I feel you

di LoveStoriesInMyHead
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il mio primo giorno ***
Capitolo 2: *** Adam Williams ***
Capitolo 3: *** Lupo solitario ***
Capitolo 4: *** Verrai a stare da me ***
Capitolo 5: *** Alla Sophie's cakes ***
Capitolo 6: *** Bacio ***
Capitolo 7: *** Mi serve il tuo aiuto! ***
Capitolo 8: *** Demoni ***
Capitolo 9: *** Mi prenderò io cura di lei! ***
Capitolo 10: *** Ho scelto te ***
Capitolo 11: *** Nuovo inizio ***
Capitolo 12: *** Cambio di programma ***
Capitolo 13: *** Tell me something good ***
Capitolo 14: *** Motociclette e pioggia ***



Capitolo 1
*** Il mio primo giorno ***


“Sam credi che riuscirò a farmi degli amici?” chiesi alla mia migliore amica una volta raggiunta la London High School. Avevo faticato molto per andarci, i miei genitori erano molto contrari.

Qualche mese fa

“Mamma non puoi farmi questo!” le urlai.
“Tu partirai con noi e verrai in America. Ti piaccia o no!” ribatté.
“Papà dille qualcosa” chiesi aiuto.
“Piccolina ha ragione. Pensa a quanto sarà bello vivere lì. Farai tante amicizie ed andrai in una delle scuole più prestigiose di New York” provò a convincermi.
“Ma io non voglio andare. Io ho già Samantha e voglio andare nella sua stessa scuola!”
“Non se ne parla. Tu verrai” continuò decisa mia madre. “Tuo padre ha faticato molto per avere quell'aumento e adesso noi andremo con lui” disse indicando mio padre seduto sulla poltrona di velluto beige.
Ormai le lacrime avevano cominciato a bagnare le mie guance.
“Fatemi rimanere qui. Mi cercherò un appartamento vicino la scuola, uno di quelli per gli studenti. Farò la brava, prenderò ottimi voti a scuola, ma per favore, fatemi rimanere qui” tentai un’ultima volta.
“Tu sei pazza figlia mia” disse mia madre enfatizzando le sue parole con un gesto della mano.
“Isabella, ascoltami, Erika è molto responsabile. Sarà capace di cavarsela da sola. E poi c’è mio fratello a Londra. Potremo chiedere a lui di darle ogni tanto un’occhiata…”
Ah, era ora che qualcuno passasse dalla mia parte. Guardai con occhi pieni di speranza mia madre.
“Ti chiamerò ogni giorno e se combinerai qualche guaio verrò a prenderti personalmente”  disse mia madre continuando con il suo atteggiamento da dura.
“Grazie, grazie , grazie” le saltai addosso cominciando a baciarla sulle guance.

*Fine flashback*

E così ero riuscita a trovare un appartamento abbastanza vicino alla scuola. I miei genitori mi mandavano ogni mese un assegno per poter pagare le rette della scuola e l’affitto, mentre il resto andava a me per fare la spesa o comprarmi vestiti e scarpe, la mia più grande passione.
“Io penso che ci riuscirai Erika” mi rispose sorridendomi.
“Lo spero” dissi camminando all'indietro verso il cancello dell’imponente scuola.
Un secondo dopo mi ritrovai a terra.
“Dove guardi idiota!” mi urlò un ragazzo mentre si rialzava da terra. Lo guardai per un attimo. Cavolo metteva paura. Aveva i capelli neri come la pece e gli occhi, del medesimo colore, iniettati di sangue. Potevo vedere un’aura oscura attorno a lui. Era spaventoso, ma estremamente bello.
“Sc-scusami. Non ti avevo visto” dissi cercando di mantenere la calma.
“Sta’ più attenta. Non so se sarò così gentile la prossima volta” disse fulminandomi con lo sguardo e andando via.
Un brivido percosse il mio esile corpo.
“Erika tutto bene?” mi chiese preoccupata Sam mentre mi tendeva una mano per aiutarmi ad alzarmi.
“Si, sto bene” mi massaggiai il sedere per la forte botta.
“Dai entriamo” disse tirandomi verso la scuola.
“Purtroppo siamo in classi diverse, dobbiamo separarci. Ci vediamo dopo” mi salutò allontanandosi.
“Si, ciao” la salutai con un gesto della mano.
Adesso ero sola, Sam era andata via e la cosa più importante da fare era farmi altre amiche. Ce la metterò tutta pensai motivata mentre aprivo la porta della mia classe.
“Piacere! Io sono Erika Brown” dissi entusiasta, ma nessuno ci fece molto caso.
La cosa mi demoralizzò leggermente, ma non mi buttai giù. Decisi di instaurare una conversazione con la mia vicina di banco.
“Ciao, io sono Erika” mi presentai mettendo su uno dei migliori sorrisi che riuscissi a fare.
“Ciao Erika. Il mio nome è Chanel” ricambiò la ragazza sorridendo. Wow è davvero bella! Pensai non appena la vidi voltarsi verso di me. Aveva i capelli mori e gli occhi azzurri. Aveva un portamento regale, sembrava una principessa. Io, a confronto, sembravo una delle sue serve. Era vestita molto bene. Indossava una camicetta bianca e una gonna a fantasia celeste, le stavano veramente bene quei vestiti.
“Ehi, ci sei?” mi chiese agitando la mano di fronte al mio viso.
“Scusami, mi ero distratta” dissi portandomi una mano dietro la testa.
“Ti avevo chiesto se eri di Londra” disse lei ridendo.
“Oh, si. Sono nata qui”  risposi imbarazzata.
“Sei buffa. Mi piaci” mi spiazzò con quelle parole.
L’unica persona che mi aveva mai detto quelle cose era Sam, finalmente avevo trovato un’altra ragazza che la pensasse come lei.
“Anche tu mi piaci” ricambiai sorridendo.

All'improvviso tutto il brusio in classe si bloccò di colpo. Smisi di parlare e mi voltai verso il resto dei miei compagni di classe. Notai che guardavano tutti impauriti verso la porta. Curiosa  mi misi a guardare anch'io. Fece il suo ingresso un ragazzo, molto alto e con il cappuccio della felpa sulla testa, dal quale fuoriuscivano qualche ciocca di capelli ai lati.
“Guarda! Quello è Jason Evans” sentivo bisbigliare da alcune mie compagne. “Oddio fa paura, ma è così figo!” continuavano altre. Inspiegabilmente, il cuore cominciò a battermi forte in petto. Mi era familiare, così attesi che si sedette per osservarlo meglio. Si tolse il cappuccio e rivolse uno sguardo all'intera classe.
“Chiudete la bocca!” urlò aggrottando le sopracciglia.
Lo riconobbi all'istante. Era quel misterioso ragazzo con il quale mi ero scontrata quella mattina.
“Cosa hai da guardare ragazzina?” mi sputò in faccia. Cavolo, mi ero imbambolata a pensare un’altra volta!
“Cosa? Tu lo conosci?” mi chiese Chanel.
“In un certo senso, ma non so molto di lui” dicci giocando con le mie mani per l’imbarazzo.
“Io gli ero amica una volta” disse mentre continuava a limarsi le unghie.
“Davvero? Raccontami di lui” la incitai eccitata.
“Non è sempre stato così, un anno fa era uno dei ragazzi più popolari della scuola e aveva molte ragazze che gli andavano dietro. Ma un giorno cambiò, cominciò a marinare la scuola e a prendere brutti voti, con la conseguenza che fu bocciato” mi spiegò.
“Eh? È più grande di noi?” chiesi sorpresa.
“Già.”
“E tu come fai a conoscerlo?” la mia curiosità aumentava sempre di più.
“Era il migliore amico di mio fratello” mi rispose alzando le spalle. “Come mai sei così interessata all’ ‘Angelo nero’?” chiese rivolgendomi un sorriso malizioso.
“Niente di particolare” risposi tornando seria.

Ripensai al suo soprannome: Angelo nero. La cosa mi fece ridere, gli s'addiceva proprio, era perfetto per lui.
Ben presto cominciarono le prime ore di lezione e la ricreazione non tardò ad arrivare.
Dopo il suono della campanella afferrai il mio zaino e tirai fuori la mia merenda. Appoggiai i due cupcake sul banco e richiusi lo zaino appendendolo sullo schienale della mia sedia. Le mie compagne di classe erano già uscite fuori dalla classe, io ero rimasta dentro. Avrei mangiato e dopo sarei andata da Sam a chiederle come aveva trascorso la mattinata. Ero da sola, beh non proprio, con me c’era l’Angelo nero, non che fosse una grande compagnia, ma era pur sempre un essere umano, credo.
Notai che non aveva mangiato niente. Possibile che abbia dimenticato la merenda? Così mi avvicinai a lui e gli porsi uno dei miei dolcetti. Non so cosa mi portò a farlo, un gesto impulso, non avevo pensato seriamente di offrirgliene uno, semplicemente ne avevo voglia.
“No grazie. Non mi piacciono le cose dolci” mi liquidò subito. Feci il giro del tavolo e mi misi di fianco a lui.
“Perché no? Sono buonissimi. Non ne vuoi assaggiare uno?” gli dissi avvicinando un cupcake alla sua bocca.
Mi afferrò il polso e lo allontanò dal suo viso. “Ti ho detto di no!” disse a denti stretti irrigidendo la mascella.
“Scusami” dissi alzando le mani in senso di arresa.  “Lo lascio qui nel caso ci ripensassi” dissi poggiando il dolce sul suo banco. Uscii dalla classe e mi nascosi dietro la porta.
Si guardava intorno, di sicuro voleva accertarsi che me ne fossi andata. Afferrò il cupcake e lo addentò. Mi scappò una risata. Mi portai le mani alla bocca, non dovevo farmi scoprire. Faceva tanto il duro, ma alla fine era un ragazzo come tutti gli altri.
“Erika che fai?” mi interruppe la mia migliore amica.
“Sam mi sei mancata!” le dissi gettandole le braccia al collo.
“Come sei esagerata” cominciò a ridere.
“Siete rumorose. Date fastidio agli altri con i vostri schiamazzi da ochette” ci ammonì Jason passandoci vicino.
“Che ha quel ragazzo che non va?” chiese Sam infastidita.
“Niente, lascialo perdere” continuai a ridere.
***
Al suono della campanella, io e Sam, ci dirigemmo verso casa. La sua era molto vicina al mio appartamento, così ogni giorno percorrevamo la strada assieme. Era divertente passeggiare con lei, ogni sua parola suonava come battuta alle mie orecchie. Non riuscivo a trattenere le risate con Sam.
“Wow! La mia prima giornata da liceale è stata magnifica” dissi sbadigliando.
“Hai fatto amicizia?” sorrise Sam.
“Certo. Ho conosciuto Chanel, è davvero una tipa simpatica” la informai.
“Sono molto contenta” si congratulò baciandomi sulla guancia destra.
“E tu?”
“Ho parlato con un paio di ragazze della mia classe, sembrano tipe a posto.”
“Sam, io devo andare di qua. Ci vediamo domani!” le dissi indicando una piccola via.
“Okay, ciao” disse ricambiando, salutandomi con la mano.
Continuavo a saltellare, ero troppo contenta. La mia nuova e strabiliante vita mi aspettava ed io volevo raggiungerla a tutti i costi. Presto avrei trovato un fidanzato con il quale trascorrere i pomeriggi in giro per la città, o fare un giro sulla London Eye. Volevo godermi ogni singolo attimo della mia vita da teenager.  
Il fatto di vivere da sola mi elettrizzava, non avevo orari, potevo fare quello che volevo, come una festa o un pigiama party con tutte le mie amiche. Certo, i miei genitori mi mancavano, ma col tempo ci feci l’abitudine.
 Canticchiavo per la strada, mentre con la mano sinistra facevo roteare lo zaino. Londra era una città incredibile, con i suoi monumenti  riusciva sempre ad affascinarmi. In un batter d’occhio arrivai dinanzi il portone del mio palazzo.
Inserii la grossa chiave, il portone si aprii e strisciai i piedi sullo zerbino, la signora Betty odiava se sporcavamo l’ingresso.
La signora Betty era l’amministratrice del condominio. Era una donna molto gentile e simpatica, ma dava molta importanza alla pulizia. Guai a chi entrava con le scarpe imbrattate di fango! L’ultimo che ebbe la sfortuna di non accorgersene era sparito. Chissà che fine abbia fatto. Sospirai e cominciai a salire le scale. L’ascensore era di nuovo rotto e a me toccava salire le scale per ben cinque piani, una cosa da niente insomma. Con il fiatone finalmente arrivai davanti il mio portoncino. Presi il mio mazzo di chiavi e cominciai a provarle a casaccio nella speranza di trovare quella che potesse aprire la porta. Non riuscivo  mai a riconoscerla, tutte le chiavi erano dannatamente uguali, avevo pensato parecchie volte di differenziarle, ma finivo sempre per dimenticarmene.
Aprii la porta ed entrai. Posai le chiavi sul mobile accanto ad essa e tolsi la giacca. Percossi lo stretto corridoio ed andai in camera mia. Il letto era ancora disfatto e i vestiti erano sparpagliati in giro per la stanza, come se una bomba fosse esplosa all'interno del mio armadio.
Cercai di riordinare, a modo mio. Raccolsi tutti gli abiti e li rigettai nell'armadio così come li avevo presi da terra. Non sono mai stata una ragazza ordinata. Io nel caos ci trovavo la pace, stavo bene in mezzo al casino, al disordine. Sam mi prendeva per pazza. Come fai a vivere qui? Sembra una discarica mi disse una volta che venne a vedere casa mia. Sorrisi a quel pensiero.
Andai in bagno e mi sciacquai il viso, legai i miei capelli biondi in una coda ed andai in cucina. Almeno quella era in perfetto ordine. Il lavandino spendente, il piano cottura sempre ordinato e pulito e il frigorifero pieno dei miei cibi preferiti ordinati per tipo. La cucina era l’unico luogo in tutta la casa impeccabile e perfetto, sembrava quasi una di quelle che si vedono nei giornaletti che si trovano da IKEA.
Aprii il frigorifero e afferrai un piatto coperto con della carta stagnola. Mi avvicinai al forno a microonde e impostai il tempo sufficiente per riscaldare il pollo che avevo cucinato la sera precedente.
“Non è possibile!” sentii urlare dall'altro appartamento.
Le pareti erano molto sottili, quindi non era difficile ascoltare le conversazioni degli altri. Ogni tanto era una cosa positiva, nei pomeriggi d’estate, quando mi annoiavo mi mettevo ad origliare le conversazioni stravaganti della mia vicina, una donna single, che ogni sera portava a casa un uomo diverso per divertirsi, credo che abbiate capito il perché non sia sempre piacevole ascoltarla.
Ma quella volta non fu una voce femminile a parlare, bensì un ragazzo.
“A quest’ora i supermercati saranno già chiusi” lo sentii una seconda volta.
Guardai l’orologio, effettivamente erano già le otto di sera, come vola il tempo quando cominciavo a pensare. Le lancette andavano avanti, ma io rimanevo ferma lì, in quell'universo parallelo, dove niente poteva ferirmi.

Una fitta al cuore bloccò il mio respiro per un attimo. Scossi la testa, come per mandare via quei brutti pensieri. Mi diressi verso la porta ed uscii di casa. Mi ritrovai davanti l’appartamento di quella donna e bussai. Solo dopo averlo fatto mi resi conto dell’assurdità del mio gesto. Mi avrebbe presa sicuramente per un’impicciona. Oh beh, ormai il danno è fatto. Non posso mica scappare come quando si fa tra bambini. Attesi all'ingresso nervosa.
La maniglia si mosse e la porta si aprì. Rimasi sconvolta alla vista del viso del ragazzo. 
Quante probabilità c’erano che proprio nel mio stesso condominio ci abitasse lui? E quante probabilità c’erano che fosse proprio il mio vicino di casa? Non molte, ma forse era il mio giorno fortunato, si fa per dire, ovvio.
“T-tu sei l’Angelo n-nero” balbettai pietrificata dinanzi a lui.
“Ancora tu! Ma cosa sei una stalker?” sbuffò fissandomi con i suoi bellissimi occhi neri.
“No ti sbagli. Sono solo venuta a vedere se stai bene” cominciai a dirgli. Il suo sguardo era troppo intenso, non riuscivo a guardarlo negli occhi.
“Va’ via!” disse chiudendo la porta.
“Ho sentito che non hai cibo. Vuoi venire a cena da me?” dissi tutto di un fiato bloccando la porta con un piede.
Smise di fare pressione sulla porta ed uscì di casa.
Mi ricomposi e gli feci strada verso il mio appartamento.
“Siediti pure dove vuoi” lo invitai ad entrare.
Aprii un cassetto della cucina, tirando fuori una tovaglia, ed apparecchiai la tavola. Ogni mio spostamento, ogni mio movimento, ogni singolo gesto era seguito dai suoi occhi. Era piuttosto imbarazzante con un ragazzo del genere anche solo portarmi una ciocca di capelli, sfuggita all'elastico, dietro l’orecchio.
Il pollo era già fumante sulla tavola, così gli porsi le posate e cominciò a mangiare.
Mi sedetti di fronte a lui e gli chiesi “Da quant'è che non mangiavi qualcosa?”
“Da stamattina. Tu non mangi?”
Ripensai a quel cupcake, probabilmente si riferiva a quello.
“No, non ho molta fame” risposi. “Come mai vivi da solo?” mi azzardai a chiedere.
“Fatti miei” mi disse alzando la testa dal piatto per incenerirmi con lo sguardo.
Viva la simpatia! Decisi di rimanere in silenzio, da quel poco che avevo capito non era un tipo chiacchierone. Meglio così, non era che avessi molta voglia di parlare con lui, non si era ancora scusato per esser stato così scorbutico quella mattina. Il generoso e altruista gesto che feci nei suoi confronti fu solo per dimostrargli che ero una brava ragazza, tutto qua, non volevo mica passare più tempo con lui.
Finì di mangiare e si alzò, dirigendosi verso la porta. Una ragazza ti offre una cena e tu neanche ringrazi? Ma in che mondo vivi? Pensai vedendolo andare via. Feci per dirgliene quattro, ma di colpo si voltò.
“Questa mattina il cupcake non era male, ma continuo a preferire le cose salate. La prossima volta preparami un panino. Sarà di certo più gradito” disse con un sorriso.
Cosa era quello? Un sorriso? Da quella specie di demone? Avrò sicuramente visto male.
“Torna pure quando vuoi” gli urlai prima che chiudesse la porta. Ma che cavolo dico? ‘Torna pure quando vuoi’ penserà che ci stia provando con lui. Spero che non abbia frainteso pensai mettendomi le mani tra i capelli.
Avevo un brutto presentimento.
 

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Capitolo 2
*** Adam Williams ***


“Erika, mi dispiace, ma credo che dovremmo lasciarci.”
“Cosa? Perché?”
“Credo di non averti mai amata veramente.”
“Quindi era tutta una bugia?”
“Andiamo piccola, non dirmi che non avevi capito che stavo con te solo per il tuo bel faccino.”

“Cosa? Ah, era solo un sogno, anzi un incubo” sospirai tirando fuori dal letto i miei piedi, seguiti poi dal resto del corpo. Ancora una volta avevo sognato quel momento. Quel giorno di due anni fa dove il mio ‘ragazzo’ mi aveva spezzato il cuore. Ormai non ricordavo più il suo viso, come ogni sua azione o parola rivolta nei miei confronti, l’avevo completamente rimosso dalla testa, ma quello che non riuscivo a dimenticare erano quelle parole. Quelle cattive parole che ogni notte venivano a tormentarmi, come se già tutto quello che avessi passato non fosse abbastanza. Spensi la sveglia, che aveva da poco cominciato a suonare, e mi diressi in cucina. Mi riscaldai del latte, presi delle fette biscottate dalla dispensa e mi sedetti su di uno degli sgabelli che circondavano  l’isola al centro della cucina. Inzuppavo nel latte un pezzo di fetta biscottata mentre osservavo il fumo creare ghirigori nell'aria per poi fondersi con essa. Sollevai per l’ennesima volta quella fetta e la portai alla bocca. Una gocciolina cadde sulla mia coscia nuda. Il calore si diffuse in tutto il corpo. Presi un panno e pulii il tutto. Finita la colazione mi diressi in camera mia per prepararmi al mio secondo giorno di scuola.

Misi le scarpe ed uscii di casa. Chiusi a chiave la porta e mi preparai ad andare quando vidi aprirsi quella del mio nuovo vicino di casa.
“Buongiorno” mi azzardai a salutarlo.
“Ciao” disse.
Rimasi leggermente sorpresa dalla sua risposta. Sinceramente, non mi aspettavo neanche che mi guardasse in faccia, come invece fece. Magari mi stavo avvicinando allo spaventoso Angelo nero.
Scendemmo le scale assieme e, giunti al portone, premette il bottoncino sotto il contatore elettrico, aprendolo al suono di un fastidioso ronzio. 
Stavo per chiedergli se gli andasse di fare la strada insieme, quando lo vidi voltarsi dalla parte opposta, cominciando a camminare.
“Dove vai? La scuola è dalla parte opposta” gli urlai, ormai troppo lontano per potergli parlare ad un volume più basso.
“Ho da fare. Ci vediamo a scuola” disse voltandosi e sorridendo.
Questa è la seconda volta in due giorni. Magari la prima volta ho visto male, era sera ed ero molto stanca, ma oggi? È giorno e c’è molta luce. Questa volta non ho dubbi: mi ha sorriso.
Trascorsi un piccolo tratto  da sola, per poi incontrarmi con Sam davanti alla Sophie’s cakes, una delle mie pasticcerie preferite.
“Buon giorno Sam!” esclamai non appena la vidi attraversare la strada.
“Buon giorno anche a te” ricambiò abbracciandomi.
Iniziammo a camminare fianco a fianco, raccontandoci cosa avevamo fatto dalla sera prima fino a pochi minuti fa. Ci sentivamo ogni giorno e nonostante questo avevamo sempre qualcosa su cui parlare.
“E quindi mi padre cominciò a dirmi che non potevo più uscire con il mio ragazzo” iniziò a blaterale copiando i gesti del padre “E’ troppo grande per te” disse imitando la sua voce. “L’ho mandato a quel paese alla fine, io amo Luke. È questo l’importante vero?” chiese alla fine ricordandosi della mia presenza.
“Si, hai fatto bene” le risposi. Anche se non ero completamente d’accordo con lei. Appoggiavo la sua storia d’amore, ma quel ragazzo era davvero troppo grande, era già al primo anno di università!
“Erika!” mi urlò tirandomi verso il muro. “Accidenti quella macchina stava per metterti sotto!” mi ammonì. “Devi stare più attenta.”
“Scusami, mi ero distratta” mi giustificai rigirandomi i pollici.
“Dai non preoccuparti. L’importante è che tu non ti sia fatta male” mi disse sorridendomi.
Le sorrisi di rimando ed entrai a scuola.
Attraversai un lungo viale alberato e varcai la soglia dell’ingresso. Arrivai in classe e presi posto nel mio banco accanto a Chanel. Jason non era ancora arrivato.
Chissà dove sarà andato. Spero solo che arrivi in tempo per la campanella.
Avevo appena formulato quella frase nella mia mente, quando lo vidi entrare e sedersi, proprio ad un banco di distanza da me.
“Buongiorno ragazzi” disse un uomo entrando in classe. Ricambiammo il saluto e tornammo seduti.
“Bene, mi presento. Io sono Adam Williams” scrisse il suo nome a caratteri cubitali sulla lavagna “e sarò il vostro professore di biologia. Spero passeremo un magnifico anno insieme” disse sorridendo all'intera classe.
Era estremamente giovane, anche troppo. Come faceva ad essere già un docente?
Aveva i capelli castani e degli occhiali a coprirgli degli occhi azzurri da mozzare il fiato. Era molto alto e slanciato, e il suo sorriso, oh quel bellissimo sorriso, era qualcosa di stupendo. Mi sembrava un angelo, l’Angelo che mi avrebbe portata in Paradiso.
“Avete domande da pormi?” chiese poi sfregandosi le mani.
Istintivamente alzai la mano. Strano, non ero di certo il tipo di ragazza da compiere un gesto del genere, non mi piaceva essere al centro dell'attenzione.
“Si?” mi indicò, incitandomi a parlare.
“L-lei non è troppo giovane per essere un professore?” osai a chiedere.
“Beh, effettivamente, sono molto giovane. Questo è il mio primo anno dall'altro lato” cacciò una leggera risata “sono stato solo molto determinato e ce l’ho fatta molto presto” disse soddisfatto. Annuii leggermente e tornai ad essere la solita ragazza silenziosa.
“Qualcun'altro vuole chiedere qualcosa?”
Seguirono svariate domande, la maggior parte proposte dalle ragazze. Era un bel uomo, aveva fatto sicuramente breccia nel cuore di tutte, persino nel mio.
“Signorina Brown vorrei parlare con lei al termine delle lezioni” disse rivolgendomi quei due ritagli di cielo che si ritrovava al posto degli occhi.
“C-certo professore.”
Di cosa vorrà parlarmi? Pensai mentre continuavo a fissare il suo ipnotico sguardo, rivolto, però, alle figure nelle pagine del libro di biologia. Invidiai per un momento quell'ammasso di fogli perché poteva essere osservato e sfiorato dalle sue mani.
Finalmente quella stramaledetta campanella si decise a suonare e potei andare da lui per sentire quello che aveva da dirmi.
“Mi dica professore” appoggiai le mani sulla cattedra, dove era seduto a sfogliare una di quelle riviste per intellettuali. 
"Mi sono documentato sui miei studenti" chiuse la rivista e mi guardò negli occhi "e ho notato che lei ha vinto ben tre concorsi a sfondo scientifico nella sua precedente scuola" sollevò i lati della bocca in un sorriso da togliere il fiato "Sarà un piacere passare un anno in sua compagnia" disse incontrando il mio sguardo per la seconda volta. 
"G-grazie. Il piacere è tutto mio" dissi arrossendo. 
Cavolo ha detto che sarà un piacere stare con me per tutto l'anno. Intendeva che gli piaccio? Che mi trova interessante? 
Molte domande attraversavano la mia mente, ma non osai condividerle con lui. Mi avrebbe presa sicuramente per una perfetta ragazzina in crisi ormonale! 

