Villa Cascia

di ness6_27
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il benvenuto. ***
Capitolo 2: *** Il nonno. ***
Capitolo 3: *** Casa nuova. ***
Capitolo 4: *** Presenza nuova. ***
Capitolo 5: *** Ultimo atto d'amore. ***
Capitolo 6: *** 1475 ***
Capitolo 7: *** Pietro e Rosetta. ***
Capitolo 8: *** Racconti di una notte stellata in mezzo agli alberi di carrubo. ***
Capitolo 9: *** Accoglienza vermiglia e vitrea ***
Capitolo 10: *** Felicità a chi ha perso ogni speranza. ***



Capitolo 1
*** Il benvenuto. ***


Villa Cascia


"Una storia!”
Una storia? Che ti sei rincretinito?”
Dai, ragiona, lo sai che ogni volta che veniamo in vacanza in questa villa di campagna almeno una volta deve staccarsi la luce la sera per tornare la mattina dopo! Fino a domani mattina non potremo fare nient'altro. Io non ho sonno, non so tu.”
Nemmeno io in effetti...”
“Ecco, hai visto? Raccontiamoci qualcosa per passare il tempo.”

Dovremmo trovare delle storie lunghette, la notte non dura poco.”
Beh, guarda, io c'ho stampata in mente una storia che mio padre mi raccontava sempre sulla nonna. Era una storia abbastanza strana, da piccolo mi metteva angoscia.”
Davvero?! Allora non perdere un attimo e racconta.”


Mia nonna conobbe mio nonno, suo futuro marito, molto giovane, quando lei andava alle superiori. Durante quel periodo lei non era esattamente serena, perché si era dovuta trasferire nel paesello d'origine di mio nonno. E il corso degli eventi, lì, si fece molto strano. Tante cose successero, addirittura fin prima dell'arrivo, durante il viaggio.


Io me lo immaginavo che tutto ciò sarebbe successo. Prima o poi doveva succedere. Io che ho fin da sempre amato alla follia la mia città, la mia afosa, affollata città piena di smog, l'ho dovuta lasciare, in quanto mi sto trasferendo. Dio mio. Sono sempre stata attratta da quella città. Ho avuto modo di farmi un'idea su quella che può essere la vita in campagna o in una cittadina di provincia, ma la vita di una metropoli non l'avrei cambiata per nulla al mondo. Dio, no. Con tutti quei colori, con tutta la sua sfrenatezza, tutti i negozi, tutte le pizzerie, le tavole calde, i McDonalds e tutti quegli altri posti dove anziché mangiare cibo ti mangiavi il fegato. Che poi non è vero, io ci mangiavo spesso e il fegato l'ho sempre avuto apposto. Quanto avrò potuto amare la leggera nebbia che si veniva a creare, non per il tempo, ma per l'effetto serra! Quanto le litigate tra automobilisti che andavano di fretta, quanto l'adrenalina che mi saliva nei momenti di una rissa, o, peggio, di uno scippo. Il cinema d'essai e quello a luci rosse. Anche se in quest'ultimo ci sono entrata solo una volta.
Il film era carino...
No, ma è inutile che ora riviva questi ricordi: lì sarà tutto diverso! Mi immagino di già: strade morte dalle ventidue in poi di settimana, all'una di sabato, la domenica tutti a casa perché “il giorno dopo c'è scuola!”. Tutte le paesane di provincia vestite allo stesso modo che si mettono a raccontare di fatti successi a coetanee. Tutti i paesani vestiti da buzzurri che si mettono a parlare di calcio o di zip modificati. Madonna, perché?! Vecchiette che escono le sedie e si accomodano in strada per parlare del tempo o di come fare con gli elettrodomestici, che faticano a capire come funzionino nonostante li usino da anni. Ce l'avranno una pizzeria decente almeno. Lo spero. Lo spero per loro. Mi uccido se non è così, se lì dovrò campare a forza di zuppette cucinate dalle nonne “che fanno tanto bene, ti fanno vivere a lungo come a me!”. Che cazzo di senso ha vivere, se la vita che devi fare è questa, mi chiedo!? Preferisco fare seppuku a settanta anni, quando mi diranno che dovrò abituarmi all'idea di mangiare solo brodaglia perché i denti saranno sul punto di cadermi. Sempre se ciò non mi succede prima. Magari a sessanta o sessantacinque anni. Sempre che non mi venga l'apatia subito e muoia qui! M'immagino già la lapide:
 
“Qui giace Giada Micante.
Nata nella vita, defunta in un paesello morto prima di nascere.”


...
Forse sono un po' troppo cattiva. Magari la vita in paese non è così male!...Ma a chi voglio illudere?
Credo di essere sul punto di aver finito i miei motivi per non essere d'accordo sul trasloco. Pensavo sarebbe durato un po' di più questo discorso. Pazienza. Erano, più o meno, le dieci e venti di sera. Saremmo dovuti arrivare molto prima, se non fosse stato per quell'incidente durante la strada. Una cosa assurda: senza un motivo ancora precisato, un autobus ha perso il controllo bloccando tutta la superstrada. Mio padre stava abbastanza incazzato di suo perché avrebbe dovuto incominciare oggi il suo nuovo lavoro lì. O forse è perché l'hanno spostato lì. In un certo senso, questo spostamento è una degradazione dal punto di vista lavorativo. Va bene che, lavorando nelle Ferrovie, ti possono capitare tutti i posti, più o meno, ma proprio in un punto simile... Comunque, dopo questo incidente non so mio padre dove abbia trovato la voglia di uscire dalla macchina per aiutare nei soccorsi. Ma la cosa più orribile doveva ancora venire. L'autobus si era ribaltato, perciò, oltre al fatto che è stato difficile far uscire tutti, molte persone si erano ferite gravemente. E lui si era visto costretto a tirare fuori persone con le ossa rotte, o peggio ancora, scoperte, con tutto il volto grondante sangue. Credo che strabuzzò gli occhi e si sforzò di non vomitare quando vide un soccorritore che, uscendo una vittima, per sbaglio gli dilaniò una gamba nelle macerie. Lo tirarono fuori lasciandosi dietro il sangue di quella ferita. Poi, quasi per scherzo del destino, quella vittima resto sfigurata. A un tratto ci fu una piccola esplosione, che bastò per rompere i vetri di un lato dell'autobus. Una scheggia si conficcò perfettamente nell'occhio di questa donna. So che fosse donna, ma non sapevo chi fosse o che vita facesse. Magari era una donna di famiglia, considerata dai figli e dal marito una donna bellissima. E magari ora sarebbe stata osservata con gli occhi della compassione. Tutti, abituati a guardarla muoversi nella sua bellezza, si sarebbero fissati sulle cicatrici che un incidente simile lascerà. Magari dal marito saranno giudicate affascinanti, ma per lei resteranno sempre cicatrici aperte che sputano fuori la sua anima facendola morire.
O magari era zitella e non fregherà niente a nessuno, se non a lei.
M'immagino la scena. Mio padre che dopo l'esplosione, aveva istintivamente cercato di coprirsi, dimenticando di coprire l'infortunata. La donna probabilmente non ha nemmeno urlato, doveva essere svenuta per il dolore della gamba. Quindi lui ci mise un po' ad accorgersi di quel viso. O meglio, di quei due visi: uno sfregiato, ma ancora composto da pelle e che veniva rigato dalle lacrime; l'altro pieno di sangue, ormai fatto sangue. Non c'erano altri termini. O almeno, così lui diceva. Quella cavità orbitale ormai non poteva fare altro che sgorgare sangue a fiotti, questo ricadeva fino nelle guance, ormai completamente tinte di rosso. Penso che sia normale che, a quel punto, mio padre corse a vomitare. Comunque, dopo tutto quell'incidente fummo costretti ad aspettare ancora affinché la polizia raccogliesse le testimonianze di tutti. Ed ecco il motivo di tutto questo ritardo. La strada che dovevamo percorrere non aiutava. In linea d'aria dal punto dove ci trovavamo alle dieci e venti serali ormai ci sarebbero voluti cinque minuti di macchina per arrivare in questo paese, ma siccome questo si trova al centro di una valle, abbiamo dovuto ridiscendere tutte le colline attorno, e ci sarebbe voluta ancora mezz'ora. Vidi il cimitero. Ovviamente il cimitero lo mettono sopra le colline, nel caso ci sarà un'alluvione chi riposa potrà riposare in pace. Insieme a tanti nuovi compagni.

Ma quel cimitero mi dava proprio l'idea che ancora per noi non sia finita.
Sembrava quasi volesse darci il benvenuto a suo modo.


La Fiesta guidata da Ruggero Micante correva ad una velocità abbastanza sostenuta e, nell'affrontare una curva, non riuscì a evitare un tronco che si trovava sul ciglio della strada. Per pura fortuna l'auto non uscì fuori traiettoria perdendosi chissà dove.
Ora si trovavano con una ruota a terra nel buio più totale in una zona dispersa. Tra la mezza disperazione e la rabbia dei suoi, mia nonna durante i lampi notò una cosa strana dietro la loro macchina, a pochi passi da essa.


Stavo già in apprensione per tutta quella faccenda, e con i miei che non facevano altro che urlare, non ho potuto fare a meno di mandarli a quel paese e cercare di vedere qualcosa dal finestrino della macchina. Sembra che si sta avvicinando una tempesta, vedevo dei lampi lontani. A un tratto notai una cosa strana sul selciato dietro di noi. Una specie di pallina rosso fuoco ad altezza più o meno del tettuccio della macchina che sembrava librarsi in aria. Non sapevo per quale motivo fosse lì, né cosa fosse. Guardavo incuriosita questo piccolo cerchietto, e tanto fu lo sgomento quando mi accorsi che si avvicinava. Ancora peggio quando notai la figura che si avvicinava assieme ad essa. Lo notai grazie a uno dei tanti lampi in lontananza che illuminavano il paesaggio. Non riuscivo a capire cosa potesse essere. Incominciai a sbiancare. Cercai di avvisare i miei di quella...“persona”...che veniva verso di noi. Mio padre, abbastanza incollerito da tutta la situazione, attivò la torcia nel cellulare e uscì dalla macchina, seguito dai miei “stai attento ti prego!”
Ho ancora dubbi su cosa veramente fosse quell'essere illuminato dal fascio di luce diretto da mio padre. Non sembrava umano. Era basso, nonostante la magrezza, portava dei capelli lunghi tra il bianco e l'argento ormai spento. Ogni osso della sua faccia sembrava voler strappare quelle pelle quasi cianotica del viso. E tanto questa pelle era esile e tirata, che mi sembrava di poter osservare ogni singola fibra che la costituiva. Ogni suo cambio di espressione era per me un aumento della sensazione di nausea. Quella pellaccia cadaverica metteva in mostra l'orrido lavoro di tutti i muscoli facciali, che si contraevano, come se schiacciati da piccole presse invisibili. Dalla macchina notavo che aveva la sclera non bianca come doveva essere, ma di un giallo acquoso. Come aprì bocca, forse per dire qualcosa, fissai con terrore la gola: tutta la zona che stava sotto il pomo di Adamo se n'era rientrata nel collo, quasi fagocitata dal collo, avevo l'impressione si sarebbe creato un buco e sarebbero incominciati a uscire schizzi di sangue ormai rappreso, visto che quella non mi sembrava una persona. Non viva, per lo meno. Quella immagine nella mia testa, unita al senso di stanchezza e spossatezza mi portarono sul punto di svenire. Incominciai a vedere tutto sfumato, mi si addormentarono le mani e i piedi, cosa che mi rese ancora più difficile restare vigile. Non riuscivo più a distinguere ciò che mia madre mi diceva. Caddi riversa sui sedili posteriori, e alla mia destra avevo la luce di cortesia, messa sopra mamma che dal sedile passeggero anteriore cercava di chiamarmi preoccupata. Quella luce di cortesia era diventata fredda. Era di un bianco che non voleva trasmettere niente. Non era il colore del sole che trasmette calore alla terra. Per quanto possa essere solo finzione, la luce di cortesia della Fiesta di papà mi aveva dato sempre questa idea. Ora invece era di un maledettamente insignificante bianco. E anche quel bianco stava per lasciarmi, per farmi diventare tutt'uno con l'oscurità che c'era fuori da quella macchina.
Forse un ultimo lampo, poi divenne tutto buio.


E mi vorresti fare credere che quella cosa fosse, chessò, un cadavere appena uscito fuori dalla sua tomba per prendere una boccata d'aria?”
Assolutamente no. Quella era una persona come tante altre.”


Mi fece un po' strano sentirmi dire che quella persona che ho visto ieri al cimitero era, appunto, una persona. Era il custode del cimitero, aveva appena chiuso per tornarsene a casa, che distava da lì pochi minuti. Fu molto gentile, nonostante mio padre era parecchio nervoso e non riusciva a capire dove si trovasse la nostra nuova casa, lui non si perse d'animo. Aiutò mio padre a cambiare la ruota. Poi mia madre si accomodò dietro accanto a me, che mi risvegliai solo la mattina dopo, e il custode salì in macchina accanto a mio padre per indicarci la strada da percorrere. Sembrava un uomo tranquillo, anche se dalla sua espressione durante i periodi di silenzio sembrava trasparire una pesante preoccupazione, a detta di mio padre. E in effetti, quando arrivammo a destinazione, mio padre si offrì di riaccompagnarlo a casa.
“No, grazie, ma ormai che sono qui mi farò ospitare da un amico, che a quest'ora è sicuramente alzato.”
“Ma ci vogliono solo una ventina di minuti!”
Il tizio puntò il dito ai lampi lontani, nominandoli con un nomignolo strano.
“Li vede quelli, giovanotto? I surrusca in queste zone non sono tipici di questa stagione. M'inquietano, e mi spaventerei ad arrivare a casa anche se in macchina. Inoltre poi, inizio ad avere un po' paura a stare a casa mia, che si trova così vicina al cimitero.”
Qui scoprì perché fosse preoccupato.
“Io sono il custode del cimitero, e ho dedicato mezzo secolo della mia vita a fare questo. E ora mi vogliono dare le colpe perché c'è qualcuno che di notte si mette a scorazzare in giro per il camposanto.”
“Ma chi potrebbe mai fare una cosa simile?”
“Non lo so, giovanotto. E c'è un problema peggiore: le persone, qui, quando non sanno proprio dare la colpa a una persona danno la colpa a ben altre cose.”
“Ossia?”
““Spiriti”, “padroni della casa”, e cose così. Prima o poi imparerete a conoscere queste storie di questo posto.”
Ora anche mio padre si convinse di aver fatto male ad essersi trasferito.

"E poi..."
Un piccolo bagliore sembrò colpire la fioca luce della candela che stava tra i due ragazzi: era tornata per un attimo la luce. Ma questione di un attimo.
"Pensi che ritorna prima di domani?"

"Direi proprio di no."
"Beh, continua con la storia!"


Angolo dell'autore.
Oddio, finalmente torno con una nuova storia. In effetti, avevo programmato da tantissimo tempo questa storia, la mia mente l'aveva partorita fin dall'anno scorso. O almeno, una sua parte. Sfortuna volle, però, che proprio quando mi ero messo a scriverla il pc mi lasciò. Durante il periodo che restai senza pc avevo un piccolo netbook, ma anche in questo caso un giorno la sfortuna fece il suo dovere, e mi danneggiò il file contenente la storia. Ora che ho il pc nuovo, ho riscritto (ovviamente non sono riuscito a riprendere quasi niente della prima versione) il primo capitolo. Per ora ho scritto solo questo perché non sono per niente sicuro di cosa succederà in questa storia(come con le altre, eh), non ho un filo degli eventi in testa, ma almeno pubblicando questo primo capitolo mi sono imposto di dedicarmici.
Non so nemmeno se ne uscirà fuori una storia degna del tag "horror" e "rosso", ma lo spero.
Spero inoltre che questo capitolo sia di vostro gradimento. Sarebbe un inizio :D.
Come sempre, è gradita una recensione se la storia vi è piaciuta, o vi ha fatto schifo, o un pochino e un pochino. xD
Stay tuned, a presto! :D

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Capitolo 2
*** Il nonno. ***


Davvero? Non si seppe mai che successe a quell'autobus?”
No, i miei mi hanno sempre detto che non si scoprì nulla.”
Strano davvero.”
Già.”
Ma tuo nonno invece com'era a quell'età?”
Bhe, era molto diverso.”
In che senso?”
Beh, molto diverso dalla nonna giovane, molto diverso anche da come era quando ho avuto modo di conoscerlo io. Devi considerare che mio nonno perse i genitori alla nascita, i genitori adottivi non erano un granché, e non appena poté amministrare i beni dei suoi genitori biologici a sedici anni con l'emancipazione minorile, scappò e si rifugiò nella villa dei suoi, dove stava sempre solo. A quanto mi ha raccontato la nonna, era un tipo molto particolare.”


E bene, anche questo serie l'ho finita. Anche questo baluardo di emozioni derivante da una semplice storia è finito. E con la sua fine si è portato via tutti i suoi personaggi, tutte le sue storie, tutte quelle cose alla quale io mi ero indissolubilmente legato. Il problema è sostanzialmente che il mio animo non è così indissolubile con se stesso. La fine di questa serie quindi, portandosi tutti gli elementi che più avevo fatto miei, si è portata via una parte di me.
Dicono che le droghe lentamente ti uccidono, ma non è vero. Se questa fosse la definizione di droga, allora le opere di fantasia sarebbero una droga. Quelle ti uccidono piano piano, quelle si portano via parte di te ogni volta. E la cosa più stupida è che tu sai che prima o poi finisce. E più ti attacchi a un personaggio, a un evento di una qualsiasi storia, più nella tua mente si accomoda quella malsana luce scura che ti dice “sì, appassionati finché puoi, perché non durerà molto”. E quindi, quando finisce un'opera che ti piace, ferito, moribondo, cerchi di appassionarti a qualcos'altro, e così via, sempre peggio.
Sì che sono queste le vere droghe. Non quelle sostanze lì. Quelle sostanze le prendi perché sei un disilluso. Tutti sanno che nella vita si provano le emozioni che ti lasciano senza fiato, che ti fanno sciogliere il cuore, che ti fanno annebbiare i sensi, solo per ricordarti di queste emozioni quando tutto sarà finito e in te resterà il vuoto. La vita è questo: da giovane sei forte, sperimenti, affronti, subisci, provi; arrivi fino al cielo per il tuo primo amore, ti senti la testa pulsare come un colpo di pistola per l'adrenalina che ti scorre nelle vene dopo una rissa, ti senti il corpo in fiamme per il tuo primo orgasmo, e tutte queste cose; poi, da vecchio, nemmeno riesci a piangere per la nostalgia che provi nel ricordare tutto questo. Anzi, la nostalgia nemmeno la si prova perché si sa che sarebbe finita così. Ecco, le droghe, quelle definite tali, agiscono nello stesso modo, t'illudono, una e due e più volte, nel mentre ti debilitano, e poi, quando sarai sul punto di morire, ti lasceranno con i soli ricordi riguardanti la bellezza dei loro momenti di estasi. E se tu le prendi, lo sai che lo fai perché agiscono come agisce la vita. Solo molto più velocemente. Punto.
Ma alle persone piace osservare come agisce la vita. Piace in una maniera infinitamente masochistica. Piace pensare che durante la vita si possono provare tanti e tanti sentimenti diversi, e analizzarli sensorialmente uno a uno. Anche se si sa che poche sono quelle emozioni che poi in fondo si vivranno realmente. Ecco perché, una volta che hai analizzato tutti i fremiti, le eccitazioni, gli sguardi e gli intendimenti dei personaggi di un'opera(perché, sì, parlo semplicemente di quello), ecco perché dopo piangi. Piangi perché ti chiedi:
“Chi sono io, cosa dovrò diventare per provare tutto ciò? Anche se quelle emozioni possono essere considerate negative, piango appena finiscono, perché muovevano tutto! La storia, la trama, i dialoghi. E altre emozioni ancora. Io invece sono qui, che mi muovo nell'inerzia della mia vita, nella tristezza della mia vita, una tristezza infima e meschina, che non mi permette nemmeno di piangere, non mi lascia la possibilità di commiserarmi e di urlare di rabbia, con la speranza che questo gesto possa essere una valvola di sfogo!”
Perché troppe vite ormai sono così. Tristemente apatiche. Sono una marcia in avanti col paraocchi. Anzi, con le bende sugli occhi. E se certe vite così non fossero, anche se invece ci fossero persone che si potessero considerare felici, è una felicità della quale non si potrà mai vivere appieno. Resteranno comunque apatiche. Perché anche se fosse una felicità che viviamo, che interiorizziamo, che facciamo nostra, sarebbe una felicità che brilla sotto la lucentezza della fine. E non intendo certo della fine dei nostri giorni, l'ultima cosa della quale ci dovremmo importare se riuscissimo a vivere come si deve. Parlo della fine di tutto: delle trame, dei personaggi, delle emozioni.
Ma io credo di essere riuscito a trovare il modo di sfuggire a questo scherzo, a questa presa per il culo. Bisogna semplicemente non cadere nello scherzo. Se si ci isola, e si dimentica che servono le emozioni per vivere, ci si dimentica anche che esse ci sfuggono. Però....chi mai vuole allontanarsi dal mondo? È l'unica cosa che abbiamo, no? Gli amici, gli amori, i dispiaceri e le liete novelle. E un po' di altre cose ancora. Crediamo che tutte queste cose possano distoglierci dalla nostra preoccupazione di non vivere, di essere caduti nell'apatia. Ma non è vero, Cristo! Sono cose che al contrario ci piantano qui, ci fanno illudere di provare emozioni. Ma appena queste illusioni finiscono, il mostro apatia ci fa i complimenti, ci stringe la mano, ci frega e se ne va ridacchiando. No, non è così che si fa. Bisogna convivere con l'apatia, accattivarsela. Farle capire che, se non riesce a soggiogarci, tanto vale finirla di provarci.
Ma pure io dovrei smettere di convincermi che ce l'ho fatta, perché in effetti non è cosi. Tutte queste riflessioni le sto facendo perché ho appena finito di vedere qualcosa che mi lega a delle emozioni. Riuscirò a smettere. Anche se lei mi parla, non cerca più di fregarmi come ha fatto fino a ora, cerca di sfiduciarmi, insomma, un altro dei suoi raggiri. Mi dice che ancora non ce l'ho fatta, che la strada è lunga, e che forse non ho più nemmeno la voglia di percorrerla. Ma non l'ascolto. Perché, dopo che ho incominciato a ignorare il mondo, tutte le cose belle e le cose brutte, a ignorare la luce perché annebbiante, e il buio perché troppo deprimente, a restare nella penombra nella speranza di non sbilanciarmi e non cadere né da una parte né dall'altra, non posso mollare. E sono sicuro che non lo farò, cazzo.


La testa gli sembrava un macigno. Sembrava quasi che ci fosse qualcosa di pesantissimo sopra. Sembrava quasi che tutte quelle parole, tutti quei pensieri detti ad alta voce due minuti prima si fossero materializzati in pietre, che formavano un unico grande blocco di roccia. In lampi luccicanti vedeva la sua faccia schiacciata da un masso, posato su un trono di sangue, il suo. Ma bastava un battito di ciglia per interrompere quella visione. In mezzo a tante stelle, poteva allora vedere lo schermo del suo PC. Lui diceva che voleva dare l'idea che il suo computer fosse vivo, che avesse una mente e un corpo, e diede quindi gli occhi al suo schermo, mettendo due occhi femminili, eterocromi, fissi e indagatori, suadenti e affascinanti.

Quegli occhi lo avevano sempre intrigato, si sarebbe fatto scrutare millimetro per millimetro da quegli occhi. Gli piaceva pensare che gli occhi di quel monitor avessero davvero quella capacità. Ora però non c'era bisogno di pensarlo.
Quegli occhi erano per davvero vivi! Battevano le ciglia! Si muovevano! E quando lui si metteva a sfregare i suoi, di occhi, sempre più esterrefatto, aveva l'impressione che i colori di quegli occhi cambiavano. All'inizio i colori verde e rosso delle iridi semplicemente si scambiavano di posto. Poi cambiarono completamente colore. Anzi, cambiava il motivo, tanti colori incominciavano a prendere possesso di quelle iridi. Lui, dapprima sorpreso, incominciò a essere attratto da questa cosa. Finalmente quegli occhi femminili ma austeri che lui aveva sempre amato erano vivi, si muovevano, potevano comunicare con lui...
Proprio sul più bello lui restò deluso. Un gomito al quale si appoggiava scivolò sul tavolo e lui staccò gli occhi da quel monitor cadendo con la testa. Un brivido lo pervase. Si sentì solo. Tremendamente solo. Incominciò a sudare freddo. Alzò gli occhi nuovamente al monitor, ma questo non era più lui. Niente più icone, né altro. Semplicemente quel viso che non sembrava più quello del suo pc, un viso smorto, che non comunicava nulla, una faccia sulla quale spiccavano delle orbite bianche, non riempite dai bellissimi occhi della quale lui era innamorato perso. Lo stava per assalire la disperazione. Dove erano quegli occhi? Allungò le mani, prese disperato il monitor, incominciò ad accarezzare lo schermo nella speranza di sentire la pelle soffice e candida di quelle palpebre che coprivano i suoi amati occhi. Non sentì nulla, se non il foglio di plastica che copriva l'LCD.
Ma lo sconforto fu per un attimo congelato da una strana macchia, che fece capolinea davanti a lui. Era una macchia su quel viso. Una macchia rossa. Sembrava sangue. Perché era lì? Chi ce l'aveva portata? Desideroso di risposte, il suo sguardo balzò sulle sue mani: l'aveva tracciata lui quella macchia di sangue, col medio. Sempre più impaurito, tornò a fissare il monitor. Quegli occhi si chiusero, e incominciarono a piangere. Gli sembrò di poter sentire quel pianto nella testa. Ogni lacrima che cadeva una pulsazione dolorosa in una tempia. Uno sfarfallio, e da quelle palpebre uscivano lacrime di sangue.
Lui non ne poteva più. Doveva staccarsi da quella scrivania. Fece forza con le braccia sul tavolo, ma non riusciva nell'intento, non riusciva a spostare quella sedia. I disturbi sempre più frequenti risero quel pianto ancora più macabro, anche lo stesso monitor incominciò a riempirsi di macchie di sangue.
“BASTAAAAA!”
E all'improvviso la stessa sedia lo spinse all'indietro. Riuscì a evitare di battere la testa, ma la caduta gli fece comunque molto male. Incominciò a contorcersi per il dolore, a piangere a imprecare, a chiedere che cazzo stava succedendo.


