Crossed lives - La violinista di Vienna

di AnyaTheThief
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Un breve riassunto di Crossed lives: Viktoria Haas è una ragazza austriaca che vive a Vienna con suo padre, sua sorella Eva e sua nonna durante la seconda guerra mondiale. Scopre che suo padre nasconde in una stanza sotterranea della sua fabbrica un ebreo, Ben Keller. Mentre i due sembrano innamorarsi e condividere più di quanto pensino, le coincidenze e i sogni che Viktoria fa da quando era bambina diventano sospettosi. Viktoria riceve dalla nonna un crocifisso antico e scopre che l'anziana, come lei, ha dei ricordi di una vita precedente. Grazie ad essi aveva potuto recuperare, in gioventù, il crocifisso sepolto ai piedi di un albero a Parigi. Lì aveva conosciuto un ragazzo, Jerome, che poi sarebbe diventato il nonno di Viktoria. Viktoria si confronta con Ben, che da anni disegna sempre lo stesso volto, il volto della ragazza, anche quando non la conosceva. Scoprono allora di essere le reincarnazioni di Aramis e della regina Anne. Nel frattempo, la verità sul destino del moschettiere e della regina viene rivelata a Viktoria sempre nei suoi sogni: sono stati giustiziati entrambi, accusati di tradimento. Il crocifisso era stato affidato da Aramis a D'Artagnan, che a sua volta lo aveva affidato a Constance, che poi lo aveva sepolto ai piedi dell'albero dove poi la nonna di Viktoria lo ha ritrovato. Ben e Viktoria vanno incontro ad un tragico destino, ma almeno questo non ve lo spoilero, se non l'avete letto!! Nel capitolo bonus, siamo nel 2015 e scorgiamo brevemente la vita di Iris, una ragazza spagnola che è venuta in qualche modo in possesso del crocifisso, che incontra quasi per caso Manuel. I due appena si vedono capiscono subito di essersi già incontrati in altre vite. Altri non sono che, di nuovo, la Regina ed Aramis.



Breve riassunto di Crossed lives - la Promessa: Bea e Tommaso sono due boy scout, cresciuti assieme e da sempre coppia inseparabile. Quando erano piccoli, quasi per gioco, si sono scambiati i fazzolettoni da scout ed in quel momento entrambi hanno avuto delle visioni delle loro vite precedenti. Bea altri non era che Constance, mentre Tommaso era D'Artagnan. Bea non ha mai voluto parlarne, perché ha visto cose terribili. Quando era la Constance del 1600, aveva dovuto sopportare il rimanere vedova di D'Artagnan, con suo figlio appena nato. La cosa l'ha sconvolta così tanto da portarla ad un gesto estremo, che poi ha costretto i Reali a doverla allontanare da Parigi. Quando Bea e Tommaso si trovano in una situazione di pericolo, vengono salvati proprio da Iris e Manuel, che li riconoscono all'istante.



Con questo, credo ultimo, capitolo di Crossed lives voglio chiudere i "buchi" che sono rimasti aperti. Vi consiglio comunque di recuperare i due precedenti, per avere maggiore continuità. Anche se non vi piacciono le coppie (nemmeno a me piacciono, lol), vi assicuro che si tratta di qualcosa di completamente diverso e non rende assolutamente in questi due mini-riassunti!! Buona lettura!





Roman Kozlov fissava quella palazzina da alcuni minuti. Gli sembrava incredibile che fosse rimasta in piedi, visto il destino crudele nel quale era incorsa Vienna intera.

Ancora si udivano in lontananza ancora delle esplosioni, e colonne di fumo si innalzavano da edifici rasi al suolo o dati alle fiamme. Per le strade, i carri armati sovietici sfilavano vittoriosi accompagnati dalle grida di gioia dettate in parte dalla vodka, in parte dall'eccitazione di avere la città nelle proprie mani. Alcuni spari facevano intuire che restavano ancora dei nazisti nascosti da giustiziare; ma fu l'urlo di una donna proveniente da chissà dove che ridestò Roman dalla sua catarsi. Questo fu seguito da uno scoppio di risa: lo stavano facendo di nuovo.

Gli tremarono le mani, ma sapeva di essere impotente; se avesse provato a fermarli, sarebbe finita male, di nuovo. Glielo ricordavano le costole ancora doloranti dal suo ultimo tentativo di strappare una bambina dalle grinfie dei suoi compagni. Era più piccola di Nina, sua sorella minore, la sua Ninochka, e lo sguardo impaurito che gli aveva lanciato prima di essere gettata sul tavolo da quattro uomini grandi e grossi, gliel'aveva ricordata in maniera impressionante, tanto che non aveva potuto restarsene con le mani in mano.

Una fitta all'addome lo costrinse ad allentare la cinghia del Mosin-Nagant che portava in spalla. Gliele avevano date di santa ragione, ma almeno la bambina era riuscita a fuggire.

Vigliacchi.

Si comportavano tutti da conquistatori, ma non era per quello che lui si era arruolato. Non avevano liberato migliaia di persone dai loro aguzzini soltanto per prendere il loro posto. Dopo tutte quelle battaglie, avrebbe soltanto voluto ritornare a casa da sua madre e sua sorella, e lasciare vivere quei poveracci che già avevano subito troppo dalla guerra.

E così, immobile, restava Roman Kozlov davanti a quel palazzo; un quaderno impolverato stretto tra le mani, e gli occhi azzurro cielo a contrasto della sua pelle scurita dallo sporco. Un dettaglio fuori posto in un quadro catastrofico, uno spiraglio di luce su una città d'ombra, uno schizzo di colore aggiunto da un bambino in un disegno in bianco e nero.

Un altro strillo rotto dai singhiozzi gli lacerò il cuore. Si voltò all'improvviso, ma l'unica cosa che vide furono cinque soldati con la sua stessa divisa ridere e barcollare lungo la strada, reggendosi in piedi a vicenda.

Per non sentire più le urla, si fece coraggio ed entrò nell'edificio.

La scala era buia perché non c'era più elettricità, e dovette stare attento a non inciampare nei gradini. Contò uno, due, tre piani, prima di incontrare lo sguardo spaventato di una vecchia signora che si affrettò a ritirarsi nel proprio appartamento; la udì fare parecchi giri di chiave.

Salì ancora una rampa di scale e si ritrovò proprio in fronte alla porta che stava cercando. Senza esitare ulteriormente, deglutì e bussò. Si ricordò all'improvviso di aver il fucile in bella vista, così se lo sfilò rapidamente e lo appoggiò al muro.

“Chi sei? Siamo armati.” udì una voce femminile dall'altra parte della porta. Dovevano averlo visto attraverso lo spioncino, anche se non aveva sentito i passi avvicinarsi.

“Non voglio farvi del male. Sto cercando il signor Haas, mi hanno detto che abitava... che abita qui.” il suo tedesco era un po' incerto ma comprensibile, nonostante il forte accento russo.

“Se ne vada.” rispose la donna, dopo qualche secondo.

“La prego. Voglio solo parlare. Ho trovato una cosa... credo vi appartenga.” spiegò. Poi sollevò il quaderno all'altezza del proprio capo, mostrandolo davanti allo spioncino. “Era tra le macerie della fabbrica del signor Haas.” cercò di dire in maniera convincente.

Gli rispose un lungo silenzio. Rassegnato, appoggiò il quaderno a terra e riprese il suo Mosin-Nagat. “Lo metta giù.” gli intimò la voce decisa dall'interno dell'appartamento. “Lo lasci dov'è e potrà entrare.”

Roman accennò un sorriso soddisfatto, ma subito se lo cancellò dal volto: non voleva sembrare troppo sicuro di sé. Lasciò il fucile appoggiato al muro e si allontanò dalla porta con le mani sollevate. Sentì la chiave girare nella toppa e finalmente l'uscio si aprì.

Una ragazza bionda, dall'aria sciupata e severa lo guardava scettica, quasi imbronciata. Prima della pistola che gli stava puntando contro, vide i suoi occhi chiari che lo giudicavano. Si sentì nudo e inerme di fronte a quello sguardo anche perché, senza perderlo mai di vista, gli sequestrò il fucile. Richiuse la porta; la udì armeggiare con qualcosa e non capì sul momento se avesse intenzione di riaprirla. Ma poi eccola di nuovo; maneggiava la pistola con sicurezza e le sue parole tagliavano l'aria tra di loro per quanto suonavano dure.

“Non provi a fare niente di stupido. So come usarla, l'ho già fatto.”

“Non è mia intenzione.” balbettò lui, un po' agitato.

“Lo prenda.” lei gli fece cenno al quaderno a terra e Roman lentamente si chinò per raccoglierlo.

Entrò nell'appartamento preceduto dalla ragazza che non lo perse di vista nemmeno per un secondo. Anche se avesse voluto fare qualcosa, non avrebbe fatto in tempo nemmeno ad estrarre il coltello.

“Mi chiamo Roman Kozlov.” provò a spezzare la tensione, invano.

“Eva.” rispose la ragazza freddamente, poi allungò la mano per farsi porgere il quaderno con la copertina in pelle. Lui esitò. Si era quasi affezionato a quell'oggetto, non era sicuro di volerlo affidare a quella ragazza così rude, che non era esattamente la persona che si aspettava di trovare.

“Il signor Haas...” provò a dire.

“Mi dia quel quaderno o sparisca per sempre.” tagliò corto lei. Roman vide il suo occhio destro luccicare impercettibilmente.

Nel momento in cui stava per allungare il blocco alla ragazza, una voce richiamò l'attenzione di entrambi.

“Eva, chi c'è?”

Il panico si diffuse negli occhi di lei, mentre una vecchietta gobba e canuta sbucava dalla stanza adiacente. Sorrideva beata, inconsapevole di ciò che stava accadendo.

“N-nessuno, nonna, torna di là!” le ordinò, alternando lo sguardo da lei al soldato. Ma dopo un primo attimo di sbigottimento, Roman aveva perso interesse per l'arma che gli veniva puntata contro. Non poteva fare a meno di notare lo sguardo con il quale l'anziana donna lo stava fissando: lo stesso sguardo che si rivolge ad un amico ritrovato dopo tanto tempo.

La nonna di Eva si portò una mano al petto e con l'altra abbassò lentamente il braccio della nipote che reggeva la pistola.

“Nonna, cosa...?!” esclamò la ragazza, stupefatta.

Roman era rimasto interdetto. Non aveva mai visto quella persona, ma qualcosa gli diceva che quello era il posto giusto. Un sentimento di pietà e affetto gli smosse il cuore verso l'anziana, ma non nello stesso modo in cui si commuoveva vedendo le povere donne afflitte dalla guerra. Era diverso, era qualcosa di più familiare.

In un gesto automatico, allungò il quaderno verso Eva che, pur avendo abbassato la pistola, continuava a lanciargli occhiatacce scettiche. Quando la ragazza lo sfogliò, l'emozione prese il sopravvento. “Vicky...” gli parve che sussurrasse, mentre le lacrime bagnavano le pagine ingiallite.

“Mi... Mi dispiace, l'ho trovato e... Quei disegni mi hanno ricordato... Non lo so...” cercò di giustificarsi, mentre la nonna ancora lo guardava sorridendo. “Quel viso mi era famigliare, e pensavo che voi sapeste...” aggiunse, incerto.

Eva richiuse il quaderno seccamente, tacendolo, si asciugò rapida alcune lacrime con il dorso della mano, poi allungò la stessa a riprendere il fucile di Roman che aveva nascosto sopra l'armadio all'ingresso.

