato. Ogni cicatrice narrava l'obbedienza ad una decisione presa tanto o poco tempo prima.
Spossati avrebbero meditato per reprimere il loro lato più selvaggio, avrebbero condiviso il cibo senza sprecare, e, infine, si sarebbero vestiti con gli abiti rituali, dalle complicate allacciature sulla schiena.
Anche queste erano un simbolo: nessuno Jotun, per quanto potente, può fare davvero tutto da solo.

 

Solo dopo si sarebbero seduti al tavolo del Consiglio, avrebbero ascoltato ciò che Heldi aveva da dire ed avrebbero posto domande.
Il primo giro veniva deciso dal lancio dei dadi: il caso avrebbe deciso l’ordine in cui i Consiglieri si sarebbero seduti e quello con cui avrebbero parlato la prima volta.

Che nessuno restasse inascoltato.
Che nessuno pensasse di non essere importante.
Che nessuno si illudesse di non essere responsabile.
Che nessuno dimenticasse che anche nel piano meglio ponderato si sarebbe presentato, come ospite, l’Imponderabile.
Che nessuno avesse l’ardire di credere di poter fare tutto.

 

E prima di iniziare a parlare, avrebbero pronunciato, tutti insieme, la frase rituale che apriva da tempo immemore ogni sessione del Consiglio: che io non dimentichi che la Bilancia del Caso e del Destino non può essere truccata .
 

Gli spiacque non poter partecipare, pensò tra sé, corrugando la fronte, ma, dopo avere ascoltato la soluzione che Heldi aveva in mente, si era dimesso dal Consiglio.
Era vero che il Consiglio poteva solo sviscerare un problema ed esprimere un parere finale, ed era vero che l’ultima parola spettava al Re, ma lui non voleva avere nulla a che fare con questa faccenda perché Asgard non gli piaceva, Odino non gli piaceva, non aveva dimenticato cosa era successo cinque anni prima, ed era certo che anche aiutandoli, gli Aesir avrebbero cercato di avere qualcosa di più di quanto veniva loro generosamente offerto e che non gli era per niente dovuto.
Si credevano Dei, si facevano chiamare così su Midgard, ma non lo erano.


Il suo voto partiva contrario e non sarebbe mai cambiato: inutile che andasse ad un incontro del Consiglio se nulla di quanto avrebbe sentito gli avrebbe mai potuto far cambiare opinione.

 

Seppe di aver deluso il Re: da lui, non glielo disse, ma lui lo capì, si aspettava di più.

Eppure, astenendosi, stava dando davvero tanto...

La soluzione di Heldi prevedeva un sistema di  cannoni alimentati dal seidhr: nessun proiettile fisico sarebbe stato sparato, ma il seidhr avrebbe modificato la struttura intorno alla traiettoria. La massa celeste sarebbe stata deviata solo quel tanto da non fare del male a nessuno. I Mondi su cui fossero stati posti i tre cannoni principali avrebbero assorbito il contraccolpo, un urto leggero, una piccola variazione del loro asse, la variazione di un grado, al massimo, delle loro temperature - sarebbero forse mutati per sempre per salvare la vita di un intero pianeta che non era il loro, o piano piano sarebbero tornati come erano. E forse ci sarebbe stato un maremoto da tenere sotto controllo.

 

“Misere sciocchezze senza importanza.” aveva sentenziato Farbauti sarcastico, mentre lavorava al progetto con suo fratello.

 

Se il Consiglio fosse stato d’accordo, Asgard sarebbe stata allertata di questo appuntamento con il Destino che aveva da secoli senza saperlo. Avrebbero visto come un Dio reagiva dinanzi alla certezza della propria morte. Oppure no.
Se il Consiglio fosse stato d’accordo, gli Jotun si sarebbero resi disponibili ad aiutare Asgard. Oppure no.
Se il Consiglio fosse stato d’accordo, gli Jotun avrebbero illustrato ad Asgard questa possibilità. Oppure no.
 

Le delegazioni dei Nove Mondi si sarebbero riunite ed avrebbero discusso a lungo: nessuno possedeva la tecnologia degli Jotun, e non tutti avevano il seidhr sufficiente per una cosa del genere, o sapevano usarlo. Avrebbero dovuto decidere tutti insieme cosa fare: entravano in ballo le risorse dei Nove ed il sacrificio di tre di loro per salvare Asgard. Oppure qualcuno avrebbe avuto una idea migliore.

 

Per quanto lo riguardava Asgard poteva bruciare, e Odino morire soffocato dalla cenere sul suo trono. La Sfortuna succede. Tutti devono morire prima o poi, anche chi crede di essere un Dio.

Ma un mondo era un mondo.

 

E lui solo uno Jotun.
 

Fu per quello che cedette il suo posto a suo fratello Heldi - che sentisse cosa era una responsabilità: un conto è elargire consigli, un conto seguirli.


