Autobus n°3 - La storia del poeta e della sognatrice

di emmegili
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. - Oliver ***
Capitolo 11: *** 11. - Rachele ***
Capitolo 12: *** 12. - Oliver ***
Capitolo 13: *** 13. - Rachele ***
Capitolo 14: *** 14. - Oliver ***
Capitolo 15: *** 15. - Rachele ***
Capitolo 16: *** 16. - Oliver ***
Capitolo 17: *** 17. - Rachele ***
Capitolo 18: *** 18. ***
Capitolo 19: *** 19. - Arianna ***
Capitolo 20: *** 20. - Rachele ***
Capitolo 21: *** 21. ***
Capitolo 22: *** 22. - Oliver ***
Capitolo 23: *** 23. - Rachele ***
Capitolo 24: *** 24. ***
Capitolo 25: *** 25. ***
Capitolo 26: *** 26. ***
Capitolo 27: *** 27. ***
Capitolo 28: *** 28. ***
Capitolo 29: *** 29. ***
Capitolo 30: *** 30. - Edgardo ***
Capitolo 31: *** 31. - Oliver ***
Capitolo 32: *** 32. - Rachele ***
Capitolo 33: *** 33. ***
Capitolo 34: *** 34. - Oliver ***
Capitolo 35: *** 35. - Scott ***
Capitolo 36: *** 36. - Rachele ***
Capitolo 37: *** 37. - Oliver ***
Capitolo 38: *** 38. - Rachele ***
Capitolo 39: *** 39. ***
Capitolo 40: *** 40. - Rachele ***
Capitolo 41: *** 41. ***
Capitolo 42: *** 42. - Rachele ***
Capitolo 43: *** 43. ***
Capitolo 44: *** 44. - Oliver ***
Capitolo 45: *** 45 - Rachele ***
Capitolo 46: *** 46. ***
Capitolo 47: *** 47. ***
Capitolo 48: *** 48. ***
Capitolo 49: *** 49. ***
Capitolo 50: *** 50. ***
Capitolo 51: *** 51. - Oliver ***
Capitolo 52: *** 52. ***
Capitolo 53: *** 53. - Rachele ***
Capitolo 54: *** 54. - Oliver ***
Capitolo 55: *** 55. ***
Capitolo 56: *** 56. ***
Capitolo 57: *** 57. ***
Capitolo 58: *** 58. - Oliver ***
Capitolo 59: *** 59. - Sofia ***
Capitolo 60: *** 60. - Oliver ***
Capitolo 61: *** Epilogo - Due anni dopo ***



Capitolo 1
*** 1. ***


1.

Autobus numero 3, colonna alla destra dell’autista, quinta fila, sedile accanto al finestrino che, oggi, è rigato dalle gocce di pioggia.
Senza nemmeno porci troppa attenzione, mi vado a sedere in quel posto. E’ sempre stato il mio posto, in fondo. Perché cambiare?
Appoggio la testa al freddo vetro, metto i piedi sul sedile accanto al mio. Tanto è sempre stato vuoto.
Lo zaino lasciato sul pavimento, sotto il sedile, prendo il cellulare dalla tasca e infilo le cuffiette nelle orecchie, facendo partire le canzoni. Sospirando, chiudo gli occhi.
 
Appena accennando la melodia della canzone che ormai sta finendo, riapro gli occhi e mi decido a mettere via il cellulare, temendo che la batteria si possa scaricare.
Decisa a leggere qualche pagina del libro che il professore di letteratura ha assegnato per casa, mi allungo fino a recuperarlo dal fondo dello zaino.
E mi immergo in un mondo diverso dal mio.
 
- Scusa?
Catapultata fuori dalle parole del libro in un modo fin troppo brusco, alzo lo sguardo in direzione della voce, con un’espressione, ne sono quasi certa, assassina.
Accanto al sedile che uso come appoggio per i piedi, un ragazzo mi guarda. Faccio fatica a mantenere l’espressione che mi ero decisa ad assumere, tanto è bello. Ma non sono quei suoi comunissimi occhi scuri o gli altrettanto noti capelli bruni, a renderlo bello. E’ quel suo semplice, tenero sorriso sghembo che gli illumina il volto a renderlo diverso. A renderlo più bello di qualsiasi altra persona che io abbia mai conosciuto.
- Sì? –chiedo.
Il ragazzo sorride, impacciato. Poi indica il sedile accanto al mio.
- E’ occupato? –domanda.
Rimango zitta per qualche secondo.
- Evidentemente, sì –rispondo, seria.
Il ragazzo, sbigottito, si passa una mano sul collo.
- Ah. Okay. Scusa...-balbetta imbarazzato, deciso a voltarsi ed andare da qualche altra parte.
Lo guarda mentre si allontanava dal suo posto. Oh, accidenti a me...
- Ehi, aspetta –esclamo.
Il ragazzo si volta di scatto, inarcando un sopracciglio.
- Hai fatto la domanda sbagliata –mormoro, restando seria.
Il ragazzo corruga la fronte.
- Cosa? –chiede.
Sospiro, mordendomi un labbro.
- Mi hai chiesto se era occupato, non se potevo spostare i piedi per fartici sedere –borbotto gesticolando con le mani.
Il ragazzo sorride e si avvicina.
- Se la metti così...allora...potresti spostare le gambe dal sedile, per favore?
- D’accordo –annuisco fissandolo negli occhi. Lui mantiene il suo sorriso divertito.
Sposto i piedi dal sedile, riportandoli a terra. Subito dopo lui si siede accanto a me.
- Grazie, davvero gentile –sorride.
Gli lancio un’occhiata, poi riprendo a leggere.
 
- Hai intenzione almeno di dirmi come ti chiami o dovrò tirare ad indovinare?
- Hai intenzione di smettere di interrompermi mentre leggo o devo imbavagliarti?
- D’accordo, tirerò ad indovinare.
- D’accordo, mi toccherà imbavagliarti.
- Sei davvero adorabile, te l’hanno mai detto?
- Sei davvero un rompipalle, te l’hanno mai detto?
Il ragazzo resta zitto per qualche minuto, ed io, sollevata, credo di averlo messo a tacere.
Però poi, siccome mi sbaglio quasi sempre, il ragazzo riprende a parlare.
- Grazia.
- Cosa?
- Ti chiami Grazia?
- Ti sembro una con la faccia da “Grazia”?
- Fosse per questo, non hai nemmeno la faccia da Rachele, eppure...
Alzo lo sguardò in un millisecondo dalle pagine del libro. Il ragazzo mi guarda divertito.
- Come diavolo... –borbotto.
Chiudo il libro di scatto e lo ripongo nello zaino. Mentre chiudo la cerniera, mi accorgo del braccialetto che porto al polso. Quello con i ciondoli. Quello con la targhetta sulla quale è inciso, a caratteri cubitali, il mio nome: RACHELE.
Stringo gli occhi per la frustrazione.
- D’accordo –respiro lentamente mentre mi raddrizzo sul sedile. Lo fisso cercando di decifralo.
- Comunque io sono Oliver. Oliver Dawn. Piacere di conoscerti –sorride.
- Piacere tutto mio. Dico sul serio.
- Oh, certo. Mi chiedo come facciano i tuoi amici a capire quando sei sarcastica, Rachele.
- Io sono sempre sarcastica, quando ho a che fare con delle persone fastidiose, impiccione o comunque insopportabili –sorrido falsamente.
Oliver ride.
- Andiamo, non hai la faccia da gallina, è inutile che provi a comportarti come tale.
- Ma cosa interessa, a te? –sbotto. Stavo così bene, senza qualcuno seduto su quel sedile. Perché sono andata a complicarmi così la vita?
- Scusa. Era per fare conversazione.
Mi volto verso il finestrino appannato, giocando ad indovinare quale sarà la prossima goccia a cadere giù.
- Sei nuovo, di qui? –chiedo senza distogliere lo sguardo dal vetro freddo.
Forse stupito dall’improvvisa voglia di parlottare come se fossimo vecchi amici, Oliver impiega qualche secondo a rispondere.
- Be’, sì, in un certo senso.
- In un certo senso? –ripeto con un abbozzo di sorriso sul volto.
Oliver si stringe nelle spalle. Non ha voglia di parlarne.
- E’ una lunga storia...e dubito che tu abbia voglia di ascoltarla –sorride, sfoggiando quel suo accecante sorriso verso di me.
Il mio telefono trilla, ricordandomi che l’autobus è arrivato alla mia fermata.
- Guarda che peccato, devo proprio scendere qui! –sospiro.
Oliver ridacchia.
- Ci vediamo domani mattina, Rachele.
Raccatto lo zaino e mi preparo a scendere.
 