“Il... Il signor Haas...?” provò a chiedere un'ultima volta, ma Eva fu più rapida di lui e non gli fece finire la domanda.

“Se ne vada.” gli comandò, porgendogli il suo fucile. “Per favore.” aggiunse, un po' addolcitasi.

Il russo cercò complicità nella vecchietta con lo sguardo e la vide armeggiare con fatica per slacciarsi qualcosa sulla nuca.

“Dica ai suoi amici di stare alla larga.” asserì Eva, mentre lui con incertezza riprendeva il suo Mosin-Nagat e prendeva tempo nel rimetterselo in spalla: che intenzioni aveva quella donna? Mentre Roman camminava verso la porta, non distoglieva lo sguardo dalla nonna di Eva. La porta stava ormai per venire chiusa dalla ragazza alle sue spalle, quando una vocina flebile e stanca per lo sforzo appena compiuto, la trattenne. “Aspetta!”

Roman si bloccò, incuriosito, ed Eva fece lo stesso.

“Nonna, cosa fai?” domandò, mentre la donna avanzava verso la porta, stringendo qualcosa in mano. Una lunga catenella argentata le pendeva dalle dita e quando le aprì il suo palmo mostrò un gioiello: un crocefisso tanto vistoso quanto prezioso, argentato, con cinque pietruzze incastonate.

“Nonna, no!” intervenne Eva, con tono indignato.

“Lo prenda.” sorrise la donna. “Io l'ho conservato per troppo tempo, e non mi appartiene.”

Roman era stupefatto. Aveva sgranato gli occhi e non sapeva cosa fare, ma l'insistenza della donna che continuava a spingergli la mano contro al petto lo portò a prendere quella collana che sarebbe finita per cadere a terra.

“Ma io...” scosse il capo in direzione di Eva. “Io non voglio...” fece per dire. Ma la ragazza stava fissando la nonna intensamente, come per studiarla, da qualche momento.

“Lo prenda.” concluse, arricciando le labbra e dilatando le narici, mandando giù la decisione dell'anziana insieme a qualche lacrima. “Addio.”

E richiuse la porta, praticamente spintonandolo fuori e piantandolo lì sul pianerottolo, attonito, con in mano il crocefisso.

Lo fissò nella penombra, esaminandolo attentamente mentre scendeva le scale. Incespicò nei propri passi un paio di volte, ma niente poteva fargli battere il cuore più dell'emozione che aveva provato nel rivedere quella donna. Non sapeva nemmeno perché la sua mente continuava ad imporgli la parola “rivedere”, dato che era la prima volta che la incontrava. Quando uscì in strada, ebbe cura di infilarsi in tasca la collana in modo da nasconderla.

Si guardò intorno, ma la situazione non era cambiata rispetto a qualche minuto prima. Pensava di sentirsi più leggero dopo aver restituito quel quaderno, invece aveva di nuovo un fardello che gli pesava in tasca. Quell'oggetto non era suo. Non era nemmeno della signora che glielo aveva dato. Ma questa volta non aveva indizi per poterlo restituire al legittimo proprietario. E poi, non era mica un corriere.

Si incamminò. Non fece in tempo a muovere un paio di passi, che un fischio lo fece sobbalzare, e riconobbe il rumore che ne seguì. Il dolore lancinante giunse soltanto dopo alcuni secondi: qualcuno gli aveva sparato. Il proiettile lo aveva solo graffiato ad un braccio e la pallottola si era conficcata nel muro alle sue spalle.

Cercò freneticamente con lo sguardo nella direzione dalla quale era provenuto lo sparo e vide un uomo infilarsi correndo in un vicolo. Portava un cappello ed una giacca lunga; il tramonto che stava calando sulla via non gli permise di vederlo in volto, ma si fiondò al suo inseguimento. 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


“Quanto tempo è passato? Quanto tempo dall'ultima volta che mi hai baciata e senza parlare mi hai promesso una vita assieme?”

Athos si svegliò all'improvviso con un sussulto ed ansimò forte, in un letto di sudore. Si portò le mani tra i capelli fradici e fissò il vuoto per alcuni minuti.

Non era la prima volta che la sognava. Gli succedeva in particolare dopo una sbronza, e forse era anche quello il motivo per cui gli appariva ancora più bella di quanto ricordasse. Rise ironicamente, senza riuscire a controllarsi: proprio lei gli compariva in sogno come un angelo. Lei, che era il demonio fatto a persona.

Ributtò la testa sul cuscino e rise fino a consumarsi i polmoni.

Poi pianse.

Nella solitudine della sua stanza, esaurì le proprie lacrime crogiolandosi nella propria vergogna.

Quella donna gli aveva tarlato il cervello fino a raggiungere quel punto nascosto e remoto che, appena solleticato, gli faceva pentire di essere ancora al mondo. Rimpiangeva di non esserle mai corso dietro, di aver accettato il ruolo di Capitano – Capitano! Lui, che non sapeva nemmeno controllare se stesso quando versava la bottiglia di vino! – di non averle mai detto ciò che provava ancora per lei.

Era furente. A distanza di cinque anni, ancora lo tormentava. Nessuno gliel'aveva potuta far dimenticare, nemmeno per un istante. Se faceva l'amore con un'altra donna, continuava a sentire il profumo dei nontiscordardime, a vedere la sua chioma bruna, ad immaginarsi le sue labbra che gli baciavano il corpo, a sentire la sua voce. Alla fine, ne usciva più distrutto di prima e ritornava in un circolo vizioso di alcol e prostitute destinato a non finire mai.

Il fatto di aver perso persino D'Artagnan, che gli era spirato tra le braccia, non aiutava a migliorare il quadro della situazione. Porthos non era stato più lo stesso da allora. Si era chiuso e parlava ancora meno di prima, ancora meno di lui stesso. Aramis era quasi un ricordo lontano, ma ancora non aveva superato la sua dipartita. Eppure, per quanto dolore potesse provare nel ricordare i suoi amici scomparsi, la sua immagine tornava sempre a trovarlo nei sogni, anche quelli ad occhi aperti.

La odiava.

Gli aveva rovinato la vita per sempre.

Quella mattina, Athos non fu visto da nessuno nella guarnigione.

Da quella mattina, Athos non fu più visto per lungo tempo a Parigi.

Partì a cavallo, da solo, con una scorta di cibo per un viaggio destinato a durare giorni ed un guanto da donna bianco infilato nella tasca. Non disse niente a nessuno. Era una cosa che riguardava soltanto loro due. Qualunque tentativo di aiuto o di intromissione sarebbe stata una seccatura ulteriore che lo avrebbe prima o poi fatto desistere dal suo scopo.

Cavalcò verso nord per un'infinità di tempo, fermandosi solo di rado e senza riuscire a pensare ad altro che a lei, anche se non aveva idea di come avrebbe fatto a ritrovarla. Ma lo avrebbe fatto, o sarebbe morto tentando.

Giunto a Calais, vide gli occhi di lei scrutarlo maliziosi nei riverberi che la luce della luna rifletteva tra le onde del mare, e desiderò di affogarci dentro.

 

 

 

 

Roman correva a perdifiato, per quanto il dolore al braccio glielo permettesse. Era giunto pungente e lo aveva lasciato senza fiato: sentiva il sangue scorrergli sotto la divisa ed un formicolio dilagante.

“Ehi!!” riuscì a gridare. “Tu, fermati!!” riusciva a scorgerlo sempre soltanto per pochi istanti, prima che svoltasse una volta a destra, un'altra a sinistra.

Non voleva lasciarselo sfuggire: perché gli aveva sparato? Si stava ormai abituando agli sguardi impauriti degli austriaci quando notavano la sua divisa sovietica, ma lui non aveva mai fatto del male a nessuno. Che fosse soltanto qualcuno che cercava di vendicarsi per un torto subito da un altro soldato?

Lo perse di vista dopo alcuni minuti. Non aveva più fiato e il braccio gli doleva parecchio, anche se la pallottola non fosse rimasta nella sua carne. Nonostante tutto, continuò a camminare con il fucile imbracciato. Notò che la strada proseguiva in una direzione obbligata, e più andava avanti, più sperava che si concludesse in un vicolo cieco. La sua mente ragionava veloce, mentre prestava un po' di attenzione alla ferita, un po' ai suoi passi. Se quella via non aveva uscita, allora, a meno che non fosse entrato in una di quelle case, in fondo ad essa avrebbe trovato...

Non quello che si aspettava. C'era una ragazza lì, in mezzo alle macerie di una casa distrutta, che frugava a terra in quello che pareva un mucchio di spazzatura mista a calcinacci.

Roman comparve in fondo alla strada con il fucile puntato verso di lei, ma quando si accorse che era soltanto una ragazza, lo lasciò penzolare dal braccio ferito e si bloccò per non spaventarla.

Lei si voltò di scatto ed emise uno squittio spaventato, poi cercò di scappare al di là della montagna di macerie.

“Aspetta, ferma! Non voglio farti del male!” era già la seconda volta quel giorno che doveva rassicurare una donna di non avere cattive intenzioni. Lei scivolò sulle rovine della casa, slittando fino a ricadere a terra. “E' pericoloso, ferma...!” Roman le si avvicinò lentamente, mentre lei continuava ad annaspare, schiacciandosi contro il mucchio di macerie alle sue spalle, e cercando di restare in piedi.

Lui sollevò di nuovo le mani in segno di resa. “Non temere.” la tranquillizzò con voce profonda, sfoderando poi un sorriso per nulla intimidatorio.

“La prego, non...” la ragazza si strinse nelle spalle, facendosi piccola e tremante, si portò le braccia davanti al seno come a farsi scudo con esse e chiuse gli occhi, piangendo terrorizzata.

“Cosa ti è successo?” le chiese avvicinandosi ancora di più. Lei aprì gli occhi per un attimo per sbirciare le sue fattezze, ma poi distolse lo sguardo di nuovo.

Finalmente Roman ebbe l'occasione di vederla bene in viso e notò che era bellissima, anche se lo nascondeva bene sotto un abito sciupato e logoro, ed i capelli stopposi e spettinati.

“Cercavo solo un po' di cibo... Fatemi andare a casa, vi prego, mia sorella è ferita.” disse tutto d'un fiato. “Fate di me ciò che volete, ma fate in fretta, vi scongiuro.” e scoppiò di nuovo in singhiozzi.

Roman la fissò a lungo, cercando di trovare le parole giuste per consolarla, ma era rimasto affascinato dalle sue movenze. Lei sembrava essere più consapevole di sé di quanto volesse fargli credere, e la cosa lo fece sentire stupido, perché invece credeva ad ogni sua parola ed ogni sua lacrima, tanto da restarne quasi commosso. Poi tornò in sé.

“Sto cercando un uomo, d'accordo?” cercò di spiegarle. “Hai visto un uomo passare di qui? Con un cappello...”

La ragazza, che ora lo guardava negli occhi, scosse il capo rapidamente. Roman dedusse che doveva essere entrato in una di quelle case, oppure aveva scavalcato la montagna di macerie passandole di fianco e lei gli stava mentendo spudoratamente. Si rassegnò a desistere dal cercare colui che gli aveva sparato.

Controllò la ferita: non era così grave, ma ancora stava sanguinando.

“Ti porterò un pasto caldo e medicine per tua sorella, se mi dai una mano a medicarmi.” le propose. Lei sgranò gli occhi, tentennando, poi annuì timidamente.

