The sound of my soul

di LoveStoriesInMyHead
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The sound of my soul ***
Capitolo 2: *** I don't want to go out ***
Capitolo 3: *** He has a broken soul ***
Capitolo 4: *** Plectrum ***
Capitolo 5: *** Right words ***
Capitolo 6: *** Worried ***
Capitolo 7: *** Okay ***
Capitolo 8: *** You knocked at my door ***
Capitolo 9: *** Pancakes ***



Capitolo 1
*** The sound of my soul ***


 
The sound of my soul

dedicato a tutti coloro che
rivedranno nel protagonista
un pezzetto di loro stessi.


Ricordi ancora freschi e nitidi, talmente vicini che mi sembra ti poterli toccare, ma si fanno sempre più distanti, sempre più sbiaditi.
Il mondo attorno a me continua a rammentarmi tutto quello che non ho fatto per lui, tutte le volte che non gli ho detto quello che pensavo, tutte le volte che l’ho sentito piangere senza poter fare niente. Il sole riaccende l’immagine che ho di lui nella mia mente, con quel suo sorriso raggiante e quei suoi occhi che vedevano solo me. O almeno era così che a me sembrava. Quegli stessi occhi, che mi guardavano con dolcezza, mi ferirono. Quelle labbra, che un tempo sorridevano solo per me, mi uccisero trafiggendomi l’anima. L’odio ha calpestato i miei sogni, di essi ne rimane soltanto uno splendido e detestato, dolce ed amaro, lontano ed indimenticabile ricordo. Sprofondo nell'oblio, con le braccia tese verso la luce che si fa sempre più irraggiungibile e distante. Non riesco a risalire, a sollevarmi, a continuare a vivere. Il peso del rimorso mi tira giù, sempre più in profondità. Mi sento solo, abbandonato, senza nessuna forza.
La solitudine è un fantastico posto da visitare, ma uno pessimo in cui vivere. Io vivevo nella solitudine, lame di dolore conficcate tra le mie costole che ad ogni respiro smorzavano le mie urla. Questo non è un lamento, è solo un sospiro. Il sospiro del mio cuore che si può udire nell'immenso silenzio che c’è tra di noi.
Dimenticare sarebbe la cosa migliore, rimuovere completamente un intero periodo della mia vita, ma a che servirebbe se il dolore e la malinconia rimarrebbero sempre con me?
Ho scelto di ricordare. Ricordare quello che di buono aveva fatto per me, le sue parole, la sua espressione, il suo modo di guardarmi e baciarmi. Ho scelto di continuare a soffrire. E mi sforzo di sorridere, anche se sul mio volto potrebbe nascere un sorriso triste, perché non c’è tristezza più grande del non riuscire più farlo.
Ricordo con l’anima, perché con il cuore prima o poi tutti quei momenti cesserebbero d’esistere. Essi dovranno rimanere vividi nella mia mente, affinché mi ricordino quanto sono stato sciocco a credere in un ‘per sempre’.

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Capitolo 2
*** I don't want to go out ***





I don't want to go out


Sono seduto sul comodo sofà a guardare la televisione. Questa sera non trasmettono proprio niente di interessante: cucina, telegiornali, televendite e soliti programmi americani. Potrebbe sembrare strano per un ragazzo di diciotto anni stare a casa a fare zapping con il telecomando alla ricerca di un programma decente da guardare. Gli altri ragazzi sarebbero già in giro a fare baldoria in una qualche discoteca o locale di città. Io non mi posso di certo definire un festaiolo, anzi. Sin da bambino ero quello tranquillo, quello che nessuno invitava alle feste di compleanno perché reputato noioso. La mia infanzia non era stata una delle migliori. Non avevo molti amici con cui giocare, scherzare o combinare guai. La mia situazione in famiglia era la stessa: figlio unico, genitori divorziati e madre perennemente a lavoro. Sono cresciuto con Davide, un ragazzo che si era offerto di badare a me quando mia madre doveva partire a causa degli innumerevoli viaggi di lavoro. Capitava molto spesso che mia madre fosse via e così Davide era la maggior parte del tempo incaricato di tenermi compagnia. All'inizio il mio rapporto con lui non era molto amichevole. All'epoca avevo dieci anni, mia madre era andata in Francia e Davide era venuto per prendersi cura di me. Lui aveva solo quindici anni, ma era già un esperto in cucina e nelle faccende di casa. Era un ragazzo buono e gentile, rispecchiava quello che ogni madre vorrebbe che fosse il proprio figlio. Io avevo il tipico atteggiamento freddo e distaccato, nato per via dell’immensa solitudine che mi circondava. Gli anni passavano ed io mi arresi all'idea di averlo nella mia vita. Lasciandomi andare un po’, scoprii quanto fosse eccezionale. Imparai a volergli bene e ad apprezzarlo per tutto quello che faceva per me. Il nostro rapporto sbocciò in un’amicizia molto intima e stretta. Era il mio unico e solo amico. Adesso lui non viene più come baby-sitter, bensì con il ruolo di amico e confidente. Viene a trovarmi molto spesso, visto che esco di casa di rado. Quando mia madre non c’è, lui rimane anche a dormire; dice che è più sicuro essere in due nel caso succedesse qualcosa. Lui è come il fratello maggiore di cui ho sempre avuto bisogno, la persona con la quale confidarmi, la persona da ammirare e da cui prendere insegnamento.