Questo accadeva ventun mesi prima.

Note: per gli alberi blu sono debitrice a Fiamminga ed alla sua trilogia! in particolare ad Illness, anche se per me resta insuperabile il capitolo 20 di Disease, se escludiamo quelli in cui la fanno da padrone gli aspetti sentimentali e goderecci.
La ringrazio pure per l'interesse per gli Jotun, che è finito in una Lady Oscar (anche se, ultimamente, ho scoperto di non essere la sola oscariana attratta dalla norrena) e, sicuramente, in seguito, per altri dettagli :)
Le sue storie su Loki sono molto belle e mi hanno catturato, il che fa un certo effetto, visto il mio fandom attuale d'elezione (Lady Oscar) che è molto diverso da una thorki...

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Capitolo 3
*** La Danza del Papavero del Nord ***


La Danza del Papavero del Nord

Farbauti senti una mano posarsi sulla sua spalla e si girò di colpo, pronto a colpire e pronto a trattenersi. L’altro rise divertito, schivandolo flessuoso - la Danza del Papavero del Nord, che ha petali delicati e si china nel vento, senza scomporsi, con le sue piccole foglie come piume azzurrate. Farbauti riconobbe il movimento, e sorrise, in segno di approvazione - puoi allenare un Guerriero quanto vuoi, ma lo stile, quello non lo puoi insegnare.

“Ottimi riflessi!" la voce gli uscì gelida, da istruttore con una recluta - se ne dispiacque.

"Anche i tuoi. Non eri poi così perso dentro i tuoi pensieri…” l'altro non mostrò di essersela presa.

“Come stai, Leiknir?” Farbauti cerco di rilassarsi. Poi, d'impulso, posò una mano sulla spalla del Guerriero attirandolo a sé e i due si strinsero vicendevolmente il braccio all’altezza del gomito.

“Sei come un Gatto Blu, sempre vigile, anche quando sembra che stia dormendo...” Leiknir lo prese in giro, ma con un sorriso aperto. Poi proseguì in tono leggero  “Che effetto fa vedere la Sala del Consiglio non da Consigliere? Rimpianti?”
 

Farbauti non rispose - non lo avrebbe insultato con una bugia di circostanza, ma la risposta era complicata. Lo osservò con attenzione: indossava il mantello tipico della sua Gilda, corto e del colore profondo, ma luminoso, dei lapislazzuli, con il tocco personale di un ricamo leggermente più chiaro su una spalla, che rappresentava, stilizzato, tre corolle del piccolo fiore di kryell, la Zampa di Papera, il primo fiore dell’estate Jotun. Era ancora un Guerriero eppure aveva sentito dire in giro che forse sarebbe tornato ad essere un Mago - il seidhr scorreva potente dentro di lui e, in fondo, come lui, aveva cambiato anche per... qualcuno. Sentì che le spalle gli si irrigidivano.
 

Leiknir si lasciò guardare, non aveva fretta.
“Ho finito il mio turno di scorta,” disse con cortesia, “e volevo proprio immergermi in una grotta, vuoi venire?” poi, con un sorriso di incoraggiamento, “Non esiste solo quella dei Consiglieri, sai?”

Farbauti scosse la testa: troppi pensieri gli affollavano la testa.

Il primo era il dispiacere sottile di non poter più prendere parte ad un rito che rispettava e che lo aveva sempre riempito di orgoglio - era stato lui a volerlo, lo sapeva bene, ma gli mancava. Vanità per lo più.

Il secondo era il disagio, come un ronzio basso e continuo, nel non sentirsi più parte di una comunità, da cinque anni oramai. Non che qualcuno lo escludesse attivamente, ma si era come smarrito, aveva perso l’interesse in molte attività… ricreative, in mezzo alla gente si sentiva di compagnia quanto un Lupo Infernale. Forse solo leggermente più simpatico.

Il terzo era proprio dolore, ancora vivo da qualche parte, che non voleva affrontare, la rabbia per quello che era successo, una cicatrice che non si riusciva a formare da qualche parte sul suo cuore... come una freccia Asgardiana piantata nel petto... ed ora l’azzurra bellezza di Utgard, invece di dargli pace, gli ricordava un altro tempo, dove il suo cuore era stato sereno e proprietà orgogliosa di qualcuno.
 

Stava per declinare l’offerta - una abitudine oramai, in cui era diventato bravissimo - ma poi gli venne voglia di compagnia, una che non fosse troppo invadente.

Leiknir era a suo agio nel tacere e pacato nel parlare.

Leiknir, soprattutto, stava aspettando la risposta alla sua domanda, evidentemente cortese, ma non di cortesia.

