I Signori del Terremoto

di Piperilla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il salto ***
Capitolo 2: *** I Signori del Terremoto ***
Capitolo 3: *** I pericoli dei pregiudizi ***
Capitolo 4: *** La forza degli ideali ***
Capitolo 5: *** Il Dio degli Alberi ***
Capitolo 6: *** Le rivelazioni in un addio ***
Capitolo 7: *** Il Dio della Guerra ***
Capitolo 8: *** La Voce ***
Capitolo 9: *** Oltre le mura ***



Capitolo 1
*** Il salto ***


Quell’anno il clima si stava dimostrando clemente, con gli abitanti di Rocca Arsa. A dispetto del nome, infatti, era capitato spesso che in quel paesino della Marsica le temperature non salissero mai granché, neanche d’estate. Niente di strano, a ben vedere, visto che quel minuscolo agglomerato di case era inerpicato sugli Appennini abruzzesi a milletrecentoventisette metri d’altitudine e ombreggiato, da un lato, da un picco ancora più alto.
   Gli abitanti – perlopiù discendenti di chi vi aveva risieduto stabilmente e che tornavano lì nei fine settimana e durante le vacanze – erano quindi stati presi alla sprovvista dai quasi trenta gradi che ogni giorno riscaldavano quell’aria secca e pura, rendendo il paese una piacevole oasi confronto alla canicola estiva tipica delle grandi città che si erano lasciati alle spalle.
   Federica e Antonia, nonostante avessero compiuto ventidue anni, avevano conservato il gusto tutto infantile per le arrampicate sulle rocce appuntite che spuntavano un po’ ovunque nel paese. Rocca Arsa, infatti, nonostante le dimensioni ridottissime poteva vantare un’antica fortificazione medievale parzialmente scavata nella roccia oltre a una chiesetta costruita nel Rinascimento: una piccola perla nascosta tra i boschi dell’Abruzzo e sconosciuta ai più.
   Le due ragazze amavano quel posto: erano cresciute trascorrendo lì tutte le vacanze, passando il tempo con i vecchi giochi di una volta, e quando erano alla Rocca – come il paesino veniva chiamato con semplicità dai nativi – smettevano in parte i panni tipici del ventunesimo secolo per tornare ad attività come la morra e la ruzzica insieme a tutti gli altri. Dunque non era inusuale vederle in jeans e scarpe da ginnastica mentre passeggiavano per la Rocca o, come in quel momento, attaccavano la ripida salita che portava al punto più alto del paese, dove si trovava la chiesa.
   Da lassù, la vista era mozzafiato: da un lato svettava Ombrosa, la montagna che sorgeva a una manciata di chilometri da Rocca Arsa e dove tutti si recavano per fare passeggiate nei boschi, andare a cavallo o organizzare falò e picnic; dall’altro si stendeva una piccola vallata di campi arati punteggiata da tanti altri paesi più o meno piccoli, che di notte brillavano come le stelle nel cielo terso sopra di loro. In quell’angolino sperduto di mondo c’era la pace, e nessuno di quelli che vi si recava regolarmente rimpiangeva il tempo passato là: potendo scegliere tra Rocca Arsa e i viaggi in altri luoghi del mondo, molti avrebbero scelto sempre la Rocca.
   In effetti, valeva la pena affrontare quella salita – breve ma tutt’altro che semplice – solo per quella vista spettacolare. Antonia ne era particolarmente convinta: difatti quello era il suo posto preferito, dove andava almeno una volta al giorno e di cui sentiva la mancanza quando tornava alla vita di tutti i giorni, lontana dall’Abruzzo. Anche Federica la apprezzava, ma c’erano giorni in cui la fatica di quella salita l’avrebbe scoraggiata, se non ci fosse stata la sua amica a trascinarla.
   Quel dieci di Agosto era proprio uno di quei giorni.
   «Tonia, perché stiamo salendo?» si lagnò Federica.
   «Lo sai perché» rispose placida l’altra.
   «Ma dovremo tornarci stasera per vedere le stelle cadenti, e io sono già stanca!» ansimò Federica. «Vedi? Mi manca già il fiato!»
   «Non si direbbe, Fede, visto il vigore con cui ti lamenti!» la prese in giro Antonia. «Zitta e sali: siamo quasi arrivate».
   Cinque minuti più tardi le due ragazze ansimanti osservavano il paesaggio dalla porta sbarrata della chiesetta, rabbrividendo appena al venticello fresco che soffiava lassù.
   «Non mi stanco mai di questo posto» mormorò Antonia.
   «Neanch’io» rispose Federica, «ma della salita per arrivare, sì!».
   La sua amica sorrise. «Andiamo sul promontorio» propose, accennando con la testa a un punto dietro di loro. Attaccata alla chiesa, su uno sperone di roccia alto qualche metro, c’era una piccola costruzione abbandonata che nelle intenzioni di chi l’aveva costruita avrebbe dovuto fungere da sagrestia: una parte della roccia era rimasta libera, e capitava spesso che qualcuno si arrampicasse fin lì, specialmente di notte, quando la totale assenza di luci artificiali permetteva di osservare perfettamente le stelle.
   Le ragazze si fecero strada attraverso le rocce disseminate sul ripido e dissestato viottolo che costeggiava lo sperone e si arrampicarono sull’ultimo tratto, aggrappandosi con le mani alle sporgenze e mettendo con sicurezza i piedi nelle fessure naturali.
   Adesso che erano davvero nel punto più alto del paese e non potevano salire più di così, entrambe sorrisero: ogni volta che si inerpicavano fin lassù si sentivano come se avessero espugnato e conquistato una cittadella fortificata. Eppure, Federica se ne accorse quasi con orrore, Antonia non era ancora del tutto soddisfatta.
   Quella sorta di promontorio in miniatura era, nella sua porzione non occupata dalla sagrestia, lungo circa sei metri e largo otto; una fascia larga tre metri e mezzo e coperta da un cortissimo strato d’erba precedeva un avvallamento profondo più di due metri e largo uno e mezzo, oltre il quale, sull’ultima porzione di pietra, crescevano piccole macchie di fiori variopinti. Antonia amava quei fiori, e spesso si calava giù per quella depressione del terreno per poi risalire scavalcando massi e rocce; ma quel giorno sembrava avere altri piani, a giudicare da come soppesava quel piccolo dirupo con lo sguardo.
   «Vuoi andare di là, vero, Tonia?» le chiese scoraggiata Federica.
   «Sì e no» rispose Antonia, continuando a osservare con aria meditabonda la sponda opposta. «Non ho voglia di scendere e arrampicarmi, e poi rifarlo per tornare indietro»
   «E allora?» insisté l’altra, non capendo dove la sua amica volesse andare a parare.
   «Allora voglio provare a saltarlo» fu la replica di Antonia.
   «Vuoi saltare? Ma sei impazzita?» protestò Federica. «Se non ci arrivi, se cadi lì sotto, rischi come minimo di romperti una gamba, se non peggio!».
   Antonia si strinse nelle spalle. «Dai, Fede, da quando sei diventata così fifona? C’è spazio sufficiente per la rincorsa e per l’atterraggio da tutte e due le parti. Che ci vuole?»
   «L’incoscienza» brontolò la sua amica. «O la totale assenza di spirito di sopravvivenza. O entrambi!».
   L’altra ragazza indietreggiò fin dove poteva, incurante delle parole di Federica. «Dai, vieni qui: salteremo insieme».
   «Certo» disse sarcastica l’altra. «Morire insieme o restare entrambe ferite e bloccate in quell’avvallamento è proprio in cima alla mia lista delle cose da fare!». Antonia la guardò con occhi imploranti e Federica sbuffò. «Va bene, d’accordo, vengo» cedette. «Ma sappi che se moriamo, ti ammazzo!».
   «Non essere così tragica: non moriremo» la blandì Antonia mentre Federica la affiancava. «Vedrai che dopo mi ringrazierai: quel pezzetto di terra al di là della voragine è un mondo diverso».
   Federica alzò gli occhi al cielo. «Saltiamo, prima che io cambi idea» grugnì.
   Le due ragazze si scambiarono uno sguardo prendendo un respiro profondo, corsero verso la buca e arrivate sul bordo si tuffarono nell’aria con tutta la forza che avevano.

*

Nel momento del salto, Antonia e Federica avevano istintivamente chiuso gli occhi; per un attimo avevano temuto di non farcela, di cadere e sentire l’impatto con le rocce appuntite del fondo della depressione, invece erano atterrate sul terreno duro ma privo di asperità. Nonostante l’assenza di pietre, però, l’atterraggio non era stato indolore: le due rimasero sdraiate a terra, gli occhi serrati mentre mugugnavano e si tastavano le parti del corpo indolenzite dal colpo.
   Quando finalmente si decisero a riaprire gli occhi, impiegarono qualche istante per registrare un dettaglio bizzarro e tutt’altro che trascurabile: sopra di loro, invece del cielo sereno d’agosto, si stendeva una cupola di rami e foglie attraverso cui la luce del sole filtrava in sottili lame dorate.
   Ancora stordite, si rialzarono. Si trovavano in un bosco, e ovunque volgessero lo sguardo vedevano file infinite alberi altissimi che si innalzavano verso il cielo per metri e metri, intervallati da cespugli e piccoli arbusti: l’insieme era così armonico e regolare, anche da un punto di vista geometrico, da far pensare che fosse tutta opera dell’uomo e che qualcuno avesse preso le misure prima di mettere a dimora tutte quelle piante. Il terreno era secco e polveroso; l’erba cresceva a chiazze, stentando a sopravvivere in quel caldo secco ma non per questo meno spietato, e l’intera scena sembrava dipinta nei toni del marrone.
   «Oh Dio, Tonia, che…che succede?» balbettò Federica, guardandosi intorno. «Questa non è Rocca Arsa, non è il picco accanto alla chiesa…noi…che è successo?»
   «Non lo so» rispose piano Antonia, guardandosi intorno a sua volta: non c’era niente di familiare, in quel luogo. Si voltò: alle loro spalle l’unico elemento estraneo in quel bosco altrimenti perfetto e privo di punti di riferimento erano le rovine di un vecchio arco di pietra, piazzato esattamente tra due alberi. Sembrava un rudere: un tempo doveva essere stato spesso almeno tre metri, ma parecchi massi erano rotolati giù e ora giacevano inutili alla base della costruzione, mentre nel punto più alto pareva che l’arco stesse per crollare del tutto. La ragazza richiamò l’attenzione dell’amica con un leggero colpetto alla spalla. «Fede, che ne pensi?».
   L’altra si voltò e socchiuse gli occhi. «È…è un arco» rispose. Scrutò con aria dapprima confusa e poi meravigliata i segni sul terreno che le separavano dall’arco: foglie smosse, rametti spezzati, impronte. Si avvicinò all’ammasso di rocce, incredula. «Credo…credo che…»
   «…siamo sbucate da qui» concluse Antonia per lei, raggiungendola e sfiorando l’arco.
   «Questo significa che possiamo tornare indietro» considerò Federica. Rivolse uno sguardo eloquente all’altra. «Questo posto…non mi piace. C’è qualcosa di tremendamente sbagliato in tutto questo. Tonia, ti prego, torniamo indietro».
   Antonia annuì. Anche lei era turbata da quella situazione – non riusciva a spiegarsela, niente di quello che conosceva poteva aiutarla a comprenderla – e prese la mano dell’amica. «Al mio tre» disse. Indietreggiarono di qualche passo, per sicurezza. «Uno…due…tre!».
   Le due ragazze corsero in avanti e saltarono nell’arco. Stavolta, però, dall’altra parte c’era ancora il bosco.
   «Perché siamo ancora qui?» mormorò Federica, preoccupata.
   «Non lo so» disse Antonia: anche lei era nervosa. «Forse dovremmo…».
   Il resto della sua frase fu inghiottito da un boato assordante; la terra tremò così violentemente da farle cadere, mentre il boato veniva sovrastato da quello che sembrava il ruggito di un animale feroce.
   «Che diavolo era?» ansimò Antonia, sconvolta, rimettendosi in piedi.
   «Non ne ho idea» rispose Federica, accettando la mano che l’altra le offriva e facendosi tirare su.
   Le ragazze si scambiarono uno sguardo inquieto, interrogandosi silenziosamente sul da farsi.
   «Non credo sia saggio restare qui» disse Antonia. Lanciò uno sguardo triste all’arco. «Vorrei riprovare ad attraversarlo, ma…».
   Nuovo boato, nuovo terremoto; per la terza volta in poco tempo le due giovani donne si ritrovarono sdraiate sulla terra secca, ma stavolta il suono che seguì il sisma risuonò più chiaro e vicino: più che un ruggito, si resero conto Federica e Antonia, somigliava al grido dapprima profondo e poi stridulo di una creatura enorme. Se possibile, ne furono ancora più spaventate.
   «Federica, andiamo via» esclamò con urgenza Antonia, alzandosi di scatto seguita dall’amica. «Quella specie di urlo non mi piace affatto: dobbiamo trovare un posto in cui nasconderci».
   «Sì, ma dove?» chiese Federica, scoraggiata e intimorita.
   «Ovunque» rispose sbrigativa l’altra. «Dovrà pur esserci qualcuno, in questa foresta, a cui possiamo chiedere aiuto!».
   Un coro di urla stridule e assordanti si fece strada fino a loro, seguito dal rumore pesante – troppo, troppo pesante – di passi.
   Le due amiche si bloccarono, agghiacciate.
   «Sembra che vengano da questa parte, di qualunque cosa si tratti» mormorò Federica, terrorizzata. «Come faremo a difenderci?».
   Antonia scrutò rapidamente il terreno circostante con lo sguardo. «Là!» disse brusca, indicando due grossi rami secchi e nodosi. «Useremo quelli!».
   Insieme si slanciarono in avanti; afferrarono un ramo ciascuna, e non appena vi ebbero stretto intorno il pugno, il legno si trasformò in metallo lucente proprio sotto il loro sguardo attonito.
   «Ma che accidenti…?» balbettò Antonia, lasciando cadere quello che fino a un attimo prima era stato un ramo inutile e che si era appena tramutato in una massiccia spada.
   «Tonia, non ci capisco più niente!» disse disperata l’altra, facendo per lasciare la propria spada: sembrava in procinto di crollare.
   «Ce ne preoccuperemo più tardi» decise Antonia, di nuovo padrona di sé, mentre recuperava l’arma. La terra tremò ancora tre, quattro, cinque volte in una successione talmente rapida da sembrare un’unica scossa. «Corri, Fede, corri!».
   Le due ragazze scattarono più veloci che potevano nella direzione opposta a quella da cui provenivano i versi e i passi, le spade strette convulsamente nei pugni, inciampando e cadendo ogni volta che un nuovo terremoto faceva tremolare la terra sotto i loro piedi. Eppure, più correvano e più erano spaventate: non sapevano dov’erano né da cosa fossero minacciate, non avevano idea di dove andare e se avrebbero trovato aiuto. Macinarono chilometri e chilometri, senza osare fermarsi nonostante fossero senza fiato e le loro gambe bruciassero per lo sforzo; ma quando un lupo grigio grosso quanto un cavallo sbucò dal nulla di fronte a loro, le due si bloccarono tanto repentinamente da cadere a terra, urlando.
   «Fermi, in nome del principe!» disse una voce.
   Antonia e Federica aprirono gli occhi: erano circondate da una dozzina di quei lupi e da altrettanti uomini armati fino ai denti. Uno di loro, con ricche rifiniture dorate sull’armatura, si avvicinò impugnando una spada affilatissima.
   «Tiratele su» ordinò secco; quattro uomini si avvicinarono solerti e trascinarono in piedi le ragazze afferrandole per le braccia. Il capitano le guardò con sospetto e nessuna pietà. «Gettate immediatamente le armi, se ci tenete alla vita!».
   Le due, incredule e terrorizzate, obbedirono: lasciarono le spade, e nel momento in cui toccarono terra, le lame tornarono ad essere inutili pezzi di legno.
   In perfetta sincronia, tutti gli uomini fecero un passo indietro.
   «Stregoneria!» tuonò il comandante, gli occhi che mandavano lampi. «Nemici stranieri nelle nostre terre!».
   «Stregoneria? Nemici? Noi siamo soltanto…» cercò di dire Antonia, allargando le braccia.
   La spada del capitano mulinò a due centimetri da lei. «Resta immobile, o ti ritroverai senza mani!». Antonia si bloccò, trattenendo persino il respiro; Federica scoppiò a piangere, spaventatissima. «Ammanettatele: le portiamo al castello» decise il comandante, la spada sempre puntata contro Antonia. Le guardie si affrettarono a obbedire, allacciando ai polsi delle ragazze delle spesse manette così pesanti da impedire loro anche di sollevare le braccia. Con due lunghe catene, il capitano assicurò le manette delle prigioniere alla sella del proprio lupo prima di rimontare, imitato dagli altri, e lanciò la bestia al galoppo.
   Federica e Antonia furono costrette a correre come non mai per tenere il passo. Per quasi mezz’ora resistettero, poi la seconda crollò: restò attaccata alla catena, mentre il lupo la trascinava sul terreno come un’inerme bambola di pezza.
   «Fermati, bastardo!» urlò Federica col poco fiato che le restava; prese la catena tra le mani come meglio poteva e iniziò a strattonarla pur continuando a correre. Lanciò uno sguardo alla sua amica, e vide con orrore la pelle delle sue braccia lacerarsi ovunque al contatto con il suolo e la testa rimbalzare sulla terra dura. «FERMATI, MALEDETTO!».
   Il capitano arrestò la corsa del lupo e si voltò: Federica lo fissava con odio, il volto congestionato, mentre Antonia era rimasta semisvenuta a terra. L’uomo afferrò la catena della seconda e la strattonò con cattiveria. «In piedi!» ordinò. «In piedi, o non saranno un mio problema le condizioni in cui arriverai a palazzo!».
   Con uno sforzo immenso Antonia si rialzò, le gambe malferme e le braccia e la testa sanguinanti. Federica fece per avvicinarsi e sostenerla, ma un nuovo strattone alle catene le separò. «Vi conviene tenere il passo, o sarà peggio per voi» disse il comandante. Un colpetto delle redini e il lupo ripartì, stavolta al trotto; a fatica le due ragazze rimasero in piedi, ormai svuotate di qualsiasi cosa – paura, rabbia, dolore, niente esisteva più – fino a quando, dopo quelle che a loro parvero ore, il gruppo si fermò di fronte a un’altissima, massiccia murata di pietra che sembrava racchiudere una porzione di bosco più fitta delle altre.
   «Chi va là?» gridò un uomo invisibile ai loro occhi.
   «Capitano Grant e ronda» urlò in risposta l’uomo con l’armatura decorata.
   L’enorme portone di legno si schiuse lentamente quel tanto che bastava a permettere il passaggio del piccolo contingente; una volta all’interno delle mura, il capitano scese dalla propria cavalcatura e avanzò a passi decisi attraverso il giardino, tenendo con fermezza le catene delle prigioniere tra le mani.
   Le ragazze, stordite dagli avvenimenti e da quel trattamento brutale, non riuscirono neanche a guardarsi intorno. Tutto quello che riuscirono a notare fu che anche lì, all’interno di quella cittadella fortificata, tutto sembrava essere stato invaso dagli alberi.
   Ben presto non furono più all’aperto, ma immersi nelle viscere del palazzo; trascinate e strattonate dal loro carceriere, circondate dai soldati, Federica e Antonia percorsero lunghi corridoi in cui le chiazze di luce solare che filtravano dalle finestre protette da spesse inferriate si alternavano a zone d’ombra. Senza quasi rendersene conto, si trovarono al centro di un’ampia sala rettangolare rivestita di legni e marmi pregiati: una serie di nicchie nei muri erano chiuse da tende cremisi e all’estremità opposta alla porta, su una piattaforma, faceva bella mostra di sé un grande, strano trono che sembrava scavato nelle radici e nel tronco di un albero enorme.
   «Cosa volete?» chiese un uomo vestito di nero sbucando da dietro una delle tante tende.
   «Chiedo udienza urgente e straordinaria a Sua Maestà, Mastro Devall» rispose formale il capitano Grant. Diede un lieve strattone alle catene. «Insieme al resto della ronda ho catturato due straniere: potrebbero rappresentare una grave minaccia per il regno, e credo che la questione vada sottoposta a Sua Altezza il prima possibile».
   Il Mastro annuì una sola volta. «Informerò immediatamente Sua Maestà. Aspettateci qui: sono certo che anche lui vorrà affrontare subito il problema».
   Devall si allontanò con passo rapido, sparendo di nuovo dietro la tenda da cui era emerso. Dopo qualche istante di silenzio, Antonia si schiarì la voce e guardò Grant.
   «Chiunque tu sia, dopo tutto quello che ci hai fatto…vuoi almeno dirci che diavolo succede?» disse.
   Il capitano strinse le labbra. «Succede che voi sapete usare la Magia e potreste essere una minaccia per le nostre terre. Ora il principe del regno verrà qui: vi osserverà, interrogherà, e se vi riterrà pericolose…», Grant le guardò senza pietà, «sarete giustiziate all’alba».