- Signorina Nardi?
Faccio scattare lo sguardo verso il professore di letteratura. E’ un uomo giovane. Ha una filosofia di pensiero talmente affascinante da renderlo affascinante a sua volta. Non ha un finto parrucchino come l’insegnante di matematica e nemmeno si innervosisce se solo tossisci come la professoressa di latino. No. Semplicemente ti illustra il suo punto di vista.
E lo fa in modo talmente delicato che per i primi mesi ha spiazzato persino gli studenti più impavidi.
- Si, professore? –deglutisco, in preda al panico. Effettivamente, mi ero persa nei miei pensieri negli ultimi cinque minuti.
- Ci dica. Che piani ha lei, per il futuro? –il professore sorride calorosamente. Vuole semplicemente sapere la mia opinione.
- Piani è un parolone, prof ... –mormoro imbarazzata.
- E come mai?
Il professore non perde il sorriso mentre si siede sulla cattedra.
Mi stringo nelle spalle, arrossendo. Odio parlare di me tanto quanto essere al centro dell’attenzione.
- Non so cosa mangerò domani a pranzo, figuriamoci cosa ne sarà di me!
Qualcuno in prima fila ridacchia.
- Non ha nemmeno un’idea?
L’insegnante pare incredulo.
Prendo a tormentare il braccialetto di fili intrecciati che mi ha regalato mia madre quest’estate.
- So cosa mi piace fare. Mi piacciono i libri, adoro la musica... –borbotto.
- Ha mai pensato al giornalismo?
Resto zitta. Effettivamente, no.
Il professore sorride, come se mi avesse letto nel pensiero.
La campanella decreta la fine di un’altra lunga giornata.
- Oh, grazie a Dio! –sospira Arianna, comparendomi accanto.
Mi volto a guardarla. E’ appena finita una giornata scolastica di nove ore, e lei riesce ad apparire fantastica come alla mattina. Non v’è un ricciolo dorato fuori posto. Gli occhi sono vivaci e vispi, la bocca distesa in un sorriso luminoso.
In confronto, io devo sembrare un foglio accartocciato, con i capelli raccolti in uno chignon fermato da una matita, l’espressione stanca, gli occhi verdi vivi solo grazie al professore di letteratura che ha appena provveduto, seppur involontariamente, a farmi passare qualche secondo d’imbarazzo.
Riponendo i libri nello zaino, sento il brusio di sottofondo della voce di Arianna che parla rapida.
- Hai capito, Ele? –sorride raggiante.
Tossicchio infilando il giubbotto.
- Ele? –mi chiama.
- No, non ho capito. –sorrido imbarazzata.
Arianna sospira paziente mentre usciamo dalla classe.
- Te lo spiego dopo...
 
Passeggiando tra gli scaffali, ascolto con un orecchio il lettore mp3 e con l’altro la mia amica che, ne sono sicura, mi sta saltellando dietro maledicendo i libri, gli scrittori e probabilmente anche i poeti e i dizionari.
Prendo un libro da una mensola e do una scorsa alla copertina. Interessata, prendo dallo zaino un quadernino verde ed aggiungo il titolo del libro alla lunga lista.
- Ehi, Rachele! Possiamo andare, ora? –sento cinguettare Arianna che, stufa di aspettare, mi supera e mi si piazza davanti, costringendomi ad alzare gli occhi dal libro.
- Cosa hai detto, scusa?
La ragazza sbuffa e chiude il libro nelle mie mani con un botto.
- Hai finito il tuo ottantunesimo tour in questa vecchia biblioteca, oppure devo sopportare un’amica zombie per altre sette ore?
Sorrido e ripongo il libro nella libreria lì accanto.
- A dire il vero, mi manca ancora l’ultimo piano. –scherzo.
La biblioteca è talmente grande e bella da mandarmi letteralmente fuori di testa. E’ un insieme di piani e piani di scaffali e librerie che si affacciano tutti sul piano terra. I corridoi, stretti, sono talmente tanti da perdercisi dentro. Completamente fatta di legno scricchiolante, amo passarci i pomeriggi a fare i compiti, a studiare o semplicemente a leggere.
- Non capisco perché passi tanto tempo qui dentro, se poi non prendi in prestito nemmeno un libro. –mormora Arianna facendo strada verso l’uscita.
- Te l’ho già detto, detesto prendere in prestito i libri. Semplicemente mi segno i titoli di quelli che mi interessano e poi li compro...
Mi perdo in una spiegazione che ho già dato ad Arianna più volte, ma lei non sembra ascoltare. Chissà se l’ha mai ascoltata tutta per intero, questa spiegazione.
L’impiegata dietro il bancone già si prepara a chiudere, mentre le luci vengono spente.
Arianna mi prende sotto braccio ed insieme usciamo dalla biblioteca nella fredda sera.
- Quindi, ora che sono sicura di avere la tua attenzione... –saltella Arianna eccitata mentre camminiamo verso la fermata degli autobus –Devo chiederti una cosa.
Sorrido portando una ciocca di capelli sfuggita dallo chignon improvvisato dietro l’orecchio.
- Come sono ben sicura che ti ricordi –inizia lentamente –sabato è il mio compleanno...
- Sul serio? –chiedo fingendomi stupita. Ma l’occhiata esasperata di Arianna, stanca dei miei tentativi di essere divertente, mi fa crollare in una risata, che evapora nel cielo scuro in uno sbuffo gelido.
- Come stavo dicendo, sabato è il mio compleanno...e mia madre mi ha permesso di dare una piccola festa...-il sorriso raggiante di Arianna è come un lampione di quelli che contornano la strada.
- Strano. –borbotto stringendomi nel cappotto. La madre di Arianna è sempre stata una donna simpatica e vitale proprio come la figlia, ma mentre la ragazza adora le feste, ama stare in compagnia, non vede mai l’ora di uscire con gli amici, sua madre non le ha mai dato il permesso di andare a feste organizzate da gente che non le va a genio e tanto meno di organizzarne una.
- Sì, lo so. Ma non ho fatto domande. Altrimenti avrebbe potuto ripensarci. –l’espressione al settimo cielo di Arianna è impagabile.
Ridacchio.
- Cosa devi chiedermi, Ari?
- Oh, non è una domanda. E’ il regalo di compleanno che devi farmi. Senza obiezioni. –sospira tranquillamente. Mi fermo nel bel mezzo della strada ciottolata, fissandola.
- Mi devo preoccupare, per caso? –borbotto.
- Nah. O forse sì, un pochino. Ma non credo. –risponde fermandosi a sua volta e prendendo a gesticolare con le mani. Resta in silenzio qualche secondo, giusto per creare l’enfasi necessaria.
- Voglio che tu venga alla mia festa. Ma non che mi aiuti ad organizzarla. Voglio che sia una sorpresa. Voglio stupirti. –il sorriso di Arianna sembra quello di una bambina che ha appena convinto la madre a comprarle un gelato.
- Sicuro. –esclamo subito –Cioè, voglio dire...per quanto preferirei una serata dove io e te stiamo da sole sul divano a guardare un film, so che per te questo è importante e perciò verrò alla festa. Sono la tua migliore amica, Arianna. E’ scontato.
La ragazza davanti a me per poco non scoppia a piangere.
- Oh, grazie, Rachele! –miagola abbracciandomi.
Ricambio la stretta carezzandole la schiena.
Quando mi lascia andare, si passa gli indici sotto gli occhi, raggiante.
- Bene. E ora parliamo del ragazzo che hai incontrato stamattina –esordisce prendendomi a braccetto.
La fisso sconcertata.
- E tu come fai a sapere... –inizio in un balbettio.
Arianna scoppia in una risata.
- Oh, be’, si vede, cara mia. Di solito sia quando ti vedo alla mattina che quando ti lascio la sera hai gli occhi stanchi e spenti, ma oggi hanno brillato tutto il giorno. Ne avevo solo il sospetto, ma tu me l’hai confermato proprio ora. Allora, come si chiama il fortunato?
- Oliver. –rispondo senza nemmeno accorgermene. Quando me ne rendo conto, scuoto la testa con violenza.
- Voglio dire... –mi correggo velocemente – Non ho incontrato nessuno di particolare. Non che mi faccia illuminare gli occhi nel modo che hai detto tu, per lo meno.
Arianna continua a ridere mentre raggiungiamo la fermata dell’autobus dove una corriera è pronta per partire.
- Certo, certo.
- Insomma, si è seduto vicino a me in corriera, tutto qui. Ha indovinato il mio nome grazie al bellissimo bracciale che mi hai regalato e non ha chiuso bocca durante tutto il viaggio. –sbotto salendo sull’autobus che mi riporterà a casa.
- Ti comporti sempre nello stesso modo quando parliamo di ragazzi, Ele. –ridacchia Arianna restando sul marciapiede.
Sul secondo gradino del mezzo, mi blocco e mi volto verso di lei, sistemando meglio lo zaino sulla spalla sinistra.
- Non è importante, sul serio. –sospiro.
Lei alza gli occhi al cielo, poi mi guarda sorridendo.
- Ci vediamo domani. –ridacchia.
- A domani. –la saluto mentre le porte dell’autobus si chiudono alle mia spalle.
Autobus numero 3, colonna alla destra dell’autista, terza fila, sedile accanto al finestrino dal quale vedo, sempre più in lontananza, la figura di Arianna che mi saluta.
 