Mi sono imbambolato davanti un programma di cucina a ripensare agli anni passati. Mi piace voltarmi indietro e vedere i passi che ho percorso, gli ostacoli che ho superato e le scelte che ho fatto per essere arrivato fin qui. Sto ricominciando a vagare nell'universo dei ricordi, quando il campanello suona. Mi alzo dal divano e tolgo i miei occhiali, appoggiandoli sul mobiletto accanto l’ingresso, mi ravvivo i capelli, spostando il ciuffo moro di lato e faccio un respiro profondo. Poso una mano sulla maniglia e spingo verso il basso, tirando la porta verso di me.
- Alessandro! -  esclama Davide con un tono decisamente fin troppo alto per le mie orecchie.
- Davide - dico il suo nome come se fosse un saluto.
Non aspetta il mio invito ad entrare, mi supera e cammina verso le scale che si trovano di fronte l’ingresso.
- Prego, fai pure - sussurro richiudendo la porta.
- Simpatico come sempre eh? -  ride, passando una mano tra i miei capelli.
- Non toccarmi i capelli - sbuffo mentre lo allontano, colpendolo al ventre.
Lui si piega in due, urlando un dolore allucinante che gli ha inflitto il mio colpo.
Io non posso fare a meno di scoppiare in una fragorosa risata, - come sei drammatico! -  gli dico sorridendo.
- Ragazzi, non fate casino - ci urla mia madre dal suo studio in cima alle scale.
Io e Davide serriamo di colpo le nostre bocche e il silenzio torna.
Davide riprende la posizione eretta e mi fissa dritto negli occhi con un’espressione seria in viso.
- Questa sera ti porto fuori - mi annuncia, mettendomi le mani su entrambe le spalle.
Faccio una smorfia di dissenso e gli afferro i polsi. - Non uscirò stasera - gli dico, togliendo le sue mani. Recupero i miei occhiali e torno al mio adorato sofà.
- Alessandro - brontola seccato.
 La sua voce si fa seria, si siede sul tavolino di fronte al divano e continua. - Non esci di casa da quando la tua ragazza ti ha mollato. Devi darti una svegliata! Sei giovane, hai la vita davanti ai tuoi occhi. Lei non sarà l’ultima - mi invoglia ad uscire, toccandomi il ginocchio destro.
- Parli come un vecchio - la butto sul ridere cacciando una risata amara.
Lui fa un’espressione soddisfatta e si alza. Mi afferra un braccio e mi costringe a mettermi in piedi. - Lo prendo come un sì.
Mi trascina su per le scale tirandomi per la maglietta. Davvero, in certi momenti sa essere insistente, talmente tanto che alla fine riesce sempre a farmi fare quello che vuole lui.
- Ehi, non rovinarmi la maglia! - sbuffo divincolandomi.
- Ma se sarà da tre anni che ce l’hai - ribatte tirandola ancora. - Non credi sia ora di rinnovare il tuo guardaroba? - mi prende in giro.

Sospiro e mi arrendo. Terminiamo la nostra ascesa e andiamo in camera mia. È ordinata come al solito, ogni cosa è al suo posto: le foto di famiglia sulle mensole, i vestiti appena lavati, piegati e posati sulla sedia della scrivania, lo zaino appeso dietro la porta, i libri riposti sullo scaffale in ordine di uscita. Diciamo che ho un ossessione per l’ordine: mettere a posto le cose mi rilassa ed in questo periodo ho molto bisogno di relax.
- Ti metterai questa. - Mi lancia addosso una camicia a maniche corte bianca. - E questi - aggiunge, gettandomi dei pantaloni blu notte.
- Non posso mettere la mia solita felpa? - dico schifando quell'indumento troppo bianco per i miei gusti.
- No - risponde fermo Davide.  -Devi essere in tiro- mi spiega con un sorriso malizioso.
- E a che serve? Nessuno vuole un tipo freddo e distaccato come me - rispondo, guardando le mie mani con una nota malinconica cucita nelle mie parole.
Davide mi guarda male, si avvicina a me e mi solleva il mento. - Sei un bravo ragazzo, carino e con un gran talento. Ogni ragazza stravedrà per te stasera- mi rassicura con un sorriso.
- Lo sai che la chitarra è solo un hobby per me - minimizzo guardando le foto che mi ritraggono con quello strumento in mano.
- Non sottovalutarti - mi rimprovera. - Adesso vai a darti una ripulita. Ti aspetto di sotto. - Detto ciò, si avvicina alla porta.

Dire che la mia voglia di uscire di casa lascia un po’ a desiderare è un eufemismo. Mi sembra un’enorme stupidaggine. Perché mai dovrei fingere di divertirmi? Perché dovrei nascondere ciò che veramente sono. Dall'esterno potrei risultare una persona alquanto strana, ma a me va benissimo così. La gente molto probabilmente mi terrà a debita distanza questa sera, ne sono sicuro, ma da un punto di vista ciò gioca a mio favore. È una sorta di filtro naturale. Dubito che qualcuno diverso da Davide mi si avvicini. Questo è l’unica cosa che mi confortava. Non ho molta voglia di conoscere altre persone che molto probabilmente non rivedrò mai più.

- Allora? Hai finito? -  Bussa alla mia porta e infila la testa dallo spicchio di spazio creato dalla porta semichiusa. I suoi occhi corrono sul mio corpo e in particolare si sofferma sulla zona delle clavicole, lasciate scoperte dallo scollo della camicia abbottonata alla meno peggio. Scoppia in una risata soffocata a stento e si avvicina. Prende il mio colletto tra le mani e lo sistema. Dopo avermi rimproverato sulla mia poca attenzione nell'abbottonare questo straccio, mi passa le dita tra i capelli e mi tira su il ciuffo. Mi toglie gli occhiali e mi intima di sorridere. Io sbuffo e lo allontano. Esco dalla camera e vado a guardare il mio riflesso sullo specchio del bagno.
- Starai scherzando! - esclamo inorridito. Non posso credere che voglia che io esca conciato in questa maniera. Sembro un cameriere. Gli strappo i miei occhiali dalle mani e li indosso, nel tentativo di nascondere i miei occhi di un verde decisamente indecente.
- Alessandro, quando avrai intenzione di comprati delle lenti a contatto? Quegli occhiali sono orrendi - mi riprende per l’ennesima volta.
Lo guardo e per la prima volta noto il suo abbigliamento. Porta una maglietta a maniche corte blu ed un gilet grigio perla che gli copre le possenti spalle. Dei jeans strappati mostrano le sue ginocchia lisce e senza nessun accenno di peluria. I capelli perfettamente in ordine, laccati e simmetrici che incorniciano un volto lineare e squadrato. Gli occhi castani e le labbra di un rosa pallido gli danno quell'aria tenera e tranquilla, celando l’uragano che in realtà lo contraddistingue. Oggettivamente è un bel ragazzo e non posso fare a meno di sentirmi un grandino sotto di lui. Sempre non abbastanza. Ho sempre avuto la sensazione di avere qualcosa in meno rispetto agli altri.
Alla fine, mi convinco di provare ad adeguarmi. Mi sistemo i capelli e provo a renderli un minimo presentabili. Tiro fuori le mie lenti a contatto e sollevo le spalle in risposta alla sua espressione scocciata.  Sono ormai pronto e l’ultima cosa che faccio prima di uscire di casa è indossare la catenina con un plettro al collo. Mi cade leggera ed esile lungo il petto fino a solleticarmi il principio del mio addome. Infilo il cellulare nella tasca posteriore dei pantaloni e urlo a mia madre che quasi certamente farò tardi.
Mi chiudo la porta alle spalle e tiro un lungo sospiro. Davide mi lancia un rassicurante sguardo e mi incita a seguirlo. Mi fido di lui. Tutto sommato, credo che potrebbe risultare una serata piacevole in sua compagnia.