“Lucio, sarebbe questo il modo di parlare?”
Quella voce? Da dove spuntava fuori? Come sapeva il suo nome? Era una voce dal suono angelico, che riusciva a calmarlo, a farlo sentire al sicuro.
“Io te l'ho detto, per me quello è ormai perso, Taja.”
E quest'altro chi era? Una voce maschile, profonda, che non sembrava minacciosa, ma comunque negativa, forse carica di freddezza e di un pizzico di disprezzo.
“Sempre così a pensare male, Ruggi.”
Lucio alzò la testa e guardò chi aveva davanti. Spiccava per la sua altezza questo Ruggi: sembrava molto alto. Portava degli improponibili capelli blu con tantissimi ciuffi che cadevano all'altezza degli occhi. Occhi sottili, che sembravano malvagi. Però il resto del viso gli dava tutt'altro ritratto di Ruggi. Sembrava un po' ingenuo piuttosto. Taja invece spiccava non per l'altezza, quanto per la bellezza. Lunghi capelli biondi, che arrivano fino al fondo schiena. Al contrario di Ruggi, lei portava degli occhioni grandi grandi, di un bellissimo color castano.
“E voi due chi siete?”
Nel mentre chiedeva questo, Lucio piano piano si rialzava da terra. Ora capì perché Ruggi sembrava così alto: la verità era che Taja era piuttosto bassa. Fu questo particolare a fargli strabuzzare gli occhi e a farlo voltare istintivamente verso un poster, che si trovava in quella stanza. Quel poster sembrava così vuoto. Raffigurava una parete, con una finestra e una tenda sulla sinistra. Tutto troppo vuoto, senza significato. Lucio indietreggiò di qualche passo puntando furiosamente il poster e i due.
“V-voi eravate lì! Ora mi ricordo, quello è un poster che ho appiccicato io al muro. Voi eravate lì, fermi in un bacio che vi univa in un'unica magnifica figura! Come siete usciti?!”
“Inutile che stai a pensare a certi dettagli...”
Fu il ragazzo a parlare. E Lucio lo squadrò da capo a piedi dopo quella frase. Ruggi non cambiava espressione, e quegli occhi dall'apparenza troppo spavalda davano troppo fastidio a Lucio. Si avvicinò col passo pesante. Incominciarono a sentirsi strani rumori, qualcosa che scricchiolava...Improvvisamente il pavimento sotto Ruggi franò. Lo stupore colpì improvvisamente quegli occhi tanto coraggiosi. Taja però con uno scatto andò in soccorso a Ruggi, per non farlo precipitare nel vuoto nero formatosi di sotto. Lucio osservò basito. Lui conosceva bene la planimetria di quel posto. Sotto dovevano vedersi delle scale, illuminate, se non dal sole, dalla luce del lampione acceso la notte lì vicino. Dove stavano?
“Lucio, si può sapere che ti prende?! Perché hai fatto questo a Ruggi?!”
“Io non ho fatto niente! Io sono semplicemente in balia di qualcosa che fatico a capire! Prima il pc...”
“Quale pc?”
“...che vuoi dire?”
“Non vedo computer qui!”
La sua faccia s'irritò.
“Ma come, che minchia non lo vedi messo...”
La scrivania era vuota.
“...lì...”
Gli occhi di Lucio da semichiuso si aprirono per formare con la bocca una smorfia di terrore e smarrimento. Strascicò fino a dove ci doveva essere un pc. Vi trovò invece solo un biglietto con su scritto a caratteri rosso sangue: qui ci dovrebbe stare un calcolatore elettronico.
“Ma...perché?!”
Sbottò imprecazioni, e si lasciò andare alla rabbia e alla confusione. Incominciò a rivoltare ogni cosa. E più Ruggi e Taja confabulavano lui si infuocava ancora di più d'ira. Fino a quando non trovò più cosa danneggiare, e optò per danneggiarsi. Cercò furioso lo specchio di un'anta del suo grande armadio. Si ci avvicinò, lo toccò con mano, ne tastò la freddezza. Si stava per allontanare e prendere una rincorsa, quando una mano lo fermò. Lo abbracciò lungo il torace da dietro. Considerato che era a metà strada tra Ruggi e Taja in altezza, pensò fosse la seconda ad abbracciarlo.
“Ora calmati.”
“Che cazzo vuoi?!”
“...ti prego.”
Come poteva una semplice supplica sortire tutto questo effetto? Ora Lucio non si sentiva più arrabbiato, né solo. Si sentiva dov'era in realtà: a casa.
“Vieni con me.”
“Dove si va?”
“Ad ammazzare un po' il tempo.”
Lucio seguì senza pensarci l'idea di Taja, senza chiedersi cosa quell'espressione volesse significare. Quasi fosse un comando anziché una proposta. A malapena notò che Ruggi non c'era più.
“E quell'altro dove...”
Taja continuava a strattonare con la mano. Sembrava forzuta, nonostante quelle braccine esili che si ritrovava. Così come abbastanza esile era nella sua interezza.
“Non importa!”
Lucio fu trascinato via, ma ebbe il tempo di voltarsi verso il poster. Ma lì continuò a non vedere nulla. E non c'era più nemmeno il buco sul pavimento fatto da...da chi?
Correvano verso l'ingresso della stanza, immerso nel buio. Lucio era col cuore in gola: aveva paura di cadere in quel buio così profondo, col timore di affondarci per sempre, e di non uscirci mai più.
Aveva sempre avuto a che fare col buio, ma questo buio sembrava diverso...sadico.
Manco il primo passo in questo buio, che lui cadde davvero. Però...
“Perché sei inciampato, Lucio?”
Lucio si accorse in effetti di non trovarsi nel buio. Non nel buio più totale per lo meno. Si ritrovava nella penombra di un'altra stanza. Non sapeva di preciso quale. Tutta casa sua si trovava in penombra quando c'era lui. Era una stanza molto spaziosa, doveva essere il salone. Ma nel salone c'erano tante cose: c'era il grandissimo comò, la vetrinetta, un caminetto, la televisione. Ora c'erano solo tanti corpi esanimi, freddi e immobili. Catatonici.
“Q-questi chi sono?”
“Non li riconosci?”
Lucio osservò meglio, tra le tante persone riconobbe certi conoscenti, ma anche perfetti sconosciuti. Trasalì quando vide un corpo dai capelli blu.
“Quello...è Ruggi?! Che ci fa lì?!”
“Continui a non capire, eh? Queste sono le persone che tu hai conosciuto nella tua vita, ma della quale hai dimenticato. Quando si dimentica di una persona, per te quella persona muore, resta un cadavere nella tua mente. E così con tutti i ricordi”
Lucio fissava la biondina, desideroso di capire ma stranito allo stesso tempo.
“E dove siamo qui, se non nella tua mente?”
Disse queste frasi sorridendo quasi maleficamente. Luccicavano gli occhi di Taja, mentre lei diceva queste parole.
Lo sgomento si fece spazio sul viso di Lucio. Lui era nella sua stessa mente? Tutti quei cadaveri? Perché, che senso hanno?
Nuovamente la mano di Taja agì per calmarlo, adagiandosi sul suo petto febbricitante, bisognoso di aria.
“Come ti dicevo, ammazziamo un po' il tempo?”
“E cosa vorresti fare?”
In tutta risposta i due sentirono un piano che incominciava a suonare. Li invitava a ballare. Era una melodia che Lucio conosceva, ma della quale non sapeva il nome. Lo distrasse un urlo, terrificante proveniente da una montagnola di cadaveri.
“Cos'era?”
“Cosa pensi che succede nella tua mente quando tenti di ricordare una cosa che avevi dimenticato? Quel ricordo lotta per rivivere!”
“E se io lo ricordo?”
L'urlo si fece più intenso. Ci volle qualche secondo prima che andasse a scemare, diventando però sempre più malinconico e lamentoso. E durante tutto questo tempo, un piccolo fuoco bruciò lì, tra la montagna di corpi.
“Ora non è più cadavere!”
Lucio non ci stava più a capire niente. Continuava a chiedersi perché stesse succedendo tutto questo, chi fosse la ragazzina bionda dagli occhi castani che aveva davanti, cosa poteva fare per far finire tutto. E sempre Taja fu che calmò il turbinio dei suoi quesiti.
“Balliamo, quindi?”
“Sì, possiamo ballare. Ma perché proprio una melodia così...”
“Così come?”
“Malinconica?”
Era la Sonata al chiaro di luna di Beethoven.
“Tu come stai per ora?”
Afferrò le manine di Taja e incominciò a volteggiare. Non aveva mai imparato a ballare, riteneva di saper deambulare per puro miracolo. E ora invece ballava magnificamente, seguito altrettanto magnificamente ma questa misteriosa Taja.
“Ho sentito il tuo pensiero prima, sai?”
“Ah sì?”
“Sì...pensi che sia giusto quello che stai facendo?”
“Non lo penso, ne sono convinto.”
“Ma quindi, se rifiuti le emozioni, stai rifiutando la vita? Perché non ti uccidi invece?”
“E qui che tu ti sbagli. Il mondo è convinto che se non c'è la vita con le sue emozioni c'è solo la morte. Ma la morte non è l'opposizione alla vita. La morte fa parte della vita, vi è sempre nella vita. Anche se è la sua fine non vuol dire che la morte è estranea alla vita. Che poi, credi che l'atto ultimo non comporti l'esperienza di una emozione? Credi che chi è sul punto di morire diventi apatico e non provi nulla? Sì, tutt'altro. Chi è rimasto soggiogato dalla vita non rimane impassibile davanti la fine di questa. Sicuro, come la morte e le tasse.”
“La morte e le tasse?”
Taja ruppe la danza, fermò ogni cosa, solo per ridere di gusto a quel modo di dire.
“Ma quanto è vecchio questo detto?! Presentami Joe Black, ti prego.”
Lo stava dicendo con le lacrime che per le risate scendevano giù sulle guance rosee. A Lucio tutto ciò parve inopportuno e irritante. Fissò arcigno Taja, voleva che la smettesse.
“Scusami, non avercela con me, ti prego.”
Ma l'irritazione non passava.
“Sì che invece ce l'ho con te.”
“No, ti supplico, non farlo.” Mentre lo diceva la sua risata divenne sempre più sottile, sempre più simile a un lamento.
“Se ho riso, è perché tu in fondo hai ragione. Non si prova l'apatia sul punto di morte. Si prova qualcos'altro, e si desiderano tante cose. Io per lo meno voglio ridere.”
Lucio spalancò gli occhi, incominciò a tremare.
“Che vuoi dire?!”
La pelle di Taja perse colore, divenne cianotica. Non riuscì più a reggersi in piedi, e Lucio accorse per tenerla.
“Lo sai, percepisci la sua oscura presenza. Luli è qui, e tu sai che quando arriva Luli muoio anche io.”
“No, perché?! Merda no, Taja!”
Ma che stava facendo? Di che si preoccupava? Sapeva a malapena come si chiamava.
“Qual'è il problema? Non mi faccio scrupoli ad accettarlo, Luli è sopra tutto. Anche sopra me.”
“Ma chi cazzo è Luli?!”
“...la...conosci...b-bene...”
Il cadavere di Taja si fece troppo pesante. Lucio non aveva più le forze per reggerlo. Rischiava di restare con le braccia bloccate a terra. Lei aveva più o meno lo stesso colore del pavimento ormai. S'accasciò sopra di lei, per poi esplodere definitivamente tra le lacrime isteriche.
“BASTA! NON NE POSSO PIÙ!”
“Ehi, calmati, sono qui!”
Un appiglio, per la sanità mentale di Lucio, si era ripresentato.
“T-Taja?”
“Ma no, io, Luli ovviamente.”




Un urlo ruppe il silenzio secolare di quella casa. L'unico rumore, eccetto alcuni elettrodomestici e certe periferiche pc, dopo troppo tempo. Ed era un urlo di assoluto terrore. Seguito da tanti angosciati sospiri mischiati al sudore che impregnava il collo e i capelli e la fronte. Taja, Ruggi, Lulli, chi diamine erano tutti queste persone? E perché l'ultima avrebbe dovuto predominare sulle altre? Moriva chi veniva dimenticato...ma Taja mica l'aveva scordata. Non avrebbe voluto farla morire, sentiva di essere attaccato il lei in qualche modo...
Decise di non pensarci più. Non poteva essere stato un semplice incubo. Tanti ne ha avuti di incubi lui, ma mai nessuno era stato così dannatamente pauroso, in nessuno di questi lui si sentiva così vittima del corso degli eventi e impossibilitato a far niente.


“Infatti non era affatto un incubo, mio caro Lucio.”
Quella voce riecheggiava talmente forte nella stanza, che non si poteva capire da dove provenisse. Ma a Lucio non importava sapere l'origine di quella voce. O almeno, non più. Sapeva che c'era.
Erano ormai un paio di anni che la sentiva.
“Lo so che tanto hai ragione!”
In fretta e furia si alzò da letto per correre nella penombra di casa sua.

|--|
 Commento dell'autore.
Mi arrendo. Non riesco proprio a formare prima la trama e poi il racconto. Riesco solo a formare la trama piano piano al momento di scrivere il racconto. Bah! E ho allungato la storia di un capitolo dove ci sono pensieri e sogni. Molto bene. Come al solito, recensione se la storia v'ha fatto schifo, v'è piaciuta tanto, un pochettino, non v'ha detto nulla, recensite sempre tanto. Per il resto, vedremo che combino nel prossimo capitolo...stay tuned!

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Capitolo 3
*** Casa nuova. ***


...”
Eh già, lo so quello che pensi.”
Ma...ma tuo nonno non era mica così quando l'ho conosciuto io!”
Beh, sì, quando sono nati i miei genitori s'è dato una piccola regolata, ma mia nonna mi diceva che per molto tempo è stato così.”
E poi, tutta questa storia te l'ha raccontata tua nonna?”
A dire il vero no...me ne aveva accennato, ma poi questa storia l'ho ritrovata in un diario che teneva lei.”
Mh, capito.”
Il giorno che, aiutandola a sistemare casa, lo ritrovai tra vari cimeli non voleva nemmeno farmelo leggere.”
In effetti, per l'età che aveva è strano che tenesse un diario.”
Comunque, devi sapere che le è successo uno dei primi giorni di scuola!”
Ossia?”



Non so se avete presente tutte quelle volte che siete appena usciti contemporaneamente dalla fase REM e dal sonno in generale. Ogni volta che succede a me, divento un vero e proprio zombie, forse un po' più brutto del custode del cimitero di questa città. Il mio cervello, appena caricato completamente, si attiva, inizia a pensare in maniera frenetica. Ogni pensiero che viene generato diventa olio buttato sul fuoco, ne genera altri tre, minimo. Se però il cervello è così attivo, il resto del corpo è peggio di un motore incidentato: bloccato, o anzi, morto, perché non prova assolutamente a partire. Piano piano però qualcuno poi ripara i pezzi rotti, e la prima cosa che si aggiusta sono i sensi.
Un odore molto pesante di polvere violentò il mio naso e mi destò completamente dal sonno. Mi accorsi quindi dove stavo messa: ero su un piccolo divanetto in eco pelle, che mi stava causando anche un po' di caldo. Non riuscivo ancora a vedere perfettamente, perché le mie palpebre faticavano per aprirsi. Il loro motorino d'avviamento era un po' vecchio. Ma alla fine funzionò. Ero in un posto abbastanza oscurato. C'erano però delle finestre chiuse dalle quali spirava un fascio di luce. Mentre mugolavo aspettando che la mia lingua si riprendesse dall'intorpidimento del sonno, le mie orecchie mi avvisarono di due cose strane: qualcuno, in qualche casa un poco lontana da lì ascoltava una qualche canzone: e poi qualcosa produceva una strana serie di colpi, che provenivano dal soffitto. Non avevo idea di cosa potesse essere. Sembrava che qualcuno al piano di sopra si divertiva a tirare una palla da tennis verso il pavimento. Pensai fossero i miei genitori.
“Ma che state facendo!?” tentai di urlare. Ma, se la lingua avesse ripreso a funzionare non si poteva dire lo stesso delle corde vocali. Uscì più o meno un guaito. Allora attivai tutti i miei nervi per alzarmi. Questi prima risposero con un qualche tentennamento mostrato da alcuni brividi. Poi riuscirono a lavorare abbastanza per condurmi fino alla finestra senza cadere. La aprì, e ovviamente fu bianco. Solo bianco. I miei occhi ancora non si erano abituati alla luce. Volevo cercare di capire in che momento del giorno si trovasse, ma fu una causa persa, ero abituata a riconoscerlo da casa mia, dalla vista che il mio appartamento mi offriva. Qui invece ero in una casetta singola, che stava a livello della strada, ed ero circondata da tante altre case intorno, quasi come le villette a schiera.
BUM
Però riuscivo a sentire meglio che musica stesse ascoltando questa persona lì vicino.
BUM
Ma...ok, questa sarà una signora di una certa età...ma in effetti pure io che riesco a riconoscere “Il mare impetuoso salì sulla luna, e dietro una tendina di stelle...”...si parla della fine degli anni '80, non esistevo ancora, ma mia madre mi ha fatto imparare a riconoscere certe canzoni.
BUM
Però ora sapevo che era mattina: infatti le signore di una certa età non mettono mai musica dopo pranzo. O almeno, nel mio vecchio vicinato era così.
BUM
Ok però, che caspita è questo tonfo?
Cercando una risposta, girovagavo nella stanza, e trovai una risposta. Una risposta, in tanti sensi negativi.
BUM
Lasciato su un mobiletto vicino all'entrata della stanza, un bigliettino scritto dai miei mi spiegava cosa era successo la notte prima quando cercavamo di arrivare, che i miei erano usciti per vedere il nuovo posto di mio padre e che sarebbero tornati solo per pranzo. Ma quindi cos'è questo rumore? Un gatto?
BUM
Beh, deve essere un gatto scemo per cascare così più volte. In fondo ce ne sono a miliardi, di gatti scemi.
BUM
E se non fosse un gatto?
“Non resta che scoprirlo!”
Avevo fatto tutta la coraggiosa nel dirlo, ma avevo il cuore in gola solo all'idea di lasciare quella stanza, alla quale ormai mi ero abituata. Anche perché fuori da quella stanza ci stava un corridoio strettissimo, con una scala minuscola che saliva al piano di sopra.
BUM
Con la poca luce che filtrava dalla finestra aperta, riuscivo a vedere il colore delle pareti di quella casa.
”Arancione! Ma non è un colore schifoso, specie in una stanza angusta come questa?”
BUM
“Bene, devo salire.”
A metà scala riuscì a intravedere il pianerottolo del piano di sopra, quando
BUM
un altro tonfo mi impaurì un po', e volsi lo sguardo verso i gradini. Solo in quel momento mi accorsi che non erano di legno come quelle del soppalco di casa vecchia, queste erano in...marmo? Forse. Strano che non mi facessero venire i brividi. In effetti, ero a piedi nudi.
BUM
Mi feci forza, e mi avviai verso la fine delle scale. Qui ci stava una piccola stanzetta che introduceva ad altre tre camere. Una sola era però con la porta aperta, e da quella veniva l'unica fonte di luce in quel luogo.
BUM
Ma la stanza che dovevo controllare era quella di fronte a me. Avevo capito che quel suono proveniva da lì.
BUM
Stava per aprire la maniglia, quando un sussurro la bloccò. Sentì una voce che sospirava...o forse...cosa poteva fare?
BUM
Forse piangeva. Però la sentiva ancora più forte.
BUM
Tutta l'ansia derivata da quella situazione m'aveva confusa, non riuscivo a capire se derivasse sempre da quella stanza. Ormai non riuscivo a sentire distintamente nemmeno quei soliti tonfi, anche se ebbi l'impressione che andavano ad aumentare.
BUM
Di nuovo quella voce. Una specie di gemito. Oppure...
Il sudore mi aveva ormai imperlato la fronte, e anche il viso, non coperto dai miei lunghi capelli castani.
BUM
Che quella voce fosse in realtà una risata? Mi venne il presagio che qualcuno mi osservasse e ridesse di me. Mi sentii scrutata fin dentro, come se qualcuno leggesse in me dell'ansia che avevo e ne ridesse.
BUM
Ma no, non ho mai accettato molto bene gli sguardi indagatori di tante persone, figuriamoci un'entità che mi legge dentro e rida di me.
“Vediamo cosa cazzo c'è dietro a questa porta!”
BUM
Il tonfo, ormai diventato quasi un suono continuo, si bloccò. Restai accecata un'altra volta, riuscivo solo a vedere i contorni di varie cose. Una finestra, un mobile, un letto, due corpi...forse morti?
“G-giad...a”
Ripreso l'uso della vista, pensai che avrei voluto rimanere cieca per una decina di minuti. Penso che nessun essere vivente vorrebbe vedere una scena simile.
“MA, CRISTO, VOI DUE NON ERAVATE FUORI?!”
“M-ma Giada, stamattina siamo usciti infatti, siamo tornati una mezz'oretta fa!”
“Ma come?! Io...che ore sono!?”
“Quasi l'una...”
“Ah...beh...e non mi avete svegliato per pranzare?”
“Abbiamo mangiato fuori e abbiamo preso anche qualcosa per te!”
“E-ecco...”
Solo allora mi ricordai che stavo parlando con i miei che erano appena stati interrotti dalla figlia mentre facevano sesso.
“CAZZO, ME NE VADO!”
Chiusi la porta piuttosto violentemente. D'altronde, il trauma psicologico che avevo appena subito era violentissimo! Scesi con tanta velocità che, vista la poca luce, ero sul punto d'inciampare. Tornando nella stanza di sotto notai che dietro il divano dove dormivo ci stava una cucina con un tavolo al centro. Con qualcosa da mangiare incartata. Comprata da chissà quale rosticceria rustica che si trovano qui in giro. Ma, non ho proprio fame. Quasi a impulso, richiusi con una manata la finestra che avevo aperto e mi raggomitolai di nuovo nel divano, ora che tutto era tornato buio.


Questa cosa che mi è successa la mattina dopo che siamo arrivati è stata una piccola parentesi un po' cliché, ma non guastava.
Ma parliamo un po' dei giorni seguenti.
Lo sapevo che non sarebbe stata la cosa più facile del mondo. Dico, una che abitava in città, abituata ai casini, si ritrova a passeggiare per dei corridoio perennemente vuoti, eccetto durante le entrate, le uscite e le ricreazioni. Mai nessuno che si ficchi in un angolino per mettersi a parlare al cellulare, per amoreggiare, o per rollarsi una canna. Obscure, proprio. Non c'è nessuno, se non i mostri e qualche povero bidello che farà una brutta fine. Però, i miei compagni di classe non sono alla fin fine così male. Lo riconosco, me li aspettavo mooolto peggio, mi aspettavo qualcosa del tipo “ragazze tutte uguali che passano il tempo a parlare di tutti(non di tutto, di tutti) distinte invece dalle altezzose che sanno parlare solo di sé“ insieme a “ragazzi che sanno parlare solo di...”
...ora che ci penso, ragazzi in classe ce n'erano pochi, molto pochi. Anche qui succede che a volte in una classe prevalga il sesso debole anziché l'altro. Pensavo che qui quando in una famiglia nascono solo o troppe figlie femmine si veniva ripudiati. Non sembra essere così. Comunque, quei tre ragazzi che ci sono mi sembrano a posto. Non stanno ore a parlare di schedine e fantacalcio; sanno, più o meno, fare la matematica e l'italiano; la loro cultura musicale non si ferma alla disco. Devo ammetterlo, sono troppo sorpresa. Anche se, in realtà, c'è un altro ragazzo in classe che mi hanno detto che non viene quasi mai.
“Un tipo molto, troppo strano, nessuno di noi è mai riuscito a comprendere appieno che ha in testa quel ragazzo. È proprio lui che non vuole farsi comprendere, però sembra stare bene nella sua solitudine. Inoltre nessuno lo vede mai in giro, a parte una bottega verso la sera, oppure alcune mattine qui a scuola. È pure un tipo molto tranquillo, ma non si fa mettere i piedi in testa.”
Mi era venuta una grandissima curiosità di conoscerlo. Durante un cambio dell'ora mi avvicinai al suo banco senza sapere nemmeno poi così bene il motivo. Lessi una cosa, credo che l'avesse incisa nel legno lui:”È meglio stare fermi a fissare il sole che tramonta, oppure girarsi e muoversi per farlo morire per bene?”
Ero stranita, ma piuttosto divertita. E chi è questo poeta? Mi stava venendo ancora di più la voglia di conoscerlo!