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Capitolo 2
*** I Signori del Terremoto ***


Le parole dure e impietose del capitano erano state il colpo di grazia, per le due sventurate ragazze. Né Federica né Antonia avevano osato ribattere: si erano limitate a scambiarsi uno sguardo – distrutto quello della prima, desolato quello della seconda – per poi abbassare gli occhi al pavimento, concentrandosi soltanto sulla necessità di restare in piedi. Antonia era particolarmente abbattuta: l’idea di saltare quella piccola voragine era stata sua, e se tutta quella situazione incredibile era reale, allora non solo si era messa nei guai da sola, ma aveva anche trascinato con sé l’amica.
   Pochi minuti dopo il loro arrivo una mezza dozzina di persone, tra cui la figura in nero che Grant aveva chiamato Mastro Devall, rientrarono nella sala, parlottando a bassa voce, e si disposero intorno al trono. Appena un istante più tardi un altro uomo fece il suo ingresso, avanzando a grandi passi: arrivato alla piattaforma, salì con un unico balzo i tre gradini e sedé sullo scranno.
   I soldati si inchinarono; Grant, con un colpo secco in mezzo alle scapole delle due donne, le costrinse a cadere sulle ginocchia prima di piegare il capo in gesto di rispetto.
   «Capitano Grant, Maestro Devall sostiene che hai una questione urgente da sottopormi» esclamò una voce maschile alta e chiara.
   Grant si raddrizzò. «È così» confermò.
   «Ebbene, capitano, parla» lo esortò il principe.
   Il capitano si schiarì la voce. «Circa tre ore fa, durante la ronda nel quadrante a sud-ovest della Torre della Quercia, ci siamo imbattuti in queste due donne. Erano armate e correvano; le abbiamo fermate e intimato loro di gettare le armi. Quando l’hanno fatto, abbiamo scoperto che sono due fattucchiere, e secondo quanto dispone il regolamento, le abbiamo incatenate e condotte al Suo cospetto».
   Uno dei presenti, un uomo vestito di porpora chiamato Illyrio, storse il naso. «Capitano, quante volte dovrò ripeterti che “fattucchiera” è un termine improprio?».
   Tutti lo ignorarono.
   «Sei sicuro di quello che dici, capitano?» chiese il principe, dubbioso. «Se davvero queste donne sapessero usare la Magia, dubito che sarebbero ancora in ceppi».
   Grant tolse le manette ad Antonia e prese uno dei bastoni che aveva fatto recuperare nel bosco dai suoi uomini. «Osservi bene, Maestà» disse, lanciando il pezzo di legno alla ragazza; lei lo afferrò, ma non accadde nulla.
   «Vedo, Grant» commentò ironico l’uomo seduto sul trono.
   «Maestà, le assicuro che la Magia compiuta era evidente» rispose il capitano, confuso. Si voltò verso gli altri uomini della ronda. «Il resto della guardia potrà confermarglielo».
   «Cionondimeno, capitano, ho bisogno di vederlo con i miei occhi: se mi conducessi diversamente, non sarei equo» disse con gravità il principe.
   «Permette, Maestà?» intervenne Illyrio. L’altro acconsentì con un gesto della mano e il primo uomo si mosse verso le prigioniere: era alto, magro, quasi emaciato, e il suo volto imperturbabile intimoriva più d’uno, a palazzo. Mentre camminava, Illyrio recuperò una penna di corvo che portava dietro l’orecchio destro, nascosta tra i lunghi capelli neri, e la mosse noncurante nell’aria; quella si trasformò in un pesante spadone a due mani e con un balzo l’uomo si slanciò verso Antonia, abbattendo la lama su di lei.
   Antonia, pur sapendo che un misero ramo secco poteva ben poco contro una spada, d’istinto aveva sollevato la sua unica arma nel tentativo di difendersi: si aspettava uno schianto secco e la lama che sprofondava nella sua carne, invece tutto quello che sentì fu il rintocco acuto generato da metallo contro metallo. Riaperti gli occhi – che non si era resa conto di aver serrato – vide che il ramo era tornato a essere una spada.
   Illyrio fece sparire la propria e si appuntò di nuovo la piuma dietro l’orecchio. «La loro è Magia istintiva, Maestà» decretò. «Nulla che siano in grado di controllare».
   «Liberate anche l’altra» ordinò il principe.
   Quando anche Federica fu libera, entrambe alzarono lo sguardo sul gruppo che avevano di fronte. Illyrio era senza dubbio il più inquietante, con il suo aspetto e quegli occhi di un azzurro spento, sbiadito; Mastro Devall, il più anziano, pareva una statua di marmo tanto era serio e concentrato; una coppia di uomini sui trent’anni, castani e identici fino all’ultima virgola, parlavano tra loro senza mai perderle d’occhio e per ultima, una donna con i capelli chiarissimi striati di grigio tormentava con le dita la tunica azzurro pallido che indossava.
   Dopo aver studiato il gruppo intorno all’immenso ciocco di legno che dominava la sala, le ragazze passarono a osservare l’occupante del trono. Interamente vestito di verde scuro, dimostrava meno di trent’anni nonostante i lineamenti decisi, l’espressione grave e le piccole rughe intorno agli occhi verdi. L’unica cosa a lasciare interdetti erano i suoi capelli: lunghi fino alle spalle, nella metà destra della testa erano castani, mentre in quella sinistra erano completamente bianchi, come divisi da una linea netta.
   Intanto, anche il principe le stava studiando con grande attenzione: specialmente Antonia, che sobbalzò quando lui le rivolse la parola.
   «Non siete in buone condizioni, signorina» disse senza alcun preavviso, guardandola intensamente. «Cosa vi è accaduto?».
   Federica scoccò un’occhiataccia a Grant, che non batté ciglio. Antonia prese un respiro profondo.
   «Sono caduta» rispose. Notando lo sguardo tutt’altro che persuaso del principe, ritenne opportuno spiegarsi meglio. «Mentre ero incatenata al lupo. Non riuscivo più a correre e…sono caduta. Mi ha trascinata per un po’…».
   Lo sguardo del principe si indurì nel rivolgersi a Grant, poi divenne rassegnato. «Per tutti gli Dèi, Jonas, era davvero necessario?» chiese con una punta di esasperazione.
   Il capitano mise su un’espressione arcigna. «Fattucchiere sconosciute nelle nostre terre, e mi chiedi se era necessario trattarle con rigore? Di questo passo, mi manderai dagli Orchi con un invito per il tè!»
   «Jonas Grant!» tuonò la donna con la tunica azzurra, severissima. L’uomo si strinse nelle spalle, e per un attimo sembrò a disagio; il principe, invece, dopo aver preso un respiro profondo, recuperò la calma.
   «Siete imparentate?» chiese ancora, notando le somiglianze tra le due straniere: entrambe sul metro e sessanta – anche se Antonia era di qualche centimetro più bassa di Federica – con lisci capelli castani, occhi scuri e il fisico asciutto, potevano facilmente essere scambiate per sorelle.
   «No» rispose Federica, massaggiandosi i polsi martoriati con una smorfia di fastidio. «Solo buone amiche».
   Il principe si appoggiò allo scranno. «Voi non siete di queste terre» disse con estrema sicurezza. «Devo dunque chiedervi come siete arrivate qui».
   Le ragazze si scambiarono un lungo sguardo.
   «Non ne siamo certe» esordì Antonia nervosamente. «Noi…eravamo nel punto più alto del nostro paese, in pratica un quadrato di roccia diviso a metà da una depressione del terreno: di solito per superarla ci caliamo giù e risaliamo dalla parte opposta, ma stavolta abbiamo pensato…», occhiataccia da parte di Federica; Antonia sbuffò, «be’, io ho pensato che avremmo potuto provare a saltarla: abbiamo preso la rincorsa e quando siamo atterrate, non eravamo più lì ma…nel bosco. Il vostro bosco, direi».
   «Vicino a qualcosa di insolito?» chiese il principe, sporgendosi in avanti.
   «C’era un arco di pietra in rovina, alle nostre spalle» rispose Antonia.
   Un moto di stupore percorse i presenti; il principe si batté un pugno su una coscia.
   «Incredibile» disse Illyrio, lasciando trasparire una vaghissima sorpresa. «Abbiamo due Viaggiatrici! Da quanto non se ne vedevano?»
   «Almeno trecento anni» rispose Mastro Devall, altrettanto stupito. «Nessuno era più riuscito a superare i Varchi dai tempi di Gowan». Si rivolse direttamente alle due ragazze, che erano sempre più confuse. «Come ormai avrete capito, vi trovate in uno dei mondi paralleli al vostro. Abbiamo tanti nomi per definire coloro che riescono a superare i Varchi tra mondi: Viaggiatori è il più comune, nonostante l’apparente banalità. Ora vi trovate nel nostro mondo: lo chiamiamo Staudeheim».
   «E io» aggiunse l’occupante del trono, scendendo dalla piattaforma e inchinandosi, «sono il principe Baumann, sovrano di questo regno. Al vostro servizio».
   «La Magia fa parte del tessuto del nostro mondo. È ovunque, permea e fluisce da ogni cosa: non tutti riescono ad afferrarla e governarla» intervenne Illyrio. «Voi due sì. A giudicare dal fatto che non sapete come padroneggiarla, ne deduco che nel vostro mondo la Magia non è presente, o lo è molto meno che da noi. In ogni caso, qui voi siete quelle che chiamiamo Magistrae Fascinationum: con un po’ di addestramento, imparerete a controllare la Magia e piegarla a vostro piacimento».
   «Un momento, un momento!» intervenne il capitano Grant, furioso. «Vorreste addestrarle nelle arti magiche? E perché non anche nell’uso delle armi?» aggiunse in tono di scherno.
   «Una buona idea» convenne serio il principe. «Di questi tempi più che mai è necessario che chi vive in queste terre sia in grado di difendersi»
   «E se fossero delle spie al soldo dei nostri nemici? Se fossero qui per conto degli Orchi, per ucciderci tutti?» esplose Grant.
   Baumann chiuse gli occhi per un istante. «Non lo credo, Jonas, ma so bene che le tue obiezioni non cesseranno se non di fronte a prove certe» disse. Si alzò e andò con sicurezza verso una tenda indistinguibile dalle altre prima di voltarsi verso le ragazze, accigliato. «Temo di non essere stato all’altezza dell’educazione che mia madre mi ha impartito» si scusò. «Posso sapere i vostri nomi?».
   Le ragazze si presentarono rapidamente.
   «Molto bene: Federica, Antonia, vi prego di venire davanti a questa tenda» riprese Baumann. Non appena le due giovani furono a trenta centimetri dalla cortina di velluto, l’uomo tirò un cordino, scostando il drappo: le ragazze balzarono indietro tanto in fretta da cadere sul pavimento, e Antonia non riuscì a trattenere un grido di paura mentre Federica strisciava il più lontano possibile. Di fronte ai loro occhi, infatti, era comparsa una figura spaventosa: un gigante alto quattro metri, glabro, con la pelle grigio-marrone, le labbra ritratte su due file di zanne giallastre e acuminate e un grosso, elaborato martello stretto nel pugno grande quanto la loro testa.
   «Le mie scuse» mormorò il principe; lasciò che la tenda tornasse a coprire la creatura immobile e aiutò personalmente le due ragazze a rialzarsi, soffermandosi più a lungo su Antonia. «Quella creatura è impagliata: non può farvi alcun male». Si voltò verso Grant, le sopracciglia sollevate. «Soddisfatto, Jonas?».
   L’interpellato rispose con un grugnito tanto incomprensibile da fare invidia a un Troll.
   «C-che…che diavolo è quello?» balbettò Federica, ancora terrorizzata.
   «Un Orco» rispose Baumann con espressione grave. «I nostri più acerrimi nemici ormai da alcuni secoli. Vivono in cunicoli scavati molti metri sotto la superficie, e usano i loro martelli per incanalare una Magia tipica della loro specie e causare scosse sismiche in grado di radere al suolo interi villaggi, a volte addirittura nei mondi confinanti: per questo li chiamiamo Signori del Terremoto».
   «Be’, sono orribili» commentò Federica, «e spero di non trovarmene mai uno vivo davanti».
   Il principe le rivolse un sorriso amaro. «Vivendo qui, dubito che ti riuscirà: gli Orchi sanno che non possiamo sconfiggerli, e sono ovunque».
   «Un motivo in più per tornare di corsa da dove veniamo» brontolò la ragazza, guardando di sottecchi Antonia. «Se solo ci fossimo riuscite quando siamo saltate dentro quel dannato arco!».
   «Non sempre i Varchi funzionano» spiegò Baumann. «Probabilmente eravate troppo concentrate su cose diverse dal Salto, dunque non ha funzionato»
   «Vorrà dire che la prossima volta lo faremo come si deve» rispose Federica senza battere ciglio. «Anzi, se poteste riaccompagnarci subito al Varco o come accidenti si chiama, ve ne saremmo davvero grate».
   Baumann guardò Grant, che scosse la testa. «Sono settimane che gli Orchi si aggirano in quella zona: andarci ora sarebbe un suicidio. È già un miracolo che queste due non si siano fatte uccidere quando sono arrivate».
   «Sembra che sarete nostre ospiti per un po’» disse il principe alle due donne. «Avete la mia parola che non appena sarà sicuro tentare, vi riaccompagneremo al Varco perché possiate tornare nel vostro mondo. Mentre siete qui, se lo desiderate, sarete istruite sull’uso delle armi e della Magia».
   Antonia guardò Federica e le sorrise; l’altra si strinse nelle spalle. «Visto che siamo bloccate qui, tanto vale!».
   Baumann batté le mani, un gran sorriso sul volto. «Eccellente!» esclamò. Si voltò verso la donna dai capelli chiari. «Isdrid, cara mamma, affido a te le nostre ospiti: guariscile e dà loro cibo, abiti adatti e qualsiasi cosa desiderino. Voi tutti, ritroviamoci stasera per la cena!».
   Gli uomini sciamarono fuori dalla stanza sparendo dietro tende e arazzi; la donna chiamata Isdrid affiancò le due ragazze e sorrise loro con fare materno mentre le invitava a seguirla.
   «Dovete scusare Jonas» disse mentre le conduceva in un corridoio dopo l’altro. «Prende molto sul serio il suo compito di difendere il palazzo».
   «Lei…lei è la regina?» chiese Antonia, in imbarazzo.
   La donna scoppiò a ridere. «Io? Santo cielo, no! Sono solo stata la balia del principe e di tutti quei ragazzacci scalmanati, incluso Jonas…peccato che non lui non dia retta neanche a me!» Tornò seria. «Inoltre, sono la Magistra Sanationis del castello: è una Magia diversa dalla vostra, si esprime totalmente nell’aiutare i processi risanativi del corpo. Anche per questo il principe vi ha affidate a me».
   «È tutta un’enorme allucinazione, vero?» chiese speranzosa Federica.
   «Temo di no» rispose gentilmente Isdrid. «Vedrai però che vivere nello Staudeheim non è poi tanto male!».

*

Guarite le ferite delle ragazze, Isdrid le aveva affidate a due servitrici del castello: senza alcuna esitazione le donne le avevano spinte in un bagno caldo e le avevano strofinate con delle grosse spugne e una gran quantità di sapone per eliminare dalla loro pelle ogni traccia di polvere e sudore. Terminata questa operazione, entrambe si erano trovate infilate contro la loro volontà in due tuniche a cui non erano affatto abituate.
   «Oh Dio, ma fanno sul serio?» mormorò Federica, sconvolta, scuotendo la gonna morbida che le arrivava fino ai piedi. «Così ci si vestivano le donne…ma nel Medioevo!»
   «Questi aggeggi sono fastidiosi» brontolò a sua volta Antonia, agitando le ampie maniche svasate.
   «E questa cintura mi sta strizzando i fianchi» si lagnò Federica.
   «Troppa stoffa sulle braccia e troppo poca sulla scollatura» decretò l’altra.
   «Avete finito di lamentarvi?» intervenne seccata una terza voce, facendole sobbalzare per lo spavento: il capitano Grant era sbucato alle loro spalle senza che se ne accorgessero.
   Le giovani donne gli scoccarono due identici sguardi infastiditi.
   «Che ci fai tu qui?» chiese Federica in tono aggressivo.
   Grant mise su un grugno da fare spavento e la fissò dall’alto in basso. «La Magistra Sanationis mi ha affidato l’incarico di scortarvi a cena» rispose arcigno.
   «Nello stesso modo in cui ci hai "scortate" a palazzo, magari?» disse sarcastica Antonia, toccandosi la testa quasi automaticamente: anche se ogni ferita era sparita, poteva sentire ancora i tagli aperti sulla propria pelle e il sangue impastarsi con la polvere.
   «Vedo che hai recuperato tutta la tua presenza di spirito» sputò Grant con disprezzo.
   «È più facile averne quando un bastardo non prova a ucciderti legandoti a un lupo lanciato al galoppo» ribatté la ragazza.
   L’uomo arrossì e si erse in tutta la propria altezza. «Come osi…» ringhiò.
   «Cosa? Darti del bastardo?». Anche Antonia si stava infuriando. «Semplice: dico soltanto quello che vedo!».
   Il capitano avanzò con due rapide falcate e si chinò su di lei, gli occhi socchiusi in un’espressione furiosa e i denti scoperti. «Sono ancora dell’idea di ucciderti, sudicia straniera»
   Antonia gli rise in faccia, sprezzante. «Provaci!».
   La mano di Grant scattò verso la sua gola, ma Antonia fu più veloce: tirò su la gonna e con un gesto fulmineo lo colpì al bassoventre con una ginocchiata.
   L’uomo crollò a terra gemendo e premendosi una mano sul punto colpito sotto lo sguardo incredulo di Federica e quello compiaciuto di Antonia.
   «Se vuole scusarci, capitano» disse quest’ultima, mettendo tutto il proprio disprezzo nell’usare il grado dell’uomo, «siamo attese a cena» concluse, scavalcandolo con noncuranza e avviandosi lungo il corridoio seguita dall’amica.

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Capitolo 3
*** I pericoli dei pregiudizi ***


Quel primo risveglio in un nuovo mondo non era stato privo di nervosismo, per le due ragazze. Non che avessero potuto nutrire chissà quale illusione sul trovarsi nelle proprie case: aprire gli occhi e vedersi un baldacchino di rami, fiori e foglie sospeso sopra la testa aveva spazzato via ogni speranza che si fosse trattato di uno strano sogno.
   Rinfilarsi in quei vestiti che proprio non digerivano era stato il colpo di grazia: solo in un incubo avrebbero potuto immaginarsi con abiti tanto scomodi, e purtroppo l’intera situazione non era abbastanza spaventosa perché potessero illudersi in tal senso.
   Orientarsi lungo i corridoi era stato ancora peggio: la sera precedente si erano perse in quell’intrico per loro indistinguibile per oltre un’ora, ed erano state salvate da Mastro Devall, passato di lì per caso, come aveva detto – o più probabilmente mandato dal principe Baumann, che aveva accolto la loro comparsa a tavola con un sorriso divertito malamente mascherato – e quel mattino le cose non stavano andando meglio: ormai da mezz’ora vagavano in un corridoio all’apparenza infinito e, peggio ancora, deserto.
   Federica e Antonia stavano perdendo la speranza di incontrare altri esseri umani quando dal nulla sbucò Illyrio.
   «Via, non sono così brutto» disse accigliato in risposta alle esclamazioni allarmate delle due.
   «È brutto il tuo modo di sbucare fuori dal nulla senza preavviso» bofonchiò Federica, massaggiandosi il petto. «Di questo passo avrò un infarto entro la fine della settimana…».
   Illyrio la ignorò. «Vi siete perse di nuovo?»
   «Chi? Noi? Ma no!» rispose ironica Antonia. «Stavamo ammirando gli splendidi arazzi che ricoprono le pareti di questo lunghissimo, infinito corridoio a senso unico, privo di biforcazioni, porte o…». La ragazza s’interruppe, guardandosi intorno. «A proposito, messer Illyrio, da dov’è sbucato?».
   Illyrio allungò la mano e scostò l’arazzo più vicino, rivelando un passaggio.
   «Quindi è così che funziona?» sbottò Federica, ficcando la testa nel passaggio appena rivelato. «E non potevate dircelo ieri, che dovevamo cercare sotto gli arazzi?»
   L’uomo si strinse nelle spalle. «Noi ormai conosciamo a memoria i passaggi e gli arazzi dietro cui sono celati, ed è talmente raro avere degli ospiti a palazzo…»
   «Sì, sì, abbiamo capito» lo interruppe Federica, sbuffando. «Adesso perché non ci fa strada verso una qualsiasi zona abitata del castello?».
   Illyrio annuì una sola volta e tornò nel passaggio da cui era spuntato, tenendo sollevato l’arazzo per permettere alle ragazze di seguirlo; dopodiché percorse con sicurezza un corridoio dopo l’altro a lunghi passi, tallonato da vicino da Antonia e Federica.
   Circa dieci minuti più tardi il gruppetto sbucò in un’ampia sala dominata da un enorme tavolo rotondo e già affollata di persone. Lo stesso gruppo che la sera precedente aveva accolto le due ragazze era presente: oltre a loro un’altra dozzina abbondante di persone occupava le sedie e vagava per la stanza, e all’ingresso delle straniere tutti si voltarono a guardarle.
   «Signorine, buongiorno» le accolse Baumann, alzandosi dal posto d’onore e andando verso di loro. «Spero che abbiate passato una notte tranquilla»
   «Lo è stata, per fortuna» rispose Antonia. «Noi…non interrompiamo nulla, spero»
   «No, affatto» disse subito il principe. Indicò con un gesto della mano i posti ancora liberi. «Sedete, vi prego».
   Le ragazze non si fecero pregare e presero posto tra i due gemelli, che le guardavano sorridendo incoraggianti.
   «Ieri sera non ci siamo presentati» disse quello che sedeva alla sinistra di Federica. «Io sono Alec…»
   «E io Zane» aggiunse l’altro, stravaccato sulla sedia a destra di Antonia.
   «Ed esiste un modo per distinguervi?» chiese quest’ultima.
   Zane le fece l’occhiolino. «Forse, ma dovrete scoprirlo da sole…altrimenti dov’è il divertimento?».
   Le due alzarono gli occhi al cielo per un breve istante. «Che ruolo avete a palazzo?» domandò ancora Antonia: sembrava sinceramente incuriosita da quel mondo così diverso dal suo.
   «Siamo i comandanti dell’esercito del principe» rispose allegro Zane mentre suo fratello e Federica chiacchieravano tra loro. «Allora, che ve ne sembra dello Staudeheim?».
   Incerta su cosa rispondere, Antonia tacque per qualche istante e si strinse nelle spalle. «Non è che ne abbiamo visto granché, no?» disse vaga. «A parte il bosco, intendo, e quelli li abbiamo anche noi. Certo, non così…precisi, se capisci che intendo: la vegetazione cresce a intervalli così regolari, qui da voi…nel mio mondo non è così»
   «E perché? Non sapete forse prendere le misure?» le domandò Zane, perplesso.
   «In…in che senso?» replicò Antonia, più confusa di lui.
   «Le misure. Sai, nel calcolare l’intervallo tra una pianta e l’altra…» disse l’uomo.
   «Mica si prendono le misure!». Antonia si mise a ridere. «I boschi crescono per conto loro, da soli, no? In modo del tutto spontaneo…». Si zittì e rifletté per un attimo. «Be’, a parte quando si procede alla riforestazione…in quel caso credo che le misure le prendano, ma non ne sono certa…». La ragazza si accorse della confusione crescente sul volto del suo interlocutore. «È una cosa complicata, magari te la spiego un’altra volta. Diciamo che dai noi i boschi sono un po’ più…selvaggi».
   «Quindi non create le foreste?» chiese Zane, con l’aria di chi non ci capisce nulla.
   «Certo che no» confermò Antonia. Aggrottò la fronte. «Perché, voi…voi piantate ogni singolo arbusto?»
   «Ovviamente» rispose lui con l’aria di chi dice qualcosa di risaputo. «Più è regolare la messa a dimora delle piante, meno possibilità ci sono che restino parti del sottosuolo prive di radici» spiegò. «E le radici sono importanti» aggiunse serio.
   Antonia stava per chiedergli qualcos’altro, ma il suo interlocutore si accorse che un uomo all’altro capo della stanza lo stava richiamando con dei gesti discreti.
   «Perdonami, Antonia» si scusò Zane, alzandosi e raggiungendo l’altro uomo.
   Antonia si afflosciò contro lo schienale della sedia, chiudendo gli occhi per riposarsi, ma quella parentesi di solitudine non durò a lungo: appena pochi secondi più tardi la ragazza sentì la sedia lasciata da Zane strusciare lieve sul pavimento di pietra mentre qualcuno la occupava.
   Preso un respiro profondo e voltatasi verso destra, Antonia si lasciò sfuggire un debole gemito di frustrazione e incredulità: i suoi occhi avevano appena incontrato quelli di Jonas Grant.
   «Capitano» mormorò tra i denti, tutt’altro che lieta.
   «Fattucchiera» rispose lui in tono acido.
   «Ho un nome, sai?» gli fece notare la ragazza, sentendosi stranamente ferita dalle cattiverie gratuite di Grant. «Sarebbe carino se lo usassi, invece di chiamarmi con un termine che chiaramente intendi come dispregiativo»
   «Non m’interessa esserti simpatico, quindi stare attento a non ferire i tuoi sentimenti non figura nella mia lista delle cose da fare» ribatté Grant.
   Antonia strinse le labbra e batté le palpebre per scacciare una lacrima traditrice. «Cerca di comportarti quantomeno in modo civile o ti aizzerò contro la signora Isdrid e il vostro principe, visto che almeno loro sembrano conoscere le regole dell’ospitalità e dell’educazione» minacciò.
   «Baumann e Isdrid possono dire quello che vogliono, ma al di fuori del mio ruolo di capitano, non prendo ordini da nessuno» dichiarò sdegnoso l’uomo.
   «Un vero peccato» mormorò inferocita Antonia. Tra i due calò un silenzio teso, e lei ne approfittò per osservarlo di sottecchi: Grant aveva un volto dai lineamenti mascolini, a tratti spigolosi, e neanche i corti capelli mossi riuscivano ad addolcire la sua espressione arcigna. Gli occhi color cioccolato avrebbero potuto trasmettere un po’ di calore se non fossero stati perennemente atteggiati in uno sguardo di dura riprovazione, e il fisico asciutto e scattante che lo faceva svettare su tutti gli altri insieme alla sua notevole altezza trasmetteva soltanto nervosismo in chi gli stava vicino, visto il temperamento irrequieto e combattivo dell’uomo. In generale Antonia trovava che fosse bello – straordinariamente bello, persino più di Baumann e dei gemelli – anche se il suo fascino da duro era al contempo ciò che lo rendeva tanto attraente e assolutamente insopportabile.
   «Spiegami perché sei venuto a sederti accanto a me nonostante ci siano tanti posti ancora vuoti, capitano Grant» disse con voce gelida Antonia, schiacciando in fondo allo stomaco il proprio malessere e recuperando la padronanza di sé. «Soltanto per litigare? Davvero non puoi fare a meno di scontrarti con qualcuno e ferire gli altri?».
   Grant le scoccò uno sguardo di puro disgusto. «Come osi pensare di potermi giudicare? Non mi conosci affatto»
   «Neanche tu mi conosci, eppure questo non ti impedisce di maltrattarmi non appena ne hai l’occasione» mormorò rabbiosa lei. «Secondo quale stupida logica tu puoi essere libero di comportarti male nei miei confronti mentre io devo per forza rispettarti? Il rispetto va guadagnato, sai, e tu di sicuro non stai conquistando il mio»
   «Non m’importa niente del tuo rispetto. Non mi serve e non lo voglio!» sussurrò furibondo Grant, spostando la sedia con tanta veemenza da rischiare di rovesciarla e andandosene con passo rigido.
   Antonia lo guardò allontanarsi con un misto di rimpianto e senso di colpa. Volse lo sguardo verso Baumann, e lui accennò a Grant prima scuotere la testa come a dirle di non dar peso al suo malumore. Lei annuì; il principe le sorrise incoraggiante, e Antonia ebbe la sensazione che quel peso che Grant le aveva lasciato sullo stomaco si fosse alleggerito.