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Capitolo 3
*** He has a broken soul ***





He has a broken soul


Salgo sull'auto e lascio cadere la testa indietro. Davide mette in moto e le immagini cominciano a scorrere veloci davanti ai miei occhi. Accendo la radio ed inizio a cercare una stazione che trasmetta qualcosa di orecchiabile e possibilmente dell’ultimo decennio. Mi volto verso il mio migliore amico, che mi rivolge uno sguardo fugace. Torna a fissare la strada e tiene il tempo con l’indice sul volante.
- Dove stiamo andando? – gli chiedo. Abbasso il finestrino e tiro fuori la mano, appoggiandola sulla vernice rossa del tetto della sua automobile.
- Ti piacerà, ne sono sicuro. – Accelera ed inizia a canticchiare la canzone che sta passando in radio. I suoi occhi lampeggiano ogni volta che superiamo un lampione dandogli una leggera aria spettrale. Mi volto e fisso la strada, provando a rilassarmi.

L’auto di Davide si ferma di colpo davanti un locale dall'aria cupa, con una grossa insegna a led davvero di cattivo gusto e decisamente antiquata. Faccio una smorfia diffidente e Davide sembra accorgersene dal momento che mi recita la famosissima frase “Non si giudica un libro dalla copertina”, cosa che non contraddico assolutamente, ma bisogna ammettere che anche all'occhio piace essere sorpreso.
Davide mi tira per il braccio e mi trascina fino all'entrata. Le porte si aprono e la musica ad altissimo volume mi costringe a tapparmi le orecchie in un impeto istintivo. Impreco al cielo e sbuffo mentre cerco di non perdere di vista il mio amico. Ammetto che in questo momento lo strangolerei volentieri. Non dovevo fidarmi.
La gente mi pesta i piedi e sono sollevato nel vedere che finalmente possiamo sederci. Affondo il sedere nel divanetto in velluto e mi getto sullo schienale. Ho ancora le mani sulle orecchie quando Davide mi presenta alcuni suoi conoscenti. Hanno tutti un’aria trasandata e poco raccomandabile. Un ragazzo ha i capelli palesemente tinti di un biondo troppo chiaro da farli apparire quasi bianchi, mentre l’altro ragazzo porta un sacco di piercing su tutta la faccia. Ringrazio il cielo di non essermi mai preso la sbandata per un pezzo di ferraglia attaccato alla pelle durante la mia adolescenza. In mezzo a questa combriccola male assortita di ragazzi, mi sento decisamente il più normale e ordinario. Nonostante il loro aspetto, da ciò che raccontano sembrano bravi ragazzi. Non avrei mai immaginato di poterli ritenere simpatici.

Una ragazza sale sul palchetto in fondo alla sala e fa segno al dee-jay di fermare la musica. Con qualche lamento da parte del pubblico sottostante, annuncia l’arrivo di una band emergente e si dilegua poco dopo, lasciando il palco vuoto con la sola scenografia di una batteria ed un’asta con il rispettivo microfono.
- Sarà meglio andare – dice Matteo, il ragazzo pieno di piercing. Gli altri lo seguono a ruota e spariscono dietro una grossa porta di un rosso porpora. Pochi secondi dopo, spuntano da dietro le quinte e cominciano a sistemare gli strumenti. Matteo si mette sulla spalla la fibbia che regge la sua chitarra e l’accorda molto velocemente, mentre Andrea, il batterista, scioglie i muscoli delle spalle ed impugna le bacchette. Gli altri membri della band raggiungono le loro postazioni. Riconosco tutti, tranne uno. Per quanto mi sforzi non riesco a capire chi sia. Non credo di averci parlato, dubito sia venuto qui. Davide si avvicina a me e mi informa sul cantante, nonché scrittore di tutti i loro pezzi: si chiama Riccardo ed ha ventuno anni. Pare sappia suonare ben quattro strumenti (chitarra, pianoforte, ukulele e batteria) e si dice in giro che sia scappato per compiere un viaggio in giro per l’Europa, alla ricerca di nuovi sound e stili particolarmente eccentrici.
Passo l’intera serata a fissarlo e ad ascoltarlo cantare. Nelle sue canzoni posso percepire rabbia, amore, tristezza, rammarico, un turbinio di emozioni che mi lasciano del tutto sconvolto. Un bagaglio così pieno e maturo non l’avevo mai riscontrato in una persona così giovane, il che mi lascia decisamente e piacevolmente sorpreso.

Riccardo impugna con forza il microfono e lo stacca con un gesto netto e deciso dall'asta. Si lascia trasportare dal ritmo come mosso da scosse elettriche e posso sentire ogni singola particella del suo essere nei suoi versi.
La musica cessa. Il silenzio è palpabile e per un attimo si sentono solo i respiri profondi del cantante. Poi scoppia l’applauso e da qui posso vedere un leggero sorriso sul suo volto, pulito e fresco. Tira indietro i capelli biondi, prende una chitarra acustica, avvicina uno sgabello e abbassa l’asta del microfono.
- Questa è una canzone che ho scritto tempo fa, ma solo ora ho trovato la melodia giusta. Spero che vi piaccia – dice ed accenna ad un ritmo semplice e genuino. Le parole danzano tra una nota e l’altra. Gli altri componenti rimangono fermi, come parte dello sfondo di un quadro struggente e malinconico.  Le parole mi attraversano e si risiedono sul fondo della mia anima. È inusuale. Non mi capita mai di commuovermi. L’anima tormentata narrata dai suoi versi è perfettamente compatibile alla mia. Ho l’impressione di rispecchiarmi nei suoi occhi. Nonostante l’immensa distanza fisica, sento le nostre anime sfiorarsi, abbracciarsi, fondersi. È una sensazione strana, non so nemmeno se ho reso l’idea. L’unica cosa che so è che devo parlargli. Caschi il mondo, io devo assolutamente conoscerlo. 

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Capitolo 4
*** Plectrum ***





Plectrum
 
Dopo il concerto, obbligo Davide ad accompagnarmi dagli altri ragazzi. Sono tutto un fremito e non vedo l’ora di conoscerlo.
- Non è che ti sei preso una cotta per Riccardo? - mi stuzzica con un sorriso tagliente in viso.
- Ma sei scemo? Non dire cose del genere! – lo respingo in imbarazzo. Sento le mie guance infuocarsi e cerco al più presto di nascondere il mio viso dai suoi occhi. Non ci tengo mica a farmi prendere in giro da lui.