Commento dell'autore: beh, anche questo capitolo è andato. Ovviamente il capitolo originariamente, come sempre, doveva essere un po' diverso, e manca (quasi) del tutto la componente paurosa. Mah va beh, spero resti comunque accettabile! ^_^
Non vi dimenticate la recensione se vi va, blablabla, e stay tuned! :D

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Capitolo 4
*** Presenza nuova. ***


E così mia nonna sentì per la prima volta parlare del nonno.”
Mh, e il nonno come conobbe tua nonna?”
Ci arrivo subito: lui conobbe Giada la sera stessa in cui fece quel “sogno” del quale t'ho parlato.”
Ma, aspetta, non aveva dormito? Non era notte quando successe quel fatto?”
Aspetta, aspetta! Fammici arrivare!”



Casa di Lucio era sempre ottenebrata, da molte cose. Possedeva, presa in eredità dai suoi genitori biologici, una vera e propria villetta, che dispone, oltre che di varie stanze, di un piccolo giardino che delimita l'abitazione. Erano stati piantati dai suoi alcuni alberi che, erano cresciuti davvero tanto, e oscuravano quasi tutte le finestre. La cosa normalmente avrebbe infastidito un po' tutti, ma a lui invece no. A lui non dava problemi il fatto che nelle stanze di casa sua non battesse mai il sole, anzi, si sentiva sollevato della cosa. Alcune domeniche Lucio le passava la giornata a sistemare il giardino, in modo che gli alberi potessero mantenersi sani e rigogliosi. Guardava quegli alberi come fossero una sorta di barriera che riuscisse a isolarlo dal mondo esterno. Non si poteva dire semplicemente che si tranquillizzava del fatto di non essere osservato. Lui abitava in un punto di campagna, molto lontano dalla città, nessun vicino residente nel palazzo di fronte poteva spiarlo mentre lui era impegnato nelle sue faccende domestiche, in quelle azioni che ormai era talmente abituato a fare da solo, senza disturbo alcuno, da renderle vere e proprie cose “intime”, “da nascondere”. Lui vedeva ormai, nella dedizione col quale affrontava le pulizie e simili, una bellezza che doveva celare al mondo, perché aveva paura che il mondo non l'avrebbe mai compresa. Quando riesci a fare qualcosa che consideri tua, che senti che ti appartiene, e che consideri bella, come fai ad accettare una critica da parte di chiunque altro? Per te una qualsiasi critica sarà solo una grandissima incomprensione. E non la manderesti giù. Per nulla al mondo. Al massimo faresti finta.
Però ci sarebbe da chiedersi come mai Lucio pensava tutto questo riguardo delle fottutamente semplici faccende di casa. E lui queste domande se le faceva. E infatti, durante alcuni periodi, ripudiava le faccende di casa, perché lo avevano distorto da quella che dovrebbe essere “la bellezza”. Deve essere qualcosa di un po' più complesso! Qualcosa di più difficile da fare, magari un po' più profondo! Ecco che, durante questi periodi, nel suo tempo libero, Lucio cercò di imparare le abilità manuali più svariate. Pittura, scrittura, disegno, scultura, musica di tantissimi generi, e così via. Ha fatto tante cose riguardanti questi ambiti, con risultati più o meno soddisfacenti il suo ego. Ogni tanto li lascia perdere, poi a volte li riprende con più voglia di prima, e gli va bene così.
“Non come quei fessi dei miei, che non fanno altro che lavorare, scordandosi di cosa abbiano intorno. Di cosa ci è possibile fare! Ma ovviamente, loro ciò me lo volevano impedire, visto che per la società non andava bene!”
Di quali genitori parlava? Sicuramente parlava di quelli adottivi, mentre il suo viso, scavato dalla paura di quello scherzo che la sua stessa mente gli aveva fatto, facendogli vivere quelle scene, si specchiava nel vetro del bagno, illuminato solo da una piccola finestrella mezza aperta.




Definirli genitori è una barbarie. Non capisco nemmeno come sia possibile che quei due possano aver fatto richiesta per adottare qualcuno. Madre natura era stata saggia con tutta l'umanità, aveva privato della fertilità quel sottoprodotto che io avrei dovuto definire padre. Ma loro si adoperarono comunque per avere l'affidamento di qualcuno. Boh, forse erano davvero convinti di fare del bene adottando un bambino. Accoglievano nel loro caldo nido un povero cucciolo al quale il nido lo hanno distrutto per dargli tutto il calore che potevano. Ridicoli. Io lo immagino bene quale sia invece la verità! Sicuramente è partito tutto da quella megera, che voleva per forza avere un figlio, giusto per soddisfare il suo orgoglio! Lei, che veniva da una famiglia che aveva avuto sempre a cuore la prole, aveva fatto l'errore di sposarsi con un infertile, con uno scarto, con un sottoprodotto della società. Perché semplicemente questo è mio padre. Lui è la persona più vuota che io abbia mai conosciuto, senza alcuna aspirazione, senza alcun aspettativa, senza niente. Vuoto come lo sperma che eiaculava quando cercava di concepire con mia madre un figlio biologico. Una persona al quale non ha mai importato niente di nessuno, che semplicemente lavora in maniera sterile, che un mulo piange a sentirsi definire così. Lavora per procacciarsi il pane, non perché lo ritiene un dovere della società. È ovvio quindi che veda il lavoro anche come un peso. E, se è costretto a lavorare, è giustificabile il comportamento che tiene a casa. Lì vuole tutto, come dice lui, e sul momento. Subisce mobbing al lavoro? Si sfoga con noi, mi sembra giusto. Cosa si può pretendere da una persona come lui? Io immagino che, prima della mia comparsa, si comportasse nella stessa maniera con mia madre. Ho incominciato a sospettarlo da quando ho scoperto che mia madre aveva subito una operazione al ginocchio per una caduta dalle scale. Probabilmente causata da una qualche lite violenta con mio padre. In sostanza, mi picchiava, e c'andava giù pesante. Vista l'età che avevo, non ci metteva niente a sollevarmi dal pavimento. E quando lo faceva, sapevo che me ne avrebbe date di santa ragione. Incominciava con uno schiaffo, riusciva ad agitare quella mano tanto lercia e goffa che si ritrovava in modo da farmi male. Poi, normalmente, passava alle ginocchiate. Una volta arrivò a centrarmi in maniera fin troppo precisa i testicoli. Quella volta l'inguine divampò come una fiamma per un giorno intero, e pure io mi muovevo quasi come fossi una fiamma al vento, in maniera scomposta. Un giorno, avevo quindici anni, e s'incazzò troppo per il televisore, che quella sera aveva deciso di non funzionare. Aveva in mano una bottiglia di birra ormai vuota, e la spaccò sul tavolo, convinto di bagnare quella bottiglia non più del luppolo della Heineken, ma del mio sangue. Ma quella volta non glielo permisi. Quella sera non fui io ad andare all'ospedale con una emorragia, ma mio padre, perché riuscì a bloccargli il braccio e a girare il pugno verso di lui, facendo conficcare tutte le schegge sul viso, negli zigomi, nel setto nasale, perfino nell'occhio destro, che incominciò a piangere sangue insieme alle altre ferite.
Portato all'ospedale, quella notte, io, preso da una calma e folle ira, meditai su come potergli fare del male. Di notte in ospedale non c'è quasi mai nessuno lungo i corridoi dei reparti, al massimo qualcuno al pronto soccorso. Il personale dell'ospedale avrebbe dovuto farci delle domande per capire per quale motivo mio padre era sfigurato in quel modo, e perse tantissimo tempo con mia madre. Nel mentre, io stavo andando ad uccidere mio padre. L'infermiera che controllava i reparti di quella notte non mi disse nulla, avendogli fatto vedere il foglio che m'identificava come figlio di un paziente che era appena stato sistemato lì. Entrai nella stanza, e vidi finalmente quella sottospecie di ibrido sterile tra un umano e il nulla che era mio padre. Mi sembrò quasi che, mentre dormiva, il suo sonno era, come dire, appagato dal fatto che di giornate e notti simili ne avrebbe avute un altro po'. Non avrebbe dovuto lavorare durante quei giorni. Questo pensava mio padre. E io dovevo ucciderlo, in nome della dignità che tutti i pazienti di questo ospedale avevano, sopportando la loro degenza nella speranza e, per i più fortunati, nell'attesa di guarire. Come notai che l'infermiera si era allontanata un attimo dalla sua scrivania, per andare a dare un'occhiata in un altro reparto, sbloccai le ruote del letto, e lo trascinai con tutta la flebo fuori dalla stanza. Diedi un'ultima occhiata alla stanza, e notai le sigarette di mio padre, delle semplici Merit gialle. Le presi, controllando che ci fosse l'accendino e che funzionasse, e poi condussi mio padre in ascensore. Senza scordarmi di prendere un paio di forbici dalla scrivania dell'infermiera. Ora che ci penso, persi un paio di minuti a cercare scotch e una siringa, nei cassetti dietro il bancone. Una volta dentro, schiacciai un tasto a caso, non m'importasse quale. Contai fino a cinque, poi bloccai l'ascensore. Notai una cosa che non vidi mai in un ascensore: il muro che separa due piani. Si erano aperte le porte. Mi stupì, ma lasciai perdere per concentrarmi su mio padre. Mi ero purtroppo scordato dello scotch per non dover sopportare le sue urla, ma provai a sopperire con un po' di garze sterili che c'erano in un piccolo contenitore attaccato al letto. Guardai la siringa. Una siringa dovrebbe bastare. Attaccai con cura le braccia di mio padre alle sbarre del letto.
“Ma, Dario, perché stai trasportando un paziente?”
Dario? Chi cazzo è Dario? Alzai lo sguardo verso il tetto della cabina, e capì che l'infermiera aveva notato che in una stanza mancava un letto.
“No, ma avevo sentito l'ascensore che si muoveva e volevo controllare, ora provo a chiamarlo.”
Strabuzzai gli occhi, e ringraziai non so nemmeno cosa per il fatto che si erano aperte le porte dell'ascensore. Spinsi il letto verso di queste, in modo che se qualcuno chiamava l'ascensore, questo rimanesse bloccato.
“EH NO CHE MI RICHIAMI L'ASCENSORE, STRONZA!”
“Maa, c'è qualcuno bloccato lì dentro?!”
“SÌ, MA FIDATI CHE NON HO LA MINIMA VOGLIA DI USCIRE PER UN'ALTRA DECINA DI MINUTI, IL TEMPO CHE FACCIO DUE CHIACCHERE CON UNA FECCIA DI PADRE!”
“Ommioddio -Lucio immaginò che l'infermiera mentre dava l'allarme- c'è un pazzo in ascensore con un paziente della 4, il sig. Interito!”
Interito, ecco l'odioso cognome che mi hanno appioppato quando sono stato adottato. Un marchio a fuoco che non andrà mai più via.
Nel frattempo mio padre si stava risvegliando, penso a causa di tutte le urla.
“M-ma..”
Levai la flebo dalla cannula, lasciando questa nel braccio. Poi riempì d'aria la siringa, e la sistemai nella cannula. Senza spingere lo stantuffo però, ancora non era il momento.
“È...è tutta colpa tua, disgraziato!”
Mio padre era completamente intorpidito da tutti gli anestetici che gli avevano dato. Non sarebbe riuscito a muoversi, né a comprendere dove si trovasse. Probabilmente adesso, vedeva le pareti rosa.
Ebbi tutto il tempo di uscire una delle sue sigarette, accenderla, e farmi un paio di boccate. Nonostante non fosse la mia prima volta, mi dovetti sforzare per non tossire, e non potei fare a meno di piangere. Non le fumavo regolarmente, non ero abituato. Guardai la nube di fumo che sbuffavo allegramente, in mezzo a tutte le urla di soccorritori che volevano salvare mio padre. Perché lui? Lui è il cattivo, perché non salvate me?! Ma, in fondo, non lo aveva fatto nessuno in quei lunghi dieci anni che rimasi con lui, cosa potevano fare ora se non ignorarmi. No no, anzi, considerarmi il cattivo. Poveri dementi.
“Fine delle attese, paparino. Mi dispiace per il tuo occhio, l'hai voluta tu. Ora farò pure una bella chiaccherata con l'altro.”
Ficcai tutta la sigaretta nell'occhio ancora sano. Spinsi, e spinsi, cercai di spremerla per bene, quella sigaretta, fino a quando, non mi ritrovai a premere io stesso contro l'occhio sinistro di mio padre, col pollice.
Inutile descrivere i rantoli lamentosi di mio padre. Come qualsiasi cosa uscisse da quella fogna che si ritrovava per bocca. Da un occhio uscivano lacrime, dall'altro fumo, che puzzava tantissimo di bruciato. Mentre dalla bocca, le garze ormai tutte sbavate bloccavano le urla e le modificavano in gemiti. Gli stavo friggendo un occhio. E sorridevo mentre lo facevo. Quell'uomo mi ha distrutto dieci anni, io gli distruggo gli occhi. E non solo. Mi venne questa brillante idea quando notai una lattina dentro l'ascensore. Un bellissimo scherzo del destino. Le lattine possono tagliare quasi quanto il vetro. La colsi da terra, e cercai di sformarla con tutto lo sforzo possibile per romperla in due. Ci riuscì, si divise in due pezzi in maniera talmente violenta che mi aprirono uno squarcio sul pollice sinistro.
Fissai furioso mio padre. Ansimava ancora per il dolore all'occhio, percuotendo la testa contro il letto, troppo intorpidito per muoversi. Mi stupivo di come, con tutti quegli scossoni, la siringa fosse rimasta fissa nella cannula. Li fanno bene questi strumenti.
“Forse il tuo schifoso sangue si miscelerà al mio. - Dissi mentre lo stavo denudando. - Spero che non succeda, mi dovrei portare questo brutto peso per sempre.”
Evitai di toccargli quell'inutilissimo membro, semplicemente gli schiacciai contro il filo del pezzo di latta e cominciai a girare.
E ogni giro che facevo erano ulteriori gemiti soffocati che volevano urlare.
E ogni giro che facevo erano altri schizzi di sangue sparsi ovunque.
E ogni giro che facevo erano altri pezzi di membro tagliati.
Non mi sforzai di tagliarglielo tutto. Preferì semplicemente lasciargli il pezzo di lattina lì nella carne, col dolore che pulsa mentre lui moriva. Andava bene. Infondo, non è che il suo pene era molto più utile del pezzo di latta col quale lo avevo tagliato.
Afferrai la siringa e incominciai a schiacciare lo stantuffo.
Giù, fino all'inizio della cannula, mente mio padre strabuzzava gli occhi per l'embolia che gli stava per bloccare il cuore. Alla fine quegli inutili occhi avevano incominciato a fissare smorti un punto immaginario, e capì che per lui ormai c'era il buio.


Mentre Lucio ripensava alla vicenda, a suo padre, e a quello che in realtà non successe, si era lavato la faccia e si era ridisteso sul letto. Ovviamente non aveva mai ucciso suo padre in quella maniera, ci stava pensando da solo, fumando come solo un turco sa fare. “Che ore sono?” si chiedeva. Le sei e mezza di sera. Da quando sfruttava il sonno polifasico, Lucio doveva sempre guardare l'orario una volta risvegliato. Ad ogni risveglio poteva essere mezzogiorno, come le quattro di mattina. Piccoli problemi, in confronto alla possibilità di riuscire a dormire anche tre o quattro ore in meno rispetto al normale.
“Mh, mi sa che è meglio se vado a comprare un paio di cose per cena.”
“Lucio, comprati una pizza invece!”
Di nuovo, quella voce, che si faceva risentire. Passava sempre più tempo e questa voce diventava sempre più insistente. Una volta lui riusciva semplicemente a percepirla per pochi secondi, una volta ogni tanto, dando la colpa alla sua immaginazione. Poi questa voce si fece sempre più chiara e definita fino a fargli capire che voleva parlare con lui. Ma gli parlava sporadicamente, e solo quando lui non faceva nulla, preso dai suoi pensieri. Ora invece diventava sempre più frequente, e lui non sapeva se considerarlo un guaio.
“Non mi va, ne ho abusato anche troppo questa settimana, Scuro.” disse mentre si mise seduto mettendosi le scarpe.
Non sapeva come chiamarla quella voce, ma gli è sempre sembrato che provenisse dagli angoli bui della casa. In italiano “scuro” non si usa come sostantivo per indicare il buio in sé, ma nella lingua locale sì. Inoltre quel nome le ricordava una figura, vista in qualche anime che lui tanto ama, e siccome anche la sonorità di quella voce le ricordava quella figura, pensò di prendere due piccioni con una fava chiamando quella voce Scuro.
“M-ma, io non voglio stare sola proprio ora, che inizia a tramontare!”
“Da quando in qua un “padrone” ha paura del tramonto?”
“Da sempre, Lucio, non ti credere che tutte quelle cose che non riesci a comprendere siano onnipotenti o chissà che...”
“Non che avessi mai avuto voglia di comprenderti, né che tu mi abbia mai aiutato a comprenderti.”
Un gran fracasso fece rimbalzare Lucio dal letto: un cassetto della sua scrivania si era aperto e si era girato su sé stesso, rovesciando tutto quello che c'era all'interno, ossia, qualche piccolo cacciavite, dei fazzoletti, chiavette USB, un piccolo hard disk esterno, e una pipetta di legno.
“Lucio, non farmi seccare! Peggio, offendere!”
Sembrava quasi detto tutto in tono scherzoso, ma l'azione fatta da Scuro lasciava intendere qualcos'altro. Una delle poche cosa che impauriva ancora Lucio su quella presenza era proprio il fatto che non sapeva come comportarsi con Scuro. E il fatto che Scuro provasse sempre più volte a parlare con lui non aiutava.
“Ok, lo so che mi hai detto più volte che io devo dare un interpretazione su di te!”
“Sì, e quando te l'ho detto mi hai risposto solo dicendo che magari eri diventato pazzo. Mi hai offeso quella volta lo sai? Cos'è, non sai fare altro che offendere?”
“Mi dispiace, ma sei il “padrone” di un luogo il cui proprietario non è molto eloquente.”
“Smettila di chiamarmi padrone!”
“Perché, cosa sei? Non sei uno di quei “padroni di casa” tanto raccontato dai vecchi del posto? Al massimo vuoi che ti chiami al femminile? “Padrona”, potrebbe pure starci.”
Dopo quest'ultima risposta stava per essere colpito dal cassetto finito prima per terra, che senza un motivo preciso aveva preso il volo, tentando di arrivare sulla sua faccia. Lucio riuscì a evitarlo.
“Lucio, vedi di uscire e fare quello che devi fare!”
“Ok, “padrona”!”
“FUORI!”
Un vento furioso aprì una finestra e gli sbatté in faccia il portafogli, gonfio di sottilissime banconote da dieci e venti euro.
Meglio se se ne andava. E se ne andò. Chiuse la finestra e raccolse la pipetta di legno per terra. Scese velocemente le scale che conducevano all'ingresso, frugandosi nelle tasche e cercando le chiavi. Tastò le tasche dei jeans trovandole. Passò quindi a cercare altre cose. Si ritrovò un pacchetto sul marrone senape in un'altra tasca. Nemmeno guardò la marca, ma, ricordandosi dei suoi gusti, sapeva che quello era tabacco Allegro. Andava bene. Si appoggiò alla porta di casa per preparare il tutto. Aprendo il pacchetto, vi trovò di dentro il curapipe.
“Per fortuna!”
Se si fosse dimenticato dentro il curapipe, non si sarebbe scomodato per prenderlo: troppa pigrizia. “E poi Scuro è troppo incazzata.” pensò.
Incominciò a buttare pizzichini di tabacco dentro la pipa, schiacciando ogni tanto col curapipe. Si tastò ancora per l'accendino.
“Merda, è dentro.” Si girò disperato verso la porta, ma non pensò mai di entrare. Piuttosto girò nuovamente i tacchi e lasciò perdere. Camminò lungo il vialetto, quando si fermò a osservare la sdraio che si trovava a metà strada tra il cancello e l'ingresso di casa. Notò una macchia della quale non si era mai accorto prima. Si avvicinò, e ci spinse la mano sopra. Morì di felicità quando notò che erano dei fiammiferi.
“Mi si è aperto il cuore! Ecco dove vi avevo dimenticato domenica!” disse tutto frenetico mentre ne usciva uno e cercava di fregarlo contro il fosforo sulla confezione.
“Daii, mica ha piovuto in questi giorni!”
Le sue speranze non furono vane. Uno scoppiettio preannunciò la comparsa di una fiamma. Poteva fumarsi la sua pipa. Una volta accesa, s'incamminò verso la supermercato che stava a dieci minuti da casa sua. Non poteva smettere di pensare alla scenata fatta da quella specie di spirito. Lui le aveva detto scherzosamente di essere pazzo, ma non avrebbe avuto motivi di pensarlo per davvero. Ma, in fondo, sapeva di non essere pazzo, perché non sentiva voci e non vedeva oggetti librarsi in aria da soli una volta fuori da casa. E, soprattutto, sapeva che quella casa era sempre stata strana. Aveva abitato fino ai suoi cinque anni in quella casa, tante cose successe lì gli sembravano fin troppo strane, al punto che i genitori non lo credevano. Però, mai tutte quelle che una volta si potevano definire solamente “presenze” si erano materializzate così, in una voce, in un figura tangibile, anche se non visibile. E qui arriviamo alla parte che incuteva più timore in Lucio. Sicuramente.
Il problema era che lui aveva dato un nome e un “volto” a Scuro.
Il nome stesso, Scuro, lo ha dato lui a lei.
Non ne comprendeva la natura, e gli ha dato quindi forma umana.
Sbuffò ancora con la piccola pipa fino a quando non vide supermercato.
“Sembro uno di quei greci che dava forma e sessi alle divinità.”
Si apprestò a svuotare la pipa ormai spenta, quando noto una figura mai vista lì prima. Una ragazza. Aveva dei lunghi capelli castani che scendevano giù fino alle spalle. Era alta un po' meno di Lucio, slanciata e abbastanza magrolina, senza sembrare una modella delle case stilistiche.
La segui con la coda dell'occhio mentre dava un'occhiata al tonno. Pensò nel mentre a sua madre. Sua madre voleva stare sempre attenta a cosa comprava, se lo ricorda. Per esempio, diceva sempre che preferiva prendere la frutta secca dell'azienda locale anziché quella del supermercato, perché la nostra si sapeva che era fatta qui.
Un qualche annetto fa, ricordandosi della cosa, il ragazzo guardò con attenzione le diciture messe dietro la confezione: la frutta secca era definibile “locale” solo se ti trovavi in Iran. Per carità, nulla contro l'Iran, ma quella del supermercato almeno si sapeva fosse italiana.
“Non è sicuramente una delle compagne mie di classe, ne sono certo...chi è?”
Incominciò a ripulire la pipetta per entrare dentro. Non appena entrato, vide quella ragazza che girava un po' spaesata lungo alcuni scaffali. Le squillò il telefono. Lucio spalancò la bocca.
“La levan polka come suoneria?! Questa tizia non è di qua.” pensò.
“Papà, chi vuoi che sia, Giada!”
"In che maniera angelica teneva il telefono..."
“Ma no, è perché ora ti sto aspettando facendo un giro nel supermercato vicino la stazione, e sono annoiata.”
"Che modo elegante di appoggiarsi a un muro..."
“Ok, ok, stacco, forse che hanno qualcosina d'interessante anche qui! Ciao!”
Cosa le poteva interessare? Quali potevano essere i suoi gusti? Cosa poteva mai trovare qui?
Li brillarono gli occhi quando notò che la ragazza di nome Giada si era avvicinata a uno scaffale tutto dedito ai fumetti. I più comprati erano fumetti americani, e infatti c'era poca roba oltre a questo, ma lei puntò a un albo di Dylan Dog.
“Questi sono i suoi gusti?! Sembra anche carina per scelte e carattere. Dovrei riuscire a conoscerla meglio!”

 

Commento dell'autore.
UUuddio, credo di averci dedicato troppo, troppo e dico troppo per scrivere questo capitolo. Dovrebbe essere una cosa positiva, almeno credo. xD Sto seriamente pensando di stilare anche una piccola linea degli eventi, perché sennò rischio di sfasciare tutto. Vedremo. Come al solito, lasciate una recensione se vi va. Se non vi va, pazienza. A presto! :D

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Capitolo 5
*** Ultimo atto d'amore. ***


E in questo modo invece lui vide lei.”
Sì, ma non si sono nemmeno parlati!”
Beh, questo è vero.”
Alla fin fine lei ancora ha sentito parlare di lui, e lui l'ha appena intravista in una bottega!”
Eh, lo so, lo so, ma le cose sono andate proprio così...ora ti racconto invece della prima volta che si sono parlati. Successe una cosa piuttosto strana.”