***
La ricreazione arrivò e con essa anche il momento di consegnare a Jason la sua merenda. Dopo quella sera, avevo cominciato a pensare quale salume gli piacesse o quale formaggio preferisse. Mi aveva solo detto che avrebbe voluto un panino, niente di più. Nell'incertezza scelsi un classico: prosciutto e provola.
"Ecco il tuo panino" dissi con un sorriso mentre gli poggiavo quella pagnotta sul banco.
"Oh bene, avevo fame" disse togliendo la carta stagnola che lo avvolgeva completamente.
"Potresti almeno ringraziare" dissi irritata dalla sua continua mancanza di buona educazione.
"Perché dovrei?" alzò le spalle e diede un primo morso al panino "Non ti ho mica ordinato di farlo" farfugliò con la bocca piena. A quel ragazzo servivano proprio un paio di lezioni di buone maniere, a quanto pare.
Era vero, non lo aveva fatto, eppure sentivo il dovere di farlo. Non ci avevo pensato molto, glielo avevo preparato e basta. Ogni mio gesto, ogni mio pensiero legato a lui non aveva un perché, non era che non lo volessi ammettere, il perché continuavo a stargli accanto non lo sapevo neanche io. Sentivo che qualcosa mi teneva legata a lui, una piccola parte di me aveva bisogno di lui e io dovevo trovarla, per poterla distruggere. Non volevo avere niente a che fare con lui, ma, nonostante questo mio pensiero, non riuscivo a stargli lontana.
"Erika!" sbuffò Sam. "Uffa non mi stavi ascoltando di nuovo" continuò mettendo il broncio.
"Mi dispiace."
"Erika cosa hai? Ti vedo strana. Va tutto bene?" cominciò a riempirmi di domande. 
"Si, sto bene" farfugliai massaggiandomi le tempie. "Oggi è venuto un nuovo professore nella mia classe. È molto carino" cercai di cambiare discorso.
"Davvero? Descrivilo" si eccitò Sam.
"Beh, si chiama Adam Adams  ed è davvero giovane. Ha un paio di occhi pazzeschi!" dissi sognante "penso di essermi innamorata" arrossii. “Ha voluto parlare con me dopo le lezioni” dissi coprendo le mie guance con il colletto della giacca.
"Sei sempre la solita!" esclamò cominciando a ridere.
Aprii la porta e la richiusi alle mie spalle. "Sono a casa" dissi appendendo la giacca sull'appendiabiti. Sono proprio una stupida, non mi sono ancora abituata del tutto a vivere da sola pensai sorridendo con un filo di malinconia.
Il telefono squillò e mi precipitai a rispondere.
"Pronto?"
"Erika, sono mamma. Come va?"
"Tutto bene qui. New York è bella come si dice nelle riviste?"
"È bellissima, sei sicura di non voler venire?"
"Mamma, qui va alla grande e non penso di volermene andare" le dissi decisa.
"D'accordo. Allora ci sentiamo" mi salutò.
"Bye bye."
Riattaccai ed andai nell'atrio per recuperare lo zaino, che avevo lasciato per terra, prima di rispondere a mia madre. Tirai fuori i libri e il diario. Era ancora il secondo giorno e già i professori avevano assegnato dei compiti.
"Per domani ho storia, matematica e biologia" dissi quest'ultima materia sospirando, quel professore era davvero un sogno, e appoggiai i libri sul tavolo della cucina.
Andai in bagno e mi spogliai. Avevo bisogno di un po’ di tranquillità e l’unico modo di trovarla in fretta era fare una doccia calda. Spostai le ante scorrevoli ed entrai, prima con un piede, tastando la temperatura, e poi con l’altro. L’acqua era al punto giusto, né troppo calda né troppo fredda. Mi sistemai sotto il getto e lasciai che mi bagnasse interamente, da capo a piedi. L’acqua mi scorreva sul viso, sulle spalle, lungo tutta la schiena. Respiravo profondamente, volevo trovare la pace. Chiusi gli occhi e lasciai che tutta la tensione fluisse via. Sentivo la mia mente farsi più leggera, stavo raggiungendo la mia tranquillità.
DLIN DLON  a quel suono sobbalzai. Sbuffai, possibile che non riuscivo a stare serena neanche a casa mia?! Uscii dal bagno con indosso un accappatoio e un asciugamano sulla testa. Mi precipitai alla porta. Mi alzai sulle punte dei piedi e guardai l'esterno attraverso lo spioncino. 
"Jason che ci fai qui?" esclamai.
“Sono venuto per la cena” disse fissando lo spioncino. I nostri occhi si incontrarono.
Eh? Mi ha presa sul serio?
“Ho appena finito di fare la doccia, potresti aspettare un attimo fuori?” chiesi imbarazzata. Meno male che non riusciva a vedere il mio viso, era rosso come un peperone.
“Ok” rispose.
Mi precipitai in camera mia ed aprii il mio armadio. Dopo cinque minuti netti tornai alla porta e gli aprii.
“Era ora” borbottò passandomi davanti e sedendosi sulla sedia in cucina.
Non risposi, non volevo litigare per una sciocchezza del genere.
Infilai un grembiule e cominciai a cucinare. Avevo una gran voglia di spaghetti al pomodoro. Non era proprio un piatto anglosassone, ma era davvero gustoso. Due anni fa ero stata in Italia a trovare la mia nonna paterna. Eh si, ho origini italiane. Mi dicono spesso che ho i lineamenti mediterranei. Gli occhi li ho presi da mio padre, infatti sono marroni, mentre i capelli, biondi lucenti, li ho ereditati da mia madre, inglese al cento per cento. Quando andavo da mia nonna, mi faceva assaggiare tutti i piatti tipici del posto. I miei preferiti erano la pizza e gli spaghetti. Per quella sera optai per quest'ultimi, così cominciai a prepararli. 
“Ti piacciono gli spaghetti?” gli chiesi.
“Andranno bene” disse sfilandosi la felpa, rimanendo solo in canottiera.
“Non hai freddo?” chiesi imbarazzata alla vista dei suoi bicipiti scolpiti alla perfezione.
“Sono bello vero?” disse fissandomi dritto negli occhi.
“Ma cosa dici?” ribattei voltandomi di scatto verso la cucina.
Cazzo se n’è accorto! Quanto odio questo ragazzo!
“Renditi utile almeno.”
“Cosa vuoi che faccia?” chiese.
“Apparecchia la tavola” dissi indicandolo.
“Okay.”
Fece come gli avevo chiesto e, dopo un po’, gli servii la sua porzione di spaghetti.
Mi sedetti anch'io e cominciai a mangiare.
“Come mai vivi da sola?” mi chiese di colpo.
“Fatti miei!” risposi facendogli la linguaccia.  Fece una smorfia e continuò a mangiare. Ah ah! Non è piacevole essere trattati così vero? Beh, occhio per occhio, dente per dente amico mio.
Terminai la mia porzione  e mi spostai nella parte opposta del tavolo, dove avevo lasciato i miei libri. Cominciai a sfogliarli svogliatamente.
Ben presto cominciai a non capirci più niente, era troppo complicato per me. Formule, numeri, frazioni, tutte cose troppo difficili ed inutili per me. A cosa serve nella vita saper fare le espressioni con le potenze? A niente, e ancora non capisco perché continuino ad insegnare certe cose a scuola. Un male alla testa aveva iniziato a tormentare la mia povera mente.
“Hai bisogno di aiuto?” mi chiese alzandosi e venendo verso di me.
“N-no, ce la faccio da sola.”
“Si vede lontano un chilometro che non ci capisci niente” disse sarcastico.
“Ti permetto di aiutarmi” mi arresi.
Rise ancora più forte e si sedette accanto a me. Cavolo è vicinissimo! Riesco a sentire il suo profumo. Spero sia una cosa veloce, non penso di resistere a lungo.
“Allora devi moltiplicare questi e poi dividere per questo” mi spiegò indicando le cifre scritte sul mio quaderno. Non feci molto caso alla sua spiegazione, ero occupata a fissare i suoi occhi. Istintivamente gli sollevai la frangetta, che gli copriva tutta la fronte, per poterli ammirare meglio.
“Dovresti portarli tirai sai? Ti stanno molto bene” dissi in un sussurro.
Lo vidi arrossire leggermente, ben presto lo feci anch'io. Che mi prende quando sono con lui? Non mi riconosco proprio!
“Smettila!” disse spostando la mia mano dai suoi capelli neri. “Hai capito come devi risolvere quest’espressione?” chiese alla fine.
“S-si, ho capito tutto. Spieghi molto bene” gli dissi con un sorriso.
“Sei proprio una stupida” si alzò e andò alla porta.
“Cosa?” chiesi irritata.
“Buonanotte, Erika.”
Mi sorrise e sparì dietro la porta.
“Buonanotte” sussurrai. 

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Capitolo 3
*** Lupo solitario ***


Jason's pov

Aprii gli occhi e sospirai alla vista di una foto incorniciata sul mio comodino. Devo toglierla pensai mentre la giravo levando su di me gli sguardi dei miei genitori. Mi alzai dal letto  barcollando verso il bagno. Erano le 7:13 quando andai in cucina per prendere un boccone. Di solito non facevo la colazione, ma quella mattina mi sentivo estremamente debole. Mi diressi verso la porta, infilai la mia giacca ed uscii. Da quando zia Katy era partita per la California e mi aveva lasciato l’appartamento, continuava comunque a pagare l’affitto. Dopo tutto quello che era successo negli ultimi mesi, aveva deciso di cedermi la casa, visto che nella mia non avevo nessuna intenzione di viverci. Era una persona parecchio strana e folle, ma le volevo molto bene. Quando suo fratello, mio padre, abbandonò mia madre per un’altra donna, lei continuò a starci accanto. Confortò mia madre e mi aiutò a crescere nel miglior modo. All’apparenza poteva sembrare una donna superficiale, ma sotto sotto nascondeva un gran cuore.

Un secondo dopo aver richiuso la porta, vidi spuntare fuori Erika, la mia vicina. 

“Buon giorno” la salutai per primo.

Mi sorrise leggermente. “Buon giorno.”

Quella mattina indossava una gonnellina a fiori ed una canottiera azzurra, in tinta alla fantasia della stoffa che le copriva le gambe fino al ginocchio. I capelli biondi le cadevano morbidi sulle spalle e una treccina circondava la sua chioma, come una piccola coroncina. Fino a quel momento avevo pensato che la ragazza più bella della scuola fosse Chanel, la sorellina del mio ex migliore amico, ma quando il primo giorno di scuola la vidi, mi dovetti ricredere.

“Anche oggi vai a fare le tue cose?” mi chiese con un sorriso.

“Si” dissi solamente.

I suoi occhi andarono sul pavimento, per poi tornare a fissare i miei.

“Ok” si era voltata e cominciava a camminare “non ritardare” mi disse. Anche se era di spalle, ero sicurissimo che nel pronunciare quella frase lei sorridesse. Ne ero certo.

Andai alla stazione e presi la metro. Ben mi starà sicuramente aspettando pensai mentre risalivo le scale che mi avrebbero riportato in superficie.  Ero diretto in ospedale. Fortunatamente era abbastanza vicino e in pochi minuti ero già dinanzi alla porta della sua camera. Aprii la porta e subito venni travolto dall’entusiasmo di Ben.

“Ciao fratellone!” mi urlò non appena mi vide.

“Ehi ometto” lo salutai arruffandogli i capelli.

“Come va a scuola?” mi chiese eccitato.

"Tutto a posto, tu come stai?" gli risposi sedendomi accanto a lui sul lato del letto.

"Bene. Questa mattina mi hanno fatto un prelievo, ma io non ho pianto" mi disse orgoglioso sollevandosi la manica del suo pigiama per farmi vedere il cerotto sul suo braccio.

Sorrisi apertamente. "Sei grande ormai."

"Già" continuò fiero.

Ben era malato dalla sua nascita, però la cosa si aggravò all'età di cinque anni, quando ebbe il primo attacco cardiaco. In quell'occasione mia madre non sapeva cosa fare, era nel panico. Continuava ad urlare ed a stringere Ben tra le sue braccia, paralizzata dal terrore, non pensando minimamente di chiamare l'ambulanza. Fui io a farlo, salvando la vita a mio fratello. Da quel primo attacco, non poté più uscire dall'ospedale. Era dura vederlo rinchiuso dentro quelle quattro mura bianco latte senza avere la possibilità di esplorare il mondo. Mia madre piangeva ogni giorno, era caduta in depressione. Non si occupava più della casa, aveva lasciato il lavoro e stava rintanata nella sua stanza attorniata dalla tristezza e dalla paura di perdere Ben.  Cominciò a fare uso di farmaci. Calmanti e sonniferi erano diventati all'ordine del giorno. Ormai non poteva più farne a meno,  si era completamente assuefatta.

Io cercavo di starle accanto, ma lei mi respingeva. Diceva che era tutta colpa sua se Ben non avrebbe potuto vivere una vita al massimo. Una volta la sorpresi a tagliarsi. La trovai seduta accanto al water con le cosce e gli avambracci sporchi di sangue. Piccole gocce scorrevano dalle ferite lungo il polso, fino al gomito. Non capivo la motivazione del suo gesto. Perché avrebbe dovuto farsi del male? Non avrebbe di certo guarito Ben. Allora perché?

Mia madre non era quella. Lei era una donna forte e solare, ma il tempo l'aveva cambiata. Ormai non rideva più, i suoi occhi erano spenti. Mia madre era scappata, rimpiazzata da un'altra persona, incapace di provare qualsiasi emozione, persino il dolore. 

"Jason che hai?" Mi chiese Ben, guardandomi con aria interrogativa.

"Niente. "

Ogni volta che pensavo a mia madre o ai suoi ultimi anni di vita una grande disperazione mi assaliva. Avevo i sensi di colpa per la sua morte. Se solo le fossi stato più vicino o semplicemente le avessi impedito di saltare, forse adesso sarebbe ancora viva. 

Ora Ben ha solo me, ed io ho solo lui. Ma, anche se non la vedevo, sapevo che mia madre era lì, seduta accanto alla finestra a vegliare su di noi.

"Sei triste?" Continuò a preoccuparsi.

Ben era sempre stato un bambino speciale, era perfetto.  All'asilo tutti i suoi compagni gli volevamo bene. Quando la malattia si aggravò e dovette abbandonare la scuola, tutti i suoi amici lo venivano a trovare in ospedale, anche solo per non fargli dimenticare che gli vogliono bene.

Mi accorsi solo in quel momento di una lacrima, che aveva già lasciato il mio occhio, attraversando la mia guancia.  L'asciugai velocemente e lo rassicurai.

"Ma che dici? Io sto benissimo" dissi con voce leggermente tremante.

Annuì, ancora un po' perplesso, ma capì il mio desiderio di cambiare discorso. 

"Ora è meglio che vada" mi alzai e andai verso la porta. 
"Ok" disse dispiaciuto. "Tornerai domani?" chiese con occhi pieni di speranza. 
"Certo" gli sorrisi. 
 

***
 

"Buon giorno classe!” irruppe in classe il professor Williams. “Avete studiato?” chiese togliendosi il cappotto e poggiando la sua valigetta di pelle nera sulla cattedra.

Smorfie di dissenso nacquero sui volti dei miei compagni, tranne uno:

Erika aveva il viso disteso, tranquillo, con nessun filo di paura nei suoi occhi, brillanti e pieni di vita. Adam Williams si dispose davanti a noi, facendo correre lo sguardo da un viso all’altro, alla ricerca di una vittima.

I suoi occhi si soffermarono più a lungo verso la direzione di Erika. Aveva la testa china, guardava il suo quaderno, già pieno di appunti e scarabocchi vari.

“Signorina Brown che ne dice di introdurre lei l’argomento?” disse mettendo su uno dei suoi finti sorrisi.  

Erika si alzò di scatto, un’espressione di imbarazzo sul viso. Sorrideva apertamente mentre ripeteva quello che la sera prima aveva studiato.

Il signor Williams l’ascoltava, ma qualcosa nel suo sguardo mi faceva intuire che non fosse davvero interessato a quello che lei stava dicendo.

“Molto bene signorina Brown. Può sedersi" disse alla fine.
Erika tornò al suo posto con un espressione compiaciuta in volto. 
"Per oggi va bene così. La prossima settimana sentirò qualcun'altro" continuò aprendo il registro. 
Iniziò a spiegare qualcosa che riguardava la suddivisione in classi degli esseri viventi, ma non ero molto attento. Non potei fare a meno di osservare Erika ascoltare rapita ogni singola parola che usciva da quelle viscide labbra. 

Mi guardai intorno e notai che tutte le mie compagne avevano in volto lo stesso ghigno sognante che aveva Erika. Cosa vedano in lui non lo capirò mai pensai infastidito dal successo del professore con le ragazze.
 

Le due ore successive passarono in fretta e potei alzarmi da quella scomodissima sedia in legno.
La campanella era già suonata, ma lei rimase seduta a sfogliare un libro. 
"Cosa leggi?" Le chiesi avvicinandomi.
Non mi rispose, non credo mi abbia sentito. Evidentemente era così immersa nella lettura che non aveva neanche fatto caso alla mia presenza. "Erika?" Poggiai una mano sulla sua spalla. 
Ebbe un sussulto a quel contatto.
"Oh, scusami, non ti avevo sentito" si giustificò arrossendo. 
Indicai il libro con lo sguardo. 
"L'Accademia dei vampiri" mi informò sorridendo.

“Oh” esclamai sorpreso. Non la facevo tipa da fantasy.

“Lo conosci?” chiese chiudendo il grosso libro.

Scossi la testa in senso negativo. “No, mi dispiace.”

“Oddio scusa!” esclamò all’improvviso. “Stai aspettando la tua merenda” prese il suo zaino e vi tuffò una mano dentro, tastando il suo fondo.

Mi scappò una leggera risata a vederla agitarsi in quel modo.

“Ecco” mi porse il panino.

“G-grazie.”

***

Le lezioni terminarono e finalmente potei tirare un sospiro di sollievo.

“Erika torni a casa con Sam?” sentii dire alle mie spalle. “No, oggi lei è assente. Dovrò tornare a casa da sola.”

Guardai fuori dalla finestra. Ormai il sole era calato, stava scomparendo dietro le colline, infuocando il cielo.

“Verrà con me” dissi ancora voltato.

“Cosa?” ribatté Erika.

“Abitiamo nello stesso palazzo, dovremo fare lo stesso la strada assieme” spiegai.

“Bene, allora. Io vado” si congedò Chanel.

“Ti aspetto al cancello” le dissi andando alla porta.

“Va bene.”

Non era da me, non era assolutamente da me. Ero diventato un ragazzo chiuso, solitario, semplicemente non mi piaceva più stare in mezzo alla gente. Allora perché le avevo proposto di andare a casa insieme?

 Per un attimo ripensai al vecchio me stesso, quello che non si sarebbe fatto scrupoli ad invitare una ragazza a cena fuori o a chiedere il suo numero. Quello che sorrideva per ogni piccola cosa, che rideva e scherzava con i suoi amici. Mi piaceva stare con loro, io ero quello più divertente, simpatico e bello del gruppo. Ero visto come il più importante, il capo. Colui che chiamavano per risolvere qualunque problema. Se avessi dovuto identificarmi in qualche animale sarebbe stato il lupo, l’alfa per l’esattezza. Presto, però, persi il mio ‘branco’, tutti mi abbandonarono e divenni un lupo solo, un omega. Senza di loro mi sentivo perso. Un lupo senza branco non è niente, può essere soggetto a continui attacchi da parte di altri, o persino essere ucciso. Beh io ero morto, socialmente intendo. Quindi sì, io ero proprio un lupo.

"Andiamo?" mi disse risvegliando dai brutti ricordi. 
"S-si" balbettai confuso.
 

Cominciammo a camminare. Una leggera brezza autunnale giocava con i suoi capelli biondi. Le foglie dai colori caldi cadevano leggiadre a terra. Ad ogni passo si sentiva uno scricchiolare di foglie secche. Mi piaceva molto l'autunno. 
 

"Ti piace proprio l'insegnante di Biologia, vero?" sputai all'improvviso. 
Si fermò di colpo, si voltò e mi guardò con aria scioccata.
"Cosa ho detto di male?" alzai le spalle.
"Oh, niente. Comunque si, mi piace" disse tornando a camminare. 
Quella risposta mi irritò leggermente, ancora non sapevo il perché ma volevo scoprirlo. 
"Venghino, signori venghino! I dolci più buoni li abbiamo solo noi!" sentimmo urlare da un venditore ambulante.
I suoi occhi si illuminarono, era ovvio che volesse mangiare un dolce. Vedevo quando l'allettasse l'idea di addentare quei profumatissimi bignè, ma non mi chiese niente, neanche un semplice 'me ne compri uno?' 
"Vuoi mangiarlo?" le chiesi rompendo il silenzio.
"Posso?" mi guardò con occhi sognanti e le gote rosse per il freddo. 
"Se ne vuoi uno posso compratelo" dissi arrossendo.
Mi sorrise e i suoi occhi si illuminarono di una luce mai vista fin ora. Era bellissima. 
"Grazie mille" esclamò non appena le porsi il dolcetto.

Nel piccolo contatto che si venne a creare tra di noi, non potei far a meno di notare che aveva le mani fredde. 
"Vuoi i miei guanti?" le dissi fissandola negli occhi.
"Oh no. Prenderai freddo" rispose premurosa. 
"Su mettili e fammi fare il mio lavoro" ribattei secco togliendomi i guanti. 
Le scappò una risatina. "E quale sarebbe il tuo lavoro?" chiese alla fine con un sorriso malizioso sulle labbra.
"Beh tu sei una ragazza, è mio compito, in quanto ragazzo, proteggerti" cercai di spiegare. 
La vidi arrossire e nascondere un'espressione soddisfatta, nata dalla mia risposta, dietro la sciarpa. 
Vederla sorridere, in quel momento, fu la cosa più bella del mondo.

Eravamo appena arrivati quando mi accorsi di un messaggio sul mio cellulare:

Da Coraline: Ho bisogno di vederti

Da quando l'avevo lasciata non aveva smesso di assillarmi con i suoi continui messaggi.  Mi aveva tradito con il mio migliore amico e adesso pretendeva che io la perdonassi? No, assolutamente no!

A Coraline: Io e te non abbiamo più niente di cui parlare

Le risposi a tono, ma un semplice messaggio non riusciva a trasmettere tutto il mio disprezzo per quella ragazza.
 