Se non riusciva ad accettare la compagnia di Leiknir, un amico, un buon amico, che a quanto pare non aveva intenzione di andarsene e lasciare il Lupo Infernale a ringhiare da solo, allora si era davvero perso tra i ghiacci, dietro alle impronte della volpe argentata, senza speranza di tornare indietro - sorrise tra sé nel pensarlo... smarrito? proprio lui?

Fece un cenno di assenso, e, poco dopo, di ritrovò a seguirlo per i corridoi e lungo le scale, fino ad uno spogliatoio.

 

Si tolsero i vestiti, senza fretta - pochi, erano Guerrieri - Leiknir si sciolse i capelli che teneva stretti in una crocchia sulla nuca, insolito per un Guerriero, tanto quanto la sua treccia, lasciandoli ricadere, lunghi fino alle spalle e folti, color blu notte, con una ciocca azzurro elettrico. Aveva un solo orecchino d’argento, che gli circondava il padiglione auricolare, un ramo di fiori di kreyll intrecciati, ognuno con al centro un piccolo zaffiro, blu, lucidato, non intagliato, molto discreto.

Lo vide avvolgersi rapidamente un telo attorno ai fianchi, dandogli la schiena, poi il suo amico uscì dallo spogliatoio, lasciando Farbauti da solo.

Cercò una ciotola per il sapone e quanto serviva per la detersione, quindi si avvolse anche lui un telo intorno ai fianchi, con gesti lenti. 

Normalmente non lo avrebbe fatto, era sempre stato a suo agio con il suo corpo, come tutti i Guerrieri, ma sapeva che Leiknir era riservato con il suo e non voleva metterlo a disagio: Leiknir era un Nanast-Huldra, o, più poeticamente, un fiore di kreyll.

I Nanast-Huldra erano la risposta della natura alla difficoltà della sopravvivenza su Jotunheim. Su altri pianeti sarebbero stati guardati con stupore, forse da alcuni con disprezzo, e da qualcuno con morbosità predatoria, cercando di ridurli a qualcosa che conoscevano e che consideravano mancante in qualcosa o anomalo. Di certo, per lo più, suscitavano curiosità, perché, su altri pianeti, questa soluzione per la sopravvivenza, non esisteva affatto nella specie dominante.
Altre specie si, conoscevano l’ermafroditismo: alcuni pesci, invertebrati, perfino anfibi, su tutti i Nove Mondi, condividevano l’esigenza di poter mutare il loro sesso per la sopravvivenza della specie. Molti - tanti - se ne sarebbero sorpresi, a scorrere l’elenco... probabilmente nemmeno avevano notato la vita attorno a loro... ma questo aspetto pratico della Natura, sui Nove Mondi, non riguardava la specie che dominava il Mondo, quelli che, insomma, prendevano le decisioni.

Ovunque tranne che su Jotunheim: da loro c’erano le femmine, c’erano i maschi e c’era chi aveva tutti e due gli apparati. Erano la terza corolla di kryell, il fiore blu che aveva sia stami che pistillo, pronta a dare una vita e ad accoglierla. Erano la risposta del Caso che cercava di bilanciare quella del Destino quando la Vita stava perdendo di troppo rispetto alla Morte.
Un'altra particolarità è che erano Mutaforma migliori di tutti: non era un incantesimo di inganno il loro, lo schermo che si frapponeva tra l'osservato o l'osservatore, erano proprio, come i Maghi migliori, in grado di essere ciò che mostravano di essere.
Di fatto non amavano mutare, e non guardavano quasi mai con attenzione l’aspetto fisico di uno Jotun. Quando un Nanast-Huldra diceva che uno Jotun era "bello" di solito sembrava considerare la sfumatura del colore dei capelli e la forma degli occhi altrettanto importante quanto l'impronta che lasciava sulla neve.

 

Entrò nella grotta, trovandola piacevolmente calda, e raggiunse Leiknir vicino ad una panca di pietra scura.

 

Leiknir gli indicò uno Specchio appoggiato alla parete, piastrellata di azzurro: “Con quello è possibile ascoltare parte delle riunioni del Consiglio - l’esposizione di un quesito ed il Primo Giro di domande. Io l’ho fatto spesso.”

 

Farbauti annuì.

 

Leiknir, meditabondo aggiunse “Il fatto che la riunione sia per lo più segreta consente a tutti di dire quello che pensano, e anche quello che non pensano, in libertà… se si deve dare un consiglio si deve sviscerare un problema anche da punti di vista che non ci appartengono. Qualcuno deve pensare a ciò che non andrebbe pensato e dire quello che non andrebbe detto. E nessuno deve confondere il suo ruolo di Consigliere con ciò che è come persona.”

 

Si appoggiò su un gomito, cominciando a mescolare del sapone in una ciotola.