*

Trascorse qualche altro giorno; Federica e Antonia continuavano a litigare con quegli abiti che stavano imparando a detestare sempre più – a nulla erano valse le loro suppliche di avere degli indumenti maschili: Isdrid si era dimostrata irremovibile, su quel punto – e la seconda faceva del proprio meglio per stare alla larga da Grant, che aveva il potere di farle saltare i nervi in cinque minuti. Stranamente, per quanto lei s’impegnasse, finiva per ritrovarsi continuamente il capitano tra i piedi: si incrociavano nei corridoi, le sbucava alle spalle quando era distratta e se c’erano altre persone presenti, nulla lo fermava dal lanciarle talvolta frecciatine irritanti, talaltra veri e propri insulti.
   Quel giorno non fece eccezione: per tutta la mattina Antonia era rimasta in quella che ormai era la sua stanza con il pretesto di non sentirsi molto bene ed era riuscita anche a farsi portare là qualcosa da mangiare, ma ormai era pomeriggio inoltrato e non poteva più nascondersi. Prima o poi sarebbe dovuta uscire di lì: senza contare che aveva delle domande da porre a Illyrio sulla Magia e sul suo funzionamento e che il suo orgoglio protestava vibratamente per quell’isolamento autoimposto a tutto vantaggio di Jonas Grant.
   Così Antonia si avventurò da sola per i corridoi. Oramai conosceva piuttosto bene i percorsi per arrivare nei luoghi più utilizzati del castello – negli ultimi due giorni non si era persa nemmeno una volta – e la luce del giorno rischiarava ancora alla perfezione i corridoi, aiutandola a non confondere gli arazzi.
   Per i primi cinque minuti la ragazza aveva imboccato un passaggio dopo l’altro con sospetto, scrutandosi guardinga alle spalle ogni tre passi per il timore che Grant spuntasse dal nulla come era solito fare: ma dopo un po’, non essendoci anima viva nei dintorni, si rilassò tanto da smorzare la propria marcia in una tranquilla passeggiata per prendersi il tempo di guardare il paesaggio fuori dalle finestre.
   Era appunto assorta nella contemplazione del parco del castello quando sentì qualcuno incombere su di lei e, voltandosi di scatto, si ritrovò naso a naso con il petto del capitano.
   «Grant, maledizione!» esplose, indietreggiando rapidamente e andando a sbattere contro la soglia della finestra. Reclinò indietro la testa e gli rivolse uno sguardo fiammeggiante. «Smettila di strisciarmi alle spalle come una dannata ombra!»
   «Come mai tanto nervosismo? Hai forse qualcosa da nascondere?» rispose arcigno lui.
   Antonia digrignò i denti. «Quando la smetterai di diffidare di me?»
   «Mai» replicò Grant all’istante.
   La ragazza strinse i pugni, cercando di arginare la rabbia che sentiva crescere nel proprio petto. «Allora perché non mi lasci in pace e basta? Il castello è grande, possiamo evitarci senza sforzo»
   «E lasciarti libera di ficcare il naso in giro, magari preparando il terreno per i nemici?». Grant rise sprezzante. «Sei pazza!».
   «Proprio non riesci a ficcarti in quella testaccia dura che sono finita qui per caso e che se potessi me ne andrei senza pensarci due volte, vero?» replicò lei, furente. «L’hai detto tu che non possiamo andare al Varco!»
   «Per quanto mi piacerebbe liberarmi di te e della tua amica, non ho intenzione di rischiare la vita dei miei uomini solo per questo» disse Grant. «E prima che ve ne andiate, voglio essere certo di avervi fatto comprendere un semplice concetto». L’uomo si chinò su Antonia, abbassando la voce fino a ridurla a un sibilo minaccioso. «Se provate a sabotare le nostre difese, se anche solo per un momento vi attraverserà la mente il pensiero di nuocere a qualche abitante del castello o dello Staudeheim, vi scuoierò vive personalmente prima di darvi in pasto agli Orchi, e lo farò con immenso piacere».
   Antonia rimase immobile, pallidissima, gli occhi fissi in quelli feroci di Grant e sulla sua espressione piena d’odio, trattenendo il respiro.
   «Stammi lontano, Jonas Grant» disse con voce tremante, dandogli una spinta in pieno petto e spostandolo; imboccò il corridoio correndo, e si voltò indietro solo per un istante. «Stammi lontano!».

*

Federica percorreva i corridoi a passo di marcia, gli occhi che mandavano lampi. Spostando gli arazzi con gesti bruschi e saltando a tre a tre i gradini delle rampe di scale, giunse ben presto nella sala in cui lei e Antonia si erano presentate ai gemelli, che quel giorno vedeva solo una mezza dozzina di persone tra le sue mura.
   La ragazza si diresse senza esitazioni verso Grant e allungandosi più che poteva gli rifilò un manrovescio tale da farlo barcollare.
   «Piccola pazza…!» ruggì lui, furioso, riavendosi subito dallo stupore.
   «Immenso bastardo!» replicò lei, decisamente più arrabbiata di lui. Gli diede un pugno in mezzo al petto. «Si può sapere che problema hai? Eh? Spiegamelo, perché io proprio non lo capisco!» aggiunse, prendendolo a calci negli stinchi.
   Jonas saltellò sul posto, cercando di evitare i colpi. «Sei completamente fuori di testa! Arrivi qui come una furia, mi aggredisci, e sarei io quello che ha dei problemi?» tuonò.
   Federica gli mostrò i denti ringhiando come un animale feroce. «Sì» disse, trattenendosi a stento dall’urlare. «Sei decisamente tu quello che ha dei problemi, signor capitano bastardo Grant. Hai tormentato Antonia senza motivo, l’hai perseguitata per giorni e l’hai esasperata e terrorizzata. Volevi che sparisse? Be’, eccoti accontentato!» ululò furibonda, brandendo un pezzo di carta. «Grazie a te se n’è andata, pezzo di deficiente!».
   Baumann, che come gli altri aveva assistito in un silenzio incredulo e a tratti divertito la scena, la raggiunse con due passi e le strappò di mano la lettera.
   «Bravo, leggila!» disse Federica, quasi isterica, prima di ricominciare a prendere a pugni Grant, che la lasciò fare senza neanche tentare di difendersi. «Grazie a questo imbecille la mia amica è andata a buttarsi in mezzo agli Orchi, pur di sfuggirgli!». Ringhiò di nuovo all’indirizzo del capitano. «Che si prova a essere considerato peggiore di un branco di Orchi, Grant?» aggiunse, rabbiosa e sarcastica: gli diede una spinta in mezzo al petto come aveva fatto Antonia solo due ore prima e Grant sussultò, attraversato da una scarica elettrica.
   «EHI!» tuonò Illyrio; mosse le mani con un gesto elegante e una bolla traslucida avvolse la ragazza.
   «Fammi uscire da questo coso! Illyrio, fammi uscire!» urlò lei, arrabbiatissima.
   «No» rispose secco l’uomo. «Sei fuori controllo e stai facendo Magia involontaria: finché non ti calmerai, non revocherò la bolla».
   Federica sibilò una serie di contumelie all’indirizzo di Illyrio e di Grant. Baumann, che intanto aveva riletto due volte la lettera lasciata da Antonia all’amica, fece un passo verso il capitano e gli sferrò un pugno in pieno volto.
   «Baumann!» lo richiamò Isdrid con voce assordante.
   Grant si raddrizzò senza neanche toccare il punto colpito e fissò Baumann con gli occhi socchiusi in un’espressione orgogliosa.
   «Dimmi, Jonas: angariare una ragazza spaesata, finita senza sapere come in un mondo di cui non sospettava nemmeno l’esistenza e impossibilitata a tornare alla propria casa e ai propri affetti ti sembra un comportamento da uomo onorevole?» sibilò il principe, furioso come raramente l’avevano visto. «Spingerla a mettersi in pericolo mortale pur di non subire più un simile trattamento è forse il comportamento adatto al capitano delle guardie del palazzo reale dello Staudeheim?». Baumann si raddrizzò: anche se era quindici centimetri abbondanti più basso di Jonas, in quel momento emanava una rabbia tale da sovrastarlo. «Non è questo che mi aspettavo da te!».
   «Per l’amore del cielo, Baumann, vi state davvero facendo sconvolgere tanto dalle lagne di una ragazzina che per noi non conta nulla?» rispose sprezzante Grant, massaggiandosi la mascella. «Sarà andata a nascondersi in qualche angolo del castello: entro l’ora di cena o al più tardi domattina i morsi della fame la ricondurranno alla ragione».
   «Entro l’ora di cena sarà già stata fatta a pezzi dagli Orchi» rispose Baumann con furia, lanciandogli in faccia la lettera. «Ha deciso di sfidare la sorte. Vuole raggiungere il Varco e tornare al proprio mondo perché non ne può più dei tuoi agguati: è terrorizzata da te». Grant prese il foglio e iniziò a scorrerlo con gli occhi. «Leggi, Jonas, leggila pure, e guarda il sangue innocente di cui con ogni probabilità entro domattina le tue mani saranno macchiate» concluse gelido Baumann, chiamando a sé Alec e Zane e non degnando di uno sguardo Grant, che dopo aver lanciato la lettera a Federica, uscì a passo di marcia dalla sala.

*

Antonia scavalcò un ramo secco sollevando la gonna e proseguì con gli occhi fissi davanti a sé. Ormai da qualche ora camminava con passo rapido ma silenzioso verso il Varco: in una manica aveva infilato un rametto raccolto appena fuori dal castello, sperando che in caso di necessità la sua Magia si risvegliasse com’era successo il giorno del suo arrivo, e questo pensiero bastava a darle quel pizzico di sicurezza che le serviva per andare avanti.
   Fino a quel momento era riuscita a evitare le zone in cui di solito bivaccavano gli Orchi, che sembravano essere insolitamente tranquilli: per aumentare le sue possibilità di arrivare indenne al Varco aveva persino rinunciato alle scarpe, intuendo che sul suolo della foresta i suoi piedi nudi avrebbero prodotto meno rumore che se fossero stati coperti. Stava andando tutto bene.
   Ma non ancora per molto.
   La ragazza aveva appena formulato quel pensiero che il suono sordo di passi veloci la raggiunse. Stringendo la gonna in una mano Antonia spiccò una corsa in punta di piedi, mentre i suoi occhi cercavano frenetici un riparo e la mano libera andava a sfilare il ramo dalla manica.
   Il suono, sebbene attutito dal suolo, divenne più forte: il fruscio di foglie secche calpestate senza alcun riguardo si aggiunse ai tonfi ritmici e Antonia si voltò a fronteggiare il suo assalitore, il ramo ormai trasfigurato in una solida spada.
   A due centimetri dal taglio della lama stava il muso di un lupo: la ragazza sollevò lo sguardo e riconobbe con disgusto, terrore e rabbia il cavaliere.
   Voltatasi di scatto, Antonia mollò la spada, raccolse la gonna perché non le fosse d’intralcio e si mise a correre sul serio; Grant smontò dal lupo e la rincorse, e con le sue lunghe gambe gli fu ridicolmente facile raggiungerla e tagliarle la strada.
   «Vattene!» sibilò Antonia, cercando con gli occhi qualcosa da trasformare in un’arma. In quel momento rimpianse di essere a piedi nudi: se avesse avuto le scarpe, avrebbe potuto sfilarsene una e tramutarla in una spada. Non aveva dubbi che ci sarebbe riuscita: si sentiva minacciata da Grant molto più che da un intero clan di Orchi.
   «Si può sapere come ti è venuto in mente di avventurarti non solo fuori dal castello, ma addirittura in questo quadrante?» sussurrò lui arrabbiato. «Sei più stupida di quanto pensassi!»
   «Credevo ti avrebbe fatto piacere: con ogni probabilità entro un’ora un Orco mi vedrà e mi ridurrà in briciole» rispose sarcastica lei. «Non è quello che vuoi?»
   Grant si accigliò. «Sei isterica» decretò.
   «Solo stanca di averti tra i piedi ed essere minacciata da te» replicò Antonia. «Adesso sparisci e lasciami proseguire: se tutto va bene, riuscirò ad arrivare al Varco e a tornarmene a casa mia»
   «Non puoi sperare di superare tutti gli Orchi che infestano la zona» disse Grant, incrociando le braccia al petto.
   «Preferisco morire tentando, piuttosto che avere ancora a che fare con te» dichiarò secca la ragazza.
   «Al castello mi stanno già assillando perché mi ritengono colpevole di averti fatto intraprendere quest’impresa folle» sbuffò il capitano.
   «Chissà come mai!» disse ironicamente Antonia.
   «Non è certo colpa mia se sei pazza» rispose in tono di sdegno Grant.
   «No, ma è colpa tua se sono esasperata e non riesco più a chiudere occhio né di giorno né di notte!» gli ritorse contro lei.
   «In ogni caso, se muori non mi daranno più pace» concluse l’uomo, abbrancandola alla vita e mettendosela sottobraccio come fosse stata una bambola di pezza. «Quindi adesso torniamo al castello».
   Antonia era tutt’altro che pronta a cedere. Gli rifilò un pugno ben piazzato al fianco; il dolore e la sorpresa fecero mollare a Grant la presa e la ragazza si raddrizzò più veloce di un fulmine, correndo nella direzione che aveva seguito fino a quel momento.
   «Oh no, non credo proprio!» disse lui, rialzandosi un po’ dolorante e correndole dietro: le saltò addosso, inchiodandola al suolo e bloccando senza sforzo ogni suo tentativo di divincolarsi. «Smettila un po’!» sbottò esasperato, rialzandosi: l’acchiappò di nuovo per i fianchi e se la tenne stretta al petto con un braccio, mentre con la mano libera bloccava quelle di lei e si avviava verso il lupo docilmente in attesa. «È inutile che ti ribelli: tanto non ti mollo» l’avvertì.
   «Tentar non nuoce» sibilò Antonia, scontrandosi con la presa ferrea di Grant. «E lasciami!» ululò.
   Guardandosi attorno circospetto, Grant le lasciò i polsi solo per schiaffare la propria manona sulla sua bocca e zittirla. «Ma sei veramente così stupida?» sussurrò furibondo. «Urlare in un bosco pieno di Orchi, proprio una bella idea. Vuoi farci ammazzare entrambi?».
   Lo sguardo fosco di Antonia diceva chiaramente che considerava la propria morte un ben misero prezzo da pagare, se questo significava mandare all’altro mondo Grant.
   Intanto avevano raggiunto il lupo del capitano.
   «Per cavalcare devo tenere le redini almeno con una mano» disse l’uomo, «ma se urli, giuro che ti strozzo!»
   «Considerate le minacce che mi fai di solito, strozzarmi sarebbe quasi un gesto d’amore» rispose sarcastica Antonia mentre Grant la schiaffava sulla sella senza troppi complimenti e la seguiva con un balzo per non darle il tempo di scappare, sistemandosi dietro di lei.
   «Sarà meglio non parlare: il viaggio di ritorno sarà abbastanza lungo e io potrei sempre cedere alla tentazione di ucciderti e dare la colpa agli Orchi» disse altero Grant, tenendola così stretta da farle male. Antonia trattenne un gemito di frustrazione: quel viaggio sarebbe stato davvero molto, molto lungo.

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Capitolo 4
*** La forza degli ideali ***


Dopo la tentata fuga di Antonia, Grant era diventato poco meno di un fantasma. Non lo si vedeva mai: passava la maggior parte del suo tempo in qualche angolo remoto del castello che nessuno era stato in grado di individuare e ne usciva soltanto per svolgere i propri compiti di capitano. Neanche ai pasti si faceva vivo, e inutilmente Baumann si era appostato in cucina per tre notti di seguito nel tentativo di coglierlo sul fatto: a quanto pareva, Jonas era più bravo di quanto immaginasse, a nascondere le tracce del suo passaggio.
   Antonia, che all’inizio era stata indicibilmente sollevata dal nuovo atteggiamento del capitano, ora si sentiva in colpa. Grant viveva lì da quando era nato, e adesso per causa sua – seppure indirettamente – si ritrovava a nascondersi nella sua stessa casa. Provò a farne parola con Federica.
   «Non capisco perché te ne preoccupi» disse quest’ultima quando l’amica le rivelò i propri pensieri. «Non hai fatto niente di male: semmai è stato quel cretino di un capitano a comportarsi in modo pessimo nei tuoi confronti, e se non è abbastanza maturo o intelligente da riuscire a comportarsi civilmente, tanto peggio per lui. Che rimanga pure nel buco in cui s’è nascosto!».
   Così Antonia aveva rinunciato a ricevere un consiglio degno di tale nome dall’amica. Per un po’ si era chiesta con chi potesse parlarne, ma nessuno sembrava adatto: Isdrid, l’unica altra donna con cui avesse contatti regolari a palazzo, ancora non le ispirava una completa fiducia; Illyrio non invogliava alle confidenze; Mastro Devall era troppo preso dal suo ruolo e i gemelli erano…be’, erano i gemelli: troppo fanciulleschi nonostante fossero i comandanti dell’esercito. Antonia dubitava fortemente che Alec o Zane potessero aiutarla a sbrogliare la matassa confusa dei propri pensieri.
   Mentre rimuginava su quei pensieri si accorse che i suoi passi distratti l’avevano portata ai piedi della Torre del Larice: la chioma dell’albero che dava il nome a quella torre svettava nel cielo, oscurando parzialmente i raggi del sole. Antonia si avvicinò al tronco e ne sfiorò la corteccia con un gesto delicato, come avrebbe potuto fare con la pelle di un amante; e quando una mano maschile si unì alla sua, accarezzando l’albero e quasi toccando le sue dita con le proprie, lei non sobbalzò né si voltò. Se quella mano avesse mostrato piccole cicatrici o i segni delle intemperie, dell’aria aperta, di una vita avventurosa e piena di pericoli, avrebbe riconosciuto in Grant il suo possessore e con ogni probabilità sarebbe scappata a gambe levate come faceva sempre quando il capitano era nei paraggi: ma quella mano aveva una pelle liscia e morbida anche se lievemente scurita dal sole, con le dita affusolate e le unghie rosee, e a palazzo un solo uomo aveva mani del genere.
   «Spero di non disturbare la sua passeggiata, Antonia» disse Baumann con un sorriso.
   La ragazza ricambiò il sorriso. «Niente affatto, Maestà».
   Il principe portò le mani dietro la schiena e la guardò con aria pensosa. «Perché formalizzarsi tanto sui titoli ed essere schiavi delle rigide regole del galateo? Ormai viviamo sotto lo stesso tetto, e non negherò che insieme a Federica siete delle ospiti più che gradite». Baumann rise. «Raramente ne abbiamo, qui, visto quant’è pericoloso viaggiare da una contea all’altra!».
   Antonia trattenne un secondo sorriso e gli porse la mano. «E noi non potevamo sperare in un’ospitalità più calorosa, Baumann» dichiarò.
   Lui le afferrò la mano e la strinse tra le proprie. «Noi saremo buoni amici, vero, Antonia?»
   «Lo spero» rispose la ragazza. «Lo spero molto. Ora più che mai ne ho bisogno».
   Baumann la invitò con un gesto del capo a passeggiare lungo la corte interna.
   «Devo ammettere che il vostro arrivo ha portato una ventata d’aria fresca al castello, e anche un po’ di scompiglio» disse, mentre percorrevano con passi lenti il perimetro del giardino. «Con voi qui, la vita è molto più divertente e imprevedibile».
   Antonia, intuendo che Baumann si riferiva al suo travagliato rapporto – se di rapporto si poteva parlare – con Grant, preferì tacere.
   Il principe la osservò con discrezione, attento al suo mutare d’espressione. «Ho l’impressione che qualcosa ti turbi» si risolse a dire. «Mi rendo conto che poco più di una settimana di conoscenza non è granché per essere eletto confidente di qualcuno, ma mi chiedevo se ti andasse di parlarne» aggiunse con delicatezza.
   Antonia rimuginò sulle sue parole tanto a lungo da fargli credere di non voler rispondere.
   «Be’, io…io mi sento un po’ in colpa» confessò infine, stupendo Baumann. «Per quanto il capitano si sia comportato…non bene, diciamo, nei miei confronti, mi sembra di averlo reso un reietto nella sua stessa casa».
   L’uomo annuì una sola volta. «Capisco come tu debba sentirti, ma vorrei cercare di rassicurarti su questo punto» disse. «Nessuno ha isolato Jonas, tanto meno per quello che è successo tra di voi: certo, mamma Isdrid l’ha rimproverato fin quasi a fargli sanguinare le orecchie, ma lo fa sempre con ognuno di noi quando sbagliamo…figurati che nemmeno Illyrio sfugge alle sue prediche!» rise. Rendendosi conto che Antonia non sembrava ancora convinta, tornò serio. «Antonia, non hai colpe per quanto è successo…anche perché di fatto per Jonas non è cambiato nulla: è lui che vuole nascondersi ed evitare gli altri. Lo fa sempre quando qualcosa non va come vorrebbe lui: pensa che a tredici anni aveva deciso di voler già combattere, e quando glielo impedirono, fece la stessa cosa per oltre tre mesi»
   «E alla fine la spuntò?» chiese Antonia, incuriosita.
   «Nemmeno per sogno!» rispose Baumann, sghignazzando. «Solo che a un certo punto si stancò della solitudine e tornò quello di sempre. Jonas è fatto così: un po’ rude e decisamente più solitario della media, ma in fondo non è cattivo. Spero che ti darà modo di ricrederti, su di lui. Fino a quel momento lascialo fare, ha i suoi tempi, come tutti noi, e soprattutto non dargli ascolto se si comporta da…be’, da stronzo! Lui sa bene che non sei una minaccia, ma il suo attaccamento alla famiglia e il suo senso del dovere a volte lo fanno sragionare. In ogni caso con te abbaia parecchio, fin troppo senza dubbio, ma non ti morderebbe mai».
   Antonia, sentendosi finalmente sollevata, sorrise. «Sei una persona dotata di grande tatto oltre che di buonsenso» disse. «Raramente ho incontrato qualcuno come te»
   Baumann le fece l’occhiolino. «Mi piacerebbe poter dire che nel nostro mondo siamo molto più civili e beneducati che negli altri, ma l’esistenza stessa di Jonas confuterebbe una tale affermazione».
   La ragazza soffocò malamente una risata mentre Mastro Devall li raggiungeva.
   «Maestà, vi attendono nella Sala delle Conferenze» disse ossequioso.
   Il principe non trattenne un gemito di disappunto. «Me n’ero completamente dimenticato» borbottò. «Il dovere non cessa mai di chiamarmi. Antonia, ci rivediamo a cena» si congedò facendole il baciamano.
   «Divertiti» sghignazzò lei senza ritegno. Baumann le rivolse una smorfia buffa mentre se ne andava insieme a Mastro Devall e spariva nei meandri del castello.
   Di nuovo sola, Antonia seguì i passi dei due uomini e tornò a vagare per i corridoi: trovava affascinante quel luogo così bizzarro, e non si stancava mai di esplorarne le profondità e gli anfratti più reconditi. Un’ora più tardi il suo vagare la condusse a un’altra delle tante porte che davano sul parco del castello. La targa consunta e resa opaca dal tempo recitava in grandi caratteri “Torre del Cipresso”.
   La ragazza spinse con cautela la porta e mosse qualche passo esitante all’esterno. Il giardino di quella torre era molto diverso da quelli che aveva visto fino a quel momento: polveroso e in più punti invaso dalle erbacce, dava l’impressione di non vedere spesso anima viva. Antonia si avventurò con passo leggero sotto il massiccio colonnato che cingeva il perimetro, scrutando tutt’intorno con aria guardinga.
   All’improvviso un pugnale sibilò vicinissimo al suo naso e si conficcò per dieci centimetri buoni nella parete, vibrando minaccioso.
   Antonia, che si era immobilizzata sudando freddo, si girò nella direzione da cui era arrivato il pugnale e vide un Grant cereo correrle incontro.
   «Io…non l’ho lanciato contro di te» furono le prime parole dell’uomo. «Mi stavo allenando. Non avevo idea che fossi qui, non ti avevo vista».
   La ragazza prese un respiro profondo, riconoscendo la verità nelle parole di Grant: in fondo era colpa sua, era stata lei a infilarsi di soppiatto in quel giardino e a decidere di spostarsi in silenzio e nell’ombra, nascondendosi dietro le colonne. Lui non avrebbe potuto vederla, non senza sapere che fosse lì.
   «Lo so» rispose calma dopo aver preso un altro paio di respiri profondi. Strinse forte la mano intorno all’elsa del pugnale e con un gesto deciso lo estrasse dal muro per poi porgerlo al proprietario. «Quindi è qui che ti nascondi» disse. Colse lo sguardo preoccupato e indispettito di Grant. «Tranquillo, capitano, non lo dirò a nessuno» aggiunse.
   Grant si rilassò visibilmente e si riprese il pugnale. I due si guardarono in silenzio per un po’; Antonia, sentendosi sulle spine, alla fine si schiarì la voce.
   «Mi…mi dispiace di averti disturbato» si forzò a dire, tenendo gli occhi bassi. «Stavo girando per i giardini del castello e…». La ragazza s’interruppe, improvvisamente nervosa: le erano appena tornate in mente le minacce di Grant, quelle che le aveva fatto il famoso giorno in cui lei, poi, s’era avventurata tra gli Orchi. Tacque.
   «Non potevi sapere che ero qui» concluse Grant per lei, a disagio, intuendo i suoi pensieri. «Non fa niente».
   Antonia si costrinse a sollevare lo sguardo. «Io…volevo anche scusarmi per…», esitò, incerta su come proseguire: lo sguardo fisso e impenetrabile del capitano non l’aiutava di certo, «per…». La sua voce sfumò e si spense.
   Grant si massaggiò il collo: sembrava imbarazzato. «Quindi stavi esplorando i giardini del castello» disse.
   «Io…sì» rispose Antonia, quasi temendo la reazione dell’uomo. «Sì».
   «Be’, sono tanti» commentò lui laconico.
   «Lo so. È per questo che sono entrata» disse la ragazza. «Cioè, uscita. Voglio dire…»
   «Ho capito». Il capitano giocherellò con il pugnale, evitando lo sguardo di Antonia come lei evitava il suo. «Questa zona del castello e la Torre del Cipresso sono disabitate da un pezzo, praticamente abbandonate: non c’è niente da vedere».
   Antonia, interpretando le sue parole come un invito ad andarsene, incassò la testa tra le spalle.
   «Ho capito» pigolò. «Allora io…io vado» annunciò, voltandogli le spalle e andando dritta verso la porta da cui era entrata.
   Grant la fissò per qualche istante, poi la inseguì con due rapide falcate.
   «Se…» disse; Antonia, sorpresa che lui le stesse parlando, si fermò e si voltò di nuovo verso di lui. Grant si schiarì la voce, imbarazzato dall’espressione sconcertata di Antonia, «se ti va però puoi…dare un’occhiata. Ci sono delle piante interessanti…». La voce del capitano divenne un mormorio indistinto. «Se vuoi te le mostro» aggiunse, in evidente difficoltà.
   Gli angoli della bocca di Antonia si piegarono impercettibilmente all’insù. «Sì» disse soltanto, affiancandolo e lasciando che le facesse strada.