"Tutto bene?" mi chiese preoccupata mentre salivano le scale.
Evidentemente aveva notato un’espressione corrucciata sul mio volto.
"Si" risposi freddo.
Coraline riusciva a cambiare il mio umore all'istante. 
Erika mi poggiò una mano sulla spalla. "Sicuro?" insistette. I suoi occhi mi penetrarono, come sottili lame si conficcarono nel mio cuore e nella mia mente.
Di colpo tornai calmo, rilassato. Il tempestoso mare all'interno del mio cuore si trasformò in una placida acqua di palude, piatta e calma.
Magari Erika era la medicina a quella sensazione orribile che puntualmente veniva a martellarmi.
Arrivammo davanti alla porta del suo appartamento e mi invitò ad entrare. 
Poggiammo i nostri cappotti sull'appendiabiti.

La giornata era stata molto pesante, né io né lei avevamo voglia di metterci ai fornelli. Decidemmo di ordinare una pizza, da dividere visto che non avevamo molta fame.

“Io vado a mettermi qualcosa di più comodo della divisa scolastica” mi disse allontanandosi verso il corridoio.

“Ok” rimasi seduto sul divano a sorseggiare una lattina di coca-cola. Osservai i suoi mobili, c’erano così tante foto sue e dei suoi familiari. Sorrideva in tutte, ma una in particolare mi colpì. Mi piacque così tanto che non ci pensai due volte a prenderla e metterla nel mio portafoglio. Il suo viso mi rendeva felice e volevo averlo con me ogni singolo momento.

Feci in fretta, stando attento che non spuntasse da dietro l’angolo. Non volevo di certo che mi prendesse per un pazzo pervertito. 

Posai appena in tempo il portafoglio nella tasca destra dei mie pantaloni quando la vidi fare il suo ingresso in soggiorno con indosso un sotto-tuta e una felpa. Le ragazze con la tuta, di solito, non sembrano sexy. Allora perché lei sembrava così attraente ai miei occhi?

Stavo per dirle qualcosa di imbarazzate, ma il campanello mi impedì di fare una figuraccia.

Era il fattorino che ci consegnava la nostra pizza. Era un ragazzo alto e magrolino, dai capelli biondi e gli occhi color ambra. Alla vista di Erika un sorriso da ebete fece capolino sul suo viso.

“Grazie e arrivederci” dissi seccato afferrando le pizze.

 Gli porsi i soldi e richiusi la porta, prima che cominciasse a sbavare dinanzi a lei.

“Tsk” sospirai appoggiandomi al muro. Mi dava terribilmente fastidio che chiunque la vedesse cominciasse a fissarla ed adorarla, come fosse una dea.

“Potevi essere più gentile” mi rimproverò. “Ci avrà preso per maleducati.”

“Oh credimi, quel tizio non ha neanche capito cosa sia successo” dissi portando la pizza in cucina.

“Ti va di guardare un film?” mi propose togliendomi dalle mani la nostra cena.

Annuii e andammo a sederci nel suo divano. Accendemmo il televisore e notammo che davano il primo film della saga di Twilight.

“Ti dispiace se guardiamo questo?” mi chiese.

“N-no, certo che no” dissi mettendomi comodo.

Iniziammo a guardare il film, la noia cominciò a portarmi con sé, ma cercai di non darlo a vedere, visto che a lei sembrava piacere davvero molto.

Nel vivo del film notai che stava cominciando a spaventarsi. Non era un film terrificante, ma a lei incuteva paura. Le afferrai la mano, che stringeva saldamente il tessuto del divano. Si voltò di scatto verso di me e mi fissò negli occhi. Avevo il timore che me la lasciasse e mi buttasse via di casa, ma, con mia grande sorpresa, si avvicinò a me e appoggiò la sua testa sul mio petto.

“Pensavo ti piacessero i vampiri” la presi in giro.

“S-si, ma vederli è diverso” si difese accovacciandosi ancora di più a me. Il cuore cominciò a battermi all'impazzata, era davvero troppo vicina.

Con Coraline mi ero spinto molto oltre, ma non avevo mai provato una simile sensazione. Con lei era diverso. Forse mi stavo innamorando seriamente di Erika.

Tornai in me e notai che si era addormentata sulla mia spalla, era così carina mentre dormiva. Il film mostrava già i suoi  titoli di coda. Il braccio che la sorreggeva aveva cominciato a formicolare e quella posizione stava diventando davvero scomoda.

La presi in braccio e cercai di alzarmi. Percossi il corridoio e andai in camera sua.

Tirai le coperte e la poggiai lentamente sul letto, coprendola con la coperta che poco prima avevo scostato per poterla sdraiare.

Rimasi un attimo a contemplarla, poi, spinto da un forte desiderio, mi avvicinai a lei, le spostai una piccola ciocca di capelli che le cadeva davanti al viso e la baciai.

Lo feci così piano che non ero nemmeno sicuro se le nostre bocche si erano toccate veramente. “Buona notte Erika” le sussurrai un momento prima di scomparire nell'oscurità.

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*RINGRAZIAMENTI*

Volevo ringraziare la mia beta che mi ha aiutata nella stesura di questo capitolo. Grazie Ocy.

E, infine, vorrei ringraziare tutti coloro che hanno cominciato a seguire questa storia. Grazie di cuore :)

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Capitolo 4
*** Verrai a stare da me ***


Erika's pov

Quella sera feci uno strano sogno.

Avevo sognato di essere baciata da Jason. Era impossibile, ma sembrava così reale. Era come se avesse davvero sfiorato la mia bocca con le sue morbide labbra, o almeno così mi erano sembrate. E se non fosse stato un sogno? Un pensiero mi si conficcò in testa. Il petto mi si infuocò, sentivo un grosso fuoco bruciarmi il cuore. Mi sentivo morire dentro. No, non poteva essere. Jason che mi baciava? Di sua spontanea volontà? Ridicolo, al limite dell’assurdo. Anche se non mi sarebbe dispiaciuto. Per niente.

Mi ero appena alzata quando sentii bussare alla porta. Mi avviai verso l’ingresso e l’aprii. Rimasi scioccata e sbalordita nel vedere gli occhi di Jason scrutare ogni singolo centimetro del mio corpo.

“Tu cosa ci fai qui?” esclamai, non curandomi del fatto di essere impresentabile.

Indossavo ancora il pigiama e i miei capelli erano tutti scompigliati. Sembrava che fossi uscita da un uragano.

“A casa mia è finito il cibo e ho pensato che tu, magari, ne avevi un po’ anche per me” disse spavaldo.

Mi sorpassò e si diresse verso la cucina. Aprì il frigorifero e tirò fuori una mela rossa. La sciacquò per bene e, con ancora le mani bagnate, se la portò alla bocca. L’addentò e stacco dal frutto un grosso pezzo, scoprendo la polpa bianca e succosa. Rimasi immobile ad osservare ogni suo movimento. Fissai la sua bocca sfiorare la mela. Solo vedere le sue labbra mi fece venire il batticuore. E se mi avesse baciata veramente? Quella domanda tornò a farmi visita. Insomma, mi ero addormentata tra le sue braccia, ma di quello che fosse accaduto dopo non ne avevo la benché minima idea.

“Cosa c’è?” mi chiese. Doveva aver notato il fatto che non avevo smesso di contemplarlo neanche per un attimo. 

“N-niente.”

“Avevi quasi lo stesso sguardo che rivolgi a quel professore di Biologia” disse beffardo.

“Che intendi?” chiesi turbata. Non volevo assolutamente che scoprisse la mia cotta per quel professore. Mi avrebbe presa sicuramente in giro.

“Andiamo! È ovvio che ti sei innamorata di lui” mi torturò scoppiando in una risata.

Oh no! Questo era il colmo. Che diritto aveva lui di trattarmi così? Che male gli avevo fatto? Mi sembrava di essermi comportata bene con lui, non avevo fatto niente che gli avrebbe potuto dare fastidio, allora perché?

“Anche se avessi ragione, questi non sono affari tuoi” risposi irritata dalle sue parole.

Arricciò le labbra in un sorriso, tanto irritante quanto sexy.

“Non vorrai mica scatenare uno scandalo a scuola, vero?” diede un altro morso alla mela, “lo dico per te” continuò a fissarmi.

“Smettila. Non sei mica mio padre” ribattei riluttante. Il suo viso si rabbuiò e il suo sguardo si abbassò, fino a guardare le sue scarpe, rigorosamente nere.

Avevo l’impressione di aver detto qualcosa di sbagliato, qualcosa che l’avesse ferito, nel profondo. “Mi dispiace” dissi in un sussurro, “ma so badare a me stessa” proseguii sicura.

All'improvviso mi ricordai dei miei impegni da studentessa. Mi voltai verso l’orologio e guardai l’orario. Mancava un quarto d’ora all'inizio delle lezioni.

“Perché non mi hai detto che era così tardi?” gli sbraitai contro. Fece spallucce e tornò a mangiare la sua mela.

“Oh quanto ti odio” cominciai a correre verso la mia camera. Infilai la divisa, tutta sgualcita e andai in bagno. Dovevo almeno rendermi presentabile. Cercai di lisciare al meglio i miei capelli e di correggere gli aloni scuri sotto i miei occhi con un filo di trucco.

“Erika sbrigati!” mi urlò dalla cucina.

“Arrivo, arrivo” gridai di riamando.

Andai alla porta e mi infilai le scarpe, prima una e poi, beh dalla fretta stavo per cadere. La mano di Jason stringeva saldamente il mio braccio, nel tentativo di ristabilire il mio equilibrio. Dovevo smetterla di mettere le scarpe in piedi, prima o poi sarei caduta, quella volta, però, non successe.

“Grazie” dissi riappoggiando il piede sul pavimento in parquet.

“Figurati” rispose lasciando il mio braccio.

Tornai alla realtà e guardai il mio orologio da polso. “Sono le 7:50. Non ce la faremo mai” lo informai. Non volevo arrivare in ritardo il mio terzo giorno di scuola.

"Non preoccuparti" si limitò a rispondermi.

Odiavo quando faceva così. Odiavo il suo continuo disinteressamento. Odiavo tutto di lui.

"Prenderemo la mia moto" continuò uscendo di casa.

"Eh?" Ribattei. Come faceva ad avere una moto? E soprattutto, dovevo fidarmi di lui? Insomma, non credevo che fosse un buon guidatore. Avevo un po' di paura a mettere nelle sue mani la mia vita, ma l’angoscia per il ritardo era più forte. Ero una ragazza molto responsabile e diligente. Un ritardo per me era qualcosa di imperdonabile. Pregando Dio di farlo guidare in modo responsabile e sicuro, accettai.
Scendemmo le scale. Io ero dietro di lui. Durante la nostra discesa verso il piano terra, non potevo fare a meno di osservare la sua schiena. Le sue larghe spalle lo facevano sembrare forte, potente, sexy.
Mi trasmetteva un senso di protezione. 
Pensare a quanto fosse incredibile il suo aspetto mi eccitava. Vederlo con indosso la sua divisa era insopportabile. Quegli stracci non facevano altro che coprire quello che era un corpo perfetto. Da fare invidia a qualsiasi altro ragazzo che frequentasse la nostra scuola. 
"Allora? Che fai lì impalata?"
Eravamo già arrivati dinanzi la piccola porta che ci avrebbe condotti al garage del condominio. Oltrepassammo la soglia e, sempre dietro di lui, camminai verso la motocicletta.

Afferrò un casco di un rosso acceso e lo indossò. Sollevò la gamba destra e si mise in sella, portandosi in avanti per farmi spazio.

Feci lo stesso e indossai anch'io un casco. Mise in moto e un ruggito uscì dal motore del veicolo. Quel suono mi diede un brivido lungo tutta la schiena. Non ero mai salita su una moto.

I miei genitori erano molto protettivi e prudenti. Se fossero stati lì non mi avrebbero mai permesso di farmici un giro. Ci misero un mese per decidersi a togliere le rotelle dalla bicicletta, figuriamoci se mi avessero permesso di sfrecciare ad alta velocità sull'asfalto con un mezzo del genere.

“Sarà meglio che ti aggrappi forte a me” mi disse, risvegliandomi dai miei pensieri.

“Oh, si” risposi imbarazzata.

Allungai le mie braccia e le intrecciai ai suoi fianchi. Lo stringevo forte, mi piaceva la sensazione che si provava a stare su una moto, ma la paura di cadere e della velocità continuavano ad essere presenti in un angolino nella mia testa.

Attraverso la stoffa, riuscivo a sentire il suo addome. Lo sentivo allagarsi e rimpicciolirsi ad ogni suo respiro. Tramite quel tocco, sentivo che era agitato. Era una sensazione che mi aveva colpita sin dal primo istante. Non ero di certo una veggente o altro, ma lo percepivo chiaramente.

Per tutto il tempo del tragitto non avevo fatto altro che riflettere su quella sensazione.

“Puoi anche lasciami adesso. Siamo arrivati” mi fece notare.

“Scusa, non me n’ero accorta. Stavo pensando” farfugliai togliendomi il casco e scendendo dalla moto.

Sollevò un lato della bocca in un sorriso ironico e si avvicinò a me. Gli bastarono pochi passi per raggiungermi e porsi proprio a pochi centimetri dal mio viso.

“Tu pensi troppo” bisbigliò dandomi un colpetto sulla fronte.

Incapace di rispondere, mi limitai a sostenere il suo sguardo, anche se si rivelò l’impresa più ardua di tutta la mia vita. Quei suoi occhi neri mi invasero. Il solo guardarli mi faceva sentire come se l’oscurità mi stesse piano piano trascinando giù, in profondità. Dovevo stare molto attenta, non potevo lasciarglielo fare.

In quel preciso istante ci passò accanto Chanel. I suoi occhi azzurri corsero verso di noi. Non riuscivo a decifrare il suo sguardo, però riuscii a percepire una nota di disprezzo. Disprezzo non per me, ma per Jason.  ‘Io gli ero amica una voltaera il migliore amico di mio fratello.’ In quelle semplici parole che scambiammo qualche giorno prima vi era nascosta una forte emozione. Un qualcosa fondamentale per scoprire il passato di entrambi. Qualcosa che avevano tenuto nascosto per un anno e che li aveva divisi.  

Lasciai Jason sul vialetto e corsi da Chanel. Volevo delle spiegazioni da lei.

“Hai fatto comunella con l’Angelo nero?” mi chiese sprezzante.

“Si. No. Beh, non lo so. Eravamo in ritardo e mi ha offerto un passaggio, tutto qui” provai a spiegarle.

“Senti, io lo conosco da più tempo di te e posso assicurarti che non è un tipo di cui ti puoi fidare. Meglio stare alla larga dai ragazzi come lui” mi disse guardandomi negli occhi. Dal suo sguardo capii che non mentiva, diceva la verità.

“Perché?” chiesi incuriosita dalla faccenda.

“Non posso dirtelo, tu cerca di stargli lontano e non avrai bisogno di scoprirlo.”

Detto questo mi abbandonò di fronte l’ingresso, da sola con i miei pensieri. Rivolsi uno sguardo a Jason, che intanto faceva la sua solita sfilata verso la porta. Di quale segreto parlava? Cosa aveva combinato Jason di così grave?

“Ehi ragazzina che fai lì? La campanella è già suonata” una voce alle mie spalle mi trascinò alla realtà.

“Lo so benissimo che dovrei entrare, ma stavo pensando ad una cosa. E comunque non sono una ragazzina” dissi voltandomi, “tu chi saresti?” chiesi al ragazzo alto e dagli occhi color ghiaccio.

“Io sono Christian Blake, secondo anno” si presentò allargando il petto e assumendo la solita posizione da ragazzo spavaldo.

“Mhh, piacere” farfugliai aggiustandomi i capelli, “è meglio che vada” mi congedai superandolo.

“Aspetta! Non mi hai neanche detto come ti chiami” mi urlò.

“Non sono tenuta a dirtelo” risposi a tono, senza neanche voltarmi.

“Dai, dimmelo” insistette.

Che cosa voleva da me quello lì? Perché voleva conoscere il mio nome? Quella deve essere stata la prima volta che si accorse di me, ma non riuscivo a capire tutto quell'interesse nei miei confronti.

Mi venne dietro per un paio di metri, fino a quanto non mi superò bloccandomi la strada.

“Che cosa vuoi da me?” chiesi schietta.

Quel ragazzo mi stava davvero irritando. La sua insistenza era fastidiosa.

“Te l’ho detto. Voglio solo sapere il tuo nome” rispose sorridendomi.

Quel suo sorriso aveva un non so che di viscido, finto. Non sopportavo le persone come lui, mi davano sui nervi.

“Se te lo dirò, mi lascerai andare?” sospirai.

Annuì con la testa e sul suo volto si dipinse un ghigno sprezzante, pronto a ricevere la risposta alla sua tanto attesa domanda.

“Mi chiamo Erika. Ora lasciami passare” dissi.

“Hai visto? Non era poi così difficile” rise facendosi di lato.

Gli rivolsi uno sguardo pieno di nervosismo. Odiavo decisamente le persone come lui.

Cominciai a camminare il più velocemente possibile. Per colpa di Christian stavo per entrare in ritardo. Quella mattina avevo fatto di tutto per essere puntuale e alla fine arriva lui a distruggere tutti i miei piani.

“Ci si vede in giro” mi salutò portandosi una mano tra i capelli biondi, “Erika.”

Sentire il mio nome pronunciato da lui mi provocò una sensazione molto strana. Era diverso dal sentirlo dire da Sam, Chanel o Jason.

***

Uscii da scuola e mi diressi al parcheggio. Avevo pensato che sarei tornata a casa con Jason, e invece quello che trovai lì fu solo uno spiazzale vuoto, illuminato solo da qualche lampione notturno.

Non potevo crederci. Cosa gli sarebbe costato aspettarmi un po’? Eravamo entrambi nella stessa classe, avrebbe benissimo potuto attendere che finissi di prendere le mie cose per tornare a casa, ma non lo fece. Evidentemente aveva altro da fare.

Rassegnata, mi incamminai verso casa. Il tragitto mi aiutò a pensare a molte cose. Al passaggio in moto, all'avvertimento di Chanel, a Christian.

Mi aveva raccomandato di non frequentarlo più, ma questa storia mi incuriosiva troppo per lasciarla perdere. Troppi punti interrogativi su questa faccenda ed io sentivo di doverli risolvere, non tutti, ma almeno quelli sufficienti per capirci qualcosa.

Certamente non avrei trovato le risposte da sola, avevo bisogno di qualcuno che sapesse, qualcuno che non fosse Chanel, qualcuno come Jason.

Arrivai al mio appartamento. Mi avvicinai al suo portoncino e accostai il mio orecchio alla porta. Nessun rumore. Non era ancora rientrato. Dove era finito?

Oh, beh, sarà a sbrigare le sue cose pensai tra me e me. Entrai in casa e posai lo zaino in camera mia. Andai in bagno e cominciai a far scorrere l’acqua per un bel bagno caldo. Era già da un po’ che mi sentivo strana. Avevo un leggero mal di testa e mi sentivo spossata. Quando ero bambina, l’unico modo per stare meglio quando mi sentivo in quella maniera era fare un bagno. Nell'attesa che la vasca si riempisse abbastanza, andai in cucina a bere un po’ d’acqua. Aprii il frigorifero e bevvi direttamente dalla bottiglia. Mia madre detestava quando lo facevo, ma adesso lei non c’era. Se avrebbe potuto vedermi, mi avrebbe fatta una delle sue solite ramanzine noiosissime. Era bello vivere da sola.

 Finito di dissetarmi, tornai in bagno a controllare il livello dell’acqua.

Non era ancora piena, ma decisi comunque di immergermi. Mancava poco e presto mi avrebbe sommersa fino alle spalle.

Appoggiai la testa sull'asciugamano, che mi faceva da cuscino, e chiusi gli occhi. Mi lasciai andare, rilassandomi al massimo.

***

Jason's pov

“Erika aprimi!”

Era già da un pezzo che continuavo a calciare la sua porta. La chiamavo, ma non mi rispondeva. La porta era chiusa ed io non potevo entrare. Perché non mi rispondeva? Doveva essere a casa, da fuori vedevo le luci accese, allora perché non veniva ad aprirmi?

Cominciai a preoccuparmi, avevo il terrore che le fosse successo qualcosa.

“Erika ti prego!” continuai ad urlare.

Smisi di chiamarla e mi allontanai dalla porta. Sferrai un calcio alla maniglia. Si ruppe ed io entrai. Il cuore mi batteva a mille. Quella ragazzina voleva uccidermi. Com'era possibile che mi facesse andare fuori di testa ogni giorno?  

“Erika!” Andai in camera sua, in cucina e in salotto, ma niente. Andai in corridoio, camminando a grandi falcate. Il pavimento era bagnato. Sentivo dell’acqua scorrere e mi precipitai in bagno.

Eccola finalmente. Era dentro la vasca, con l’acqua che strabordava e cadeva come una piccola cascata dai bordi.

“Oddio Erika” mi avvicinai.

Teneva gli occhi chiusi e la paura aumentò. Pensai che si fosse sentita male o peggio che fosse morta.

Avvicinandomi, mi accorsi che era nuda. Distolsi lo sguardo dal suo splendido corpo e cercai di concentrarmi sul suo viso. Arrivato ormai in prossimità della vasca, l’afferrai per le braccia e la tirai fuori. Spensi l’acqua e avvolsi il suo corpo in un accappatoio.

“Erika svegliati” la chiamai dandole dei colpetti sulle guance.

Dormiva ancora,  o almeno mi piaceva pensare che stesse dormendo. La scossi ancora e ancora, cercando di rinvenirla.

Avvicinai la testa al suo petto e provai a sentire il suo battito cardiaco. Tirai un sospiro di sollievo nell'ascoltare il suo cuore battere.

“Erika, non mi piacciono gli scherzi” le sussurrai, tenendola sulle mie ginocchia.

Ero bagnato fradicio, ma non mi importava. In quel momento volevo solo rivedere i suoi occhi. Stavo iniziando a preoccuparmi seriamente, quando all'improvviso schiuse le labbra e pronunciò il mio nome:

“Jason?”

“Oh grazie al cielo!” dissi sorridendo, ero sollevato nel vederla riprendersi. “Cosa è successo?” le chiesi.

“I-io mi ricordo di essere entrata nella vasca e poi di aver chiuso gli occhi…” rispose vaga.

“Erika!” alzai il tono di voce, “Mi hai fatto prendere un colpo! Hai idea di quanto mi sia preoccupato?” mi arrabbiai.

Cavolo! Io stavo letteralmente morendo per lei e l’unica cosa che era riuscita a dirmi era che si era semplicemente addormentata? Non ricordavo di essermi innamorato di una ragazza così irresponsabile.

“Scusa” abbassò lo sguardo, “non capiterà più” tornò a cercare i miei occhi.

Quei suoi bellissimi occhi, lucidi per l’emozione, mi sciolsero e non potei fare a meno che dirle:

“Non fa niente. Sono felice che tu stia bene.”

Le bastarono dieci minuti per riprendersi e sembrava essere tornato tutto alla normalità.

Beh, lo stesso non si poteva dire di certo per me. Per assimilare una cosa del genere non mi sarebbe bastato neanche un anno. Certo, ne avevo passate tante. Tra mio padre, mia madre e Ben, avrei dovuto farci l’abitudine, ma a queste cose non riuscirò mai ad abituarmi.

Erika's pov

“Merda, merda, merda!” ero entrata nel panico.

La casa era allagata, il parquet rovinato e i tappeti da buttare. Quando mi impegnavo sapevo combinare dei bei casini.

“Che ti prende?” mi chiese allarmato Jason.

Continuavo a fare su e giù per la cucina, l’unica stanza decente in tutta la casa, in preda al panico. Cosa avrebbe detto la signora Betty? E se lo avesse saputo mia madre? Sarebbe venuta a prendermi per portarmi con lei a New York. Addio scuola, addio Sam, addio amici. Io non volevo andare. Desideravo frequentare la London High School, vivere in quell'appartamento, passeggiare con Sam e cenare con Jason. Volevo solo vivere una vita da normale teenager, ma questo non era possibile, visto che la casa era ormai invivibile.

“Fermati!” mi bloccò ponendosi di fronte a me. “Che hai?”

“Tu non capisci!” scoppiai in lacrime, “Se mia madre lo scopre mi porterà con sé” dissi tra i singhiozzi.