- Sono tornata! –urlo chiudendomi la porta alle spalle.
Appoggio a terra lo zaino ed appendo il cappotto all’appendiabiti fissato alla parete.
Il calore del camino acceso in salotto mi raggiunge, coccolandomi.
Supero l’ingresso e, passando per il soggiorno, sento mia madre salutarmi dalla cucina.
- Ciao, tesoro! –esclama. La raggiungo.
Sta preparando la cena, sommersa tra pentole, scodelle sporche e farina.
Mi appoggio al frigorifero dopo averne tirato fuori una bottiglietta d’acqua fresca.
- C’è l’acqua del rubinetto, Rachele... –borbotta passandomi accanto, baciandomi sulla guancia e procedendo rapida verso il forno.
- Allora, com’è andata? –mi chiede infornando Dio solo sa cosa.
- Al solito. Lucas?
Mia madre tossicchia mentre gira, forse per la terza volta, attorno al tavolo.
- E’ in camera sua. Doveva finire i compiti. –borbotta –O almeno è quello che ha detto. Non mi sorprenderei di trovarlo davanti al computer...
Sorrido.
- Senti, mamma... –inizio –Sabato è il compleanno di Ari.
- Sì, lo so bene. –risponde lei lavando una ciotola.
- E sua madre le ha dato il permesso di dare una festa.
- Cosa? Teresa le ha dato il permesso di dare una festa? –chiede stupita voltandosi a guardarmi.
- A quanto pare... –ridacchio –Comunque Arianna mi ha supplicato di andarci, per poco non si metteva a piangere. E’ molto contenta. Non vede l’ora di mettersi ad organizzare tutto.
- Sabato sera, hai detto?
Annuisco.
-Posso andarci?
Mia madre resta zitta qualche istante.
- Be’, si, non c’è problema. Mi fido di Teresa. –mi sorride benevola.
- Grazie, allora. –ricambio il sorriso - Ti serve una mano?
Si pulisce le mani sul grembiule, lanciando un’occhiata all’orologio appeso al muro.
- No, vai pure a farti una doccia, che poi ceniamo. E passa a controllare Lucas, per favore. –sorride fermando i capelli ramati con una pinza.
- Sarà fatto. –esclamo uscendo dalla cucina.
Salendo le scale, mi chiedo se sia il caso di entrare nella camera di un bambino di dieci anni, sicuro di poter fare quello che vuole perché la madre è occupata in cucina. Chissà come potrei trovarlo.
Passando per il corridoio mi blocco davanti alla sua porta. Busso un paio di volte.
- Lucas? –lo chiamo –Sto per entrare. Ti ricordo che dovrei trovarti seduto alla scrivania a fare i compiti.
Quando apro la porta, mio fratello è seduto alla scrivania, intento a scrivere.
- Ciao, Ele. –sorride.
Mi avvicino al tavolo e lancio un’occhiata al libro che ha sottomano. E’ sottosopra.
Ridacchiando, lo prendo e lo capovolgo.
- Non sapevo riuscissi a leggere i libri al contrario. Mi stupisci ogni volta di più, dico sul serio.
Lucas mi lancia un’occhiata supplichevole.
- Non dirlo a mamma. Per favore. –sussurra.
- Basta che riesci a farli tutti entro domani. Oppure la maestra se ne accorge e finiamo in punizione in due. D’accordo?
Gli carezzo la testa, per poi uscire dalla stanza.
- Grazie! –lo sento urlare prima che chiuda la porta.
Sorridendo, raggiungo la mia stanza.

ANGOLO AUTRICE:
Salve gente!
Se state leggendo queste righe, allora non posso che ringraziarvi! Avevo pubblicato questo primo capitolo come One Shot, ed ora ecco qui la storia bella e fatta! Che ve ne pare?
Mi piacerebbe tantissimo sapere il vostro parere, sopratutto le critiche costruttive: ogni appunto è ben accetto.
Grazie!
emmegili

P.S. La storia è presente anche su Wattpad: 
https://www.wattpad.com/story/76525625-autobus-n-%C2%B0-3-la-storia-del-poeta-e-della

 

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Capitolo 2
*** 2. ***


2.        
 
