Memorie di una dannata

di Made of Snow and Dreams
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Abbandono. ***
Capitolo 2: *** Il centro del suo mondo ***
Capitolo 3: *** Amaro ***



Capitolo 1
*** Abbandono. ***


Memorie di una dannata
 
 
 
 
 
Odi et amo.
Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
(Catullo, LXXXV)
 
 
 


Non aveva mai conosciuto sua madre. O forse, non ne aveva avuto il tempo.
Aveva abbandonato la loro casa esattamente tre mesi dopo il suo terzo compleanno. Non ricordava molto di quel giorno, lei che passava la maggior parte del suo tempo in giardino, nascosta tra i mille girasoli e le mille erbette di campo, trovando rifugio solo nel corrompere il suo udito, costringendolo a concentrarsi solo sul canto dei grilli, o sugli uggiolii del loro cane.

La minuscola lacrima che scendeva ogni giorno sulla sua guancia, lenta e bruciante, era solo l’effetto di tutti i loro litigi, della loro ostinazione nell’affidare alle ombre i loro segreti, le loro avventure, i loro tradimenti, le loro menzogne; entrambi avevano colpe se, ora, il loro matrimonio si ergeva sull’altare spoglio, polveroso, dimenticato da tutti.

Da tutti, meno che da lei. Lei, che sfiorava con assoluta devozione il tessuto ancora candido, puro, fissandolo intensamente con occhi lucidi e rassegnati, e speranzosi. Pregava la sua sacra reliquia affinché riportasse le cose alla normalità di un tempo.
Ma poi la porta si spalancava con un brusco impeto, e la figura imperiosa di suo padre appariva per salvarla da tutte le sue riflessioni e le sue silenziose preghiere, attraversando con veloci falcate l’erba illuminata dalla rugiada e prendendo sua figlia in braccio, strappandola a quel triste incantesimo.
Era il loro rituale, abbandonarsi al buio e ritrovarsi, con le lacrime asciugate, illuminati dalla luce.
Era solo in quel momento che la bambina poteva amare ed ammirare suo padre, vantandosi del loro sangue condiviso, della loro stessa carne, dei loro stessi corpi. D’altronde, era sempre fonte di piacere il poter sfiorare, in una carezza lieve e delicata, quelle ciocche ramate con la punta delle dita, il poter disegnare i suoi tratti somatici per confrontarli con i propri, e confermare con un sorriso che erano gli stessi. Anche lui sorrideva quando la vedeva felice, ed era questa la ragione per cui Louiselle sorrideva sempre.
 

Aveva abbandonato la loro casa esattamente tre mesi dopo il compleanno della bambina, la madre di Louiselle.

Ricordava vagamente, spesso preda del tenue e malinconico bagliore di una candela accesa distrattamente, l’affetto che aveva elargito a quella donna, ricambiato come solo una madre amorevole può fare: i giochetti di parole, le filastrocche, le ninna nanne; il tempo impiegato a narrare storie su draghi distruttivi e su inarrestabili cavalieri e principesse da salvare; le energie spese per deporla delicatamente sul letto per farla ridere, solleticandole il ventre gracile o il collo esile, ridendo delle sue lacrime felici, o delle sue risate; il tempo impiegato a prepararle il biberon, o le pastine in brodo per non farle sentire un dolore aggiuntivo, nel periodo in cui i denti iniziano a spingere da dentro le gengive per imparare ad adempiere il loro compito; il tempo dedicato a camminare insieme a lei, tenendole saldamente le manine durante i primi passi; il tempo per farla crescere sana e forte, e felice.
Sì, in tutto quel periodo di tempo era stata felice. Aveva l’affetto di una madre e l’affetto di un padre, e nessuna nuvola a offuscare l’orizzonte sereno.