*

   Le due ragazze si erano adattate rapidamente alla vita in quel palazzo fatto, come ogni altra cosa nel regno, di arbusti e cespugli: come aveva spiegato loro Mastro Devall, le piante erano le uniche a non risentire dei continui terremoti grazie alla particolare struttura delle loro radici che, legandosi le une alle altre, creava un naturale reticolato antisismico; motivo per cui la maggior parte delle mura erano in realtà costituite dai tronchi e dai rami degli alberi stessi.
   L’idea di abitare in un palazzo quasi dotato di vita propria aveva reso loro più facile accettare il fatto di essere capaci di usare la Magia: sotto la guida di Illyrio, il Magister Fascinationum di palazzo, entrambe compivano grandi progressi ogni giorno che passava. E neanche l’addestramento nell’uso delle armi veniva trascurato: Alec e Zane si erano assunti l’incombenza di istruire Antonia e Federica con un entusiasmo quasi contagioso, tanto che ormai i quattro si tendevano agguati l’un l’altro a qualsiasi ora del giorno e della notte, talvolta spaventando a morte gli altri abitanti del castello.
   Sebbene le settimane scorressero tranquille e piacevoli, le ragazze non potevano fare a meno di sentire la mancanza delle rispettive famiglie: immaginavano quanto dovessero essere preoccupati dalla loro improvvisa sparizione, e desideravano poterli rassicurare al più presto. Gli Orchi, però, sembravano non volerne sapere di spostarsi dalla zona del Varco: come Antonia aveva appurato di persona dalla cima della Torre della Quercia grazie a un potente binocolo, i Signori del Terremoto continuavano a imperversare in quel quadrante, rendendo impossibile per loro avventurarvisi senza pericolo. E così continuavano a essere bloccate a palazzo, senza altro da fare che riempire le proprie giornate come meglio potevano.
   Fu due mesi dopo il loro arrivo nello Staudeheim che trovarono uno scopo alla loro permanenza lì.
   Era una giornata ancora calda nonostante fosse già autunno inoltrato; gruppi di soldati guidati dal capitano Grant erano usciti come ogni giorno per controllare il perimetro del castello e le zone circostanti quando erano stati attirati in un’imboscata degli Orchi. Ne erano usciti per miracolo, e prima di riuscirci tre degli uomini erano comunque morti sotto i colpi dei nemici.
   Il principe aveva subito convocato il Consiglio.
   «Dobbiamo dare loro una lezione!» tuonò Grant; nonostante la ferita sanguinante sulla fronte, aveva l’aria battagliera e sembrava impaziente di tornare fuori.
   «È un suicidio, Jonas» tentò di farlo ragionare Devall.
   «E cosa dovremmo fare? Restare a guardare?» s’intromise Isdrid, lo sguardo fosco.
   «No, ma non possiamo prendere decisioni simili sull’onda dei sentimenti!»
   «Dobbiamo agire, questo è chiaro» decretò Baumann, il volto tirato. «Vogliono tenderci delle imboscate? Ebbene, noi faremo lo stesso con loro!».
   Federica e Antonia, che avevano ottenuto di assistere alla discussione, dopo aver parlottato sottovoce per un po’ si scambiarono uno sguardo d’intesa, e la seconda si alzò.
   «Maestà, io e Federica avremmo un’idea» disse, rivolgendosi a Baumann in modo formale come ancora si ostinava a fare in pubblico, nonostante lui l’avesse esortata a non farsi simili problemi.
   Il principe aggrottò le sopracciglia. «Vi ascoltiamo»
   «Abbiamo notato che il vostro esercito è composto soltanto da uomini, quindi, non appena ne vedono uno, gli Orchi sanno che è imminente un attacco» iniziò la ragazza. «Dalle donne, invece, non si aspettano nessuna minaccia»
   «Ci stai suggerendo di mandare le nostre donne a farsi ammazzare dagli Orchi?» sputò Grant.
   «Vi sto suggerendo di lasciar andare noi» replicò lei, accennando a se stessa e a Federica.
   «È escluso» disse subito Baumann. «Siete sotto la mia protezione, non posso permettervi di rischiare la vita in questo modo».
   «Insistiamo» replicò Antonia con decisione. «Maestà, sa che sarebbe perfetto: ormai sappiamo gestire la nostra Magia piuttosto bene, il che ci permette di crearci le armi dal nulla, e gli Orchi non sospetteranno nulla fino a quando non sarà troppo tardi»
   «Diventerete dei bersagli» le fece notare il principe.
   «Lo siamo già» disse Antonia. «L’unica distinzione che fanno gli Orchi è tra loro stessi e tutti gli altri: tanto vale renderci utili».
   «L’ho sempre detto che sei pazza» intervenne Grant, scoccandole uno sguardo di fuoco a cui Antonia rispose con uno battagliero.
   «Grant, non cominciare» lo avvertì.
   Il capitano la guardò malissimo, poi incrociò le braccia dietro la testa fingendo indifferenza e si dondolò sulle gambe posteriori della massiccia sedia. «Sai cosa, straniera? Hai ragione. Non sei mia sorella, non sei mia amica, non sei una donna dello Staudeheim. Vuoi ammazzarti? Fa’ pure. Io però non verrò a salvarti!»
   «Sei sempre il solito stronzo» replicò Antonia. Gli rivolse uno sguardo beffardo. «Non è che per caso ti preoccupi per me, capitano?».
   Jonas arrossì. «Come ho detto, per me non sei nessuno. Se vivi o se muori, a me non cambia nulla»
   Antonia inarcò un sopracciglio. «Attento, Grant: un giorno potresti rimangiarti queste parole!» lo provocò, facendo di tutto per essere indisponente.
   «Avete finito, piccioncini?» chiese Alec in tono di sopportazione.
   Entrambi lo guardarono sgranando gli occhi.
   «Piccioncini? Noi? Meglio la castità!» dichiarò Grant, guardando schifato Antonia.
   «Con questo qui? Neanche se fosse l’ultimo uomo in tutti i mondi e da noi dipendesse la sopravvivenza della razza umana!» disse Antonia con aria di superiorità.
   Alec alzò gli occhi al cielo e scosse la testa, imitato da Zane; Baumann nascose un sorriso dietro la mano, esilarato dal siparietto tra Jonas e Antonia.
   «In ogni caso, non vi permetto di andare» decise quest’ultimo, tornando serio. «Non è solo pericoloso, è un suicidio. Sareste soltanto in due, e anche se ammetto che avete compiuto progressi incredibili in un tempo ridottissimo, il vostro addestramento non è ancora sufficiente a sfidare dei combattenti umani, figuriamoci degli Orchi!»
   «Non abbiamo in mente un corpo a corpo con gli Orchi» ribatté Antonia. «Non siamo stupide né avventate. Abbiamo un piano, un buon piano con ottime possibilità di riuscita: conosciamo i rischi e siamo pronte ad affrontarli»
   «Ma…» insorse il principe, sconcertato e preoccupato alla sola idea di saperle all’esterno, sole e prive di protezione.  
   «Lasciale tentare, Baumann» intervenne Isdrid. «Sanno quello che fanno».
   L’uomo si afflosciò nel trono. «E sia» cedette.
   Le due ragazze si inchinarono. «Non ve ne pentirete, Maestà: è una promessa».

*

Antonia e Federica vagavano a circa dodici miglia dal palazzo, in una zona apparentemente deserta, ben celate da mantelli e cappucci. Sotto le cappe nascondevano vari oggetti leggeri e poco ingombranti da trasformare, al momento giusto, in armi.
   «Non dovrebbe mancare molto» mormorò Federica, tesa ma determinata. «Tra poco saremo in vista»
   «Sono pronta» replicò Antonia.
   «Credi che ce la faremo?»
   «Lo credo».
   Federica prese fiato: erano quasi arrivate all’accampamento degli Orchi. «E se ci uccidessero?»
   «Allora moriremo facendo la cosa giusta» rispose calma l’altra, «per aiutare la nostra nuova famiglia».

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Capitolo 5
*** Il Dio degli Alberi ***


Dopo quel primo, coraggioso attacco – terminato con lo sterminio quasi totale di quel contingente di Orchi – Antonia e Federica erano state inserite di diritto nella squadra d’assalto del palazzo: ormai da quattro mesi, ogni giorno uscivano dalle mura sicure del palazzo per respingere e decimare gli Orchi, impreparati ad affrontare nuovamente simili offensive.
   Il tempo passato al castello era altrettanto produttivo: seguendo gli insegnamenti di botanica di Mastro Devall, Antonia aveva scoperto che a rendere le piante dello Staudeheim resistenti ai terremoti era la linfa di un piccolo cespuglio dalle bacche giallo pallido che cresceva avvinghiato a ogni altro esemplare vegetale e che, se estratta e bollita, diventava una gomma facilmente modellabile. Appurato che era proprio quella linfa ad assorbire e annullare le vibrazioni, e seguendo l’intuito e conoscenze a cui non aveva mai dato grande peso, la ragazza aveva convinto gli artigiani dei vari villaggi a creare dei reticolati con questa gomma e impiantarli pochi centimetri sottoterra: questa trovata aveva fatto sì che la stragrande maggioranza dei sismi non arrivasse più in superficie. L’altra astuta mossa era stata quella di creare con la stessa gomma le suole delle scarpe, dimodoché, durante gli scontri con gli Orchi nei territori ancora non “bonificati”, i soldati non soffrirono più lo svantaggio della perdita d’equilibrio causata delle incessanti martellate dei nemici sul terreno.
   In breve, Antonia divenne indispensabile. Il suo parere era sempre richiesto, la sue idee subito messe in pratica; il principe la cercava spesso, per discutere del regno e non solo, e la ragazza si era scoperta avida del tempo passato con lui, desiderosa di ottenere i suoi sguardi, i suoi sorrisi, la sua approvazione.
   Il coraggio con cui lei e Federica si gettavano nella mischia era un ulteriore motivo di fiducia per chi combatteva al loro fianco. Persino Grant si era ricreduto: adesso discuteva spesso di strategia con le ragazze, e pianificava con loro ogni assalto.
   Entrambe avevano scoperto di possedere un innato talento nel tiro con l’arco: era diventata la loro arma preferita, e permetteva loro di abbattere gli Orchi anche da grandi distanze. Antonia aveva anche scoperto il piacere del cavalcare a dorso di lupo: trovata un’affinità inaspettata con un lupo non del tutto domato che nessuno osava cavalcare, e conquistata la fiducia dell’animale, aveva imparato cosa significasse sentirsi un tutt’uno con la propria cavalcatura. Nebbia – così l’aveva chiamato, a causa del mantello di un grigio chiarissimo e del passo leggero e felpato – era diventato il suo fidato compagno: insieme avevano attaccato alle spalle decine di Orchi, insieme e separatamente. I lupi giganti dello Staudeheim, infatti, essendo gli unici animali in grado di sbranare gli Orchi, erano i loro nemici naturali: dunque capitava spesso che, raggiunto il campo di battaglia, Antonia liberasse Nebbia dei finimenti, permettendogli così di sbranare i nemici mentre lei li bersagliava con le proprie frecce.
   In quattro mesi, Antonia era diventata una leggenda vivente.

*

   Quella giornata si prospettava essere una delle peggiori in assoluto: arrivati al punto stabilito, i soldati di Baumann avevano scoperto che gli Orchi erano molto più numerosi di quanto credessero; ed essendo già stati visti dai nemici, non potevano ritirarsi e riorganizzarsi.
   Smontata di sella, Antonia aveva ridotto i finimenti a un semplice collare e lasciato Nebbia libero di saltare alla gola dell’Orco più vicino; affiancata Federica, aveva toccato le due fasce di stoffa che portava a tracolla, trasformandole in uno splendido arco d’argento e in una faretra dello stesso materiale colma di frecce scintillanti.
   «Pronta, Fede?» chiese, scoccando la prima freccia dritto nell’occhio di un Orco.
   «Sempre» rispose l’altra, piantando a sua volta una freccia nella fronte di un nemico. «E mai» grugnì, colpendone un secondo che si avvicinava minaccioso ad Alec.
   «Abbattiamone più che possiamo e ritiriamoci!» urlò Grant: erano in venti contro almeno cento Orchi, e non voleva perdere nessun uomo.
   «Pensi davvero che ce lo lasceranno fare, Jonas?» gridò Antonia in risposta.
   Grant non rispose, troppo occupato a infilzare ripetutamente un Orco allo stomaco. A Jonas il coraggio non mancava, ma era finito troppe volte in scontri impari e sapeva che, a meno di andarsene alla svelta, qualcuno di loro sarebbe caduto sul campo. Le due ragazze – che mai avevano assistito all’orrendo spettacolo del martello di un Orco che si abbatte su una persona – non riuscivano a percepire come tangibile un simile rischio: fino ad allora l’avevano sempre spuntata, ed erano certe che ce l’avrebbero fatta anche quella volta.
   Sterminato un buon terzo degli Orchi presenti Grant ordinò la ritirata solo per vedersi sbarrare la strada. I suoi peggiori timori si stavano avverando: rischiavano di essere sopraffatti.
   «Antonia, Federica, dobbiamo andarcene!» urlò Jonas.
   «Nebbia!» gridò Antonia, richiamando il lupo; anche gli altri richiamarono i propri, e li aizzarono contro gli Orchi mentre loro stessi continuavano a combattere. Ma i nemici non cedevano: nonostante i morsi, le frecce e i colpi di spada, a poco a poco stavano stringendo il cerchio intorno a Grant e i suoi compagni.
   Antonia si rese conto per la prima volta in quel momento di cosa fosse una vera battaglia contro i Signori del Terremoto: i martelli mulinavano da tutte le parti sibilando nell’aria, i boati dei continui sismi la stavano assordando e il sangue verdastro e vischioso degli Orchi schizzava dalle ferite che lei e i suoi compagni gli infliggevano, inzuppandola.
   «Avanti, Nebbia, sbranali tutti!» urlò la ragazza. Il lupo ululò la propria risposta e si scagliò con maggiore ferocia contro i nemici. Lei si voltò, e le si gelò il sangue nelle vene: un martello enorme stava calando proprio dove si trovava Grant, alle prese con un altro Orco.
   «Jonas!» gridò disperata; il martello si abbatté con tanta forza da creare una lunga, profonda fenditura nel terreno.
   E di Jonas Grant non c’era traccia.
   «JONAS!» urlò di nuovo Antonia; scoccò tre frecce con rapidità e precisione, uccidendo altrettanti Orchi, e corse lì dove il martello era rimasto al suolo. «JONAS!».
   Antonia era terrorizzata all’idea di avvicinarsi troppo; temeva di vedere il corpo di Grant mutilato e distrutto da quel colpo poderoso. Vide sbucare un piede, e per un istante si bloccò: non era certa di avere la forza di avanzare ancora, di scoprire che ormai di quello che era il suo migliore amico non restava più nulla.
   Ma Grant era salvo: al grido di Antonia aveva visto l’enorme martello calare su di sé e si era gettato di lato appena in tempo. Nell’impatto con il terreno aveva sbattuto la testa ed era rimasto stordito, momentaneamente incapace di rispondere ai richiami della ragazza.
   «Antonia» borbottò.
   La giovane donna si gettò su di lui e lo strinse tanto forte da levargli il fiato. «Dèi, Grant, sei vivo!».
   «Ancora per poco, se non ci alziamo» replicò lui.
   Antonia si alzò, lo prese per le braccia e lo rimise in piedi. «Dobbiamo andarcene, di corsa» disse.
   Jonas sbuffò esasperato. «E dovevo quasi rimetterci la pelle perché tu lo capissi?»
   «Sta’ zitto o ti lascio qui!» minacciò lei.
   «Uomini, RITIRATA!» urlò Grant.
   Con agili balzi, tutti rimontarono a dorso di lupo: le intelligente bestie, ululando e facendo scattare le mascelle, si aprirono un varco tra gli Orchi. Antonia, Federica e quattro uomini coprirono la ritirata facendo cadere sui nemici che li braccavano una pioggia di frecce: il gruppo degli inseguitori si assottigliò fino a quando non si arresero, fermandosi fuori dalla portata degli arcieri, roteando i martelli in aria e urlando la loro rabbia sotto i rami spogli degli alberi.

*

Il rientro a palazzo era avvenuto nel totale silenzio. Nonostante fossero tutti vivi, parecchi erano feriti: alcuni dei soldati, pur non essendo stati schiacciati, erano comunque stati colpiti dai martelli, riportando varie fratture, e al loro arrivo si erano visti rinchiudere da Isdrid nell’ala del castello adibita a infermeria.
   Antonia, che aveva solo qualche graffio, si eclissò prima che Isdrid potesse decidere di trattenere anche lei. In verità la Magistra Sanationis non solo l’aveva vista, ma l’avrebbe anche trascinata in infermeria con gli altri feriti se Grant non fosse intervenuto.
   «Lasciala stare, mamma Isdrid» mormorò Jonas. Alla donna questo bastò per capire quanto fosse delicata la situazione: era raro che il capitano si rivolgesse a lei chiamandola “mamma”. «Ha avuto una brutta giornata».
   Lei lo fissò. «È quasi morta?».
   Grant scosse la testa. «Sono quasi morto io».
   Isdrid aggrottò le sopracciglia. «Per colpa sua?».
   «La sua unica colpa è di avermi avvertito un attimo prima che un martello mi schiacciasse».
   La donna sospirò. «Ho capito».
   Intanto Antonia, ignara della conversazione tra Isdrid e Jonas, aveva lasciato che i piedi la conducessero dove volevano, senza preoccuparsi di sapere dove stava andando. Si ritrovò senza quasi rendersene conto vicino alla Torre del Faggio: era intenta a osservare l’imponente costruzione quando qualcuno la chiamò.
   «Antonia?» disse Baumann, sorpreso. La ragazza alzò lo sguardo: la testa del principe faceva capolino da un intrico compatto di rami, a quattro metri da terra, e i suoi occhi la osservavano con perplessità e un pizzico di preoccupazione. «C’è una fessura tra gli alberi, proprio davanti a te. Sali».
   Andando dove l’uomo le aveva detto, Antonia si rese conto che quello che aveva scambiato per un singolo albero era in realtà un intrico di più alberi, cresciuti talmente vicini e avvinghiati da sembrare una cosa sola. All’interno c’era uno spazio vuoto e una scala rudimentale: la donna salì fino a sbucare in una sorta di casa sull’albero chiusa da ogni lato dai rami strettamente intrecciati e sormontata da una cupola di foglie. Soltanto il pavimento sembrava essere stato creato dalla mano umana con delle assi ben posizionate che sparivano sotto un mare di coperte e cuscini. Baumann era l’unico di cui desiderasse la compagnia, in quel momento: con il passare dei mesi tra di loro era nata una grande complicità, e trascorrevano molto tempo in compagnia l’uno dell’altra.
   «Baumann, che ci fai quassù?» chiese senza un vero interesse.
   L’espressione dell’uomo divenne furiosa. «Ero salito sulla Torre per controllare come ve la stavate cavando: quando ho visto che eravate in inferiorità ho cercato di raggiungervi, ma Illyrio mi ha bloccato in quest’ala del castello con i suoi stupidi incantesimi» spiegò tra i denti.
   «Ha fatto bene» disse a sorpresa Antonia. «Ci sono tanti soldati, ma un solo principe»
   «Che razza di principe sono, se non posso nemmeno scendere in battaglia con i miei uomini?» esplose Baumann.
   «Uno cauto, che sa che Staudeheim ha bisogno di un governante» replicò la ragazza. «Che farebbe il regno senza di te? Chi prenderebbe il tuo posto?».
   A sorpresa, Baumann scoppiò in una risata amara. «Mi sembra di risentire mia madre» disse. «Governò il regno per due anni, e non appena raggiunsi l’età giusta per regnare, si lasciò morire. La pregai di non farlo, e lei mi disse: “Non c’è più bisogno di me: sei pronto per il trono. Staudeheim ha il suo principe”».
   Antonia si strinse le ginocchia al petto, turbata da tanta amarezza. «Perché lo fece?» chiese piano.
   Lui gettò indietro la testa e chiuse gli occhi. «È una storia lunga: comincia con un sogno, prosegue con la mia stupidità, e si conclude con una morte». Riaprì gli occhi. «Vuoi ascoltarla?».
   La ragazza annuì.
   «Devi sapere che è stata mia madre a scegliere il nome che porto» esordì Baumann. «Nel nostro mondo crediamo in molte divinità, ma la principale, quella da cui prende il nome anche il regno – Staudeheim significa “casa degli arbusti” – è Baumann, l’Uomo-Albero. Quando era gravida, mia madre fece un sogno profetico: sognò che il bambino che stava per nascere sarebbe stato saldo come un albero nel terremoto. Due mesi più tardi, quando nacqui, mi impose il nome della nostra divinità più importante: un azzardo, e un immenso fardello.
   «Crescendo, mia madre mi narrò più volte di quel sogno. Intanto mio padre, il principe reggente, combatteva contro gli Orchi come dovrei fare io: in groppa a un lupo e con la spada in pugno, al fianco dei soldati. Compiuti sedici anni, decisi che anch’io volevo combattere: ero giovane, ero stupido, ed ero certo che quello fosse il mio destino, l’adempimento del sogno profetico di mia madre.
   «Mio padre si oppose a lungo: non ero pronto, diceva, e aveva ragione. Io però non volevo vedere le verità che mi metteva davanti agli occhi: insistetti ancora, e ancora, e ancora, fino a quando un giorno non mi portò con sé in battaglia».
   Baumann serrò gli occhi per un istante.
   «Quel giorno, gli Orchi erano più violenti e determinati del solito. Ci tesero un’imboscata: ci difendemmo come potemmo ma erano troppi, gli uomini intorno a me morivano e io riuscivo a stento a evitare le martellate. Vedendo combattenti molto più esperti di me perire sotto i colpi dei nemici, fui preso dal panico. Non vidi il martello che calava su di me, ma mio padre sì: mi spinse via, e…prese il mio posto». L’uomo deglutì. «Quando rialzai la testa, di mio padre non c’era più nulla: solo un ammasso irriconoscibile di carne sanguinolenta e ossa frantumante, non c’era più un braccio, una gamba, o…il suo volto…non c’era niente di intero su cui mia madre potesse piangere…».
   Baumann tacque e si voltò; Antonia ebbe l’impressione che volesse nascondere le lacrime. Strisciando sui cuscini gli si avvicinò e accarezzò la parte sinistra della sua testa. «Fu quel giorno che i tuoi capelli diventarono bianchi?» chiese.
   Lui annuì. «Mia madre ne fu…distrutta. Distrutta. Si fece forza perché il regno doveva essere governato, ma non fu mai più la stessa: era il senso del dovere a tenerla in vita. E quando ritenne che non ci fosse più bisogno di lei…si lasciò morire. Così, semplicemente, come un giardino abbandonato a se stesso viene invaso dalle erbacce».
   Antonia chinò la testa. «Non riesco a immaginare come ti sia sentito…e come devi sentirti tuttora. Oggi, per un attimo, ho creduto che Grant fosse stato schiacciato da uno di quei maledetti martelli, ed è stato…orribile».
   Il principe rialzò lo sguardo. «Quindi è per questo che te ne andavi in giro con quell’aria persa».
   La ragazza annuì bruscamente, e Baumann le strofinò una mano sulla schiena.
   «State facendo un ottimo lavoro: tra non molto, potrete recarvi al Varco e tornare nel vostro mondo» disse, cercando di rincuorarla.
   «Non sono certa che sia quello che voglio» mormorò lei, sorprendendolo.
   «No? Ma…perché?» domandò Baumann. «Credevo volessi tornare dai tuoi genitori, dai tuoi amici…a una vita in cui non bisogna lottare ogni giorno per la propria vita e quella degli altri…».
   Antonia si strinse nelle spalle. «Ho nostalgia dei miei genitori, certo; vorrei tanto poter comunicare con loro, rivederli e dirgli che sto bene, ma la verità è che…», la ragazza esitò, «che non voglio andare via: ormai sento che è questa la mia casa».
   Baumann tacque, poi intrecciò le proprie dita a quelle di lei. «Posso sperare di essere uno dei motivi che ti spinge a restare?».
   La ragazza abbassò lo sguardo. «Tu sei ciò che mi tiene incatenata qui».
   Baumann non poteva credere alle proprie orecchie. Ormai da settimane si era reso conto che l’ammirazione per Antonia non poteva spiegare il suo costante desiderio di vederla, di averla sempre accanto, di sentirla ridere e saperla al sicuro. Si era scoperto innamorato di quella straniera coraggiosa e intelligente, ma non aveva osato fare nulla per essere ricambiato: sapere che veniva da un altro mondo, un mondo in cui c’erano una famiglia e una vita intera ad aspettarla, lo aveva frenato, convincendolo che non aveva il diritto di sottrarla a chi l’amava da ben prima di lui.
   Antonia, da parte sua, era stata attratta dal principe sin dal primo momento in cui l’aveva visto. Quel pizzico di tristezza che si portava sempre dietro, nelle rughe intorno agli occhi, l’aveva incuriosita; la sua gentilezza l’aveva portata a fidarsi di lui; il carisma e la decisione con cui governava e si preoccupava dei propri sudditi l’avevano conquistata. Senza rendersene conto aveva iniziato a gravitargli intorno, a voler sconfiggere i Signori del Terremoto non per poter tornare a casa, ma per veder sparire la preoccupazione che riempiva costantemente gli occhi di Baumann: e quando aveva capito di essersene innamorata aveva compreso anche di non poter avere pretese su di lui, che era nato per governare e riportare la pace in quel regno.
   «Voglio restare» disse Antonia con maggiore sicurezza. Si sporse verso l’uomo e gli sfiorò le labbra con le proprie. «Con te, se lo vorrai».
   Baumann la strinse tra le braccia e la baciò. La spinse sui cuscini, infilando le mani sotto la tunica di foggia maschile sporca e lacera che la ragazza aveva indossato durante la battaglia e ignorando il terriccio e il sudore impastati sulla sua pelle ancora calda per l’adrenalina e la lotta.
   Antonia, che non sperava più che quel momento arrivasse, strattonò la tunica rossa che l’uomo indossava, quasi strappandola per la fretta di toglierla di mezzo; Baumann rise e se la sfilò per poi adagiarsi su di lei.
   «Sei sicura di volere questo?» le domandò in un sussurro.
   La ragazza gli rivolse lo stesso sguardo determinato che aveva quando andava in battaglia. «Sì» rispose semplicemente.
   E Baumann non fece più domande, lasciando che fossero i gesti a parlare per lui.