Non so cosa mi spinga a tenere i piedi a terra e non sul sedile, dove sono sempre stati.
Non so nemmeno cosa mi abbia spinto a dimenticare il lettore mp3 a casa, così che ora sono seduta su un sedile dell’autobus passando il tempo a fantasticare sulla vita delle persone che mi circondano.
Quella donna seduta in ultima fila, ad esempio. La maggior parte degli altri posti è occupata da studenti pronti ad arrivare a scuola, ma lei ha superato da parecchio l’età scolastica.
Legge il quotidiano uscito da appena qualche ora. Ha i capelli rossi lunghi, e non porta la fede al dito.
Magari deve andare a trovare qualcuno in ospedale. Chissà, forse la sorella che ha appena partorito.
E magari è una bambina. E si chiama Anna. E attorno al suo lettino ci sono il padre, raggiante di gioia, la madre, fuori di sé dalla contentezza, e un fratello maggiore, che ha appena imparato a contare fino a dieci e che avrebbe preferito un maschietto. E sono felici. E la donna qui presente spera che la corsa non finisca mai perché, mentre la sorella ha una famiglia felice, lei è sola ed abbandonata a sé stessa.
- Persa nei tuoi pensieri? –una voce mi riscuote. Sbattendo le palpebre, mi volto verso il sedile accanto al mio.
Oliver e il suo sorriso sghembo.
Gli sorrido. O almeno credo di farlo.
- Come mai non hai appoggiato i piedi sul sedile? –chiede accomodandosi.
Mi stringo nelle spalle.
- Non lo so, esattamente. –mormoro.
- Vediamo...facciamo qualche ipotesi?
- No, non serve, ma grazie per l’impegno.
- Mm...ti senti sola? Hai finalmente realizzato che sulla corriera si può anche socializzare con gli altri? –ride fingendosi pensoso.
- Così vuoi socializzare, eh? –sbuffo –Va bene, socializziamo, Dawn! Mi spieghi perché il tuo nome e il tuo cognome sono tutt’altro che italiani, nonostante siamo in Italia?
Oliver si sistema sul sedile, trattenendo un sorriso.
- Scommetto che ci hai pensato tutta la notte. Sicura di voler sentire questa storia, Rachele?
Guardo fuori dal finestrino.
- Tanto ho dimenticato a casa le cuffiette... –borbotto.
- Bene. C’era una volta una ragazza italiana di nome Luisa. Era giovane e bellissima. Il suo sogno era viaggiare, viaggiare per il mondo intero! Voleva vedere l’Australia, l’America, il Canada, la Norvegia, l’Inghilterra, l’India, la Germania, la Francia, la Spagna...
- Okay, Verne, stringi. Non serve che mi fai fare il giro del mondo in ottanta giorni. –lo blocco. Oliver mi guarda sorridendo. Quei suoi occhi marroni brillano.
- Come stavo dicendo prima che mi fermassi per citare uno dei libri più celebri della storia, oserei dire, mondiale, Luisa amava il mondo. Quando compì ventuno anni, il padre le regalò un viaggio. “Scegli una meta, e vacci”, le disse. Luisa scelse il Canada. A dire il vero, fu il destino, a scegliere per lei. Prese un mappamondo e lo fece girare, poi, all’improvviso, ci puntò un dito sopra, bloccandolo. Il suo dito era finito sopra il Canada. In Canada conobbe un certo John, un giovane avvocato che voleva andare lontano. Si innamorarono. Quell’amore incondizionato formato dalla giusta ed equa mescolanza tra affetto, attrazione, empatia e dipendenza.
Quell’amore che li portò, cinque anni dopo, a sposarsi. Nel frattempo Luisa era tornata in Italia cinque volte. La prima da sola, per poter parlare ai suoi genitori. Aveva intenzione di rimanere in Canada. Lei e John si amavano, disse loro. Lei aveva già trovato qualche lavoro che potesse fare per lei e il posto le piaceva tantissimo. Fu un duro colpo, per i suoi. Però quando poi tornò in Italia con John, tutto divenne più semplice. Era un bravo ragazzo, con la testa sulle spalle. Luisa sarebbe stata bene.
E così fu. La ragazza riuscì a trovare un lavoro come redattrice di una rivista locale e, grazie al sempre più fruttuoso lavoro di John, si trasferirono in una bellissima casa.
E poi arrivò il loro primo figlio. Era la loro gioia più grande. Luisa prese a parlargli in italiano, per preservare la sua lingua madre. Così il bimbo cresceva, parlava l’inglese e l’italiano in modo impeccabile, si definiva sempre meglio la sua personalità. Pochi mesi dopo aver compiuto due anni, nacque sua sorella, Allison, ma semplicemente soprannominata Allie.
E mentre i loro figli crescevano, Luisa e John invecchiavano. Il loro figlio maggiore decise di voler cambiare aria. Perché non l’Italia? si disse. In fondo sua madre gli aveva insegnato la lingua fin da piccolo. E poi la sorella di Luisa, Sofia, era rimasta nel Paese. Era ancora viva. E sola. E lo avrebbe ospitato molto, molto volentieri. Avrebbe potuto frequentare una delle scuole locali, in Italia ce n’erano di così tante! Solo per un po’. Poi sarebbe tornato in America. Ed eccolo qui, seduto accanto a te in un autobus italiano a parlare della storia della sua famiglia. –racconta.
Lo guardo di lato, con un mezzo sorriso sul volto.
- Spiegato il mistero. –mormoro –Sei bravo a raccontare le storie.
Oliver Dawn sorride assieme ai suoi occhi.
- E tu? Da dove salti fuori? –chiede fissando davanti a sé.
Sospiro.
- Non voglio parlarne.
La mia risposta pare lasciarlo un po’ perplesso, ma non si volta a guardarmi. Semplicemente annuisce.
- Non è una storia felice come la mia, vero? –sorride amaramente.
- Ho detto che non voglio parlarne. –ribatto.
- D’accordo. Scusa. –alza le mani in segno di resa.
Il silenzio cala su di noi e, nonostante attorno a noi ci sia un brusio sommesso, risulta imbarazzante.
Schiarendomi la gola torno a guardare in direzione della signora di prima, quella con i capelli rossi.
Si sta alzando. L’autobus si è appena fermato. Dovrà scendere a questa fermata. Ripone il giornale nella borsa e, stringendosi nel piumino blu, raggiunge il corridoio.
Forse sono stata melodrammatica. Forse non sta andando in ospedale, a festeggiare un evento felice che la fa sentire solo più triste. Magari è contenta, anche se non lo dà a vedere. Oppure è veramente triste, ma non perché è nata la nipote. E’ triste perché il cognato si è trovato davanti alla scelta “o la madre o il bambino”. E probabilmente, magari dopo aver parlato con la moglie quando stava bene, quando ne parlava solo nell’eventualità ma senza mai pensarci davvero, ha scoperto che la donna voleva che salvasse il bambino. Lui ha ribattuto. Ha detto che avrebbero potuto avere un altro bambino, che invece lei sarebbe scomparsa, sparita, defunta. Per sempre. Non ci sarebbe mai più stata. E lei ha tranquillamente replicato che lo stesso valeva per il bambino, che non valeva di meno solamente perché non aveva ancora imparato ad amarlo. E che, mentre lei aveva vissuto già trent’anni della sua vita, quella del figlio non era nemmeno cominciata. Che era giusto così.
- Hai mai pensato di fare la scrittrice, Rachele? –chiede all’improvviso Oliver guardandomi con gli occhi socchiusi.
Sobbalzando per la sorpresa, distolgo lo sguardo dalla signora che sta uscendo dalla corriera e lo rivolgo al volto curioso di Oliver.
- Cosa? E perché mai? –domando.
- So cosa stavi facendo. Stavi fantasticando sulla vita di quella donna. Non è vero?
Lo fisso respirando lentamente. E’ una di quelle domande alle quali non sai cosa rispondere. La verità? O è più conveniente mentire?
- Può darsi –mormoro.
Lui sorride compiaciuto.
- Lo si vedeva dal tuo sguardo. E penso che dovresti provare a scrivere quello che ti inventi. Eri talmente assorta che potrebbe venirne fuori qualcosa di grande.
Scoppio a ridere.
- Perché ridi? –mi chiede sorridendo, coinvolto dalla mia risata.
- Sei buffo, Oliver Dawn. –rido – Figurati se...bah!
- Raccontami quello che ti sei immaginata sulla donna dai capelli rossi, coraggio! –mi sprona fin troppo convinto.
Mi fermo per un secondo, smetto di ridere. Fissandolo, la bocca mi si distende in un sorriso.
- Non sto scherzando! Dai! –mi incita sorridendo ancora stupito che sia scoppiata a ridere.
Rimango in silenzio.
- D’accordo –accetto.
Mi sistemo meglio sul sedile. Lancio ad Oliver un’occhiata dubbiosa, ma lui annuisce deciso.
Prendendo un sospiro, prendo a parlare.
- E’ palesemente triste. Non legge il giornale, lo guarda. Non ha mai voltato pagina. Il che significa che sta pensando a qualcosa. Qualcosa di triste, perché se fosse felice avrebbe un sorriso dipinto sul volto. Quindi la donna è triste.
- Diamole un nome –suggerisce Oliver.
- Okay, chiamiamola Maria.
- Maria è triste –annuisce il ragazzo.
- Dobbiamo anche considerare il fatto che è su un autobus alle ore sette e un quarto della mattina, il che è inusuale. Inoltre è il primo giorno che la vedo, per cui dubito stia andando a lavorare. E’ appena scesa alla fermata dell’ospedale, quindi i sospetti che avevo sono reali. Sta andando in ospedale. Ci resta solo una domanda: perché?
Oliver annuisce.
- Quindi ci ho pensato su. E sono arrivata alla conclusione, dopo tante diverse versioni, che sua sorella ha partorito questa notte, ma che non l’ha superata. Che il cognato ha dovuto scegliere tra lei e il bambino, e ha scelto il bambino. Che lui è distrutto. Che ha anche un altro figlio di due anni. Che è disperato. Che non sa cosa fare. E quindi lei sta andando ad aiutarlo. –concludo.
Oliver ridacchia.
- Vedi, è di questo che sto parlando. –sorride –La conosco. E’ semplicemente un’infermiera alla quale hanno cambiato turno qualche giorno fa. Ed è di pessimo umore perché ora si deve svegliare presto per andare a lavorare. E’ un’amica di mia zia.
- Non...non capisco –borbotto guardandolo con gli occhi chiusi.
- A te piace inventare le cose sulle persone, vuoi spaziare con la fantasia. Chiunque altro si sarebbe limitato a guardarsi attorno. Tu invece ti sei messa ad inventarti una storia per una donna. E’ bello.  Oliver sorride ancora.
- Non è vero. Un sacco di gente lo fa.
- Tutta la gente che ama scrivere, se è annoiata, lo fa. –puntualizza.
- Non puoi saperlo! –obietto.
- Nemmeno tu.
Sospiro.
- Il nostro è un rapporto conflittuale, immagino. –mormoro.
- Perché, abbiamo un rapporto?
Ora il sorriso di Oliver è divertito, di chi la sa lunga.
Apro la bocca più volte, per poi richiuderla.
- No, certo che no –esclamo poi – insomma, ti conosco da due giorni!
- Sei stata tu a dirlo.
- Sì, okay, ma intendevo che sarà un rapporto conflittuale. –borbotto – Dato che tu hai intenzione di sederti qui ogni mattina.
- Ah-ah. –annuisce.
Il silenzio cala su di noi un’altra volta. Grazie al cielo, arriviamo alla mia fermata. Scatto in piedi.
- Ecco, io devo scendere! –esclamo allontanandomi dal sedile.
- Certo. –Oliver sorride. Ed ora, che sono già in una situazione imbarazzante, il suo sorriso appare più attraente del solito.
- Si...ehm...ci vediamo lunedì, allora. –mormoro passandomi una mano tra i capelli –Dato che è venerdì.
- Sì, va bene. Ci vediamo. –sorride guardandomi mentre me ne vado.
 