“Non ti porterà da nessuna parte. Vedrai che le cose si aggiusteranno” mi rassicurò abbracciandomi.

In quell'abbraccio sentii tutto il calore e la calma provenire dal suo corpo. Ricambiai la stretta e appoggiai la testa nell'incavatura del suo collo.

“Andrà tutto bene” mi sussurrò accarezzandomi i capelli.

Annuii e mi allontanai da lui. “Dobbiamo chiamare l’amministratrice” suggerii prendendo il telefono, “magari lei saprà cosa fare.”

Dopo la telefonata mi distesi sul divanetto e sospirai, alla ricerca delle parole giuste per spiegarle quello che era accaduto.

“Allora ragazzi, cos'è successo?” arrivò la signora Betty, in ghingheri come al solito, tranne per i bigodini in testa.

“Vede signora, accidentalmente ho allagato casa ed adesso non sappiamo che fare” risposi nervosa. Cercai lo sguardo di Jason, come per cercare una sorta di supporto morale, che fortunatamente ricevetti.

“Oh, non preoccuparti. Certo hai combinato un bel pasticcio, ma niente di irrisolvibile” mi rassicurò con un sorriso.

Ricambiai il gesto ed attesi che continuasse.

“Il problema sarà il parquet. Con l’acqua si è inzuppato e bisognerebbe cambiarlo” spiegò indicando il pavimento.

“Già” annuii, “cosa dovremmo fare?” le chiesi ulteriormente.

“Dovrai vivere in un’altra casa per un po’, almeno fino a quando i lavori non termineranno. Ti verrà a costare parecchio, ma non preoccuparti. Ci penseranno i tuoi genitori.”

“No! Non può chiamarli!” mi affrettai a dirle. Non potevo assolutamente permettermi che lo scoprissero.

“E perché?” chiese incuriosita dalla mia reazione.

“Beh, perché…” Mi stavo arrampicando sugli specchi.

“Perché sono andati ad un safari e lì i cellulari non prendono bene” rispose per me Jason.

Gli rivolsi un’occhiata perplessa. Un safari? In autunno? Questo ragazzo non smetteva mai di sorprendermi. Non se la berrà mai pensai.

Stranamente, la signora Betty sembrò crederci a quell'illogica risposta, buon per noi.

“Posso chiamare mio zio Peter” mi illuminai al pensiero dello zio single in città. “Vive da solo, quindi potrà sicuramente ospitarmi.”

Afferrai il cellulare ed inoltrai la chiamata.

“Pronto?” mi rispose una voce.

“Ciao zio, sono Erika, tua nipote.”

“Oh Erika, come stai?” mi chiese.

“Peter chi è al telefono?” una seconda voce sentii dalla cornetta. Era una donna, dalla voce doveva essere molto attraente. Tipico di mio zio Peter, lo sciupa-femmine più conosciuto di Londra.

“Zio, non è che potresti ospitarmi a casa tua per un po’? E’ successo un casino e non ho un posto in cui stare” gli chiesi, cercando di persuaderlo ad invitarmi a casa sua.

“Peter è una ragazza? Cosa vuole da te?” la donna alzò la voce.

“Mi dispiace dolcezza, ma non posso…”

La telefonata si interruppe ed io rimasi per un paio di secondi con il cellulare sull'orecchio.

Quella situazione aveva superato i limiti dell’assurdo. Stavo cominciando a credere che fosse tutto uno scherzo per farmi andare dai miei genitori.

“Tesoro, se non può ospitarti, mi sa che dovrò chiamare i tuoi genitori” mi disse poggiando una mano sulla mia spalla.

“Non serve. Verrà a stare da me” ribatté con voce profonda Jason, che era rimasto ad assistere alla scena in silenzio.

Lo guardai sbalordita e al contempo riconoscente per il suo gesto tanto altruista.

“Oh bene. Prendi le tue cose. Chiamerò gli operai per il lavoro. Ci accorderemo dopo per i soldi” mi disse l’anziana donna, “buona notte ragazzi e non fate niente di sconcio” si congedò rivolgendoci uno sguardo malizioso.

“Non c’è pericolo signora” scoppiò in una risata liberatoria.

“Ehi!” gli diedi una gomitata.

“Scherzavo, non arrabbiarti” continuò a ridere.

Lo guardai  meravigliata. Il suono della sua risata era la melodia più bella che avessi mai ascoltato in vita mia.

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Capitolo 5
*** Alla Sophie's cakes ***


Rimasi lì, immobilizzata dal suono della sua voce. Osservai le fossette che si creavano sul suo viso ad ogni sorriso, e non potei fare a meno di pensare quando fosse affascinante in quel momento.
Quel suo ciuffo di capelli che gli copriva la fronte gli dava un’aria misteriosa. I suoi capelli erano così lucenti che avrei voluto passarvici le dita.
Dal primo momento avevo pensato di essermi imbattuta in un qualche demone che volesse rendermi la vita un inferno, ma col tempo dovetti ricredermi. La sua presenza rendeva la mia vita più intrigante e divertente.
“Allora, vuoi venire a dormire da me?” mi chiese in un sorriso.
“Per questa sera preferirei rimanere qui a ripulire un po’ quest’appartamento” risposi guardandomi attorno, “Tu va pure se vuoi.”
“Non me ne andrò” ribatté incrociando il mio sguardo.
Cavolo, i suoi occhi erano pazzeschi. Non ne avevo mai visto di così profondi e indecifrabili. Ogni volta che mi guardava non riuscivo mai a capire cosa gli passasse per la testa. Era un ragazzo così imprevedibile che ogni volta rimanevo sorpresa dalle sue azioni.
Distolse lo sguardo e si diresse in bagno. Gli camminai dietro, curiosa di scoprire la sua prossima mossa. Si chinò leggermente ed aprì lo sportello di un mobiletto sotto il lavandino. Appoggiai la spalla e la testa al lato della porta ed incrociai le braccia. Cacciò dentro la mano e tirò fuori qualche straccio. Riprese la sua posizione eretta, afferrò un mocio ed uscì dal bagno.
“Che stai facendo?” chiesi cercando di scoprire il fine delle sue azioni.
“Ti aiuto a pulire, non vedi?” fece spallucce e si abbassò sul pavimento.
Camminai verso di lui e mi piegai alla sua altezza, per poterlo guardare negli occhi.
“Va’ a casa, pulirò io. E poi, questo è roba da donne” dissi nel tentativo di strappargli un sorriso.
Non mi rispose, semplicemente continuava a strisciare lo straccio sul pavimento. Poggiai la mia mano sulla sua, cercando di fermarlo. Alzò la testa e i nostri sguardi si incontrarono.
“Dico davvero” dissi in un sussurro.
Posò l’altra sua mano sulla mia e l’allontanò.
“C’è troppo da pulire per una persona sola. Non devi preoccuparti. Se ti aiuto è perché voglio farlo” rispose tornando ad asciugare il parquet.
Perché? Perché fai così? Chanel mi aveva severamente vietato di stare con lui, di parlarci o anche solo guardarlo negli occhi. Ma non potevo fare a meno di stargli accanto.
In quel momento qualcosa si mosse infondo al mio stomaco, cercava di risalire verso il cuore, per invaderlo di questo nuovo sentimento. Scattò qualcosa, quella scintilla che c’era tra di noi scoppiò in un fuoco ardente.
C’era qualcosa che mi teneva legata a lui, qualcosa che più mi avvicinavo, più questa presa si stringeva. Ero attratta da lui per vari motivi: per il suo aspetto, il suo sorriso, i suoi occhi, il suo strano modo di fare, ma la cosa che più mi piaceva di lui era il suo lato oscuro. Quel segreto che nessuno voleva rivelarmi mi spingeva a stargli accanto, scoprire i suoi pensieri e le sue emozioni, cosa alquanto difficile visto che sapeva nasconderli abbastanza bene.
Di colpo mi venne l’impeto di porgli quella domanda che tanto mi assillava: perché Chanel vuole che io ti stia alla larga? Cosa hai fatto di così terribile?
Le mie labbra si schiusero, le parole stavano per uscire, ma mi trattenni. Non volevo rovinare quel momento. Cambiava umore velocemente ed avevo paura che con quella domanda si alzasse e sparisse dietro la porta.
Decisi di non dire niente per il momento e richiusi la bocca. Non volevo che se ne andasse.
Afferrai un panno e cominciai a strofinarlo sul pavimento, muovendolo in senso antiorario.
***
“Buon giorno!” mi svegliò una voce.
Mugugnai qualcosa di incomprensibile e mi girai dalla parte opposta in cui mi trovavo.
“Erika svegliati.” Quella voce si faceva sempre più familiare. Le chiamate non cessavano ed io decisi di aprire gli occhi, infastidita dalla sua insistenza.
“Jason che ci fai qui?”  chiesi appoggiando la schiena sulla testata del letto.
“Sono venuto per fare colazione” rispose facendo roteare sull'indice un mazzo di chiavi.
“Un momento…” farfugliai grattandomi la testa, “Come hai fatto ad entrare in casa mia?” chiesi frastornata.
“Dopo quello che è successo ieri sera, una seconda chiave mi farebbe comodo e poi, per entrare ho dovuto rompere la maniglia, ricordi?” disse fermando le chiavi e chiudendole nel suo pugno. Scossi la testa in senso negativo.
 “Ma, in realtà, ho fatto la copia delle tue chiavi per aver accesso al frigorifero anche quando non sei in casa” confessò con un sorrisetto irritante.
Non lo capivo. Un momento prima faceva il galante, colui che si preoccupava per me e voleva aiutarmi, e il secondo dopo tornava ad essere quel ragazzo antipatico, menefreghista e irritante.
“Perché fai così?” gli chiesi con un’espressione leggermente addolorata.
“Perché faccio così, cosa?” ribatté come se non avesse capito ciò che intendevo.
“Tu sei freddo con me, ma ogni tanto sei gentile. Alcune volte fai qualcosa per me ed io sono molto felice…ma poi mi dici qualcosa di brutto…” dissi cercando di guardarlo negli occhi. “Io non ci capisco più niente. Se ti do fastidio, dimmelo per favore.”
Questa volta furono i suoi occhi a fissare il vuoto, ad evitare il mio sguardo, nell'attesa di trovare una risposta.
“Non c’è niente che non vada in te” sospirò camminando verso la porta, “anzi, a dirla tutta, la tua compagnia è quasi gradevole” continuò poggiando una  mano sulla maniglia e mi sorrise.
Abbozzai un sorriso di rimando, ma non credo che sia riuscita nel mio intento visto la smorfia divertita che fece prima di uscire dalla mia camera.
Indugiai incantata sul mio letto, poi il rumore di vetri infranti mi scosse ed io saltai giù dal letto. Corsi in corridoio ed andai in cucina. Mi avvicinai e la prima cosa che notai fu la mia tazza preferita in frantumi sul pavimento. Jason non c’era, forse era andato a prendere una scopa per ripulire il pavimento.
Quella tazza me l’aveva portata mia nonna dall'Italia ed era uno dei pochi ricordi che mi rimanevano di lei. Avrei voluto passare più tempo con lei. Tempo. Quello che a me sembrava non bastare mai. Quello che continuavo ad inseguire per restare al passo con gli altri, cosa che in sedici anni non ero mai riuscita a fare.
Camminai lentamente verso i cocci e mi chinai. Ne raccolsi un paio e cercai di ripulire. In quel momento una lacrima corse lungo la mia guancia.
Non avevo mai usato quella tazza, la tenevo sulla mensola sopra il lavandino, in mezzo alle foto di famiglia e qualche utensile per la cucina. Non volevo usarla perché preferivo tenerla in bella vista, così che il pensiero di mia nonna fosse sempre vivo nella mia mente.
In quel momento arrivò Jason dal bagno e corse verso di me.
“Oddio ti sei tagliata?” mi chiese aprendomi le mani e liberando i resti della tazza dalla mia presa.
Abbassai lo sguardo e vidi dei piccoli tagli sui palmi delle mie mani. Probabilmente avevo stretto così forte quella tazza che mi ero ferita senza accorgermene.
“Oh” fu l’unico suono che riuscii ad emettere.
“Mi dispiace per la tazza, non l’ho fatto di proposito” cercò di scusarsi.
“N-non fa niente” lo rassicurai.
Non volevo dirgli di mia nonna, era già dispiaciuto per aver rotto una tazza qualsiasi, figuriamoci se avesse saputo che era molto importante per me.
“Vieni con me” mi tirò su e mi prese per il polso. Mi portò in bagno e mi fece sedere sulla lavatrice.
“Avrei potuto sedermi sul water” dissi cercando di sorridere.
“Sono più comodo così” rispose scrollando le spalle.
Lasciò le mie mani e prese del disinfettante e del cotone da una scatola che tenevo sulla mensola per le emergenze.
Aprì la boccetta e versò un po’ del suo liquido verde sul cotone.
“Apri le mani” mi ordinò.
Feci come richiesto ed attesi quella sensazione fastidiosa e pungente che si prova quando si viene medicati con del disinfettante.
Ebbi un sussulto quanto poggiò il batuffolo sulla mia pelle.
“Ho quasi finito” tentò di rassicurarmi. La sua voce calda e roca mi cullò, confortandomi. Il suo tocco era delicato, sentivo a mala pena quel fastidio.
“Ecco” disse soddisfatto lasciando le mie mani. Chinai la testa ed osservai le mie mani. Aveva fatto un ottimo lavoro, ogni taglio era stato disinfettato e protetto con un cerotto. Non erano molti, in tutto saranno stati tre o quattro taglietti.
“Grazie” sorrisi posando le mani sulle sue spalle e scendendo dalla lavatrice.
Poggiai i piedi per terra e mi ritrovai a pochi centimetri di distanza dal suo viso. Respirai affannosamente e lo guardai negli occhi. In quell'istante, in quel preciso istante, vidi una luce infondo a quell'oscurità nei suoi occhi. Un flebile bagliore che si faceva strada tra quel nero. Lui si avvicinò, accorciando la distanza che ci separava. Cominciai a sentire il suo profumo. Respirai profondamente nel tentativo di cogliere la sua fragranza. Le sue labbra si schiusero e sembravano implorarmi di baciarle, ma qualcosa mi fermò. Sentivo di dover aspettare, almeno fino a quando il suo passato  non si fosse fatto più nitido ai miei occhi.
“Vado a pulire di là” dissi voltandomi.
“Si” rispose in imbarazzo. Evidentemente neanche lui sapeva quello che faceva. Fu solo un attimo molto coinvolgente e i nostri corpi erano stati catturati dalla foga del momento.
Raccolsi i cocci della tazza e li riposi in una scatolina a fiori, che misi a sua volta in un cassetto. Non volevo buttarla, anche se ormai era inutilizzabile.
“Oggi non abbiamo scuola, quindi ne potremmo approfittare per portare un po’ delle tue cose nel mio appartamento” propose sedendosi sul divano.
“Per me va bene, ma prima vorrei mangiare.” Lui annuì.
Erano le 11:46 ed io cominciavo ad avere un certo languorino. La sera precedente non avevo cenato. Erano successe talmente troppe cose che avevo dimenticato di farlo.
“Però, se non ti dispiace, vorrei pranzare fuori” continuai.
“D’accordo. Dove vuoi andare?” mi chiese alzandosi e prendendo il suo giubbottino di pelle.
“Vorrei andare alla Sophie’s  cakes.” Non esitai a rispondere.
“Ma lì non vendono dolci?” chiese perplesso Jason.
“Si, ma ne vorrei mangiare uno adesso” lo pregai. Sapevo che non amava particolarmente i dolci, ma tentai comunque di persuaderlo.
Si arrese e acconsentì la mia proposta. Sul mio viso si dipinse un enorme sorriso e corsi in camera mia a vestirmi. Volevo indossare abiti comodi, così optai per un jeans e una maglietta a maniche lunghe azzurra. Legai i capelli in una treccia laterale e arricciai il ciuffo che mi cadeva sull’occhio destro.
Tornai una decina di minuti più tardi e presi la mia giacca e la borsa. Ero pronta. Jason mi attendeva davanti la porta.
“Eccomi” dissi avvertendolo della mia presenza. Mi sorrise e mi aprì la porta, facendomi passare. Uscimmo dal palazzo e cominciammo a camminare uno di fianco all’altra.
I suoi piedi si muovevano in sincronia con i miei, persino i nostri respiri sembravano esserlo.
Il sole era alto in cielo e il clima era davvero ottimo. Si stava bene all’aperto ed era un piacere passeggiare per Londra in pieno giorno.
La pasticceria si faceva sempre più vicina e quando la vidi dall’altro lato della strada, corsi per raggiungerla. Aprii la porta e un tintinnio delle campane tubolari appese sopra la porta mi accolse.
“Buon giorno Sophie” salutai la proprietaria entrando nel negozio.
“Oh, buon giorno anche a te Erika” mi salutò facendo il giro del bancone per accogliermi.
Era una donna grassottella, poco più bassa di me. Era adorabile, con quelle sue guance  e capelli biondi  e corti che le cadevano lungo i lati del viso.
Andavo in quel negozio fin da piccola e la proprietaria mi aveva letteralmente visto crescere mentre assaporavo i suoi dolci. Forse, lei era una delle poche persone a cui mi sarei rivolta se avessi avuto problemi qui a Londra.
Jason rimase dietro di me, in imbarazzo, visto che mi ero dimenticata di presentarlo.
“Sophie, questo è Jason. Lui è…” ebbi un attimo di esitazione, “un mio amico.”
“Gli amici di Erika sono anche miei amici” disse in un sorriso.
Mi diressi al bancone e cominciai ad ammirare con occhi sognanti i dolci esposti.
Jason si avvicinò a me e mi cinse la vita con un braccio.
“Allora, quale vuoi?” mi chiese indicando delle fette di torta alla frutta.
“Voglio quella” dissi puntando il dito su una generosa fetta di torta al cioccolato.
Adoravo il cioccolato, era una delle cose che più amavo mangiare.
Jason si allontanò da me e si diresse alla cassa.
“Prendiamo una fetta di torta al cioccolato ed una al limone” disse con un sorriso smagliante in viso.
La commessa rimase leggermente imbambolata dinanzi a lui. Insomma, era un figo da paura. Chiunque ragazza sarebbe caduta ai suoi piedi. Mi infastidii a quella vista, ma scacciai via il pensiero.
“Il tuo amico è proprio carino” disse maliziosamente Sophie dandomi una gomitata sul fianco.
“Lo so” bisbigliai arrossendo.
Jason pagò i dolci e mi mostrò il vassoio, dove erano poggiate le due fette di torta. Il viso mi si illuminò e  sorrisi apertamente verso di lui. Avanzai a passi veloci, impaziente di assaporare quella delizia.
 

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Capitolo 6
*** Bacio ***


Raggiunsi Jason, che mi condusse al tavolo vicino la vetrina che dava sulla strada. Ci sedemmo su delle graziose sedie in ferro, verniciate di bianco ed abbellite con cuscinetti colorati.  Jason mi mise davanti la fetta di torta al cioccolato. Lo guardai perplessa.

“Tu non odiavi i dolci?” chiesi corrucciando la fronte.

“Beh, non è che li odi, è solo che non mi piace il sapore troppo zuccheroso che hanno” farfugliò agitando la forchettina che impugnava con la mano destra.

Continuai a guardarlo confusamente, poi risposi:

“Allora perché quella volta hai mangiato il mio cupcake?”

Lo vidi arrossire leggermente mentre abbassava lo sguardo verso la sua fetta di torta.

“Lo mangiai perché sembrava buono” sputò all'improvviso prendendo un boccone della sua torta al limone.

Sorrisi leggermente alla sua risposta, presi un pezzo di torta e lo portai alla bocca.

“Tu sei strano” risi.

Metterlo in imbarazzo era la cosa più divertente che avessi mai fatto, vederlo arrossire sempre di più ad ogni mia domanda era un gioco stupendo per me, ma una tortura per lui.

Posò la forchetta sul piatto e finalmente mi guardò negli occhi. Alzò la mano sinistra e se la passò tra i capelli, smuovendo il suo ciuffo e scoprendo ancora di più i suoi fantastici occhi neri.

“Perché?” chiese sorridendo a sua volta.

“Dici di odiare i dolci e poi li mangi, ti comporti da duro ed invece sei un bravo ragazzo, fai l’antipatico, ma sei simpatico ed altruista” spiegai sorridendo.

“Credi di aver capito tutto di me?” ribatté serio.

“Non credo che riuscirò a capirti completamente se non mi dai una mano” risposi scrollando le spalle.

“Nessuno riesce a capirmi” sorrise amaramente.

Di colpo la conversazione si fece cupa ed il silenzio si insinuò tra di noi. Non sapevo assolutamente cosa dire, sembrava che l’argomento lo turbasse non poco. Avevo paura di toccare altri tasti dolenti. Temevo di innescare l’esplosione di un’altra bomba in quello che si era trasformato in un campo minato.

L’unico rumore che spezzava quel silenzio era il tintinnio delle forchette sui nostri piatti.

Finimmo i dolci e, silenziosamente ci alzammo dalle sedie. Andammo verso l’uscita e salutammo Sophie.

Camminammo lentamente verso casa, avevo l’impressione  di aver sbagliato qualcosa con lui.

“Senti Jason, se ho sbagliato qualcosa dimmelo per favore…” iniziai guardando i miei piedi battere sul marciapiede, “improvvisamente  ti comporti freddamente ed io non so che fare…”

Cavolo se era difficile parlargli senza ricevere neanche uno sguardo!

“Erika” mi richiamò afferrandomi  una mano, “va tutto bene. Non hai fatto niente di male” me la strinse e iniziò a massaggiarmi il polso con il pollice.

Alzai lo sguardo ed incontrai quello di Jason. Lo vidi sorridere leggermente e capii che era sincero. Era così bravo a farmi preoccupare quanto a tranquillizzarmi in un baleno. Gli strinsi la mano a mia volta e gli sorrisi.

Ci tenemmo la mano fino al nostro rientro al palazzo. Salimmo le scale con le nostre dita ancora intrecciate. Era una sensazione strana sentirlo così vicino. Ogni volta che lo vedevo pensavo alle parole di Chanel, in fondo era un bravo ragazzo, non poteva essere pericoloso.

Arrivammo al mio appartamento e lasciai la sua mano per prendere le chiavi nella borsa. Aprii la porta ed entrammo.

Posai la borsa e dissi sfregandomi le mani:

“Io direi di cominciare a portare le mie cose nel tuo appartamento.”

“Okay. Da dove cominciamo?”

“Dai vestiti” risposi avviandomi nel corridoio.

Lui mi seguì, mentre io entrai nella mia camera ed aprii l’armadio. Mi misi le mani ai fianchi e cominciai a pensare ad alta voce.

“E’ ovvio che non posso portarmeli tutti, quindi prenderò solo le cose indispensabili.” Tuffai la testa al suo interno e tirai fuori i miei vestiti preferiti: magliette, camicie, jeans e vestiti. Afferrai un grosso borsone, che stava sopra l’armadio e ci misi dentro gli indumenti. Andai al comò che stava di fronte al mio letto. Aprii il primo cassetto e tirai fuori la mia biancheria intima e la infilai dentro il borsone.

“Belle le mutandine con le fragole” commentò divertito Jason.

“Non guardare le mie mutandine pervertito!” urlai arrossendo, anche se mi scappò una leggera risata.

Rise anche lui e si avvicinò alla finestra che dava sulla strada. Scostò le tendine verde mela e sospirò.

“Ha iniziato a piovere” sbuffò.

“Davvero?” chiesi mentre riponevo le ultime cose nel borsone.

“Guarda tu stessa” disse spostando la tenda ancora di più.

Mi avvicinai a lui e guardai fuori. Piccole gocce battevano contro il vetro della finestra. Le osservavo scendere lentamente fino ad incontrare un’altra goccia per poi unirsi ad essa. Era una cosa magica. Una volta congiunte non era più possibile distinguere dove finiva l’una e iniziava l’altra. Erano unite per sempre.

“Ti piace la pioggia eh?”

“Tantissimo” risposi distogliendo lo sguardo dall'ennesima goccia.

“Piace anche a me” sussurrò, “ma una cosa mi piace di più in questo momento” mi disse prendendomi il mento tra due dita e costringendomi a guardarlo. Avvicinò il suo viso al mio.

“Quella cosa è…”

In un lampo aprì la finestra e mi spinse all'esterno, richiudendo l’imposta.