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Capitolo 6
*** Le rivelazioni in un addio ***


Altri due mesi erano trascorsi, fitti di battaglie, di pianificazioni e di baci rubati: il rapporto tra Antonia e Baumann si era rafforzato di pari passo con le vittorie riportate sul campo, che avevano costretto gli Orchi a cedere terreno importante, liberando intere zone del regno.
   Il Varco era di nuovo accessibile.
   Federica era risoluta nella sua decisione di tornare a casa; e Antonia, che sentiva il momento dell’addio avvicinarsi, aveva preso l’abitudine di trascorrere almeno un’ora al giorno con Isdrid. La Magistra Sanationis era divenuta, per la ragazza, una seconda madre; e unendo a questo nuovo legame una spiccata sensibilità, era ben presto stata capace non solo di intuire i pensieri della giovane donna, ma anche di essere eletta sua confidente.
   Grant e Antonia avevano appena finito di rivedere il piano per raggiungere il Varco e permettere a Federica di tornare a casa; l’uomo se n’era andato e il suo posto era stato subito occupato da Isdrid, a cui non era occorso molto per accorgersi del turbamento della ragazza.
   «Ti senti bene?» chiese piano, poggiando una mano su quella di Antonia.
   Antonia scosse la testa. «Non ne sono sicura. Pensare di lasciar andare Federica è…». Si interruppe. «Lei è l’unico legame con il mio mondo, con la mia famiglia…separarci per me significa tagliare l’ultimo ponte con la mia vecchia vita. Mi fa paura».
   Isdrid le sorrise incoraggiante. «Non è un addio, sai. Il Varco sarà sempre lì, e tu potrai tornare a casa quando vorrai»
   «E come tornare indietro?» rispose sconsolata Antonia. «Con gli Orchi ovunque, sempre pronti a ucciderci…senza sapere se me ne troverò davanti uno nello sbucare fuori dal Varco…». Sospirò. «Lo sai che sono già stata fortunata la prima volta: Grant dice che è un miracolo che non ci abbiano viste, considerato che imperversavano in quella zona già da tempo».
   La Magistra la scrutò con aria attenta. «E quello che dice Grant è parola sacra» disse con una punta d’ironia, facendo accigliare l’altra.
   «Se si tratta di questione pratiche, sì» affermò con grande sicurezza. La sua espressione divenne colpevole. «Baumann è…meraviglioso, è dolce, premuroso, e al contempo sa governare il regno con fermezza e grande senso di giustizia: dà certezze, e quando c’è lui mi sembra di essere circondata da un alone di tranquillità. Grant invece…oh, Dèi, Grant è così burbero e scostante, a tratti malfidato e addirittura tanto ipercritico da farmi impazzire di rabbia; e tuttavia…mamma Isdrid, Jonas è l’unico che mi faccia sentire protetta, al sicuro da qualsiasi pericolo e allo stesso tempo libera come un’aquila nel cielo».
   Isdrid assunse un’espressione grave. «Ti sei innamorata di entrambi» decretò.
   Antonia si coprì la bocca con le mani. «No!» negò. «Sono innamorata di Baumann: Grant è solo un amico. Il mio migliore amico: non potrei amarlo come amo Baumann…»
   «Eppure, Antonia, è esattamente quello che è accaduto» la contraddisse la più anziana. «E quel che è peggio, li ami in eguale misura proprio perché sono opposti come il giorno e la notte. Altrimenti come spiegheresti quel giorno di due mesi fa, quando sei tornata al castello talmente fuori di senno da non sapere dove andavi, quando avevi creduto che Jonas fosse stato ucciso davanti ai tuoi occhi?».
   «Te l’ho detto, mamma Isdrid: Grant è il mio migliore amico. Tutto qui» insisté la ragazza.
   Ma Isdrid scosse la testa. «Ho visto il modo in cui lo cerchi con lo sguardo; segui ogni suo spostamento, ti assicuri che sia sempre presente, anche quando sei accanto a Baumann. Non te ne rendi nemmeno conto».
   «Io…io…» balbettò Antonia, sconvolta. «Io non…»
   «Bambina mia, non è detto che sia un male» la consolò con dolcezza la Magistra. «In una certa misura, anzi, è comprensibile: sei innamorata di due fratelli che sono le due facce di una stessa medaglia».
   «Due…due fratelli?».
   Isdrid annuì. «Fratellastri: Jonas è figlio illegittimo del re. L’ebbe con una contessa che frequentava assiduamente la corte: il bambino fu concepito nel giorno consacrato al nostro Dio delle Rocce e nacque in quello in cui festeggiamo il Dio della Guerra. Jonas è nato, a tutti gli effetti, per essere un combattente: rocce e alberi sono del pari saldi nel terremoto, ma l’uno offre ben poca gioia allo sguardo rispetto all’altro; la roccia appare arida, l’albero fecondo; e così tutto ciò che di prezioso è sepolto nella pietra non viene scoperto se non da chi alla roccia si accosta e la osserva, rilevandone la bellezza, così diversa da quella dell’albero ma altrettanto indispensabile».
   «Oh, mamma Isdrid, sono una persona orribile!» pianse Antonia. «Come lo dirò a Baumann? Si sentirà tradito. E per quanta stima abbia di lui, ho paura che potrebbe prendersela con Jonas. Quei due sono così uniti…non voglio essere la causa di un allontanamento tra due amici, due fratelli!».
   «Non credo che accadrà». Isdrid scorse l’espressione della ragazza e rise. «Cara bambina, nel nostro mondo ogni cosa nasce dall’unione tra vari Dèi: abbiamo la convinzione che spesso due persone non bastino a completarsi, ma che per arrivare a tale risultato ce ne possa volere una terza, una quarta o addirittura una quinta!».
   «Quindi voi…voi…» farfugliò Antonia.
   «Noi non costruiamo la nostra vita in funzione di un’unica altra persona: ci si può innamorare di qualcuno per un aspetto del suo carattere, e di qualcun altro per una sfaccettatura ancora diversa» spiegò Isdrid. «Certo, Baumann tende ad attaccarsi molto alle persone che ama e Jonas, da vero guerriero, è un tantino possessivo…ma sono sicura che troverete un equilibrio, se vorrai tentare».
   La ragazza rimase in silenzio, a capo chino. Poi si alzò.
   «Credo che andrò da Federica: domani riattraverserà il Varco e voglio passare un po’ di tempo con lei» disse.
   L’altra donna annuì in silenzio e la osservò uscire dalla stanza: non si aspettava che Antonia venisse a patti tanto facilmente con il loro modo di vivere l’amore.

*

Per quanto si sentisse in colpa ad assillarla con le proprie preoccupazioni proprio alla vigilia della separazione, Antonia non poté fare a meno di riferire a Federica la conversazione appena avuta con Isdrid, quando l’amica le chiese il perché della sua espressione sconvolta. In cinque minuti le raccontò tutto, e non fu più l’unica a essere sconvolta: Federica infatti la stava fissando ormai da un po’ con la bocca spalancata e gli occhi fuori dalle orbite, incapace di dire alcunché.
   «Non…non…tu non…dimmi che…» farfugliò quest’ultima, sbigottita. «Dimmi che non ti sei innamorata di Grant!» ululò.
   «Shhht!» l’ammonì Antonia, guardandosi intorno circospetta come se Grant potesse essere nascosto nella stanza. «Non urlare!»
   «Non urlare?» ripeté Federica. «Come faccio a non urlare se pensi di esserti innamorata di Grant?».
   «Non lo penso io, lo pensa Isdrid» la corresse l’altra.
   Federica, decisa a non lasciarle sviare il discorso, la guardò male e incrociò le braccia al petto. «E tu che ne pensi? E intendo che ne pensi davvero, non cosa speri o cosa vorresti convincerti di pensare solo perché è la cosa più giusta o più facile».
   Antonia si lasciò cadere su una poltrona con espressione desolata. «Io penso che non lo so» ammise.
   «Oddio! Lo sapevo!». Federica prese a fare su e già per la stanza con le mani nei capelli. «Innamorata! Tu! Di Grant!». Le scoccò un’occhiata per metà furiosa e per metà incredula. «No dico, Grant, lo stesso che ti ha quasi uccisa legandoti a un lupo e mandandolo al galoppo!»
   «Lo so!» gnaulò disperata Antonia, che col passare dei minuti si convinceva sempre di più che Isdrid avesse visto giusto. Per un attimo una scintilla bruciò nei suoi occhi, e rivolse uno sguardo indispettito alla sua amica. «Smettila di guardarmi così. Non l’ho mica fatto apposta, sai!»
   «Ma l’hai fatto, ed è tutto quello che conta!» replicò l’altra, agitando le braccia in aria. «Ma dico, che ci sarà mai in questo posto per farti saltare tutte le rotelle così, di punto in bianco!». Al pari dell’amica, Federica si lasciò cadere in una poltrona. «Basta, è ufficiale: sei una donna finita!»
   «Grazie per il sostegno morale, eh!» disse Antonia, irritata.
   «Non c’è modo di darti sostegno morale: se fossi ferita gravemente, affetta da una malattia letale o condannata a morte senza speranza di appello potrei fare qualcosa, ma tu sei innamorata del capitano Grant» rispose Federica, lasciando intendere come la ritenesse la peggiore delle condizioni possibili. Si raddrizzò, fulminata da un’idea. «C’è solo una cosa che puoi fare» dichiarò solennemente.
   Speranzosa, Antonia si sporse verso l’amica. «Cosa?»
   «Alzati e vai da Baumann. Da sola» disse Federica. Le lanciò uno sguardo significativo. «Dove nessuno può vedervi o sentirvi. Ci penserà lui a toglierti questa stupida idea di Grant dalla testa!».
   L’altra rimase in silenzio per qualche istante.
   «Sai che ti dico? Hai ragione. Vado!» rispose alla fine, alzandosi e correndo fuori dalla stanza come se ne andasse della sua vita.

*

Mastro Devall stava girando per i corridoi quando si imbatté in una trafelata Antonia.
   «Mas-Mastro Devall…io…io…» ansimò la ragazza, tentando inutilmente di riprendere fiato, «io sta-stavo cercando…Baumann. Cioè, Sua Altezza il Principe. Sa dov’è?»
   «Proprio dietro di te» rispose l’interessato, sbucato da chissà quale arazzo. Rilevò con un pizzico di preoccupazione lo stato di Antonia. «Siamo sotto attacco?» chiese.
   «No» rispose lei.
   «Qualcuno è morto?» insisté Baumann.
   «No» sbuffò Antonia.
   «Qualcuno sta per morire?» tentò di nuovo il principe.
   «No-o!» cantilenò la ragazza, ancora senza fiato e in più esasperata.
   Baumann si strinse nelle spalle. «Allora mi spiegherai con calma perché sei in mezzo a un corridoio, sconvolta e senza fiato» decise.
   Mastro Devall si schiarì la voce. «Se non avete bisogno di me, io andrei»
   «Prego, prego, mio buon Devall» concesse Baumann; l’altro uomo chinò appena il capo in un gesto di congedo e si allontanò rapido.
   «Allora, Antonia» esordì pacato il principe, passando un braccio intorno alla vita di lei e sorreggendola, «vuoi dirmi cosa succede?».
   «S-sì» farfugliò la ragazza. «In privato, però»
   «Siamo soli, qui» rispose Baumann, sorpreso.
   Antonia sbuffò di nuovo. «Non ho detto da soli: ho detto in privato» ripeté, sottolineando con cura le ultime parole.
   Gli occhi dell’uomo si sgranarono. «Oh» disse soltanto, preso alla sprovvista: poi un sorriso insolitamente spensierato e malizioso gli si dipinse sul volto mentre serrava la presa su Antonia. «Allora sarà meglio sbrigarci» dichiarò, prendendola per mano e trascinandola di corsa lungo i corridoi.
   La ragazza si mise a ridere, e Baumann la imitò: correvano talmente veloci che cinque minuti dopo avevano attraversato un’intera ala del castello ed erano arrivati alla porta degli appartamenti di lui. L’uomo la intrappolò tra il proprio corpo e il battente mentre infilava la chiave nella serratura.
   «Dopo di te» le sussurrò sul viso, aprendo la porta e scivolando all’interno insieme a lei.
   Erano a malapena entrati che Baumann già lottava con i vestiti di Antonia, deciso a levarglieli. Quel giorno però, complice una giornata trascorsa senza mai mettere piede fuori dal castello, la ragazza si era di nuovo trovata infilata in una delle lunghe, morbide tuniche tanto amate da Isdrid. Rise nell’osservare gli sforzi vani di Baumann contro l’elaborato nodo della cintura che le stringeva il vestito in vita.
   «Io odio questi affari» borbottò contrariato, strattonando inutilmente la cintura e facendo traballare Antonia. «Dimmi che nel vostro mondo non le usate!».
   Antonia si mise a ridere. «Le usiamo, ma sono molto più semplici da togliere».
   «Confido che spiegherai ai sarti di palazzo come realizzare delle nuove cinture» brontolò lui, continuando a litigare con il nodo. Deglutì a vuoto quando Antonia, con un gesto lento, si sfilò le maniche della tunica, che rimase a penzolare inutile trattenuta soltanto dalla cintura che ancora la intrappolava, restando coperta dalla vita in su soltanto da una camiciola leggera, quasi impalpabile.
   «Visto? Possiamo anche girarci intorno» sussurrò maliziosa.
   «Oppure possiamo usare la forza bruta» replicò lui. Afferrò un pugnale nascosto tra le proprie vesti. «Spero solo che mamma Isdrid non venga a saperlo: lei adora le cinture».
   La lama del pugnale scivolò cauta tra la tunica e la cintura; poi, con un gesto secco, Baumann tagliò quella striscia di stoffa che l’aveva fatto tanto penare. I resti della cintura caddero a terra insieme alla tunica, non più trattenuta da nulla, e Baumann afferrò Antonia, stringendola a sé con forza.
   «Lasciati guardare» mormorò, fissandola negli occhi. Afferrò la scollatura dell’indumento sottile che ancora copriva il corpo della ragazza, lo strinse tra le dita sottili e tirò, strappandolo con un gesto deciso. Continuò a tirare finché non arrivò all’orlo, finché non poté liberarsi anche di quella stoffa semplicemente spingendola giù dalle spalle di Antonia. Poi le prese le mani. «Spogliami. E toccami» ordinò.
   Antonia non se lo fece ripetere. Lo liberò dei vestiti con la stessa frenesia con cui l’aveva fatto Baumann con lei: tirò e strappò le stoffe pregiate che lo coprivano, lanciandole sul pavimento di pietra senza alcun riguardo. Quando entrambi furono completamente nudi, l’uomo le passò le mani sotto le natiche e la sollevò; Antonia fu veloce a stringergli le gambe intorno ai fianchi, poi gli circondò le braccia con il collo e aderì a lui più che poteva.
   «Dèi, Antonia» sussurrò, baciandole la gola. «Se potessi tenerti stretta a me in questo modo ogni minuto di ogni giorno…allora la vita sarebbe perfetta».
   La ragazza chiuse gli occhi, e li riaprì soltanto quando Baumann la depose sulle coltri morbide del letto e si sdraiò sopra di lei, ancora intrappolato tra le sue gambe. Scrutò le iridi verdi e brillanti di Baumann, e per un attimo rimpianse che non fossero color cioccolato. Si sollevò appena e lo baciò.
   «Adesso sono qui» mormorò staccandosi dalle sue labbra. «Sono qui».
   Lui sorrise; le loro bocche si incontrarono a metà strada e Antonia si concentrò soltanto su di lui.

*

Federica aveva aspettato con una certa impazienza il ritorno di Antonia. Stava giusto ricontrollando i bagagli con le cose che avrebbe portato via con sé quando vide l’amica entrare nella sua stanza, scarmigliata e con la tunica sgualcita. La guardò sollevando un sopracciglio.
   «Vedo che hai preso il mio consiglio alla lettera» commentò.
   Antonia non rispose. Si trascinò fino al letto dell’amica e ci si buttò sopra a peso morto, nascondendo la faccia in un cuscino.
   Sospettosa, Federica abbandonò ogni altra occupazione. «Tonia» chiamò. «Tonia!» ripeté con più energia quando l’altra non accennò a risponderle. «Allora? Com’è andata?».
   Antonia rotolò sulla schiena e sbuffò. «Bene» rispose in tono piatto.
   «Dalla tua faccia e dall’entusiasmo non si direbbe» replicò l’amica, ironica. «Allora? Stare con Baumann ti ha tolto Grant dalla testa?»
   L’altra sbuffò di nuovo. «Sì» disse con voce sepolcrale.
   «Sento che c’è un “ma” in arrivo» la incalzò Federica.
   La sua amica agitò braccia e gambe come in preda a un attacco epilettico. «È durato soltanto finché sono stata con Baumann» piagnucolò. «Appena ho messo piede fuori dalle sue stanze, ho ricominciato a pensarci!»
   «Sei senza speranza. Assolutamente, irrevocabilmente senza speranza» dichiarò Federica.
   «Così non mi aiuti!» si lagnò Antonia.
   «Oh, io purtroppo non posso fare niente. Neanche se restassi potrei fare niente» replicò l’altra. «Speriamo solo che con il tempo tu rinsavisca…»
   «Proprio un bel consiglio, non c’è che dire. Aspettare e sperare di tornare in me, come se essere…attratta da Grant fosse un disturbo mentale!» brontolò Antonia.
   «Per me lo è» rispose impassibile Federica. Assunse un’aria grave. «So che ne abbiamo già parlato ma…forse dovresti tornare a casa, con me»
   L’altra ragazza si mise a sedere. «Oh, Fede» disse sconsolata. «Non posso tornare, sai che non posso».
   «Perché no?» insisté Federica. La sua espressione divenne preoccupata. «Che dirò ai tuoi genitori?»
   «Dai, abbiamo già parlato anche di questo» sbuffò Antonia. «Passeggiata nel bosco. Poi il buio. Amnesia, vuoto totale, blackout, nada, niente, nisba. Ricordi?»
   «Ricordo fin troppo bene» bofonchiò l’altra. «È che non so se mi piace, mentire per lasciarti in questa situazione incasinata. Finché si trattava solo di Baumann okay, i pericoli fuori c’erano lo stesso ma almeno sapevo che eri tranquilla, che lui ti avrebbe protetta. Adesso invece…». Sospirò. «Grant ha scombinato le carte»
   Antonia si alzò e l’abbracciò. «Non aver paura, Fede. Io starò bene» promise. «Non sarà qualche stupido dubbio su quello che provo, a mettermi in pericolo»
   Federica alzò gli occhi al cielo. «Continua a ripetermelo e forse a un certo punto me ne convincerò!»
   L’altra rise e la prese sottobraccio. «Dai, togliamoci di dosso questi scomodissimi vestiti e usciamo di qui: è la tua ultima sera nello Staudeheim, e dobbiamo festeggiare degnamente la tua partenza!»
   «Certo. Magari anche per dimenticare che rischieremo la pelle in ogni secondo del viaggio!» rispose sarcastica Federica. Antonia scoppiò a ridere, e lei la seguì a ruota: era la loro ultima sera insieme per chissà quanto tempo a venire, e doveva essere memorabile.