Davide si fa spazio tra la folla ed apre la stessa porta che poco prima fa avevano varcato Matteo ed Andrea. Adesso ci troviamo in un corridoio stretto ed ambiguo. Le luci soffuse lungo la parete ci indicano la strada ed ogni tanto rischio pure di inciampare in cavi o qualunque cosa serva in questo angolo nascosto del locale. Davide mi afferra la mano all'ennesima imprecazione e mi tira fino a quando non raggiungiamo un'altra porta dello stesso colore della prima. Bussa tre volte e poi entra, senza aspettare il permesso dall'interno. Entriamo e la luce ci acceca per un istante. Il mio cuore perde un battito e, impacciato, trovo un posto per sedermi. Riconosco Andrea e Matteo, intenti a discutere dell’enorme successo di questa sera. Mi ritrovo a parlare con loro con molta facilità e spontaneità. Ormai mi sembra di conoscerli da molto tempo.
Davide mi guarda per un istante, poi chiede di Riccardo. Io cerco di nascondere l’inspiegabile nervosismo e provo a distrarmi, osservando ogni minimo particolare di quella stanza. Le pareti ai lati sono di un rosso sangue, mentre quella centrale è di un bianco puro. C’è un enorme specchio, forse un po’ troppo sporco per i miei gusti. Accanto ad esso vi sono innumerevoli plettri lasciati sparsi sul tavolino. Delle bacchette stanno sul pavimento, una maglia sudicia e dei pantaloni neri strappati e consumati fanno loro da contorno. In quel camerino regna il disordine più totale e devo trattenermi dal metterlo a posto.

Riccardo sbuca da una porta che non avevo notato e ci guarda con aria assente. Si siede su uno sgabello traballante e ci fissa. Ammetto di sentirmi in soggezione dal suo sguardo. I suoi occhi, di un grigio irreale, corrono per la stanza, fino a quando si fermano su un pacchetto di sigarette poggiato sull'estremità del tavolino. Ne tira fuori una e l’accende, non curandosi nemmeno di offrirne ai suoi amici. Le labbra sottili ed estremamente pallide abbracciano la sigaretta. Le sue guance si svuotano e posso avvertire il tabacco bruciare. Gli altri componenti della band continuano a parlare come se niente fosse, mentre io rimango chiuso in una bolla, i suoni arrivano alle mie orecchie ovattati ed ho l’impressione che tutto in questa stanza si muovi a rallentatore. Il fumo esce dalla sua bocca e forma ghirigori nell'aria, scomparendo poco dopo.
- Allora… - Riccardo, con un movimento veloce del pollice, fa cadere la cenere in un bicchiere e si rivolge a noi. – Come vi è sembrato il concerto?
- Una figata – risponde Davide, - D'altronde, da una band come la vostra, non potevo aspettarmi nulla di meglio.
Annuisco, sono completamente d’accordo con lui. Questo è stato decisamente il miglior concerto al quale io abbia mai partecipato.
- Davide, chi è il tuo amico? – Riccardo ha ormai finito la sigaretta. Gira il busto e punta le sue ginocchia verso di noi. – L’ho visto molto preso - aggiunge con un sorriso.
Non posso credere che in mezzo a tutto quel casino, si sia accorto di me.
- Mi chiamo Alessandro – dico, cercando di nascondere l’imbarazzo. – Mi sono piaciute molto le tue canzoni, soprattutto l’ultima. – Provo a sembrare il più gentile e simpatico possibile. Non so perché ma ci tengo parecchio a fare una bella figura con lui.  Mi sembra una persona interessante e, visto che anche a me piacerebbe scrivere delle canzoni, potrebbe anche darmi qualche consiglio.
- Suona la chitarra anche lui. Ha anche una bella voce, ma è talmente stupido che non riesce a cantare in pubblico. – Davide dà voce ai miei pensieri. Ride e mi guarda con il suo solito sorriso beffardo. Riccardo mi studia con occhi curiosi e avidi di conoscere ogni minimo particolare del mio corpo, poi i suoi occhi cadono sulla catenella e inaspettatamente risponde: - Lo so.
Io ed il mio amico rimaniamo per un attimo senza parole. Non abbiamo neanche il tempo di chiedergli delle spiegazioni che già ha ripreso a parlare: - Tu sei il ragazzo che qualche giorno fa strimpellava qualche accordo sul tetto di una casa color avorio, vero?
Annuisco e lo incito a continuare, voglio sapere fino a che punto mi ha osservato quel giorno.
- Hai cominciato a cantare “Nothing compares to you” di Prince e, adorando quella canzone, mi sono fermato ad ascoltarti. Il tuo amico ha davvero ragione – mi dice e, dopo questo complimento velato, si alza e fa cenno di tendergli la mano. Sul mio palmo lascia cadere un plettro nero in celluloide. All'inizio non comprendo il motivo del suo gesto, ma poi mi spiega che quel plettro l’aveva usato durante la composizione della melodia dell’ultima canzone. All'inizio avevo rifiutato, è un oggetto importante per lui, ha di certo un valore affettivo, ma Riccardo ha insistito tanto e così adesso lo stringo tra le mani. Spero di riuscire a scrivere una bella canzone con questo oggetto. Voglio fargli vedere di che pasta sono fatto.

 

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Capitolo 5
*** Right words ***





Right words

 
Il sole non è ancora sorto. Il vento ancora gelido mi stuzzica il collo. Tra i polpastrelli stringo quel plettro ed osservo la mia chitarra. Sotto le mie scarpe, l’erba piena di rugiada. Lo stagno a pochi passi da me è perfettamente piatto. Le prime luci dell’alba si specchiano in questa distesa di mercurio e mi regala un certo senso di pace. Poso gli occhi sullo spartito, ancora immacolato.
Questa mattina sono venuto qui per potermi rilassare e provare a buttare giù qualcosa. Ma nulla. Non ho trovato ancora niente da scrivere. Qualunque cosa mi venga in mente, un secondo dopo arrivo alla conclusione che sia un’enorme stupidaggine. Avrei tanto da dire, ma non riesco a tirarlo fuori. Non ci riesco proprio.

Decido di fare una piccola pausa. Mi distendo sulla panchina gelata e uso il mio quaderno come se fosse una sorta di cuscino. Sollevo il braccio e porto la mano a pochi centimetri dal mio naso. Osservo per l’ennesima volta il plettro di Riccardo. Poi lo metto giù e le chiome degli alberi che mi circondano mi intralciano la vista. Il cielo è quasi nascosto dalla grandezza di questi alberi in fiore. Il canto dei grilli lascia il posto a quello degli uccelli e per un attimo credo di giacere su una nuvola.