“Fammi entrare!” gli urlai sbattendo la mano contro il vetro.

Lui rideva, rideva di gusto. Quella era una delle poche volte in cui lo vidi ridere davvero. Senza amarezza o tristezza nei suoi occhi.

“Dai” iniziai a ridere anch'io. Era gratificante sapere che in qualche modo lo facevo sentire bene, anche se in un modo davvero insolito.

Alla fine riaprì l’imposta ed io rientrai.

“Non è divertente” dissi  guardandolo rotolare sul pavimento piegato in due dalle risate.

“Però stai ridendo” ribatté fermandosi per riprendere ossigeno.

“Per colpa tua adesso sono bagnata” cercai di fare la seccata, nascondendo il sorriso.

“Adoro fare gli scherzi” disse sorridendo apertamente.

“Dovresti ridere più spesso. Ogni ragazza cadrebbe ai tuoi piedi con quel sorriso” risposi sinceramente, sdraiandomi a terra accanto a lui.

Si voltò verso di me ed il suo sguardo si fece serio.

“E tu ti innamoreresti di me?”

“Potrei farlo.”

Mi guardò per un istante, poi si avvicinò e i nostri nasi si sfiorarono ancora. Ma questa volta fu diversa. Questa volta le nostre labbra si sfiorarono veramente. Niente scherzi, niente sogni, niente di niente. Solo un bacio, leggero e dolce. Fu la sensazione più bella di tutta la mia vita. Non riuscivo a credere che mi stesse baciando realmente.

Le nostre bocche si divisero ed io riaprii gli occhi.

“Adesso più che mai” sussurrai.

***

Il piccolo trasloco volò liscio, dopo un piccolo momento di imbarazzo, finimmo di portare le cose nel suo appartamento.

Quando finimmo erano appena le sette di sera, così decidemmo di cucinarci qualcosa. L’appartamento non era molto diverso dal mio, pertanto non fu molto difficile orientarmi e trovare la cucina.

“Cosa vorresti mangiare?” gli chiesi mettendo un grembiule.

“Non ne ho idea” disse grattandosi la nuca.

Spalancai il frigorifero e rimasi a bocca aperta quando lo vidi semivuoto. C’erano solo un paio di verdure, ormai andate a male, sentendo il tanfo che ne usciva. Richiusi velocemente il frigorifero e mi voltai verso di lui.

“Come fai a sopravvivere?”

“Con questi” disse aprendo uno sportello.

Vidi una marea di confezioni di cibo precotto. Sbuffai e ne afferrai due di spaghetti.

“Domani andremo a fare la spesa” dissi.

Seguii i passaggi indicati sul lato della scatola e dopo pochi minuti, la cena era servita.

Mangiammo tranquillamente, senza parlare. Era una strana situazione. Qualche ora fa ci eravamo baciati, ed adesso ci comportavamo come se non fosse successo niente. Magari era solo un capriccio da parte sua. Mi irritai, ma Jason era complicato, era difficile capire cosa gli passasse per la testa, forse dovevo solo aspettare che parlasse chiaramente.

“Va tutto bene?”

 “Perché mi hai baciata?” dissi dando voce ai miei pensieri.

La sua forchetta si bloccò a mezz'aria, i suoi occhi trafissero i miei.

“Volevo farlo.”

“Io ti piaccio?”

“Potresti.”   

Ero stanca delle sue risposte corte e fredde. Impazzii.

“Una volta per tutte potresti essere chiaro ed esaustivo nelle tue risposte?” gli chiesi alzando il tono della voce.

“Cosa vuoi che ti dica?” alzò la voce.

“Dimmi che l’hai fatto perché provi quel che provo io.”

“Non posso. Ti ho baciata perché mi sono fatto trascinare dal momento. È stato un errore” disse calando il tono alle ultime parole.

Quelle parole mi ferirono nel profondo. Mille lame attraversarono il mio cuore.

Era riuscito con facilità a farmi battere il cuore, e con la stessa facilità riuscì a farlo sanguinare.

“Chanel aveva ragione” sussurrai asciugandomi una lacrima.

La sua espressione cambiò, adesso sembrava triste.

Si avvicinò e mi prese le mani.

“Mi dispiace. Non avrei dovuto dirti quelle cose, sono stato crudele” sussurrò accarezzandomi una guancia.

“La prossima volta sii più chiaro con me. Potrei fraintendere i tuoi gesti o le tue parole.”

“E’ solo che non voglio coinvolgerti. Sai, girano brutte voci sul mio conto. Il mio passato non è uno dei migliori.”

“Il passato non fa una persona. Si cambia, non si è mai gli stessi di ieri. Io non ti chiedo di raccontarmi la tua storia, perché so che è doloroso per te, ma almeno viviamo il presente insieme” lo rassicurai afferrando le sue braccia.

“Cavolo che poetessa!” disse sorridendo lievemente.

“Scemo” sorrisi, “sono seria.”

“Anch'io.”

Mi baciò ancora e mi strinse a sé. Non sapeva che non aveva fatto altro che incrementare la mia sete di sapere sulla sua vita passata. Ero determinata a scoprirla più che mai.

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Okay, okay, so che non è un capitolo stupendo, ma almeno credo sia stato decente. Vi chiedo scusa per la mia lentezza, ma mi sono successe talmente tante cose, che scrivere era il mio ultimo pensiero. Anyway le visualizzazioni aumentano sempre di più e ne sono davvero felice. Grazie a voi che continuate a leggere questa storia, nonostante l'aggiorni ad ogni morte di papa. 

Un grosso bacio :*

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Capitolo 7
*** Mi serve il tuo aiuto! ***




Mi svegliai in una nuova camera, diversa dalla mia. Era illuminata da una luce differente, profumava di nuove fragranze per me. Mi girai sul fianco destro ed avvicinai il morbido cuscino al mio viso per sentirne meglio l’odore. Sapeva di menta, io adoravo la menta.
L’occhio mi cadde in basso e lo spettacolo che vidi fu uno dei migliori:
Jason dormiva sul fianco opposto al mio, con un braccio sotto la testa e l’altro sul materasso. Indossava una maglietta celeste e dei pantaloncini grigi. Aveva la bocca socchiusa e le palpebre serrate. Un ciuffo di capelli gli cadeva morbido sulla fronte, mentre il resto era solo una matassa indistinta sul candido cuscino. Era tremendamente attraente anche da addormentato.
Sospirai silenziosamente. Non credevo ancora a quello che era successo la sera precedente. La mia mano si mosse, allungò l’indice verso Jason. Avevo l’impulso di accarezzarlo, passare la mano tra i suoi stupendi capelli, massaggiargli le labbra con il pollice. La mia mente continuava ad urlarmi: ‘toccalo, toccalo!’
Ero ormai vicinissima, stavo per sfiorarlo, quando all'improvviso una voce mi fece sussultare:
“Cosa stai facendo?”
Sobbalzai non appena mi accorsi degli occhi scuri di Jason.
“N-niente, avevi solo un po’ di polvere sui capelli” balbettai.
Lui scoppiò in una risata, vedendo il mio viso rosso dall'imbarazzo. Di riflesso, io affondai ancora di più il viso sul cuscino, volevo scomparire.
“Guarda che ore sono” mi disse sbattendomi letteralmente in faccia la sveglia digitale  che stava sul suo comodino, “sono le sei del mattino! Manca ancora un’ora e tu mi hai svegliato. Non riuscirò a prendere ancora sonno” disse mettendosi seduto e fissandomi negli occhi.
“M-mi dispiace, non l’ho fatto apposta” dissi cercando di fare la dispiaciuta. Trattenevo a stento una risata: con quei capelli arruffati era proprio buffo.
“Non me ne faccio niente delle tue scuse. Ora devi ripagarmi con un piccolo pegno” ribatté con un sorrisetto malizioso.
Lo guardai un attimo storto. “Niente sesso” dissi allontanandolo da me, colpendolo con i palmi aperti in pieno petto.
“Non voglio fare sesso non te” disse ridendo.
Io tirai un sospiro di sollievo.
“Almeno non ancora” continuò afferrandomi un braccio.
Io sgranai gli occhi esclamando un: “Cosa?!”
 Mi trascinò sul suo materasso e mi immobilizzò. Mi cinse la vita con le sue braccia e appoggiò la testa sulla mia spalla.
“Dovrai farmi da cuscino umano ogni volta che lo vorrò” disse secco.
Io ero sorpresa, non mi aspettavo che Jason ricorresse a giochetti del genere solo per starmi accanto. Devo dire però, che la cosa non mi dispiaceva affatto.
Eravamo rimasti in quella posizione per tutta l’ora successiva e finalmente ci trovavamo di fronte la London High School.
“Sarebbe meglio se non parlassi della nostra situazione a scuola” disse Jason continuando a camminare davanti a me.
“D’accordo” mi limitai a rispondere, “l’ultima cosa che vogliamo è mettere in giro delle voci” continuai sorridendo dal nervosismo. Lui annuì e varcammo la porta.
Riconobbi il viso di Chanel tra quello dei tanti studenti che si accalcavano davanti le classi per non entrare in ritardo.
“Chanel!” esclamai contenta.
“Erika!” mi salutò di rimando.
Mi guardò subito storto, ma a pensarci bene, non credo che guardasse me. Jason era ancora al mio fianco con il cellulare in mano, occupato forse a mandare qualche messaggio. Mi congedai da Jason con un piccolo cenno del capo e, insieme alla ragazza, andai in classe.
“Non ti avevo detto di stargli lontana?” mi rimproverò non appena ci sedemmo sui rispettivi banchi.
“Chanel vuoi spiegarmi perché ti sta così antipatico?” chiesi voltandomi verso di lei.
“E’ meglio per te non sapere niente. Non sono cose che ti riguardano e scoprirle sarebbe troppo per te” mi disse secca evitando il mio sguardo.
“Come faccio a tenerlo alla larga se non so nemmeno quello che ha fatto? Insomma non credo abbia combinato chissà quale guaio!” ribattei, stavo perdendo la pazienza.
“Da me non saprai niente. Ho passato mesi rinchiusa in casa per colpa di quello stronzo e non voglio assolutamente ricordare quello che ha fatto!” insistette alzando la voce.
In quel momento entrò Jason, che sembrò non curarsi dell’offesa appena ricevuta, come se quasi l’accettasse.
Avevo capito che da Chanel non avrei ricevuto nemmeno mezza risposta ad una delle centinaia di domande che le avevo rivolto, così arrivai ad un’altra soluzione.
Avrei dovuto trovare qualcun altro all'interno della scuola che ne sapesse più di me, sapevo che indagare non era la cosa giusta, un passo falso e mi avrebbero scoperta entrambi. Avevo promesso a Jason che non avrei ficcato il naso nel suo passato, ma la curiosità mi stava mangiando viva, non riuscivo a sopportare un altro minuto nell'ombra, all'oscuro di una verità così sconvolgente e sorprendente.
A chi mi sarei dovuta rivolgere per ricevere una mano? Erano da escludere i ragazzi del primo anno, che erano, come me d'altronde, ignari del passato che si celava dietro il loro compagno di classe. Gli altri ragazzi sembravano non sapere niente, così l’unica scelta possibile era quella di scegliere qualche alleato tra i ragazzi più grandi, ma chi? Non conoscevo quasi nessuno, a parte il diretto interessato, o forse no. Forse conoscevo qualcuno, talmente stupido che con un sorriso l’avrei convinto ad aiutarmi. La stessa persona che insistette per sapere il mio nome, la stessa persona che mi chiamò ‘ragazzina’, la stessa persona che mi dava tremendamente sui nervi. La stessa persona che portava il nome di Christian Blake.
No! Non posso chiedere aiuto a quello! Pensai scuotendo la testa con una smorfia sul viso.
Intanto però, non avrei potuto chiedere a nessun altro. Mi maledissi mentalmente per non aver cercato di fare amicizia con più persone. Oh be’ la scuola era ancora al suo inizio, c’era ancora tempo per le amicizie.
Ero impaziente di andare da lui. Questa storia era diventata una droga per me. Dovevo parlargli e chiedergli una mano al più presto.
Tintinnavo la matita sul mio banco, alternando facendola girare tra le mani. Ogni tanto la portavo alla bocca per morderne l’estremità. Ero davvero troppo nervosa.
Guardai l’orologio appena sopra la cattedra dove sedeva la professoressa, intenda a spiegare Dio-solo-sa-quale-argomento. Fui sollevata nel vedere che mancavano solo pochi secondi alla fine della scuola. Avevo già posato tutto all'interno del mio zaino, in modo tale che quando sarebbe suonata, fossi stata in grado di sgattaiolare via dalla classe senza perdere troppo tempo, non rischiando anche di restare bloccata dall'ingorgo di studenti che si creava sempre davanti l’uscita.
Uscii dalla classe e cominciai a correre verso la porta, beccandomi svariati rimproveri da parte della bidella, seduta a bere un caffè davanti la mia classe.
Ero quasi all'uscita, quando dei ragazzi mi tagliarono la strada sbucando dal corridoio posto in maniera perpendicolare a quello che stavo percorrendo.
Caddi a terra e per un attimo mi sembrò di essere ritornata al mio primo giorno di scuola, quando conobbi Jason.
“Ehi ma tu sei Erika, giusto?” mi chiese un ragazzo mentre mi aiutava ad alzarmi.
“Si, giusto” sussurrai massaggiandomi la testa.
“Amico, conosci questa ragazza?” chiese un’altra voce.
“Già. Erika stai bene?” mi chiese.
Finalmente alzai la testa e potei mettere a fuoco i due ragazzi che mi stavano davanti. Riconobbi all'istante la chioma rossastra e lucida di quel ragazzo. I suoi occhi celesti continuavano a squadrarmi con attenzione. Occhi che parevano trasparenti ogni volta che la luce del sole li illuminava. Mi ci sarei persa in quel celeste, ma la realtà mi ritrascinò giù.
“Christian mi serve il tuo aiuto” gli dissi seria.
“Michael ci sentiamo dopo” disse rivolgendosi all'amico.
I due si salutarono ed infine Christian mi rivolse la sua attenzione.
“Volevo chiederti se sapevi qualcosa riguardante il passato di Jason. Tutti continuano a dirmi di stargli alla larga, ma io vorrei capire almeno il perché” gli spiegai una volta usciti dall'edificio.
“Io non so niente su quello lì e comunque dovresti concentrarti su ragazzi migliori” disse sorridendo maliziosamente.
“Cosa vorresti insinuare?” ribattei cominciando a perdere la pazienza.
Mi stavo seriamente pentendo di aver chiesto aiuto a quel deficiente.
“Perché non indaghi sul mio di passato?” propose avvicinandosi a me.
“Sapevo di non dover chiedere aiuto ad uno come te” dissi dando voce ai miei pensieri.
Feci qualche passo, intenta a tornarmene a casa, quando mi afferrò il polso tirandomi a sé.
“Okay, mi dispiace. Ti aiuterò” disse guardandomi negli occhi. “Ma ad una condizione.”
Il sorriso che era appena nato sul mio viso, si spense all'istante a quelle ultime parole. Non perdeva occasione per torturarmi!
“Cosa vuoi?” chiesi incrociando le braccia al petto.
“Un appuntamento” sorrise.
“Non se ne parla” ribattei riluttante. 
“Devo pur guadagnarci qualcosa da tutta questa storia!” insistette lui afferrandomi una mano.
Per più di mezz'ora battibeccammo su tutta la faccenda. Ormai la mia pazienza era andata a quel paese e, stufa dei suoi continui capricci, accettai.
Visto che entrambi non conoscevamo davvero niente su Jason, decidemmo di investigare tra i vecchi registri scolastici. Se avesse fatto qualcosa legato alla scuola, doveva essere sicuramente annotato su qualche registro.
Con cautela rientrammo a scuola. Lentamente percorremmo il lungo corridoio centrale fino a giungere al suo termine. Adesso dinanzi a noi si trovava la porta della segreteria. Erano già le diciotto passate e a quell'ora le segretarie dovevano già essere andate tutte via. Poggiai la mano destra sulla lucente maniglia e la spinsi verso il basso, nella speranza di trovarla aperta. Nel frattempo continuavo a guardarmi intorno, incontrando quasi sempre lo sguardo di Christian. Nei suoi occhi potevo vedere riflessa la stessa agitazione e la stessa adrenalina che, nonostante la paura di essere scoperti, ci spingeva ad a proseguire la nostra missione. Scostai leggermente la porta e cacciai dentro la testa, scrutando il buio e polveroso interno. Non c’era anima viva nella stanza. Solo la calda luce del tramonto che entrava dalla finestra la illuminava. Senza esitazione infilai un piede oltre la soglia. Poi l’altro e fui dentro. Christian seguiva tutti i miei movimenti. Si richiuse la porta alle spalle e mi sussurrò all'orecchio:
“E ora che si fa?”
Trasalii nel sentire il suo respiro sulla mia pelle, ma non mi lasciai distrarre: avevo un compito da svolgere e non potevamo di certo perdere tempo. Ogni secondo era prezioso.
“Seguimi” bisbigliai facendogli cenno con la mano.
Cercai di mantenere un tono calmo ed impassibile, anche se il mio cuore martellante in petto non mi aiutava granché.
Feci qualche passo, fino a raggiungere un’enorme cassettiera in acciaio. Su ogni cassetto era riportata una data. Scesi di cassetto in cassetto fino a giungere all'anno che mi interessava. Lo tirai a me e ne osservai il contenuto. Centinaia di cartelle occupavano per intero l’interno del profondo cassetto. In ognuna di esse vi era scritto il nome dello studente a cui apparteneva. Ne lessi un paio prima di giungere alla lettera “E” e intravedere il cognome di Jason.
“Trovata!” esclamai dimenticandomi della situazione in cui mi trovavo.
Christian mi riprese con un sonoro ‘shh’ ponendo il dito indice sulle sue sottili labbra.
Mimai delle scuse e tornai a concentrarmi.
Le mani mi tremavano. Finalmente stavo per scoprire il tormentato passato di Jason.
Scostai la copertina e con la poca luce che illuminava la stanza, cercai di leggere i fogli che conteneva la cartella. Ridussi gli occhi a due fessure prima di riuscire a leggere qualcosa. Lessi fogli su fogli, ma niente. Jason risultava essere uno studente modello, con splendidi voti ed un’ottima condotta all'interno della scuola. Era vincitore di innumerevoli gare sia a carattere sportivo che intellettuale. Eccelleva in tutto quello che faceva, ma all'improvviso un vertiginoso calo lo portò a trasformarsi nel suo completo opposto. Niente di più, niente di meno. Dopo questo cambiamento fu sospeso e la sua pessima media gli portò la bocciatura. Sollevai delusa lo sguardo da quei fogli e richiusi la cartella.
“Allora? Trovato qualcosa?” mi chiese impaziente, “non abbiamo molto tempo. Ti conviene sbrigarti.”
“Non ho trovato niente” sospirai, “un bel niente” ripetei riposando la cartella dentro il cassetto e richiudendolo.
“Allora è meglio andare. Qualcuno potrebbe sco-”
Non terminò la frase. Le parole gli si spezzarono tra i denti, sentendo delle voci lontane dal corridoio.
Come colpita da una scarica elettrica mi avvicinai alla porta e raggiunsi Christian. Lui istintivamente mi afferrò la mano e mi tirò all'esterno. Per fortuna il corridoio era libero, probabilmente erano andati in caffetteria. Corremmo più veloci che potevamo e in pochi secondi eravamo fuori dall'edificio. L’eccitazione per l’essere stati quasi scoperti mi avvolse e, assieme ad essa si aggiunge una strana euforia. Stranamente mi ero divertita nei panni di una qualche spia segreta. In quell'istante mi accorsi della grande mano che stringeva la mia. Arrossii leggermente e credo che lui se ne accorse. Iniziammo a ridere fino a piegarci in due.
“E’ stato davvero divertente!” disse lui.
“Concordo” risposi.
Tornammo a ridere per un altro paio di minuti fino a quando Christian si fece serio.
“Esci con me” affermò.
“Sì, lo so. Uscirò con te” replicai cantilenante.  
“No, io intendevo senza essere costretta da…” disse confusamente.
Si massaggiò la fronte con le nocche della mano destra, per poi passarla fra i suoi capelli rossicci. Sarà stata la luce del tramonto, sarà stato il colore dei suoi capelli, ma in quell'istante mi parsero prendere fuoco, quasi mi abbagliarono.
“Oh, niente. Lascia perdere” terminò abbassando lo sguardo.
“Adesso è meglio che vada. Jason mi starà aspettando.”
A quelle parole i suoi occhi si ricoprirono di un insolito velo grigiognolo, come se i suoi fantastici occhi turchesi fossero stati coperti da un sottile strato di polvere.
“Sì, hai ragione” farfugliò.
“Ci metteremo d’accordo domani per l’appuntamento” gli urlai da lontano salutandolo con la mano, “grazie per l’aiuto.”
“E’ stato un piacere!” urlò in risposta.
In fondo non ero allarmata per quell’uscita. Christian mi era sembrato un ragazzo arrogante e superficiale, ma nonostante io non mi sia comportata nei migliori dei modi con lui, mi ha aiutata nella mia impresa, anche se non è terminata nel modo in cui avrei voluto. Magari Christian si rivelerà uno dei miei potenziali nuovi amici. Chi lo sa. E ripetendo quelle parole nella mia testa, intrapresi la strada verso casa.

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Capitolo 8
*** Demoni ***




Tuffai una mano dentro una delle tasche del mio zaino e cominciai a tastare il fondo alla ricerca delle chiavi del mio palazzo. Dopo un paio di secondi sentii tra le mani un qualcosa di estremamente soffice e peloso. Un lieve sorriso nacque sul mio volto riconoscendo il portachiavi di James Sullivan, uno dei personaggi del film d’animazione che adoravo guardare da piccola. Lo tirai fuori facendo tintinnare le chiavi. Aprii la grande e possente porta ed entrai.
Strisciai i piedi sullo zerbino e cominciai a salire le scale. Mi ritrovai innanzi la porta dell’appartamento di Jason, quando la suoneria del mio cellulare ruppe il silenzio, diffondendo il suo suono, che echeggiava. Lo tirai fuori dalla tasca e vidi sul display una chiamata da parte di mio padre.
“Pronto papà?”
“Piccola mia! Come va a Londra?” mi chiese euforico.
“Qui tutto bene” mentii, naturalmente. Non potevo mica dirgli della mia situazione in quel periodo. “Come mai sei così contento?” chiesi infine.
“Oggi è il nostro anniversario di matrimonio e tua madre mi ha preparato davvero una bella sorpresa” mi spiegò.
Sapevo a cosa alludeva, era fin troppo chiaro. L’argomento, sinceramente, non mi interessava granché, specialmente se dovevo parlarne con i miei genitori. Era davvero troppo imbarazzante.
“Oh, capisco. Allora vi lascio. Divertitevi” dissi tagliando corto. Sapevo che mio padre moriva dalla voglia di chiudere la telefonata e correre tra le braccia di mia madre. 
“Grazie tesoro, ti saluta anche la mamma. Comunque domani passerà zio Peter a vedere se va tutto bene all'appartamento. Un bacio” concluse.
“Vi voglio bene.”
A quelle parole mi commossi leggermente. La vita da sola era divertente, sorprendente e spensierata, ma comunque sentivo la loro mancanza. Certo, erano passati solo poche settimane dalla loro partenza, ma era come se mancassero già da molto tempo.
La schermata della telefonata si chiuse, mostrandomi la home del cellulare. Una piccola icona in alto attirò la mia attenzione. Andai a vedere tra i messaggi ricevuti e ne notai uno di Jason.

Da Jason Evans: Ti aspetto dopo le lezioni per comprare il cibo per stasera. Non tardare.