Io ero ancora abbastanza sballata con gli orari di mio, si ci doveva pure mettere mio padre che chiamò l'idraulico alle sei di mattina. Ma dico io...
La casa dove c'eravamo trasferiti ha fin troppi difetti: è maledettamente piccola, le sue pareti sono troppo sottili, dipinte di un colore che non dovrebbe assolutamente stare in una casa. Bah. Il bagno della mia stanza ha pure il mosaico! Questo è forse l'unico anello di congiunzione tra il vecchio di questa casa e le recenti ristrutturazioni che ha subito: il mosaico nel bagno.
Il mosaico nel bagno è una delle cose più maledettamente sbagliate di questo mondo. Quando tu vai in bagno, a meno che non ti devi preparare per qualcosa, ti devi rilassare: una doccia, o un bagno, a seconda della disponibilità. Il mosaico causa l'effetto opposto! Sforza gli occhi che tentano di ricostruire una figura in quell'insieme di tasselli. Per fortuna questo mosaico messo in bagno non deve creare una figura, il cervello dovrebbe calmarsi in questo senso...
Comunque, grazie a questa grandissima idea di mio padre di chiamare un idraulico a quest'ora mi risvegliai piuttosto presto. Che poi come lo trovò un idraulico? Stavamo lì da pochissimo tempo, e già mio padre conosceva idraulici che gli facevano il favore di venire a orari improponibili. Mah...
Comunque oramai ero attiva, ne approfittai per farmi una passeggiata tranquilla. Una cosa davvero carina di questo posto è che la mattina presto posso rilassarmi dolcemente con una semplice passeggiata: le strade sono completamente deserte, eccetto i tipi della nettezza urbana che, forse perché ancora troppo assonnati, nemmeno considerano anima viva; tutto è ancora dipinto di blu, il blu del cielo che non vede ancora il sole, e tutto sembra un grande mare tranquillo dove si ci può sentire in pace con sé stessi. Mi preparai lo zaino e uscii di gran fretta. Non feci colazione a casa: come mio padre, anche io ho fatto qualche conoscenza, e ho conosciuto il proprietario di un bar molto carino. Riferito al bar. Lui, sì, è carino pure, ma non dice niente, almeno per ora, anche se potrei cambiare idea. Il bar si trova non molto distante dalla scuola, rimangono un cinque minuti a piedi, perciò mi sa che non ci starò tanto, giusto il tempo che salga il sole. Dopo due passi, riuscì ad accorgermi dell'aria fresca e libera che si respirava in quel momento. Anche quel paesello si riempiva di smog nell'orario di punta, ma la mattina sembrava di essere nel 1800, quando si andava ancora con le carrozze. Nel punto dove abitavo io ci sono molte scale: praticamente queste case furono costruite tutte sopra le colline che circondano la città, che sono in tutto quattro. C'era una di queste colline a dire il vero, che fino al ventesimo secolo non era nemmeno stata considerata nell'impianto urbanistico. Ma all'inizio del secolo ci fu una grande alluvione che distrusse il centro storico che si trovava al centro, tra tutte queste colline, e quindi si costruì un intero quartiere su quella collina. Uno dei quartieri più brutti a mio parere. Non per qualcosa, ma in questo quartiere non c'è mai anima viva, se non intorno a una delle sue chiese la domenica, come se la chiesa stessa infondesse vita nel corpo dei suoi abitanti. Per il resto è deserto, quasi fosse un Silent Hill italiano.
Non che in quel momento del mattino il quartiere mio scherzasse: ma quello era legato al fatto che io ero abituata a vedere fin dalle cinque del mattino traffico davanti casa mia.
Dopo che passai il primo angolo, pensai a quello che mi aspettava quel giorno: avevo un compito in classe d'inglese, per mia grandissima fortuna. Con l'inglese me la cavo abbastanza bene, non c'era bisogno che studiassi per quel compito. Forse ero a rischio qualche interrogazione, ma non ci pensava più di tanto. Rifletteva invece sul rapporto che era riuscita ad instaurare con gli altri compagni della classe: nessuno sembrava avercela contro di me, nonostante provenissi da un'altra città, ma ancora tutti ovviamente faticavano un po' ad avviare una discussione interessante con me. Perché comunque, tra una sparlata e l'altra, gli argomenti interessanti c'erano. Poi c'era ancora quel banco. Quel banco eternamente vuoto. Un ragazzo che frequentava ufficialmente la scuola, ma che regolarmente la saltava. Un giorno chiesi a una professoressa se quel comportamento fosse una cosa accettabile. Facemmo una lunga discussione.




“Vedi, Giada, Interito, il ragazzo che sta in quel banco, non ha mai avuto una gran bella vita: i suoi genitori sono morti quando lui era piccolo, e i genitori adottivi non erano molto conosciuti per le loro gesta buone, quanto per le loro cattiverie dette un po' su tutti gli altri. Uno dei pochi parenti rimasti aveva cercato con tutte le sue forze di convincere il giudice a non farlo adottare alla famiglia Interito. E ci stava pure riuscendo...”
“E che successe?”
“Fu ritrovato in una scarpata insieme al cadavere di una ragazzina. Le voci corsero, e i più coscienti, come quel giudice, non le ascoltarono, ma si sarebbe generato un caos se quel giudice non avesse fatto adottare a quella famiglia, che risultava in regola, il ragazzo. Anche se trovarono solo il cadavere del parente, questo fu accusato da tutti di aver tentato uno stupro sulla minorenne.”
“Ma come?! Che prove c'erano?!”
“Chiaramente, nessuna: furono ritrovate le impronte di quell'uomo solo sul polso della ragazzina, e infatti non ci nessuna inchiesta. Ma per quelli del paese la condanna era già stata decretata e la pena pure eseguita.”
“Che cosa stupida...”
La prof mi guardò con gli occhi compassionevoli di chi sa come funzionano le cose in un posto e deve spiegarle a una forestiera.
“In paesi come questi le cose vanno così. Si formano ogni giorno dicerie, che generano regole non scritte, che tutti seguono. Chi non le segue, resta isolato dagli altri. Ovviamente la cosa vale più con le persone più anziane. I ragazzi di questo posto sono già pochi di loro, nessuno ne gioverebbe a isolare qualcuno.”
“Eccezion fatta per Interito?”
“Giada, Interito ha deciso lui per sé. Almeno qui, nessuno lo ha mai maltrattato, né ci sono mai stati episodi di bullismo o cose simili. Semplicemente lui non accetta una vita sociale. Non so bene il perché. Non ti credere che in una delle poche volte che viene non abbia provato a parlargli, ma non vuole aprirsi. La cosa sta bene a lui. I suoi voti, vista la sua situazione e nonostante le assenze, stanno bene alla scuola. Tutto è a posto così.”
Giada posò gli occhi in basso e inghiottì il boccone amaro che quel paese gli aveva riservato: giustizia finta, basata su dicerie e su pregiudizi. Del resto, lei era venuta qui con dei pregiudizi su questo posto, e ha scoperto solo che questi si sono uniti a tutti gli altri.




Pensavo a quando mai lo avrei incontrato a questo tizio. Non sapevo nemmeno il suo nome, durante il controllo delle presenze i professori nemmeno lo nominavano, e non mi è mai capitato di chiedere ai compagni.
Arrivai al bar. Entrai e mi accorsi che quel posto era ancora più freddo dell'aria mattutina che si respirava fuori.
“Ohi, Giada! Freddo eh?”
“Ni! Sì, c'è freddo!”
Il barista mi sorrise, mezzo indispettito dal nomignolo col quale mi divertivo a chiamarlo. Il suo nome di battesimo è Antonio, ma quelli di questo posto hanno una malsana mania con gli ipocoristici. E infatti anche lui non si presenta mai come Antonio, ma come Nino. Però questo soprannome a me non era mai piaciuto, piuttosto preferivo chiamarlo Ni.
“Eh, vedi che ora che inizia la bella stagione, inizia pure il caldo, e io non lo sopporto il caldo. Tengo il locale freddo con il condizionatore già ora. Ma tu invece, che ci fai qui a quest'ora?”
“Eh, vedi che mio padre ha avuto la bella idea di chiamare un idraulico a quest'ora.”
Ni se la rise.
“Vedi, il punto tuo è abbastanza conosciuto per avere sempre problemi di impianto idrico. Però se è l'idraulico che penso io riuscirà sicuramente a risolverti qualsiasi problema.”
“Sì, vedremo...”
“Allora, che prendi?”
“Fammi dare un'occhiata. E intanto preparami un caffè!”
Osservavo il bancone ancora pieno di cornetti e di flauti, di brioches e di trecce. All'improvviso un guizzo grigio si riflesse sul vetro del bancone, e mi fece girare dall'altra parte, dove ci stava una finestra a balcone che dava su un vicolo adiacente. Non vidi nulla, ma ero sicura che in quel momento da lì fosse passato un gatto, o qualcosa di simile. Forse era più grande, visto il tipo di finestra, poteva anche essere un cane grande che è passato lungo la strada. Mi avvicinai incuriosita verso la finestra, la aprì. Volsi la testa sia in una direzione che nell'altra. Nulla, nessun animale.
“Ma non me lo posso essere sognato, diamine!” pensai.
Il vicolo aveva molti altre stradine adiacenti, l'animale doveva essere finito in una di quelle.
“Scusami un attimo, Ni!”
Si girò ignaro di tutto, e vide la mia folta chioma aprirsi in una piccola volta davanti quella finestra a balcone. Ni avrà un trent'anni, ma quando fece quell'espressione stupita mi sembrò ne avesse dieci. Riuscì a rispondere quando ormai io ero alla porta.
“E...e il caffè?!”
“Te lo pago appena torno!”
Già non c'ero più.
Immaginai avesse risposto all'aria con una frase del tipo: “Ma non è per quello, è che si raffredda...”
Però ormai dovevo vedere che fine aveva fatto quel gatto...o quel cane che fosse.
Mi misi a camminare a passo abbastanza veloce tra i vicoletti. Guardavo a destra e a manca, voltandomi ogni qual volta mi trovassi nel mezzo di una croce, formata da incroci di vicoletti. Ma niente. Ero alla fine del vicolo principale, ma non lo trovai.
Non ebbi il tempo di girarmi che una signora si accasciò sulle mie spalle, urlante. Mi spaventai non poco, urlai a mia volta. Feci un balzo talmente grande che la signora scivolò, sbattendo di faccia per terra. La chiamo signora in quanto era sicuramente una persona un po' anziana, con alcuni ciuffi di capelli bianchi. Volevo aiutarla a rialzarsi, quando mi accorsi di uno schizzo di sangue finito sulle mie scarpe. Non sono emofobica, ma l'idea di vedere questa qui con la fronte spaccata e il naso rotto mi faceva abbastanza impressione. Diventai bianca, e mi veniva difficile respirare. La signora si alzò, buttando per terra lacrime amare insieme a sangue. Si mise in ginocchio, mettendosi le mani sul viso. Alzò lo sguardo verso di me. Non feci altro che indietreggiare, mi spaventava troppo quella vista. Percorsi due metri come fossero cinquanta, e senza notarlo, ero finita contro un muro.
Ma lei non si perdeva d'animo, e si avvicinava a me. Indossava dei vestiti di altri tempi, ormai vecchi e logori, uno scialle nero intorno al collo, una gonna consunta. I suoi occhi erano vuoti in un mare di lacrime e disperazione.
“Pie...”
“C-cosa?”
“Io, c-cerco una persona!”
“Ch-chi cerchi?”
Urlò fino a non avere fiato. “Io cerco Pietro! Mio marito! Il mio amato, che una sera partì nel chiarore della luna!”
Faceva alcuni passi strascicati sulle ginocchia mentre parlava. Io cercavo di appiattirmi sempre di più al muro.
“M-ma io non so dove sia Pietro!”
Si fermò a due passi da me. Lanciò fuori un urlo lacerante, acuto come venti unghie su una lavagna, grattato come un growl. Avanzò le sue mani sporche di sangue verso le mie gambe, lasciandomi vedere per la prima volta il naso schiacciato e ritorto, con la fronte dal quale uscivano fiotti di sangue, che si ricollegavano a quello delle cavità nasali più sotto. Gocciolava dal labbro superiore, rendendo la sua bocca orrenda.
“Ma come non lo sai?! Il mio Pietro, che mi ama tanto! Non può mica essere sparito!”
Stava per afferrarmi le ginocchia, quando ebbi la forza di spostarmi da dove mi trovavo e incominciai a correre.
“Aspetta, aspetta! Mi devi dire dove si trov...Pietro!”
Mi fermai una volta che lei concluse quella frase. Quel nome fu esclamato con un senso di rilassamento, quasi lei avesse ritrovato il suo amore. E quella idea a Giada dava terrore. Tanto terrore. Fermandosi, si sforzò di non piegarsi sulle ginocchia e prendere boccate d'aria per compensare la corsa, si girò. Riuscì a vedere il guizzo grigio. Si parava tra me e la signora, e la copriva completamente. Era un grosso lupo grigio. Perfetto nella sua forma. Girò armoniosamente la testa verso me e mi fissò negli occhi. Due paia di occhi del colore del noce s'incrociarono. Il lupo impresse in me il suo sguardo, conscio che portava un messaggio d'attenzione.
Poi si rivoltò verso la povera urlante ancora per terra. Le sue labbra s'incurvarono in un sorriso, lasciando sgocciolare sangue lungo quella strada.
“Pietro...sono i-io! Ssono la tua Rosetta! N...non riesci a riconoscermi?”
Il lupo non ci mise niente a rispondere. Saltò sopra di lei in tutta la sua elegante pesantezza. Aprì la bocca morse il collo a una Rosetta che urlava dal dolore, ma sembrava risollevata da tutto questo. Mentre i denti del lupo andavano sempre più a fondo nella carne, Rosetta non fece nulla per contrastarlo.
Sembrò quasi abbracciarlo.
Quando della gola della povera donna erano rimaste solo le corde vocali ormai penzolanti il lupo si chetò. La sua calda pelliccia grigia si era macchiata di sangue fino lungo le zampe posteriori e la coda. Un vortice di sangue circondava le due creature. Lo smosse il lupo che si girò nuovamente verso me. Di botto, nemmeno me n'ero accorta. Iniziò a ringhiarmi. Sgranai gli occhi più di quanto non avessi fatto prima. Più di quanto le palpebre mi permettevano. Un secondo ringhio. Dovevo svanire dalla sua vista. Feci l'errore di sgattaiolare nel primo vicolo che mi capitò, per imbattermi in una strada senza uscita. Mi voltai terrorizzata contando i secondi che passavano prima che il muso di quel lupo sarebbe spuntato da dietro l'angolo e avrebbe riservato alla mia gola lo stesso trattamento. Quando il mio respiro diventava meno affannoso, sentivo il lupo abbaiare più volte, sempre più vicino.
Poi fu silenzio. Un guaito, lunghissimo, precedette un pianto. Un pianto umano. Il pianto disperato di chi perde con tutto sé stesso la persona che ha amato. Decisi di avvicinarmi. A ogni passo, i piedi si facevano più pesanti, come se un macigno me li bloccasse a terra nel tentativo di non farmi avanzare. Sporsi la testa e vidi un uomo completamente nudo che abbracciava disperato quella donna, mentre mischiava le sue lacrime al suo sangue. La chiamava più volte, chiamava più volte il suo nome, e dalla bocca oltre a quelle parole sembrava che uscissero anche i pezzi del suo cuore. Lui, Pietro, era stato l'artefice del dolore suo e di Rosetta, e questo lo addolorava ancora di più. Versava lacrime così come la carotide di Rosetta buttava ancora sangue. Continuavo a guardare con disagio il rovesciamento di quell'uomo: da carnefice a vittima di sé stesso.
“In realtà non può farci niente.”
Quelle parole vennero dette con un sospiro freddo che mi colpì la schiena. Mi girai spaventata, ma non vidi nessuno. Ero in preda alla confusione più totale. Ma insomma, che stava succedendo?!
“Tranquilla, è finita. Quello è stato solo un ultimo atto d'amore tra due amanti sfortunati. Lui mi porterà via con sé, butterà il mio cadavere giù da un dirupo e poi mi seguirà, riunendosi a me!”
Non digerì molto bene l'informazione. Più che altro non riuscivo a capire più nulla. Pensai solo che la cosa più giusta fosse scappare. Quando uscì dal nascondiglio, notai che l'unica testimone di quanto successo, oltre me, era la pozza di sangue ancora si sparpagliava lungo tutte le direzioni.


Non mi era mai successo di non vedere così una persona e di finirci contro. Mai, lo giuro. Dovevo essere presa troppo da quello che avevo visto prima. Sono finito sopra un ragazzo che, dal canto suo, girava troppo distratto per potersi accorgere di me. Non cademmo per terra, per fortuna. Ero ancora senza voce, ma volevo chiedere aiuto, volevo chiedere di aiutarmi a fermare quella scena che intravedevo ancora nella retina dei miei occhi.
“D-di là! Un lupo di n-nome Pietro...! Aiutami ti prego!”
Il ragazzo fece una smorfia piena d'incomprensione.
“Sì! Ha sbranato una donna che si chiama Rosetta, lì, proprio lì sotto, dove c'è tutto quel sangue!”
Il ragazzo provò ad alzare lo sguardo. Ma non rispose più. Mi fissò un po' seccato, quasi a chiedermi che volevo. Ma che cazzo di reazione è?! Prendimi per pazza almeno! Mi girai per puntargli di nuovo la pozza di sangue, e mi fermai subito, per constatare che in realtà puntavo come un'ossessa una tovaglia da tavola di colore rosso. Sbalordita e confusa, mi girai verso di lui, lo fissai nei suoi occhiali da sole.
“M-ma, non le hai sentite le urla?!”
Fece un ulteriore smorfia di disgusto mista a un po' di tristezza.
“Qui tutto urla.”
“Ecco perché non mi sta prendendo per pazza, perché io ho beccato il pazzo!” pensai.
Stanca e intimorita, e stufa pure di questo tizio, decisi di girare con decisione i tacchi e andarmene. Non è normale, non è normale proprio niente di tutto ciò. Credo che mi stia pure cadendo una lacrima, e mi è parso pure di sentire un verso come di stizza provenire dalla bocca di quello smidollato che sicuramente sta dietro di me ancora a fissarmi. Ma che cazzo avete tutti in questo posto? Andate all’inferno tutti!.
|--|

Commento dell'autore.
Devo innanzitutto scusarmi, un po' con tutti coi tempi che mi sto prendendo("e a chi importa?" direte voi) ma specialmente con una persona al quale avevo promesso una cosa che non ho mantenuto. Purtroppo per ora l'ispirazione per altre storie è venuta meno, è già tanto che abbia continuato questa. Scusami ancora.
Pppoi, ullallà, credo che, per la prima volta in vita mia, ho scritto una linea degli eventi! Wow, è una nuova esperienza in questo senso, chissà se riuscirò a mantenerla oppure no. Questa è una delle scene che m'immagino fin dall'anno scorso, quando immaginai le primissime situazioni, e spero sia riuscita a illustrarla bene.
Come sempre, vado matto per le recensioni, specie se le fate a me, recensitemi vi prego, recensitemi tutto(?) pure se lo fate solo per darmi dell'incompetente come scrittore.
Per il resto, stay tuned! 

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Capitolo 6
*** 1475 ***


 “...”
Che c'è?”
Ma scherzi? Un lupo?”
Sì!”
Ma levati dalle balle, fammi andare a prendere un po' d'acqua!”
Aspetta, aspetta, non ti sognare di portarti la candela! Usa la torcia del cellulare piuttosto.”
Cos'è, il lupo ti viene a prendere?”
E non mi crede...ma lo sai che la leggenda dei licantropi è più diffusa di quanto tu non creda?!”
Ah sì?”
Sì...che comunque se già non mi credi quando parlo del lupo posso anche smetterla!”
Ah, non fare il permaloso! Invece visto che ora hai incominciato finisci e non ci rompi!”
Beh, allora posa il culo a terra e ascolta!”


Tirava ancora un'aria molto fresca fuori. Ancora il sole non si era del tutto manifestato, ma il cielo aveva perso già da un pezzo la sua tonalità scura per passare a un azzurro ancora spento e scialbo. Le stelle erano ancora tutte lì che brillavano e ci sarebbe voluto ancora un po' prima che Sirio, oppressa dall'onere di essere la stella più luminosa del cielo notturno, morisse di solitudine, preceduta da tutte le altre stelle. È questo un momento durante il quale l'aria si riempie di blu. Non si sa per quale forza, qualsiasi cosa perde un po' della sua colorazione per tingersi di blu. Forse sono gli occhi di chi guarda questo luogo durante questo momento a venir stregati da qualche maleficio, o, per meglio dire, ingannati da qualche tranello. Anche la colorazione più accesa e forte impallidisce, diventando cianotica.
Erano le quattro del mattino. E Lucio si alzava proprio a quell'ora da ormai molti anni. A scandire l'orario non era il blu che permeava l'aria. Anche quella forza misteriosa non riusciva a penetrare bene dentro casa sua, dominata dall'ombra. Piuttosto, le sue ore erano scandite da una sveglia digitale, che proiettava nello spazio numeri con un denso colore rosso. Lui la puntava ogni giorno, più volte al giorno. Era sua consuetudine spezzettare il periodo di sonno in almeno tre o quattro parti durante le ventiquattro ore.
Ovviamente viene da chiedersi: perché? E la risposta è semplicemente: per restare svegli più a lungo.
Dormendo per un terzo della giornata, e dovendo dormire ogni giorno, dormiamo per un terzo della nostra vita. E questo a Lucio non andava giù tanto. Con questo metodo notò con tanta felicità che c'aveva guadagnato tre ore al giorno.
“Non capirò mai cosa ci fai tu con quelle orette in più che ottieni in questo modo strambo.”
Ed eccola, la voce, puntualmente di primo mattino. Sarebbe risultata irritante ai più, d'altronde lo faceva apposta. Avendo abitato sempre con una persona solitaria, che non parla mai, se non davanti a un computer, lei cerca sempre di fargli spiccicare parola, a costo di risultare seccante.
“Scuro, credo che per te sia un po' complicato capire quanto la vita umana sia corta, no?”
“Mhh, no...”
“Ecco, immaginavo. Tu dimori in questa casa fin da quando essa è stata costruita e continuerai a vivere fin quando di questa casa non rimarranno solo i ruderi. Non sei segnata da un corpo che piano piano andrà a invecchiare e non sopporterà più tante cose che oggi mi sembrano insignificanti. E poi, lasciando stare la vecchiaia, potrei benissimo avere un incidente domani. Morirei comunque, ma lo farei con il sollievo che tutte quelle ore che giorno per giorno ho guadagnato le ho spese bene, e non dormendo.”
“Zuuu, quanto parli!”
Quello era un intercalare che Lucio conosceva molto bene, trattandosi di un'espressione tipica di quel luogo. Tormentato da Scuro, mentre lei faceva notare la sua presenza arruffando la coperta ai piedi del letto di Lucio, lui si chiedeva se queste espressioni fossero innate in lei in quanto padrona di quella casa, costruita in quel luogo permeato da quello strano dialetto, oppure le avesse semplicemente imparate ascoltando lui. Scuro continuava a brontolarsi mentre si stiracchiava sul letto, dando l'impressione che il letto fosse schiacciato dal nulla.
“Lucio, lucio... io te l'ho detto, tu non sei abituato ad ascoltare le persone!”
“Non sarebbe una grande novità...”
“Sta zitto e ascoltami. Qualsiasi cosa su questa terra ha un preciso limite di tempo, va bene? Che può essere più o meno lungo, e può essere più o meno modificato, ma è un limite che rimane. Non voglio dire che è destino che tu viva, chessò, 70 anni mentre una farfalla una settimana. Voglio dire che è una legge non scritta che ha stabilito così. Non c'entra nulla il destino, puoi fare della tua vita e del tempo che questa legge ti ha assegnato quello che vuoi. Però ogni essere qui ha una sua durata...”
Interruppe il discorso per richiamare ulteriormente l'attenzione di Lucio che ascoltava un po' stranito, facendo risuonare la testata del suo letto.
“...così come lo hai tu, ce l'ho pure io.”
finito il discorso, si fece pesante per prendere un po' di forza e balzare fuori dal letto.
Faceva quel movimento praticamente ogni mattina da un buon mesetto. Non lo aveva mai fatto prima d'ora. Lucio immaginò che lei fosse anche un po' lunatica, tra le altre cose, e che prima o poi avrebbe smesso. Si alzò abbastanza svogliatamente.
“Che cosa fai ora?”
“Mhh, non ne ho assolutamente idea. Per prima cosa mi preparo un bel caffè.”
Si mise un paio di ciabatte, grattandosi la testa e si avviò verso la cucina.
“Dovresti teoricamente lavorare, no?”
“Sì, e mi sa che faccio qualcosina...del resto, per ora ho accettato solo due richieste, e di nuove da considerare non ce n'erano fino a ieri.”
Lucio mentre parlava armeggiava mirabilmente col caffè. Era ormai molto pratico a usare quasi qualunque tipo di caffettiera comperava. Non ci metteva molto però a dimenticarle sul fuoco, arrivando al punto di farle scoppiare. Si sarebbe dovuto decidere a provare le caffettiere elettroniche che riscaldano giusto il tempo di far salire il caffè, ma aveva paura di incontrare un sapore ben diverso dal buon vecchio caffè nero che prende.
“Mi sa che invece andrò a fare una passeggiata.”
Non ottenne alcuna risposta. Cosa che teoricamente dovrebbe definirsi normale.
“Sembri scontenta di questa decisione.”
“Dovresti curarti un po' più del lavoro...”
“...eh?”
“Mi preoccupo che tu non riesca ad andare avanti se non lavori.”
Lucio era sempre più stranito da tutte quelle affermazioni.
“C-cosa?”
“Ascoltami, stupido! Se io sono qui in questo momento è solo perché sono una tua rappresentazione: la mia esistenza come tale dipende dalla tua presenza, e non solo fisica.”
“C-cioè, tu ti sei distaccata dalla tua forma originale di padrona, e quindi ora ci sei solo grazie a me?”
“Non ti fare strane idee: noi entità ci siamo e al tempo stesso non esistiamo, siamo ovunque, ma non risiediamo nemmeno nella tua immaginazione. Non credere che sia così facile. Inoltre, pur presupponendo che io sia diversa dalla mia entità originaria, una “scissione” come pensi tu non è possibile.”
Per quanto ormai siano due anni che Lucio parli con quella voce, a discorsi simili non c'erano mai arrivati. Gli veniva da pensare che tutti questi cambiamenti siano stati determinati, oltre al fatto che ormai parlavano da così tanto, dal particolare momento dell'anno in cui andavano incontro.” Mancavano ancora alcuni mesi ad agosto, mese molto particolare.
“Dimmi un po', non è che un po' tutte le forze in questa città siano un po' in fermento per l'avvicinarsi dell'anniversario dell'eccidio?”
Scuro divenne tutto a un tratto fredda nel parlare, e faceva uscire le parole con voce rotta.
“S-sì, è probabile...”
Come risvegliato dal letto dei suoi pensieri, Lucio si girò verso la stanza, fissando il nulla.
“Che ti è preso? Succede ogni anno, no?”
“Già.”
Accigliato e sorpreso, Lucio lasciò cadere la discussione e tornò a prepararsi il caffè. Se lo prese in tutta tranquillità, senza più essere disturbato da Scuro, che si era andata a posizionarsi silenziosa in chissà quale angolo buio, in chissà quale zona d'ombra della casa. Non spiccicò nemmeno una frase quando Lucio si preparò come ogni mattina il necessario per fumare la pipa, segno che stesse uscendo. S'affrettò all'ingresso, e solo al momento di girare la maniglia temporeggiò.
“Chissà che non scordo qualcosa...” si ripeteva.
Tante preoccupazioni talmente false che pure lui si stupiva per la facilità col quale le esprimeva. In realtà aspettava solo una risposta. Una voce che non aveva nulla dargli se non alcune parole e la loro presenza in quella casa, sempre al buio e immersa nel silenzio conosciuto dagli alberi di una foresta inesplorata e dai pesci del mare profondo.
Lucio aveva girato la maniglia, nell'attesa che quello scatto venisse battuto, come in una cosa, da quella voce. Ma sembrava essere una partita già vinta in partenza. La porta si socchiuse, e Lucio si sforzò di rivolgere un ultimo sguardo all'atrio. È una stanza molto piccola, rispetto a tutto l'edificio, praticamente è solo un corridoio di passaggio, come antiche tradizioni edili vogliono. Risplendeva di fasci di luna faticosamente entrati in casa dalle tapparelle delle persiane chiuse e dallo spiffero aperto poco prima da Lucio.
Sempre come tradizione vuole, in questo atrio c'erano solo mobili atti a dare il benvenuto a chi entrava: un appendiabiti s'innalzava dal pavimento con sinuose curve oro dal gusto rococò, una panca in mogano, e una consolle con sopra un portaoggetti, sempre pieno di cianfrusaglie lasciate lì da Lucio. Certe volte cercava per tutta la casa la sua amata pipetta in legno, per scoprire che l'aveva semplicemente dimenticata all'ingresso. Invece la panca era eternamente vuota e privata di una qualsiasi funzione, se non occupare spazio.
Ma non c'era più niente in quella stanza. Niente e nessuno, se non il proprietario di quella casa.
Lucio aprì deluso la porta d'ingresso. Gli sembrò di sentire il sibilo dei cardini ormai vecchi che si muovevano, ma si ricordò di averle fatte oliare qualche mese prima. Chiuse gli occhi e si tirò dietro la porta, facendola sbattere.