- È così che scrivi una canzone? – Una voce familiare mi riporta alla realtà. Apro gli occhi e mi ritrovo quelli grigi e ipnotici di Riccardo.
- Stavo facendo una pausa. Sono a corto di idee. – Mi rimetto seduto e gli faccio segno di sedersi. – Tu che ci fai qui a quest’ora? – gli chiedo.
- Passeggiata mattutina, mi aiuta a schiarirmi le idee. – Poggia i gomiti sullo schienale ed incrocia le caviglie. I capelli biondi arruffati ed in disordine.
- Come scrivi le tue canzoni? Cioè, come trovi le note giuste, le parole più appropriate? – Mi volto verso di lui, con il mio quaderno in mano, in attesa dei suoi preziosi consigli.
- Sinceramente non lo so. Di solito mi ritrovo melodie in testa e fino a quando non le butto giù, continuano a ronzarmi in testa. Le parole, come è giusto che sia, sono dettate dal mio stato d’animo. – Mentre parla, mi ritrovo catturato dalla sua bocca. Non so perché, ma è come una calamita per i miei occhi.
- Fammi vedere cosa hai fatto finora – dice infine, prendendo gli spartiti.
- Sono vuoti – dico. – Non ho trovato ancora nulla di decente da scrivere. Mi sembrano tutte enormi cazzate. – Alzo un braccio e mi gratto la nuca, palesemente in imbarazzo.
- Non riesci a scrivere nulla perché semplicemente ci pensi troppo. È come se ad un pittore chiedessero di fare un dipinto all'improvviso. Non riuscirà mai a trovare un soggetto che lo appassioni. Un pittore ha bisogno di guardare, vedere con i propri occhi la bellezza che il mondo ha da offrirgli. – Riccardo si avvicina a me con un movimento veloce del bacino e mi indica l’orizzonte.
- A te basterà sentire e le note attraverseranno le tue mani e si poseranno sullo spartito come per magia. – Riccardo chiude gli occhi e respira profondamente.

Lo imito e con il cuore in gola, provo a sentire. Gli uccelli, il vento, il leggero fruscio dell’acqua. Suoni quotidiani, che mi capita di ascoltare tutti i giorni. Incredibilmente ho l’impressione di avvertirli in modo diverso, come se facessero tutti parte di un’enorme melodia collettiva.
Mi affretto a scriverla il più in fretta possibile, prima che tutta questa magia svanisca. Mi sento come se mi stesse attraversando una potentissima scossa elettrica. È una sensazione fantastica.
Riccardo mi guarda compiaciuto. È riuscito sicuramente a smuovere qualcosa nel mio animo, come se avesse tolto un blocco mentale che mi impediva di percepire certe sensazioni.
Infine mi fermo, ansimante come se avessi compiuto uno sforzo fisico rilevante per estrarre questo diamante grezzo dalla mia testa. Riccardo mi toglie di mano lo spartito e posso vedere i suoi occhi soddisfatti di ciò che sta leggendo.
- Non è male come primo inizio – mi dice, dandomi una pacca sulla spalla sinistra.
- Sei indubbiamente sulla strada giusta per un pezzo stratosferico – mi incita con un tono di voce sicuro. - Adesso ti manca soltanto il testo.
Alzo lo sguardo, i suoi occhi orgogliosi mi fissano con gentilezza. Si incollano ai miei e la luce carda dell’alba lo avvolge, dandogli quell'aspetto quasi angelico. Un sorriso smagliante ed una voce capace di infondere serenità con una sola risata. Ogni singola cellula del suo corpo sembra urlarmi le parole giuste da scrivere.
- So esattamente cosa scrivere!
 

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Capitolo 6
*** Worried ***


 
Worried 

- Pronto? – Poggio i piedi per terra e sposto la chitarra dal mio addome. La persona dall'altro capo del telefono si presenta. È Riccardo, ma non riesco a capire del perché mi stia chiamando proprio a quest’ora. È quasi l’alba. Ormai da quella mattinata con lui, è diventata una sorta di routine la sveglia presto per dedicarmi alla mia amata musica.
- Riccardo, cosa succede? Perché hai il mio numero? E perché mi stai chiamando alle cinque del mattino? – Sputo a raffica questa sequenza di parole come se fossero proiettili e la mia bocca una mitragliatrice. Sono nervoso, questa telefonata mi sta mandando in confusione.
- Se la smettessi di riempirmi di telefonate, forse, e dico forse, riuscirei a spiegarti per bene cosa è successo – ribatte lui con tono stizzito.
- Scusa. Sono un po’ preoccupato – confesso mordicchiandomi il pollice. È un vizio dal quale non sono ancora riuscito a liberarmi.
- Fai bene ad esserlo. È successo qualcosa a Davide. – La sua voce è estremamente calma, ma posso sentire la sua agitazione celata da un tono fermo e deciso.
- Cosa gli è successo?
- Abbiamo avuto un leggero incidente. Stavamo tornando a casa dopo un festino e sulla strada del ritorno un coniglio ci ha tagliato la strada. Matteo era alla guida e abbiamo sbandato, nulla di grave. Stiamo bene, ma Davide ha sbattuto la testa e ha perso un po’ di sangue.

Mi faccio dire in quale ospedale sono stati portati ed esco di casa. Ho preso le chiavi dell’auto di mia madre e spero con tutto me stesso di tornare prima che lei si svegli.
Ho preso la patente da poco, ma mia madre non si fida ancora a lasciarmela guidare. Se lo sapesse credo che mi ucciderebbe.

Il tragitto mi pare un’infinità, nonostante siano soltanto venti minuti di strada. Accendo la radio per distrarmi un po’, a quest’ora non c’è molta gente in giro e ciò è a mio favore, sarà più facile evitare di andare a sbattere contro qualcosa ad ogni curva. Mi accorgo di tamburellare l’indice sullo sterzo. Sono nervoso, preoccupato. Sono in completo stato confusionario e questo mi fa solo agitare di più. Sento le parole di Riccardo in testa e non posso fare a meno di pensare a qualcosa di davvero brutto. So benissimo che Riccardo ha cercato di rassicurarmi, ma quando si tratta di Davide o mia madre, non c’è rassicurazione che tenga. Se non vedo con i miei occhi che stanno bene, per me anche un taglietto equivale alla morte. Lo so, sono un po’ esagerato, ma meglio così che infischiarsene.
Quando arrivo, vedo Matteo ed Andrea che mi aspettano nel parcheggio. Li saluto velocemente e mi accerto che stiano bene. Poi parto spedito verso il pronto soccorso. Trovo quasi subito Riccardo. Ha un braccio fasciato, il labbro spaccato.
- Wow – dico, non appena lo vedo.
- Bel commento, davvero. Mi fa sentire meglio.
Mi accorgo solo ora della stupidità, che a volte mi viene a fare visita, e mi scuso impacciato e leggermente a disagio.
- Davide è via. L’hanno portato da un’altra parte per dei punti sulla testa. Non preoccuparti nulla di eclatante.
I nostri sguardi si scontrano per un istante, infine mi fa cenno di sederci.  
Ho il cuore che batte a mille. Sono strano, so che va tutto bene, ma non riesco a stare tranquillo. Come ho già detto, non mi rassicurerò fino a quando non vedrò il mio amico. Il mio piede destro non smette un momento di picchiettare sul pavimento chiaro e leggermente sporco. Ho i gomiti sulle ginocchia e le mani continuano a torturarsi l’un l’altra.
Riccardo mi prende una mano e me la stringe. Ha le mani così grandi rispetto alle mie. Accanto a lui, mi sento una formica. Ricambio la stretta e lo guardo negli occhi.
- Andrà tutto bene – mi sussurra con un filo di voce. Io deglutisco e continuo a guardarlo, immobile.