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Capitolo 7
*** Il Dio della Guerra ***


L’alba era giunta rapidissima, prendendo tutti alla sprovvista.
   «Siete pronti?» chiese Grant con un pizzico di nervosismo. Erano radunati nel piazzale del castello, a poca distanza dalle massicce porte ancora chiuse: i lupi erano stati sellati e il gruppo di circa venticinque uomini non aspettava che il suo comando, per mettersi in marcia.
   «Sì» risposero in coro i presenti.
   Antonia balzò in sella a Nebbia e tese la mano a Federica, che montò dietro di lei. Intanto Grant assicurò alla sella di Folgore, il proprio lupo, due ingombranti sacche che Federica avrebbe riportato con sé nel suo mondo d’origine. Pochi minuti più tardi le imponenti cancellate vennero aperte e il gruppo si avventurò all’esterno. Baumann, che aveva insistito per andare con loro, cavalcava attorniato dalle due ragazze, da Grant e da Illyrio, mentre le altre guardie li circondavano da ogni lato. Alec comandava il gruppo, e Zane controllava le retrovie.
   Il piccolo contingente attraversò il quadrante in direzione del Varco mantenendo le cavalcature a un’andatura rapida ma controllata: sebbene fossero riusciti a sottrarre ampie parti del territorio agli Orchi, era fondamentale muoversi con cautela.
   «Credi che starai bene qui, da sola?» sussurrò Federica all’orecchio dell’amica.
   «Non sarò sola» bisbigliò di rimando Antonia.
   «Sai che intendo» si spazientì l’altra sottovoce.
   Antonia rimase in silenzio così a lungo che Federica perse ogni speranza di ricevere una risposta.
   «Io non starò bene, Fede» disse infine, tenendo saldamente le redini di Nebbia. «Non starò bene perché ho trovato il mio scopo qui, in un mondo devastato da una guerra che sto combattendo in prima linea. Non starò bene perché varcare ogni giorno le mura sicure del castello per scontrarmi con gli Orchi presto o tardi mi porterà a essere uccisa; ecco perché non starò bene. Perché morirò, a un certo punto, e quasi sicuramente di morte violenta; ma tutto quello che mi separerà da quel giorno varrà la pena di essere vissuto, e farà sì che sia valsa la pena di combattere e morire».
   Stavolta fu Federica a tacere per un po’. «Non tornerai, vero?» chiese infine. «Non tornerai mai a casa»
   «No, temo di no» mormorò Antonia. «Questo è un addio».
   Grant, che aveva l’udito fine ed era riuscito a seguire il discorso delle due ragazze, le affiancò. «Non siate così drastiche. Io sono certo che vi rivedrete ancora» disse sottovoce in tono gentile.
   Antonia gli sorrise con tristezza e un pizzico di gratitudine, e persino Federica non poté impedirsi di rivolgergli un brevissimo sorriso.
   Alec alzò una mano, richiamando l’attenzione di tutti.
   «Cautela» mormorò. «Mi sembra di vedere movimenti sospetti, più avanti».
   Jonas si irrigidì sulla sella e riguadagnò subito il proprio posto, mentre Illyrio si accostava ancora di più a Baumann.
   L’intero gruppo rallentò l’andatura, controllando scrupolosamente ogni palmo di foresta a mano a mano che avanzavano. Il Magister Fascinationum cavalcava ad appena un passo dal proprio principe, e i due discutevano con voce inudibile. Antonia, dal canto suo, non poteva fare a meno di cercare con lo sguardo Grant a intervalli regolari: l’espressione seria e concentrata del capitano calmava un po’ quel nervosismo che le parole di Alec avevano fatto nascere in lei, e quando i loro occhi si incrociavano, Jonas le rivolgeva un impercettibile cenno con la testa, come a raccomandarle di stare calma.
   Anche se mancava quasi un miglio al punto d’arrivo, il Varco cominciava a essere visibile: le prime pietre del vetusto arco si scorgevano tra un tronco e l’altro a seconda della direzione seguita dal convoglio.
   Federica si strinse un po’ di più ad Antonia.
   «Ho una brutta sensazione» bisbigliò.
   «Siamo quasi arrivati» replicò Antonia in un sussurro.
   L’altra si agitò, a disagio. «Dovrete tornare indietro»
   «Siamo in tanti. Non avremo problemi» la rabbonì l’amica.
   Ormai erano a poco più di duecento metri dal Varco: tutto era immobile in quell’aria rarefatta in cui non spirava neanche un soffio di vento, non c’erano rumori a coprire la loro avanzata, né a turbarli. Eppure, quel silenzio così innaturale non faceva che aumentare il nervosismo generale.
   A un segnale di Alec, il gruppo rallentò ancora l’andatura. Le zampe dei lupi si posavano sul terreno inumidito dalle piogge primaverili con tonfi soffocati, lievissimi, quasi impercettibili.
   Mancavano oltre cento metri al Varco quando quell’ostentata calma andò in frantumi.
   «UOMINI, ALLE ARMI!» tuonò Grant nell’esatto istante in cui un contingente di Orchi sbucò da una serie di cunicoli sotterranei.
   Illyrio non lasciò a Baumann neanche il tempo di respirare. Smontò di sella con un balzo fulmineo, trascinò a terra il principe e con un fremito delle spalle, il suo mantello si lacerò: le due metà si tramutarono in enormi ali di corvo e il Magister Fascinationum spiccò il volo, portando Baumann al sicuro.
   Antonia, che era scesa di sella a sua volta, prese le sacche dalla groppa di Folgore mentre Federica si metteva a tracolla le armi donatele dal principe, e trascinò l’amica verso il Varco.
   «Andiamo Fede, muoviti!» urlò.
   «Non posso lasciarvi qui a combattere!» gridò l’altra in risposta.
   Antonia la trascinò verso l’arco con più decisione. «Siamo venuti fin qui perché tu potessi tornare a casa! Devi attraversare!». Fece roteare le sacche con gli occhi socchiusi per la concentrazione e le lanciò attraverso l’arco: i due oggetti svanirono nel nulla. «Avanti, va’!».
   Le due ragazze si guardarono intensamente negli occhi, poi si abbracciarono strette per alcuni istanti.
   «Tornerò» promise Federica, staccandosi. «Un giorno tornerò»
   Antonia annuì. «Terrò il Varco in sicurezza aspettando quel giorno».
   Federica fissò il Varco, prese la rincorsa e spiccò un salto attraverso la costruzione diroccata, svanendo nel nulla come avevano fatto poco prima i suoi bagagli.
   «È andata!» gridò Antonia. «Federica ha attraversato!»
   «Allora puoi anche darci una mano, Antonia cara!» ululò in risposta Grant, stringendo i denti e mulinando la propria arma mentre affrontava un Orco: spada e martello si scontrarono più volte, generando scintille.
   Antonia neanche provò a toccare l’arco che portava a tracolla. I Signori del Terremoto erano troppo vicini, e con Alec e Zane che galoppavano in cerchio agitando le spade per tenerli a distanza, scagliare le proprie frecce sarebbe stata una follia: rischiava di colpire i propri compagni. Così, per quanto poco le facesse piacere, estrasse la spada che portava appesa al fianco e si diresse verso l’Orco più vicino.
   «Come diavolo sapevano che saremmo venuti qui?» grugnì contrariata parando una martellata del suo avversario.
   «Non lo sapevano» rispose Zane, che passava al galoppo in quel momento. «Visto che abbiamo cercato di respingerli…»
   «…da questa zona» proseguì Alec, passando dopo che suo fratello si fu allontanato, «hanno deciso di nascondersi e aspettare. Gli Orchi lo fanno…»
   «…spesso» concluse Zane, ripassando di lì. «Non si può dire che non siano pazienti»
   «Non si può dire che non si siano fastidiosi» lo corresse Grant brontolando. «Perlomeno Baumann è al sicuro. Che Illyrio sia benedetto!».
   Nonostante la situazione fosse critica Alec rise, tanto era strano sentire Jonas parlar bene di Illyrio – non che non andassero d’accordo, ma il carattere riservato di entrambi e la puntigliosità del Magister rendevano difficili i rapporti tra i due – mentre gli altri, troppo occupati a fronteggiare i nemici, a malapena lo sentirono.
   Un colpo di martello evitò la testa di Alec per un soffio.
   «Maledizione, Alec, concentrati!» tuonò suo fratello.
   «Grant» chiamò Antonia, in difficoltà: stava combattendo contro tre Orchi e non poteva fare molto più che saltellare come un folletto impazzito per evitare i colpi. «GRANT!» urlò di nuovo, infliggendo una profonda ferita al braccio armato dell’Orco più vicino.
   «Che c’è?» rispose lui a denti stretti, troppo occupato a deviare le martellare del proprio avversario.
   «Ce ne dobbiamo andare!» gridò la ragazza.
   «Come se fosse facile!» scattò Jonas, colpendo con forza inaudita un Orco per la stizza.
   Antonia non replicò. Riuscì a liberarsi con grande fatica di un secondo Orco, e ne stava fronteggiando un terzo quando un ruggito collettivo eruppe dalle gole dei nemici. Grant e gli altri furono immobilizzati per la sorpresa soltanto per un secondo, poi ripresero a combattere con maggiore energia. Antonia, sentendo una nuova ombra incombere su di sé, alzò gli occhi e rimase paralizzata: di fronte a lei c’era un Orco, ma il suo aspetto era più spaventoso di quello di tutti gli altri. Forse dipendeva dalle placche metalliche che gli coprivano il petto e il collo, infilzate direttamente nella carne; o forse era a causa della lunga cicatrice che gli percorreva verticalmente la fronte per poi scendere tra gli occhi e spaccargli a metà il naso.
   Grant sbiancò.
   «Caliban!» urlò con tutta la voce che aveva. «Uomini, ardimento! Il Signore del Terremoto è qui!».
   Antonia continuò a fissare la faccia spaventosa dell’Orco, che a sua volta la osservava. Si sarebbe detto che stesse decidendo come colpirla per procurarle il maggior dolore possibile senza ucciderla.
   «Avanti, uomini! L’assassino di re Maximillian è qui! Vendichiamo il nostro sovrano!» gridò ancora Grant.
   Gli uomini si riscossero. Ma gli Orchi erano determinati a tenerli lontani dal loro signore quanto i soldati di Baumann erano decisi a raggiungerlo: gli scontri divennero più duri, gli assalti più decisi, le difese meno caute: entrambi gli schieramenti si battevano al massimo delle loro possibilità.
   Caliban puntò il martello contro Antonia come fosse stato un prolungamento della propria mano.
   «La futura regina dello Staudeheim» disse in tono roco, sepolcrale: somigliava alla eco bassa e cupa di una voce che rimbalzi all’infinito contro dure pareti di roccia. Una voce sotterranea, proprio come la natura più profonda del suo possessore. L’Orco si indicò il naso. «Il tuo predecessore mi ha fatto questo. Glielo riconosco: grande spirito anche nella morte. Il mio martello già calava sulla sua testa, e riuscì comunque a scagliarmi contro la propria spada, colpendomi in viso con tanta forza da deturparmi». Sorrise: la ragazza notò i punti ormai cicatrizzati in cui le labbra si erano ricongiunte dopo essere state tagliate in due dall’ultimo colpo del padre di Baumann. «La sua sconfitta impressa nel mio volto: non c’è niente che ami di più di questo taglio di lama».
   Antonia strinse più saldamente la spada; ma la sua mano tremava.
   «Antonia!» urlò Grant, tentando invano di farsi strada fino a lei. «Antonia! Scappa!».
   Il primo e più potente Signore del Terremoto si voltò per un brevissimo istante verso Grant, poi socchiuse gli occhi e reclinò indietro la testa, respirando attraverso il naso tagliato a metà.
   «Antonia» ripeté lentamente, quasi stesse analizzando che sapore avesse il nome di lei sulla lingua. «Antonia, colei che è salda; Baumann, l’Albero saldo nel terremoto; Grant, la salda Roccia che non vacilla mai». Riaprì gli occhi e le puntò di nuovo contro il martello. «Che rovina, che sciagura, lasciar vivere la terza parte di ciò che può rendere questa terra insensibile al potere della mia genia!».
   Caliban sollevò il martello sopra la testa di una Antonia ipnotizzata.
   «CALIBAN!» tuonò Grant. Con tre rapidissimi colpi di spada rese inoffensivo il proprio avversario: quello, sorpreso, si ritrovò con il petto squarciato e il proprio fegato spappolato tra le mani prima di poter capire cosa fosse successo. Il capitano lo superò senza perdere un istante: corse verso la roccia più vicina, vi salì con un balzo leggero e si diede la spinta, spiccando un salto altissimo, la spada stretta tra le mani e sospesa sopra la propria testa, pronta a colpire.
   Jonas abbatté la propria spada sulla testa del Signore del Terremoto con tutta la forza che aveva: si udì un forte scricchiolio, e la lama si spezzò.
   Il capitano, finito a terra per lo slancio, si rialzò. Caliban non era morto; il suo cranio aveva vinto la sfida col metallo; ma la profonda ferita che Grant gli aveva appena inferto era abbastanza dolorosa, insieme alla copiosa perdita di sangue, da stordirlo.
   L’Orco cadde in ginocchio tenendosi la testa. Grant corse da Antonia.
   «Antonia, vieni, andiamo via!» disse con urgenza, scuotendola forte per farla riprendere dallo shock. Fischiò, e Folgore apparve al suo fianco saltando gli Orchi con grandi balzi. Jonas salì in sella trascinandola con sé mentre gli altri Orchi, stupiti dal colpo ricevuto dal loro signore, si guardavano l’un l’altro con stordita incredulità. «Uomini, ritirata!».
   Uomini e lupi si insinuarono negli varchi lasciati dagli Orchi e galopparono a tutta velocità verso il castello.

Il viaggio di ritorno, Antonia l’aveva fatto nel più completo silenzio. Seduta davanti a Jonas e stretta dalle sue braccia che le evitavano di cadere di sella, si era rinchiusa in un mutismo che aveva preoccupato Grant. In passato – soprattutto nei primi tempi che aveva trascorso al castello – era accaduto spesso che Antonia si rifiutasse di rivolgergli la parola e si chiudesse in un ostinato silenzio; ma se in quei casi si era trattato di rabbia, fastidio, ripicche, ora Jonas aveva la sensazione che Antonia non parlasse semplicemente perché non aveva niente da dire. Lo intuiva dal modo in cui stava in sella – non fiero, non concentrato, ma afflosciata come una marionetta priva di vita, che solo la sua presa salvava dallo scivolare giù.
   Appena furono al riparo tra le mura amiche, Jonas scese dalla groppa di Folgore e mise a terra Antonia con grande delicatezza, come se temesse di vederla andare in pezzi.
   «Aspettami qui» le disse concitato. «Torno subito. Tu non muoverti».
   Grant scappò via. Alcuni uomini erano un po’ ammaccati, ma fortunatamente ne erano usciti tutti vivi: non avevano che qualche graffio, perfettamente in grado di guarire anche senza l’intervento della Magistra Sanationis. Era per Antonia che Grant era corso a cercare Isdrid: sperava che almeno lei riuscisse a superare quel muro di silenzio dietro cui si era trincerata la ragazza. Ma quando tornò indietro tallonato dalla sua vecchia balia, Jonas non trovò più Antonia accanto a Folgore.
   «Dov’è?» chiese agitato a nessuno in particolare, guardandosi intorno. «Ehi» chiamò, attirando l’attenzione della guardia di vedetta. «Dov’è Antonia?». Quello si strinse nelle spalle, come a dire che non ne aveva la minima idea, e Grant digrignò i denti con rabbia sotto lo sguardo inquieto di Isdrid. «Vado a cercarla, mamma Isdrid» disse secco, allontanandosi subito.
   Non aveva idea di dove si fosse cacciata Antonia, e per la prima volta dopo tanto tempo, era arrabbiato con lei: arrabbiato per com’era rimasta inerte di fronte a Caliban, arrabbiato per la paura che gli aveva fatto provare, arrabbiato per essere sparita chissà dove sebbene lui le avesse detto di non muoversi.
   Immerso nelle viscere del castello il capitano percorreva i corridoi con rapidità, spostando con gesti decisi gli arazzi che nascondevano i passaggi. Intuito subito che Antonia non si sarebbe rifugiata nella propria stanza, aveva optato per il parco del castello: fino a quel momento aveva controllato con lo scrupolo tipico del suo incarico le corti della Quercia, del Larice, del Faggio, del Tasso, del Tiglio e dell’Acero, ma senza risultati. Cominciava a non poterne più di tutte quelle torri e tutti quei giardini: nessuno aveva mai capito con precisione quanti fossero, e non voleva certo essere lui a svelare il segreto controllandoli uno a uno fino all’ultimo.
   La porta che conduceva alla Torre del Cipresso e al relativo giardino chiuso gli fece tornare in mente il giorno in cui lui e Antonia avevano finalmente imparato a parlarsi mettendo da parte rancore e sospetti. Certo, però, non poteva dimenticare che quella zona del castello era disabitata e il giardino incolto: lui stesso, quando vi si era rifugiato per non dover vedere nessuno, aveva dovuto lottare contro l’intrico quasi indistruttibile di piante e arbusti che aveva invaso ogni cosa. Nessuno sano di mente si sarebbe nascosto lì dentro.
   Grant aprì la porta.
   Sembrava che in quei mesi la vegetazione che invadeva il giardino fosse raddoppiata: in alcuni punti il groviglio di rovi superava di due palmi abbondanti la cima della testa del capitano, e trovare lo spazio per inoltrarsi in quella giungla pareva impossibile.
   Jonas prese il moncone della spada che aveva rinfilato nel fodero e lo usò a mo’ di coltello per aprirsi un varco tra le piante. In realtà gli sembrava una cosa stupida, una perdita di tempo: se lui doveva faticare tanto per avanzare, come poteva esserci riuscita Antonia, nello stato catatonico in cui si trovava?
   Ciononostante, l’uomo continuò la sua avanzata. Per un qualche motivo sconosciuto, sentiva che Antonia gli era simile. Non importava che lei fosse innamorata di Baumann e che tutti ormai fossero a conoscenza della cosa: Jonas sapeva che lei somigliava più a lui stesso che non a suo fratello come era certo che quel cipresso secolare piantato da Gowan in persona, che ora svettava in quella giungla incolta a testimonianza del dolore provato dall’antico sovrano, sarebbe rimasto lì fino alla fine dello Staudeheim.
   Non aveva mai pensato che sarebbe successo, ma per la prima volta da quando era bambino e gli era stata insegnata la storia del suo regno, Jonas capiva Gowan. Lui era la Roccia, la Guerra; erano al tempo stesso la sua natura più profonda e il suo destino, così come era stato per il suo antenato. Erano nati per combattere, per essere guerrieri; non per innamorarsi. La Roccia, così gli era stato insegnato, è troppo solida per essere intaccata da qualcosa di così etereo; la Guerra, così gli avevano detto, non ha tempo per nulla che non sia acciaio e sangue.
   E lui ne era stato convinto. Come Gowan.
   Quello dei Viaggiatori al tempo del Re Guerriero gli era parso sempre un avvenimento così lontano e indefinito da sembrare una favoletta da raccontare ai bambini all’ora di dormire; non gli aveva dato grande peso, e di sicuro non aveva mai compreso come una donna – una sconosciuta, una straniera, ignara dei loro usi, delle loro credenze, delle loro tradizioni – avesse potuto tramutare il più grande guerriero dell’intera stirpe reale in un uomo, né come avesse potuto renderlo capace di mettere da parte il ferro della spada senza rimpianti. Si era sempre chiesto, insomma, come una straniera avesse potuto rendere Gowan un uomo privo di spina dorsale.
   O almeno, se l’era chiesto fino all’arrivo di Antonia.
   A ripensarci, si sentiva il peggiore degli stupidi. Lui sapeva bene cosa gli stava accadendo, l’aveva sempre saputo; solo che non aveva voluto ammetterlo. Aveva creduto che arroccarsi sulle proprie posizioni – lui era la Roccia, il Guerriero; il capitano delle guardie di palazzo, il responsabile della sicurezza degli abitanti di quel luogo – gli avrebbe permesso, se non di dimenticare, di tenere a bada quello che non avrebbe dovuto provare abbastanza da fingere che non esistesse. Poi si era illuso che essere crudele con quella sconosciuta insicura e sperduta avrebbe prosciugato quella piccola, impalpabile goccia che stava scavando dentro di lui – la Roccia, vinta da una misera goccia d’acqua! Inconcepibile! – salvando così ciò che era sempre stato.
   Non era servito. Dopo essere corso a recuperare Antonia dal suo folle tentativo di fuga verso il Varco si era reso conto dell’inutilità dei propri sforzi. Aveva rinunciato a buona parte del proprio astio verso di lei – ingiustificato e immeritato, aveva ammesso con vergogna a se stesso – e a tutta la crudeltà di cui l’aveva fatta oggetto. Aveva messo il broncio, finto di averla riportata indietro solo per recuperare l’armonia con suo fratello, trovato un nascondiglio ideale e impenetrabile proprio in quel Giardino del Cipresso in cui si stava facendo strada con tanta fatica. Ma Antonia era arrivata anche lì: per caso, certo, ma non per questo Jonas aveva capito con minore consapevolezza di non poterle sfuggire. Lei ormai era lì: e che gli Dèi l’avessero mandata per metterlo alla prova o per chissà quale altro motivo, Jonas non lo sapeva. Sapeva solo che era privo di senso combattere ancora: doveva abituarsi alla presenza di quella straniera che lo stava sfaldando pezzo a pezzo – ebbene sì, lui, la Roccia, disgregato da una piccola, apparentemente insignificante goccia d’acqua pura – e ammettere che forse Gowan non era stato il sovrano debole che lui s’era figurato sentendo i racconti di ciò che era divenuto dopo la partenza della Viaggiatrice. Era stato solo un uomo; un uomo innamorato.
   E Jonas iniziava a capirlo.
   Aveva capito molto altro, in quel mattino di battaglia simile a tanti altri che aveva vissuto. C’era stato l’agguato – come tante altre volte; c’era stato lo scontro – come ogni volta che mettevano piede fuori dalle mura sicure del palazzo; c’era stata Antonia in prima linea, tra gli Orchi – come si era abituato ad accettare con una fatica che nessuno avrebbe potuto immaginare dalla sua espressione sempre imperturbabile e dalle battute sarcastiche che le faceva. Quello che c’era stato quel giorno – e che prima mai c’era stato – era Antonia inerte, incapace di difendersi; quello che non c’era stato per anni era Caliban sul campo di battaglia – e quando Caliban pretendeva una vita, l’otteneva sempre: soltanto Baumann faceva eccezione, con re Maximillian che aveva preso il suo posto di forza.
   Quello che c’era stato quel giorno – che mai c’era stato prima, che Jonas credeva non ci sarebbe stato mai – era lui stesso che uccideva un Orco con tre soli, fulminei colpi, di una brutalità che non credeva sarebbe mai potuta uscire da lui; quello che c’era stato quel giorno e mai c’era stato prima era la forza che aveva impresso a quell’unico colpo che aveva diretto al cranio di Caliban, un concentrato di furore, rabbia, e terrore incanalati in una spada – sì, terrore: perché la vista di Antonia inerme al cospetto del martello sollevato del Signore del Terremoto aveva fatto nascere in lui un terrore che mai aveva provato, neanche quando mesi prima aveva visto uno di quei martelli calare sulla sua stessa testa.
   Era stato mettendo fuori combattimento Caliban – in quell’istante in cui la sua spada aveva provocato all’Orco una cicatrice gemella a quella regalatagli da re Maximillian – che Jonas aveva capito, totalmente e per la prima volta, che Antonia non l’aveva ridotto in pezzi; che quella goccia che lui credeva lo stesse sfaldando in realtà era filtrata dentro di lui rendendolo più solido di quanto non fosse mai stato.
   Antonia l’aveva reso davvero una Roccia; aveva tirato fuori da lui pepite preziose che non credeva fossero sepolte dentro di sé, e l’aveva messo in condizione di fare quello che nessuno aveva mai fatto riuscendo a restare in vita. Eccetto Gowan.
   Jonas si chiese come si sarebbe sentito se Antonia fosse ripartita insieme a Federica, lasciando per sempre lo Staudeheim e i suoi abitanti, Baumann, Isdrid e tutti gli altri.
   Lasciando lui.
   Il capitano prese un respiro profondo, come a voler recuperare quello che i suoi polmoni si erano rifiutati di prendere un attimo prima: non riusciva a immaginare la propria esistenza com’era stata prima dell’arrivo delle due straniere.
   Non riusciva a immaginare la propria esistenza senza Antonia.
   Finalmente capiva appieno Gowan e la decisione con cui si era isolato dopo che la sua straniera – l’ultima Viaggiatrice ad aver messo piede nel loro reame fino a quelle due giovani donne che lui stesso aveva trovato nel bosco – se n’era andata, tornando al proprio mondo e ai propri doveri.
   Senza rendersene conto, Jonas si trovò faccia a faccia col massiccio tronco del cipresso che dava il nome alla torre costruita alle sue spalle. Nelle sue riflessioni aveva tranciato rovi e scostati rami fino ad arrivare proprio in quel punto, di fronte a quella pianta maestosa in cui, si sussurrava, si fosse rifugiata l’anima del Re Guerriero dopo la sua morte. Si sentì rasserenato: guardare quell’albero era come guardare Gowan, e riceverne conforto.
   Il capitano appoggiò la mano aperta sul tronco del cipresso.
   «Ora capisco» disse serio.
   «Jonas?».
   Una vocina sottile uscì all’improvviso dalla vegetazione, facendo sobbalzare l’uomo. Aguzzando lo sguardo, Grant vide un volto pallido e scarmigliato spuntare fuori proprio da dietro il cipresso: Antonia.
   Alla fine aveva avuto ragione, il capitano: contro ogni logica, Antonia si era rifugiata nel luogo più inospitale del castello, quello in cui nessuno si sarebbe mai avventurato.
   Tranne lui.
   Jonas non sapeva cos’era successo: la sua razionalità, il suo autocontrollo, la sua freddezza, tutto era sparito di fronte agli occhi smarriti della ragazza. L’unica cosa di cui era consapevole era di essere in ginocchio, e di essersi aggrappato a lei come se fosse stata l’unico punto saldo nel bel mezzo di un terremoto.
   Antonia rimase immobile per un istante, sconcertata da quello che era successo: quando aveva sentito la voce di Jonas non aveva potuto fare a meno di rivelarsi. Si erano guardati negli occhi per un istante; poi, senza alcun preavviso, Grant era crollato in ginocchio e l’aveva abbracciata alla vita, nascondendo il volto contro il suo stomaco. Il moncone della sua spada giaceva abbandonato in mezzo a un cespuglio di rovi accanto a loro, dove il capitano l’aveva fatto cadere senza neanche rendersene conto, e ascoltando con attenzione, la ragazza si accorse che Jonas stava mormorando qualcosa con quella che sembrava disperazione.
   Antonia si chinò un po’ di più verso la sua testa e tese le orecchie.
   «Antonia» ripeteva l’uomo in un gemito continuo, sordo. «Antonia…Antonia…Antonia…».
   La ragazza continuò a fissare la testa scura di Grant, incredula. Ebbe un fremito involontario, quasi impercettibile, ma tanto bastò a far tornare il capitano in sé: scattò in piedi, evitando lo sguardo di lei, e si allontanò di un passo.
   «Io…» borbottò rauco; si schiarì la voce. «Credevo d’averti detto di restare dov’eri».
   «Grant» disse calma Antonia, ma lui la ignorò.
   «Ti ho cercata dappertutto» proseguì, tentando di suonare infastidito. «Ho controllato non so più quanti giardini e corridoi…»
   «Grant» ripeté con dolcezza la ragazza.
   «Quando sarai stanca di stare qui, va’ da mamma Isdrid» concluse lui, voltandosi come per andarsene. «Ti aspetta».
   «Jonas».
   Grant s’immobilizzò. Lentamente si voltò di nuovo verso Antonia, che si avvicinò: stando così vicini non riusciva a guardarlo negli occhi neanche mettendosi in punta di piedi e reclinando la testa indietro, tanta era la differenza d’altezza tra loro. Lei si aggrappò alla tunica di Grant: lui s’inginocchiò di nuovo, imitato dalla ragazza.
   «Che cos’hai?» gli chiese pianissimo Antonia. L’uomo scosse la testa. «Jonas, guardami. Cosa c’è che non va?».
   Jonas chiuse gli occhi, quasi a non volerle lasciare nessuno spiraglio aperto sui propri pensieri; ma dopo pochi istanti li riaprì, puntandole addosso uno sguardo fiero, di sfida.
   «Non volevo dirtelo, ma visto che sei tanto ostinata, lo farò: e al diavolo le conseguenze» disse brusco. «Vuoi sapere cosa c’è che non va?» sputò arrabbiato. Esitò per un istante. «Il tuo comportamento di oggi, non va: non ti sei difesa, non ha cercato di combattere né di scappare. Non hai fatto nulla per salvarti!».
   Antonia sospirò. «Lo so. È stupido, ma…quell’Orco mi faceva una tale paura che riuscivo a malapena a respirare»
   «Non è stata stupida la tua paura» sbottò Grant. «È stata stupida la tua assoluta mancanza di reazioni!». Tacque per qualche istante mentre la sua espressione cambiava di continuo: da arrabbiata divenne angosciata, poi di nuovo furiosa e infine sconfitta. «Ma in realtà è comprensibile. Caliban è il primo Signore del Terremoto, il più crudele, il più scaltro, il più potente: in realtà quello che mi ha fatto arrabbiare…». S’interruppe. «No, non era rabbia: era paura, e disperazione…». Jonas si strofinò il volto. «Ero certo che ti avrebbe uccisa, e che io non sarei riuscito a fermarlo. E non potevo accettarlo perché…perché…». Ebbe un moto di stizza. «Al diavolo!» esplose, cercando di rialzarsi.
   Antonia lo trattenne. «Non te ne andare. Resta. Parla» lo supplicò.
   Jonas sbuffò, arrabbiato con se stesso, ma restò dov’era, inginocchiato insieme a lei, i loro occhi quasi alla stessa altezza. «Non voglio parlare con te» disse petulante. «Rovinerà tutto. Lasciami stare. Lascia le cose come stanno!».
   Lei quasi sorrise: il broncio e il tono di Jonas per un attimo l’avevano fatto somigliare a un bambino ostinato. «Parla, Jonas, o chiamerò mamma Isdrid» lo stuzzicò.
   Jonas impallidì. «No! Tutto, ma non mamma Isdrid!». Si accigliò vedendo Antonia trattenere le risate. «Oh molto bene» disse altero, capendo che la ragazza lo stava solo prendendo in giro. «Te lo dirò, ma poi non venire a lamentarti da me: ricorda che sei stata tu a insistere!»
   «Lo terrò a mente» lo punzecchiò lei, guadagnando un’altra occhiataccia dall’uomo.
   «Be’ io…io…». Jonas incrociò le braccia al petto e le rivolse di nuovo quello sguardo di sfida che ormai Antonia conosceva tanto bene. «Io sono innamorato di te» brontolò sottovoce.
   «Scusa, Grant? Temo di non aver capito» lo provocò Antonia. «Cos’era quel grugnito?»
   Grant digrignò i denti e mugugnò qualcosa di poco carino. «Ho detto che sono innamorato di te!» ripeté con voce alta e chiara. «Ecco. Sei contenta, adesso? Dovevi proprio farmelo dire, vero? Complicherà tutto! Tu non riuscirai più a guardarmi come facevi prima e non potremo più combattere fianco a fianco: niente più allenamenti insieme, niente più pianificazioni contro gli Orchi…non saremo più amici, mi eviterai…»
   «Anch’io» disse tranquilla Antonia.
   «…e tutto perché tu…». Grant s’interruppe, confuso. «Eh?»
   «Anch’io ti amo» precisò Antonia.
   «No. Tu…tu ami Baumann» balbettò il capitano.
   «Amo anche te» replicò allegra la ragazza. «Qualcosa in contrario?»
   «Io…io…» farfugliò Grant, ancora più incredulo. «No».
   Antonia gli rivolse un gran sorriso e si avvicinò ancora: Grant si sdraiò sulle foglie soffici e la ragazza si spostò fino a essere sopra di lui, il sole nascosto dalla sua testa e dai suoi capelli arruffati, attraverso cui filtrava solo qualche raggio di luce.
   Jonas sollevò le mani: le accarezzò i capelli, il collo; le sue dita scesero lungo le braccia coperte dalla stoffa, poi sui fianchi nascosti dalla tunica. La toccava con una delicatezza e un timore che Antonia non avrebbe mai pensato di vedere in lui: nessuno l’aveva mai accarezzata in quel modo, e di sicuro non si aspettava che sarebbe stato proprio Jonas a farlo.
   La ragazza si chinò verso le labbra di Grant, ma lui la fermò.
   «No» sussurrò. «Non farlo, non ancora. Voglio guardarti». Si accorse dello sguardo confuso, quasi deluso, di lei. «È da tanto che aspetto questo momento: io e te, da soli, e tu sopra di me che mi guardi così. Voglio che duri il più possibile, questo istante».
   Antonia sorrise, accarezzandogli la fronte; e rimasero così fino a quando il sole non tramontò.