“Perfetto. Hai qualcosa per fasciarlo?” aveva appena terminato la domanda, che lei si era già strappata un pezzo di vestito e glielo stava legando attorno al braccio.

Roman si sentì preso in giro alla grande, dopo aver assistito a quel cambiamento repentino. Quella ragazza non era una sciocca, innocente austriaca terrorizzata dai soldati; c'era qualcosa che non gli stava dicendo.

“Non era necessario...” cercò di dirle, stando al suo gioco. “Come ti chiami?”

“Vanessa. Vanessa Berger.” gli rispose con un fil di voce. I suoi gesti contrastavano gli uni con gli altri, e lui non riusciva a trovare un senso logico al suo comportamento. Era o no spaventata da lui? Sentiva come se fosse lei ad avere in mano la situazione; lei disarmata, lei donna, lei che piangeva.

“Sono Roman Kozlov.” si presentò, ancora attonito da quell'insieme di sentimenti opposti che gli stava trasmettendo quella ragazza. Cosa era vero e cosa no? Gli aveva almeno detto il suo nome reale o se lo era inventata al momento? Se aveva mentito era dannatamente brava. Ma forse era tutta una sua impressione, forse aveva agito così rapidamente soltanto perché aveva davvero fretta di tornare a casa, come diceva.

“Se hai fame, perché non vieni a prendere il cibo che distribuiamo tutte le sere?” chiese, cercando di coglierla alla sprovvista, mentre lei stringeva quella benda arrangiata attorno al suo braccio con una forza che mai si sarebbe aspettato da quella gracile corporatura.

Lei non rispose e si rabbuiò.

“Non siamo tutti uguali, sai?” le disse allora lui.

Lei di nuovo non rispose.

“Ti accompagno a casa, e stasera vi porterò qualcosa da mangiare.”

Vanessa si allontanò, dopo avergli medicato il braccio, in silenzio.

“Verrò solo, te lo giuro.” le parlò con il cuore in mano. Davvero si stava riducendo quasi a supplicarla pur di rivederla? I suoi occhi cristallini non trasmettevano altro che sincerità, mentre gli smeraldi di Vanessa vacillavano perplessi, squadrandolo.

“Non me ne faccio nulla delle promesse di un soldato. Addio.” Lo oltrepassò e sparì dalla sua vista.

Roman rimase di nuovo stordito: cos'era appena accaduto? Non sapeva dire perché quando se n'era andata gli avesse lasciato dentro un vuoto incolmabile e straziante. Doveva rivederla.

Ma quando stava per mettersi al suo inseguimento, qualcos'altro attirò la sua attenzione tra le macerie. 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Athos aveva raggiunto Londra dopo alcuni giorni di viaggio. Sentiva di essere sulla buona strada, ma non aveva idea di quanto fosse grande l'Inghilterra, né di dove iniziare a cercare.

Era stato ingenuo ed ostinato nel pretendere di arrivare fino a quel posto sconosciuto, dove nessuno capiva ciò che diceva, e poterla cercarla chiedendo a tutti se conoscessero la donna più stronza del mondo, anche se una parte di sé era ancora convinta che l'avrebbe trovata soltanto con quell'informazione.

Si ritrovò in una taverna a bere, di nuovo. Nulla era cambiato. Parigi o Londra, finiva sempre sconfitto e distrutto da una donna che non vedeva da cinque lunghissimi anni e che poteva benissimo essere morta.

Si scolò un paio di bottiglie di vino. Non era buono come quello di Parigi, ma il George Inn Pub era accogliente, nessuno faceva risse e nessuno lo guardava storto perché era straniero.

In uno dei suoi ultimi momenti di vaga lucidità, udì qualcuno parlare francese al bancone. Erano due uomini: non sembravano viaggiatori, quindi dedusse che risiedevano nella città o quantomeno erano lì da più tempo di lui.

Si ripulì la bocca con la manica e, senza lasciare la bottiglia, barcollò verso di loro. Doveva essere più rumoroso di quanto pensasse perché non li aveva ancora raggiunti che i due si erano già voltati verso di lui. “Possiamo esserVi utili?” domandò in inglese il più basso, un uomo sulla cinquantina tarchiato.

Athos tirò fuori il guanto dalla tasca. “Quanti abitanti ha Londra?” biascicò confuso dall'effetto del vino ed ancora stordito dal lungo viaggio.

“Più di duecentomila, diamine!” rispose il più basso e tarchiato dei due.

“Li passerò uno ad uno. E la ritroverò.” disse sventolando il guanto davanti alle loro facce, come se ritenesse importante dar loro quell'informazione, forse perché erano gli unici in quel pub a poterlo capire.

“Dove ha preso quel guanto?” domandò d'un tratto l'oste in inglese ai due uomini, avendo compreso che Athos non parlava la sua lingua.

I due, stupefatti, alternarono lo sguardo dal corpulento uomo dietro il bancone al moschettiere, che aveva intuito la domanda nonostante la barriera linguistica.

“Perché me lo chiede?” si fiondò sul bancone, verso l'uomo. “Sa qualcosa?!” esclamò concitato.

“Si calmi.” disse il più alto dei due francesi. “Cerchiamo di capirci.”

“Una donna che veniva sempre qua indossava la copia identica di quel guanto.” spiegò l'oste ai due uomini. “Pensavo cercasse lei.”

Ed uno dei due tradusse ad Athos, che nel frattempo riacquistava lucidità e tornava un po' in sé.

“Chiedetegli come si chiamava. Chiedetegli dove si trova ora. Devo sapere tutto.”

I due parlarono in inglese con l'oste per qualche istante, che ad Athos parve un'eternità. Si ripromise di imparare la lingua, perché stava soffrendo di un'impazienza incontenibile. Tutti tacquero e lui guardò i due con occhi spiritati. “E allora?!”

“Ha detto che non sa il suo nome. Veniva sempre qui con un uomo, ma ormai è qualche settimana che non la vede.” disse incerto lo spilungone.

“E chi è questo tipo?” esortò Athos. Si stava innervosendo, quei due nascondevano qualcosa.

“Mr. Matthews.” rispose di nuovo quello alto, dopo un attimo di silenzio.

“Lo conoscete?” dovette insistere il Capitano.

“E' uno... poco raccomandabile.” confessò il più basso.

Athos perse la pazienza. “Giuro su Dio che se non parlate, ve ne darò così tante da farvi dimenticare entrambe le lingue che conoscete!” ringhiò. L'oste gli lanciò un'occhiataccia ma lui non se ne curò.

“E' proprietario di un bordello. Vicino al porto. Ma non vi conviene anda--”

Athos non seppe mai la fine di quella frase. In un attimo era già fuori dal pub: sembrava aver ripreso controllo delle sue gambe e per un paio di fantastici minuti sperò di poter raggiungere il porto, riprendersi la sua donna e tornare a Parigi senza nemmeno fermarsi a dormire per la notte. Ma uno schianto lo riportò alla realtà: era il suo corpo che cadeva a terra, pesante e inerme.

Si addormentò lì e la rivide soltanto nei suoi sogni.

 

 

Roman non era riuscito ad aspettare nemmeno per qualche ora. Si era procurato del cibo, l'aveva ficcato in una sacca già piuttosto piena e si era fiondato a quell'indirizzo, trepidante.

Inutile dire che rimase deluso quando capì che il palazzo corrispondente a quel numero civico era collassato su se stesso e rimaneva in piedi per miracolo. Ma non si arrese. Nella sua testardaggine, si infilò nel portone, stando attento a non toccare nulla che potesse minare la stabilità dell'edificio, alla ricerca di un indizio qualsiasi. Notò che la rampa di scale che portava ai piani superiori era mezza crollata, ma quella che scendeva verso la cantina era intatta e anzi, sembrava essere stata ripulita dai calcinacci.

La scese in silenzio, guardandosi attorno un po' inquietato dagli scricchiolii provocati dalle travi che si inclinavano e dagli scalpiccii di pezzi del soffitto che cadevano. Non si vedeva nulla là sotto. Per poco non si scontrò con la porta che dava l'accesso alla cantina.

La aprì lentamente e subito capì che il posto non era abbandonato: una fioca luce proveniva dall'interno, accompagnata dal suono di uno strumento che però si smorzò subito. Dovevano averlo sentito.

“Non voglio farvi del male.” disse, per l'ennesima volta. Si stava così abituando a dire quella frase che quasi la pronunciava senza più accento. Sentì dei rumori provenire dall'interno, come se qualcuno stesse cercando di nascondersi frettolosamente, ma lui fu più lesto: quando entrò nello scantinato, riuscì ad intravedere un lembo del vestito di Vanessa sparire rapidamente dietro ad un grosso armadio. “Sono io, Roman.” disse, avanzando lentamente per non spaventarla.

“Ti ho portato qualcosa da mangiare.”

Sul tavolo accanto ad un divano vecchio e rotto, insieme ad una lampada ad olio, era appoggiato un violino, del quale aveva riconosciuto difatti il suono con qualche attimo di ritardo. Non c'era nessun altro lì.

A Roman sfuggì un sorrisino: sapeva che gli aveva mentito. E sapeva anche come farla uscire allo scoperto. “E' proprio un bello strumento...” la provocò, pizzicando una corda.

“Non toccarlo!” esplose subito lei, fiondandosi fuori dal suo nascondiglio, a difesa del suo violino che subito andò a prendere con sé. Roman sorrise vittorioso e lei si ritrasse, rossa di rabbia e frustrazione. “Come mi hai trovata? Mi hai seguita?” domandò impettita e offesa.

Il soldato si sedette sul divano e lei lo fulminò con lo sguardo. Lui aprì la sacca che portava con sé e ne estrasse un tozzo di pane, del formaggio, una scatola di fagioli ed una bottiglia di acqua potabile.

“Credo che tu abbia dimenticato qualcosa...” disse teatrale, tirando fuori dalla tasca un documento e leggendone il nome “... Nico Weber. E credo che non sia nemmeno tuo.”

Lei scattò in sua direzione e cercò di strappargli di mano il documento, ma Roman fu più rapido e lo ritrasse. “Penso che tu mi debba delle spiegazioni. O non hai tempo? Devi accudire tua sorella, forse?”

Vanessa tremava di rabbia. Lo fissava, ferma sul posto. Se fosse stata un animale selvatico, starebbe sicuramente ringhiando, pronta ad attaccare. Ma era solo una ragazza, e gli occhi le si riempirono di lacrime sincere che le scorsero giù lungo le guance, rivelando il vero colore della sua pelle chiara nel solcare lo strato di sporco accumulatosi.

Roman inizialmente si sentì in colpa, ma continuò a tirare fuori oggetti dalla sua sacca. “Perché non mi racconti a chi hai rubato questi documenti... Questi vestiti...” e ne estrasse una giacca, dei pantaloni ed un cappello da uomo. “E questa pistola?” domandò infine, tenendo l'arma ben salda, prima che lei potesse fare qualcosa di avventato. “Non credo più alle tue lacrime.” dichiarò poi, sicuro di sé. Era stanco di farsi ricattare dalle donne, in un solo giorno era stato minacciato e preso in giro più di quanto lo fosse stato in tutta la sua vita.

Vanessa si ostinava a non rispondere.

“Hai nascosto tutto nelle macerie di quella casa, quando hai capito di essere in trappola. Ingegnoso il travestimento, ma adesso mi spieghi perché diavolo mi hai sparato!” la severità con la quale Roman pronunciò quelle parole andò crescendo e sfociò in risentimento. Dopotutto avrebbe anche potuto ucciderlo.