Mi colpii la fronte con il palmo della mano, facendomi imprecare per il dolore. Come avevo fatto a non accorgermi del messaggio?
Presi le chiavi ed aprii la porta dell’appartamento. Entrai e poggiai lo zaino e la giacca sul mobile accanto all'ingresso, mentre  riflettevo su quale scusa inventare da dire a Jason. Non ero un’ottima bugiarda, non lo ero mai stata.
Visitai tutte le stanze dell’appartamento, guardai persino in bagno, ma lui non c’era. La casa era completamente vuota. Sembrava che non fosse nemmeno tornato, tutto era in perfetto ordine, nessun abito sparso per la sua stanza, nessun paio di boxer lasciato sul pavimento del bagno accanto alla cesta della biancheria sporca e il televisore era ancora sintonizzato su Real Time. Jason odiava quel canale, diceva che trasmettevano solo programmi senza senso. A me, invece, piaceva e una sera, dopo una piccola guerra in casa, riuscii a convincerlo a guardare con me  Il Boss delle torte. Tutto mi faceva pensare che non avesse messo piede in casa e che quindi era ancora in giro. Sospirai sollevata, di certo avevo più tempo per pensare a cosa dirgli.
Nel frattempo, però, decisi di andare a fare una doccia, mi aiutava sempre a riflettere.
Mi lasciai cadere gli indumenti ai piedi ed aprii l’acqua. Era ancora fredda quando mi misi sotto il getto, il che mi provocò un leggero brivido lungo tutta la schiena.
Cominciai a lavarmi canticchiando una delle mie canzoni preferite.
When you feel my heat, look into my eyes, it’s where my demons hide, it’s where my demons hide…
Erano infinite le emozioni che quella canzone riusciva a trasmettermi ogni volta che l’ascoltavo.
Don’t get too close, it’s dark inside. It’s where my demons hide, it’s where my demons hide…
Ma quella volta, mentre cantavo a squarciagola il ritornello, mi apparve l’immagine di Jason, dei suoi occhi spaventosamente neri, dell’urlo muto che mi giungeva attraverso il suo sguardo e che mi diceva di stargli lontana. Non dovevo avvicinarmi, dovevo scappare finché ero in tempo, fuggire e non guardare indietro, perché se l’avessi fatto, avrei rivisto i suoi occhi e non sarei più stata capace di continuare, sarei sicuramente tornata da lui. Lui, che era la mia salvezza e la mia rovina. Perché doveva tenersi tutto dentro? Perché non voleva parlarne? Condividendo i suoi demoni con me, forse il peso sulle sue spalle si sarebbe alleggerito, non sarei riuscita a cacciarli definitivamente, ma almeno avrei sofferto con lui, provando la stessa sua paura di mostrarsi veramente per quello che è: un ragazzo meraviglioso che non aspettava altro che uscire e ricominciare a respirare.
Terminai la mia lunga doccia e mi avvolsi nella morbida spugna dell’accappatoio di Jason. Il mio era rimasto in camera e avrei preso freddo se fossi andata a prenderlo. Così lo tamponai su tutto il corpo e, asciutta, andai in camera.
Mi sedetti sul letto e poggiai sulle mie gambe il mio borsone. Aprii la cerniera e tirai fuori dei pantaloni da yoga e una felpa bordeaux con un grosso smile sorridente al centro.  Legai i capelli in uno chignon e fermai i ciuffetti di capelli che mi cadevano dalle tempie con due forcine.
Andai in cucina e posai lo sguardo sull'orologio accanto ad un quadro che raffigurava dei fantastici girasoli.
Erano le venti passate e Jason non era ancora tornato. Iniziai a preoccuparmi, ma sapevo come era fatto. A volte spariva senza dare notizie, ma alla fine si faceva sempre vivo.
In quell'istante il ronzio del citofono si espanse per tutta la stanza. Pensai subito ad un suo possibile ritorno, ma l’immagine che vidi dal piccolo schermo distrusse le mie speranze.
Vidi una ragazza con i capelli scuri e corti e un paio di occhi azzurri. Era agitata, sicuramente attendeva una risposta.
“Si?” chiesi.
Lei sembrò sorpresa nel sentire la mia voce, probabilmente si aspettava una voce di gran lunga più virile e profonda.
“C-ciao, mi chiamo Coraline, sono… un’amica di Jason” rispose con voce tremante.
Ebbi un’illuminazione. Jason non mi aveva parlato di lei, ma forse lei poteva dirmi qualcosa in più su di lui, lo conosceva da molto più tempo di me e presumibilmente conosceva il suo passato. Non mi lasciai scappare l’idea ti farla salire per concretizzare le mie teorie.
“In questo momento Jason non c’è. Puoi aspettarlo con me, se ti va” risposi cordiale.
Sorrise leggermente ed accettò.
La feci entrare e ci accomodammo sul divanetto in salotto. A primo impatto mi sembrò una ragazza abbastanza gentile e socievole. Era vestita molto bene, truccata e tirata a lucido, sembrava essere figlia di qualche personaggio importante e ricco.
Le offrii qualcosa da bere, ma declinò, dicendomi che era solo di passaggio e che sarebbe andata via molto presto.
“Be’ credo di non essermi ancora presentata” dissi lievemente in imbarazzo, “io sono Erika Brown e sono anch'io una sua amica.”
“Come hai conosciuto Jason?” mi chiese e nei suoi occhi potei notare un bagliore di curiosità.
“Conobbi Jason a scuola. Diciamo che il nostro incontro non è stato uno dei migliori, ma siamo diventati amici” spiegai con un sorriso in volto.
Lei annuì, poi continuò:
“Capisco. Sai ripensandoci, credo che accetterei volentieri una tazza di caffè, freddo possibilmente.”
“Te la preparo subito” risposi scattando in piedi.
Andai in cucina e afferrai una delle tazze che avevo lavato quella mattina. Presi il boccale con dentro il caffè e ne versai un po’ nella tazza. Tornai in salotto e mi sedei accanto a lei, porgendole la bevanda.
“Oh, grazie infinite” mi disse con un grande sorriso.
“Tu come hai conosciuto Jason?” chiesi a mia volta.
“E’ una lunga storia” rise portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, “Jason ed io facevamo parte dello stesso gruppo d’amici. C’è sempre stata una grande intesa tra noi due e, col tempo, è sbocciato l’amore” spiegò con un filo di malinconia nelle sue parole, come se quei momenti le mancassero.
“Oh.” Fu l’unico suono che riuscii ad emettere. Rimanemmo per un paio di secondi in silenzio, poi lei stessa lo dissolse.
“E’ passato un po’ di tempo, ormai l’ho superata. In fondo lui era perfetto, sono stata io a rovinare tutto…” continuò fissando le sue mani stringere la tazza.
“Cosa è successo, se posso chiedere?” mi azzardai a chiedere, nonostante fosse un argomento delicato.
“Erano passati pochi mesi da quando io e Jason ci eravamo messi insieme. Tutti i nostri amici si congratulavano con noi, erano felici nel vederci così contenti ed innamorati.  Era tutto perfetto, tutto sembrava ricordare una di quelle favole con il lieto fine. Poi, però, per un errore, uno stupido errore, ho rovinato tutto. Ho distrutto tutto quello che avevamo costruito insieme. Per colpa mia, Jason ha dovuto attraversare momenti difficili. Fino ad oggi non mi perdono per quello che ho fat-”
Sentimmo aprirsi la porta e vedemmo Jason spuntare da dietro essa.
“Coraline! Che ci fai qui?” quasi urlò lui.
“Jason, ti prego lasciami spiegare” disse supplicante, scattando in piedi e andando verso di lui.
“Non c’è niente da spiegare. Io non voglio più vederti!” ribatté tenendo la porta aperta, “Va’ via!”
“Jason, aspetta! Lasciala parlare” mi intromisi mettendomi in mezzo.
“Tu non hai il diritto di intrometterti nelle mie faccende, non immischiarti” urlò anche contro di me.
“Jason ti supplico” insistette afferrandogli le mani.
“Non toccarmi! Non hai ancora capito che non voglio più avere nulla a che fare con te?”
“Jason” sussurrò con ormai le lacrime agli occhi.
“Vattene” disse impassibile indicando la porta.
Lei prese la sua borsa e mi rivolse uno sguardo rassegnato e riconoscente, per aver cercato almeno un po’ di aiutarla. Uscì dall'appartamento e se ne andò.
Jason era furioso, sentivo il suo respiro affannato squarciare il silenzio che era sceso su di noi.
Presi la tazza, che era rimasta sul tavolino, e la posai dentro il lavello.
“Jason, io-” tentai di dirgli.
“Non dire niente. Perché l’hai fatta entrare?” chiese rivolgendomi due occhi che mi parsero fiamme.
“Era così gentile e aveva chiesto di te, così le dissi di aspettarti dentro” spiegai cercando di sostenere il suo sguardo.
“Non devi farti ingannare dall'apparenza. Lei è una ragazza spregevole! Non hai idea di quello che mi ha fatto!” alzò la voce di nuovo.
“Come facevo a saperlo se tu non mi dici niente della tua vita?” risposi a tono.
“La mia vita non ti riguarda! Ci conosciamo da qualche settimana e già credi che ti racconterò tutto?”
Quelle parole mi spezzarono il cuore. Davvero la pensava così? Davvero pensava che tutto quello che era successo tra di noi non valeva niente?
Lacrime calde corsero generose sulle mie guance.
“Non ti ho mai chiesto di raccontarmi tutto. Ma almeno non arrabbiarti con me, io non ho colpe! Sei tu quello che continua a fare il giochetto del ragazzo misterioso pieno di problemi! Se proprio vuoi sentire la verità, te la dirò: mi fai pena, continui a vivere con i tuoi scheletri e non riesci a lasciarteli alle spalle. Vivrai nel passato fino a quando non ne sarai completamente sommerso.”
Gli disse quelle parole di getto, come se mi fossi liberata da un grosso peso. Non so se le parole che dissi quella sera erano veritiere o meno, ma per una volta mi sentii orgogliosa di me stessa per avergli detto quello che pensavo in faccia.
Presi la mia giacca e scappai di casa, superando il suo sguardo incredulo. Sapevo di averlo ferito con quelle parole, ma non m’importava. Quella con il cuore spezzato ero io e non avevo nessuna intenzione di tornare indietro per chiedergli scusa. 
 
 

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Capitolo 9
*** Mi prenderò io cura di lei! ***


Scesi le scale freneticamente, continuavo a guardarmi indietro, non volevo assolutamente che mi seguisse. Anche se un po' ci speravo, se l'avesse fatto, avrei compreso che almeno ci teneva a me, poco, ma ci teneva.
Con le mani tremanti cercai di aprire il portone e, dopo vari tentativi, riuscii a farlo. Lo spalancai ed uscii fuori. Non appena lo feci, un leggero vento mi scompigliò i capelli, asciugandomi le lacrime che mi cadevano sulle guance. Tirai su con il naso e mi richiusi la porta alle spalle. Stranamente faceva freddo, così indossai la giacca, misi sulla testa il cappuccio e tirai giù le maniche per ripararmi le mani dal vento. Camminai lentamente, alzai il capo e osservai le luci della città. Di colpo mi ricordai delle cuffie che stavano nella tasca destra della giacca. Sorrisi leggermente ringraziando me stessa per non averle lasciate nello zaino.
In quel momento avevo bisogno di rifugiarmi fra le braccia della mia amata musica. Presi il cellulare ed andai nelle mie playlist. Ne avevo una per ogni stato d'animo o occasione. C'era la playlist per quando vado in autobus, quella per quando faccio un bagno caldo, quella con le canzoni più gettonate e allegre e quella per i momenti no, creata apposta per confortarmi e cullarmi con quelle note tristi e delicate. Selezionai quest'ultima e impostazioni la modalità shuffle.
Le prime note di Afire love di Ed Sheeran si fecero sentire attraverso le cuffie, per andarsi ad intrufolare in tutte le più piccole crepe del mio cuore. Continuando a camminare senza meta, le canzoni scorrevano e con esse anche le immagini delle ultime settimane passate. Un nodo mi si formò alla gola e sentivo gli occhi inumidirsi di nuovo. Cercai di non piangere, ma fu più forte di me. Portai una mano a livello dell'occhio e asciugai l'ennesima lacrima che mi rigava il viso.
Fu la volta di Born to die di Lana de Rey. Quella canzone, così cupa e triste, ma allo stesso tempo coinvolgente e profonda mi travolse completamente, inondandomi di emozioni contrastanti. Avrei voluto tornare indietro, parlare con Jason, chiarire, ma avrei anche preferito camminare, allontanarmi, fino a quando le gambe non avrebbero ceduto, stanche di portarmi via.
Arrivai in un piccolo parco e mi sedetti in una vecchia panchina arrugginita. Portai le gambe al petto e infilai il viso tra le ginocchia, chiusi gli occhi e per un momento cercai di non pensare a niente.
Jason's pov
Mi sedetti sul divano, gomiti sulle ginocchia e testa tra le mani. Le parole di Erika continuavano a tormentarmi.
'Continui a vivere con i tuoi scheletri e non riesci a lasciarteli alle spalle. Vivrai nel passato fino a quando non ne sarai completamente sommerso.'
Lo credeva veramente? La gente pensava questo di me guardandomi? Non era assolutamente quella l'impressione che avrei voluto dare.
Sospirai e presi il mio portafoglio dalla tasca posteriore dei jeans. Lo aprii e tirai fuori la foto di Erika che avevo preso quella volta a casa sua. La rividi sorridere, quel sorriso che quella sera avevo visto spegnersi, quel sorriso che ogni volta cerco di far nascere in lei, quel sorriso che riusciva a calmarmi, ma allo stesso tempo mi rendeva irrequieto ed agitato. Riposi la foto e mi alzai. Andai alla porta, presi le chiavi ed uscii di casa. Avevo commesso un errore e non volevo assolutamente perdere una persona così speciale per una sciocchezza.
Erika's pov
Rimasi seduta in quella panchina mentre le canzoni continuavano ad accarezzarmi con mano buona e gentile.
Alzai il capo ed afferrai il cellulare. Lo accesi e guardai l'orario. Mancavano dieci minuti alle ventidue. Si stava facendo tardi e non era molto sicuro per una ragazza stare in giro a quell'ora. Pensai per un attimo ad una possibile chiamata a Jason, arrivai persino a comporre il numero, ma lo cancellai immediatamente scrollando la testa e riposandolo nella tasca. Spensi la musica e tolsi le cuffie.
Mi guardai intorno, non c'erano molte persone per le strade, ogni tanto si intravedeva qualche solitario con il proprio cane, ma niente di più.
Effettivamente ero finita nella zona periferica della città.
Piegai le braccia e posai il mento sugli avambracci, mentre osservavo l'oscillare dell'altalena mossa dal vento.
Fino a quando una figura si posò tra me e la giostra. Rizzai la schiena ed alzai il capo lentamente: un ragazzo molto alto con addosso un lungo cappotto ed una sciarpa a coprirgli mezzo viso. Cercai di fissarlo negli occhi, ma c'era talmente buio che non riuscivo nemmeno a distinguere la sua figura con il paesaggio. Solo un piccolo lampione in fondo alla strada illuminava leggermente l’ambiente.
"Erika che ci fai qui da sola?" si liberò nell'aria una voce profonda.
Trasalii non appena il mio nome, pronunciato da quello sconosciuto, arrivò alle mie orecchie.
"L-lei chi è? Come mi conosce?" balbettai poggiando i piedi a terra.
"Oh forse non mi hai riconosciuto conciato così" rise il ragazzo sfilandosi la sciarpa.
Gli si scompigliarono i capelli e potei notare un tatuaggio sul lato destro del collo. Raggomitolò la sciarpa in una mano mentre con l'altra si aggiustava i capelli scuri. Poi infilò una mano sulla tasca e tirò fuori un paio di occhiali. Se li poggiò sul naso e si abbassò al mio livello, fissandomi negli occhi attraverso le lenti. Riconobbi quegli occhi di cristallo e quel sorriso ipnotico.
"P-professore" sussurrai sorpresa e in imbarazzo.
"Sono proprio io" esclamò aprendo le braccia, "ma chiamami Adam, non siamo a scuola" disse facendomi l'occhiolino.
Si sedette accanto a me e mi osservò attentamente, poi, dopo un lungo silenzio, parlò:
"Cosa ti è successo?"
"Niente di grave" minimizzai abbassando il capo.
"Hai gli occhi rossi e sei da sola in questo parchetto. Preferisci parlare qui o davanti ad una cioccolata calda?" mi chiese poggiandomi una mano sulla spalla.
Sentendo quell'ultima frase sollevai il capo e lo guardai con occhi brillanti. Mi ero infreddolita a stare in quella panchina ed avevo proprio voglia di qualcosa di gustoso e caldo.
"Vorrei una cioccolata calda" dissi tirando su col naso.
Sul suo volto nacque un leggero sorriso soddisfatto e mi invitò a mettermi in piedi porgendomi una mano.
"Vieni allora, ti porto nel miglio bar di Londra!"
Ce la stava mettendo tutta per tirarmi su di morale e devo dire che ci stava riuscendo… e anche bene.
Mi porse la sua mano ed io l'accettai. Era fredda, ma stranamente mi diffondeva un calore che arrivò dritto al cuore. Di colpo avvampai e quel piccolo calore si trasformò in un incendio nella mia anima.
La situazione in cui mi trovavo stava diventando seriamente strana ed imbarazzante. Stavo andando in un bar mano nella mano con il mio professore di biologia. Era moralmente sbagliato fantasticare su una storia d'amore tra noi due, ma come aveva detto lui poco prima, adesso ci trovavamo al di fuori della scuola. Io ero semplicemente io e lui era semplicemente Adam.
Mentre camminavamo potei accorgermi di parecchi particolari che in classe mi erano sfuggiti: gli orecchini neri su entrambe le orecchie, i capelli privi di piega ed arruffati, i vestiti decisamente più giovanili ed appunto, il tatuaggio che spiccava sul suo collo. Era completamente un'altra persona, se non fosse stato per gli occhiali non l'avrei di certo riconosciuto. Devo ammettere che era decisamente più attraente in questa sua versione più casual e disinvolta.
Arrivammo alla Chocolate's house, un locale abbastanza vicino il parco. Entrammo ed un'ondata di profumo invase le mie narici. Cioccolato fondente e arancia, menta e cioccolato bianco, mille combinazioni di profumi e sapori regnavano in quel bar. Ero meravigliata da tutta quella bellezza.
"Che cosa prendi?" mi chiese rivolgendomi uno sguardo carico di dolcezza.
"U-una cioccolata al fondente e arancia" dissi rigirandomi i pollici.
Adam si avvicinò al bancone e si rivolse al barista con un sorriso.
"Prendiamo due cioccolate" disse poggiando una banconota sul bancone.
Il negoziante picchiettò sulla tastiera della cassa e fece uscire lo scontrino che porse al ragazzo. Poi girò attorno al bancone e andò dietro la lunga vetrina di dolci e bevande.
"Che gusti prendete?"
"Cioccolato fondente e arancia e cioccolato al latte con granella di nocciole" rispose per entrambi.
L'uomo annuì e ci preparò le rispettive bevande. La mia la versò in un lungo e stretto bicchiere di un marrone molto scuro e lo decorò con una fetta di arancia sul bordo del bicchiere, mentre quella di Adam la versò in un bicchiere beige con la granella su tutto il bordo. Ci porse dei cucchiaini e dei fazzolettini, dopodiché ci accomodammo in uno dei tavolini rotondi che ci stavano attorno.
Poggiai entrambe le mani sul bicchiere mentre con la bocca soffiavo leggermente per raffreddare la bevanda. Il fumo mi solleticava il naso, il che mi portava a storcerlo ogni tanto.
Lui rise ed io drizzai il capo per guardarlo. Non mi ero accorta che aveva rimosso gli occhiali e che adesso i suoi occhi nudi si posavano su di me. Vederli senza coperture mi faceva un altro effetto, più intenso ed indefinito.
"Ho qualcosa sul viso?" chiesi in imbarazzo.
"No, niente del genere. Sei solo molto bella, non l'avevo mai notato prima" mi rispose schietto poggiando i gomiti sul tavolino e posando il mento sul palmo della sua mano destra.
Arrossii all'istante a quelle semplici parole. Il cuore cominciò a martellarmi in petto, le gambe iniziarono a tremare sotto il tavolino, la mani sudavano, quasi mi scivolava la bevanda. La avvicinai al viso e provai ad assaggiarne un sorso. Schiusi la bocca e lasciai scivolare la cioccolata che, non appena toccò il mio palato, mi regalò una delle sensazioni più belle che avessi mai provato. Era davvero buonissima.
"Vedo che ti piace" affermò bevendo la sua cioccolata, "ne sono felice" sorrise.
"Grazie mille professore. Ci voleva proprio" lo ringraziai, "oh, mi scusi… Adam" mi corressi portando una mano alla bocca.
Lui rise della mia goffaggine e mi porse un fazzolettino, lo guardai con aria interrogativa poi si toccò le labbra mimandomi che mi ero macchiata. Le mie guance tornarono ad essere rosse e velocemente tolsi via il cioccolato.
"Puoi darmi del tu" sorrise.
Sorrisi di rimando e riprovai:
"Grazie Adam, sei stato molto d'aiuto" sospirai poggiando una mano sul tavolino mentre con l'altra riprendevo a bere la mia bevanda.
"Di niente. Adesso ti andrebbe di raccontarmi quello che ti è successo?"
Il suo sguardo si fece serio e la sua espressione assunse una nota preoccupata corrugando le sopracciglia. Presto anche il mio umore cambiò.
"Ho avuto un'incomprensione con una persona" mi sforzai di rimanere vaga.
"C'entra quell'Evans, vero?" mi chiese puntando i suoi occhi su di me.
Evitai il suo sguardo, mi sentivo come se stesse cercando di scrutarmi nell'anima ed io non potevo assolutamente permetterlo.
"Non riguarda Jason" risposi poggiando il bicchiere sul tavolino.
Lo guardai, la sua mascella si era irrigidita, i suoi occhi persero il loro bagliore cristallino, lasciando spazio ad una colorazione tendente al grigio. Emanava un'aura oscura e il silenzio calò su di noi.
"È meglio andare, si è fatto tardi" disse finendo la sua cioccolata.
Era diventato freddo e distaccato, sicuramente l'argomento-Jason lo disturbava non poco.
Bevvi la restante cioccolata tutta d'un sorso, ustionandomi la lingua.
Ci alzammo ed uscimmo dal locale. Non spiccicava parola, camminava davanti a me, il suo respiro era pesante ed irregolare. Credo fosse davvero arrabbiato, ma non capivo il perché di così tanto interessamento.
Ripassammo per il parco, poi mi chiese indicazioni su dove abitassi. Non esitai a rispondere e gli spiegai dove si trovava il palazzo. Il suo atteggiamento non era cambiato.
Finalmente rividi il profilo del mio edificio, ci avvicinammo e quando fui a pochi passi dal portone, mi accorsi di un ragazzo seduto sullo scalino dell'entrata. Era Jason, con la testa tra le mani. Lo chiamai e lui scattò in piedi, era agitato e sorpreso allo stesso tempo.
"Erika dove sei stata?" mi chiese venendomi in contro, "ti ho cercata dappertutto."
"Jason parliamone a casa, ti prego" risposi indicando Adam, che era rimasto ad osservare la scena.
"C-cosa ci fa lui qui?" si agitò, "che le hai detto?" si rivolse sgarbato al nostro professore.
"Erika era da sola per strada, le sarebbe successo qualcosa se non l'avessi aiutata" ribatté Adam avvicinandosi.
"Tu! Cosa?"
Erano entrambi furiosi, stavo cominciando a spaventarmi.
"Jason, Adam per favore, basta!" li supplicai mettendomi in mezzo.
"Oh adesso lo chiami anche per nome?!" insistette Jason.
"Evans!" iniziò con tono di sfida, "sta pur certo che non lascerò che Erika cada tra le tue grinfie. La proteggerò, dovesse costarmi il mio posto alla London High School!" terminò avvolgendo un braccio sulle mie spalle.
La mia schiena aderiva al suo addome, non riuscivo a vedere la sua espressione, ma ero sicurissima che avesse un fuoco nei suoi occhi, fuoco che vidi riflesso perfettamente in quelli di Jason.

Mi trovavo in una brutta situazione, una pessima situazione. 