Da alcuni giorni si respirava qualcosa di diverso nell'aria. Normalmente l'aria per quel giorno diventava carica di felicità e di preparativi. Il quindici agosto era, oltre che comunissimo giorno di riposo, un festeggiamento importante in quella comunità. Si ricordava la morte di Maria e la sua assunzione in cielo. È sempre stata tradizione quella di prepararsi vestiti di alta manifattura, per quanto possibile, per quel giorno, per entrare tutti nella chiesa dedicata appunto a Lei, celebrare solennemente la messa, che terminava a mezzogiorno, e gustarsi un abbondante pasto con tutto quello che gli artigiani e i contadini potevano permettersi. Permeato di religiosità, quello doveva essere un giorno solare e felice un po' per tutti. Fin dal tredicesimo secolo era così.
C'era però una fetta della contea che, pur non festeggiando religiosamente, si mescolava ai cori e alle facce felici di quei giorni. Per tre secoli anche gli ebrei goderono dell'aria di festa del quindici agosto. Proprio verso la fine del quindicesimo secolo gli ebrei furono violentemente espulsi non solo dalla contea, ma da tutto il feudo. Ufficialmente ciò fu sancito da un editto, ma già alcuni anni prima ci fu una violenta dimostrazione di come mano a mano l'odio verso gli ebrei aumentava, relegati sempre più sui colli della contea, dove loro pazientemente avevano costruito un ghetto, e orgogliosamente avevano posto un grande cartello all'ingresso di questo, che dava il benvenuto nel quartiere ebraico. Quel cartello diede il nome a tutto il quartiere nei secoli a venire, un quartiere che si estendeva lungo tutto il pendio di una collina sovrastante il centro della contea, che si adeguò all'urbanistica del posto, caratterizzandosi con viuzze e scalinate. Probabilmente quel cartello fu la prima cosa a essere distrutta, stracciata e bruciata.
Verso il 1475 ci fu la violenta svolta che determinò, mano a mano l'espulsione degli ebrei.
La venuta da qualche anno di un fervente parroco fece scoppiare la scintilla contro di loro. Pesanti furono le sue accuse contro gli ebrei, relegati come al solito da tutti a semplici uomini d'affari, visto che gli abitanti della contea puntavano più al possedimento di terre, dal più povero fino al più abbiente. In particolare, diede il suo meglio durante la messa dell'Assunzione di quell'anno. Con le semplici parole riuscì a instillare nei presenti la convinzione che gli ebrei fossero il male, un male da dover estirpare con la distruzione del loro ghetto e del loro quartiere. Non uscirono buoni cristiani pronti per pranzare nel nome di Maria da quella chiesa quel giorno: uscì una folla di bestie inferocita, arrossata in viso dai fumi degli incensi, dal sangue di Cristo e dalle parole di quel parroco. Si armarono di qualsiasi oggetto pesante riuscissero a trovare, mentre una parte preparava dei tizzoni per dare fuoco a quel quartiere dimenticato da Dio.


---


Incuriositi dalle urla e dal chiasso di una marcia, un po' tutti gli ebrei voltarono il viso verso l'ingresso del loro quartiere, rimanendo a bocca aperta. Tutti quelli che erano in casa si affacciarono fuori dai balconi e dalle finestre.
“Viva Maria e a morte i Giudei!” L'aria incominciò a riempirsi di questa benedetta condanna.
Fu allora che i più scaltri incominciarono a scappare verso le colline, magari cercando di arraffare tutti i propri beni come meglio potevano. Per i meno lesti non ci fu molta speranza. Chi aprì l'uscio di casa cercando di scappare si ritrovò un'orda di facce dagli occhi schizzati di fuori per la rabbia che li ributtava in casa per essere trucidati. In alcune, abitate da gruppi familiari, i contadini bloccarono i mariti a suon di sprangate in faccia per costringerli a osservare mentre la propria moglie in lacrime veniva svestita e picchiata con mazze e bastoni.


In una casa il marito oppose strenua resistenza e si rifiutò con decisione di guardare la scena.
“Aspettate allora!”
Un contadino allora gli si parò davanti. Lo squadrò con i suoi occhi inoculati di sangue dalla testa ai piedi, e rincarò la dose di colpi con calci e pugni, perfino una testata.
“Stai a fissare ora!”
Si assicurò con i suoi compagni che non si potesse muovere, lo schiacciarono a muro e lo bloccarono per il collo. Il contadino uscì da una tasca posteriore una roncola e, brandendola per la lama, poggiò il filo sul suo viso. Con rozza precisione tagliò le palpebre dell'ebreo. Le urla soffocate dal braccio posto sulla sua gola non impietosirono minimamente il contadino che, una volta ultimato il lavoro, sputò su quell'occhio martoriato e orrendamente fuori dalle orbite. Girandosi verso la povera donna rimasta impietrita col viso ricoperto di lacrime, le tirò un calcio in pieno viso. Girandosi, la donna mise in mostra i seni, macchiati degli schizzi di sangue provenienti dalla bocca. Altri due contadini si unirono alla ressa e incominciarono a picchiarla, mentre il primo si accovacciava e continuava a colpirla in viso. Solo quando tutto il suo viso e gran parte del suo corpo furono ricoperti di lividi la spinsero con i piedi verso il marito. Una volta scaraventati tutti e due a terra, ricoperti di sangue, si concessero un ultimo abbraccio, un abbraccio d'addio.
“Bravi, bravi, salutatevi, ché vi rivedrete solo tra le fiamme dell'inferno!”
A lui lo accoltellarono più e più volte, piantandogli l'ultimo colpo in gola; a lei invece, ormai sull'orlo dell'ultimo svenimento, vennero maciullate le gambe.


Il proprietario di un'altra casa invece si era risvegliato da pochissimo. Ancora non era nemmeno arrivata la folla che lui stava procedendo verso il bagno per bagnarsi il viso e risvegliarsi. Il suo cervello incominciava a carburare, e tornò verso la camera da letto. Aprì leggermente un'anta della sua finestra per spiare un po' di vita fuori. Tutti oggi giravano abbastanza tranquillamente per il quartiere: essendo giorno di riposo per i clienti era quasi automaticamente giorno di riposo pure per loro. Lui era rimasto solo in quel giorno, e la cosa un po' lo rattristava. Sentiva il bisogno di prendere un po' d'aria fresca, e s'avvio verso le scale di legno, scendendo gradino per gradino con lentezza, giusto per abituarsi all'idea di passare quella giornata da solo. Un po' come tutte le giornate da un annetto. Attraversò il buio della stanza al piano terra. Stava per aprire la finestra più grande quando incominciò a sentire delle urla, accompagnate da forti rumori e quell'inno di morte.
Realizzando cosa stava succedendo, decise che non c'era più il tempo di fuggire, ché già sentiva i cristiani che irrompevano nelle case accanto. Con gli occhi sbarrati e col sudore freddo che incominciava a colare dalla schiena, decise che doveva nascondersi. Si rifugiò al piano di sopra. Girandosi freneticamente intorno nella stanza, cercava il grande armadio in legno che conteneva tutti i suoi vestiti. Era piuttosto pesante, solo per spostarlo normalmente necessitavano due persone, ma con la forza della disperazione barricò l'entrata: facendosi forza con il muro, lo rovesciò, e bloccò le scale. Proprio in quel momento un gruppo di artigiani sfondarono l'ingresso della casa. In due secondi misero a soqquadro tutto quanto, e ogni suppellettile buttato per terra, ogni ricordo fragile distrutto, ogni mobile aperto e svuotato, erano lacrime in più che il giovane ebreo versava. Buttatosi sul letto, pianse disperatamente, stringendo una foto che teneva sempre sul comodino, la foto dei suoi genitori morti in un incidente.
Sobbalzò quando sentì gli artigiani dare colpi all'armadio. Colpi su colpi, il suono rimbombava nelle orecchie del giovane, ormai del tutto disorientato e poco cosciente. Non faceva che farfugliare solo che voleva che tutto quel frastuono finisse.
Restò un minutino buono fermo in quella stanza buia, squarciata solo dal fascio di luce della finestra aperta di poco precedentemente. Un minutino buono dopo che tutti i rumori, a parte quel lamento, cessassero.
Se n'erano andati tutti. Era rimasto lui che farfugliava nel nulla. Lui cercò allora di rialzarsi, smuovendosi tutti i vestiti che aveva addosso per il sudore. Ovviamente tutto quello che era successo lo aveva terrorizzato, ma essendo agosto, iniziava a fare molto caldo. Strascicò i piedi fino al bagno, alla ricerca disperata di forbici per difendersi. Rovesciò per terra tutti gli accessori che aveva, riuscendo finalmente a scovarli. S'affacciò di nuovo verso la stanza, in cerca di quello che potesse l'angolo migliore della stanza per fingere di essersi nascosti.
Si tolse i vestiti di sopra, per il troppo il caldo. Un dubbio lo travolse. Guardò il pavimento, e perdendo mano a mano tutte le speranze che fosse finita lì appoggiò la testa a terra. Caldo. Le travi di legno erano fin troppo bollenti. Gli artigiani stavano dando fuoco alla casa. Purtroppo non c'era molto tempo per pensare. Tutto il secondo piano reggeva su una struttura fatta in legno, il giovane non sapeva per quanto tempo non sarebbe sprofondato. Aprì la finestra e diede un'occhiata fuori:
girandosi verso il centro del quartiere, vide un gruppo di uomini che colpivano ebrei senza alcuna pietà e anche senza alcun apparente motivo. Dall'altro lato invece la strada era libera, eccetto alcuni corpi di suoi vicini di casa buttati per terra e lasciati lì come spazzatura.
Non era molta l'altezza dal primo piano, ma atterrando si sbilanciò a cadde per terra. Fece per rialzarsi, quando la sua condanna si conficcò in una gamba: una freccia.
“Complimenti con quella balestra!”
“Non per questo sono un armaiolo, miscredente!”
“Ahahahah”
Risuonavano parole di riso completamente estranee a lui, e si girò intorno appoggiandosi sui fianchi: gli avevano teso una trappola, nascondendosi nella casa di fronte.
Uno dei suoi boia lo afferrò per i capelli.
“Non potevi pensare di scapparci, maledetto.” disse afferrando un forcone insanguinato rimasto per terra.
L'ebreo non ebbe il tempo di realizzare niente, che non ce ne fu più bisogno.

Queste erano solo alcune delle storie che aveva letto tanti anni fa in un vecchio libro di un giornalista vissuto lì. Non si sa di preciso quante persone furono uccise quel giorno: qualcuno aveva affermato trecentosessanta persone, qualcuno anche seicento. Sembra però assodato che minimo ne morirono più di trecento. Fu forse il più grave tra tutti gli eccidi che ci furono alla fine del secolo in quella zona. Era accaduto proprio in quella città, e lui lo sapeva bene.
Si era attardato a girare per quel quartiere, reso ormai un semplice quartiere silenzioso e per vecchi, che fu colto dai primi raggi spuntati subito dopo l'alba. Riuscirono a infiltrarsi attraverso barriere create da spigoli e muri di casette ammassate lungo la collina una accanto all'altra.

Fu preso in pieno viso dal sole, e quasi come gli fosse stata inferta una ferita, barcollò indietro e cercò subito riparo. Si strinse accasciandosi a terra per sopportare quel dolore, che lo aveva portato a lacrimare pesantemente. I suoi mugugni si estesero per tutto il vicinato, tant'è che qualche signora mattiniera lo richiamò, chiedendosi se stava male.
“Signor Lei! State bene?”
Socchiudendo gli occhi ancora in lacrime, gettò uno sguardo verso l'alto, verso un balcone dove un viso ormai solcato dalle rughe dei settant'anni indagava sulla salute di un passante.
Avrebbe dovuto risponderle. Non era difficile, bastava dirle che non era nulla di grave e stava bene, che gli era semplicemente entrato qualcosa nell'occhio, nulla di più.
Il suo cervello aveva incominciato a lavorare pesantemente per trovare una risposta soddisfacente, talmente tanto da non riuscire più nemmeno a sentire la fredda pietra di quei muri vecchi e ammuffiti. Ma le risposte non riuscivano a uscire.
Le fece cenno con la mano, segno che era tutto apposto.
La signora, un po' dubbia sull'affidabilità di quel ragazzo, apparso stramazzato a terra una mattina davanti a casa sua in un quartiere deserto, si fece bastare la risposta e rientrò dentro, serrando la finestra.
Una volta passato il dolore, Lucio restò accovacciato altri minuti, frustrato dalla sua incapacità di saper scandire parola con una persona che non conosceva. I suoi occhi versavano ancora lacrime per quel colpo di sole. Ma l'ultima lacrima che gli rigò il viso fu una lacrima d'amarezza.
Passata quella, decise di alzarsi e si mise gli occhiali da sole, accennando un passo piuttosto lesto per tornare in fretta a casa.

Girando per una piazza dello stradone principale, decise che aveva ancora tempo per permettersi un caffè di Nino, dato che quello che si era preparato a casa non gli bastava. Il sole ancora si attardava a stiracchiarsi dietro le colline che accerchiano il centro della città, aveva tutto il tempo per un caffè.

Commento dell'autore.
Vado talmente di fretta che non so nemmeno cosa scrivere qui stavolta. Ci tengo a precisare che, purtroppo, la parte storica è storia accaduta, l'ho magari romanzata un po', ma i numeri non sono presi a caso, così come l'anno, molto vicino all'anno in cui è accaduto questo eccidio.
Andando sempre di fretta, mi posso solo scusare con quei quattro gatti che mi seguono (se ci sono) per la mia lentezza, ma è una cosa al quale non posso rimediare.
Detto questo, invito chiunque a inviarmi una recensione per criticarmi, nel bene e nel male. Stay tuned, a "presto"!

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Capitolo 7
*** Pietro e Rosetta. ***


 “Ah, quindi era per quel motivo che tuo nonno era in giro?”
“Già: adorava girare per quelle vie, così come in tanti luoghi abbandonati, segnati da fatti strani, o di sangue.”
“Non a caso stava a Villa Cascia.”
“Appunto! Ahah!”
“Ma come mai tuo nonno usciva principalmente solo di notte, o di mattino presto?”
“Ci arriverò.”


 

Non era riuscito nemmeno ad avvicinarsi abbastanza al bar di Nino da poterlo scorgere, che si scontrò con una ragazza che lui era certo di aver visto. A causa degli occhiali da sole, e dal suo fare febbricitante, non riuscì nemmeno a guardarla in faccia. Sì aggrappò a lui per le braccia quasi fosse inseguita, e Lucio si mise sull'attenti. Rimase spiazzato dalle farneticazioni della ragazza. Un lupo di nome Pietro? Che aveva appena ritrovato una donna di nome Rosetta. Queste potevano essere benissimo intese come le farneticazioni di una pazza, o di una drogata che era finita in un brutto viaggio.
Ma a Lucio queste parole non andarono giù molto facilmente, perché qualcosa non quadrava.
Quella ragazza non poteva aver visto un lupo. Si sbagliava. I lupi da quel villaggio sono spariti tanto tempo fa. Né può aver visto una coppia dove lui si chiamasse Pietro e lei Rosetta. Sono due nomi che, uniti, diventano una maledizione. Una maledizione per i due amanti. Molti amori sono probabilmente stati stroncati sul nascere da quei due nomi.
Lucio aveva già sentito questa storia. È una storia molto antica, tramandato da generazioni alla prole, probabilmente per fare impaurire i bambini e tenerli lontani dai malintenzionati di notte. Una storia su un certo Pietro, sposato con Rosetta...
Venne interrotto dalle continue richieste disperate della ragazza.
"M-ma non hai mai sentito le urla?!"
Urla? Tu parli di urla? Io sento urla che non dovrebbero esistere quasi ogni giorno, da ogni anfratto buio di casa mia riesco a sentire voci che nessuno sentirebbe mai. Ogni casa di questo maledetto villaggio è un covo maledetto di anime costrette in quattro mura che non possono fare altro che urlare, nel tentativo, almeno così si pensa, di tenere altri spiriti lontani. E continuano a sgolarsi fin dalla sera presto, perseverando tutta la maledettisima notte. E ancora, gli antichi avevano molti, troppi feticci, oggetti inanimati ai quali davano un'anima e una vita. E ci sono troppi di questi oggetti qui intorno, sparsi per questo villaggio, convinti dalle stolte preghiere degli avi di poter avere una vita. Solo che, una volta compresa la loro immaterialità e il loro limiti, non possono fare a meno di piangere e urlare anche loro. In questa cazzo di città...qui...
"Qui tutto urla."
La ragazza spalancò ulteriormente gli occhi, prima di aggrapparsi ulteriormente a Lucio e abbassare la testa per la stanchezza. Repentinamente cercò poi di divincolarsi, e con uno strattone lo spinse lontano. Ne aveva abbastanza di tutti. Respirando profondamente, quasi a raccogliere in quel sospiro tutte le ultime forze che aveva, corse via. Lucio la seguì con lo sguardo senza nemmeno fiatare, e senza tentare di raggiungerla. Riprese il passo verso il bar, che si trovava a pochi metri, ed entrò.
Tutto il suo corpo si contrasse in un brivido, a causa della diversa temperatura tra fuori e l'aria climatizzata che c'era lì dentro. Si calmò solo una volta arrivato al bancone. Guardandosi intorno, e sporgendosi oltre il bancone, Lucio non riuscì a scorgere Nino. Notò solo una tazzina di caffè ancora del tutto piena, con accanto la sua bustina di zucchero intatta e un cucchiaino ancora pulitissimo. Purtroppo, da dentro la tazzina non usciva più alcuna piccola cortina di fumo, segno che il caffè doveva essersi raffreddato da un pezzo.
Lucio ripeté il nome del barista più volte ad alta voce, nella speranza di vederlo sopraggiungere dal retro e di essere servito. Questo tornò, tutto sudato.
"Scusami Lucio, ma ero corso in strada dalla porta sul retro, per cercare una ragazza che si era presa un caffè."
"Questo caffè?"
"Sì...non lo ha toccato nessuno, vedo."
"E chi ci deve essere ancora a quest'ora? Io non mi sono azzardato, ormai sembra freddo."
"Quante storie..."
Nino afferrò la tazzina con tutta la mano destra, senza curarsi di prenderla dal manico, e si calò tutto il suo contenuto in un sorso solo. Deglutito, il suo visò si contorse in una smorfia.
"Bleah, avevi ragione, ormai era ghiacciato..."
Il ragazzo fissò i gesti del barista con lo sguardo attonito, come se avesse appena assistito una di quelle scene che già nei banchetti ottocentesche erano considerate indecorose: come se uno aprisse la bocca davanti a tutti e con un tovagliolo si levasse un pezzo di cibo dai denti.
"Allora, vuoi un caffè?"
"Sì, grazie."
Si girò allora verso la macchinetta del caffè, dando le spalle a Lucio.
"Ma non l'hai vista per caso questa ragazza? Com'è che si chiamava? Emh...Giada! Giada mi sembra! Era con i capelli mori, non molto più bassa di te..."
"Sì, l'ho vista correre via però, nel corso principale, verso l'ingresso del paese."
"Mhh...bho, io l'avevo vista uscire per girare nel vicolo qui dietro..."
"Sicuro?"
"Eh sì! L'ho vista dalla finestra a balconcino!"
"Chissà..."
Conclusa l'erogazione del caffè, Nino aspettò che l'ultima goccia di caffè cadesse nella cicara, e una volta presa, si girò afferrando un piattino. Messo tutto davanti a Lucio, finì col porgere un cucchiaino e una bustina di zucchero di canna. Luciò ringraziò e si dolcificò il caffè.
"Il lavoro come va, Lucio?"
"Beh, che ti devo dire, Nino, va come è sempre andato, la domanda non manca mai, ma a un certo punto diventa difficile trovare richieste nuove, e ciò stufa."
"Dai, almeno tu stai a casa, puoi lavorare anche mentre ti mangi una pizza."
"Ma infatti non lo cambio per nessun motivo al mondo..."

Nino era forse una delle pochissime persone col quale Lucio parlava normalmente. Era un barista, uno dei pochi di quella città, e, venendo da fuori, sapeva come conoscere tutti e accattivarsi le loro amicizie, pur rimanendo neutro su qualsiasi questione. Aveva imparato a conoscere anche Lucio, benché sia stato forse il suo tentativo più difficile, visto che Lucio è di pochissime parole chi non conosce, anche se va nello stesso bar da tanto tempo. Ma alla fine, con una domanda specifica sulla marca del cellulare che usava Lucio gli permise di conoscere anche lui.
Lucio incominciò a sorseggiare il caffè, chiedendosi se questa volta il sapore del caffè sarebbe stato acidulo e pungente, oppure dolce e soffice. Normalmente era la seconda, però a ogni giro si aspetta il sapore forte, che un po' lo stizza, ma che è una sensazione che prova poche volte. Constatò che avrebbe dovuto aspettare la prossima volta.
"Però ho trovato questo mazzetto di cipolle e peperoncini secchi per terra..."
Distogliendo i pensieri dal caffè, il suo viso divenne interrogativo.
"Cosa?"
"Dicevo, ero corso nel retro a cercare questa ragazza, e alla fine ho trovato per terra questo."
Lucio si sporse per vedere: sotto il bancone vi era un mucchietto di piccolissimi spicchi di cipolla intrecciati ad alcuni pezzi di peperoncino interi, con un paio di chiodi di garofano stretti intorno al nodo che legava il tutto. Lucio s'impensierì ancora di più.
"È strano vero? Credo si usasse una volta appendendolo fuori dalle porte, per scacciare i malocchi o cose così. Lo metterò appeso vicino all'ingresso, fa la sua figura."
A Lucio la cosa cominciò a quadrare ancora meno. Una ragazza afferma di vedere un lupo di nome Pietro che cerca una certa Rosetta...e poi quel mazzettò lì. Pure quel mazzetto frutto di incantesimi da fattucchiere compare nella storia che incominciò con prepotenza a riafforare tra i suoi ricordi.
Senza fiatare uscì a passo lesto dal bar, sotto lo sguardo incuriosito del barista, e guardò verso il cielo. La rimanenza di quella che probabilmente era stata una luna piena stava andando a svanire con l'avanzare del sole.
Avanzò nell'aria anche una richiesta del barista da dentro il bar.
"Lucio, non è che nemmeno tu mi paghi il caffè quest'oggi?!"