- Allora, l’hai incontrato anche stamattina? –chiede allegra Arianna saltellando. Ha preparato quasi tutto per la sua festa di domani, le mancano solo un paio di particolari.
- Chi, Ari? –sospiro camminando verso la scuola di sua sorella.
- Omar. O come l’hai chiamato. Oscar?
- Sì, era proprio Oscar. –rido salendo gli scalini di pietra bianca.
Siamo venute qui dopo scuola perché Rita, la sorella di Arianna, frequenta questo liceo scientifico da quattro anni e le ha suggerito di chiamare, per la festa, un ragazzo che frequenti questa scuola a suonare. Gliene vuole presentare tre o quattro, poi lei sceglierà. Rita ha detto che sono i migliori, alcuni di loro sono davvero fenomenali con la chitarra. Arianna mi ha permesso solo di accompagnarla all’entrata. Dovrò aspettare fuori. Vuole lasciarmi la sorpresa.
- Bene. Ci vediamo dopo. –sorride varcando l’entrata.
- Certo.
Mi siedo sui gradini dell’entrata, il mento sulle ginocchia.
Chiudo gli occhi e sospiro, massaggiandomi le tempie.
Sento la porta dietro di me aprirsi.
- Oh, grazie a Dio!
Rita si siede accanto a me, sigaretta in bocca.
I capelli corvini, lunghi, sono lisci e flessuosi. Ha l’aria stanca.
- Ele. –saluta con uno sbuffo di fumo.
- Ciao Rita –mugugno, con un’improvvisa fitta di mal di testa.
Rita stende le gambe, poi si passa le mani tra i capelli.
- Ti ha lasciato qui fuori, vedo. –constata con la sigaretta tra le dita.
- Vuole mantenere la sorpresa. –spiego lentamente.
- Oh, sì, lo so. Mi chiedo solo perché tu stia qui ad aspettarla.
Volto la testa verso di lei, che continua a guardare avanti. E’ sempre stata invidiosa dell’amicizia tra me e Arianna. Fin da quando eravamo piccole. Ha solo due anni più di me e sua sorella, ma ne dimostra venti in più. E’ una ragazza lunatica. Quando ci ha parlato dei ragazzi con cui ora molto probabilmente Arianna sta parlando era solare, contenta. Ora è tornata una persona triste e stanca, stufa della vita.
- Semplicemente ho perso la corriera. –racconto –Devo aspettare la prossima.
- La prossima passa tra mezz’ora, Rachele. –obietta prendendo il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans.
- Lo so, Rita. –rispondo scandendo le parole.
Lei continua a fissare lo schermo del cellulare, spirando ogni tanto dalla sigaretta.
Un sorriso le guizza sul volto.
- Di che anno sono i ragazzi delle “audizioni”? –chiedo ignorando il suo comportamento.
- Oh, sono tutti in Quinta, come me. –mormora distratta.
- Diciannovenni amanti della musica? –sorrido.
- No, diciannovenni che vogliono venire alla festa solo per vedere casa mia. –commenta sarcastica – Ovvio, che amano la musica.
Prendo un profondo respiro, chiudendo gli occhi. Non è il caso di litigare con Rita, Rachele. Non è proprio il caso di farlo.
- Senti, avvisi tu Arianna che sono dovuta scappare alla fermata? –chiedo.
Lei mi guarda inarcando un sopracciglio, ma poi annuisce.
- Okay.
Mi alzo dai gradini di pietra, posando su una spalla lo zaino.
Infilo i pollici nelle tasche dei jeans.
- E... Rita? –la chiamo senza voltarmi verso di lei.
- Sì?
- Grazie.
 