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Capitolo 10
*** Ho scelto te ***


Sin da bambina avevo sempre sognato di trovare il ragazzo dei miei sogni, quello con cui avrei condiviso tutti i momenti più belli della mia adolescenza. Sapete quelle fantasie che le tredicenni fanno sfogliando le riviste per adolescenti? Ecco, proprio quelle. Ogni ragazzina sogna di essere contesa tra due ragazzi, belli ed affascinanti. Immaginare di tenere un lungo ed appassionante discorso su quanto è difficile scegliere e sull'impossibilità di amare e tenere entrambi. Adesso mi trovavo proprio in una di quelle situazioni, ma non si può minimamente immaginare quanto sia snervante e stressante trovarsi tra due ragazzi, con un piede in una terra e l’altro in un’altra, nella zona di confine, combattuta se andare a destra o a sinistra, consapevole di non poter tornare indietro dopo una scelta. Scelta che quella sera dovetti prendere, o almeno provai a prendere. Ero scioccata dalle parole di Adam, ma cercavo comunque di non aggrapparmici perché sapevo che non era la cosa giusta da fare. Sarebbe stato facile, fin troppo facile, scegliere lui ed iniziare una storia d’amore con un ragazzo normale, senza troppi segreti, magari non subito, ma in futuro. Ma solo per quella sera, decisi di rimanere nel confine, nella linea che mi separa da entrambi. Mi tolsi di dosso il braccio di Adam e corsi verso il portone d’ingresso, evitando gli sguardi di entrambi. Salii le scale e mi precipitai ad entrare nell'appartamento. Mi tolsi quella giacca e la gettai a terra, seguita dai pantaloni e dalla felpa. Aprii la mia borsa ed indossai il mio pigiama. Quegli abiti avevano l’odore di quel ragazzo e sinceramente stava cominciando a darmi la nausea. Sciolsi i capelli e li lasciai cadere mossi sulle spalle, andai in cucina ed afferrai una bottiglia d’acqua e ne bevvi un sorso. Deglutii e tornai in camera, mi distesi sul letto dando le spalle alla porta. In quel momento pensai a quanta sofferenza mi aveva portato nella mia vita Jason, forse quello che aveva fatto poteva sembrare nulla di così devastante, ma per una ragazza piccola e fragile era difficile assorbire tutto il dolore rimanendo indenne. Aveva lasciato delle cicatrici e non sarebbero scomparse molto facilmente. Magari partire, andare con i miei genitori era la cosa giusta, ricominciare e farmi nuovi amici, vivere una vita spensierata.

Di colpo sentii la porta di casa aprirsi, mi asciugai una lacrima che era appena scesa e tirai su col naso. Udii dei passi farsi sempre più forti e vicini, poi silenzio. Avevo l’impressione che si fosse fermato appena davanti la porta della nostra stanza. Tratteneva il respiro, era certamente convinto che io stessi dormendo. Rizzai le orecchie ad un fruscio, causato probabilmente dalla sua maglietta, che cadde a terra accanto ai miei indumenti. Mi ero voltata leggermente e con la coda dell’occhio riuscivo a seguire i suoi movimenti. Ogni tanto mi rivolgeva uno sguardo, fugace e veloce. Quando ebbe terminato di mettere il suo pigiama, si distese sul materasso accanto al letto e sospirò.
“So che ho sbagliato e mi dispiace. Non avrei dovuto trattarti in quella maniera. Tu sei sempre così gentile e disponibile con tutti…ed io ogni volta che ti vedo penso a quanto tu sia speciale e unica. Probabilmente non sarò mai all'altezza, non sarò mai il ragazzo perfetto o che tutti vorrebbero. Ogni volta che penso a te capisco quanto io sia fortunato anche solo per il fatto che mi permetti di starti accanto” fece una piccola pausa per avvicinarsi ancora un po’ a me, “so che mi stai ascoltando e so anche che vorresti sapere perché la gente mi tiene alla larga.”
Sbarrai gli occhi e mi voltai di scatto, incontrai il suo sguardo pieno di tristezza, vidi i suoi occhi luccicare per la prima volta.
“Jason” dissi in un sospiro, “devo dirti una cosa” mi sedetti sul letto. Mi sembrò confuso e agitato. “Io ho cercato di scoprire cosa ti era successo, anche se ti avevo detto che non mi importava” ammisi rigirandomi i pollici.
“E cosa avresti fatto per indagare?” chiese mimando delle virgolette sull'ultima parola.
“Be’ ho domandato in giro, ma senza risultati. Così ho rovistato tra i vecchi registri della scuola…” spiegai mantenendo il contatto visivo con lui.
“E’ normale che tu non abbia trovato niente lì” disse curvando le labbra in un piccolo sorriso, “quello che è accaduto non riguarda la scuola.”
Piegai la testa di lato e mi misi comoda, fissandolo negli occhi per esortarlo a parlare.
“Molto tempo fa stavo insieme a Coraline ed il mio migliore amico era una delle persone più importanti della mia vita. Un giorno però scoprii che entrambi si vedevano di nascosto. Mi sentivo tradito e così decisi di vendicarmi” fece una pausa e deglutì.
Ogni sua parola mi incuriosiva e mi spingeva ad ascoltare. “Ross, il mio ex migliore amico, aveva una sorella più grande di lui di un anno. L’avevo conosciuta un pomeriggio quando sono andato a casa sua per giocare ai videogiochi. Lei era alta, snella e con degli occhi marroni bellissimi. Era una di quelle ragazze concentrate sullo studio. Voleva diventare medico, proprio come suo padre, il signor Hathaway.”
Vedevo nei suoi occhi una nota malinconica, parlava di lei al passato e ciò mi faceva pensare che lei, forse…
“Io cercavo la mia vendetta, avevo lasciato Coraline e mi rimaneva da colpire Ross…”

Mi raccontò tutto quello che era successo durante quei mesi. Jason aveva deciso di conquistare la sorella maggiore di Ross, per poi spezzarle il cuore. Il diretto interessato era inattaccabile, così opto per ferire la sorella. Jason si mostrava interessato e disponibile nei confronti di Rachel ed in poche settimane si misero insieme. Col tempo Jason imparò ad apprezzarla veramente e nel suo cuore stava sbocciando un altro sentimento, prendendo il posto della rabbia. Quello che doveva essere solo una vendetta, si trasformò in qualcosa di più serio. Tra i due si era instaurato un forte sentimento, talmente forte da scacciare via ogni pensiero maligno dalla sua testa. Lei gli raccontava dei suoi sogni, di quello che avrebbe voluto fare una volta diventata medico, la sua voglia di regalare un sorriso alla gente. Lui si era innamorato della splendida persona che gli stava davanti e non sarebbe riuscito a mettere in pratica il suo piano, ormai non le avrebbe fatto alcun male. Però, con il passare dei giorni, Jason notò che lentamente Rachel si stava allontanando da lui. I loro discorsi erano diventati superficiali, privi di significato. Non parlavano più così spesso come una volta, lei non gli raccontava più i suoi pensieri, lo aveva tagliato fuori, all'oscuro di quella che si era trasformata in una storia a senso unico. Jason venne a sapere di Mark, un ragazzo sbandato, dipendente da alcol e droga. Era l’esatto opposto di Rachel, ma qualcosa in lui spinse la ragazza tra le sue braccia. A Jason dava buca spesso, preferiva sfrecciare sulla moto di quel tipo, sicuramente ubriaco e poco lucido. Fino ad adesso non si spiega il motivo del suo abbandono. Il perché avesse preferito Mark a lui. Durante le sue riflessioni si chiedeva spesso se non fosse solo la voglia di trasgredire a farla comportare in quel modo. La verità però la sapeva bene, ma non voleva accettarla. Rachel non aveva avuto solo un momento di sbandamento, aveva fatto la sua scelta. Ha preferito una moto alle parole di Jason, aveva preferito un ragazzo che non l’amava veramente ad uno che avrebbe dato la vita per lei. Ecco perché, il giorno del compleanno di Rachel, lui era lì. A pochi metri dall'auto di quel ragazzo. Lei era nell'auto, euforica per la gita che stavano per intraprendere. Ogni volta che svoltavano l’angolo, la vedeva sorridere, era felice. Il ragazzo teneva un braccio sulle sue spalle. una mano sul volante, che lasciava per cambiare la marcia. Lei lo rimproverava per il gesto sconsiderato di abbandonare il volante. Jason li stava seguendo da un bel po’, sempre stando attento a non farsi vedere da lei. Di colpo Mark alzò la voce e colpì in pieno viso Rachel che scattò verso il finestrino con una mano sulla parte dolorante. Ebbe una fitta al cuore, l’aveva picchiata. Aveva osato toccare quella pelle candida come la porcellana. Aveva osato ferire la ragazza più importante della sua vita. Lei reagì dopo qualche istante, colpendolo alla spalla. Jason aumentò la velocità. Gli bruciavano le gambe, ma non gli importava. Temeva per l’incolumità di Rachel. Evidentemente lui era per l’ennesima volta ubriaco perché in preda ad uno scatto d’ira, le afferrò la testa e la scaraventò contro il finestrino. Era così vicino da poter sentire le urla di dolore della ragazza. Attraverso i vetri vedeva Mark che continuava a sbraitarle contro quanto fosse irritante e che non valeva assolutamente la pena sopportarla solo per andarci a letto. Erano oramai giunti in una vecchia strada di campagna, delimitata da alberi e piccoli arbusti. Gli occhi rabbiosi di Mark non si curavano più della strada, Jason vide la sua mano sollevarsi ancora per colpirla, lei continuava a piagnucolare. Jason aveva preso una decisione: doveva fermare quell'auto il più in fretta possibile. Pedalò più forte, superando l’auto che li divideva, spinse ancora sui  pedali. I polmoni gli bruciavano, il cuore sembrava volesse fermarsi da un momento all'altro, le gambe avrebbero ceduto tra poco per lo sforzo. Superò finalmente anche la loro auto, continuando per un paio di metri, poi si pose proprio al centro della strada. Piantò i piedi a terra ed allargò le braccia. La macchina continuava ad avanzare, poi vide Rachel che continuava ad indicarlo, facendo segno a Mark di fermarsi, ma lui continuava ad urlare, non curandosi della flebile voce che gli diceva di stare attento. Finalmente si accorse di lui, ma solo un attimo prima che lo investisse. D’istinto Mark svoltò a sinistra. Un urlo terrorizzato, la morte negli occhi. Un’assordante frenata che gli frantumò i timpani. Poi l’impatto. Il tronco di un vecchio albero spezzato in due al colpo dell’auto. La chioma verde ricadde sul parabrezza, frantumandolo con i suoi rami. Jason corse da Rachel. Aprii il suo sportello e la tirò fuori. Un profondo taglio alla testa liberava fiotti di sangue rosso vivo. L’espressione ancora terrorizzata nel suo volto, una lacrima ancora calda sulla sua guancia. Il gonfiore sull'altra. Aveva ancora gli occhi aperti, ma avevano perso la loro vivacità, luce e luminosità che la caratterizzavano. Le gambe si erano già arrese, ed adesso era accasciato al suolo, con Rachel sulle ginocchia ed una pozza di sangue che si allargava sotto di lui. Pianse disperatamente mentre uomini e donne di tutte le età cercavano di dare loro un primo soccorso. Mark sembrò cavarsela con un trauma cranico e qualche taglio. Per Rachel, però, non ci fu nessun dopo. La vita le era scivolata dalle mani, ancor prima che potesse aggrapparvisi. Passò un dito sopra i suoi occhi e li richiuse, consapevole che sarebbe stata l’ultima volta che li avrebbe visti.

Una lacrima cadde sul lenzuolo al termine del suo racconto. Non avrei mai nemmeno potuto immaginare quello che aveva passato Jason. Una mano mi copriva la bocca per la confusione, incredulità, tristezza. Adesso non ero più di fronte ad un Jason devastato e distrutto. Ero seduta, a pranzo con i miei genitori. Discutevamo sull'appartamento da affittare, le rette da pagare e quant'altro. Mia madre mi stava spiegando le principali pulizie da fare una volta arrivata all'appartamento, quando al telegiornale passarono la notizia di un tragico incidente in provincia. Cercai di ricordare i nomi. Rachel Hathaway e Mark Morris.
“Jason…io…mi dispiace” farfugliai tra i singhiozzi. Gli gettai le braccia al collo e lo strinsi a me. Tremava moltissimo e sudava freddo. “Sono qui” sospirai, “io non ti abbandonerò.”
Per un istante rimase impassibile, ma dopo le mie parole, ricambiò l’abbraccio, quasi soffocandomi. “Ross, Chanel, tutta la loro famiglia…” singhiozzò tirando su col naso, “mi odiano tutti, credono che sia tutta colpa mia. Non accettano il fatto che la loro figlia perfetta uscisse con quello stronzo. Erika io mi sento così in colpa!” urlo contro il tessuto della mia maglia. La sentivo umida, bagnata dalle sue lacrime.
“Jason non è colpa tua. Stavi cercando di salvarla” lo consolai. Sollevai una mano e iniziai ad accarezzargli i capelli, nel tentativo di calmarlo. Ogni tanto aveva degli spasmi involontari, avevo l’impressione che non piangesse da molto tempo. Sicuramente si era tenuto tutto dentro, come era suo solito fare. Le lacrime che adesso inondavano le sue guance erano quelle che si sono accumulate con il tempo, con il dubbio di non aver fatto la cosa giusta.
“Ma è morta!” ribatté colpendomi lievemente alla spalle. Si ritrasse, guardandomi con gli occhi di un bambino spaventato. “Ti ho colpita, st-sto diventando come lui” rabbrividì e balzò giù dal letto. Fece per andare alla porta, ma lo fermai. Posai una mano sulla sua guancia e lo costrinsi a guardarmi.
“Il mascara ti è colato lungo le guance” disse piegando le labbra in un impercettibile sorriso. Risi nel vederlo compiere quel gesto, cercai di toglierlo via con i polpastrelli. Jason passò il pollice appena sotto il mio occhio destro, asciugando una lacrima tardiva. Lo guardai negli occhi scuri, che in quell'attimo mi sembrarono riprendere vita. Liberi dalle lacrime, lasciavano guizzare fuori una sfumatura blu notte intorno alla pupilla. Mi alzai in punta di piedi e posai le mie labbra sulle sue. Era la prima volta che facevo la prima mossa, ma questo non mi diede alcun peso. Lui ricambiò il bacio, che sapeva di lacrime, di voglia di dimenticare e di speranza. Speranza per una vita che poteva ancora essere bella.
“Suppongo che tu abbia scelto me” disse in un sussurro. Sorrisi con le sue labbra sulle mie. “Avevo scelto te sin dall'inizio.”
Mi baciò ancora e ancora. La sofferenza evaporò dal suo animo e si dissolse nell'aria, alleggerendolo e liberandolo da quel macigno che si era portato con sé. 







































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Intanto vorrei ringraziare tutti coloro che hanno letto fin qui. Ve ne sono eternamente grata. In questo spazio volevo annunciarvi che mi prendo una pausa. Fra poco parto e vorrei riposarmi un po', non che sia uno sforzo, ma ho bisogno di riordinare le idee, visto che sto lavorando a ben due racconti per quando terminerò questo ( una long het ed una yaoi). Spero infine che il tanto atteso segreto non vi abbia delusi. Un abbraccio e a presto! Buone vacanze a tutti voi!

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Capitolo 11
*** Nuovo inizio ***




Jason's pov

La mattina seguente mi svegliai con Erika tra le braccia. I suoi capelli color del grano mi solleticavano il naso. La sua schiena era poggiata al mio petto. La sua mano stringeva la mia, come se non volesse lasciarmi andare. Stava attraversando un periodo difficile e la mia presenza non l’aveva di certo aiutata. Nonostante tutto, mi era rimasta vicina ed io non potevo fare altro che esserle molto grato per questo. Respirai lentamente e la sentii sbadigliare. Si mosse leggermente e si voltò a guardarmi. Ero già sveglio da una mezz'ora e la mia vista era ormai nitida e potei osservarla in tutta la sua semplice bellezza. “Buongiorno” sussurrò con la voce impastata dal sonno. Ricambiai il saluto e le sorrisi dolcemente.
***
Erano trascorsi cinque giorni da quella sera e la mia convivenza con Erika non era mai stata così piacevole. Dopo la scuola finalmente andammo a fare la spesa al supermarket in fondo alla strada e cominciammo a mangiare qualcosa di decente. Adam si era tolto di mezzo, aveva ormai capito che non c’era niente da fare: Erika era mia e lo sarebbe rimasta per molto tempo. Era una ragazza speciale e avrei fatto di tutto pur di non perderla.
Una mattina, mentre scendevamo le scale per andare a scuola, la signora Betty ci fermò proprio davanti l’ingresso. Ci disse che aveva chiamato gli operai per rimediare al danno causato qualche settimana fa e che avrebbe anticipato lei i soldi per i lavori. Erika protestò immediatamente, essendo una somma notevole, ma l’alternativa sarebbe stata chiamare i suoi genitori e l’idea di raccontargli tutta quella strana faccenda non l’allettava tanto. “La ripagherò fino all'ultimo spicciolo” le disse Erika stringendole le mani. Lei le sorrise e la congedò.
Il giorno dopo, Erika mi costrinse a chiarire con Coraline. Non era assolutamente nei miei piani, ma volevo farla felice e in quel momento mi sembrava la cosa giusta da fare. Decidemmo di incontrarci nella pasticceria della signora Sophia, perché, secondo lei, era un posto silenzioso e abbastanza tranquillo per poter parlare, ma la verità era che non voleva perdere l’occasione di gustare un’altra delle sue prelibatezze. Coraline arrivò con cinque minuti circa di ritardo. Respirava pesantemente ed una gocciolina di sudore le scivolava lungo la tempia. Si sedette accanto ad Erika tenendo lo sguardo basso. Si sfregava le mani ed abbozzò ad un saluto veloce. Era curioso come le cose cambiarono grazie ad Erika. Ripensando a qualche mese fa, non avrei mai immaginato di riuscire a spegnere la rabbia che montava in me ormai da troppo tempo. Erika fu l’acqua che spense il mio fuoco, il vento che allontanò le nubi nel mio cielo. In poco tempo era diventata una parte fondamentale della mia vita.

Dopo il primo bicchiere d’acqua, che la mia ragazza fece portare per Coraline, finalmente trovò il coraggio di guardarmi e di scusarsi. Con mia sorpresa accettai le scuse e le sorrisi, cercando di farle capire che non provavo più odio nei suoi confronti. Quando ci salutammo, mi ringraziò per averle dedicato il nostro tempo, dopodiché si allontanò verso la porta, facendo risuonare le campanelle sopra di essa. Sophia, con una penna tra i capelli raccolti in modo trasandato, passava il mocio sul pavimento. Un attimo dopo era sul bancone a lucidare il marmo bianco che rifletteva le luci del soffitto, poi spariva dietro una porticina, per poi tornare a vedere se avevamo bisogno di altro. Quel pomeriggio il negozio era deserto, c’eravamo solo noi e così decidemmo di restare un altro po’ per far compagnia alla proprietaria. Ad un tratto Erika si alzò e andò verso il bancone, chiamò Sophia e si propose per aiutarla.
“Dove è finita la commessa dell’altra volta?” chiese passando una pezza sulla lastra di vetro. “Si è licenziata qualche giorno fa. Partiva per il college e non poteva continuare a lavorare qui” rispose l’altra mentre si accasciava su una sedia. “Mi sono fatta vecchia” ironizzò. Erika rise ed io con lei. Fu in quel momento che vidi gli occhi di Erika illuminarsi. “Potrei lavorare io qui. Adoro questo posto e sarebbe un sogno poterci stare più tempo.”
Sophia sorrise e si tirò in piedi, camminò verso di lei e l’abbracciò. Erika, leggermente sorpresa, ricambiò l’abbraccio e le stampò un bacio sulla guancia. “Credo sia una buona idea.”

Prima di andare, le consegnò un grembiulino da indossare per il giorno successivo e ci salutò affettuosamente. Uscimmo dal negozio e le luci si spensero, lasciando la signora Sophia in penombra. Camminammo mano nella mano, le punte delle sue dita erano lievemente fredde e le sentivo scaldarsi sotto il mio tocco. “Sono contenta che tu abbia chiarito con Coraline” disse. “Io sono contento che tu abbia trovato un lavoro per ripagare il casino che hai combinato” risposi scoppiando a ridere verso la fine. A ripensarci non potei fare a meno di sorridere, solo Erika sarebbe stata capace di combinare certi guai. In quel preciso istante, iniziai a domandarmi quando avevo cominciato a provare un sentimento così forte nei confronti di Erika. Quando avevo cominciato a pensarla in ogni singolo secondo del giorno e della notte? Quando avevo cominciato a sorridere alla sua sola vista?
In inglese il termine ‘innamorarsi’ viene tradotto con ‘fall in love’, e se provassimo a tradurlo alla lettera sarebbe cadere in amore. Ecco, gli inglesi avevano capito tutto sull'amore. Io ero semplicemente caduto, precipitato in una dimensione parallela rispetto a quella in cui avevo vissuto per una buona parte della mia esistenza. Una dimensione dove non regnava solo la rabbia e la solitudine, un posto dove per una volta nella mia vita, mi sentivo di appartenere. Era sempre stato il mio obbiettivo principale trovarlo, non sentirmi più fuori posto, inadatto e poco voluto. Con Erika era cambiato il mio modo di percepire le cose, di vederle e riuscii persino ad apprezzare tutto ciò che prima non notavo minimamente.  Era cambiato il mio mondo, il mio modo di essere. Erika mi aveva sconvolto la vita e riuscì a portare con sé anche il suo sorriso, che sconvolse un cuore arrugginito.

Mi voltai a guardarla mentre queste parole riempivano la mia testa. I suoi capelli fluttuavano lievemente per via del vento gelido, gli occhi ridotti a due fessure. Stava arrivando l’inverno e con esso anche la neve. Adoravo la neve e non potei fare a meno di immaginare Erika tra il candore dei primi fiocchi, magari a passeggiare per le vie di Londra alla ricerca di qualche regalo da fare, oppure a costruire un pupazzo di neve al parco. I bambini si sarebbero avvicinati sentendo il melodioso suono della risata di Erika e ci avrebbero aiutati. Davo per scontato che ci sarebbe stata nel mio futuro, che mi sarebbe stata vicina per sempre. Poteva sembrare prematuro pensare al futuro così presto, ma io non riuscivo a non farlo. L’amavo e la cosa che più desideravo era continuare a farlo per il resto della mia vita.

Quando tornammo a casa, decidemmo di andare subito a dormire. Non era stata una giornata troppo impegnativa, ma sentivamo comunque una stanchezza che ci portò dritti in camera. Mangiucchiammo un paio di biscotti al cioccolato per poi andare a letto. Quella sera Erika mi fece una proposta che mi sorprese. “Possiamo dormire nello stesso letto, se vuoi” erano queste le parole che pronunciò quando entrai in camera. Le aveva dette così dolcemente e con una tale ingenuità che non riuscii a dirle di no. Certo, avevamo già dormito insieme una volta, ma adesso era diverso, sapevo ciò che provava per me e aveva capito che ormai mi ero lasciato andare, completamente preso da lei. Ci sdraiammo sul fianco e ci coprimmo con la coperta. L’abbracciai e affondai la testa nei suoi capelli morbidi e profumati, riempiendomi i polmoni della sua essenza. In quel momento non desideravo fare altro, mi bastava toccare la sua pelle per sentirmi pieno, felice, sereno. Non avevo bisogno di nessun altro. Avevo tutto ciò che amavo tra le mie braccia e non avrei lasciato che nessuno mi rubasse ciò che mi è era sempre appartenuto. E con questi pensieri mi addormentai, così come mi ero svegliato la mattina che segnò il mio nuovo inizio.

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Capitolo 12
*** Cambio di programma ***


Erika's pov

Stavo dormendo accanto a Jason quando squillò il mio cellulare. Sollevai il braccio del mio ragazzo dalla mia vita e mi alzai. Camminai lungo il corridoio, appoggiandomi alle pareti. Barcollando e sbuffando per il fastidio alle orecchie, giunsi in cucina ed afferrai il mio cellulare sul tavolo. Risposi senza guardare.

"Pronto?" dissi con voce rauca.

"Buongiorno, Erika! Sono la mamma!" urlò. Istintivamente allontanai il cellulare dall'orecchio e feci una smorfia di dolore.

"Mamma" sospirai, "buongiorno."

"È successo qualcosa? Ti sento un po' giù..." Iniziò a preoccuparsi ed a sommergermi di domande. La bloccai con un 'sto bene, tranquilla' e sembrò rassicurarsi.

Passammo al telefono circa mezz'ora. Mi raccontò della vita in America, di come procedeva il lavoro di mio padre e della sua iscrizione ad un corso di yoga. Mi riempì la testa di parole che ascoltai solo in parte. Quando mi chiese di me e della scuola, fu il mio turno di annoiarla. Le raccontai tutto quello che mi era accaduto, tralasciando ovviamente gli episodi legati a Jason ed Adam.