 

Era bello, i muscoli lunghi, non troppo definiti, ma duri, il corpo flessuoso, i gesti eleganti, un Guerriero con qualcosa che non parlava di guerra.
Chiunque sarebbe stato onorato di essere scelto da Leiknir, ma Leiknir aveva perso il suo compagno, un altro Guerriero, cinque anni prima. Farbauti senti una stretta al cuore. Cinque anni prima… solo cinque anni prima. A lui erano sembrati una eternità; se avesse incontrato il se stesso di cinque anni prima non avrebbe saputo cosa dirgli. Avrebbe dovuto dare all'altro se stesso delle giustificazioni? delle scuse? O le avrebbe pretese?

Distolse il pensiero da tutta una serie di ipotetici "se" e "forse" che ancora lo tormentavano e si concentrò sulla pacatezza di Leiknir.

Leiknir si era fatto tatuare la data sul pianeta del Fuoco, una sera, in inchiostro chiaro, che si confondeva coi loro segni della pelle, alla base del palmo della mano, in piccole rune eleganti.
Lui lo sapeva: si erano incontrati su Múspellsheimr, la terra dei giganti di fuoco, ed avevano cercato tutti e due del miele da consumare, miele Musspell, non Jotun, dal sapore diverso e con un effetto densamente allucinatorio. Più del solito, insomma.
Come essere risucchiati di colpo in un sogno, con l'aria strappata dai polmoni ed il senso del tempo che sembrava disciogliersi tutto intorno, come obbedisse alle stesse leggi dello spazio.
Avevano cercato un posto tranquillo, una fumeria d’oppio degli Elfi, e si erano sdraiati su due stuoie vicine, persi nei loro rimpianti, in un modo di allucinazioni per lo più benigne, con volti amati e nessun dolore.
Poi un Gatto Blu di Jotun, venuto da chissà dove, s’era accoccolato su Leiknir facendo un brontolio basso

Leiknir si era alzato a sedere ed aveva accarezzato la bestiola con delicatezza, poi aveva guardato a lungo il palmo della sua mano sfiorandosi le linee che l’attraversavano mentre il suo corpo sembrava vibrare tra due forme, quella di Leiknir e quella del Gatto Blu - Farbauti si ricordò di essersi preoccupato: aveva pensato ad una brutta allucinazione, o che l'altro stesse male, troppo miele per una sera sola. Si era seduto anche lui, deciso a portare il suo amico fuori all’aria, anche se l'aria del pianeta rosso era quasi rovente per loro, pronto ad ammettere che quella, del miele Musspell, era stata tutta una pessima idea.

Alla fine Leiknir aveva smesso di vibrare, aveva sciolto i capelli, preso in braccio il Gatto - delicatamente - e gli aveva poggiato una mano sul ginocchio “Vado a chiudere una porta, non posso lasciarla sbattere in eterno, vuoi venire con me?”

 

Questo era accaduto tanto tempo prima, in un altrove fatto di silenzio e di stralci di passato che tornavano in vita solo con gli occhi chiusi, un luogo dove aveva cercato di tornare altre volte, vergognandosene, in un tempo che si era scisso in due, un tempo in cui qualcuno gli aveva teso una mano, un tempo che non era ancora il suo, per cui non l'aveva presa.
Per rialzarti, gli aveva detto qualcuno, devi aver prima finito di cadere.


Note: il proverbio Jotun è tutto di Fiamminga (vedi Illness): "Per uscire da un pozzo devi aver prima toccato il fondo".  

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Capitolo 4
*** Per Rialzarti Devi Aver Finito di Cadere ***


Per Rialzarti Devi Aver Finito di Cadere

Quella sera di tanto tempo prima - o forse poco, il tempo è solo una idea, decise, solo i Maestri cercavano di misurarlo in modo oggettivo - aveva tenuto compagnia a Leiknir, che aveva cercato, con il suo nuovo Gatto Blu dietro, tra tutte le cose possibili, un tatuatore.
Era stato accanto a lui mentre l'uomo rosso di Múspellsheimr disegnava con l'uomo azzurro di Jotunheimr, il tatuaggio che tanto desiderava.

Aveva visto Leiknir piangere in silenzio, composto e al contempo privo di pudore, sapendo bene che le lacrime non erano per il dolore dell’ago sulla pelle. Gli aveva tenuto stretta l’altra mano sapendo che era amicizia la loro, che non servivano parole.

 

“Per rialzarsi,” gli aveva sussurrato Leiknir, sfiorando le sue nuove linee, mentre camminavano nel vento caldo della notte di Musspellheimr “bisogna aver finito di cadere. Ma una mano che ti aiuti non guasta."

Quella sera si era sentito per la prima volta felice perché il suo amico stava guarendo.
Lui, invece, no.

Guardò Leiknir steso sulla pietra scura, che aspettava paziente, in silenzio, il suo ritorno da chissà quali pensieri. Gli sorrise.

“Spiegami,” disse Leiknir, “spiegami quello che non capirò quando stasera guarderò il Primo Giro nello Specchio.”