Vanessa prese qualche rapido respiro, sbuffando rabbiosa, poi partì correndo verso la porta, col suo violino stretto in mano.

“Ferma!” gridò lui, fiondandosi a bloccarla. La riprese appena davanti all'uscio, mentre lei già lo aveva aperto. La cinse con le braccia da dietro, immobilizzandola nonostante lei continuasse a scalciare e dimenarsi.

“Lasciami, lasciami, maiale!” squittiva, ribellandosi.

“Ma quale maiale, se esci là fuori sai cosa ti succederà! Stai ferma, non ti farò niente. Ti stavo solo provocando un po'.” confessò. E lei si calmò, gradualmente.

“Vieni. Raccontami.” Roman si porse in maniera più gentile, accompagnandola verso il divano, mentre lei singhiozzava sommessamente, sconfitta. “Ti giuro che non volevo farti del male.” aggiunse.

“Le promesse dei soldati non valgono niente.” ripeté lei, come gli aveva detto quello stesso pomeriggio.

“Quanti soldati conosci?” replicò lui, ancora un po' provocatorio e stanco di sentire quella frase non veritiera: lui le sue promesse le rispettava sempre.

“Uno. Mio padre: Nico Weber.” rispose subito lei. “Aveva promesso che sarebbe tornato. E' rimasto in Spagna con quella puttana e ci ha lasciato qui a venire massacrate da altri maiali come lui.”

Quella confessione fu così dura e grezza che Roman non sapeva come rispondere. Avrebbe voluto farle tante domande, ma niente gli usciva dalla bocca. Non ce ne fu bisogno: fu lei a proseguire.

“Li hai mai visti? Li hai mai visti violentare una bambina di nove anni? Come puoi chiedermi di fidarmi, dopo che mia sorella e mia madre sono morte per mano vostra?” la sua voce era stranamente controllata, oscillava leggermente soltanto sulle parole sulle quali voleva porre accento. Il suo corpo, tuttavia, tremava forte come le corde del violino che stringeva forte al petto come se potesse proteggerla.

Roman la fissò in silenzio e non poté fare a meno di pensare che anche in quella sua espressione così sconvolta, questa volta per davvero, fosse bellissima. Ripensò alla bambina che aveva salvato qualche giorno prima, pagando con le botte il suo gesto d'eroismo e avrebbe voluto risponderle che sì, li aveva visti, ma stava cercando di dimenticare.

“Volevi far incolpare tuo padre di omicidio o soltanto uccidermi?” le domandò tranquillo.

“Mi sono accorta di aver sbagliato bersaglio solo quando ti ho visto da vicino. Uno dei porci che hanno ucciso la mia famiglia ti assomigliava molto, e...”

“Quindi te ne vai in giro per la città cercando vendetta? Ti farai ammazzare.” la derise con aria decisamente scettica, senza pensare al fatto che comunque era riuscita a ferirlo ed ingannarlo.

Lei sembrò risentirsi a quell'affermazione. “Non ho chiesto il tuo parere a riguardo! E per la cronaca, sono già a metà opera, quindi forse non sono così stupida come credi!” ribatté lei indignata.

“Non ho detto che sei stupida, ma solo incosciente. Cosa intendi con 'a metà opera'?” Lei non rispose e distolse lo sguardo, evasiva. “Quanti uomini hai ucciso?” insistette Roman. Vedendo che ancora non accennava a rispondere, le prese una mano tra le sue così rapidamente che lei non ebbe tempo di ritrarla. “Devi fermarti. Non puoi andare in giro ad ammazzare gente e pensare di farla franca.”

Vanessa ritrasse la mano di scatto come se il contatto con lui la stesse ustionando. “A te cosa importa?”

“Insomma, mi sto preoccupando per te!” sbottò lui, alzandosi in piedi.

“Per me o per i tuoi compagni?!” ribatté lei, alzandosi a sua volta e fissandolo per istanti interminabili.

Lo mandava fuori di testa e nemmeno lui sapeva spiegarsi il perché. Era soltanto una donna ostinata, avrebbe potuto farla tacere in qualsiasi momento, ma non riusciva a trovare le risposte adeguate alle sue insinuazioni. Perché non l'aveva semplicemente lasciata perdere? Perché gli sembrava così sensuale nonostante fosse sudicia, misera e lo trattasse così male? Come era finito ad avvicinarsi così tanto al suo viso?

In poco meno del tempo necessario a Roman per pensare a cosa stesse facendo, si ritrovò a baciarla con desiderio. Le aveva preso il viso tra le mani ed assaporava la sua bocca un movimento alla volta. Lei ricambiava, ma rimaneva sempre un po' distaccata: nella sua mano destra reggeva ancora il violino, mentre la sinistra pendeva lungo il fianco immobile. Era come se Vanessa avesse vinto ancora; aveva ottenuto ciò che voleva, ed ancora una volta lui aveva fatto il suo gioco.

Stupido.  

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


“Suonami qualcosa.” le disse Roman accarezzandole la schiena nuda. Lei si era tirata su a sedere sul letto, il lenzuolo che le copriva il corpo dalla vita in giù, i lunghi capelli scuri sciolti sulle spalle. Gli sembrava una scena tanto romantica e sensuale che quasi si era dimenticato che poco prima si stavano praticamente urlando addosso. Non riusciva a ricondurre quella poesia che aveva preso forma tra le lenzuola alla presunzione e alla freddezza che gli aveva dimostrato.

Vanessa si voltò e gli sorrise in maniera sbarazzina, di nuovo vittoriosa.

“Suono solo per me stessa.” rispose glaciale, cambiando espressione ed alzandosi in piedi per andare a rinfilarsi nel vestito che aveva abbandonato sul pavimento. E lui che credeva di averla addolcita un po' durante quelle due ore consecutive tra le lenzuola. Si ritrovava invece mentalmente esausto, deluso dalla sua risposta e dal fatto che lei fosse così orgogliosa da non aver cambiato di una virgola il suo atteggiamento. Dopo tutta quella passione, quel desiderio che era nato all'improvviso ed all'improvviso era finito in un gelido sospiro che l'aveva allontanata di nuovo... Dopo tutte le parole che aveva sprecato per lei, ancora si permetteva di trattarlo come se fosse inferiore.

Bene: se era la guerra che voleva, la guerra avrebbe avuto. Lui era un soldato e non c'era nessuna chance che una ragazzetta impertinente avesse potuto vincere su di lui. Se voleva farsi desiderare così tanto, lui si sarebbe fatto desiderare ancor di più.

La imitò, rivestendosi velocemente. Vanessa lo guardò inizialmente sorpresa, come se invece sperasse di essere lei a congedarlo, ma poi fece finta di niente e gli voltò nuovamente la schiena, infilandosi le scarpe ai piedi.

Roman si alzò in piedi determinato, e riprese il fucile con sé; poi stette a guardarla, ad aspettare un segno, un saluto da parte sua. Vanessa si voltò con aria ingenua e indifferente.

“Beh?” gli fece, scuotendo la testa.

Lui non disse una parola. L'avrebbe voluta prendere a schiaffi fino a farla supplicare di smettere, ma ovviamente non lo fece. Arrivò a desiderare di avere a che fare con un uomo, per poterlo affrontare ad armi pari; invece era una donna, la più stronza e bella donna che avesse mai conosciuto, e gli stava facendo fumare il cervello di rabbia. Se ne andò senza dire una parola, sbattendosi la porta alle spalle.

 

 

 

“Perché sei arrivato soltanto ora?”

Milady lo guardava con aria di rimprovero, corrucciata. Poi la sua espressione si addolcì.

“Non qui...” gli disse, allungando una mano agguantata verso il suo volto. Un forte profumo di nontiscordardime gli giunse alle narici, così dolce da risultare quasi nauseabondo, e non appena lo toccò, Athos rinvenne.

Si trovava nella stessa posizione nella quale era collassato la sera prima, ma il sole lo stava piacevolmente riscaldando. Dopo un attimo di smarrimento, si ricordò improvvisamente tutta la conversazione avuta qualche ora prima con il barista e i due francesi, e scattò, riprendendosi dal torpore in men che non si dica. Lei continuava a portare quel guanto. Voleva essere ritrovata, sapeva che lui sarebbe andata a cercarla, anche a distanza di tutti quegli anni.

Camminò verso il porto a passo svelto, nonostante in testa ancora gli rimbombassero fastidiosamente le parole che lei gli aveva detto in sogno.

Non prese molte precauzioni. Sapeva che una volta che si sarebbero ritrovati, nient'altro sarebbe importato. Chiunque fosse stato quel Mr. Matthews, o come si chiamava, non avrebbe potuto niente contro loro due assieme, lo avrebbe sconfitto in un batter d'occhio pur di riportarsela a casa.

Il bordello era enorme e vistoso, affacciato direttamente sul porto. Tutti gli odori più sgradevoli provenienti dal fiume e dal ristagno delle sue acque si annullavano di fronte a quell'edificio, sostituiti da profumi esotici ed aromi mescolati.

Fuori dalla porta un violinista stava suonando una melodia lenta e malinconica ed Athos trovò ironico il contrasto tra il motivo e quel posto. Non si rese nemmeno conto che nel momento in cui varcò la soglia, il musicista cambiò completamente registro, ed iniziò ad intonare la Foscarina di Marini.

Una donna dal seno prosperoso gli si piazzò subito davanti con aria sensuale.

“Niente armi qui dentro, occhi belli.” gli disse con un sorriso malizioso.

“Mr. Matthews.” disse Athos con gli occhi arrossati e l'aria stanca, guardandosi attorno. Ma vedeva soltanto ragazze aggirarsi mezze nude, chi per dedicarsi al prossimo cliente, chi per sbirciare in sua direzione e rivolgergli complimenti poco celati.

La sua interlocutrice parve indisporsi nell'udire quel nome.

“Ti conviene girare al largo, occhi belli.” gli rispose lei in un francese quasi perfetto.

“No, a Voi invece conviene rispondermi! Una donna...” mormorò ansante e confuso. “Una donna con un guanto come questo...” ed estrasse dalla tasca la metà della coppia che Milady aveva abbandonato al crocevia. La donna sgranò gli occhi, ma non ebbe tempo di rispondergli. Una serie di urletti striduli attirarono la loro attenzione; le altre ragazze sussultavano quando un uomo corpulento passava in mezzo a loro a passo pesante. Era diretto proprio verso di Athos e la sua faccia non prospettava nulla di buono.

La donna si dileguò in un battibaleno ed il moschettiere portò la mano sull'elsa della spada. Quel tizio era enorme, calvo e grosso il doppio di lui; oltretutto, non sembrava molto propenso al dialogo. Gli arrivò di fronte e senza esitare gli rifilò una ginocchiata nello stomaco.

Athos ricadde a terra dolorante, tossendo e cercando di realizzare cosa fosse appena successo, ma non ne ebbe il tempo: si ritrovò per strada, probabilmente con qualche costola rotta, tutto dolorante ed impolverato.

“A-Anne...” rantolò, tossicchiando e sputando terra, mentre il violinista continuava ad intonare la Foscarina. “Anne...” si rialzò sulle gambe tremanti. “ANNE!” urlò in un verso quasi animalesco che fece trasalire persino il violinista, che stonò una nota.

“ANNE!” continuò Athos, urlando verso le finestre, affollate da ragazze incuriosite che lo guardavano bisbigliando tra di loro, con i seni in bella vista. “ANNE!” non demordeva lui. Non temeva quell'energumeno, non temeva di venire arrestato o di finire ammazzato e gettato nel fiume: doveva ritrovarla, e se lei era lì glielo avrebbe fatto capire in qualche modo.