La minuscola lacrima che scendeva ogni giorno, lenta e bruciante, sulla sua guancia, era tutta colpa sua.
Lei, che passava il tempo a struggersi piangendo, torturandosi il cuoio capelluto con le unghie, scompigliandosi i capelli castani, rivolgendo occhiate rabbiose a suo papà, a suo marito.
Lei, che gettava i piatti sul pavimento, lasciando che le sue urla intrise di odio e delusione risuonassero tra le pareti del lungo corridoio, rimbalzassero sugli stipiti delle porte e le ringhiere dei balconi, che rimanessero incantate in ogni singola stanza, che impregnassero le camere di tutta la disperazione, che ristagnassero negli anfratti più bui, come per costringere tutti a ricordare. Per lasciare una traccia di se stessa con la forza, per vendetta. Una maledizione.
Che balzassero fuori e la raggiungessero, sussurrandole prepotentemente nelle orecchie che era appena stata tradita, che suo papà era solo un infame, un bastardo, un verme. Che era tutta colpa sua se ora il loro legame era spezzato. Che non poteva continuare a vivere sotto lo stesso tetto con un traditore, che non poteva essere più toccata da quelle mani e da quelle labbra maschili, da quel corpo sudicio.
Scoperta la vergogna, suo padre era solo da odiare e sua madre da compatire, da consolare.
Ma con quale forza poteva dimostrare d’essere una brava figlia, se dopo ogni litigio era sempre e solo suo padre che giungeva a consolarla, sfiorandole i capelli ramati, prendendola in braccio per stringerla forte, mormorandole con gli occhi e il solo respiro tra quegli stessi capelli – così simili, e così uguali - mute parole di scusa.

Lui le asciugava le lacrime, lui le trasmetteva fiducia nel momento più drammatico della sua infanzia. Lui le prometteva che, qualsiasi cosa fosse accaduta, non l’avrebbe mai abbandonata.
Lui, sempre e solo lui.
Le sue grandi mani gentili, a rivestirla del pigiama bianco e a pettinarle i capelli, al posto di lei.
Le sue labbra carnose e morbide, piacevoli da sentire sulla fronte, dopo averle vedute schiudersi per assicurarle la sua protezione invisibile anche dalle ombre notturne.
Lui, sempre presente a cullarla per farle interrompere il pianto, sollevandola in aria per farla volteggiare in ampi cerchi, con le sue mani – così grandi, e così gentili - a stringerle la vita per non farla cadere, mentre lei rideva del vento tra le dita, e dell’adrenalina tra gli occhi.
La sua impalcatura. L’unico che la rendesse serena.
Quando erano da soli, padre e figlia, le urla di rabbia e quel pianto isterico cessavano di rimbombare nella sua mente.
Rideva anche lui, se era con lei. Dimenticandosi di quella donna, madre e moglie allo stesso tempo, china sul suo letto, senza difese nel cercare di metabolizzare il tradimento subito per una sgualdrina come tante.
 

Ricordava vagamente quel giorno, la piccola Louiselle.

La porta che sbatteva, quei passi affrettati per casa, e poi lungo la stradina sterrata; il corpo fasciato dal lungo soprabito, i capelli raccolti da uno chignon alto, la valigia in mano.
Non una parola, non un suono. Non un saluto, una promessa d’arrivederci, niente.
Gli uccellini avevano anche smesso di cantare, quel giorno. Il tempo si era bloccato in un secondo. Lo sguardo freddo di sua madre, troppo ferita per potersi girare e rivolgere una misera occhiata al frutto di quell’amore marcito. Il cielo argentato, senza una nuvola, senza il sole, senza il vento.
Poi sua madre sparì per sempre dalla sua vita, e la bambina tornò a respirare tra le lacrime d’abbandono, guardando suo padre con occhi diversi.
 
 
 
 
 




E’ solo la storia di una delle mie Oc, Louiselle. Gli antefatti che l’hanno spinta a desiderare con troppa veemenza, e a struggersi per i muti rifiuti continui.
Niente da dire su questa… cosa, perché non voglio spoilerare nulla; solo, grazie infinite a chi ha letto… ah, i commenti sono apprezzati, se ce ne saranno! ;)
Made of Snow and Dreams.

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Capitolo 2
*** Il centro del suo mondo ***


Memorie di una dannata








Ricordava perfettamente, la piccola Louiselle.