Farabauti si strinse nelle spalle “Come fai a dire che non capirai e che io ne so più di te?”

“Perché ti sei dimesso.” Non aggiunse altro, non ce ne era bisogno, Leiknir sapeva molto bene che Farbauti era come vento che non si arrestava mai da troppo tempo e che la sua vita era solo il suo lavoro, l’esercizio fisico da Guerriero, e il lavorio mentale da Consigliere. Per Farbauti fu quasi un sollievo: una domanda facile con una risposta semplice.

Così spiegò a Leiknr quello che avevano scoperto i Maestri, quelli che tra loro si occupavano di Astronomia, in realtà: un corpo celeste si stava dirigendo verso Asgard. Il loro era un appuntamento scritto dal Destino, forse con piccole variazioni dovute al Caso, ma era un appuntamento che era stato fissato da tanto tempo, forse da prima della fondazione del Castello di Asgard. E no, Asgard non sarebbe stata colpita, solo sfiorata, e si i calcoli erano esatti con una approssimazione accettabile, come dire che un uomo sarebbe stato pugnalato forse alla gola o forse al cuore, non è la stessa cosa, ma, ai fini pratici, il seguito era sangue e morte in ogni caso.  

No, distrutta no, ma ci sarebbero state grandissime distruzioni, un po’ di fuoco, un po’ di terra ed un po’ di acqua… tutti e tre gli elementi in movimento e si, forse anche l’aria avrebbe fatto la sua parte, ma questo lo avrebbe visto perché Heldi aveva cercato di costruire in uno Specchio uno scenario possibile molto realistico. Avrebbe avuto una idea passabilmente esauriente del tipo di distruzione, anche se non aveva mai studiato come calcolare la velocità di un fronte d'onda, non doveva preoccuparsi: Heldi avrebbe fatto in modo che la portata dell'evento fosse chiara a che a coloro che erano irrimediabilmente privi di fantasia.  

Leiknir tacque un attimo, poi guardò in terra e disse “E perché noi non siamo contenti?”

 

Farbauti cercò gli occhi del suo amico, ma non li trovò. Poi, esitante, rispose “Perché bisogna che ogni razza di questo sistema aiuti le altre altrimenti finiremmo per distruggerci a vicenda.”  

“Allora perché ti sei dimesso?”

 

Leiknir versò metà del sapone disciolto della sua ciotola in quella di Farbauti, senza dire nulla, senza fretta.

 

“Perché io li odio.” Farbauti sentì che le mani gli tremavano dalla rabbia, “è irrazionale, lo so che è una cosa irrazionale, lo so!” Cercò lo sguardo di Leiknir, ma lui stava raccogliendo l’acqua fumante della piscina piccola in una contenitore d’argento per poi mescolarla con del ghiaccio, e non lo guardava.  

“Irrazionalmente non me la sento di aiutarli. Vorrei vederli bruciare, vorrei vedere le loro case divampare senza speranza e senza scampo, vorrei vederli cercare una fuga impossibile e non trovare nulla di nulla. Non li proteggeranno i loro tetti d’oro, le loro armi sempre affilate, le loro chiacchiere stupide, le loro scuse ed i loro cavilli. Nemmeno le loro menzogne potranno nulla. Imploreranno anche il seidhr delle loro donne, che disprezzano tanto, ma non  potrà nulla nemmeno quello, forse gli donerà solo un istante in più prima del buio. Il tempo di vedere morire quelli che amano prima di loro.”

 

Leiknir con un gesto deciso, ma senza fretta lo fece sdraiare a pancia in giù e delicatamente spalmò il sapone caldo sulla sua schiena senza proferire parola.

 

“Io desidero vedere la cenere grigia ricoprire, poi, ogni cosa, e desidero vedere Odino, seduto orgoglioso sul suo Trono del Nulla, capire di non avere più niente su cui regnare.”

 

Leiknir gli massaggiò le spalle, sempre in silenzio.

 

“Io desidero che Odino guardi la Notte e capisca che Notte non è. Desidero vederlo osservare la nevicata di cenere e brace su tutto ciò che avanza, vivo e morto, e desidero vedere il momento esatto in cui capirà di aver perso una parte importante di sé, forse la migliore. Senza rimedio.”

 

Leiknir lo fece voltare e Farbauti si mise seduto, senza guardarlo negli occhi. Fissò la barretta di metallo, di Leiknir, infilata sotto la pelle vicino all’ombelico: oro, con due pietre preziose, minuscole, alle estremità. Un gioiello discreto che di solito Leiknir toglieva in battaglia per evitare la presa di un nemico.

Sapeva chi gliela aveva regalata. Sapeva anche perché e cosa voleva dire. Ricordò, con dolore, un'altra voce amica che gli diceva che alcuni sorrisi di Leiknir, per lui, erano in grado di lucidare le stelle. Leiknir aveva lucidato stelle per qualcuno in questi anni? Probabilmente no, se portava ancora quella spilla nella carne.