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Capitolo 8
*** La Voce ***


Quando Grant e Antonia riemersero dalla Torre del Cipresso era notte inoltrata.
   Alla ricerca di un po’ di intimità tra le mura del castello, i due percorsero i corridoi con passo felpato, diretti alle stanze che fino a quel mattino erano state di Federica, ma giunti a destinazione ebbero una sorpresa.
   «Hai la chiave?» le sussurrò Jonas, chinandosi per avvicinarsi il più possibile al suo orecchio.
   Antonia annuì. Stava frugando nelle tasche della tunica e dei pantaloni quando una sagoma emerse dall’ombra, gli occhi scintillanti alla fievolissima luce che filtrava da una finestra.
   «Ho già aperto io la porta» disse una voce laconica.
   Sia Jonas che Antonia sussultarono, e quest’ultima divenne cerea. «Baumann» balbettò, imbarazzata e mortificata.
   Baumann si spostò nel cono di flebile luce che rischiarava a fatica un pezzetto di corridoio.
   Presa alla sprovvista, Antonia fece saettare lo sguardo da Baumann a Grant e viceversa. «Baumann, io… noi…» farfugliò. Per un attimo sembrò volersi avvicinare al principe, ma poi rimase dov’era. «Noi…»
   Grant si fece avanti con espressione fiera. «Sono innamorato di lei, fratello. E anche lei mi ama, almeno quanto ama te» disse secco. «Qualcosa in contrario?»
   Con profondo sconcerto, Antonia vide il volto di Baumann aprirsi in un ampio sorriso. «Era pure ora!» disse allegro. «Ci chiedevamo tutti quanto ci avreste messo, voi due zucconi, a capire di essere innamorati!»
   «Quindi tu non… non… non ce l’hai con noi?» balbettò debolmente Antonia.
   «E perché dovrei?» chiese Baumann, perplesso. «Nel nostro mondo è normale amare una sola persona così come è normale amarne più di una. Mamma Isdrid non te l’ha spiegato?»
   «Sì, l’ha fatto, ma… ma…» rispose lei. «Credevo che ti saresti arrabbiato. Che ti saresti sentito… tradito» concluse in un sussurro.
   «Be’, l’unica cosa che mi ha dato fastidio è che non me l’abbiate detto subito» precisò il principe.
   Grant, tornato del tutto se stesso, sbuffò infastidito. «Darci il tempo di capirlo e ammetterlo prima di tutto a noi stessi no, eh? Non è stato facile, sai: se non fosse stato per quello che è successo oggi al Varco…»
   Baumann gli rivolse uno sguardo improvvisamente tagliente. «Cos’è successo al Varco?» chiese con voce di ghiaccio.
   Jonas esitò per qualche istante – sapeva che nominare Caliban significava riaprire vecchie ferite in suo fratello – ma poi si decise, e in pochi minuti gli raccontò tutto: dell’arrivo dell’assassino del loro padre sul campo di battaglia, di come si fosse interessato ad Antonia, di come avesse cercato di uccidere anche lei e fosse stato fermato, all’ultimo istante, da Jonas stesso.
   Terminato il racconto, gli occhi di Jonas erano umidi; quelli di Baumann, invece, ardevano, e quando si voltò verso Antonia, quegli occhi le sembrarono due torce.
   «Cosa ti ha detto Caliban?» chiese a denti stretti.
   La ragazza chiuse gli occhi e si concentrò, cercando di rievocare soltanto le parole dell’Orco e di mettere da parte l’orrore e la paura che aveva provato in quei momenti. Si sfiorò le tempie con le dita.
   «Mi ha chiamata “Futura regina dello Staudeheim”» mormorò, sempre tenendo gli occhi chiusi. Cercò di ricordare il resto, ma la sensazione di soffocante terrore che l’aveva colta quel mattino si ripresentò di nuovo, prepotente, e le mancò il fiato. Quando schiuse le palpebre trovò entrambi gli uomini immobili a fissarla: l’espressione di Baumann era cupa, quella di Jonas tesissima.
   I due fratelli si scambiarono uno sguardo.
   «Portiamola dalla Voce» decisero insieme.

Il corridoio in cui Baumann e Jonas condussero Antonia era situato in una zona del palazzo ben tenuta, ma in cui era assente qualsiasi rumore: sembrava disabitata quanto la Torre del Cipresso.
   Baumann si fermò davanti a una porta magnificamente intagliata. La sua mano esitò sulla maniglia, e si voltò a guardare suo fratello.
   «Credi davvero che sia la cosa giusta da fare?» chiese a Jonas. L’altro annuì.
   «Lo è, e lo sai anche tu» rispose grave.
   Baumann aprì la porta.
   La stanza in cui entrarono era immensa: sembrava che quell’intera ala del palazzo fosse costituita da un unico spazio sconfinato, racchiuso tra mura così distanti tra loro da sparire in lontananza e sovrastato da un soffitto così alto da perdersi nel buio. La luce che riempiva quel salone di cui non si vedeva la fine era azzurrina, smorta, crepuscolare: sembrava affievolirsi e intensificarsi senza alcun criterio logico, ma senza mai divenire troppo intensa. Il pavimento di marmo candido era disseminato di fiori di ogni tipo, bellissimi e freschi come fossero stati appena colti.
   Antonia si chinò e tese le dita verso un’orchidea violetta, ma Jonas la fermò prima che potesse toccarla.
   «No, Antonia» sussurrò. «Nessuno può cogliere questi fiori senza il permesso della Dea del Vento».
   «La Dea del Vento?» ripeté Antonia in un bisbiglio.
   In quel momento una brezza gentile spirò per la sala, tramutandosi in pochi istanti in un vento impetuoso: i fiori furono sollevati dal pavimento e vennero trascinati lungo tutto il salone dalle correnti d’aria, dando vita a una danza ipnotica.
   Dal buio apparve una figura sconosciuta: una giovane donna pressappoco dell’età di Antonia, vestita di veli leggerissimi e candidi che le svolazzavano intorno sotto la spinta del vento, si accodò alla scia di fiori, danzando con passi leggeri quanto l’aria stessa. La sconosciuta volteggiò per la sala, proseguendo la propria danza a occhi chiusi e passando più volte di fronte al trio in attesa.
   Finalmente il vento si placò: non restò che un venticello delicato, forte quel tanto che bastava a far fluttuare i fiori a un metro o due dal pavimento, e la donna si fermò proprio di fronte ai due fratelli e ad Antonia.
   «Dea del Vento» mormorò Baumann. «Il Signore del Terremoto ha profetizzato qualcosa che Antonia non riesce a rammentare: dobbiamo sapere cosa le ha detto».
   «Dea del Vento» sussurrò Jonas. «Abbiamo bisogno di sentire la tua Voce».
   Quella che Baumann e Jonas avevano chiamato Dea del Vento lasciò calare le palpebre sulle proprie iridi del colore dei nontiscordardime. «Antonia» cantilenò. «Antonia, la Viaggiatrice giunta per caso; Antonia, al cospetto di Caliban; Antonia, la futura regina dello Staudeheim».
   La sconosciuta tese le mani verso l’altra donna presente, e le infilò le dita tra i capelli: rivoli argentei scorsero, filtrando nella testa di Antonia per poi tornare indietro lungo le braccia della ragazza dall’aspetto etereo e insinuarsi nei suoi occhi.
   «Antonia» disse ancora, proseguendo il proprio salmodiare. «“Antonia. Antonia, colei che è salda; Baumann, l’Albero saldo nel terremoto; Grant, la salda Roccia che non vacilla mai”» disse con voce totalmente trasfigurata. «Antonia, la terza parte di ciò che può rendere la nostra terra immune al potere dei Signori del Terremoto». La giovane donna aprì gli occhi, incontrando quelli sbalorditi e confusi di Antonia. «Questa è la profezia di Caliban». Fece cadere le braccia lungo i fianchi prima di sollevarle di nuovo. «Dopo così tanto tempo, finalmente uniti e alla mia presenza. Oh, quanto solitari sono stati questi anni, passati nel crepuscolo infinito tra una visione profetica e l’altra! Oh, quanto triste è stata questa vita, aspettando di essere riunita a voi – io, che sono stata destinata a essere soltanto colei che può riconoscere la Terza Speranza dello Staudeheim, e non a esserlo. Eppure eccola, la libertà. Sta di fronte a me, ancora divisa, ancora per poco!»
   La sconosciuta fece un passo verso i due uomini, che si slanciarono tra le sue braccia e la strinsero: per un breve istante Antonia si sentì dolorosamente fuori posto, e terribilmente sola.
   Ma poi Jonas si staccò e le tese una mano, sorridendole con una dolcezza tale da commuoverla.
   «Vieni, Antonia» mormorò. «Vieni a conoscere la Voce della Dea del Vento: Margaerys, nostra sorella».
   Lei si avvicinò; Baumann prese la sua mano e la premette su quella di Margaerys prima di fare un passo indietro.
   Le due donne si guardarono in silenzio per un lungo istante; poi, Margaerys sorrise.
   «Per lungo tempo» esordì la profetessa, «ho provato invidia verso colui o colei che il Fato aveva scelto al posto mio per essere la Terza Speranza del nostro mondo. Per tutta la vita – per tutta la mia vita trascorsa come strumento con cui la Dea potesse far sentire la Sua voce – mi sono sottomessa al mio destino, e ho ricoperto il ruolo per cui ero nata pur desiderandone un altro: ero certa, avendo riconosciuto nei miei fratelli le prime due Speranze profetizzate ai tempi di Gowan, che la cosa più logica fosse essere io stessa la Terza Speranza. Credevo che il legame di sangue fosse l’unico che potesse tenere insieme le tre parti di cui parlava l’antica profezia».
   «E… e non è così?» chiese incerta Antonia.
   «No» rispose Margaerys con voce limpida. «Sbagliavo. Un terzo legame di sangue non avrebbe cambiato nulla; non avrebbe conferito alla Mano degli Dèi la potenza necessaria a sconfiggere i nostri nemici; non avrebbe catalizzato le qualità dei miei fratelli in modo da farle confluire in un tutto in cui la somma delle parti è molto maggiore del loro valore individuale. C’era bisogno di qualcuno che abbracciasse il fardello di questa guerra non per nascita, ma per scelta: c’era bisogno di un Viaggiatore, così come c’era bisogno di qualcuno che unisse in un secondo vincolo, indissolubile quanto quello di sangue, Baumann e Jonas: c’era bisogno di qualcuno per cui entrambi volessero lottare e riportare la pace nel nostro mondo».
   «Perché io?» chiese scettica Antonia.
   Margaerys divenne seria. «Saresti potuta non essere tu» rivelò. «Questa guerra sarebbe potuta finire secoli fa» aggiunse, incurante dello sgomento dei suoi fratelli. «La Dea mi ha rivelato che la profezia – più incerta, meno definita – esisteva già da oltre mezzo millennio. Ai tempi di Gowan si sarebbe potuta realizzare: il nostro Re Guerriero era abbastanza forte da essere la Prima Speranza, e l’arrivo della Viaggiatrice lo rese ancor più saldo». Lo sguardo della giovane divenne triste. «Ma lei non lo amava, non al punto da amare anche questa terra e sentire la nostra guerra come propria; scelse di andarsene, e Gowan si spezzò». A dispetto di tutto, sorrise. «Quello di cui avevamo bisogno era una nuova Viaggiatrice, che unisse i capisaldi del regno e decidesse di combattere per un mondo che non era il suo. E ora l’abbiamo: le Tre Speranze sono riunite e pronte a lottare».
   Jonas e Baumann si guardarono.
   «Credo che dovremmo tornare, convocare tutti e annunciare loro che le Tre Speranze sono insieme» mormorò il principe.
   Il capitano sbuffò. «Un altro po’ di pressione» commentò. «Proprio quello che ci serviva!»
   Margaerys sorrise serena. «Credo di dover essere io a dare la notizia» intervenne.
   I suoi fratelli la fissarono, confusi.
   «Ma, Margaerys, tu non puoi uscire da qui» disse piano Jonas. «Il voto alla Dea non te lo consente».
   «Questo giorno segna la fine del mio voto» rispose la ragazza. «Io ero nata per essere la Voce della Dea e comunicare al regno il momento in cui le Tre Speranze fossero state riunite: oggi è finalmente accaduto. Rivelare a tutti che la Mano degli Dèi è pronta ad agire, e ciò che accadrà da ora in poi, è l’ultimo atto che devo alla Dea, e per adempiervi, devo uscire di qui».
   Baumann le prese le mani. «Per non tornarci più?» chiese speranzoso.
   «Mai più» confermò sua sorella.
   I due si abbracciarono stretti.
   «Margaerys è chiusa qui dal compimento del suo settimo anno d’età» mormorò Jonas ad Antonia. «Ora ne ha ventidue. Per Baumann fu molto difficile lasciarla all’isolamento che le imponeva il voto alla Dea; e lo fu ancora di più dopo la morte dei loro genitori». Sospirò. «Essere gli Strumenti degli Dèi è un onore, ma anche una schiavitù».
   «Adesso però è libera: l’ha detto lei stessa» gli sussurrò Antonia in tono incoraggiante.
   Jonas sorrise appena. «Vogliano gli Dèi che la fine del suo voto sia un presagio di buona sorte per il resto del nostro mondo, e che la sua libertà preceda di poco quella di tutti gli altri abitanti dello Staudeheim».
   Baumann si staccò da sua sorella e la prese per mano. «Andiamo, e lasciamo di nuovo queste stanze alla loro antica solitudine» disse con fermezza. «È ora di programmare la grande battaglia».

Nei corridoi del palazzo, servitori e appartenenti alla corte si erano bloccati, sorpresi nel vedere la Voce fuori dal proprio eremo; i bisbigli si erano moltiplicati fino a diventare assordanti quanto incomprensibili, e per il momento in cui il quartetto raggiunse la Sala del Consiglio, tutti i più importanti abitanti del castello erano riuniti intorno all’ampio tavolo.
   Quando Margaerys fece il proprio ingresso, la mano ancora stretta in quella di Baumann, tutti balzarono in piedi, increduli e sgomenti.
   «Voce della Dea» balbettò Mastro Devall, «voi non dovreste essere qui!».
   «Invece è proprio il luogo in cui devo essere» replicò la ragazza; le sue labbra si schiusero sui denti candidi in un sorriso lieto. «Proprio qui, proprio oggi».
   «Ma… ma… profetessa…» tentò di nuovo Devall, «voi siete votata alla Dea! L’isolamento è il vostro solo compagno, il silenzio l’unico suono a voi concesso: questo prescrive il vostro voto! Le vostre orecchie devono restare pure per poter udire la Dea, e solo agli interroganti che chiedono risposte alla Dea è concesso di vedervi e parlarvi!».
   «E questo è ciò che è accaduto, Mastro Devall» rispose Margaerys con fermezza. «È stata fatta una domanda; la Dea ha risposto; e ci ha dato proprio quell’unica risposta che segna la fine del mio voto».
   «Ma…» farfugliò ancora l’uomo. «Voi potrete essere libera dal voto… solo… solo quando…»
   «Solo quando la profezia sarà in procinto di compiersi» terminò per lui Illyrio, gli occhi fissi su Margaerys. Il Magister Fascinationum era persino più pallido del solito: sembrava aver visto un fantasma. «E cioè quando le Tre Speranze saranno riunite».
   Gli occhi di Mastro Devall volarono da Margaerys ad Antonia, le mani intrecciate a quelle di Baumann e Jonas, e poi di nuovo alla profetessa.
   «Volete dire che quella donna è… è… una delle Tre Speranze?» balbettò Devall, indicando Antonia.
   «Questa donna non è solo la Terza Speranza, ma anche la futura regina della nostra terra» rispose Margaerys. Tutti la fissarono in silenzio, folgorati.
   Illyrio si voltò verso Baumann e gli scoccò uno sguardo bruciante. «C’è qualcosa che devi dirci, Maestà?» chiese a denti stretti. «Forse ricordo male, ma le nostri leggi prevedono che un consorte per il re o la regina regnante debba prima essere sottoposto al Consiglio, e da esso approvato».
   «Placa la tua rabbia, Magister» intervenne sferzante Margaerys. La giovane si erse in tutta la propria altezza, gli splendidi occhi velati da una furia a stento trattenuta. «Antonia non necessita di alcuna approvazione… a meno che tu non voglia contestare la voce di ben due dei nostri Dèi!»
   Illyrio la fissò, e lei parve leggere nei suoi occhi la domanda inespressa. Il suo cipiglio si addolcì impercettibilmente.
   «Prima che Antonia comparisse al mio cospetto e la Dea mi parlasse, un altro ha sentito pronunciare la profezia» aggiunse Margaerys. «Caliban l’ha riconosciuta come Terza Speranza e futura regina prima di me».
   Il Magister Fascinationum indietreggiò quasi inconsapevolmente. «Caliban?» ripeté sgomento. «Ma come… quando…»
   «Al Varco» intervenne cupo Jonas. «Dopo che avevi portato via Baumann».
   «E tu sai, Illyrio, come chiunque altro nel regno» disse Baumann stesso, «che Caliban è un profeta del nostro Dio della Terra; l’unico vivente a udirne la voce. Questo significa…»
   «…che Antonia è stata riconosciuta come Terza Speranza e futura regina tanto dalla Dea del Vento quanto dal Dio della Terra» concluse Isdrid con voce soffocata tra lo sconcerto generale.
   Illyrio chinò il capo.
   «Se è così, allora non ho obiezioni da porre» dichiarò il Magister. Lanciò un altro sguardo a Margaerys, che lo scrutava con curiosità. «È solo che la principessa Margaerys ha diritto di regnare quanto te, Baumann».
   «Mia sorella diventerà uno dei primi tre consiglieri, insieme a te e a Mastro Devall» rispose il principe. «Il fatto che il suo voto sia terminato non esclude che in futuro la Dea possa parlarle ancora, e tutto ciò che udito da Lei in questi anni sarà prezioso per condurre il regno».
   Isdrid, incapace di trattenersi più a lungo, andò da Margaerys e la strinse tra le braccia un attimo prima di scoppiare in lacrime. Baumann sorrise, e anche un angolo della bocca di Jonas si arricciò appena all’insù.
   Mastro Devall scosse la testa, ancora stordito da tutte quelle rivelazioni. «Dunque Antonia sarà la tua sposa, principe?»
   «Non solo la mia» rispose l’interpellato con una scrollata di spalle. «A proposito, c’è una qualche antica legge che consente a un triumvirato di governare il regno, o dobbiamo scriverne una apposta?»
   «Un triumvirato?». Il povero Devall era sull’orlo delle lacrime: mai avrebbe creduto di sentire qualcosa del genere. «Nello Staudeheim non si è mai visto un triumvirato al potere…»
   «Allora è il momento di cambiare» tagliò corto Baumann. «In fondo non avrebbe senso, che ad avere il potere fosse solo una delle Tre Speranze, no?»
   Il maestro di corte boccheggiò il suo poco convinto assenso e si allontanò per mettere subito al lavoro gli scrivani di palazzo.
   Jonas guardò Baumann.
   «Quindi che ci rimane da fare, in attesa che la profezia degli Dèi si compia?» chiese il capitano.
   Baumann guardò Antonia con la coda dell’occhio e il suo sorriso si allargò ancora di più.
   «Preparare le truppe e organizzare un matrimonio, direi». Lanciò uno sguardo ridente all’espressione sconvolta di suo fratello. «O non ti senti ancora pronto?»