Come se la sua vita avesse avuto inizio da quel giorno, era come essere divenuti dei teneri passerotti che si affacciano alle finestre del mondo per la loro prima volta, sbattendo le ali e cinguettando debolmente, solo per disperdere le loro urla di speranza e di vittoria nei cieli nuvolosi e sereni.
Così aveva fatto lei, tornado a respirare dopo mesi di gelida apnea, schiacciata da quella costante paura che il suo mondo di gioie si disperdesse tra le sue dita spaventate, come sabbia al vento. Aveva boccheggiato i primi giorni, per accettare quella perdita, quella donna così presente nella sua esistenza; aveva rivolto gli occhi intimoriti verso l’ultimo protagonista di quella disfatta, sperando che capisse il suo dramma. E lui, regalandole un altro, sorridente incoraggiamento, le aveva sfiorato il palmo della mano per rassicurarla, donandole le certezze perdute.
Non era troppo tardi per ricominciare a vivere. Non era troppo tardi per dimenticare l’accaduto, e ripartire da zero.
E poi lo aveva raggiunto, avanzando dubbiosamente sulle gambette ancora instabili. Si era fermata di fronte alla sua impalcatura, allungando le braccia verso l’alto per farsi prendere in braccio e rifugiarsi dentro la casa, per allacciargli le mani dietro la nuca e guardare davanti a sé, non osando voltarsi verso il giardinetto e verso il passato, verso gli uccellini che avevano smesso di cinguettare.
Ma quelle mura non erano ospitali neanche con loro, con le urla ancora ristagnanti come acqua putrida, urla che sussurravano alla bambina di fuggire da lui, perché lui le avrebbe solo fatto del male. L’avrebbe abbandonata, l’avrebbe umiliata, l’avrebbe tradita, l’avrebbe dimenticata. Le avrebbe fatto rivivere lo stesso dolore di quel giorno per ogni singolo secondo scandito dalle lancette dell’orologio a cucù, inquinando la purezza di quella casa con donne di malaffare.
Avrebbe posizionato l’importanza di una donna qualsiasi su quella della figlia, scavalcandone i sentimenti e la rabbia come se non avessero nessun valore.
Camminando con il braccio sepolto nella sottana di qualche ragazzina avvenente, l’avrebbe degnata di un solo sguardo indifferente, per poi tornare a incollare i propri occhi su qualche anonimo viso di porcellana, come per scusarsi di quella interruzione.
Non si sarebbe preoccupato di dove si trovasse, o di cosa facesse; il suo unico passatempo sarebbe diventato l’ascoltare con curiosità e disagio quelle danze infinite di suoni e schiocchi lascivi, così peccaminosi e lussuriosi da farla stare male, la figlia che era pura.
‘Falle smettere, dicono cose brutte. ’ aveva mormorato Louiselle contro il suo collo robusto, strizzando gli occhi con violenza, stringendosi a lui.
‘Non le ascoltare, stanno mentendo. E sai qual è il metodo migliore per farle tacere una volta per tutte? ’ aveva udito sussurrare lui di rimando, sebbene il buio di quella casa troppo grande per due persone le avesse offuscato anche la voglia di schiuderle ancora, le palpebre.
‘No, papà. Puoi dirmelo? Grida il tuo segreto, così scapperanno via da qui! ’
Ora lui rideva, fiocamente. ‘Dimostrare che siamo felici, io e la mia bambolina! Avete sentito, voi? Siamo felici, ridiamo e giochiamo, e voi non potete farci del male. Altrimenti guai a voi! ’ aveva urlato, ubbidiente, accusando ogni anfratto di quella casa dispersiva con gli occhi.
Lei aveva rialzato la testa, scrollando il capo, trionfante, rafforzando la sua risata bassa e roca con la sua, squillante e acuta, tipica dei bambini piccoli.
Quel segreto funzionò.
 
 
Ricordava perfettamente, la piccola Louiselle, quel meraviglioso rapporto di simbiosi venutosi a creare tra lei e il suo papà.