Si fiondò sulla porta chiusa. “Apri!! Apri, bastardo, cane di un vigliacco!! Ridammela, lei è mia!!” si sfogò con i pugni contro quel legno massiccio, finché non sentì più nessun dolore alle mani, allo stomaco, alla schiena; finché persino la Fornarina gli sembrò sfumare nel nulla, lontana, e la voce di lei gli ripeteva “Non qui”, fino a farlo imbestialire ancora di più.

“DOVE, ALLORA?!” gridò, sferrando un ultimo calcio alla porta.

“Sei arrivato tardi.” un'affermazione in un francese stentato lo fece voltare di scatto, furente. Era il violinista che aveva davvero smesso di suonare e lo fissava scuro in volto. Athos gli fu addosso, lo prese per il bavero e lo spinse contro il muro.

“Cosa sai? Dimmi cosa sai!!” gli ringhiò a due centimetri dalla faccia.

“Devo suonare, lasciami! Se non suono, lui poi sospetta!” Athos riprese fiato, ma negli occhi gli brillava ancora un guizzo di follia che avrebbe potuto uccidere il musicista soltanto guardandolo.

“Suona, allora, ma parla per Dio!” lo rilasciò, adirato ed impaziente.

L'uomo riprese a suonare la melodia nostalgica, e dopo pochi secondi parlò.

“Era qui fino a due settimane fa, poi è sparita. Dicono che lui l'ha uccisa. Dicono che lei era spia. Lui odia suo nome. Una ragazza faceva domande, lui l'ha picchiata e mandata via. Senza lavoro, per strada.” spiegò l'uomo, visibilmente agitato, continuando a suonare mentre teneva un occhio sull'ingresso del bordello per controllare che Mr. Matthews non uscisse. “Vai via ora, se no ti ammazza.”

“Chi è la ragazza?” domandò Athos, ben piantato sui suoi piedi.

“Liz la rossa. A Coventry.” tagliò corto lui, incitandolo con lo sguardo ad allontanarsi rapidamente.

Athos indugiò ancora per un attimo, poi diede un'ultima occhiata al palazzo, come se si aspettasse di vedere il viso di lei tra quello delle ragazze affacciate, ma nessuno stava più guardando dalle finestre.

Si incamminò rapidamente, non mancando di voltarsi a lanciare un ultimo sguardo alle proprie spalle come se bastasse quello per capire se le parole del violinista fossero sincere.

 

 

“Vanessa. Sono io, apri.”

Roman stava bussando alla porta della cantina da alcuni minuti, senza ricevere risposta dall'interno. Avrebbe potuto semplicemente entrare, ma il pudore lo tratteneva dal farlo senza essere sicuro che lei fosse effettivamente lì dentro. Iniziava a preoccuparsi, il sole era calato da parecchio tempo e se la ragazza non era lì, allora era in giro da sola o nella peggiore delle ipotesi poteva essere finita in guai seri.

Alla fine non ce l'aveva fatta a stare senza Vanessa per più di due giorni di seguito ed aveva ceduto. Aveva inghiottito l'orgoglio ed era tornato da lei a testa bassa, determinato ad ignorare gli atteggiamenti bruschi e freddi che aveva nei suoi confronti. Dopotutto, ne aveva passate di tutti i colori, non poteva biasimarla se ancora non riusciva a fidarsi pienamente.

Per quanto gli riguardava, invece, i suoi sentimenti verso di lei erano limpidi e li avrebbe persino esternati se lei avesse smesso di fare la stronza per un attimo.

“Vanessa, sto entrando.” si annunciò, prima di aprire la porta lentamente.

Il posto era deserto. Soltanto il violino abbandonato sul divano lo benediceva con l'illusione che lei sarebbe tornata. Mosse alcuni passi all'interno, incuriosito da alcune carte appoggiate sul tavolo. Non avrebbe voluto, non avrebbe dovuto, ma lo fece.

Quando intravide un biglietto del treno in bella vista, non poté fare a meno di sbirciare. Mancavano solo tre giorni alla data riportata, e quando Roman lesse la destinazione finale su un salvacondotto lì accanto, non poté fare a meno di sgranare gli occhi.

Non fece in tempo a leggere cosa c'era scritto nella lettera fitta di parole sotto al biglietto ferroviario, perché una voce lo fece sobbalzare.

“Cosa fai?!” Vanessa era in piedi davanti alla porta che lo guardava severa. A grandi passi raggiunse il tavolo, raccolse le carte avidamente e le andò ad infilare nel cassetto, poi tornò a guardarlo in cagnesco. “Come ti sei permesso?” era furente, ed era anche vestita da uomo. Indossava ancora la giacca di suo padre, i pantaloni da uomo ed il cappello. Roman notò degli schizzi di sangue sulla parte superiore del vestito che portava sotto, ma aveva una questione ancora più spinosa da sottoporle.

“Stai partendo.” disse lui, ancora sconvolto.

“La cosa non ti riguarda.” tagliò corto Vanessa.

“Cosa ci vai a fare in Spagna? Lo sai che c'è Franco là?” la ammonì in un tono che usava spesso con Ninochka, quando faceva qualcosa di sbagliato.

“Oh, pensavo ci fossero soltanto arcobaleni e fiori in Spagna.” gli fece il verso lei, ironica. “Certo che lo so che c'è Franco! E so anche che la Francia vuole chiudere i confini, quindi conviene che mi dia una mossa.”

Lui la guardò attonito, senza parole, arreso, impotente: ancora una volta, sconfitto.

“Non farlo.” supplicò, in un fil di voce disperato.

Lei rise; non capiva, minimizzava l'importanza di quello che c'era tra di loro, di quello che c'era sempre stato tra di loro, dal primo momento.

“Vediamo se ho capito: dovrei rimanere qui, in questa cantina, invece di studiare violino al Conservatorio, solo perché me lo dice un porco soldato russo?”

Lui sbatté le palpebre incredulo. Non riusciva a comprendere come potesse essere tanto insensibile e distaccata emotivamente, nonostante lui le stesse aprendo il suo cuore.

“Per andare da un porco soldato austriaco che ti ha abbandonata?!” replicò con rabbia. La domanda ancora risuonava nella desolazione della cantina, quando uno schiaffo gli colpì la guancia. Si rese subito conto dell'errore: era pur sempre suo padre, l'unico familiare che le rimaneva, e stava cercando di riscattarsi nei confronti di sua figlia. Roman si massaggiò il viso dolorante.

“Vattene.” gli sibilò lei.

“Ti amo.” mormorò lui, e poi non riuscì a capire se lo sguardo stupefatto di lei fosse in reazione alle sue parole o al rumore della porta che si apriva nuovamente.  

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Roman non aveva più ripensato molto a quel crocefisso che gli era rimasto sul fondo della tasca dei pantaloni da quando l'anziana gliel'aveva dato in custodia, ma per qualche assurdo motivo gli ritornò in mente in quel momento. Quando i quattro soldati entrarono nella cantina, il cuore gli balzò in gola e gli venne istintivo pensare di andare a ricercare il pendente nella tasca, anche se non lo fece.

“Guardatelo lì, l'eroe...” uno di loro lo provocò, parlando in russo.

“Scappa.” sussurrò lui a Vanessa, senza pensare che non c'erano altre vie di fuga oltre alla porta. Lei era terrorizzata, gli occhi sgranati, il respiro affannoso. Si muoveva piano come per nascondersi dietro di lui, ma non mancò di farfugliare un: “Bastardo...” allibita e Roman notò che non cercava protezione, ma si stava allontanando.

Rimase stupefatto. Non poteva aver pensato che li avesse portati lì lui.

“E non la volevi condividere con i tuoi amici?” lo stuzzicò un altro, con aria arrogante.

“Prendiamola.” sentenziò il terzo, e tutti e quattro incombettero su di loro così rapidamente che Vanessa ebbe soltanto il tempo di gridare, e Roman di tentare di imbracciare il fucile, prima che glielo strappassero.

“NO!” urlò, sgolandosi. “No, lasciatela! Vanessa!” due di loro lo tenevano per le braccia, mentre gli altri due avevano preso lei e le avevano già strappato di dosso la giacca. Lei scalciava e si dimenava, ma nulla poteva contro quei due uomini.

“Questa è una raffinata.” la schernì uno dei due, facendo cenno al violino sul divano. “Non possiamo scoparcela sul pavimento.” ragliò in una risata sguaiata.

Roman poteva a malapena udire ciò che dicevano, sovrastato dalle sue stesse grida e dalle risa dei suoi compagni. Li insultava, urlava loro di smetterla, di lasciarla andare, urlava a lei che non era stato lui, che la amava...

Li vide mentre la stendevano sul tavolo e le sfilavano i pantaloni. Le puntarono un coltello alla gola minacciandola di stare ferma. Lei diceva cose in tedesco che nemmeno Roman riusciva a capire da tanto sbraitava confusa tra le lacrime e la concitazione. Sputò in faccia ad uno dei due, che si infuriò e parve diventare ancora più violento.

“VANESSA!” urlava lui, cercando di liberarsi dalla presa dei due che lo tenevano. “VANESSA!” scalciava, strappava le spalle, menava pugni all'aria. “VANESS--” e poi cadde a terra in un rantolo straziato.

Quando gli si rivoltarono gli occhi all'indietro, l'ultima cosa che udì fu l'inizio di una melodia stonata proveniente dal violino di Vanessa.

 

 

 

La prima cosa che Athos pensò quando vide Liz la rossa fu che se mai esisteva un'altra donna di cui Milady si potesse fidare, quella era lei. Le assomigliava così tanto nei modi di fare, che per un attimo si chiese se in tutti quegli anni non l'avesse plasmata a sua imitazione, una sua degna erede. Il modo in cui gli disse: “Liz la rossa? Dipende da chi la cerca.” lo fece rabbrividire.

“Sto cercando Anne.” andò dritto al sodo il moschettiere, dopo aver studiato tutte le possibili vie di fuga che avrebbero potuto fargli sfuggire la ragazza. Difatti, nell'udire quel nome, tentò di andarsene.

“Non so di cosa parlate.” biascicò, facendo per andarsene, ma questa volta lui ebbe i riflessi pronti e la bloccò per un braccio.

“Vi prego. Sono... suo marito.” esitò inizialmente nel pronunciare quelle parole, ma poi la rassicurò con uno sguardo determinato. Lei lo squadrò nel modo in cui Milady era solita fare, e sembrò convincersi delle sue intenzioni. Si liberò dalla presa, ma rimase lì di fronte a lui.

“Mi ha parlato di Voi. In confidenza. Nessun altro sapeva che era sposata.” affermò con sicurezza, come a volersi vantare della propria posizione nella cerchia affettiva di Milady. Ed in effetti, era proprio una cosa di cui poteva andare fiera.

Per quanto fosse incuriosito da tutta quella storia, c'era solo una cosa che Athos voleva sapere: “Dove si trova?”

“Se lo sapessi non sarei qui. Quella donna ha mille risorse, ma temo che non sia finita bene.” disse un po' rammaricata, continuando a squadrarlo. “Ora capisco cosa vedeva in Voi.” sviò per un attimo, ma Athos la riportò sull'argomento che più gli premeva.

“Cos'è successo?” insistette. Liz sospirò, un po' scocciata, restia nel parlare.