Un letto viene trascinato fino a pochi metri da me. Osservo la persona che vi giace e riconosco i lineamenti di Davide. Subito mi alzo, lasciando la mano di Riccardo e mi avvicino al suo letto. Ha gli occhi chiusi, forse sta dormendo. Non voglio disturbarlo, così mi allontano e torno al mio posto.
- Sta dormendo – dico, anche se Riccardo non mi ha rivolto nessuna domanda.
- Probabilmente è per effetto dell’anestesia. Si sveglierà presto – mi risponde, accennando un sorriso. Dopo quel piccolo gesto, vedo sul suo viso un alone di sofferenza. L’occhio mi cade sulla sua spalla e capisco subito che deve essersela lussata.
- Ti fa molto male? – gli chiedo, provando una strana sensazione di empatia.
- Potrebbe andare meglio. Me l’hanno riposizionata, ma a quanto pare dovrò tenerla a riposo e fare degli esercizi di riabilitazione. Una scocciatura. - È visibilmente irritato.
- Non potrò suonare – continua con sguardo perso.
- Mi dispiace – È l’unica cosa che riesco a dire. Non so cos'è meglio dire in queste situazioni. Sono una frana in questo ed aggiungere altro aggraverebbe la situazione.  
Solo quando sto per andarmene, Riccardo si risveglia dal suo stato di trans e mi blocca, afferrandomi il polso.
- Ti va di venire con me da una parte?

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Capitolo 7
*** Okay ***




Okay

 
Il cielo si tinge di una rilassante arancio mentre la vecchia Camaro di mia madre percorre una strada parallela al lungomare. Riccardo è seduto accanto a me, ha un’aria pensierosa e il suo volto ha assunto una velata stanchezza.

«Sei sicuro di non volere che ti accompagni a casa?» Mi volto verso di lui, mantenendo comunque l’attenzione sulla strada.
«Te l’avrei chiesto. Adesso voglio solo andare in questo posto.» Si raddrizza sulla sedia.  «Con te» conclude con una nota maliziosa nella voce. Subito dopo aggiunge: «Stavo solo scherzando» notando la mia espressione sbigottita.

Rido nervosamente e riporto lo sguardo sulla strada. Osservo il lungomare meravigliato. Comincio a prendere in considerazione l’idea di venire qui a scrivere le mie canzoni.
«A che pensi?» mi chiede, dopo un lungo silenzio.
«A nulla in particolare. Pensavo di venire qui ogni tanto» rispondo continuando a guidare.
«Okay» ribatte, tornando a tacere.
«Tu, invece?»
«Al mio braccio, mi fa un male cane.»
«Quando ero piccolo mi sono fatto qualcosa del genere. È solo questione di tempo e di riposo. Vedrai che passerà presto» dico, nella speranza di confortarlo lievemente.
«Okay» ripete.

Torno a concentrarmi sulla guida e noto che il sole sta iniziando a mostrarsi. Il mare si increspa in prossimità degli scogli e man mano che continuo a guidare, mi chiedo dove vorrà mai portarmi.
«Ci siamo quasi» sputa all'improvviso, come se mi leggesse nella mente.
Annuisco e seguo le sue ultime indicazioni. Quando mi fa cenno di accostare, tiro un sospiro di sollievo nel vedere che è solo un vecchio capannone sulla spiaggia. È un posto abbastanza discreto e silenzioso e la cosa non mi dispiace. A sinistra, gli scogli creano un’imponente muro, che tiene lontano i frastuoni della zona turistica, fatta di bar e ristoranti eleganti e curati nel minimo dettaglio. Mi fa strada verso il capannone e quando capisco che vuole sedersi, lo aiuto quasi inconsciamente. Questo capannone non è uno dei migliori, è parecchio usurato, ma nonostante questo si regge ancora in piedi.
«Bel posto» mi complimento e mi metto a sedere, non curandomi della sabbia che potrebbe infilarsi dappertutto. È fresca ed una leggera brezza scompiglia i capelli di Riccardo.
«Mi aiuta parecchio a rilassarmi. Quando sento che sto per esplodere vengo qui.» Si sdraia con lentezza e piega le ginocchia, poggiando i piedi sulla sabbia. Lo imito e poggio la testa sui miei palmi.
«Prima stavi per esplodere?»
«Non lo so. È probabile.»
Scruto i raggi di sole che si fanno strada tra le assi marce del capannone.
«Non hai paura che un giorno ti crolli addosso?» Rido impercettibilmente e mi sdraio su un lato, il viso rivolto verso il suo profilo. Solo ora mi accorgo della perfezione che lo caratterizza.
«No. Per quanto possa sembrare pericolante, ha resistito a molti miei sfoghi. Alcuni davvero violenti.» Chiude per qualche secondo gli occhi e vedo il suo petto alzarsi e abbassarsi lentamente ed in modo regolare.
«Allora sto tranquillo.» Sorrido e cerco di rilassarmi.
«Okay.» Questa volta è lui a girarsi sul fianco.
«Fai sempre così?»
«Così, come?»
«Rispondere ‘okay’ ad ogni cosa.»
«‘Okay’ è la mia risposta standard a tutto ciò che non è una domanda.»
Dopo un mio sguardo ancora più confuso, continua:
«Nel corso della mia vita ho imparato a dare il minimo delle informazioni quando parlo con qualcuno. Certa gente manipola le tue parole e le trasforma in qualcosa che tu non ti azzarderesti mai a pronunciare in un discorso. So che potrebbe sembrare strano, ma è meglio essere previdenti.»
«Okay» rispondo con un velo di ironia.  
Ridiamo insieme e ci solleviamo da terra. Riccardo mi scrolla via la sabbia rimasta attaccata alla mia maglietta ed io faccio lo stesso.
«Prima mi hai detto che vieni a sfogarti qui.» Solo adesso noto dei segni su delle tavole in fondo al capannone. Faccio ancora fatica ad immaginarmelo diversamente dalla versione che appare ai miei occhi in questo momento.
«Questioni con delle persone. Ho un carattere impulsivo e nel mio passato ho agito senza pensare.»
«Mi dispiace.» Mi alzo in piedi e Riccardo mi segue con lo sguardo.
«Se ti rallegra, ormai ha da un po’ che vengo qui solo per godermi il panorama. Ultimamente mi sto tenendo alla larga dai guai. È meglio per me.» Riccardo mi segue e sento i suoi gemiti di dolore nel tentativo di alzarsi da solo. Torno indietro e gli offro una mano. La stringe e prova a fare leva sulle gambe per alzarsi.
«Sì, mi rallegra.» Con uno slancio lo tiro su e per un secondo me lo ritrovo ad un palmo di distanza. I nostri nasi si sfiorano ed avverto una morsa allo stomaco quando la sua mano, ancora tra le mie, sfiora il mio petto.
«Okay» mi sorride e pochi attimi dopo siamo tornati alla normalità.