Avevano giocato, come pattuito, in ogni camera, in ogni corridoio, in ogni stanza, per seppellire definitivamente quelle urla vendicative.
Lo sapevano entrambi che era necessario, e andava fatto.
I giochetti di parole, le filastrocche, le ninna nanne, le fiabe e le favole mormorate con voce languida e impastata dal sonno crescente, quando entrambi erano distesi sul lettone dove, prima, dormiva anche la mamma con il papà. Ma lei si era frammentata, ora solo un’ombra, e Louiselle aveva preso il suo posto in quel letto, con gioia infinita.
Meglio così: si rifiutava di rannicchiarsi sotto le coperte nella sua piccola camera, preda di riflessioni troppo dolorose che la spronavano alle lacrime, calde e copiose. E poi, riflettendoci, non afferrava neanche il motivo per cui la sua mente prendesse in esame anche quell’inutile possibilità: stretta tra le spire della paura, a sudare per inzuppare il tessuto del suo pigiama, sforzandosi di tenere chiusi gli occhi per evitare di guardare con rinnovata e crescente angoscia le ombre proiettate dagli oggetti della sua camera, immaginandoli come mostri pronti a portarla via dal suo amato padre, per poi gettarla chissà dove. Magari proprio dentro lo studiolo abbandonato e polveroso della sua stessa casa, a marcire e a battere i pugni contro una porta chiusa a chiave.
No, no. Perché sognare tutte quelle cose quando poteva benissimo concedersi il lusso di rannicchiarsi sotto le coperte, stretta tra le braccia del suo papà, che intanto le narrava storia diverse, storie nuove, storie stucchevoli, storie di amicizia e di avventura, storie di felicità?
Lui, sdraiato sul fianco sinistro, con il braccio destro avvolto protettivamente attorno la schiena della bambina e con la mano del medesimo braccio a carezzarne la pelle, vezzeggiandola; il gomito sinistro a sorreggere il busto e gli occhi stanchi ma sempre sorridenti, al contrario di quelli sempre tristi e acquosi di lei, e quei capelli ramati che ricadevano sulla fronte chiara. Entrambi illuminati dalla fioca e calda e rassicurante e magica luce dell’Abat-Jour, posta sul comodino a destra del letto e accanto a Louiselle. Entrambi protetti dalle colonne del letto a baldacchino, il letto matrimoniale di mamma e papà, divenuto ora di figlia e papà.
Abbastanza grande per poter intrecciare le gambe e le braccia sotto il piumone caldo.
Abbastanza grande per poter sopportare le capriole sfrenate della bambina, restia a farsi acciuffare dall’uomo in uno dei loro giochi.
Ed era sempre bello potersi svegliare nel lettone e tra le sue braccia, magari cullata dal suono rassicurante dei suoi respiri lenti e tiepidi contro la sua fronte. E assistere al suo risveglio, sebbene fosse molto più comune che fosse lui ad alzarsi per prima, e osservare incantata le sue iridi mostrarsi alla luce del giorno e a lei, per poi illuminarsi in un sorriso appesantito dal sonno. E mormorare a stento, con la voce impastata dal sonno rimasto e obbligando la lingua a schioccare contro il palato, quei timidi ‘Buongiorno’.
E poi ridere di gusto per l’odore di bruciaticcio che avrebbe impregnato l’aria qualche minuto dopo, perché suo padre non era assolutamente bravo a cucinare e a destreggiarsi tra i fornelli, finendo per rovinare anche il latte nella pentola nel tentativo di riscaldarlo e zuccherarlo.
Quel letto era divenuto il fulcro del loro mondo: era teatro di giochi e scherzi, di notti passate a leggere le fiabe e le favole, di qualche ora passata a imbronciarsi per uno scapaccione dato con qualche grammo di forza in più del necessario.
Coperto dalle cortine pesanti e verdastre, Louiselle era sicura che sarebbe rimasto tale: il fulcro del loro mondo. Di loro due, e di nessun’altro.
 