“Se la conosceste almeno la metà di quanto la conosco io, sapreste che non era mai stata sua intenzione diventare socia in affari di un mostro come Matthews.” spiegò, sempre con quell'aria di superiorità che lo faceva sentire un po' stupido, anche se non aveva pensato nemmeno per un secondo che sua moglie avesse interessi nel gestire un bordello. “Non chiedetemi come, questo non lo so neppure io, era riuscita ad entrare nelle grazie di Re Carlo in persona.” un guizzo di eccitazione nella voce la tradì. In effetti, poteva essere piuttosto impressionante, per chi non la conosceva come lui.

“Non mi risulta difficile crederlo.” commentò. Lei si ricompose subito.

“Il suo compito era scovare quei vescovi porci che si infilavano nel bordello e denunciarli.” rivelò, con noncuranza. Ma vedendo lo sguardo perplesso di Athos, continuò. “Negli ultimi anni l'arcivescovo Laud ha consigliato spesso il nostro Re, ed entrambi vogliono mantenere pura l'immagine del clero agli occhi della gente... Ma non a tutti piace la piega che sta prendendo. Chi viene colto in atti poco consoni al proprio rango, viene esiliato. Il bordello di Matthews ha la fama di tenere molto alla privacy dei suoi avventori.”

“Ed Anne ricopriva un doppio ruolo perfetto. Ma certo...” tutto gli era più chiaro. La poteva vedere chiaramente nella veste di matrona addetta a ricevere i clienti all'ingresso, come la donna che aveva accolto lui quando era entrato. Non trovava difficile pensare che si fosse conquistata la fiducia di Matthews con qualche favore... Ed allo stesso tempo poteva benissimo immaginarsela ad origliare dietro le porte e a raccogliere informazioni dalle ragazze, dopo essersele ingraziate. Tutto tornava.

“Ma Matthews deve aver intuito qualcosa. E potrebbe essere tutta colpa mia.” confessò, inaspettatamente. Athos la guardò interrogativo e lei sospirò. “L'ho affrettata a denunciare più di uno di quei preti maiali nel giro di pochi mesi. Non li sopportavo, ci trattavano male e chiedevano sconti in continuazione. Matthews deve essersi insospettito nel veder calare il numero di clienti in quel modo...” per un attimo gli parve sconsolata, ma poi tornò a fissarlo con aria di sfida.

“... e l'ha fatta sparire.” concluse lui, attonito.

Liz annuì lentamente. “Se fosse ancora viva, me lo avrebbe fatto sapere.”

Allora era vero. Era arrivato troppo tardi.

Si dovette sedere a terra, la testa tra le mani, lo sguardo perso. Non poteva credere di averla persa veramente, per una questione di giorni. Cercò di ricordare cosa stesse facendo la settimana scorsa, o quella prima ancora, e si torturò pensando che niente era così importante come andare a riprendersela fino a Londra, e che il suo tergiversare l'aveva fatta uccidere.

“Voi la conoscete meglio di me.” Liz abbassò la guardia, forse ebbe pietà di lui e decise di lasciargli almeno quella vittoria. “Non ha mai smesso di portare quel guanto.” aggiunse, e la voce le tremò. “Continuo a sperare che sia ancora viva da qualche parte, e che presto verrà a riprendermi.”

Quella frase lo tormentò per tutta la notte e per i giorni a seguire. La sentiva nel rumore del battello diretto a Calais, nel trottare del suo cavallo, nella voce preoccupata di Constance, e nel silenzio delle serate in Guarnigione.

Lei lo stava aspettando, e lui l'aveva abbandonata lì, da sola, tra puttane e porci. Non sapeva dove altro cercarla.

L'unica cosa che gli restava era un guanto solitario.

 

 

 

Quando Roman riaprì gli occhi, gli parve di udire ancora le note stridule delle corde del violino strapazzate da mani inesperte.
Per un attimo, la voce di Vanessa gli ricordò che quanto di più orribile potesse accadere era successo proprio lì, davanti a lui. Sbatté le palpebre più volte cercando di tornare alla realtà, anche se avrebbe voluto continuare a restare nell'oblio.

Si rese conto che non c'era nessun violino, doveva esserselo solo immaginato. Non c'era più nessuno lì.

“Vanessa...” mugolò, ma quando tentò di rialzarsi un dolore lancinante gli massacrò la parte posteriore del capo, dove era stato colpito. “Vanessa...” ripeté, rialzandosi in piedi nonostante il suo corpo gli intimasse di non farlo.

Barcollò per un po' con la vista annebbiata e si aggirò per la cantina come uno spirito abbandonato. Si guardò intorno, sempre più agitato. Non c'era traccia di lei. Sul tavolo, una macchia di sangue gli ricordò quali nefandezze fossero state compiute su quel corpo che lui aveva amato con tanto rispetto soltanto pochi giorni prima.

Si ricordò del suo sibilo... “Bastardo”, gli aveva detto. Pensava che fosse stato lui a portarli lì. Si rese conto che non le aveva fatto conoscere il lato migliore del suo carattere, effettivamente, che avrebbe potuto fare di meglio, che avrebbe potuto amarla teneramente, nonostante gli schiaffi, le parole dure e la sua diffidenza.

Non si era mai sentito tanto in colpa e pianse rannicchiato in un angolo. Si pentì di ogni parola che le aveva detto ad eccezione delle ultime due.

Doveva proteggerla, invece aveva cercato di conquistarla; era lo stesso gioco perverso che l'arroganza superba dell'Unione Sovietica stava facendo con un'Austria inconsapevole ed emotivamente distrutta.

Avrebbe dovuto liberarla di tutti i fardelli che si portava dietro, ma era stato troppo ossessivo ed impaziente, e l'aveva persa per sempre. Tirò fuori il crocefisso dalla tasca e se lo strinse tra le mani.

Il pianto di dolore si trasformò in urla di rabbia. Non era stata soltanto colpa sua. Non era stato lui a violentarla, forse ad ucciderla. Non era stato lui ad uccidere sua madre e sua sorella.

Strinse quella collana così forte che gli spigoli gli ferirono il palmo della mano. Non aveva più lacrime, soltanto odio. Si rimise il crocefisso in tasca, riprese il suo fucile ed uscì.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Vanessa non aveva bagagli, né soldi, né il suo violino con sé, ma in compenso si portava sulle spalle un enorme fardello.

Era sudicia, ferita, stanca ed emotivamente distrutta. Ma aveva ancora una ragione di vivere: la sua vita appesa alle corde dello strumento che tanto amava e che le avevano strappato brutalmente.

Non le importava, non le importava di essere stata stuprata da quattro uomini, di aver dormito per strada per due notti, nel terrore, di aver rovistato nella spazzatura e mangiato cose che l'avevano fatta stare peggio di prima. Soprattutto non le importava di quel porco soldato russo che l'aveva tradita. Non lo voleva rivedere mai più, nonostante stesse tormentando i suoi sogni.

Le sue ultime parole... Nessuno le aveva mai detto di amarla. Per un folle istante pregò che Roman stesse bene, nonostante tutto quello che le aveva fatto subire.

No.

L'unica cosa per cui doveva pregare in quel momento era che tutti i binari della tratta fossero ancora connessi, che suo padre fosse ad aspettarla a Berna e che il suo treno non venisse bombardato, anche se sapeva che era improbabile che tutte queste eventualità andassero per il meglio, e che probabilmente sarebbe stato un lunghissimo viaggio. Ma era sicura che la parte di viaggio che avrebbe dovuto fare da sola sarebbe stata relativamente breve. Una volta con lui, avrebbe potuto sentirsi al sicuro di nuovo.

Le aveva promesso che sarebbero tornati ad essere una famiglia.

Un peso che invece non aveva certo sulla coscienza era la vita di quei sei bastardi. Ce n'era voluto di tempo e ne aveva corsi di rischi, ma alla fine li aveva uccisi tutti senza che nessuno sospettasse di lei. Sua madre e sua sorella erano state vendicate.

Ne restavano altri quattro in circolazione, quei quattro che ne avevano approfittato di lei, i compagni del porco russo. Per grazia divina l'avevano lasciata sanguinante e sofferente su quel tavolo. Le avevano portato via il violino, strimpellandolo in malo modo, e lei si era sentita doppiamente violentata. Ma doveva andarsene di lì, non voleva parlare con lui.

Preferiva dormire per strada, piuttosto che condividere il suo letto con un porco.

In stazione dovette passare i controlli dei sovietici appostati lì, ma aveva così poco con lei che rimasero allibiti nel vederle in mano un biglietto ferroviario per una destinazione tanto ambita. La lasciarono passare senza sfiorarla.

Trovò il suo treno già ad aspettarla e, per la prima volta dopo giorni, un sorriso soddisfatto le comparve in viso in maniera spontanea. Non era mai stata su un treno e nonostante la stazione fosse mezza distrutta, piena di vagoni squartati e buchi nel soffitto, il suo treno se ne stava lì, maestoso, fumante, bellissimo.

Gli si avvicinò come una bambina attirata dal carretto dello zucchero filato. Lo guardava incantata, piena di meraviglia, e quando mise un piede sul primo gradino, per un attimo le parve di essere tornata a quando era piccola e non c'era ancora la guerra, e suo padre la portava ogni tanto a sentire i concerti di nascosto fuori dal teatro e ballavano e ridevano come dei matti, e se qualcuno li beccava poi correvano via... Poi erano arrivati i nazisti. E gli americani avevano distrutto il Wiener Staatsoper. Quando se ne ricordò, ebbe un tuffo al cuore e in quell'istante le sembrò in quel momento di sentire un violino suonare. Sapeva che era soltanto una magica illusione della sua memoria, ma si voltò comunque.

Lo vide camminare verso di lei con l'amore nello sguardo. Vanessa impallidì.

Roman si fermò ad un metro da lei. Era sporchissimo, ancora più di lei, e Vanessa si rese conto soltanto avvicinandoglisi che era coperto di sangue dalla testa ai piedi. Teneva in mano il suo violino, anch'esso screziato di rosso ma intatto, e dal manico pendeva qualcosa che non seppe riconoscere. Ma non era il violino a cui Vanessa guardava con apprensione.

Gli corse incontro preoccupata ed iniziò a carezzargli i capelli, il viso, il collo, mentre il suo sguardo lo ispezionava alla ricerca di ferite. Lui era impassibile e la fissava severo, addolorato, stanco, innamorato. Quando Vanessa se ne rese conto, si ritrasse rapidamente.

Non aveva dimenticato ciò che lui le aveva fatto. Si riprese l'archetto ed il violino e se lo rigirò tra le mani, soffermandosi su quello strano gioiello appeso al manico.

Lui le allungò anche la sua sacca e lei la prese con un po' di diffidenza. Tuttavia la aprì avidamente e ne ispezionò il contenuto. C'era la sua pistola, che i soldati le avevano portato via, del cibo, alcuni soldi e quattro documenti.

Li scorse rapidamente, osservando le foto, ed improvvisamente le fu chiaro di chi fosse il sangue di cui Roman era ricoperto. Sussultò, poi prese a respirare spasmodicamente, cercando aria in quella stazione che era diventata d'un tratto una gabbia opprimente. Il treno tanto attraente, una tortura che li avrebbe allontanati.

Gli si gettò tra le braccia, lo baciò, pianse, rise, lo amò e glielo disse.

“Scrivimi.” gli disse, glielo ordinò. “Al Conservatorio di Madrid.”

Lui annuì con le lacrime agli occhi. La vide salire sul treno, rimase a guardarla dietro il finestrino, mentre lei gli sorrideva con quella sua aria maliziosa e innocente. Si portò il violino sotto al mento ed iniziò a suonare.