Tanto tempo fa un matrimonio allietò la routine stanca e monotona del paese. Due giovani uniti dall'amore, si unirono ufficialmente sotto il nome del Signore davanti a un prete. I due giovani venivano da famiglie molto umili, ma che sostennero con felicità il loro matrimonio, e li permise l'inizio di una convivenza relativamente spensierata. Lui si chiamava Pietro, lei si chiamava Rosetta.
Successe però che fin dai primi giorni, o per meglio dire fin dalle prime notti di convivenza da sposati divennero pieni di dubbio e diffidenza. Infatti due giorni dopo il loro matrimonio, Rosetta si accorse che il suo Pietro, colto da brevi attacchi epilettici e da dolori che provava a nascondere alla moglie, si alzava dal letto, cercando i vestiti e uscendo dalla stanza. La povera ragazza disperatamente ripose fiducia nelle azioni del marito, e cercò di entrare nel sonno più profondo, come la luna piena quella notte appariva in cielo, senza fare niente. La mattina seguente, quando lei si svegliò, trovò il marito seduto nella sala da pranzo, ansimante e sudato. Rosetta gli chiese se fosse successo qualcosa, ma vaghe furono le risposte di Pietro. Lei pensò che il suo Pietro avesse passato tutta la notte sofferente in sala da pranzo per farla dormire.
Lo stesso fatto si ripeté più o meno ogni volta ogni mese, sempre quando la luna piena si levava in alto nel cielo. Ma in queste altre volte lei, presa dalla morsa della curiosità, si alzò dal letto per spiare il marito, e scoprì che in realtà, durante queste notti, lui usciva, per svanire nella luce della luna.
Ne passarono tre di lune piene che la poveretta, distrutta nell'animo dai dubbi di una montatura per nascondere un tradimento, si recò da una fattucchiera, e le raccontò tutto.
La fattucchiera si fece cupa in volto non appena sentì che questi episodi avvenivano solo durante le notti di luna piena, e avvertì la giovane che, se voleva davvero bene al marito, sarebbe stato meglio inghiottire questi bocconi amari e continuare ad andare avanti.
"Ben più grave verità si potrebbe celar dietro questi episodi." disse la fattucchiera.
"Cosa ci potrebbe essere di più grave di un tradimento da parte del mio Pietro?!" chiese disperata una Rosetta con le guance rigate dalle lacrime.
La fattucchiera comprese che anche se non avesse agito, la sorte sarebbe stata comunque molto maligna con quella povera coppia, e decise dunque di intervenire per ottenere una parcella.
Davanti a lei, preparò un mazzetto con degli spicchi di cipolla secchi e dei peperoncini e, mentre li legava tra di loro, si assicurò di inserire in mezzo allo spago dei chiodi di garofano.
Le disse di mettere il tutto sotto il cuscino dell'amato ogni notte, in attesa della prossima luna piena. Se, durante quella notte, tutto l'episodio si fosse ripetuto come le altre volte, Rosetta sarebbe stata sicura di essere vittima di un tradimento.
Passarono i giorni, sempre più angosciosi, nell'attesa di una fatidica notte di luna piena. Quando arrivò, Rosetta pianse silenziosamente tantissime lacrime amare per il suo Pietro che, come sempre, si alzò in preda agli spasmi e ai dolori, e uscì fuori di casa.
Solo che, la mattina dopo, risvegliatasi da un sonno pesante e pieno di angosce e paure, Rosetta non trovò più il marito che l'aspettava in sala da pranzo. Presa da un profondo e tormentoso dolore, la disgraziata uscì di casa, incominciando a urlare il nome di suo marito. Molte persone del vicinato tentarono di fermarla e di non farle vedere il suo cadavere, coperto da una foltissima peluria nera, che lo trasformava ognuna di quelle notti in una bestia dal manto nero e irto, dagli occhi iniettati di sangue e dai denti aguzzi. In un licantropo.
Ormai distrutta dal dolore, Rosetta non accettò mai quella vista, e, fino allo stremo delle forze, vagò per le viuzze di quel paesino, sgolandosi a forza di urlare il nome di Pietro, che ormai non c'era più. Persa completamente la voce, ormai consunta in viso, senza forze, si accasciò a terra, colta da un collasso nervoso, che le permise alcuni giorni dopo di ricongiungersi al suo tanto amato marito.


"Non è che per caso ne sai qualcosa di tutta questa storia tu, Lucio?"
"Io? Ma cosa vai a pensare..."
"Luuuucio...non posso dire di conoscerti, ma so in quali ambiti ti muovi tu, tu stesso a volte me lo hai raccontato, e quella faccia poco mi piace."
Nino, essendo abbastanza in confidenza con Lucio, sapeva anche i suoi modi di fare, e anche come lui andava avanti tra lavoretti e scuola. Sapeva bene dell'interesse che il ragazzo aveva per l'occulto, a partire dalla casa dove stava...
"No no, seriamente, è solo che..."
Lucio si voltò e indico il mazzetto con gli spicchi di aglio e i pezzi di peperoncino.
"Quell'affare, lì...mi ha ricordato una storia che mi è stata raccontata molto tempo fa..."
Non s'era del tutto convinto con la spiegazione di Lucio, ma in effetti questa non era inverosimile: tantissime storie del posto si condivano di scacciamalocchi e portafortuna come quello che aveva appeso dieci minuti prima davanti l'ingresso.
"Ok dai, mi pago il caffè e vado..."
"Sempre prima che salga il sole, eh?"
"Lo sai che mi da fastidio..."
"Boh, è strano...non è che tu sei un vampiro?"
Queste parole dette mentre Lucio si avvicinava all'uscio del bar lo fecero ridere di gusto.
"Ma vedi di andare a qual paese!"
"Ahah, è che, insomma, non si sa mai!"
"Ciao!"

-***-

Lungo la strada Lucio incominciò ad immaginare alla possibilità che per davvero una ragazza abbia visto i protagonisti di quella storia che si reincontravano.
Una cosa del genere cosa poteva significare? Un conto potrebbe essere quello di vedere un'ombra o qualcosa di simile. Un demone, oppure uno spirito. Ma basta, una cosa del tutto casuale e breve. Qui si parla di vedere una scena che sembra sia durata qualche minuto. E di un licantropo. Mai mi era capitato di sentirne parlare, al di fuori di quelle stupide storie...
Che poi "stupide". Dovrei stare attento a dire una cosa simile, specie ora che mi avvicino a casa. Tutte le storielle che si tramandano qui non sono fini a sé stesse. Tutte le storie raccontate qui hanno un motivo ben preciso, che può essere più o meno importante.
...
Però nulla toglie che potrebbero benissimo essere definite stupide. Quella stessa Rosetta, mai una volta che abbia voluto chiedere al marito cosa caspita non andasse...non è che fosse difficile. È che la maniera con la quale queste azioni si svolgono nella storia sono realistiche, sono specchio di quella che era la mentalità del tempo. La gente seguiva delle regole che a volte troncavano completamente i rapporti tra le persone. Per la semplice paura di diventare non solo una vittima, ma anche una pecora nera, Rosetta non parlò mai a nessuno del suo sospetto. Perché sarebbe diventata automaticamente vittima del giudizio della gente.


Ad un tratto gli balzò in testa un'idea. Si guardò intorno, sperando di non essere molto lontano dalla biblioteca. Lui era sempre a contatto con il suo pc, ma sapeva che anche i libri potevano essere una fonte utile di varie informazioni, specie se queste si perdevano tra le coppe antiche e i muri a secco di una cittadina. Ricordava di un autore di quel luogo che aveva pubblicato una raccolta di racconti della città con varie interpretazioni e spiegazioni. Davvero un bel libro. Non lo aveva mai letto attentamente, ma sapeva che vi era pure la storia di Pietro e Rosetta. La biblioteca si trovava a un quindici minuti da casa sua, divisi da una stradina ripida e stretta, strada fatta apposta per essere ai tempi il collegamento più veloce possibile dal villaggio per i campi, e non certo per essere una strada sicura e agevole. Gli toccava tornare indietro, ma era nel mezzo di quella strada e non ci avrebbe messo molto.
Da quanto tempo non vado alla biblioteca? Molto probabilmente dovrò effettuare nuovamente la registrazione, sarà passato un anno dall'ultimo libro che ho preso, anche di più. Quando ero un po' più piccolo era un passaggio obbligato molti giorni, sia per riportare libri che per prenderne di nuovi. Mi estasiavo a prendere in prestito un libro. Non solo per la storia contenuta in esso, ma per il modo col quale il libro stesso te la presenta. Quando prendi un libro, cosa guardi subito? Il formato e la copertina! È un libro tascabile, o no? Se è tascabile molto probabilmente è in brossura, con quella copertina morbida che tanto si rimpiange dopo qualche anno che si tiene a casa. Normalmente è la più economica, ma io i libri li ho quasi sempre presi in biblioteca, quindi non m'importava della brossura. I libri rilegati ti presentano meglio la storia. Non per la copertina rigida in sé, ma per la sovraccoperta, sulla quale gli editori ci buttano le immagini che meglio preferiscono con dettagli grafici che mi piacciono troppo. Con le unghie inoltre tocco le varie parti di una sovraccoperta per vedere se cambia la consistenza tra un colore e l'altro della stessa stampa. E poi nei risvolti trovi di solito la trama, e riesci subito a farti una mezza idea del libro. Magari con informazioni sull'autore, una sua foto. Credo cercassi di capire quanto ci può essere di autobiografico in una storia leggendola e poi guardando la foto che gli editori hanno messo nei risvolti della sua sovraccoperta. Nelle edizioni rilegate ancora la carta è normalmente di qualità superiore, è molto ruvida, senti che sfrega nei polpastrelli mentre cerchi di afferrarla, sembra dotata di un animo proprio che tenti di difendersi dall'usura prossima, causata da quel voltare pagine e voltare pagine. Ma, se un libro simile lo rileggi già due, tre volte, la carta perde quella consistenza, e capisci che il volume ha accettato il suo destino di usurarsi, per infondere qualcosa nella mente e nell'animo del suo lettore. Ho avuto modo di accertarmene prendendo libri appena arrivati in biblioteca. Quelli vecchi, ingialliti, vogliono raccontare una storia molto diversa, oltre al racconto dell'autore. Con quegli aloni vogliono raccontare di tante stanze diverse in cui sono stati riposti in attesa di essere finiti e riconsegnati, di quante dita e di quanti tipi di dita li hanno toccati: lunghe, tozze, sfilate, affusolate, impregnate di nicotina, o dei parabeni delle salviette economiche, di olio da cucina. È tutta lì la differenza tra un libro e la tv. Anzi, meglio fare le eccezioni, anche i film possono trasmettere molto solo dalle tecniche di ripresa e dalle inquadrature.
È come quando si ci lamenta del fatto che i ragazzi di oggi non vogliono più leggere e preferiscono guardare la tv. Perché l'accanimento contro di essa? È solo un mezzo, no? Ma “mostra dei messaggi distorti”. “La televisione mostra solo quello che vuole.”

Stupidi.

Pensate che i libri non lo facciano? Davvero, pensate che i libri mostrino i loro contenuti in maniera oggettiva? I libri ti mostrano quello che ti vogliono mostrare. Quello che l'autore ti vuole mostrare. Se io fossi il personaggio di una storia, un lettore mi guarderebbe con gli occhi pieni di paura e disprezzo, come fanno i paesani di questa città, solo se l'autore lo volesse. Ma nessun autore lo vorrebbe. O almeno credo.
Ma in sostanza, che cambia? Cambia solo che quando tu impari a leggere, ma leggere veramente, fai attenzione anche a tutti i particolari che un libro, tralasciando la sua storia, ti vuole trasmettere. E ciò ti fa capire che quando ti viene trasmesso un messaggio devi analizzarlo, e non accettarlo passivamente. Le persone di oggi quando guardano la tv accettano perfino il volume troppo alto o basso, tanto s'impigriscono e si rifiutano di allungare un braccio per cambiarlo. Le vecchiette di oggi hanno accettato uno strumento che ai loro tempi nemmeno esisteva solo per guardare le soap opere e accettare i ricordi nostalgici che quelle serie fanno riemergere, perché altro se non la nostalgia non gli è rimasto.
Rendendosi conto di essere quasi arrivato, Lucio uscì il cellulare per controllare l'orario. Le sei e ventisei. La biblioteca apre al pubblico alle 8, ma il bibliotecario è sempre stata una persona modesta e gentile, che ha ogni volta accolto Lucio ben prima. Essendo un uomo solo, che va a letto presto, il bibliotecario si ritrovava alla biblioteca molto in anticipo, passando le ore in attesa dell'apertura a leggere.
So che lavora ancora lì, perciò sarà già arrivato aspettando l'aper...
Cosa?”
La biblioteca si trovava dietro una chiesa, in quello che una volta era un convento. È incredibile come in quella cittadina, moltissimi edifici pubblici fossero in origine conventi. Questo vuol dire che praticamente nel centro storico, ogni cento metri, c'era un convento. La chiesa che da in prestito la biblioteca era una chiesa dal gusto molto semplice, pesante e dalla pietra molto chiara, forse ormai sbiadita dai secoli di sole. Stessa sorte tocca alle coppe di ceramica che ricoprono il tetto, una volte brune e scure, oggi del colore dell'argilla chiara, tipica di quelle zone. Normalmente i primi raggi di sole, toccando la struttura, la facevano brillare di una lucentezza opaca, che risplendeva negli occhi di chi guardava, ma non abbagliava mai.
Ma quel giorno, Lucio non rimase abbagliato per un altro motivo. Un motivo che lo colpì nel profondo, lo sconvolse, e gli spalancò gli occhi, rimasti grigi. La roccia della biblioteca era tornata completamente scura, completamente coperta dai raggi del sole, per colpa di una pianta rampicante che aveva ricoperto l'intero edificio. La biblioteca assumeva ora l'aspetto di una prigione, si entrava e forse non se ne usciva più.
Forse Lucio voleva scappare. E invece continuò a seguire la strada per la biblioteca, fissandola con un viso pallido e smorto. Le gambe andavano sole, la sua mente cercava di metabolizzare quel verde bosco scurissimo che era diventato parte della sua meta. Fin dal primo momento, temeva quel verde.
Più guardo quell'affare, più mi spavento...eppure mi ci avvicino. Forse mi sento come...estasiato. Quel verde scurissimo...mi da l'idea che non sbiadirebbe mai nemmeno dopo secoli sotto il sole. Qualcosa lo fa rimanere tale, lo rende quasi un corpo nero.
Il verde di quel rampicante è vivo...ne sono sicurissimo.
Ormai pallido in viso, continuò a proseguire lungo la strada che sembrava essere posta lì apposta per lui, per condurlo in quella che una volta era una semplice biblioteca.
Si avvicinò a tal punto da veder svanita la sua ombra, annullata nell'ingresso della biblioteca ancora del tutto buio.
“Caspita, si è alzato il sole...e va bene.”
Alzò un braccio per sfiorare con la punta delle dita una di quelle foglie scure. I polpastrelli gli tremavano, e nel cercare un contatto sembrò quasi che una foglia si avvicinasse con un colpo di vento alla sua mano. Lo toccò. La schiena di Lucio sussultò, per un brivido freddo. Poi la mano si abituò a quel tocco, che si fece morbido, che ricordava forse la buccia di una pesca, morbida e persuasiva. Il ragazzo rigirò più volte la foglia tra la mano, la lisciò, ne assaporò ancora di più il tocco, e osservava l'ombra che proiettava questa foglia sulla sua mano sotto la luce del sole. Quando la spostava, gli sembrava che questa ombra continuava a permeare nella sua pelle. Ci volevano alcuni secondi prima che il colorito del palmo tornasse quello che lui conosceva. O almeno così gli sembrava. Ma non gli importava. Era rimasto stranamente incuriosito dall'ombra di quella foglia. Era di un colore strano, molto simile al colore della pianta stessa. Sarebbe dovuto rimanere intimorito da quella cosa, ma non ci pensava più. Aveva la testa leggera, si sentiva inebriato nel toccare quella foglia liscia. Singolarmente, l'ombra si faceva sempre più lunga, sul suo palmo, fino a sfiorare il polso. Iniziò un po' a pulsare, non appena sfiorò le sue arterie...
Ragazzo!”
Sembrò un urlo più assordante del normale. Gli fischiarono le orecchie, come quando qualcuno ti da un bacio in guancia facendo quel rumore stridulo.
Luciò si girò, e vide il bibliotecario. Una goccia di sudore gli attraversò la schiena.
Ah, sei tu...Interito, giusto?”
Sì, signor Liblio.”
Ahah, hai una memoria straordinaria! Ti ricordi addirittura il mio cognome, dopo tutto questo tempo...eeh, credo la tua tessera della biblioteca sia sul punto di scadere, la vorrai rinnovare, vero?”
S-sì.”
Tutto apposto?”
B-bhe, mi ha fatto spaventare.”
Il bibliotecario alzò di nuovo la testa sogghignando tra i baffetti argentati e macchiati dalla nicotina.
Scusami, scusami...pensavo fosse stata questa pianta a darvi qualche tormento.”
In che senso?”
Ah non lo so giovanotto, ma io non riesco nemmeno a fissarla troppo a lungo questa pianta. Mi fa venire i capogiri a guardarla. E poi non sono mai riuscito a capire come ci sia finita qui. Il comune chiaramente ha cercato di capirne di più. Non è tipica di questa zona. E hanno cercato addirittura di avvelenarla alla radice per sradicarla.”
E...non ci sono riusciti?”
No...secondo me il veleno che hanno usato era scaduto, non aveva un bel colore...l'avevo fatto presente a quelli che son venuti, ma non mi hanno sentito. Del resto, quelli che ne capiscono. In ogni caso, non successe nulla alla pianta, e questa ricoprì tutta la biblioteca. Poi, visto che comunque non causava problemi, l'hanno lasciata stare. E io ora ogni volta che vengo ad aprire devo sbrigarmi a entrare: non sopporto la presenza di questa pianta...seguimi, va!”
C-certo!”
Le mani di Lucio smisero di tremare una volto accolto con un braccio sulla spalla dal vecchio bibliotecario, rimasto sempre cordiale, dentro la biblioteca, che ormai da lontano poteva sembrare una piccolissima e circoscritta foresta fitta fitta.

*--*


Angolo dell'autore.
Finalmente! Chissà da quanto non toccavo più questa storia, sarà passato tantissimo tempo. Una storia tristissima purtroppo quella di Pietro e Rosetta, storia che esiste davvero, e raccontata nel tentativo di far tornare i bambini presto a casa. Chissà se è vera! Ho seriamente dubbi riguardo il continuo di questa storia, mi sta sembrando che stia completamente divagando rispetto quello che era il fine originale. Ma mi sembra ancora che poco abbia detto su Lucio, e poco ci sarà da dire invece sulla povera Giada, che da un po' ignoro del tutto.
Bhu, staremo a vedere...
Stay tuned e blabla le recensioni, ciao!
 

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Capitolo 8
*** Racconti di una notte stellata in mezzo agli alberi di carrubo. ***


“Ancora non mi hai spiegato il perché delle attività prevalentemente notturne di tuo nonno!”
“E finiscila, quando sarà il momento lo saprai.”
“Che poi, mi lascia del tutto perplesso questa voce che lui sente in casa sua, Scuro..”
“Ora te ne parlerò un po’ meglio, visto che c’è un piccolo intreccio tra lei e mia nonna Giada.”
“Ah sì? Dai che son curioso!”


Quando il sole incomincia a colpire su quella villa, incontra quasi sempre le finestre sbarrate. Al massimo al sole è concesso, a volte, infilarsi nelle intercapedini delle persiane, cosa che risulta facile al piano di sopra. Nel piano sottostante, la questione è ancora più difficile, perché intorno all'abitazione crescono alti e forti vari alberi di ulivo che, prima ancora di lasciare sempre al buio la casa, tengono sempre in ombra tutto il giardino.
Le bollette della luce che arrivano in quella casa sono relativamente basse, rigonfiate forse quella che è per gran parte del giorno l'unica fonte di luce: un personal computer. Un grande personal computer. Vi è dedicata una stanza a parte, al secondo piano, illuminata dal grosso monitor che posa statuario sopra una grande scrivania di legno. Girando intorno, si nota che ogni muro è coperto da grosse librierie stracolme di albi, riviste e libri. E infine, tra due di queste, messo in un angolo, un divano a due posti, rosso, dal tessuto ormai logorato dal tempo, ma ancora comodo e accogliente.
O almeno, solo questo poteva pensare un'entità senza peso che provava a buttarsi lì.
Un po' come Scuro fingeva di fare.
Una presenza come Scuro si manifesta solo in casi rarissimi, oppure in base ad alcune condizioni. Come si può intuire dal nome, essa si può nutrire di tanta oscurità. La stessa presente in quella casa, ormai rifinita dall'insistenza col quale persiste, ormai ponderata dal lungo tempo di permanenza lì, ormai sedimentata in quella abitazione.
Scuro si lecca i baffi dentro quella oscurità.
Con un balzo innaturale, si precipitò davanti al grande schermo della stanza, ormai abituato a emettere grande luce bianca.
Ricerche, tanto testo scritto, una canzone indie rock appena percettibile avvicinando l'orecchio dalle cuffie. - "I don't have to see you right now." -
Poi, nascosta, una conversazione per email.
"Sig. Interito, la ringrazio tantissimo di aver trovato tutto quel materiale che, le assicuro, ci ha aiutato davvero tanto per i nostri progetti. Insieme alla somma per la sua ottiam progettazione web, le manderò quanto le spetta entro questa settimana."
"Perciò è questo il tipo di richieste al quale risponde...ricerche, progettazione web, cose così."
Una conversazione precedente parlava di una fattura insoluta, e di varie manomissioni informatiche inspiegabili avvenute al cliente, che aveva puntato il dito contro Lucio.
"Illazioni..." sentenziò Scuro.
Aveva percepito tante volte le sommesse frasi che Lucio bisbigliava leggendo tali lettere, e ogni volta aveva fatto sue le risatine che ragazzo si faceva nel buio di quella stanza.
Ormai Scuro sapeva bene pure lei che le manovre di quel giovanotto, per quanto cattive, erano pianificate e particolareggiate in maniera tale che nessuno potesse mai accusarlo veramente.
Il fine giustifica i mezzi, si dice, e solo in casi come questi lui agiva in modi tanto ignobili. Doveva pur mangiare, i decreti ingiuntivi ci mettono anni.
Una volta arrivò addirittura a causare il blocco totale di una rete, non tanto manomettendo dati vitali o robe così, ma semplicemente criptandoli. Riscritti in una maniera incomprensibile per chiunque, tranne per chi non avesse i giusti mezzi e la giusta chiave. E sempre quest'ultima mancava alla vittima. Solo una persona aveva la giusta chiave, che faceva sempre rinvenire quando gli conveniva, ossia quando otteneva quanto gli spettava.
E in tutto ciò non si poté mai, mai accusare veramente Lucio.
Scuro se la rise di gusto, una risata che fece vibrare ancora più intensamente le note che fuoriuscivano dalle cuffie, talmente forte che vibrarono pure i coni del grande impianto 5.1 presente nel salotto accanto. Talmente forte che pure gli alberi del giardino tremarono per scrollarsi di dosso quella perfida risata e non ascoltarla.
Ma a dire la verità nessuno sentì mai la sua vigorosa risata. Forse perché questa non poteva essere ascoltata, forse perché non la fece mai.
Nessuno rise con lei, una risata simile non la farebbe nemmeno davanti a Lucio, per paura che potesse prenderlo di sorpresa, magari in uno dei periodi meno opportuni che passa lui, e farlo letteralmente morire di paura.
"Sì, effettivamente potrebbe..."
Tutto a un tratto Scuro sobbalzò. Qualcosa le rispose, e le stava rispondendo ancora, un'onda ultrasonica, atavica, proveniente dal centro della terra. Ne fu soggetta con tutta la sua potenza devastante, e fu portata a nascondersi in uno degli angoli più bui del soffitto. Ben presto però Scuro si calmò, nonostante il suono continuasse, perché aveva capito da cosa era generato. Forse un po' triste, forse un po' irritata lasciò piano piano penzolare un braccio, accompagnato dagli altri arti.
Altri suoi sospiri accompagnarono il gocciolio che la portò a svanire in una pozzanghera scura come la pece, che nel frattempo evaporava come fumo nero.

-***-

Tornò a casa che avvertì la presenza di qualcuno. Non era qualcuno che conosceva.
"E adesso chi è quest'altra scassapagghiara?"
La osservò mentre questa persona apriva piano piano l'uscio di casa. Sembrava essere leggermente disorientata, che si fosse persa?
"Cosa, la porta della dimora è aperta? Mannaggia a te, Lucio! Va bene che nessuno nemmeno si sogna di entrare qui, ma la porta chiudila!"
Si rimise penzolante dal soffitto, mentre l’estranea faceva balzare lo sguardo tra il giardino e l'ingresso. Scuro la fissò con più attenzione.
“Questa ragazza ha passato un brutto quarto d'ora, mi sa. Come me. Però...”
Buttò un ultimo sguardo più accigliato e pensieroso verso l'interno, poi richiuse la porta.
"Bene, non voglio altri problemi, non ora."