- Cosa?
Mia madre lo ripete forse per la quarta volta, appoggiandosi al tavolo della cucina. Mi immobilizzo nel bel mezzo della cucina, con la bottiglia del latte ancora in mano.
Appoggiato alla porta della cucina, Lucas sembra non capire.
- Possiamo incontrarci con papà, questo fine settimana? –chiede di nuovo, lentamente.
- E perché mai, Lucas? –domanda mia madre, bianca in volto.
- La maestra ci ha assegnato un tema per casa su nostro padre per lunedì ed io...ecco...non me lo ricordo.
Lucas arrossisce violentemente.
- Tuo padre vive in America, Lucas, lo sai bene. –ricorda la donna, cercando di convincersi che il bambino, magari, soffra di amnesie temporanee.
- Sì lo so...però...
La voce di mio fratello muore sospesa nell’aria.
- In effetti sono dieci anni che non lo vediamo... –intervengo io.
Gli occhi di mia madre scattano su di me.
Mi stringo nelle spalle.
- E’ sempre nostro padre, mamma.
- La sai bene, la storia, Rachele... –sottolinea cercando di non farsi prendere da una crisi di nervi.
Annuisco.
Quando nacque Lucas, mio padre dovette partire per la Florida, per motivi di lavoro. Disse che era meglio che lo aspettassimo qui in Italia. Seguirlo sarebbe stato solo svantaggioso.
Tornò dopo due anni, come da contratto. Però aveva trovato un’altra donna, che era incinta di suo figlio. Gli dispiaceva, ma non poteva lasciarla.
Così ora che il suo lavoro ha dato i suoi frutti è un milionario che fa la bella vita in America, con una donna la metà dei suoi anni e un figlio dell’età di Lucas.
E noi tre, qui, da soli.
Mia madre non gliel’ha mai perdonato. Nemmeno io l’avrei fatto, fossi stata in lei. Ma in quanto figlia? L’ho perdonato? No, certo che no. Però sento la sua mancanza ancora oggi. Non la mancanza della sua persona, quanto del suo personaggio. Mi manca una figura paterna, non mio padre.
- Sul serio voi due volete rivedere l’uomo che vi ha abbandonati? –sputa, sull’ultima parola, tutto l’odio che ha in corpo.
- Potremmo andare a trovarlo. Ele ha sempre voluto vedere l’America –suggerisce Lucas.
- Tua sorella ha sempre voluto vedere qualunque Paese, Lucas. –ribatte mamma.
Restiamo in silenzio.
- Certo, andiamo in America! –sbotta dopo un po’ – Stiamo una settimana nell’enorme attico con vostro padre, sua moglie, che ha qualche anno in più di Rachele, e il loro figlioletto viziato! Certo! Come ho potuto non pensarci prima?
Rossa in volto, mamma mette fine alla discussione uscendo dalla cucina.
Lucas sembra dispiaciuto.
Gli passo accanto e gli carezzo i capelli.
- Ti aiuto io con il tema, Lu. Dai, andiamo. –gli sorrido.
 
- Mamma non mi ha mai detto di avere tutte queste foto –sussurra Lucas guardando sbalordito il baule impolverato davanti a noi.
La luce del sole del pomeriggio entra filtrata dalla finestrella sporca della soffitta.
Mi siedo con le gambe incrociate sul pavimento scricchiolante, facendo segno a Lucas di fare lo stesso.
Prendo il primo album di fotografie e lo apro.
- Chi sono questi due? –scatta il bambino indicando la coppia nella prima fotografia.
La ragazza porta i capelli raccolti, il sorriso smagliante. Indossa un vestitino a fiori e ha una rosa rossa in mano. Anche lui sorride sereno, stringendola a sé. Sullo sfondo c’è una collina in fiore, in primavera.
- Questa è la mamma. –rispondo posando il dito sulla ragazza –E questo qui è papà.
- Come si chiama papà, Rachele?
- Enrico. Enrico Nardi.
- Te lo ricordi?
Sorrido e gli carezzo la nuca.
- Solo qualche lampo.
Gli occhi di Lucas brillano.
- Racconta. –supplica.
Guardo le particelle di polvere danzare nel raggio di luce poco più in là.
- Una volta siamo andati al Luna Park. La mamma era incinta, non eri ancora nato. Volevo andare sulle montagne russe. Tutti i miei amici ci erano stati ed io non volevo essere da meno. La mamma non poteva salire, perché era incinta. E non voleva nemmeno che ci salissi io. Troppo pericoloso, diceva. Allora papà mi ha preso per mano e siamo andati insieme sulle montagne russe per bambini, ma non me ne sono mai accorta. Credevo fossero quelle alte. E ho avuto tanta paura, Lu. Ma papà mi ha stretto la mano tutto il tempo. Così poi sono tornata a scuola e ho raccontato a tutti di essere andata sulle montagne russe per i grandi, quando invece non era vero. –ridacchio.
Lucas sorride, ma poi si spegne.
- Se ne è andato per colpa mia? –chiede.
- No, certo che no! –esclamo abbracciandolo –Cosa ti salta in mente?
Lucas inizia a piangere, singhiozza. E, per un attimo, provo un odio omicida verso mio padre.
- Tranquillo, tesoro, tranquillo... –sussurro cullandolo.
Poco dopo si asciuga le guance con le maniche della felpa.
- Dici che posso usare il tuo ricordo su di me, per il tema? –chiede.
- Certo –sorrido –Vuoi vedere qualche altra fotografia?
Lucas annuisce e io giro pagina.

 
 
 ANGOLO AUTRICE:

Okay, eccomi qui di nuovo!
Ho pensato di pubblicare subit il secondo capitolo, dato che il primo era già presente in One Shot.
Abbiamo fatto un tuffo nel passato dei due protagonisti, quello rose e fiori di Oliver e quello più burrascoso di Rachele. Che ve ne pare? Sono credibili? Vi piacciono?
Ricordo che la storia è presente anche su Wattpad: 
https://www.wattpad.com/story/76525625-autobus-n-%C2%B0-3-la-storia-del-poeta-e-della
 
 ♦Ringrazio tutti coloro che leggono questa storia, la recensiscono o che l'hanno inserita tra le seguite/preferite/ricordate!♦

Un bacio,
emmegili

 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** 3. ***


3.
 