Ma anche il giardinetto sul retro della casa era sede di momenti gioiosi; come non ricordare, ad esempio, il giorno in cui si era ritrovata a bullarsi delle sue mani inesperte e ingarbugliate tra i suoi capelli, mentre cercavano di districare i nodi e il suo cipiglio perplesso diveniva sempre più esilarante e sempre più comico?
‘Papà, non sai fare le trecce! ’ aveva riso lei, distraendosi dalla scena per poter strappare a qualche povero stelo il suo fiore, posandoselo in grembo con garbo.
‘Eppure non dovrebbe essere difficile! L’ho visto fare tante volte a tua madre, e… ah, aspetta! Forse ci sono. ’
E aveva ripreso a intrecciare e a intrecciare, con il solo risultato di aver complicato ancora di più le cose, tra le risate della bambina, seduta sull’erba curata e profumata di pioggia in arrivo.
Poi aveva riso anche lui, arrendendosi e limitandosi a pettinarle i capelli per rimediare a quella matassa rossiccia e informe.
 


Ed ecco che la loro donna cessava di essere tale, accontentandosi di essere sepolta dai ricordi della nuova casa e di quella nuova famiglia.
Accontentandosi di essere solo un’ombra.
 
 
 
 
 
 
 



Ehilà a tutti!
Un paio di precisazioni: la prima cosa che ho fatto, spulciando tra le mie storie incomplete, è stato rileggere questo capitolo che mi ero ripromessa di non pubblicare. Tuttavia, dato che questa storia tratta della mia Oc creepy (una delle tante), ho deciso di modificare la sua collocazione, spostandola in questa attuale.
Spero che sia più attinente.
Per quanto riguarda la seconda: anche questa è una storia a capitoli. Tuttavia, per chi sta leggendo o addirittura segue l’altra mia storia ‘Notti di noi’, sappiate che il capitolo è quasi pronto. ;)
Quindi, ‘Memorie di una dannata’ non influirà certo sulla velocità di pubblicazione e sulla qualità della scrittura adottata (perché, Snow, ha una qualità?).
Per il resto niente. Spero tantissimo che la psiche della mia Louiselle vi stia intrigando, data la sua morbosa attenzione verso il padre. Dal prossimo capitolo, si ingarbuglierà sempre più. Promesso.
Alla prossima!
 

Made of Snow and Dreams.

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Capitolo 3
*** Amaro ***


Amaro
 
 
 
 
 


Allungò il collo mentre le braccia ciondolavano mollemente contro i fianchi. Fremette nel sentire le bretelle carezzarle la pelle mentre scivolavano su entrambe le spalle, fino a lasciarle l’intero decolté scoperto.
Impresse le iridi sulla superficie lucida dello specchio: sfavillavano irose come gli occhi di un gatto selvatico, specie quando si accinge a saltare addosso alla preda inerme; quella metafora le piacque, e la smorfia che il suo viso si premurò ad assumere fu un incentivo di incoraggiamento.

 L’incoraggiamento necessario nell’infrangere tutte le regole.

L’incoraggiamento necessario per realizzare i suoi sogni proibiti, che la seducevano da quando sua madre l’aveva abbandonata al suo destino, preferendo crogiolarsi nel dolore della separazione.

L’incoraggiamento necessario per potersi affermare, finalmente, come Donna.

L’abito aderente le calzava alla perfezione, fasciandole il seno e i fianchi in modo che apparissero più voluttuosi e prorompenti. In altre parole, invitanti. Irresistibili.
I capelli fulvi le ricadevano sulle spalle in quelle morbide onde che aveva tanto faticato ad ottenere con il ferretto e la piastra; aveva intrappolato le ciocche laterali dietro il capo con un fermaglio nero, e per la prima volta nella sua esistenza aveva gioito per il tempo a disposizione a lei concesso: ne aveva approfittato per afferrare la sua borsetta di trucchi con slancio entusiasta, e con una matita nera, un mascara e un eyeliner si era dipinta gli occhi. Non le importava se il risultato finale sarebbe risultato esagerato e pesante per il suo essere ragazza.
Infine, aveva scelto di osare passando sulle labbra un rossetto acceso, e aveva coperto accuratamente tutte le imperfezioni della pelle con un fondotinta e un correttore. Tutto per evitare che Lui le notasse e ne ridesse, quando lei aspirava ad ottenere l’effetto contrario.
Quando controllò la sua immagine allo specchio indossava anche un paio di scarpe laccate con dei tacchi vertiginosi, talmente alti che il solo movimento di alzarsi dalla sedia la fece traballare pericolosamente.