-***-

Fa caldo in questi posti qui. Troppo caldo. Ma c'è davvero bisogno di tenere i condizionatori al massimo in questo modo?
Non persi tempo a togliermi un dubbio e mi spostai per buttare un occhio verso l'ingresso.
Ecco, tengono pure la porta aperta, Madonna! I modi per sprecare ci sono tutti. Dementi!
Tornai visibilmente alterata davanti alla caterva di libri ordinatamente esposti per genere. Dopo il fatto che mi era successo nel vicolo accanto a quel bar, non sono sicuramente il tipo da lasciar perdere. Forse mi sarebbe stato più producente un viaggio in biblioteca, ma non sapevo nemmeno se in quella città ce ne fosse una. Volevo scoprire se in quel posto ci fosse una leggenda che avesse collegamento con quanto mi è capitato. Non ho avuto una semplice visione, o qualcosa di troppo vago. La mia è stata un'esperienza vivida, per la quale avrei potuto tranquillamente darmi della pazza da sola. Ma io non ero pazza, ero certa di quello che ho visto, ed ero anche certa che una cosa simile mi sarebbe potuta capitare solo in questo posto, perché la causa di tutto è questo posto. Quindi, molto semplicemente, iniziai a pensare che l'idea migliore fosse quella di cercare in libreria di libri riguardanti le storie locali, per provare a capirci di più. Forse è stata l'idea più sciocca, invece. Perché i libri che quella libreria offriva erano semplicemente troppi. Non avevo la più assoluta idea di quale prendere...quello riguardante delle storie legate alle istituzioni religiose? Quello dei racconti più cruenti?

Questo posto è un cazzo di zoo per anime maledette?!

Alla fine decisi di andare per quello che trovai molto semplicemente il più invitante dal titolo.
"Racconti di una notte stellata in mezzo agli alberi di carrubo."
Se si può definire invitante. Mi invitava quel nome. Inoltre era uno dei più convenienti.
Mi diressi verso la cassa per comprarlo, e, mentre pagavo, guardavo fuori da una finestra che tempo tirava fuori: erano arrivate alcune nuvole a coprire il sole che ancora stava alto ad aspettare il tramonto.
Vuoi vedere che si mette a piovere…

Non aveva notato che il cassiere, fin dalla vista di quel libro che Giada stava comprando, si permise di fissarla perplesso e stranito. Era una ragazza nuova, si viene a sapere subito quando una persona di un’altra città viene qui, e lui lo aveva subito intuito.
“Perché prendere un libro del genere?”, si sarà chiesto.


“Scusami...secondo te più tardi piove?”
Il ragazzo sembrò quasi rinsavire da qualcosa. Mi diede questa impressione, non so perché, e si sporse verso l’ingresso guardando fuori. Tuttavia non era abbastanza convinto per darmi una risposta, quindi uscì per tastare un attimo l’aria. Poi si voltò, e sicurissimo mi rispose.
“No, puoi stare tranquilla, non si metterà a piovere per ora, forse stasera…”
“Oh...beh, grazie, arrivederci!”

“Arrivederci!”
Il ragazzo le fece un sorrisetto di cortesia che gli rimase stampato sul viso anche dopo che lei era ormai scomparsa. Nemmeno quando, subito dopo, il ragazzo vide una figura stranissima, vestita di nero, con una sciarpa scura sul collo, andare a passo veloce nella stessa direzione della ragazza. Semplicemente, si girò a servire altri clienti pensando a quei lunghi capelli bruni e sorridendo.


Scelsi di non tornare immediatamente a casa, ma di sedermi un pochettino in un parchetto lungo la strada, su una panchina di legno. Mi accomodai e, rilassandomi, iniziai a sfogliare il libro appena comprato. Vidi subito a chi fosse dedicato, è un’abitudine che ho preso da piccolina.
“Alla mia cara e splendida moglie Maria.”
Una didascalia poi recitava: “Che il tuo splendore possa essere sempre preservato, così come io preservo il mio amore per te.”
“Ellamadonna” pensai. Di risposta qualcuno mi fece una domanda.

-***-

“Cos’ha letto di così tanto ironico da nominare la Santa Vergine?”
Scossa da questa domanda posta in modo così accusatorio, Giada saltò spaventata leggermente indietro sul bordo della panchina, col rischio di cadere per terra.
Tentò di non alterarsi più di tanto e osservò quell’uomo che si era seduto accanto a lei e che esplodeva dall’impellenza di ammonirla per quell’espressione.
In realtà l’espressione sul viso di quell’uomo non sembrava indispettita o arrabbiata, ma era calma e dolce. L’uomo la stava guardando sorridendo. O, almeno, questo s’intuiva, visto che la sciarpa che portava al collo lo copriva fin su nel baffo.
“Scusami, davvero, perdonami, non volevo farti spaventare! Né volevo apparire come un seccatore, a me non mi faccio problemi per tali ingiurie, sinceramente! Mi era venuta solo la curiosità…”
Giada non si volle lasciar scappare uno dei proverbi più cari e allo stesso tempo più odiati per chi tiene alla sua privacy, ma lo urlò dentro di sé.
”La curiosità uccise il gatto...”
“So che di solito non è cortese farsi gli affari degli altri, ma sai, a volte una bella nuova rubata a qualcun altro ti cambia la giornata.”
“...”
“E qui è così difficile, ormai…”
“No, no, va beh, si figuri.” rispose infine la giovane.
Era un uomo di una cinquantina di anni, uno di quelli che però li porta benissimo. O almeno, li nasconde sotto alcuni particolari molto singolari...per esempio, il colorito della sua pelle, chiarissimo.
“Sembra una delle tante maschere di David Bowie…” pensò Giada a riguardo.
“È vero che qui a sentire qualcuno ingiuriare in quel modo qualcuno qui si potrebbe sentire offeso, son quei cliché tipici delle cittadine di provincia che, diamine, qui continuano a resistere anche tra i più giovani, figuriamoci tra gli anziani! Tu sei di fuori, vero?”
“S-sì, come lo ha capito?”
“Eeeh, si nota sai? - disse puntando il libro - qui non si è soliti leggere libri del genere.”
Si sporse per sussurrarle una cosa all'orecchio.
"Non in pubblico, almeno."
Questo è quel genere di discorsi che manda un po’ su tutte le furie Giada.
“Per un libro letto su una panchina?!”
“Non la farei così tragica, anche se non hai tutti i torti. Comunque sì, mettersi a leggere un libro in pubblico è una cosa che non si fa, perché si diviene spesso e volentieri soggetto di conversazioni non appena si parla di qualche libro simile a quello che stai leggendo.”
“...si arriva così facilmente ad essere sulla bocca di tutti?”
“Eh, qui sì, purtroppo…”
“Perché dice purtroppo? Lei non è di qui? Non aveva già provato a farsi i fatti miei?”
La pazienza di Giada era arrivata già a un punto critico.
“Ehi ehi, non c’è bisogno che ti alteri così!”, disse l’uomo rimanendo sempre calmo e sorridente.
“Io sono un uomo molto curioso, ma non un uomo dalla lingua lunga. Non mi metto a sparlare.”
“Ma non pensa che già il fatto che ficca il naso nelle faccende altrui sia già sbagliato di suo?”
L'uomo non smise un attimo di osservarla, ma dopo quella frase s'interruppe un attimo, facendo una smorfia con le labbra. Poi riprese.
“Perché, a te non è mai capitato?”
“No, da quando ho iniziato ad avere una certa età no.”
“Ne sei proprio sicura?”
Giada rimase spiazzata dalla sua insistenza. Sospirò.
“Anche a me può venire la curiosità su una qualsiasi cosa, ma solo nel caso in cui io so di potermi intromettere lo faccio.”
L’uomo, forse un pochettino rinfervorato da quella discussione, si tolse la sciarpa e la posò davanti a sé. Giada riuscì a notare che che era di un tessuto molto sottile, quasi fosse uno scialle.
L’uomo poté quindi a mettere in mostra il suo sorriso più ampio e divertito.
“Aaah, è così?! Saggia ragazza! Mi fiderò di quello che dici…”
Passò un minutino buono di silenzio abbastanza imbarazzato tra i due, quando l’uomo ricominciò a parlare.
“La storia è questa in cittadine simili. Tutti conoscono tutti, e quindi ogni persona è portata a cercare di apparire il meno possibile, afferrando però ogni occasione possibile per mettere in mostra qualcun altro. Da ciò si generano regole...dette al vento, che però ha la capacità di sancirle per valide.”
“Che cosa stupida…”
L’uomo sorrise per l’intransigenza di Giada, e continuò.
“Sai perché i latini erano soliti dire ‘verba volant, scripta manent’?”
“Beh - si mise a pensare Giada - perché...tutto quello che viene detto a voce, appunto, vola via, mentre tutto ciò che è scritto rimane sulla carta, disponibile a chiunque.”
“Errato!”
“Ah no?”
“No, per i latini è quasi al contrario, questo detto voleva lodare l’oratoria, il discorso parlato. Un discorso scritto su un foglio ha un certo peso, in base al suo contenuto e a come è scritto, ma quello rimane. Non puoi rendere un testo di Lovecraft più pauroso di quanto già non sia, perché il testo che ha scritto lui quello è, e quello rimane. Se lo modifichi non è più il suo testo, al massimo è un caso di plagio.
Giada dovette convenire che effettivamente è così.
“Con i discorsi a voce invece non è così: in base a come s’intona la voce, le parole riescono a volare più o meno efficacemente dentro le orecchie delle persone.”
“...e quindi?”
“E quindi allo stesso modo qui le parole piene di oltraggi, fandonie e indiscrezioni, hanno un peso enorme. Proprio perché bisbigliate, di modo che il soggetto della sparlata non lo sappia. Fino a quando magari non viene a saperlo dopo che la voce si è sparsa e si è arricchita di tanti particolari aggiunti…”
“...”
“Inoltre, immaginandomi da dove vieni, posso immaginarmi che cose simili non succedano, o che finiscano in rissa.”
Giada non poté fare a meno di annuire, sconsolata. “Già.
“...qui si è soli quando qualcuno prova a difendersi, perché si è già soli nel momento della sparlata. E niente purtroppo si può fare. Inoltre…”
“...inoltre?”
L’uomo sembrò pentirsi di aver usato quel termine.
“Inoltre...ci sono certe persone che ancora oggi hanno modi oscuri di vendicarsi per un torto subito, che siano nel giusto o nel torto…”
“Modi? Che modi?”
“Cose che non ti aspetteresti mai, che nemmeno sai pensare.”
Giada rimase quanto meno basita da quella risposta, accettò definitivamente l'idea di parlare con un pazzo.
Lui cercò subito di cambiare discorso, di girare la frittata.
“Vedi, ti stava venendo la curiosità!”
Alzò una mano infoderata in uno dei suoi guanti neri in velluto, e la puntò scherzosamente.
“Beh, lei ha tirato il sasso e poi ritirato la mano!”
“Sì, sì, è vero, non avrei dovuto esagerare…ma tu fai bene a farti i fatti tuoi, ché sei una ragazzina.”
“Che voleva dire?” Si chiese Giada, sempre più scossa da quella discussione.
“Sai come si dice...la curiosità uccise il gatto...”
“...ma la soddisfazione lo riportò in vita!”
“Ma tu non sei un gatto!” concluse con una grassissima risata l’uomo.
Giada perse del tutto la voglia di continuare la conversazione con quell’uomo e la lasciò cadere, si mise a leggere. L’uomo dal canto suo, aveva perso interesse, e si sistemò meglio per gustarsi un Toscano. Una volta completamente acceso il sigaro, si alzò.
Giada non poté fare a meno di sbirciare un’altra volta con la coda dell’occhio questo tipo. Vestiva completamente di nero, manco fosse un becchino. Pure le scarpe a punta erano quel tipo classico ed elegante che si usa in queste occasioni. Magari era davvero un impresario di pompe funebri.
“Ecco forse perché lui era al di fuori da queste discussioni, forse...nessuno si mette a sparlare di un beccamorto, pensando porti sfortuna, né sparla con lui di qualcun altro, perché è come se si augurasse la morte a quest’ultimo…
È meglio augurare ogni supplizio umanamente ammissibile, ma mai la morte.”
Giada uscì dai suoi pensieri per sentire per un’ultima volta quell’uomo.
“Adesso vado, che sono uscito senza veicoli e mi tocca fare una camminata. Magari non troppo lunga, ma comunque lungo un percorso un po’ scosceso. Guarda, è proprio lì che devo andare!”
L’uomo indicò un punto oltre i pendii delle colline, e puntò un edificio di colore scuro, posto accanto a una chiesa. Giada lo seguì svogliatamente.
“È un bel punto, peccato sia abbastanza isolato, e che accanto ci siano solo una chiesa quasi sempre vuota e poi… - mosse il dito, girandosi verso sinistra lungo il bordo della cima della collina - il cimitero a un dieci minuti di cammino, insieme a Villa Cascia.”
“Ho capito.”
“Bene! Impari in fretta! Buona serata, ragazza!”
Un fremito la colse dopo quell'augurio.
"Ma..."
L'uomo si girò. Il suo sguardo era diventato serio. Non aveva mai avuto un'espressione bonacciona, ma ora incuteva timore.
“Ma...ancora c’è il sole!”
Venne fissata per degli attimi che non passarono mai. Poi, un'altra risata.
“Oh, perdonami, qui si è soliti iniziare a dire buona sera appena poco dopo il pranzo, durante la canicola.”
“Buona...sera, allora.”
L’uomo si toccò il cappello, nero, e partì, con una camminata molleggiata.

-***-

Non è il tipo di persona che passa inosservata qui, ma da quando mi sono trasferita non l’ho mai visto qui in giro, è una cosa molto strana, pensandoci.
Il punto è: Ma che voleva da me, e perché è venuto a raccontarmi tutte queste storie? Bah. La gente è strana. Quella conversazione con lui mi aveva seccato parecchio, perciò decisi di non stare un minuto di più su quella panchina, e di tornarmene direttamente a casa. Sistemai tutto nella borsa e iniziai a fare un movimento circolare con le mani per…
Cosa diamine stavo facendo? Cosa avevo al collo?
Guardai verso il basso, oltre il decolleté, e vidi che senza nemmeno accorgermene mi ero presa lo scialle di quello strano tipo! Ma che diamine ho fatto?!
Inoltre...lui lo ha dimenticato lì? Come ho potuto prenderlo? Qualche volta mi dimentico la testa a casa, Cristo! Però...glielo potrei riportare! Dove ha detto che stava?
Incominciai a fissare alcuni punti intorno alla collina, ma non mi sembrò di vedere quell’edificio che mi aveva indicato all’inizio. Notai il cimitero.
Va beh, pazienza, alla fin fine lo ha perso lui, potrei rimetterlo sulla panchina, ma che ne so se qualcuno non lo prende comunque, oltre alla beffa di passare per ladra ci starebbe il danno che questo pezzo di stoffa non ce lo avrei veramente io…però...mhh, quanto tiene caldo!
Incominciai ad alzare le spalle per stringerlo di più verso le mie guance e farmi coccolare un attimo da quel delicato tessuto. Meraviglioso. Un punto in più per questo posto.
Arrivata vicino casa provai addirittura a mettermelo come si mette normalmente uno scialle, ossia coprendosi fino al naso, quasi fosse un burqa. Penso le origini siano simili…
Una volta rientrata, senza nemmeno pensarci, me lo levai con gran fretta e lo buttai insieme la giacca su una cassapanca che i miei avevano messo all’ingresso. Mi buttai sul divano e mi misi a leggere il libro.
...
Pensai che leggere pure la prefazione avrebbe aiutato a darmi una interpretazione, ma ero molto perplessa, mi grattavo tra i capelli mentre leggevo, confusa. All’inizio della seconda pagina iniziai a notare un odore strano, metallico, e aspro.
Aspetta, da quanto tempo mi sto grattando?
Cercando di mantenere calmo il respiro alzai la mano dal cuoio capelluto, e la portai davanti ai miei occhi. La testa iniziò a formicolarmi come un piede quando si ci addormenta in una strana posizione. Faceva male…
Guardandomi le dita della mano, le vidi intrise di sangue raggrumato, croste e qualche capello all’apparenza crespo. Strabuzzai gli occhi e buttai il libro. Nel tentativo di non urlare mi portai l’altra mano, la sinistra, vicino alla bocca. Fu in quel momento che iniziai a terrorizzarmi sul serio: non avevo più la pelle liscia che ero solita avere. Era rasposa, piena di escrescenze, quasi come fosse bruciata. Tastandomi sempre più freneticamente, le guance iniziarono a farmi male improvvisamente, e sobbalzai, allontanando di scatto la mano. In preda alla paura corsi in bagno, mentre le lacrime iniziavano a rigarmi il viso quasi letteralmente: facevano male, come se lasciassero veramente un solco al loro passaggio. Davanti allo specchio iniziai a urlare: il mio viso dal naso in giù era completamente sfigurato. La pelle era diventata secca, scura, e lasciava vedere delle grosse vene e delle orribili macchie che non avevo mai avuto. Infine, profonde ferite sanguinanti mi deturpavano il viso.
Mi accasciai per terra, e mi accucciai per il dolore che solo in quel momento avevo realizzato di provare. La pelle mi bruciava dolorosamente, come se me la marchiassero a fuoco.
Quando riuscì a contenere il dolore e il pianto, guardai di fronte a me, oltre le ginocchia, e vidi lo scialle di quello stramaledetto tipo davanti a me.
La cassapanca era vicino l’ingresso del bagno, forse me la son trascinata dietro nella corsa senza nemmeno accorgermene. La tirai con le mie Vans vicino a me e la strinsi forte.

Era colpa di quello scialle, vero?
Perché stanno iniziando a succedermi cose simili da quando sto qua?!
È perché ho pensato male di sto posto dimenticato da Dio fin dal primo momento in cui vi ho messo piede?! Perché?!

Continuavo a singhiozzare per il dolore, fino a quando mi accorsi che in realtà questo stava svanendo.
Non so di preciso quando il dolore incominciò ad andarsene, ma mi accorsi che le lacrime non mi facevano più male, e tutti i dolori nella guancia si mitigarono.
Quasi…
Quasi come se la sciarpa lenisse quei dolori.
“Vedo che te ne sei resa conto.”
Non riuscì in quel momento a dare delle caratteristiche a quella voce, pensai che dal nulla fosse ricomparso quel maledetto uomo in nero.
Non compresi subito che quel timbro di voce non fosse umano, e fosse più simile al suono di corde di una viola grattate malamente con delle unghie spezzate.
Alzando la testa vidi me stessa, ridotta a un ammasso di carne marcia e di vene ormai annerite dalla decomposizione, con i capelli di un grigio cenere che in varie chiazze della testa lasciavano il posto a materia organica, ormai alla mercé dei vermi.
“Dammi quello scialle!”
Potevo benissimo vedere il tessuto cutaneo della mandibola strizzarsi e stirarsi come un cencio sporco di anni. Gli occhi erano gialli e smorti, e sicuramente non erano quelli a guidare quella...cosa verso me.
Rimasi impietrita, mentre le mie corde vocali, ormai paralizzate per la paura, facevano fluire aria senza emettere nessun altro suono che un sibilo ansimante, per far battere le ultime volte un cuore preso dalla paura.
Riuscivo ormai a sentire l’alito fetido del mostro davanti a me, che nel tentativo di sorridere davanti al suo pasto gettò un orrido urlo, simile a quello dei poveracci condannati al toro di Falaride, quasi fracassando la sua stessa mascella.
Questi furono gli ultimi attimi di Giada Micante.


*--*

Commento dell'autore:
E rieccomi di nuovo qui? Sempre più tempo separa la stesura di un capitolo da un altro. Spero proprio che a quei pochi che lo leggono stia piacendo.
Lo spero proprio perché dopo una bel pomeriggio passato a riprendermi da un'estrazione con relativo antibiotico mi colpì di nuovo l'ispirazione per questa storia, e ricominciai a scrivere come un dannato.
Speriamo che continui. Stay tuned!

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Capitolo 9
*** Accoglienza vermiglia e vitrea ***


"..."
"..."

A cosa si pensa quando si cade? Si dice che passi tutta la vita davanti, che ogni ricordo ormai dimenticato ritorni a galla nella frenetica e furiosa attività che inizia a compiere il cervello, nella speranza di rimanere vivo. Non è un po’ strano? Teoricamente non avresti il tempo di rivivere tutte le tue memorie. Non importa quanto sia alto il punto dal quale cadi o ti butti, i secondi che ti distanziano dalla morte saranno sempre troppo pochi. I momenti tra quel gesto e il rovinare del tuo corpo al suolo, nel tentativo troppo affrettato di tornare alla terra, non saranno mai e poi mai abbastanza per rimpiangere la vita dalla quale sei scivolato via.
Il mio cruccio non era questo, purtroppo.
Stavo cadendo già da una buona manciata di attimi, ma perché non mi succedeva niente?
Cadevo e basta. Nel buio più tetro, ebbi l’impressione di abituarmi all’oscurità, e di vedere le rocce creparsi e scricchiolare intorno a me. Non riuscivo più a muovere un muscolo a causa dello sgomento che quella caduta mi stava provocando. Ero in apnea, con gli occhi sbarrati. Ciondolavo nel vuoto in maniera del tutto libera, come fa un peso morto quando viene buttato da un punto in alto.
La persistente mancanza di respiro mi stava anche facendo perdere coscienza, sostituita da un fortissimo mal di testa che mi annebbiava la vista.
Tutto ad un tratto mi piegai all’indietro e provai un dolore lancinante alla schiena. Dovevo aver sbattuto contro qualche roccia sporgente. Iniziai a provare freddo, tanto freddo. Avevo quasi sicuramente una ferita aperta e molto vistosa alla schiena, sentii un forte gelo letteralmente dentro le ossa, e fiotti di sangue che mi sporcavano il fondoschiena, le braccia, quando mi capovolgevo anche il collo.
Perché il buio? Prima ci vedevo. Riuscivo a vedere quell’orrore profondo, fatto di pietre scivolose e ammuffite, ma sempre dure e impietose. E in quel momento invece nulla. Non riuscivo nemmeno a sentire la gravità che fino a un attimo prima mi trascinava sempre più giù, quasi...quasi fossi arrivata al centro del mondo. Mi sentii sempre più leggera, sforzandomi di guardare verso il basso mi vedevo quasi come un panno di feltro arrotolato, le gocce di sangue che prima mi macchiavano le spalle e si facevano immancabilmente superare dal mio corpo pesante, ora piano piano andavano a permeare tutto il mio essere, e formarono un lettino rosso nella quale sprofondavo, mentre si formava il baldacchino con le sue tendine. Questa sensazione si fece ancora più forte, mi ero davvero adagiata su una coltre vermiglia.Perché quella luce? Cos’è? Quanto è distante? Di che cosa brilla? È una cosa che vedrei solo io, se non fossi sola?

Sono sola?
Magari no.
Cosa cala da quel bagliore?
PLIC
Una goccia?
Mi sta rubando l’anima.
Dove sto finendo?

Cos’ero diventata? Un ammasso di quanti? Forse di monadi?
Tutta questa questa pressione...mi sta facendo male....
Finii in mare. Un mare calmo e accogliente, che mi cullava tra le sue onde. Di contro, un cielo nerissimo che mi guardava beffardo e meschino, nella sua misera svogliatezza. Nemmeno una stella, ovvero un sole, la luce diffusa nell’etere dall’aria ionizzata. Nessun confine intorno a me. Solo sopra e sotto. La mia vista non era più la mia. Non aveva limiti. Non era umana. Però, cosa brillava di luce e cosa di ombre non lo sapevo. Della seconda, sicuramente le mie orbite. Riuscivo a girarmi? Ci provai. Sentivo che se non mi muovevo non sarei stata me stessa. Nemmeno i resti mi sarebbero mai più appartenuti. Ma non potevo muovermi. Invece iniziai a scivolare. L’acqua si sforzò di tenermi a galla, ma la mia ferita aperta schiacciava i polmoni già vuoti. Non era importante, avevo esalato l’ultimo respiro da troppo tempo. Non respiravo. Però avevo tanta paura. Non sapevo cosa ci stesse sotto, e non riuscivo a vederlo.
Se riuscissi...a g-girarmi…
Non riuscì a capire cosa effettivamente stessi guardando. Il fondo di quel mare era impossibile da vedere, era troppo profondo, sembrava scorrere all’infinito, immerso in una luce vitrea e fredda. Era come macchiato però da un buco nero. Una immensa vastità di nero impassibile si stagliava al centro della mia visione, mentre delle onde vorticose fluttuavano minacciose intorno ad essa. Ma questa oscurità non sembrava volerne sapere di svanire e cedere il posto a questo incontrastato potere che l’attanagliava. Questo vortice appariva minaccioso, ma in realtà non sembrava voler attaccare direttamente il nero. Lo scrutava, lo giudicava. Però in realtà aveva paura, come se quell’entità potesse tutto ad un tratto inglobare tutto. Come se tutto ad un tratto si sarebbe potuta scatenare una forza ben più potente di quel vortice.
Si agitava tutto intorno, guizzava, ma il tratto più vicino a quel centro era calmo, come se non si volesse muovere per il terrore, o fosse impossibilitato a farlo.
Ero rimasta talmente incantanta ad ammirare questa orchestra che mi si parava davanti, che non mi ero nemmeno accorta di quanto stessi scendendo giù. Non avevo bisogno di aria, però la pressione dell’acqua si faceva sempre e sempre più forte, iniziò a darmi fastidio. Lo spettacolo davanti a me non sembrava avvicinarsi, non riuscii davvero a immaginare quanto fosse lontano.
Singolari luccichii vidi danzare davanti gli occhi, mentre un grande alone rosso mi ricopriva lo sguardo. L’acqua ormai stava deformando l’ultima parte ancora intatta di organi interni, i cui capillari, rompendosi, donarono a questa immensa distesa vitrea una sfumatura sanguigna. Piano piano iniziai a non vederci più, pur senza perdere coscienza. Man mano che mi coglieva il buio, la mia paura, e il desiderio di capirci qualcosa, prendevano il sopravvento.
Non seppi mai se quella grandissima spazzata di acqua che distrusse quel poco che era rimasto del mio cadavere fosse stata generata dal vortice di acqua messo molto più in sotto di me. So solo che mi sembrò di morire per una seconda volta. 