- Riesci a portarmi uno scatolone di coriandoli? –chiede Arianna dall’altro capo del telefono.
- E dove vado a prenderteli? –esclamo tenendo il cellulare tra la spalla e la guancia.
- Oh, li ho già comprati, solo che non riesco a passare a ritirarli!
- Questo cambia un po’ le cose, Ari. –sospiro frugando nell’armadio.
- Sì, scusa, mi ero scordata di dirtelo. Non devi andare a comprarli, devi solo andare a ritirarli. –la sua voce trema di emozione.
- Sei eccitata? –le chiedo sorridendo.
- Non immagini quanto! I coriandoli sono al negozio di maschere in centro...com’è che si chiama?
- Mm...non ricordo. Quello dove lavora tua sorella? –chiedo, all’improvviso ricordandomene.
- Sì, quello. Ma Rita oggi ha preso ferie. E’ di buon umore.
- Ah, okay. A dopo, allora. –sorrido.
- A dopo. E... Ele?
- Sì?
- Puoi metterti la gonna nera che ti ho regalato quest’estate? Per favore?
Sbuffo.
- Ari...
- Dai, è il mio compleanno! Compio diciassette anni! Diciassette! Ti prego!
Sospiro, rimettendo nel guardaroba i vestiti che avevo scelto per la festa.
- D’accordo. Ma mi devi un favore. –acconsento infilandomi la gonna nera in questione.
- Ha preferenze anche sulla maglietta, signorina? –chiedo.
Arianna ride.
- No, non credo. Grazie. Ti voglio bene!
Chiudo la telefonata. Passo le mani sulla gonna, che arriva giusto sopra il ginocchio. Faccio una giravolta e si solleva un pochino.
Prendo un maglione rosso porpora dall’armadio, lo indosso, infilo gli stivaletti neri saltellando giù per le scale e, prendendo la giacca, bacio Lucas sulla testa che, seduto sul divano, guarda la televisione.
- Mamma è in cucina? –gli chiedo. Lui annuisce.
Corro in cucina agganciando la catenina d’argento con il ciondolo al collo.
- Mamma, io vado! Devo passare in centro a ritirare i coriandoli per Arianna...torno tardi! –la saluto abbracciandola.
- Ciao, tesoro, divertiti!
 
Lo scatolone di Arianna è talmente grande che, se lo porto in braccio, non vedo dove vado. Per lo meno, non pesa.
Suono il campanello di casa della mia amica con il gomito.
Ad aprirmi è una bellissima Rita. Talmente bella –e stranamente sorridente- da farmi restare a bocca spalancata.
- Wow, Rita! –esclamo sorridendo.
Lei ricambia.
Il tubino nero che la avvolge mette in risalto il suo fisico, a dir poco, perfetto.
- Grazie –dice facendomi entrare –Anche tu dovresti metterti la gonna più spesso.
Borbotto qualcosa varcando la soglia.
Le luci soffuse e colorate danno alla casa un’aria rilassata. E’ tutto quello che riesco a vedere, grazie allo scatolone.
- Sono i coriandoli? –chiede Rita.
- Già...
- Ah. Aspetta...vado a chiamare Arianna...
- Sì, certo.
Giro su me stessa cercando di capire cosa mi circonda, ma non ci riesco. Tanto vale aspettare.
Dal salotto arriva della musica. Mi concentro per capire chi abbia superato le selezioni di Arianna.
E’ una voce maschile, giovane. E’ una bella voce, non c’è che dire, calda. Canta in inglese. Sorrido. Arianna si è sempre lamentata del fatto che, grazie alla scuola e alla passione che ho, “conosco l’inglese meglio di un inglese stesso”.
E’ un’esibizione voce e chitarra. Semplice, pulita. Eppure, se mi concentro sulle parole, sull’atmosfera, sul suono dello strumento...è semplicemente bellissimo. Arianna ha scelto bene.
- Ehi, Ele!
Sento la voce di Arianna avvicinarsi.
- Ciao, festeggiata... –la saluto– Senti, dove posso appoggiare lo scatolone?
- Oh, vieni!
Sento una sua mano appoggiarsi sul mio braccio. Prende a trascinarmi dietro di sé.
- Hai sentito che bravo il cantante? –mi chiede.
- Sì, è davvero bravo... –concordo entrando in una stanza, anche se non riconosco quale.
Borbotta qualcosa sul fatto che i coriandoli stiano meglio accanto al palco e mi fa ruotare su me stessa, uscendo dalla camera dov’eravamo appena entrate.
- Oh, sì, è bravissimo! –sospira sognante – E poi...devi vederlo...è tremendamente bello!
Ridacchio mentre, rase al muro, attraversiamo il salotto dove un sacco di gente sta ballando.
- Anzi, ora te lo presento... –decide Arianna.
Arriviamo accanto al piccolo palco allestito per l’occasione. Probabilmente ha fatto spostare qualche mobile del soggiorno, per fare spazio a tutte le sue idee.
La sento urlare qualcosa al cantante, ma nella confusione non capisco le parole né sue, né del ragazzo che smette di cantare. Probabilmente ha annunciato una pausa.
Arianna si avvicina al mio orecchio e mi urla di appoggiare lo scatolone nell’angolo.
Senza musica c’è più silenzio, ma la gente continua a parlare creando un brusio fastidioso. Mi volto e appoggio lo scatolone a terra.
Mi rialzo, prendo un respiro e, sfoggiando un sorriso, mi volto verso Arianna, a pochi passi da me.
- Bene... –freme.
Solo allora il mio sguardo si posa sul ragazzo. Non so se per la sorpresa o per lo shock, il sorriso scompare.
Oliver. Oliver che, sorpreso a sua volta, sorride. Quel suo solito sorriso assassino. La luce delle lampade che gli dà una luce nuova, quasi un’aurea divina. Dalla t-shirt nera traspaiono i suoi muscoli che, la mattina, a causa della giacca, non avevo mai notato.
Arianna mi guarda confusa.
- Ele? –sorride imbarazzata –Tutto bene?
Mi avvicino a lei, sino a trovarmi davanti ad Oliver Dawn. Cerco di annuire.
- Bene, allora... –sorride –Rachele Nardi...
- Secondo me è destino –ridacchia il ragazzo.
- Il destino non esiste, Oliver Dawn –sussurro a denti stretti. La mia idea era quella di fingersi estranei, così che Arianna non capisse mai che il ragazzo dell’autobus era così bello e che l’aveva, addirittura, conosciuto.
- Ma...voi due...vi conoscete? –chiede infatti, alquanto scandalizzata.
- Diciamo che usiamo la stessa corriera per andare a scuola –risponde Oliver incrociando le braccia al petto.
- Aspetta un attimo... –mormora Arianna posando il suo sguardo scioccato su di me –tu sei Oscar!
Le tiro una gomitata piuttosto violenta.
Impreca lanciandomi un’occhiataccia.
Lo sguardo che le rivolgo è disperato, e allora sembra capire.
- Ah... –tossicchia.
Oliver, davanti a noi, sorride divertito.
- Ti ha parlato di me? –chiede ad Arianna.
- Certo che no! –avvampo.
- Sì, be’, diciamo che non si è soffermata sui dettagli –il sorriso della mia amica è malizioso, e mi spavento.
Oliver scoppia a ridere.
Lancio un’occhiata omicida ad Arianna, che mi sorride.
- Va bene, vi lascio soli. Devo andare a verificare se quel biondo che mi lancia occhiate da quando è arrivato...
- Okay, Ari, fermati qui! –la tronco prima che possa perdersi nei dettagli.
Lei borbotta qualcosa e se ne va.
Mi copro il volto con le mani.
- E’ simpatica, la tua amica –dice Oliver.
- Non fare battutine, Dawn.
- Non era una battutina...
Lascio cadere le mani lungo i fianchi e mi guardo attorno. Il salotto di casa di Arianna si è trasformato in una pista da ballo.
- Ti va se quando ho finito ti offro qualcosa da bere?
Il sorriso di Oliver è tenero, sincero.
- E’ la casa della mia migliore amica, non devo pagare, per bere qualcosa –obietto.
Il ragazzo ride.
- Mi piaci –afferma.
Avvampo. Non so se arrossisco, ma sento il volto andarmi in fiamme. Spero solo che le luci strane di Arianna lo nascondano.
Tossicchio abbassando lo sguardo.
- Conto su di te per un drink di fine spettacolo, okay? –sorride.
Annuisco.
Ridacchiando, Oliver torna sul palco e, imbracciata la chitarra, riprende a cantare.
 