Per lui.

Roman non lo sapeva, ma quella era la Foscarina di Marini, una sonata del XVII secolo. Gli sembrò fantastica, perché era tutta sua.

E quando il treno partì e la musica sfumò in lontananza assieme a Vanessa, il soldato improvvisamente si ricordò.

 

 

 

Passarono i giorni, i mesi, gli anni. Passavano veloci, inconsistenti, inutili. Athos non riusciva a darsi pace. Non poteva accettare che lei fosse sparita in quel modo, senza lasciarsi dietro nient'altro se non un misero guanto. Quel pezzo di stoffa lo aveva praticamente consumato a furia di cercare il suo odore, ormai impercettibile. Alla fine lo aveva gettato in un angolo dell'ufficio dal quale si teneva ben alla larga, anche se di tanto in tanto gli sembrava che lo richiamasse a sé, un costante promemoria del fatto che aveva fallito.

Erano passati ormai quattro anni, e i capelli di Athos avevano iniziato a striarsi di grigio, benedicendolo con un nuovo fascino e maggiore saggezza. Nonostante la sua vita gli apparisse come uno scorrere di immagini offuscate, un filtro gli selezionava automaticamente quelle che riguardavano lei, e ricordava alla perfezione il più profumo, la sua voce, la sua pelle, le parole di Liz... Quelle parole non lo lasciavano mai in pace.

“Continuo a sperare che sia viva da qualche parte e che un giorno venga a riprendermi...” forse erano le parole che Milady stessa le aveva ripetuto quando parlava di lui. Lo aveva aspettato per tutto quel tempo. Poteva vedere la sua mano scoperta torcere quella agguantata in gesti impazienti ogni volta che un cliente entrava dalla porta del bordello, e i suoi occhi che guizzavano all'uscio speranzosi, illusi. Così lui faceva sempre scorrere lo sguardo rapido su ogni lettera che riceveva, sperando di leggerci il suo nome o il nome di Liz che gli portava notizie. Ma niente.

Porthos interruppe il suo ordinario rivangare, entrando nell'ufficio con delle carte in mano. Aveva la pietà dipinta in faccia.

“Cosa?” domandò Athos, alzandosi in piedi, dietro alla scrivania.

“Mi dispiace, io...” mormorò il moschettiere, immobile.

Athos lo squadrò interrogativo. Per quanto fosse più alto del Capitano, in quel momento poteva essere benissimo paragonato ad una formica da tanto si faceva piccolo stringendosi nelle spalle.

“Cosa?” insistette Athos, di poche parole come sempre, alzando leggermente la voce.

Porthos gli tese la lettera. Athos la afferrò e la lesse velocemente; la sua espressione mutava tra le righe scritte a mano in una calligrafia precisa e ordinata.

“Credevo che ti avrebbe di nuovo ridotto... Pensavo che non...” cercò di giustificarsi Porthos, dilaniato dal rimorso.

Athos lo guardò attonito, poi gli rifilò un pugno in pieno viso così forte che fece barcollare l'amico che finì contro al muro, senza replicare. Non ne ebbe nemmeno il tempo: Athos si era già fiondato fuori dall'ufficio.

Era viva. Milady era ancora viva.

Avrebbe trovato il tempo di perdonare Porthos, ma prima doveva trovare lei: sellò il suo cavallo e vi saltò in groppa così velocemente che quando Porthos si affacciò dalla porta dell'ufficio dopo qualche esitazione, l'amico era già sparito per le vie di Parigi.

Non avrebbe cavalcato così velocemente nemmeno se avesse avuto degli uomini armati al suo inseguimento. Raggiunse il villaggio in meno di un'ora, smontò da cavallo e si fiondò alla porta di una graziosa casa bianca.

“Anne!” esclamò, entrando senza nemmeno bussare.

Inizialmente credette di star guardando un angelo, una splendida visione creata dalla sua mente, ma quando i suoi occhi corsero verso l'uscio e si fermarono su di lui, ebbe la conferma che era tutto reale. La reazione sul suo volto fu semplicemente umana, tanto che pensò di essere tornato indietro nel tempo, a quando si erano appena conosciuti.

Gli sorrise, ma i suoi occhi piangevano. Lui le si avvicinò a passo spedito e la prese tra le braccia, la baciò per minuti lunghissimi, senza capire quanto tempo stesse passando. Non gli importava, sarebbe morto così, non gli interessava di nient'altro se non di lei.

“Anne...” sospirò ansante, appoggiando la propria fronte contro la sua e stringendola così forte da farle male. Ma lei non replicava, lo guardava soltanto negli occhi, il viso madido di lacrime.

Rimasero così per parecchio tempo, fronte contro fronte; lui le cingeva la vita nell'abbraccio più passionale, lei stringeva la sua camicia tra le mani per paura che gli scappasse di nuovo.

“Credevo di averti persa per sempre.” confessò Athos, schioccando poi un paio di baci sulle sue labbra carnose, incapace di resistere al contatto.

“Ti ho cercato. Mi hanno detto che te n'eri andato.” ricordò lei con dolore.

“Ero venuto a cercare te. Mi hanno detto che eri morta.” ribatté lui, prendendole le mani tra le sue, senza mai distoglierle gli occhi di dosso, come se temesse che se si fosse distratto per un secondo lei sarebbe svanita in una nuvola di fumo.

“Mi hanno detto che ti eri dimenticato di me.” lo guardò in maniera inquisitrice, per studiare la sua reazione.

“Mai.” rispose lui, fermo. Tirò fuori dalla tasca il guanto, una volta candido, ora logoro e sporco e lo mostrò a lei come un trofeo. Milady sorrise e lo baciò di nuovo, facendoselo scivolare nella propria mano e riappropriandosene dopo tutto quel tempo.

“Mi hai fatto morire di paura. Pensavo fossi malata sul serio.” così c'era scritto nella lettera, ma avrebbe dovuto sospettare che si trattava soltanto del suo ennesimo inganno. Non aveva mai smesso di essere Milady.

“Sapevo che la lettera poteva finire nelle mani di altri. Avevo più possibilità di arrivare a te, in questo modo.” si giustificò lei, come se stesse parlando di ordinaria amministrazione. “Mi dispiace.” aggiunse poi, sotto lo stupore dello sguardo del Capitano. Notandolo, gli mostrò la sua occhiata più sprezzante, pur continuando a sorridere, come a volergli mostrare di non essere cambiata in tutto quel tempo.

Athos chiuse gli occhi e si dondolò come un ragazzino alla sua prima cotta, inebriato dal suo profumo, stordito dalla perfezione del momento.

“Ti amo, Anne.” si lasciò sfuggire dalle labbra. Lei non rispose, proprio come lui si aspettava. “Non ho mai smesso di amarti.” stentava a riconoscersi. Tutto il suo orgoglio era stato annullato da uno sguardo di quella donna, l'unica donna.

“Devi andare, ora.” gli mormorò, un po' fredda, un po' ancora intorpidita dalla passione che l'aveva travolta. Lui riaprì gli occhi e le lanciò uno sguardo gelido, confuso.

“Devo ancora sistemare un paio di cose. Non puoi stare qui. Ti verrò a cercare presto.” sembrava sincera, mentre pronunciava quelle parole guardandolo negli occhi.

“Qualsiasi cosa sia, posso aiut--” si auto-censurò, fulminato da un suo sguardo mezzo ironico mezzo autoritario.

“Ti verrò a cercare. Lo prometto.” ribadì, restituendogli le sue mani, appoggiandogliele sul cuore. “Non smettere di amarmi.” aggiunse poi, donandogli un ultimo sorriso.

Se prima Athos nutriva dubbi sulla veridicità delle sue affermazioni, dopo quella frase si era convinto del tutto.

Ricambiò il sorriso, le baciò le mani che ancora stringeva tra le sue, posate sul proprio cuore, ed uscì dalla casetta bianca.

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Raquel si massaggiava sempre il dorso della mano quando era nervosa, e in quel momento era molto nervosa. Sedeva su quel sedile anonimo, in quel corridoio anonimo, in quell'edificio anonimo e guardava dritta davanti a sé; i grandi occhi chiari sgranati, i capelli biondo rame spettinati per via dello scomodo viaggio su quell'aereo low-cost che l'aveva portata dritta a Vienna soltanto poche ore prima. Quell'intenso odore di disinfettante non l'aiutava di certo a superare le sue ansie.

Anche dopo tutti quegli anni, dopo aver affrontato di tutto nella vita, dal matrimonio all'aver partorito due splendide figlie, ancora il ricordo di quella donna la riempiva di terrore ed ammirazione allo stesso tempo.

Eppure sapeva bene che doveva essere decisamente diversa da come la ricordava lei, bella e fiera, superba, austera, arrogante, severa. Ma lo stesso, il pensiero di rincontrarla le faceva tremare le ossa e stringere lo stomaco.

“Signora Rivera?” una giovane donna era comparsa sulla porta accanto a lei, che sobbalzò sul sedile. La signora Weber è pronta a riceverla.” annunciò la ragazza con voce smielata, sorridente.

“S-Sì, un attimo soltanto.” balbettò in un tedesco arrancato, facendo perlopiù gesti con le mani.

Non era pronta. Non era assolutamente pronta. Pensò addirittura di tornarsene a casa, ma non poteva assolutamente farlo, non ora che lei sapeva che era lì.

Sospirò profondamente. Pensò a quante cose aveva da dirle, dopo vent'anni che non si vedevano, ma pensò anche a quante cose non poteva dirle.

Si alzò in piedi determinata: doveva farlo subito, o non ce l'avrebbe fatta mai più. Sorrise nervosamente all'infermiera ed entrò nella stanza dell'ospizio.

Era tutto bianco lì dentro e pensò che quello era un colore che non avrebbe mai associato a lei. Poi la vide e non seppe riconoscerla. Era davvero piccola in quel letto grande, bianco anch'esso, come la sua vestaglia e come i suoi capelli. Forse si sentiva già in paradiso in quel modo, o forse al paradiso non ci credeva nemmeno.

La prima emozione con cui si scontrò fu la commozione. E sorrise anche se le bruciavano gli occhi, forse per la luce del sole che rifletteva sul bianco – troppo bianco – o forse per la paura, anche se quella donna trasmetteva tutto meno che paura.

“Signora Weber. E' arrivata Raquel, se la ricorda?” la bionda infermiera le parlò gentilmente, accostandosi al suo letto. La vecchietta sorrise, facendo vibrare il tubo del respiratore che le passava sotto il naso.

Raquel istintivamente raddrizzò la propria postura, come se temesse di poter essere rimproverata, ed avanzò piccoli passi verso il letto.

“La vede?” l'infermiera le indicò la donna che ora si stava accostando al suo letto. L'anziana guardava Raquel avvicinarsi e sorrideva sdentata; non erano sicure che capisse. “E' la sua allieva, si ricorda? Quella di Madrid, di cui parlava sempre...” continuò l'infermiera, “Le abbiamo scritto la lettera il mese scorso, ricorda?” continuava a sollecitarla dolcemente, finché poi la donna non annuì. Si rivolse allora a Raquel. “Vi lascio sole.” sorrise, con uno sguardo complice, ed uscì dalla stanza.

Raquel fu indecisa per lunghi secondi su dove posizionarsi. Sembrava temere sempre di sbagliare, ma alla fine optò per trascinare una sedia accanto al letto ed accomodarsi lì, avendo cura di sistemare per bene la gonna.