Quando riattaccai ed alzai lo sguardo, mi accorsi di Jason, appoggiato alla parete. La maglietta stropicciata, i pantaloncini lasciavano scoperti i polpacci, rivestiti da un leggero strato di peluria. I suoi occhi, che in quel momento mi parsero blu, incontrarono i miei. Gli sorrisi e mi avvicinai. Gli misi una mano sulla guancia e lo attirai a me. Lui mi mise le braccia attorno la vita. Ci baciammo. Poi si staccò e mi disse: "Ti ricordi quando ti dissi che la tua compagnia era quasi gradevole?"

Annuii, cercando di capire dove volesse arrivare.

"Mentivo. Era molto più di un quasi" mi sorrise. Io arrossii e abbassai lo sguardo. Lo abbracciai e nascosi il mio viso nel suo petto.

Volevo dirglielo. Volevo con tutto il cuore dirglielo. "Ti amo" sussurrai. Il petto mi esplose e sentii il mio cuore perdere un battito. "Anche io, Erika" disse lasciandomi un bacio sui capelli. In tutta la vita non ero mai stata così sincera con una persona.

In quel preciso istante il mio cellulare ricominciò a squillare. Sbuffai e Jason si avvicinò al telefono, che avevo lasciato sul bancone. Senza guardare il display, accettò la chiamata e rispose. Io lo guardai sorpresa, cercando di riappropriarmi del mio cellulare. Iniziai a ridere mentre lui discuteva con uno sconosciuto. Camminava per la casa, agitando le mani e conversando energicamente. Cercai di capire con chi stesse parlando e, quando finalmente Jason attivò il viva-voce, capii di chi si trattava.

Zio Peter stava al gioco, assecondando Jason nella sua strampalata lamentela su noi donne e i nostri infiniti disagi mentali. Ridevo. Ridevo di gusto nel vederlo così...diverso. Era cambiato dalla prima volta che lo avevo incontrato e non potei fare a meno di compiacermi. Era un po' anche merito mio. "Adesso basta. Fammi parlare con mio zio" dissi strappandogli il cellulare dalle mani. "Simpatico, il ragazzo" esclamò in tutta risposta. "Mi piace!" aggiunse. 

"Come va, zio?" gli chiesi. E poi, come al solito, iniziò a raccontarmi della sua nuova conquista. Una certa Katheryn, una rossa tutto pepe. L'aveva conosciuta all'aeroporto. Peter era di ritorno da uno dei suoi soliti viaggetti in giro per il mondo e si era imbattuto in questa donna al ritiro bagagli dell'aeroporto di Londra. Lei aveva una valigia davvero pesante e mio zio si era gentilmente offerto di aiutarla a portarla fino al parcheggio. Una cosa tira l'altra e boom! Mio zio aveva trovato l'ennesimo amore della sua vita!

Lo ascoltavo cercando di essere attenta, ma mi risultò parecchio difficile con Jason che mi punzecchiava ininterrottamente. Quando infine mi annunciò che sarebbe venuto a trovarmi, potei concludere la telefonata e dedicarmi alla preparazione della colazione. 
"Dovresti sbrigarti o arriveremo in ritardo." Jason stava ancora piluccando qualche fiocco dalla scatola di cereali, sorseggiando ogni tanto del succo d'arancia. Io riponevo velocemente le tazze accanto i fornelli, che avrei lavato nel pomeriggio. Buttai l'occhio sull'orologio ed incitai Jason ad affrettarsi. Era ancora in pigiama e con tutta calma si dirigeva in bagno. "Che hai intenzione di fare oggi?" gli chiesi esausta. Lui alzò la testa e mi osservò attraverso il riflesso dello specchio. "Oggi non andremo a scuola" mi informò, sollevando un angolo della bocca. "Come sarebbe?" dissi sbigottita. "Ho altri piani" aggiunse. 

Dopodiché si avvicinò e mi chiuse la porta in faccia con un sorriso dannatamente irritante. In quel momento pensai che se non fosse stato il mio ragazzo, lo avrei picchiato senza problemi.

Dopo circa venti minuti fummo fuori dal palazzo. Non avevo la più pallida idea di dove stessimo andando e non nascondo che trovavo la cosa abbastanza intrigante.

***
Rimasi sorpresa alla vista dell'insegna dell'ospedale. Lo seguivo con la confusione dipinta in volto. Mi tirava leggermente, facendomi fretta e continuando a ripetere che l'orario delle visite stava per terminare. Giungemmo all'edificio e, non appena le porte automatiche si aprirono, Jason fu accolto dalle infermiere che stavano alla reception. "Jason, da chi mi stai portando?" gli domandai, trotterellando per stare al passo veloce ed ampio del ragazzo. "Da una persona molto speciale" disse passando in rassegna le etichette di ogni singola porta. Di colpo mi apparse l'immagine di una donna in mente. Forse voleva farmi conoscere sua madre. Una madre malata. Questo mi fece venire una forte ansia, che continuava a montare man mano che Jason si avvicinava al numero tanto ricercato. "Ci siamo" annunciò, bussando. Feci un respiro profondo e Jason aprì la porta. Chiusi gli occhi e sperai con tutta me stessa di non fare brutta figura. "Fratellone!" sentii esclamare da una voce dolce ed infantile. Jason lasciò la mia mano e si lanciò verso il bambino, che stava sul letto. Rimasi accanto l'ingresso, lasciando ai due fratelli il loro momento di ricongiunta. Provai un forte senso di tenerezza nel vedere un Jason così affettuoso. Confesso che stava per scapparmi una lacrimuccia. 
"Erika, vieni" mi chiamò con un gesto della mano. 
Mi avvicinai e abbozzai un sorriso al bambino. "Ciao" gli dissi, "io sono un'amica di Jason" aggiunsi. 
"È la mia ragazza" mi corresse con orgoglio il grande. Il piccolo mi sorrise amabilmente e mi invitò a sedermi. "Come hai fatto?" mi chiese mettendo una manina sul viso per coprirsi la bocca e non farsi sentire dal fratello. Risi e gli sussurrai all'orecchio: "Magia." Ridemmo e guardammo Jason con un'aria complice. "Bravo, Jason! È proprio carina" gli disse e mi prese la mano. "È così morbida e profumata."
Sorrisi in imbarazzo e guardai il bambino. 
Rimanemmo con Ben, così mi disse di chiamarsi, e parlammo per una mezz'ora abbondante. Al termine della visita, lo salutai e mi saltò addosso quando gli promisi che sarei tornata. 
Uscimmo dall'ospedale e Jason mi abbracciò. Mi strinse più forte del solito e mi baciò con tale foga che mi spinse a domandargli: "Va tutto bene?"
"Sono solo felice di averti incontrata." Aveva sicuramente superato il suo limite di dolcezza giornaliero, il che mi indusse a credere di aver veramente compiuto una magia.
"Adesso cosa hai in mente di fare?" 
"Adesso si va al mare." 
E con queste parole mi lasciò per l'ennesima volta senza parole.

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Capitolo 13
*** Tell me something good ***


Erano le undici e trentadue quando il nostro treno cominciò a muoversi dalla stazione di London Bridge, diretto a Brighton. Ascoltavo distrattamente lo stridere delle ruote sui binari in acciaio, man mano che le immagini dal finestrino scorrevano davanti ai miei occhi. Lentamente, il treno acquistò velocità e mi ritrovai a stringere insistentemente il biglietto che avevo ancora in mano. Guardai Jason, che sedeva di fronte a me, e gli dissi quanto tempo sarebbe passato prima di arrivare alla località balneare di Brighton. Ci voleva solo un'ora per raggiungerla, così scivolai sul sedile e provai a rilassarmi. Poggiai il gomito sul bracciolo ed il mento era sorretto dal mio palmo. Osservai Jason con scrupolosa attenzione. Indossava dei jeans sgualciti ed una felpa grigia, che lasciava intravedere una maglia nera in cotone. Mi meravigliai di scoprire piccoli particolari dei quali non mi ero proprio accorta: appena sotto la clavicola destra, vi era una piccola voglia di un tono più scuro rispetto alla sua carnagione e poi, grazie ad un raggio di sole, scorsi una piccola cicatrice che attraversava il suo sopracciglio sinistro. Mi domandai come se la fosse procurata, forse qualche caduta da bambino o qualche rissa in uno di quei vicoletti bui e sudici. La sua mano, coperta per metà dal polsino della felpa, si mosse e con l'indice si toccò le labbra e si pizzicò il labbro inferiore. Si inumidì la bocca con la lingua e si grattò proprio la piccola cicatrice. Sospirò e poi esclamò:

"Hai intenzione di fissarmi per tutto il viaggio?"

Avvampai e mi ricomposi.

"Stavo solo osservando il piccolo segno che hai sul sopracciglio sinistro. Come te lo sei fatto?" dissi, incrociando le gambe sul sedile.

Sbuffò con un ghigno divertito sul volto e mi guardò. "Risale a dieci anni fa. Ero sullo scivolo e, scendendo giù, persi l'equilibrio e andai a sbattere contro una carrozzina. Mi procurai un taglietto proprio qui", si indicò il viso, "e dovettero mettermi tre punti" disse, mettendosi dritto. "Senza anestesia" aggiunse, come se avesse voluto vantarsi.

"Ti ci vedo nei panni di bambino spericolato" sorrisi, dando un'occhiata fuori.

"Lo ero eccome! Pensa che una volta avevo quasi rischiato di bruciare i capelli a mia madre! Hai presente quei programmi dove la prima avvertenza è quella di non ripeterlo a casa? Ecco, per me era più un 'Fallo, ci sarà da divertirsi'." Scoppiò a ridere e mi resi conto che era la prima volta che mi parlava della sua infanzia.

"Tu invece? Dimmi qualcosa."

Sobbalzai per l'assestamento del treno sulle rotaie. "Be', non c'è molto da sapere. Ero piuttosto noiosa da bambina." Sapevo che stava per fare qualche commento sarcastico sul mio comportamento al quanto 'normale' per lui, così mi affrettai ad aggiungere: "Però una volta, all'età di sei anni, caddi dalla bicicletta e mi sbucciai un ginocchio. Da quel momento in poi, non sono più salita su una bici, tantomeno imparare ad andarci" dissi, vergognandomi subito dopo. Certe volte, pensavo io stessa di essere una stupida.

Non rise, ma i suoi occhi mi lasciarono intendere che dentro la sua testa c'erano parecchi commenti sarcastici e poco carini per me. Mi limitai a lasciare scorrere e mi girai verso il vetro, osservando l'aeroporto che ci accingevamo a superare.

Poco dopo mi appisolai. Jason mi svegliò verso le dodici e mezzo con una leggera scrollatina. Alzai il capo e guardai il quadrante del mio orologio, poi gli chiesi se eravamo arrivati. Jason mi aiutò a sollevarmi dal sedile e prese la mia borsa.

Con un rumore metallico ed automatico le porte si spalancarono ed ondate di persone scesero dalla carrozza. Ci facemmo strada tra la piccola folla, sussurrando scuse, e ci ritrovammo baciati dai raggi del sole. Mi tolsi della polvere immaginaria dai pantaloni rossi e presi la borsa. Mi guardai intorno, ma non vidi il mare.

"Jason, dove siamo?" gli chiesi, sbadigliando e sistemandomi la giacca. Ero ancora un po' intontita.

"Siamo alla Brighton Railway Station" disse, facendo mezzo giro su stesso. "Per raggiungere la spiaggia, dovremo percorrere questa strada fino in fondo" aggiunse indicando la Queens Road. Misi la borsa sotto il braccio e gli feci cenno di andare.

Mi prese la mano e mi fermò. Da qui la strada non sembrava molta, ma Jason mi informò che era poco più di un chilometro e mezzo di distanza. Gli chiesi allora con quale mezzo avrebbe preferito raggiungerla e mi indicò soddisfatto una fila di biciclette e tandem dall'altro lato della strada. Lo guardai riluttante e mi ostinai a dirgli di no, ma alla fine mi convinse. Pagammo la quota per un paio di ore e ci avvicinammo ad un tandem di un colore blu metallico, leggermente arrugginito dagli agenti esterni.

"Tu non dovrai fare niente. Dovrai solo stare attenta a non farci cadere" ridacchiò aiutandomi a salire sul secondo sellino. "Metti i piedi su questa barra di ferro e appoggia le mani sul manubrio. Al resto ci penserò io."

Strinsi più forte che potevo il manubrio ricoperto di gomma e lo guardai con un leggero filo di timore cucito nel mio sguardo. "Sta' tranquilla" mi rassicurò, baciandomi la fronte.

Mi guardò divertito e si mise sul sellino, poggiò i piedi sui pedali e partì. Avvertii una fitta alla bocca dello stomaco e strinsi ancora di più le dita attorno al manubrio. Le mie nocche diventarono bianche.

"È tutto a posto?" mi chiese, girando leggermente la testa per guardarmi con la coda dell'occhio. Feci cenno di sì e lo invitai a guardare la strada che divoravamo ad una velocità spedita.

Una leggera brezza ci scompigliava i capelli e mi costringeva a ridurre gli occhi a due fessure. Il sole si era momentaneamente nascosto dietro una grande nuvola.

Lentamente, potei cominciare a scorgere l'orizzonte ed un velo di mercurio che si estendeva per chilometri. Il mare era calmo e potevo intravedere qualche gabbiano qua e là, alla ricerca di qualcosa da mangiare.

Quando arrivammo in prossimità della spiaggia, Jason mi fece scendere per prima, per evitare di perdere l'equilibrio. Mi sistemai la maglia e lo guardai sollevare una gamba e ruotare lievemente il busto. Assicurò il tandem con una grossa catena ad un palo della luce sul marciapiede del lungomare e mi tese la mano. La strinsi e scendemmo dei gradini che ci diedero accesso alla spiaggia. Non c'era la sabbia, bensì vi era un'infinita superficie di ciottoli di varie dimensioni. Avanzammo ancora un po', con il rumore dei ciottoli da sottofondo e lo scrosciare delle onde che si infrangeva sulla battigia. Il verso di un gabbiano squarciò l'aria ed una brezzolina marina mi accarezzò il viso. Strinsi le dita attorno alla mano di Jason e feci un lungo respiro. "Fermiamoci qui" dissi infine.

Mi accovacciai sui ciottoli e mi lasciai avvolgere dal suo braccio, che si andò a posare sul mio bacino. Appoggiai la testa sulla sua spalla e gli accarezzai una coscia, coperta dal jeans sbiadito. Respirai il suo profumo e mi meravigliai di quanta bellezza mi stava intorno.

"Non sono mai stato qui con una ragazza" disse con voce rauca, come se si fosse appena svegliato da un lungo letargo. Rimasi in silenzio, nell'attesa che continuasse.

"Questo posto lo conosciamo solo io e Ben. Andiamo qui le rare volte che mi permettono di portarlo via dall'ospedale. È sempre felice di venirci. Probabilmente perché gli ricorda le volte che ci andavamo con tutta la famiglia."

Fece una breve pausa, come se stesse cercando le parole adatte da dirmi. "Fu qui che appresi la notizia del divorzio dei miei. Erano convinti che portarmi in un luogo spensierato, potesse attutire la brutta notizia. Purtroppo per loro, non ha fatto altro che coprire tutti i bei ricordi che avevo."

Un groppo alla gola mi impediva di deglutire. La sua mascella si serrò e potei vedere nei suoi occhi un'ombra che gli rabbuiò lo sguardo. Con la mano libera, raggiunsi il suo braccio e gli afferrai le dita e le allacciai alle mie. "Mi dispiace" riuscii a sussurrare. La voce mi uscì tremolante ed insicura. Poi mi presi di coraggio e gli chiesi:

"Allora perché mi hai portata qui?"

"Oggi è un giorno molto importante per me. Ha segnato la fine e l'inizio di tutto e ci tenevo che tu ne facessi parte. Ti ho fatto conoscere Ben e ti ho portata qui semplicemente per dimostrarti che, per quanto possa sembrare il contrario, ci tengo a te e non farei mai niente per farti soffrire" sussurrò queste parole al mio orecchio ed ad ogni sospiro, il mio cuore si sciolse. Lo abbracciai e sorrisi contro il tessuto della sua felpa. Lui mi passò una mano tra i capelli e mi baciò la chioma dorata. Poi la sua mano corse lungo la mia schiena e si venne a depositare di nuovo sui miei fianchi.

"Grazie" dissi un secondo prima di baciarlo.

"Erika?"

"Mmh" mugugnai.

"Raccontami qualcosa di bello" disse.

Quando incrociai il suo sguardo, mi resi conto che i suoi occhi nascondevano una lieve commozione. Mi intenerii a quella vista e scavai nella mia mente per trovare qualcosa da dirgli.

Gli raccontai di me, di una giovane ed insicura ragazza che si era innamorata del vicino di casa scorbutico. Di lui e dei suoi modi bruschi, ma che nascondevano una grandissima tenerezza. Di noi e delle nostre litigate, dei guai combinati e di quella magica sera dalla quale tutto era cominciato.

Mentre parlavo, si spostò e poggio la testa sul mio grembo e con calma iniziai ad accarezzagli i capelli. Sarei rimasta in quella posizione per il resto della mia vita. Volevo assorbire ogni singola sensazione che provavo solo per ricordarmi quanto ero stata fortunata ad incontrare quel fantastico ragazzo che adesso avevo il piacere di stringere tra le mie braccia.

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Capitolo 14
*** Motociclette e pioggia ***


 

 

Tranquilli miei cari lettori, non ho intenzione di abbandonare la storia, ma da un po' mi frulla in mente l'idea di narrare la storia d'amore tra Sam e Luke, anche perché con la coppia principale siamo ad un punto abbastanza tranquillo. Naturalmente durante questa parte del racconto, i personaggi di Erika e Jason saranno comunque presenti, ma ricopriranno un ruolo secondario. Invece, gli altri personaggi,  già conosciuti nei precedenti capitoli, acquisteranno maggiore importanza: come Chanel e Christian. È anche un modo interessante per conoscere meglio tutti i personaggi che fin ad adesso hanno ricoperto un ruolo decisamente minimo. Mi piacerebbe approfondirli e condividere con voi tutti i loro pensieri. Successivamente, se questa idea vi sarà di gradimento, riprenderò a scrivere di Erika e Jason, che nel frattempo saranno giunti ad un punto decisivo per loro relazione. 

Detto questo, spero che siate d'accordo con me.

***

La pioggia batteva sull'asfalto mentre il vento mi costringeva a tenere il viso rivolto verso il basso. Le mie scarpe erano completamente zuppe e sentivo che la mia giacca di jeans non mi avrebbe tenuta asciutta ancora per molto. Pregai Luke di sbrigarsi, ma la mia voce era completamente coperta dal motore ruggente della sua moto. Non mi sono mai piaciute, ma, come tutte le altre cose che detestavo che lui invece adorava, cercavo di non darlo a vedere soprattutto in sua presenza. Strinsi ancora di più le braccia attorno alla sua vita. Il suo giubbotto di belle era completamente fradicio e appiccicaticcio. Sopra la mia testa, la pioggia batteva ancora più forte sul casco. Le automobili attorno a noi sfrecciavano da tutte le parti, schizzando acqua grigiastra ovunque. Di colpo ci fermammo ad un semaforo. Luke imprecò verso l'automobilista davanti a noi che si era fermato troppo improvvisamente. Lo stridere delle ruote sull'asfalto mi censurò il tutto. Poggiò il piede per terra e sollevò il mento nell'attesa del verde. Pochi secondi dopo eravamo ripartiti. Ormai diventato parecchio impaziente e bagnato fino alle ossa, accelerò e agilmente sorpassò le auto che ci stavano davanti.

"Non credi di andare troppo veloce?" chiesi quasi urlando. Ero ad un fascio di nervi. L'ansia era ormai troppa e tentai con tutta me stessa di non sbraitare contro di lui.

"So quello che faccio, piccola" rispose in tono spavaldo.

Un automobilista ci regalò una miriade di soprannomi coloriti quando Luke gli tagliò la strada nell'imboccare una stradicciola parallela. Le ruote non aderivano bene al terreno accidentato.

"Accidenti" esclamava lui ogni volta che beccava una buca.

Quando arrivammo al luogo dell'appuntamento, non mi trattenni e tirai un sospiro di sollievo. Scesi dalla moto e mi sistemai i pantaloni assolutamente fradici. Erano più aderenti del solito a causa della pioggia e, pur non potendomi vedere, ero sicurissima che il mio trucco si fosse trasformato in una sorta di maschera spettrale. Ero inorridita all'idea. Sbuffai e lasciai il casco a Luke, che lo ripose nel vano sotto il sedile. Poi si avvicinò con una sua solita andatura sciolta e sicura di sé. Mi cinse i fianchi e i braccialetti di cuoio, che portava sempre, mi solleticarono lievemente. Odorava di fumo e un altro aroma altrettanto pungente e decisamente invadente.

Quella sera Luke avrebbe dovuto presentarmi al resto dei suoi amici. Ne conoscevo già qualcuno, ma troppo superficialmente per i suoi gusti. Entrammo nel locale e mi tolsi la giacca di jeans. Luke sollevò un braccio in segno di saluto e sorrise apertamente. Guardai il gruppo di ragazzi in fondo alla sala e tentai di sembrare a mio agio.

"Lei deve essere la famosa Samantha" disse uno dei ragazzi. Un piercing al labbro inferiore e due occhi di un azzurro gelido. "Luke ci ha parlato molto di te, ma non ci aveva detto che eri così..." cercò la parola adatta, "carina."

Non sapevo se prenderlo come una sorta di goffo complimento o come un insulto. Di certo ero la più giovane del gruppo.

"Preferisco essere chiamata 'Sam'" replicai senza pensarci.

"Andiamo, Cameron!" lo riprese il mio ragazzo poggiando un braccio sulle mie spalle.

Il ragazzo alzò le mani in segno di scuse e si sedette. Fu la volta di una tipetta piuttosto minuta, ma col viso già segnato dal fumo e notti passate in giro per i locali: "Scusalo" ridacchiò con un sorrisetto tagliente, "fa sempre così con i nuovi arrivati" disse con un certo tono confidenziale.

Rapidamente mi passarono davanti volti e nomi. Chiacchiere e grasse risate. Erano passate un paio di ore e sempre di più avvertivo la sensazione di sentirmi parte integrante della tappezzeria che stava alle mie spalle. Ogni tanto Luke mi puntava i suoi occhi verdi per assicurarsi che non me ne fossi andata. Sapeva benissimo che non ero dell'umore. Ogni tanto mi versava della vodka nel bicchiere che mi stava davanti. Per un primo momento preferii non bere, ma col passare del tempo iniziai a farlo, anche se sapevo benissimo che non ero per niente brava a reggere l'alcol. Dopo un paio di bicchierini, cominciai finalmente a sentirmi a mio agio.

Era mezzanotte e tre quarti quando il proprietario del locale ci cacciò via. Ci ritrovammo sbronzi e spensierati in mezzo alla strada. Qualcuno vomitò, altri si trascinavano per i marciapiedi ridacchiando e delirando. Io ero appesa al braccio di Luke, come se fosse un appiglio al quale aggrapparmi per evitare di cadere. Si accese una sigaretta e si sedette sul portico di una vecchia casa in vecchio stile trascinandomi con sé. Lo osservai fumare. Tirò il fumo e lo trattene nei polmoni, poi lo rilasciò colorando l'aria, satura di umidità. Mi appoggiai alla sua spalla e chiusi gli occhi. E come se fosse un gesto automatico, mi avvolse con un braccio e mi strinse a sé.

"Grazie per questa sera. So che non sono quel tipo di gente che frequenti, ma ho apprezzato davvero tanto" mi ringraziò e mi baciò la fronte. La voce rauca ed incredibilmente dolce.

Un altro soffio grigio.

"È meglio che ti accompagni a casa" mi disse quando finì di fumare la sua Marlboro. "Non vorrei aggiungere anche l'averti riportata a casa tardi alla lista di tuo padre. Quell'uomo mi odia!" rise e mi porse una mano per aiutarmi ad alzarmi. Sorrisi e ascoltai ammaliata il suono della sua risata.

Ci incamminammo verso la motocicletta e non potei fare a meno di pensare che, dopo tutto, quell'ammasso di ferraglia non era poi così male.

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