 

“Questo mi fa molto piacere.” disse Leiknir in tono pacato.

 

Farbauti lo guardò titubante, ma Leiknir era serio.

 

“Mi fa molto piacere, perché tu, tutta questa distruzione, la desideri sul serio, ma ti sei dimesso e non sarai lì a raccontarlo. Li avresti convinti tutti al Primo Giro, Lingua d'Argento.”

 

Lo sospinse vero la piscina naturale ricoperta di piastrelle blu.

 

“Quindi perché ti sei dimesso?”

 

Farbauti si accorse di fare fatica a mettere a fuoco. Si lasciò andare nell’acqua calda e chiuse gli occhi, stringendo le braccia intorno al corpo.

 

“Perché?” ripeté Leiknir.

“Perché li avrei convinti.” mormorò Farbauti “Perché io li avrei convinti. Tutti.”


Senti il tuffo di Leiknir nell’acqua, ma non riusciva a vederlo, udì il rumore delle sue bracciate, mentre nuotava verso il centro della piscina, lasciandolo da solo, in pace.

Sentì lo stesso dolore atroce di quando gli avevano estratto una freccia dal petto, si portò la mano al cuore, ma sapeva che non stava sanguinando. Dentro avrebbe sanguinato ancora per tanto e tanto tempo.
Questo accadeva e lui non avrebbe saputo dire che ora fosse in cui quello che stava accadendo accadeva. Nemmeno se lo avessero minacciato.
Seppe però quello che già sapeva: Leiknir era a suo agio nel silenzio, e, quando faceva una domanda, non era mai una domanda stupida.




Note: il doppio apparato di Loki credo sia una idea che gira per il fandom, ma, per quanto mi riguarda, l'ho "scoperto" con Disease di Fiamminga, che è stupenda. La mia soluzione è più articolata, ma devo a lei e solo a lei questo terzo sesso così insolito per gli abitanti degli altri mondi.
I Gatti Blu sono della Sigyn del fandom di Lady Oscar: Clément le fece notare che i Lupi Infernali, come animali domestici, erano troppo impegnativi e consumavano molto per nutrirsi (era scocciato e non poco con quella pazzerella), così lei replicò che gli Jotun adoravano tenere in casa come piccoli amici i Gatti Blu. E così che gatti blu siano!

Lingua d'Argento di solito è Loki, ma nella storia del vischio è come Maxence chiama Sigyn (e lei se ne dispiace - i ragazzi hanno visto nella sua passione / avversione per il Loki norreno il suo senso di esclusione all'interno della sua famiglia), mentre Alo, in un tentativo di chiedere scusa, le comunica che lui sarebbe Lingua di Vipera. E Sigyn apprezza.

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Capitolo 5
*** Lascia Che Il Cuore Curi Lentamente Le Sue Ferite ***


Lascia Che Il Cuore Curi Le Sue Ferite

Farbauti rimase a lungo immerso nell’acqua calda della piscina, fino a quando non si sentì davvero spossato, ma di una spossatezza gradevole, una spossatezza, una volta tanto, completamente fisica e non mentale, come non gli capitava più da molto tempo.
Quando tornò a guardarsi intorno si accorse che Leiknir, ad un certo punto, doveva aver smesso di nuotare; per un po’ aveva percorso la piscina avanti ed indietro, con bracciate regolari, senza fretta: ricordava molto bene quel rumore che gli aveva tenuto compagnia, dettando un ritmo ai suoi pensieri, sempre meno caotici... ora il giovane se ne stava tranquillamente seduto sulla panca di pietra scura, massaggiandosi i capelli con dell’olio profumato; il telo bianco, annodato pudicamente sul fianco, contrastava con la sua pelle azzurrina.

Farbauti uscì dall'acqua e si sdraiò nella panca accanto. Incrociò le mani dietro la testa e chiuse gli occhi.

“Se mi addormento, svegliami, ti prego.”

Sentì la risata bassa di Leiknir farsi strada tra i suoi pensieri, che si srotolavano pigramente verso il nulla. “Non ci penso nemmeno...” gli sentì rispondere e, dentro di sé, non poté che dargli ragione: voleva tanto dormire ed era pronto ad accogliere dentro di sé qualunque sogno gli si fosse presentato.