Il tragitto inverso è decisamente più silenzioso e devo ammettere che non mi dispiace per niente. Mi dà modo di pensare molto agli ultimi eventi.
Quando arrivo davanti casa sua, lo saluto con un cenno della mano.
«Ci vediamo in giro» urlo dall’auto. Lo vedo percorrere il vialetto ed aprire la porta di casa.
Non riesco a sentirlo, ma sono sicuro dal labiale che mi ha detto le stesse quattro lettere che mi ha ripetuto per tutta la mattinata.
«Okay!» gli faccio eco prima di mettere in modo il motore.

Ho trascorso appena una decina di metri quando un pensiero inizia a balenarmi in mente. Mia madre, il suo imminente risveglio. Istintivamente schiaccio il pedale dell’acceleratore. Spero con tutto me stesso che non mi scopra o peggio ancora mi metta in punizione.

 

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Capitolo 8
*** You knocked at my door ***




 
 
You knocked at my door



Quando apro la porta di casa, trovo mia madre seduta su uno sgabello in cucina. Indossa ancora la vestaglia da notte ed i suoi capelli sono arruffati ed in disordine. Picchietta con ritmo regolare le unghie laccate di rosso sul marmo della penisola al centro della stanza. Ha davanti una tazza e la caffettiera fumante. Due lenti sottili e di forma rettangolare sono poggiate sul suo nasino alla francese.
«Buongiorno» mi dice, rompendo il silenzio. «Dove sei stato?»
So benissimo che sa dove sono stato e mentire non mi sembra per niente un’ottima idea. «Davide ed altri miei amici hanno avuto un incidente stanotte. Ho ricevuto una chiamata verso le cinque di questa mattina.»
La raggiungo in cucina e mi siedo davanti a lei. Mi porge una tazzina, nella quale verso un po’ di caffè, macchiandolo poi con del latte.
«Come stanno? E come hai raggiunto l’ospedale?» Mia madre beve un sorso di tè dalla sua tazza e si raddrizza sulla sedia. Il suo volto assume un’aria preoccupata e delle piccole rughe fanno capolino ai lati estremi dei suoi occhi.
«Davide ha subíto un intervento, ma i medici hanno detto che se la caverà. Gli altri sono stati più fortunati. Due di loro ne sono usciti illesi. Un altro, Riccardo, ha una lussazione al braccio e dei piccoli taglietti sul viso. Ma per il resto sono stati fortunati, visto ciò che sarebbe potuto succedere.»
«Sono sollevata. Nel pomeriggio vedrò di andare in ospedale a trovarlo. Sai quanto mi è stato d’aiuto quel ragazzo. Ci tengo a ricambiare il favore» sospira, sollevando la testa. Si porta gli occhiali sulla testa, bloccando alcune ciocche di capelli che le cadevano sugli occhi. «Comunque, non hai risposto alla seconda domanda.» Alza lo sguardo e mi fissa, in attesa della risposta che la farà infuriare.
«Ho preso la Camaro» dico, torturandomi le mani da sotto la lastra di marmo. «So benissimo che non avrei dovuto prenderla senza il tuo permesso, ma era un’emergenza e dovevo assolutamente vederli.» Questa risposta sembrò però addolcirla.
«Mi ricordi tuo padre. Lui ha sempre avuto questo carattere impulsivo e determinato, nonostante sia per la maggior parte del tempo un tipo tranquillo. Era questo ciò che lo rese interessante ai miei occhi tanti anni fa.» beve un altro sorso di tè e mi sorride. «Ciò non significa che sei libero di prenderla quando ne hai voglia.»

Faccio un sorriso di rimando e mi alzo dallo sgabello. Mi avvicino a lei e le stampo un bacio sulla guancia. So quanto si sente sola e so anche che le piacerebbe riavere papà qui con noi. Dopo il divorzio, per lei fu difficile fare quadrare i conti. Attraversammo molti ostacoli e per un primo istante, pensai di aver perso mia madre. Era sempre molto silenziosa e passava la maggior parte del tempo a pulire casa. Fortunatamente, quando la convinsi a tornare al suo vecchio lavoro, sembrò tornare quella di una volta.
«È meglio che mi inizi a preparare. Fra poco devo andare a lavoro.» Si alza e mette le stoviglie sporche nel lavandino. «Oggi ho un meeting importante con un’azienda di prodotti per capelli. Spero che il nostro ufficio vendite riesca a concludere l’affare.»
«Va bene, mamma.»

Mi alzo anche io e mi dirigo in camera mia. Quando entro, trascino il mio corpo fino al letto e mi butto letteralmente sul materasso. Improvvisamente sento un’enorme stanchezza. Chiudo gli occhi per un attimo e poco dopo mi addormento di sasso.
Quando inizio a risvegliarmi, ascolto mia madre indaffarata al piano di sotto. Sento porte sbattere, chiavi tintinnare, imprecazioni sommesse a causa dell’arricciacapelli che non fa il suo dovere.
«Mamma, è tutto okay?» le urlo, rigirandomi sul letto.
«Sì, tesoro. Ho solo un po’ di fretta. Ti dispiacerebbe lavare la roba dentro il lavandino?»
«Non c’è problema, tranquilla.»