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Capitolo 9
*** Oltre le mura ***


Il sole d’Agosto splendeva su Rocca Arsa.
   Federica attraversò ciondolando la piazza, ignorando gli sguardi curiosi e i bisbigli delle persone che già affollavano il posto. Proprio un anno prima, lei e Antonia erano sparite nel nulla; per mesi il paese e i dintorni erano stati setacciati senza successo, e proprio quando le ricerche erano state abbandonate, Federica aveva fatto il suo ritorno a casa.
   La ragazza sapeva il perché dei sussurri e delle occhiate furtive: quando era ricomparsa, da sola e professando a gran voce di non sapere dove fosse Antonia e di non ricordare nulla, le chiacchiere dei paesani si erano scatenate: avevano sospettato tutti – e giustamente, peraltro – che stesse mentendo; quello che non le andava giù era la direzione che aveva preso l’immaginazione di quelli che aveva sempre considerato amici. Alcuni erano addirittura arrivati a insinuare che avesse ucciso Antonia e ne avesse occultato il corpo; e per Federica, che non solo non avrebbe mai fatto niente del genere ma che aveva combattuto e rischiato di morire, al fianco dell’amica, quelle malignità erano quasi insopportabili.
   Mentre sedeva in un angolino solitario, lontano da tutti, si chiese per l’ennesima volta per quale motivo fosse tornata a Rocca Arsa: avrebbe fatto meglio a restarsene a Roma, o ad andare in un qualsiasi altro luogo, dove le chiacchiere perfide della gente non l’avrebbero raggiunta. In fondo, stare lì ormai era soltanto una tortura.
   In realtà, Federica sapeva benissimo per quale motivo aveva scelto di tornare: percorrere di nuovo i viottoli familiari del paesino abruzzese le dava l’impressione di essere più vicina ad Antonia, e una piccolissima parte di lei continuava a sperare di vederla comparire da un momento all’altro.
   La ragazza era immersa in questi pensieri quando d’improvviso la terra tremò e un ruggito che non sentiva da mesi squarciò l’aria.

Antonia era esasperata.
   Sposarsi non era mai stata in cima alla lista delle sue priorità, ma organizzare quel matrimonio – il suo matrimonio, prima o poi avrebbe dovuto cominciare ad ammetterlo almeno nella propria testa – la stava davvero facendo impazzire. Già solo la cosa in sé era sufficiente a farle dare di matto, e se si aggiungeva il fatto che avrebbe sposato due fratelli contemporaneamente, che loro tre erano la Mano degli Dèi il cui arrivo era stato profetizzato mezzo millennio prima, e che in occasione della cerimonia sarebbero stati dichiarati governanti, allora si poteva capire come la pressione su di lei aumentasse in modo esponenziale rispetto a un qualsiasi matrimonio.
   La ragazza si nascose il volto tra le mani.
   «Porta pazienza, Antonia» esalò Jonas: era provato quanto lei dalla situazione, ma voleva comunque cercare di confortarla un po’. «Tra un paio di mesi sarà tutto finito».
   «Un paio di mesi!» ripeté Antonia, inorridita. Si premette con più forza le mani sul viso. «Non è riuscita a farmi scappare la guerra, ma questo matrimonio forse ce la farà!» si lamentò.
   Baumann arrivò alle loro spalle, silenzioso come un gatto. «Non dovresti essere felice di sposarci?» la stuzzicò.
   «Lo sarei, se non fosse tutto così… così… imponente!» borbottò lei.
   «È il duro destino dei governanti, essere sempre sotto l’occhio vigile del popolo» scherzò il principe. «Non ti conforta sapere che dopo sarai regina?»
   «No» brontolò Antonia. «Forse, sterminare qualche Orco…» aggiunse speranzosa.
   «Non si può» rispose Baumann, serio, distruggendo all’istante l’entusiasmo della sua promessa sposa. «Gli Orchi sanno che io, te e Jonas siamo la Mano degli Dèi: di sicuro sono all’erta, pronti per quando metteremo il naso fuori dal castello».
   «Ma prima o poi dovremo uscire» obiettò lei. «Altrimenti non metteremo mai fine a questa guerra…»
   «Prima dobbiamo essere uniti in modo indissolubile» le spiegò paziente Baumann per l’ennesima volta. «Oltre a renderci più coesi, solleva il morale dei cittadini e delle truppe». Scosse la testa di fronte all’identica espressione poco convinta di Antonia e Jonas. «Dovete capire che anche queste cose sono importanti…»
   «Quando regneremo insieme, della politica te ne occuperai tu» bofonchiò Jonas.
   «Quello che non capisco è che bisogno ci sia di questa pompa magna» insisté Antonia, disperata.
   Baumann lasciò vagare lo sguardo nella sala. Accanto a Isdrid, Margaerys discuteva di infiniti dettagli della cerimonia nuziale con i capi dei servitori: sul volto di sua sorella c’era tanto felice entusiasmo da strappargli un sorriso.
   «So che non ti piace» ammise infine, «e un po’ disturba anche me, ma…». Gettò un’altra occhiata a sua sorella. «Margaerys è così felice di essere libera di occuparsi di cose del genere che… che mi dispiacerebbe frenarla» confessò.
   Lo sguardo di Antonia si addolcì mentre a sua volta osservava la futura cognata. Quello che aveva detto Baumann era vero: Margaerys sembrava risplendere mentre si occupava di tutti quei dettagli che lei trovava noiosi da morire.
   «Posso capire il tuo punto di vista» rispose infine. «E va bene, falle fare quello che preferisce, riguardo la cerimonia» cedette.
   Baumann le scoccò un sonoro bacio sulla guancia; anche Jonas le sorrise, ma un urlo improvviso spezzò quel momento di quiete.
   Margaerys si afferrò la testa, urlando, e barcollò vistosamente prima di perdere l’equilibrio. Tutti scattarono verso di lei, ma Illyrio fu il più veloce: la circondò con le braccia prima che potesse cadere, e con una mano le scostò i capelli dal volto e le accarezzò la fronte.
   «Che succede, Margaerys?» le sussurrò con dolcezza sorprendente il Magister Fascinationum. «Che cos’hai?»
   La principessa si aggrappò alle braccia di Illyrio, tremante.
   «La Dea ha parlato» esordì con voce flebile. «Il momento della battaglia è giunto».
   Gli occhi di Baumann si sgranarono. «Ma è troppo presto!» protestò.
   «La Dea ha parlato» ripeté sua sorella. «Non possiamo sottrarci: i nemici hanno già attaccato».
   «Margaerys, questo non è possibile» intervenne Jonas in tono ragionevole. «Le sentinelle sono all’erta: se gli Orchi avessero attaccato in un qualsiasi punto del regno, saremmo già stati avvertiti».
   «La Dea ha parlato» insisté Margaerys, ostinata. «Il momento di combattere è arrivato, i nemici hanno attaccato: la battaglia oltre le mura è cominciata».
   Baumann e Antonia si scambiarono uno sguardo confuso.
   «Non si sente nulla» disse Baumann. «Fuori dalle mura è tutto tranquillo».
   Illyrio distolse gli occhi da Margaerys per fissare quelli di Baumann. «Ha detto che la battaglia è oltre le mura, non fuori le mura» sibilò.
   «E qual è la differenza?» chiese impaziente il principe.
   Jonas digrignò i denti. «Te lo ricordi cosa sono i Varchi?» domandò brusco. «Sono brecce nel muro che ci divide dagli altri mondi. Quindi, quando la Dea dice che la battaglia è oltre le mura…»
   «…vuol dire che è in un altro mondo». Antonia trattenne fiato. «Non nel mio!»
   «Nel tuo» confermò Margaerys.
   «Ha senso» commentò Illyrio, cupo. «Qui siamo preparati ai loro attacchi, negli altri mondi no; quale modo migliore per attirare la futura regina fuori dalla protezione del castello – e con lei Baumann e Jonas, perché sanno che non la lascerebbero mai sola – di attaccare il suo mondo d’origine?»
   «Non posso lasciare che lo facciano!». Antonia scattò verso la porta, ma Baumann fu rapido ad afferrarla.
  Jonas corse alla porta più vicina e mise fuori la testa. «Alec! Zane!» chiamò con tutta la voce che aveva. «Radunate subito l’esercito! Dobbiamo raggiungere il Varco!»
   «È una trappola! Non potete andarci!» protestò Mastro Devall.
   «Invece è esattamente quello che faremo» ringhiò Baumann. Scoccò uno sguardo di fuoco a Illyrio. «Prova a fermarmi, Illyrio, e prometto che ti staccherò la testa con la spada di mio padre».
   «Come se fosse possibile» sbuffò il Magister, raddrizzandosi. «Fermare uno di voi è difficile, ma provare a bloccare tutti e tre è impossibile». Scrollò le spalle. «Vorrà dire che combatteremo. Antonia, avremo bisogno di armi, nel tuo mondo la Magia non ci assisterà…»
   Margaerys gli si aggrappò a un braccio, i begli occhi spalancati e pieni di paura. «Non potete andare tutti! E se moriste? Chi governerebbe il regno?»
   Baumann le sorrise, e con dolcezza liberò Illyrio dalla sua presa.
   «Tu, Margaerys» disse con fermezza. «Tu devi restare, perché il nostro regno abbia qualcuno su cui contare in caso ci succedesse qualcosa. Torneremo vincitori, o pronti per essere seppelliti».
   «Non puoi chiedermi questo» sussurrò lei.
   «Non ho bisogno di chiedertelo: è il tuo dovere, come il nostro è combattere» replicò Baumann. «A suo tempo mi sono piegato all’onta di non combattere perché il regno avesse un re; adesso tocca a te». Le baciò la fronte, subito imitato da Jonas. «Attendi il nostro ritorno, e in ogni caso, sii fiera di noi».
   «Lo sono già» rispose affranta Margaerys.
   Antonia le si parò di fronte: la fissò con determinazione, poi l’abbracciò.
   «Abbi fede negli Dèi, Margaerys» disse. «E abbi fede in noi».
   «Dobbiamo andare, Antonia, subito» intervenne Jonas.
   La ragazza lasciò andare la sua coetanea e prese le armi che il capitano le porgeva, poi tutti i presenti, eccetto la principessa, Mastro Devall e Isdrid, si mossero per raggiungere l’esercito.
   Antonia si fermò sulla porta per guardare un’ultima volta sua cognata.
   «Invoca la protezione degli Dèi su di noi, sorella» disse prima di sparire.

Le urla erano assordanti.
   Gli Orchi si erano riversati in massa fuori dal Varco presente a Rocca Arsa e avevano invaso il paesino con brutale rapidità, menando martellate feroci sul terreno e rendendo instabile ogni centimetro nel raggio di centinaia di metri. Gli abitanti erano stati a dir poco colti di sorpresa, ma lo shock di trovarsi di fronte delle creature leggendarie era durato poco: ben presto il panico aveva preso il sopravvento, e i vacanzieri avevano cercato riparo nelle case più vicine, trascinando via vecchi e bambini.
   Federica era l’unica ad aver mantenuto il sangue freddo.
   Nonostante l’incredulità di trovarsi di fronte gli Orchi in un mondo in cui non sarebbero dovuti mai arrivare, la ragazza aveva reagito con incredibile rapidità: era corsa a casa per uscirne subito dopo con l’arco e la faretra a tracolla, la spada al fianco e un grosso sacco di tela in ogni mano.
   Arrivata alla piazza, si rese conto che la situazione era già critica: le martellate dei Signori del Terremoto avevano aperto profonde crepe nel selciato e sui muri dei palazzi circostanti. Ancora un po’, e di Rocca Arsa non sarebbe rimasto che un cumulo di macerie.
   Con gesti veloci Federica aprì le due sacche e ne lanciò il contenuto tutt’intorno: migliaia di piccole sfere gommose, ricavate dalla linfa delle piante dello Staudeheim, rotolarono nelle spaccature del terreno e tra i sampietrini, incuneandosi nelle fessure. La gomma fece il suo dovere, assorbendo ogni vibrazione, e di colpo il mondo fu di nuovo stabile.
   Per un minuto buono gli Orchi si bloccarono, fissando interdetti i propri martelli e abbattendoli a più riprese al suolo, tentando inutilmente di scatenare altri terremoti.
   Federica approfittò del momento. Scoccò varie frecce in rapidissima successione, uccidendo una buona decina di nemici; poi sguainò la spada e si gettò su quelli ancora in piedi.
   Gli Orchi si ripresero in fretta dallo stupore, e altrettanto in fretta individuarono in Federica l’unica minaccia presente. La accerchiarono subito, mulinando i martelli nel tentativo di schiacciarla, ed era chiaro che presto o tardi almeno uno di loro l’avrebbe colpita.
   Federica non provò paura. Quando si era gettata a testa bassa tra gli Orchi, era consapevole che la sua era una battaglia vana: i nemici erano decine, forse centinaia, e lei era sola. Non aveva sperato neanche per un momento di farcela: sapeva che era impossibile… ma se proprio doveva morire quel giorno, aveva intenzione di portare con sé più Orchi che poteva.
   Gli Orchi serrarono i ranghi; Federica vide il cerchio stringersi intorno a sé e i martelli vorticare sempre più vicini, e seppe che era arrivata la fine.
   Poi gli ululati esplosero nella piazza e gli Orchi si voltarono in perfetta sincronia verso un unico punto.

La galoppata di Antonia, Baumann e Jonas verso il Varco era stata rapidissima; la ragazza aveva effettuato il Salto per prima, in modo che a tutti gli altri fosse sufficiente concentrarsi sul desiderio di raggiungerla per arrivare a destinazione.
   Non appena aveva rimesso piede nel proprio mondo d’origine, Antonia aveva sentito chiaramente i ruggiti degli Orchi e le grida di terrore dei suoi compaesani; aveva compreso all’istante che il frastuono era concentrato nella piazza del paese e aveva lanciato Nebbia al galoppo giù per la ripida discesa su un terreno miracolosamente saldo, seguita dai suoi promessi sposi e da tutto l’esercito.
   Quando sbucarono nella piazza di Rocca Arsa, la scena che si presentò ai loro occhi era di devastazione: gli Orchi inseguivano le persone inermi, cercando di colpirle, e un gruppo più folto si era stretto intorno a una piccola porzione di terreno.
   Nonostante il rumore assordante, Antonia sentì le urla di sfida di Federica.
   «Arcieri, pronti!» ordinò a gran voce, incoccando una freccia nell’arco; i soldati obbedirono, e un secondo più tardi una pioggia di frecce cadde sul manipolo di Orchi più lontani, che si dispersero gridando.
   Federica sbucò correndo dal gruppo di nemici.
   «Siete qui!» urlò sollevata. Lei e Antonia si scambiarono un rapido sguardo determinato, poi un secco ululato la distrasse: il lupo che era stato suo fedele compagno nei mesi trascorsi nello Staudeheim era lì, a un passo da lei.
   La ragazza saltò in sella e afferrò le redini con la mano libera.
   «Fanteria, all’attacco!» urlò Jonas.
   I soldati scattarono in avanti, spade e lance in pugno, e si scagliarono sugli Orchi; Jonas e Baumann, Antonia e Federica, Illyrio, Alec e Zane spronarono i lupi e si sparpagliarono tra i nemici, subito seguiti dalla cavalleria.
   Gli Orchi, impreparati a trovare resistenza così presto, non si opposero efficacemente a quella brutale e inaspettata carica: parecchi caddero sotto i colpi dei soldati, altri vibrarono delle martellate poco convinte, facili da schivare.
   Antonia, sempre in sella a Nebbia, spronò il lupo contro l’Orco più vicino; l’animale obbedì entusiasticamente, saltando alla gola del nemico e squarciandola con i lunghi denti. Intorno a lei, gli altri soldati a dorso di lupo facevano lo stesso, decimando gli Orchi.
   E poi arrivò quello che, Antonia lo sapeva, era l’unico davvero importante: Caliban si erse in tutta la propria statura al centro del campo di battaglia, gonfiò il petto enorme e urlò un incitamento ai propri simili, il martello teso verso il cielo.
   Baumann, Jonas e Antonia si voltarono verso di lui nello stesso istante; gli occhi del primo s’incendiarono d’odio.
   «CALIBAN!» tuonò mentre spronava il proprio lupo alla carica, la spada che era stata di suo padre tesa verso il Signore del Terremoto.
   Caliban si voltò a guardare il punto da cui era partito il grido e sorrise, feroce e soddisfatto.
   «Baumann, principe dello Staudeheim» chiamò con la sua voce possente. «Qui si compie il tuo destino. Come ho ucciso il padre, ucciderò il figlio!»
   Baumann non diede peso alle sue parole: incitò il lupo ad andare più veloce, e lo stesso fecero Jonas e Antonia. Caliban vide i tre convergere su di lui e serrò la presa sul martello.
   Una nuova pioggia di frecce cadde con precisione sugli Orchi; fanti e cavaliere partirono con una nuova carica sotto la guida dei gemelli e di Illyrio, impegnando i nemici e lasciando campo libero ai tre che dovevano affrontare il Signore del Terremoto.
   Caliban non sembrò impensierito nel ritrovarsi di fronte le Tre Speranze finalmente unite: anzi, sorrise, come se non avesse desiderato altro. Lui e Baumann si fissarono con ferocia, di nuovo uno di fronte all’altro dopo oltre dieci anni.
   Fu il principe a spezzare il silenzio.
   «Io ti ucciderò» sibilò. «L’ho giurato il giorno in cui hai ucciso mio padre, che l’avrei vendicato, e finalmente il momento è arrivato».
   La bocca dell’Orco si stirò in un sorriso cattivo.
   «Pensi davvero di potermi uccidere, piccolo Baumann?» lo schernì. «Uccidere me, il primo e vero Signore del Terremoto; me, un combattente con quasi mille anni d’esperienza, al contrario di te, che non sei quasi mai sceso in campo; me, Caliban, a cui soltanto Gowan è sfuggito?». Rise sprezzante. «Tu non sei Gowan, Baumann, e se io dovessi scegliere di temere qualcuno, questo qualcuno sarebbe il capitano Grant, l’unico ad aver emulato l’impresa di Gowan!»
   Baumann non si lasciò incantare dalle parole dell’Orco: sebbene fosse arrossito di rabbia agli insulti che gli erano appena stati rivolti, non distolse lo sguardo dal nemico e non abbassò la guardia.
   «Non riuscirai a metterci uno contro l’altro, Caliban» intervenne Jonas con voce ferma: anche lui teneva la spada puntata contro l’Orco. «Tutti e tre abbiamo un conto aperto con te; è il momento di saldarlo».
   «Tutti e tre?» gli fece eco Caliban, divertito e scettico. «Posso capire te e Baumann; volete vendicare vostro padre; ma la straniera? Lei non c’entra con questa guerra». Guardò Antonia, che lo teneva sotto tiro con l’arco sollevato. «Tu non sei obbligata a combattere; questa guerra non ti riguarda. Puoi tornare nel tuo mondo, il tuo vero mondo, e lasciarti tutto alle spalle. Fingere che sia stato soltanto un sogno, e nulla di più» disse tentatore.
   Antonia sorrise perfida.
   «Ho deciso di combattere questa guerra prima che tu attaccassi il mio mondo d’origine: oggi, ho due volte un buon motivo per combatterti» replicò. Con un gesto repentino scoccò la freccia, centrando Caliban dritto nell’occhio.
   Il Signore del Terremoto gettò la testa indietro e ruggì di rabbia e dolore. Quello fu il segnale: l’esercito dello Staudeheim si riversò come un sol uomo sui nemici, tenendoli impegnati, mentre Baumann, Jonas e Antonia scattavano verso Caliban con le spade sollevate.
   Fu un attimo. La spada di Baumann trapassò il collo dell’Orco da parte a parte; Jonas abbatté la propria tra la quarta e la quinta costola, centrandogli il cuore; Antonia gli conficcò la sua nello stomaco.
   L’intero corpo di Caliban tremò. Antonia e Jonas estrassero le spade dalle carni dell’Orco e indietreggiarono; Baumann sfilò la sua soltanto per impugnarla con entrambe le mani e decapitare Caliban con un gesto secco.
   Cadavere e testa caddero a terra. Nello stesso istante, gli Orchi deposero i martelli e si arresero uno dopo l’altro, inchinandosi e riconoscendo la sconfitta.

Le operazioni di sgombero di Rocca Arsa procedevano senza problemi.
   Subito dopo che gli Orchi erano arresi, dallo Staudeheim erano arrivati altri soldati portando con sé manette e catene: i nemici in ceppi erano stati ricondotti oltre il Varco, e la lunga serpentina di soldati e Orchi continuava a snodarsi attraverso il paese.
   La piazza era di nuovo affollatissima: i paesani vi si erano riversati non appena avevano capito che il pericolo era cessato e, nonostante il comprensibile timore suscitato in loro dai lupi giganti, parecchi si erano avvicinati ad Antonia, increduli e sorpresi da quell’improvvisa e straordinaria ricomparsa.
   La ragazza stava giusto cercando di non farsi sommergere dalle domande dei suoi compaesani quando le grida di due voci familiari si fecero strada fino a lei.
   Antonia scostò le persone che aveva intorno con gesti bruschi fino a quando non incontrò i due volti che più di tutti le erano mancati in quell’anno.
   «Papà! Mamma!»
   I suoi genitori l’abbracciarono stretta, piangendo di sollievo. Quando alla fine si staccarono, arrivarono le inevitabili domande.
   «Antonia, si può sapere dove sei stata per tutta questo tempo? Eravamo così spaventati… non credevamo ti avremmo mai più rivista!» disse sua madre.
   «È una storia lunga» rispose Antonia. Cercò con gli occhi Baumann e Jonas, impegnati a dirigere il trasferimento degli Orchi. «E ci sono un paio di persone che vi devo presentare».

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