‘E io non devo traballare. Devo essere perfetta per Lui. Non devo commettere errori neanche camminando. Devo… come cammina quella sgualdrina? ‘ mormorò Louiselle, fissando il suo riflesso. Indietreggiò di un passo quando questo le mostrò la fronte segnata da una ruga d’espressione, dovuta allo sforzo di ricordare, e la bocca deformata dall’odio. ‘Così. Ancheggia tantissimo, muove il fondoschiena. ‘ concluse, e ruotò il corpo per poter studiare la sua andatura con l’ausilio dello specchio, con occhio critico.
Accennò ad avanzare con la gamba destra, e si sforzò di roteare il bacino per raggiungere l’incedere che avrebbe inflitto il colpo di grazia al Suo autocontrollo. Alterò anche il suo sguardo: lasciò che le palpebre scivolassero languidamente sulle iridi per farle risaltare sul bianco perlaceo della cornea, e che l’ombreggiatura generata dalle ciglia allungate favorisse quell’aura di mistero che lei aspirava a rendere propria. E a quel punto, Lui non avrebbe avuto scampo. Sarebbe divenuto suo e soltanto suo, e la loro casa sarebbe divenuta il loro mondo. E il letto la loro alcova.

‘Ho vinto io. ‘ disse trionfante, e uscì dalla sua camera.
 
 
 
 
 


Piangeva. Singhiozzava. Il petto le doleva, e la schiena formicolava come se qualcuno ci si fosse seduto sopra. La testa girava, le orecchie fischiavano, aveva la vista appannata. Le sue guance erano striate di nero, facendola apparire simile a un clown. Anche il rossetto ero sbavato.
Il suo pugnò sprofondò nel cuscino, che ne attutì il suono. Odiò la morbidezza della stoffa e il frusciare delicato della federa, che nonostante tutto sembrava volerne lenire la furia. Quando il suo ginocchio colpì il materasso rigido, una scarica di dolore si tramutò in tante scintille dorate su un velo nero a coprirle gli occhi, e solo allora arricciò l’angolo delle labbra e trasse un respiro profondo.
Il vestito era troppo stretto e si era mutato in una prigione costrittiva di emozioni, compresse contro il suo involucro di carne. Erano anni che il suo cuore e la sua mente avevano scelto di esserne i contenitori, ed erano anche riusciti nel loro intento: passioni e voglie sfogate nell’ombra, a sussurrare il Suo nome come una litania sacra, a conservare come reliquie tutte le Sue foto e tutti gli indumenti per poterne aspirare l’odore in segreto, mentre il suo corpo urlava che non era abbastanza per poterlo soddisfare. Niente poteva soddisfarlo, neanche immaginare che fosse Lui ad accarezzarlo e a usarlo a suo piacimento nel loro letto. Neanche sostituire la brama con un altro corpo maschile poteva aiutare.
Ma ora era giunta al capolinea. Era un vaso infranto che necessitava di essere riaggiustato, ma il Suo egoismo le aveva negato anche quel semplice servigio. E le sembrava così strano, così bizzarro e così buffo che, dopo anni di cecità, ora vedesse le cose nella loro esatta interezza!
Lui, con i suoi pregi e i suoi difetti. Lei, e tutto il genere femminile, nel loro squallore. Nella loro animalesca funzione primaria.
E lei, che di femminile aveva solo gli organi genitali: un’illusa e una sognatrice, e un’eterna ingenua nel riporre le sue speranze di gloria in una vittoria troppo perfetta da poter essere realizzabile e Reale.
Ma ora aveva finalmente compreso la sua missione. Sapeva cosa andava fatto; la sua funzione da Essere Superiore, sebbene umano.
Sorrise amaramente ad occhi chiusi, e una lacrima le rotolò sullo zigomo. Scese dal letto e si diresse verso il piano inferiore, nella cucina, laddove aveva scoperto l’esistenza di una botola nascosta.
 
 
 
 
 
Mai un’altra vendetta le parve così dolce, sotto lo sguardo incredulo di suo Padre.
 
 
 
 

Scosse la testa, tentando di scacciare quelle memorie con lo scuotere della testa. Non voleva ricordare quei momenti.

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