Un grande arcobaleno frastagliato si stagliava dinanzi a me, agitato e impazzito, quasi inferocito come un cane colto dalla rabbia. Mi morse con un grande balzo. Si plasmò. Mostrò tutta la sua feroce cattiveria verso i miei confronti.
Mi ritrovai in una stanza di ospedale.
Il letto bianco, con quel suo materasso anti piaghe, le coperte fatte con materiale molto ruvido, ma maledettamente accogliente. Troppe persone dicono che non vorrebbero mai provare il letto di un ospedale, ed è maledettamente comprensibile. Ma quei letti, seppur fatti con la freddezza consapevolezza di dover essere prodotti in scala industrale per riempire tante stanze di ospedale, sono di un’accoglienza unica.
Quell’olezzo misto di alcol, omogeneizzato, e fiati pesanti, stanchi. La classica colorazione delle pareti bianca e verde acqua, impilati e accostati malamente, magari a mosaico. Secondo dei precetti della cromoterapia, che nemmeno so se la medicina ufficiale accetta, questi colori vengono scelti perché uno permette di riportare alla calma un animo agitato, e portanto a essere più aperti verso le altre persone, specialmente i medici, l’altro dona vitalità a un corpo affaticato e stanco.
Ma io ho saputo dare un altro valore a questi colori. Non so se considerarlo un complotto, ma penso che mi potrei sentire come Edward Norton quando in Fight Club scopre a cosa servono le mascherine che calano sopra la vostra testa quando un aereo precipita.
Non servono per farvi respirare. Servono per mantenervi euforici e tranquilli fino alla fine...
Non che il verde e il bianco nelle pareti degli ospedali servano a questo, però…
Una volta passata, fui accolta da una grandissima distesa di acqua color smeraldo, che non fece altro che portarmi giù, sempre più giù.
Il bianco è sempre stato il colore della purezza e del candido, chi vede bianco in questo caso sa già dove andrà, a cosa sarà eternamente destinato, e lo capirà con un sospiro di sollievo e col calore dell’abbraccio di un perfetto sconosciuto.
Io non vidi il bianco, nel mio viaggio. Io vidi solo il nero. A me tocca questo: l’inferno. O forse il nulla? Quale posto sarebbe il peggiore, tra i due?
Ormai posso preoccuparmi solo di questo, non posso versare lacrime amare nella speranza di un’ulteriore maledizione che mi riporti a una condizione umana.
Sto in un ospedale, ma non sono uno dei malati, e non sono nemmeno un visitatore.
Io sono morta, morta per sempre, e nemmeno mi sarà concesso sapere se verrò mai ritrovata.

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Capitolo 10
*** Felicità a chi ha perso ogni speranza. ***


“...e quindi?...”

“...”

 

Non era del tutto corretto dire che io non stessi tra i malati, almeno, non in quel momento almeno. Ero stata da pochi minuti dimessa. Dopo un buon mesetto di materassi antipiaghe, di pasta in bianco cotta male, di ascensori che volevano saperne davvero poco di funzionare, e soprattutto, dopo quella operazione, ero stata finalmente dimessa. Tremavo, più che per la contentezza che tutto fosse andato per il meglio, quanto per la libertà che si prova nel poter tornare a dormire nel tuo letto, dentro la tua stanzetta addobbata secondo i tuoi gusti. È poter tornare a vedere i cartoni sui canali satellitari senza che delle vecchiette che, ahimè, son diventate la tua compagnia per troppo tempo ti chiedano di passarla sul canale dove passano la loro soap opera preferita. È poter tornare a farti una doccia senza che un’infermiera ti osservi con svogliatezza, nella infausta possibilità che tu perda l’equilibrio e sbatta la testa.
Formalmente ormai, io ero fuori da quell’ospedale, estranea a tutto ciò. Praticamente, dovevo aspettare ancora una mezz’oretta. Restai in corridoio, girando freneticamente a destra e a manca, nel tentativo di ignorare la porta della mia stanza. Ma una cosa di questo genere non si può assolutamente ignorare, un groppo alla gola prima o poi fa sempre capolino e inizia a tormentarti lo stomaco e il cuore. Non puoi semplicemente ignorare una tua compagna di stanza molto più vicina a te come età, sulla quale purtroppo il destino aveva deciso di scagliarsi con odio e veemenza, quasi come se quella ragazzina avesse meritato tutto quell’odio a causa di chissà quale vita precedente perversa e cattiva.
Molti giustificano il fato cattivo con questa scusa delle vite precedenti. Ma chi verifica che una persona sfortunata sia stata ingiusta nella sua vita precedente? Io non riesco, non riesco a crederci. Non mi capacito di come una figura tanto angelica e soave come quella di Nikola. Non era una figura che pretendesse vittoria, anzi, aveva forse subito tutte le sconfitte possibili. I medici le avevano dato al massimo un anno, ma a seguito di certe ricadute questa stima è calata drasticamente. Non riesco nemmeno a pensare a una cosa simile, posso solo stare immensamente male per lei.
Ciò non toglie che io non posso uscire da quell’ospedale senza averla prima salutata. Non dopo i pomeriggi che mi aveva fatto passare lì, tranquilli e spensierati, tra una partitina a carte e una a Monopoly. Ingoiai quel boccone amaro e aprii la porta. La stanza era ormai tetra, la luce del sole era andata a illuminare altre notti, e aveva lasciato spazio alla nostra sera. Sulla destra una signora anziana aveva già da un pezzo deciso che era ora di dormire russando, e il suo angolo era completamente al buio, illuminato solo da alcuni led della testata del suo letto e di chissà quale apparecchio alla quale era attaccata.
Il lato di Nikola invece risplendeva ancora grazie alla abat-jour che lei amava tenere anche durante il sonno. Ma lei non dormiva, era attentamente immersa in un romanzo di formazione. Hosseini?...No, no era Hesse. Peter Camenzind era il romanzo. Aperta la porta il suo sguardo accigliato verso il libro si trasformò in un dolcissimo sorriso diretto a me. Lei sapeva, aveva capito già prima di vedermi così, nelle mie vesti casual con tanto di borsa a tracolla, quando mi hanno fatto sloggiare dal mio letto.
“Sono davvero felicissima per te.”
Quelle parole mi colpirono il cuore, e mi lacerarono la gola. Il suo camice col quale l’ho sempre vista vestita, la flebo che aveva sempre attaccata al braccio, il suo sguardo speranzoso per me. Cosa diamine doveva sperare per me? Non ero che una normalissima adolescente come tante altri, tonta, con i miei problemi come tutti, forse un po’ di più, forse un po’ di meno.
Mi sentivo morire io al posto suo. Mi convinsi pure che Nikola avrebbe trovato offensivo quel comportamento, pur di riuscire a smettere di provare quel dolore, ma era più forte di me.
“T...ti ringrazio. Grazie per tutto quello che hai fatto per me.”
Con tutte e due le braccia mi indicò di avvicinarsi e di farsi abbracciare. Scoppiai in lacrime, singhiozzai, non volevo piangere, ma sarebbe pure stato ingiusto se le lacrime non avessero rigato il mio viso, in quella situazione.
“Dio...io sono sicura, sicurissima, che tu ce la farai a uscire di qui…”
“Ancora che nomini Dio? - accennò una risata disillusa e sommessa - Dio è qui per queste cose, non ti ascolterà.”
“A...a provare, anche per poco, la contentezza che io ho provato girando liberamente nel corridoio qui fuori.”
Lei incomincio ad accarezzarmi la testa.
“Purtroppo non succederà. Io resterò qui, ma non disperarti. Io proverò la gioia di essermi solamente passata vizi e capricci, senza aver mai affrontato grandi sfide...”
Il cinismo che aveva incomiciato a mostrare dopo le sue ultime prognosi riusciva a divorare anche me, privandomi della capacità di voler guardare avanti con determinazione. Con l’unica voglia di accasciarsi a terra e aspettare un caldo abbraccio che mai sarebbe arrivato. Mi abbracciò lei, con un calore che il suo corpo nemmeno sapeva ormai produrre.
“Io ormai sono soddisfatta...ignoro tutte le altri soddisfazioni che la vita, insieme agli oneri, mi avrebbe riservato se fossi uscita da qui. Ma non uscirò, e non è un problema...sono stata a concerti, in gita in posti lontani, ho letto tanto...”
Data la mia giovane età, non potei fare a meno di mostrarmi curiosa su un grandissimo mistero celato dietro tanti giochi bambineschi quanto maliziosi.
“Hai anche...insomma…”
Non sapevo nemmeno io che cosa mi saltasse in testa in quel momento, diventai rossa, e la testa iniziò a bruciarmi.
Nikola, dall’alto dei suoi diciassette anni, ridacchiò come la donna di classe che sarebbe stata, se solo ne avesse avuto la possibilità, e fece cenno di sì con la testa. Io, dal basso dei miei quattordici anni, non sapevo ancora come si trasmettesse l’immunodeficenza acquisita. Sapevo solo che il male che l’aveva colpita era dentro di lei da anni, e che quando le era stato trovato erano riusciti a bloccarlo, ma che purtroppo aveva causato altri danni ormai irreparabili, come un tumore al cervello.
“Tu ancora non hai fatto questa esperienza, vero?”
Risposi imbarazzata di no.
“È...forse il più estremo atto di egoismo che l’uomo possa mai compiere. Bisogna essere in due, ma ti viene il dubbio che tu lo faccia per te e per chi stai amando, oppure esclusivamente per te. In ogni caso, nessuno si vorrebbe mai negare un piacere simile.
Ritorni bambina, la testa ti diventa leggera, è tutto un fremito, inizi a vedere tutto bianco...ecco, se devi cercare Dio, devi farlo in questo momento. Perché, se è vero che un Dio c’ha fatto, io sono convinta ci abbia immaginato durante quest’estasi, ed è durante quest’estasi che possiamo tornare a lui, per sentirlo sulla nostra pelle, quasi come un soffio. Per un attimo.
Ma nell’estasi, Dio non ha ragionato proprio su tutto...ed è per questo che succedono cose come quelle che avvengono dentro il mio corpo…”
Allontanò di qualche centimetro il suo viso da me, e mi carezzò una guancia, guardandomi dritta dritta negli occhi.
“...ed è per questo che bisogna essere responsabili quando si fanno queste cose. Quando io lo feci, avevo l’età tua...è successo troppo presto, lo so… ma non me ne pento. Piuttosto, se di qualcosa mi dovessi pentire, mi pentirei della mia incoscienza nell’aver assecondato una sua richiesta, dettata dalla pigrizia...dal non voler spendere qualche koruna.”
Pur non avendo mai sentito quel nome, ci misi pochissimo a capire che quel termine indica la moneta della Repubblica Ceca, dalla quale Nikola proveniva. Ma non capii a cosa si riferisse.
“Ma tu, tu sei anche troppo attenta. Tu di questi errori non ne fai.”
La porta che si apriva ruppe il contatto fortissimo che c’era tra noi due in quel momento. I miei genitori che mi dicevano che era il momento di andare.
“Dai, e non ti preoccupare per me. Chissà che in quel momento...non rivedrò Dio.”
Ero ormai rotta. In qualsiasi senso. Rotta di pianto, rotta emotivamente, rotta dentro. Non riuscivo a parlare distintamente. A stento riuscii a darle un bacio di addio su una mano e ad augurarle sommessamente auguri. Auguri di cosa poi? Di guarigione? Non poteva guarire.
Mi ricordo che le augurai ogni bene possibile. Sarebbe stato più corretto dire ogni bene che le era rimasto. Ma non suonava bene. Inoltre, cosa le era rimasto? Il bene di morire il più in fretta possibile?
Le...le augurai la morte?
Ripensai a quelle parole in macchina, mentre tornavamo a casa, stranamente, erano l’unica cosa che non mi portava al pianto. Rabbrividii nello stesso momento che realizzai: tutto, tutto quanto nella sua situazione le causava dolore, apparte la morte stessa. Magari l’idea di morire le metteva angoscia, ma nel momento in cui sarebbe morta non avrebbe provato dolore, né per il momento in sé, né per nient’altro. La morte poteva annullare tutte le fatiche, tutte le paure, tutte le amerezze. Quasi, quasi come se la Morte fosse un Dio generoso che può donarti un solo, grandissimo, regalo, e che cerca di scegliere bene il momento in cui offrirtelo.
Ma solo la Morte aveva questo potere? Poter regalare un modo per non soffrire più? Io, io non ho provato a regalarle felicità in tutto il periodo che son stato lì? Non ci sono riuscita? Anche quando me ne sono andata...lei ha sorriso. Cosa sono? Non sono mica un Dio…
“Infatti!”
Alzai improvvisamente la testa, quasi mi fossi spaventata e irritata a ricevere una risposta così inaspettata all’improvviso. Mi guardai intorno. Durante lo scorrere di quei ricordi, mi ero spostata molte volte, senza nemmeno rendermene conto, e quando ho visto la stessa Giada che ero io a quattordici anni correre via dall’ospedale dirigendosi verso la macchina, incosciamente l’ho seguita. Mi ero seduta accanto a lei in macchina, e stavo ascoltando questi pensieri, anche se questa affermazione impertinente mi ha lasciato col dubbio che queste parole si stessero riformulando dopo tanto tempo nella mia testa.
Chi aveva parlato?

*--*

 

“Beh, io ho parlato, naturalmente!”
Giada continuò a scrutare la macchina ogni angolo, in cerca di quella voce dispettosa.
“Sono qui!”
Giada reagì con un urlo di spavento. Si girò verso la Giada di quattordici anni, e ritrovò invece una figura tetra e buia che le sogghignava. Tutti i toni caldi del paesaggio, degli interni dell’auto, di qualsiasi cosa Giada riuscisse a vedere, si persero, e lasciarono campo libero a toni scuri e freddi, che incupirono tutto quanto.
“C-chi sei? Tu non c’eri qui...né tanti anni fa, né ora!”
L’immagine che le si parava davanti non solo era scura di suo, ma intorno a lei navigava una spessa coltre di nero, che rendeva difficile riconoscere i suoi tratti. Quasi come in certe scene di Alice nel paese delle meraviglie: in certe scene Alice, del gatto del Cheshire, vede solo gli occhi e la bocca. In un certo senso era così anche per Giada.
Si riusciva a notare solo accessorio particolare sul suo vestito: alcuni merletti che adornavano le maniche nere, o le spalliere, del suo vestito. Giada notò pure la posizione che quella ragazza teneva dava l’idea di un certo rango di tanto tempo fa: osservava sorridendo e tenendo una mano in maniera abbastanza studiata sotto il mento, dondolandosici sopra l’intera testa.
“Io credo...credo che dovrei essere IO a chiedertelo!”
Un altro urlo uscì dalla gola della povera Giada, colta di sorpresa dal tono di voce, improvvisamente alzatosi, di quella losca. Ma non era solo questo. Non solo il tono, ma anche il timbro stesso durante quell’urlo era cambiato. Era sceso, ed era diventato in un certo senso distorto. Inoltre, bianchi bianchi, un paio di canini appunti vennero messi in bella mostra durante quel rimprovero.
“Smettila di spaventare così le persone!” disse un’altra voce femminile lontana lontana, della quale nulla si sapeva. La losca tirò gli occhi all’indietro in segno di stizza e scosse la testa.
“Sì Taja, sì! Lo sai che io di solito non mi altero mai! Ma capisci questa situazione?”
“Il problema è che ogni volta questo tipo di situazioni ti fa alterare, e spaventi altri evanescenza, che nemmeno conosci! Lo sai che questo ti si può ritorcere contro!”
La…”evanescenza”, che Giada aveva davanti non si era scomposta durante l’urlo, e non si stava scomponendo nemmeno in que momento.
“Come se una cosa simile accadesse ogni plenilunio!”
Uno sbuffo, e continuò.
“Inoltre, Taja, ti assicuro che nulla mi si può ritorcere contro se mi arrabbio CON TE! Quindi non mi seccare...”
Rivolse gli occhi nuovamente verso Giada.
“Allora...brutta storia, vero? - disse tornando a sogghignare - E non lo dico perché ho seguito con te questa storia, non ritenere violata la tua privacy. Lo intuivo dalla brutta cera che avevi.”
“Non hai risposto alla mia domanda, anche se forse non l’ho posta molto bene. Permettimi di correggermi.”
“Quale domanda?” Chiese maliziosamente.
“Non chi, ma che cosa sei?”
Le sue gambe, rigorosamente ricoperte da calze nere, si ricomposero dalla posizione accavallata che avevano fin da quando la losca era apparsa. Si avvicinò a Giada, sporgendosi in avanti, mostrando di nuovo i canini in un sorriso beffardo.
“Io sono quella che permea tutto qui. Almeno, in questo stato delle cose. E tu sei finita qui. Ma tu hai un’aura strana. Taja per una volta aveva ragione, mi succederebbe qualcosa se mi mettessi contro di te.”
L’aria spaventata di Giada infatti stava cambiando. Non stava diventando minacciosa, ma in ogni caso più decisa.
“Forse...forse hai proprio ragione. Ora toglimi una curiosità: dov’è questa Taja e…”
“Umh, cose che non importano, fidati.”
“...e COSA SEI TU?!”
Questa volta fu l’evanescenza in nero a sobbalzare per lo spavento, tanto da sbattere la testa contro il cielo dell’abitacolo.
“Bhe...immagino tu voglia sapere il mio nome. Luli, mi chiamo Luli. Sto in questo punto di questo stato delle cose perc…”
“Cosa intendi per ‘questo stato delle cose’? Dove siamo?”
“Che domande strane fai? Cos’è questo stato? Questo stato è ciò dove stiamo...e basta. Forse...forse qualcuno lo chiama Ònar.”
“Ma io non provengo da questo Ònar, come ci son finita qui?”
“Sei per caso ammattita? Da dove vorresti provenire, se non da questo stato delle cose?”
In una spinta di accecante rabbia, Giada afferrò Luli per il merletto sulle spalline, facendolo brillare di un bianco purissimo.
“Guarda che ti butto fuori in corsa?”
“Tu sei ammattita per davvero...corsa, quale corsa? L’auto non è più in corsa, non c’è più nemmeno il conducente!”
Giada si girò disorientata, e si accorse che, effettivamente, sul lato anteriore della macchina vi erano solo dei cenci sporchi buttati sui sedili.
“Inoltre non ti conviene buttarmi fuori dalla macchina. Perché si da il caso, mia cara, che sia tu con il tuo bagliore, a mantere in essere ancora questa macchina. Perché intorno non c’è più nulla di tuo.”
Giada mirò immediatamente fuori dai finestrini, e notò che tutto quanto era diventato buio.
“Come ti ho detto, io permeo tutto qui, e tu sei finita qui, un po’ come intrusa. Se tu mi buttassi fuori ora potrei fare della macchina e di te quello che voglio, e fidati che, visto come ti stai comportando, vorrei farti passare dei bruttissimi e lunghissimi momenti.
Riprese ad accennare una risata sommessa, con gli occhi che si scurirono ancora di più.
Giada iniziò a sentirsi confusa. Non era davvero questo il suo posto. Lei brillava, che ci faceva nel buio? A quale contrasto si opponeva? Piano piano ebbe sempre meno forza, fino a mollare la presa da Luli, ed accasciarsi a terra.
Luli, da seduta, si sentì sollevata, ma non abbassò la guardia.
“Ecco, fai la cosa migliore per tutti, mio caro splendore: sparisci, vai via da qui. A me non interessa più niente di te.”
Giada incominciò ad avere il respiro affannoso, la sua vista incominciò ad annebbiarsi. Tutto ritornò a un candore a lei familiare. Sentì premersi le spalle e i fianchi, mentre percepì uno strano appoggio per la testa.
Per un attimo, era tornata in auto, e stava ai piedi di quella ragazzina piena di speranze che tornava a casa.

“Io...io non sono un dio...ma sono comunque stata in grado di donare un po’ di felicità a chi ha perso ogni speranza!”

Risuonarono nella sua teste queste ultime infantili ma dolci parole, e poi il bianco.

 

*--*

 

Quando rinsavii, ero dolcemente sdraiata sotto un grande albero, non avrei saputo dire quale, punzecchiata dai raggi del sole che riuscivano a filtrare il fitto fogliame. In perfetta sintonia, il mio telefono aveva incominciato a suonare, facendomi ascoltare Ally Kerr.
“Every single night and day, I searched for you...” cantava.
“Cristo, da quanto suona?” pensai.
Guardai il display, era mia madre, forse aveva provato a chiamare già qualche volta.
“Pronto?”
“Giada, diamine! Dove sei finita? Cercavo di chiamarti da un pezzo!”
“Sì...scusami, ma io...”
“Ma...stai bene? Hai una voce che fa paura, sembra che tu abbia visto un fantasma!”
Preferì non scendere nei dettagli, mentre un leggero venticello mi scompigliava i capelli.
“No, vedi, io…”
“Non mi dire che...Giada, è quello che penso io, ti è successo di nuovo?”
Quando mia madre cambia repentinamente tono di voce perché si preoccupa mi mette un ansia del diavolo, dopo qualche sospiro risposi.
“Sì. Mi sa proprio di sì.”
“Ora stai bene? Dove ti trovi?”
“Non ne ho la minima idea...sono in campagna.”
Mentre mia madre continuava a tartassarmi di domande, mi alzai e, dandomi qualche colpo sui jeans per pulirli, mi guardai attorno. Notai subito tutta la città al di sotto dei miei piedi. Questo paesaggio non mi era del tutto nuovo.
“...ma lo sai che non è mai successo che finissi in un posto nel quale non sei mai stata!”
“Mamma, aspetta aspetta, credo di aver capito. Fammi vedere un attimo.”
Mi girai alle mie spalle e, come immaginavo, a duecento metri al massimo, vidi l’entrata del cimitero.
“Mamma, mamma, credo di aver capito: ti ricordi quando siamo arrivati qui, siamo passati dal cimitero e quando abbiamo bucato è spuntato quel maledetto custode che mi ha spaventato a morte? Ecco, sono vicinissima a quel punto. Non ho ben chiaro come ci sia arrivata, però qui ci sono tante stradine di campagna che fanno arrivare in quel punto e nelle colline qui sopra.”
“Oh, ho capito, ho capito. Quindi hai più meno idea di come tornare a casa? Perché io purtroppo sono bloccata.”
“Perché?”
“Ti ricordi quando è venuto lo stronzo del’idraulico che aveva trovato papà? Ha fatto solo più danni che altro, e dal tetto è praticamente esplosa una tubatura. Il fatto ancora più strano è che stiamo trovando TROPPA nappa, più sabbia e varie cose. Non so davvero questa casa che problemi abbia.”
Sospirai, pensando a quanti problemi aveva l’intera città. Nessuno poteva avere idea di quello che avevo passato.
“Va bene mamma, ora m’incammino per casa.”
Chiusi la chiamata con mia madre. Solo una volta tornata sola, pensai all’inizio di tutta la vicenda, a come fossi finita lì. Lo scialle. Il mio viso...la mia faccia! In che condizioni avevo la faccia?
Incominciai a toccarmi freneticamente il viso, non riuscendo a farmi bastare le guancie paffute e lisce che normalmente avevo, quasi come la pelle di pesca. Affannata, cercai qualcosa dove specchiarmi, voltai la testa più e più volte. Fino a quando non notai un pozzo. Pensai che molto probabilmente era pieno, e, visto il sole alto potevo tranquillamente specchiarmi nell’acqua. Corsi all’impazzata, rischiando di cadere di nuovo e una volta arrivata vidi il mio riflesso rosso, spossato dalla corsa e da tutto quello che era successo. Ma almeno era a posto, in tutto e per tutto.
Alzai un attimo la testa, e vidi un grandissimo cancello in ferro battuto, di quelli alti, con gli spuntoni di sopra, aperto. Immetteva in un grande giardino con una strada in ghiaino che conduceva alla casa, mentre tutto intorno vi era un giardino con tanti alberi che lasciavano tutto in ombra. Alla destra di questo cancello vidi una tavola di legno ormai rovinata dal tempo, con sopra inchiodato un cartello:“Villa Cascia”.
“Ah...quindi è questa.”
Era una villa abbastanza sobria, c’era da dire. Niente cornicioni giganti o cose così, ma tante grandi finestre...tutte chiuse. Non capii se fosse abitato. Incominciai a camminare, sempre più incuriosita verso l’interno, quando mi accorsi di una sedia a sdraio tra gli alberi sulla sinistra. Poteva essere del proprietario della casa...oppure poteva essere stata messa lì da qualche brava persona che si era convinta quello fosse un luogo per un campeggio. E quindi...forse quella villa era abbandonata.
Arrivai davanti l’ingresso. Una pesante porta di legno molto scuro, decorata con varie rifiniture. Una maniglia di ottone molto grande, che faticavo ad afferrare permetteva di entrare. La porta non era quindi chiusa a chiave.
Aprì, e mi ritrovai un uscio tutto buio, stranamente stretto, che non sapevo dove portasse perché non si vedeva nulla. Feci un passo, e la mia scarpa rimbombò con un suono soffocato sotto il pavimento durissimo in pietra, con piastrelle decorate a mano.
Una meraviglia dell’arredo antico. Ma putroppo per me, presa da così tanta curiosità, un monito ad andarmene. Il pavimento non aveva un minimo segno di polvere, e il colore risplendeva troppo bene per non essere stato curato in nessun modo.
Insomma, ci abitava qualcuno in quella casa. Era molto meglio che me ne andassi. Girai i tacchi, per essere colpita nuovamente dal sole, chiusi con molta delicatezza la pesante porta e soffocai la mia sempre più incessante curiosità tornandomene a casa.

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