Dopo una mezzora scarsa, la sento andare via. Mi alzo dal letto e sistemo il piumone alla meno peggio. Scendo le scale svogliatamente e mi alzo fino ai gomiti le maniche della maglia. Afferro i miei occhiali e li indosso. Evito di metterli quando esco di casa, mi fanno sentire in imbarazzo, così li tengo soltanto a casa.
Ho appena finito di asciugare l’ultima tazza e mi tampono le mani ancora un po’ umide. Di colpo suona il campanello e sono leggermente sorpreso. A parte mia madre e Davide, non so chi mi possa fare visita. Mi dirigo alla porta e guardo l’esterno attraverso lo spioncino. Vedo un ammasso di capelli biondi, poi alza leggermente la testa e intravedo gli occhi di Riccardo che scrutano lo spioncino. Il mio cuore fa una capriola quando i nostri occhi si scontrano. Mi schiarisco la voce e metto via gli occhiali, gesto che ormai è divenuto un’abitudine. Così gli apro la porta. Riccardo sta in piedi sullo zerbino, mi saluta con un’aria impacciata e si porta la mano sinistra dietro la testa, grattandosi la nuca. Indossa una maglia di un rosso sbiadito e dei semplici jeans. Non oso immaginare quanto sia stato difficile per lui cambiarsi con un braccio immobilizzato.
«Mi sa di aver lasciato il mio portafoglio nella tua auto. Quando sono arrivato a casa, mi sono accorto di non averlo più» mi spiega, con un sorriso sulle labbra.
«Oh, certo. Te lo recupero subito.» Faccio per prendere le chiavi della Camaro sul mobile accanto all'ingresso, quando noto che le chiavi non ci stanno più. «Cavolo! Mia madre è uscita e si è portata l’auto.» Faccio il suo stesso gesto dettato dall'imbarazzo e mi scuso per l’inconveniente.
«Okay» risponde.
«Se ti va, puoi restare qui e potremmo aspettarla insieme.» Mi sposto di lato e gli lascio lo spazio per accomodarsi. «Dovrebbe tornare per l’ora di pranzo.»
«Okay» risponde, mostrandomi un sorriso tenero.

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Capitolo 9
*** Pancakes ***






Pancakes

 
Riccardo passeggia per il soggiorno. Posa i suoi occhi su ogni particolare della stanza. Ogni tanto si sofferma qualche secondo in più per osservare attentamente una foto o la copertina di uno dei libri che leggeva mio padre. Riporto i miei occhi sul quaderno, dentro al quale scrivo tutto ciò che ho il bisogno di esprimere. Cerco il più possibile di evitare di fissarlo, anche perché non vorrei creare nessuna situazione imbarazzante. È abbastanza difficile così. Provo un po’ a distrarmi pensando a Davide e per qualche minuto mi dimentico della sua presenza.
Intanto Riccardo ha finito il suo giro d’osservazione e torna in cucina, sedendosi proprio davanti a me. Sento il suo respiro regolare e probabilmente, per via del silenzio, sentirei persino il battito d’ali della mosca che continua a tormentarlo. Non so di che parlare, quale argomento intraprendere. Non lo conosco molto bene e ho il terrore di annoiarlo con i miei soliti discorsi. Alla fine, però, la frase che mi esce dalla bocca è tutt'altro che interessante.
«Bella giornata oggi, eh?» In questo momento vorrei semplicemente scavarmi la fossa e sparire da qui. Certe volte la mia stupidità sorprende persino me stesso.
«Già. Questa mattina, l’alba lo preannunciava. È raro vederne una così emozionante» mi risponde, appoggiando il mento sul palmo della mano. Osserva la mia mano che nel frattempo ha cominciato a disegnare su un angolo del foglio degli scarabocchi senza senso.
«Ne hai viste tante?»
«Quanto basta per poter dire che questa è una delle più belle.» Solleva gli occhi e con leggerezza mi sorride.
La conversazione ha raggiunto un punto morto e sono letteralmente entrato nel panico. Non riesco a capire perché la mia mente stia reagendo così. All’improvviso, un’idea geniale calma la mia testa.
«Hai fame?» chiedo. Cucinare è una delle poche cose che so fare bene e, oltre al riordinare, è un ottimo metodo per scacciare via l’ansia.
«Beh, un po’ di fame ce l’avrei» dice, inarcando la schiena e poggiando il petto alla lastra in marmo del tavolo. «Vanno benissimo dei cereali e del latte. Non ho molte pretese» conclude.
«Io avevo in mente di fare i pancakes, ma se preferisci i cereali non c’è problema. Li farò solo per me.» Mi volto verso la credenza e apro uno dei tanti sportelli.
«Quando hai imparato a cucinare?»
«Dopo il divorzio dei miei, mia madre ha ripreso il suo vecchio lavoro e con esso le sue vecchie abitudini. Torna di rado per pranzare o cenare e l’unico modo era mangiare tutte quelle robacce precotte e surgelate da non so quanto tempo. Diciamo che ad un certo punto è stato il mio stomaco a costringermi a cucinare. All'inizio è stata un’impresa alquanto impossibile. Pensa che la prima volta ho persino rischiato di far esplodere il microonde.»
Durante la mia logorroica spiegazione, ho già miscelato tutti gli ingredienti e messo una padella sul fuoco. Mentre aspetto che si scaldi, mi volto e poggio i palmi sul bordo del cucinino.
«Non chiedermi come ho fatto, perché tuttora non riesco a spiegarmelo nemmeno io» aggiungo, sorridendo.
«Peccato essermela persa. Mi sarei fatto due risate.»
«Non è quello che stai facendo adesso?» ribatto con finta irritazione.
«Quindi… hai imparato grazie a internet?»
«No. Ho passato un’intera estate da mia nonna. Lei sì che sa cucinare.»
Il primo pancake ha iniziato a lievitare e velocemente lo volto sull'altro lato, ancora pallido.
Riccardo si alza e mi raggiunge. La sua coscia sfiora la mia e, mentre verso un po’ di impasto sulla padella rovente, afferra il primo pancake pronto e lo addenta.
«Brucia, eh?» lo stuzzico, guardandolo fare smorfie strane con la bocca.
Farfuglia qualcosa di simile ad un ‘Non è divertente’ e, come se abitasse qui da anni, apre l’anta del frigorifero e si appresta a berne un bel po’. Tiene la bottiglia per aria e l’acqua raggiunge la sua gola come se Riccardo si stesse dissetando da una fontana. Qualche goccia finisce sul suo collo, facendolo sbrilluccicare ad ogni suo movimento. Resto quasi ipnotizzato dal suo pomo d’Adamo che per qualche secondo non fa altro che andare su e giù.
«Adesso va meglio.»
«Karma, amico mio» dico beffardo, continuando a cucinare gli ultimi pancakes.
In un’espressione divertita mista all'infuriata, si avvicina a me e con fare controllato sussurra: «Okay.»
Io non posso fare a meno di ridere e mi dispiace un po’ per questo.
«Alessandro, non so fino a quanto ti possa convenire prenderti gioco di me» replica minaccioso.
«Devi tenerti lontano dai guai» dico, enfatizzando l’ultima parola.
«Non ti farei mai del male.» La sua ira si placa e mi fissa intensamente negli occhi. «Altrimenti come farei a recuperare il mio portafoglio?» Sul suo volto fa capolino un sorriso malizioso.
Adesso sono io ad essere irritato e, sempre con ironia, mi avvicino a lui un altro po’ con in mano un cucchiaio di legno, intimandolo di colpirlo.
In questo preciso istante sento la porta di casa aprirsi. Dei passi verso la cucina e poi il viso di mia madre sorpreso.
«Alessandro, chi è il tuo amico?» 


 

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