“Raquel...” rantolò la donna, allungando una mano verso di lei e sorprendendola, come sempre. Più di novant'anni e ancora riusciva a stupirla.

“Signora Weber.” sorrise Raquel composta, prendendo la mano rugosa tra le sue e sorridendo rassicurante. “E' così bello rivederla.” mentì. Non aveva ancora capito se lo avesse fatto per dovere o per affetto. “Non ho fiori con me, mi dispiace. Il mio volo...” cercò subito di giustificarsi. In realtà era solo una scusa per ritrarre le mani: si sentiva a disagio nel toccarla. E sentì anche il bisogno di strofinarsi di nuovo il dorso della mano con le dita.

La donna rise e la risata sfociò in un attacco di tosse, che però si calmò subito. “Te lo ricordi ancora, eh?” la schernì, facendo cenno alle sue mani. Raquel immediatamente le divise, irrigidendosi. “Tutte le volte che ti ho colpita con l'archetto... Ti sono servite alla fine.” sentenziò con voce tremante. Raquel arrossì di vergogna.

“Mi ricordo, signora Weber.” ammise, desiderando di sprofondare.

“Vanessa.” disse lei. “Sono Vanessa, ora. Non sono più la tua insegnante.” e tossì di nuovo.

Raquel la guardò stupefatta. Da quel che ricordava, non aveva mai saputo il suo nome.

“Sei sposata, Raquel?” domandò all'improvviso, facendola di nuovo arrossire.

Annuì in silenzio.

“E hai figli?”

“Due.”

Le fece cenno con la mano di avvicinarsi.

“Fammeli vedere, su.” la esortò, interessata. “Come si chiamano?”

Raquel si sciolse un po'. Sorrise ed estrasse il cellulare dalla borsetta; iniziò a far scorrere una serie di foto davanti agli occhi di Vanessa, spiegando: “Mio marito Victor. Questa è mia figlia Celia, la più grande. Ha già diciassette anni. E questa... E' Iris, quest'anno ne compierà quindici.”

Lo sguardo di Vanessa si fece serio, poi sorrise di nuovo in quel modo che Raquel ben ricordava, come se fosse sempre un passo avanti a chiunque altro e le piacesse vantarsene.

“Iris...” ripeté pensierosa, come se avesse in mente grandi piani per sua figlia. Quasi si aspettava che le dicesse di portarla da lei all'istante per poterle insegnare a suonare qualcosa.

“Sai perché ti ho scritto, Raquel?” le chiese, inaspettatamente.

La donna scosse il capo. Immaginava che volesse dare un ultimo saluto a qualcuno; nella lettera scritta dall'infermiera sotto dettatura, la giovane aveva aggiunto di suo pugno qualche riga che le spiegava la sua situazione. Non avrebbe visto l'inverno, probabilmente.

“Sai perché ero così dura con te, al Conservatorio?”

Raquel scosse di nuovo la testa. Allora sapeva di essere stata particolarmente severa con lei. In un'altra occasione sarebbe scattata in piedi urlando “allora lo ammetti...!!”, ma quello non era proprio il caso.

“Ero infelice, Raquel. E lo sono tuttora.” le disse, con gli occhi lucidi. “Quando avevo poco più di vent'anni conobbi un uomo. Un soldato.” Raquel drizzò le orecchie. Le stava davvero aprendo il cuore in quella maniera? A lei, che era poco più di una sconosciuta? “Roman...” disse in un sussurro.

“Era un tedesco?” domandò ingenuamente Raquel.

“No. Era russo. Lo lasciai a Vienna nel 1945 ed andai a studiare a Madrid. Mi promise che mi avrebbe scritto, ma non lo fece mai.” confessò, con gli occhi persi nel vuoto. “L'unico indirizzo che aveva per contattarmi era quello del Conservatorio. Per questo restai lì, per tutti quegli anni... Aspettando una sua lettera...” aggiunse, laconica.

Raquel fu mossa di nuovo dalla pietà, e nel silenzio che seguì le riprese la mano. Non vedeva più la sua severa insegnante di violino, ma solo una donna che a distanza di sessantacinque anni ancora rimpiangeva l'amore perduto.

“Avrei potuto cercarlo. Avrei potuto informarmi. Ma non lo feci mai.” deglutì a fatica. “Ero troppo orgogliosa e troppo spaventata. Ho vissuto tutta la vita nel ricordi di un'altra vita, quella...” e lasciò la frase a metà.

“Quanto tempo siete stati assieme?” osò domandare Raquel, incuriosita ed intrigata da quella storia, che mai avrebbe potuto immaginare. Sapeva che Vanessa non era mai stata sposata e tante volte con le sue compagne di corso avevano scherzato alle sue spalle chiamandola “vecchia frigida” o “frustrata” ed ora tutti quegli insulti le sferzavano dolorosi colpi di archetto sulla coscienza.

“Una vita e pochi giorni.” rispose Vanessa, sorridendole. Raquel pensò che fosse una risposta da pazzi, ma la giustificò pensando che era già tanto se alla sua età riuscisse a sostenere una conversazione così impegnata senza confondersi date e nomi. Le sorrise di rimando.

“Sono sicura che vi rincontrerete.” disse sicura Raquel, che fermamente credeva nella vita dopo la morte. Vanessa sorrise malinconica.

“Anche io.” sussurrò, poi cambiò espressione. “Ascoltami attentamente, ora. Apri quel cassetto.” le disse poi, facendo cenno al comodino accanto al letto. Raquel obbedì senza rimostranze: conosceva bene quel tono di voce che non ammetteva obbiezioni. “Prendi quella collana.” e Raquel estrasse una lunga catena argentata con appeso un vistoso crocefisso d'epoca. “Dalla a tua figlia minore, Iris. Le appartiene.”

Raquel sapeva che qualsiasi lamentela sarebbe stata soffocata, ma c'erano davvero troppe domande che avrebbe voluto porle. Si stava comportando in maniera insensata. Anche se non aveva nessuno a cui dare in eredità quel gioiello, perché proprio Iris? Non l'aveva nemmeno mai incontrata. Ma quando aprì bocca, lei era pronta con un argomento molto più interessante, che la fece subito distrarre.

“Sei sempre stata la migliore del corso, Raquel. Ed anche l'unica che sarebbe potuta volare da Madrid fino a qui su mia richiesta.” Raquel arrossì e si gonfiò di orgoglio. Un complimento arrivato con vent'anni di ritardo, certo, ma pur sempre il migliore che avesse mai ricevuto, e dalla persona più competente che conosceva.

“Se sono stata severa con te, è stato soltanto perché volevo sentire la Foscarina un'ultima volta, quando sarebbe arrivato il momento.” confessò commossa. “E tu sei l'unica che può eseguirla alla perfezione.”

Raquel si sciolse nell'autocompiacimento, pur esitando ancora un po'. “Non prendo in mano il violino da...”

“Non importa. Te la ricordi.” tagliò corto Vanessa. “Sotto il letto...” E Raquel vide sbucare il manico del violino di Vanessa, sempre lo stesso. Se lo ricordava molto bene, era graffiato e vissuto ed un po' glielo invidiava, rispetto al suo che era nuovo e lucido, perché aveva una storia dietro.

Se lo appoggiò sulla spalla in un movimento abituale. Ci mise alcuni secondi a trovare la posizione, poi incominciò a suonare, e Vanessa si perse tra le note.

Chiuse gli occhi e tornò a rivivere la sua vita e mezza con lui. Roman. Athos. E poi ancora prima, a quando erano soltanto due anime che si amavano, si odiavano, si lasciavano, si riprendevano, si dividevano, si rincorrevano. E poi sorrise pensando al futuro, a quante vite ancora avevano davanti, quante possibilità di rincontrarsi, di amarsi di nuovo.

Appoggiò una mano sul ginocchio di Raquel, estasiata dalla precisione con la quale le note danzavano sulle corde del violino, e su quelle del suo cuore.

 

 

 

“Milady!” esclamò Liz, accorrendo.

Si sarebbe accasciata sul pavimento come un sacco vuoto non appena Athos aveva richiuso la porta, se la giovane non l'avesse sorretta prontamente.

Cercò di tenerla in piedi, ma il suo peso la costrinse ad inginocchiarsi a terra per accompagnarla nella caduta, adagiandole delicatamente la schiena e reggendole la testa con il braccio. “Ve l'avevo detto che non avreste retto...”

Milady sorrise debolmente, tentando di tenere gli occhi aperti. Le gocce di sudore che le cadevano dalla fronte, rivelavano un pesante ma credibile trucco volto a mascherare il pallore del suo volto. Liz le accarezzò una guancia teneramente, guardandola preoccupata. “Perché non glielo avete detto?” domandò poi con un fil di voce, trattenendo le lacrime.

Milady sollevò una mano debolmente e ricambiò la tenera carezza, sorridendole nel modo che solo lei sapeva fare: in quella maniera che faceva sentire la rossa ingenua e sempre un passo indietro rispetto alla sua mentore.

“Ti auguro di innamorarti, un giorno.” le disse con voce roca. Si mise una mano sul fianco e fece una smorfia di dolore, contorcendosi un po'. Diede qualche colpo di tosse. Liz scosse la sua lunga chioma rossa: sul suo viso non c'era più nemmeno il fantasma dell'espressione che Athos le aveva attribuito quando l'aveva incontrata a Londra. Sembrava soltanto una ragazzina spaventata.

“Lui vi sarebbe stato accanto.” insistette, impossibile per lei accettare una cosa simile.

“Avrebbe sofferto molto di più.” tagliò corto Milady, stanca, cercando poi di alzarsi con l'aiuto della ragazza. Si premette una mano sul fianco, strizzando gli occhi e sibilando tra i denti stretti, poi prese la mano di Liz e la guardò impietosita. Sempre un passo avanti.

“Facciamolo ora.” disse annuendo.

La ragazza scosse il capo, agitata. “N-No... Non posso, è troppo... Troppo presto...” balbettò, non riuscendo a trattenere il magone. Iniziò a lacrimare copiosamente. Milady le posò nuovamente la mano sulla guancia, cullandola.

“Avevi promesso che non avresti pianto per me.” le ricordò dolce ma severa. “Comportati come una vera donna. Fallo per me.” deglutì e le sorrise debolmente, poi fece un passo indietro.

Tra lacrime e singhiozzi, Liz andò nella stanza adiacente. Tornò impugnando una pistola. Con la vista annebbiata ed il naso gocciolante, la caricò. “Milady...” squittiva ogni tanto, senza ricevere risposta.

Lei era lì, in mezzo alla stanza, immobile e bellissima, con una forza ferma e gli occhi chiusi. Soltanto quando Liz sollevò il braccio tremante, il suo respiro si fece un po' più affannoso, ma il suo sguardo restava determinato, fisso verso la morte.

“Digli che lo andrò a cercare.” disse, alzando la voce per sovrastare i singhiozzi spasmodici della ragazza. “Digli... che lo amerò per sempre.” attese ancora qualche secondo, poi le fece un cenno con la testa.

Un colpo risuonò nella casetta bianca, seguito da un urlo di frustrazione.

La mano di Milady aperta sul pavimento rivelava il guanto che aveva stretto a sé fino all'ultimo. Liz si fiondò sul suo cadavere; i suoi vestiti si impregnarono di sangue, colorandosi della stessa tinta dei suoi capelli.

Negli occhi spalancati di Milady leggeva un'ironica voglia di vivere che sembrava prenderla in giro, in un ultimo scherno, dimostrandole ancora una volta di essere sempre un passo avanti rispetto al mondo.  

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