Quando si svegliò, la quasi totalità della luce della stanza proveniva dalle alghe sul soffitto, che emettevano una luce debole, tra il blu ed il viola, che si rifletteva nell'acqua. Si mise a sedere, stiracchiandosi, si passò una mano nei capelli - qualcuno glieli aveva sciolti ed asciugati. La pelle era asciutta e morbida.
Leiknir, che adesso indossava dei pantaloni e basta, con un gesto, lo invitò a spostarsi in un'altra stanza, più fredda. Lì, al centro su un tavolino basso, era apparecchiato un pasto frugale: pane scuro di segale, del formaggio bianco da spalmare, del pesce ed una ciotola con delle bacche rosse. Proprio al centro troneggiava una teiera scura, fumante. Leiknir doveva aver vegliato sul suo respiro e capito quando si sarebbe svegliato - gliene fu grato, gli sembrò di essere tornato bambino, con qualcuno che si occupava di lui.
Il giovane lo osservò a lungo, soppesando chissà quali dettagli nella sua testa, poi andò ad uno sportello nascosto nel muro e ne estrasse un barattolino di miele a forma di favo, con un minuscolo cucchiaino d’argento esagonale. Poggiò in tavola tutti e due gli oggetti davanti a Farbauti e non disse nulla - si limitò a sedersi su una stuoia, con le gambe incrociate, e a versarsi da bere in una tazza tonda. I suoi gesti erano lenti ed eleganti, come se stesse eseguendo una danza ed avesse tutto il tempo del mondo.
Farbauti era imbarazzato: il miele per uno Jotun, in piccole quantità, era ciò che su un altro pianeta avrebbero chiamato afrodisiaco - in grosse quantità… tutt’altro. Lui lo sapeva bene.
Il Fiore di Kryell, capace di lucidare una stella con un sorriso, gli stava chiedendo qualcosa? O gli stava offrendo qualcosa?

“Non ci sto provando, Farbauti…” la voce quieta di Leiknir ruppe il silenzio, ”Ne sarei onorato, ma ti ho osservato: non lo hai messo via tutto quel dolore, non sei pronto per…” scosse le spalle con un gesto indefinito che lasciò incompleta la sua frase, ma che non le tolse proprio nulla del suo significato - non era pronto per tante cose e Farbauti lo sapeva da sé.
Era arrivato a credere che non lo sarebbe stato mai più, che non gli sarebbe più successo di desiderare un cucchiaino di miele e tutto quello che c’era intorno e che faceva tanto male ricordare - una casa, dei passi leggeri, un sorriso, il tepore di un altro corpo nel letto, non necessariamente preludio al sesso, il profumo di una pelle che non era la sua, l’intrecciarsi della sua voce con quella di un’altra persona… Annuì e guardò Leiknir negli occhi, che proseguì senza imbarazzo “Ho solo pensato che, forse, un po’ di… gentilezza … avrebbe potuto aiutare. Più di tante parole…” gli sorrise, “se pensi di averne bisogno, posso darti la possibilità di dirle addio e lasciarla andare...” non lo disse, ma il pensiero aleggiò tra loro, tenero a suo modo, come tu mi hai tenuto la mano dal tatuatore, accanto al Gatto Blu, là sul pianeta degli uomini rossi, mentre anche io lasciavo andare qualcuno, perché il suo ricordo, così caro, non diventasse veleno.

Farbauti scosse la testa “dopo di…” la gola gli fece male, ma proseguì, senza osare pronunciare quel nome, “non l’ho più fatto. E non sarei gentile.” Capiva bene cosa gli si stava offrendo, e assolutamente non chiedendo, senza farglielo assolutamente pesare: un mutaforma può soddisfare un sogno. Può esaudire un desiderio malato.
Ma un mutaforma, di regola, non lo fa.

Aveva visto Leiknir uccidere in battaglia con gesti essenziali, senza godere della morte del suo nemico, e poi lo aveva visto occuparsi dei feriti: era gentile, era raro. Il suo seidhr si mescolava quasi cantando a quello dei feriti, le sue mani guarivano - magia e medicina, razionale ed irrazionale, e lui era sempre pronto a rassicurare, con la sua voce, lo Jotun ferito davanti a lui, mentre intanto faceva ciò che era necessario.
Leiknir gli stava offrendo di restituirgli un pezzetto del suo passato, giusto il tempo di permettergli di dire quelle cose che non aveva potuto dire cinque anni prima e che gli bruciavano dentro. Gli stava offrendo una splendida bugia, in cui lui, Leiknir, sarebbe stato assente, solo un mezzo.

Capì perché il suo compagno lo avesse scelto - non c’entrava solo l’indubbia bellezza.
Non capì, piuttosto, perché un Mago, un Mago decisamente Guaritore, avesse scelto di essere un Guerriero, anche se intuì che dietro c’era stato molto amore: come lui, anche Leiknir lo aveva fatto per il suo compagno, cambiare Gilda, cambiare lavoro, cambiare un po’ anche se stesso.

D’impulso glielo chiese, sperando di non offenderlo.

Leiknir fissò il liquido nella tazza riflettendo nel riflesso del suo sorriso, un po’ distante, ma, gli parve (o lo sperò) senza irritazione.
“Forse preferiva che gli altri sapessero che fotteva e si faceva fottere da qualcuno che avrebbe potuto uccidere chiunque ci avesse trovato qualcosa da ridire. Amava Jotunheimr, ma era della famiglia reale e viaggiava sugli altri mondi: superava il provincialismo del nostro mondo, ma… certe aperture sono anche chiusure.”

Altro non disse.

Farbauti non chiese.

Se lo domandò, però, se il silenzioso Leiknir, compagno discreto di un figlio del Re, per cui, nel tempo libero, lucidava stelle e nel tempo assolutamente non libero uccideva per rendersi degno di quell'amore, avesse mai sofferto di essere stato amato con riserva, con un legame mai reso ufficiale, o se avesse accettato i difetti del compagno insieme ai suoi pregi.

“Sono ancora in lutto.” sussurrò e l’altro annuì.

Poi Leiknir, glielo chiese, senza giudicarlo “Vuoi del miele?” sottintendendo più di un cucchiaino. Come su Musspellheimr.

“No, non mi drogo più.”

Leiknir sorrise - “Mi fa piacere,” e non aggiunse altro.

Mangiarono insieme come buoni amici, senza bisogno di riempire il silenzio con un cicaleccio inutile.

“Tu per cosa voteresti?” chiese Farbauti ad un certo punto, “Cosa diresti? nel Consiglio, intendo.”


Leiknir ci pensò su e poi si strinse nelle spalle “Non sono un Consigliere...” disse.

“Ma…” lo invitò a proseguire.

“Ma credo mi piacerebbe qualcosa in cambio: del terreno su Midgard, meno aspro del nostro, per far crescere, sai, i bambini e dopo riportarli su Jotunheimr. Una lunga estate. Vita per vita, un buono scambio alla pari che non metterebbe in obbligo nessuno.”

“Miele quindi...”

“Miele, ma non per …”

“Mi è chiaro.”

“Però,” aggiunse Leiknir, “io presumo che tu avresti avuto un’altra soluzione da proporre, se fossi rimasto nel Consiglio. Una diversa da quella di Heldi, forse più crudele…” lo guardò con calma, sempre senza emettere giudizi. “Temi Asgard? Non credo sia solo a causa del dolore per ciò che è successo...”

“Credo che quel giorno gli Aesir abbiano fatto una cosa terribile, anche se forse fu solo un gruppo di sbandati, credo che se ne vergognino e credo che non si fidino del nostro perdono, che in fondo non fu un perdono, ma solo l'accettazione forzata di ciò che non aveva rimedio. E chi non si fida… è sempre pericoloso. Per cui io credo che la soluzione di Heldi, anche se molto elegante, sia pericolosa.”

“Credo manchi la tua voce al Consiglio, Heldi è in gamba…” Leiknir soppesò le parole.

Farbauti annuì

“Ma,” proseguì il giovane, “è come un Guerriero che scocca la freccia per colpire un bersaglio di legno: gli piace trovare una soluzione ad un problema difficile ed affinare la sua tecnica, esattamente come ad un Guerriero piace trovare la concentrazione ed il gesto definitivo per qualcosa di molto meno nobile...”

“Ma?”

“Ma Heldi non vede che non è un bersaglio a cui sta tirando, ma a qualcosa di vivo, ci sono conseguenze e premesse che con un bersaglio sono chiare, con degli esseri viventi, Jotun o Aesir, no.”

“Lo penso anche io. E penso che saresti stato un buon Consigliere.”

“E allora ascolta il mio consiglio,” con tenerezza Leiknir gli prese la mano e sfiorò la sua linea della vita “E’ lunga” disse con voce dolce “non sei ancora morto e non lo sarai per molto tempo...”

Farbauti sorrise, stanco “Era questo che guardavi quella sera mentre ondulavi tra te stesso e quel Gatto Blu... ti ho visto fissarti il palmo delle mani...”

“Vive con me, da quel giorno...”

“Guardavi questo? Le linee sulla tua mano?”

“Si e contavo quanto tempo e quanto ancora… pensaci anche tu.”

Farbauti sospirò e poi disse con un sorrisetto “Penso che andrò ad Asgard con la delegazione, se decideranno di aiutarli, oppure, se decideranno per il no, ci andrò per visitare un pianeta per l’ultima volta, .”

“E perché no?”

“Penso che non sarò un bravo Jotun, ma berrò birra asgardiana.” lo stva decidendo in quel momento e l'idea non gli spiacque.

“E perché no?”

“E bacerò una asgardiana dai capelli chiari e la pelle rosata.” e non sarò gentile, ma è ora di voltare pagina.

“E perché no?” Leiknir sogghignò prendendolo in giro.

“E starò lontano dal miele.”

“Questo lo dovo per scontato.” Leiknir lo guardò severamente. Poi scoppiarono a ridere tutti e due.



Questo ventun mesi prima meno un giorno, quando seppe che aveva ancora un buon amico.

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