- Ti eri solo dimenticata di dirmi che è incredibilmente sexy, Ele, tutto qui! –il tono di Arianna, seduta sul divanetto, è più che ironico. Rita, accanto a lei, scoppia a ridere.
- Ma chi, Oliver? –chiede.
- Sì, Rita.
- Oh, smettetela! –sbotto –Lo conosco appena! E non ho intenzione di frequentarlo sotto qualsiasi altro aspetto che non sia quello attuale di conoscente!
Rita e la sorella si guardano, poi scoppiano a ridere. Forse hanno bevuto troppo, perché non smettono più.
- Okay, dopo questa... –Rita si asciuga le lacrime dal ridere alzandosi dal divanetto.
- Dove stai andando? –le chiede Arianna.
- A farmi un giro. Ci si vede, bellocce... –fischia.
- Ma mi devi aiutare a riordinare! –protesta Arianna. Come se fosse quello il problema. Ubriaca com’è, non arriverà al portico.
La festa sta finendo, le persone iniziano ad andarsene. Oliver sta mettendo la chitarra nella custodia.
Mi alzo e fermo Rita.
- Con la sbronza che hai, forse è meglio se ti accompagno a letto... –le poso una mano sulla spalla.
L’ultima coppia sta salutando Arianna, che non si regge nemmeno in piedi.
Così ora il salone è vuoto. Siamo rimaste noi tre ed Oliver.
- Non dire stupidaggini, Rachele! –ride Rita –Me la cavo benissimo!
All’improvviso diventa pallida e si posa una mano sulla bocca. E vomita tutto quella che ha ingurgitato sul pavimento.
Oliver si avvicina.
- Bevuto un po’ troppo? –chiede, la bocca ridotta ad una linea sottile.
- No, no, no! –strilla Rita.
Arianna bofonchia qualcosa, prima di cadere, svenuta, sul divanetto.
- Oh, Santo Cielo! –esclamo esasperata.
- Tranquilla, ti aiuto io...
Oliver mi viene accanto e prende Rita in braccio, con un braccio sotto le sue ginocchia e l’altro attorno alle spalle.
- Vieni, ti faccio strada... –mormoro uscendo dal salone.
- La vuoi portare in bagno? –chiede.
- Mettetemi giù! –strilla Rita –Sono più che lucida!
- Sì, Rita, ti stiamo solo dando un aiutino...
Salendo le scale, la ragazza continua a protestare.
Arrivati al piano di sopra, apro la porta del bagno a Oliver, che, una volta entrato, adagia Rita sul pavimento, accanto alla tazza del water.
Mi passo una mano tra i capelli, frustrata, mentre Rita si allunga per vomitare, ancora una volta, dentro la tazza.
Mi avvicino e le tengo i capelli all’indietro, fermandoli con una pinza recuperata dal cassetto del mobile lì accanto.
- Vado a prendere Arianna, d’accordo? –avvisa Oliver guardando Rita preoccupato.
- Sì, grazie. La sua stanza è alla fine del corridoio.
Il ragazzo esce dal bagno e sento i suoi passi giù per le scale.
Sospirando, mi siedo sul bordo della vasca da bagno.
Rita smette di vomitare e si siede appoggiando la schiena al muro di piastrelle.
Emette un sospiro e chiude gli occhi. Le porgo un fazzoletto umido, con il quale si pulisce la bocca.
- Okay, forse è meglio andare a dormire... –tossisce.
Ridacchio stanca. Sento Oliver attraversare il corridoio.
- Vado ad aiutare Oliver. Tu non ti muovere –la avverto alzandomi. Mi lavo le mani sotto il rubinetto ed esco.
Quando arrivo nella stanza di Arianna, Oliver la sta sdraiando sul letto.
Arraffo la coperta di lana sulla sedia della scrivania e gliela stendo sopra.
- Rita come sta? –chiede Oliver appoggiandosi al muro.
- Ha vomitato anche l’anima, credo –bisbiglio guardando Arianna.
Sospiro e mi volto verso di lui.
- Grazie.
Lui sorride.
- Rachele! –la voce roca di Rita strilla dal bagno.
Corro da lei.
- Sì? –chiedo avvicinandomi.
- Ho lo stomaco sottosopra... –biascica.
- Posso immaginarlo, Rita –sorrido tendendole una mano.
Un volta in piedi, la ragazza si sorregge a me.
- Grazie –mormora.
Oliver mi aiuta a portarla sino alla sua stanza, dove Rita crolla sul letto quasi subito.
Torno in corridoio e mi appoggio al muro con la schiena, per poi sedermi a terra.
Mi prendo la testa tra le mani.
- Si sono date alla pazza gioia, le tue amiche –ridacchia Oliver sedendosi accanto a me.
- Sì, be’, Arianna è tenuta un po’ al guinzaglio dai suoi...
- A ragione, a quanto vedo... –ridacchia.
Restiamo in silenzio. L’aria è così pesante e consunta...
All’improvviso mi sento mancare l’aria.
- Ho bisogno di aria fresca –boccheggio alzandomi e scendendo le scale. Oliver mi segue a ruota fino fuori casa. Mi siedo sui gradini del portico di legno.
L’aria fredda autunnale mi riempie i polmoni. Respiro a grandi boccate.
- Va meglio? –chiede Oliver poggiandomi una mano sulla schiena.
- Sì, grazie –mormoro –L’odore dell’alcol era troppo, presumo...
- Si, può essere...
Le stelle brillano sullo sfondo nero.
C’è una leggera brezza.
- Dio –sospiro chiudendo gli occhi –Menomale che i loro genitori sono fuori per il fine settimana...hanno combinato un disastro...e domani saranno poltiglia vivente, non riusciranno mai a riordinare tutto in tempo...finiranno nei guai...ma perché cazzo hanno dovuto bere fino a svenire, eh?
- Rilassati, Rachele –sorride Oliver.
Gli lancio un’occhiata.
- Mi devi un drink –borbotto –Ma magari facciamo qualcosa di analcolico.
Il ragazzo scoppia a ridere.
- Una Coca Cola? –suggerisce alzandosi.
Mi alzo dai gradini anche io.
- Ne ho proprio bisogno, grazie.
Entrando in casa, mi sento mancare le forze.
E’ un disastro. C’è il vomito di Rita sul pavimento, in mezzo al salotto, circondato da bicchieri usati e coriandoli, che Arianna ha voluto lanciare in aria a mezzanotte.
Decido di passare oltre, raggiungendo diretta la cucina.
Apro il frigorifero e ne tiro fuori due lattine di Coca Cola.
Mi appoggio al tavolo e ne porgo una a Oliver.
- Arianna è una brava ragazza. E un’amica eccezionale. Si è solo lasciata trasportare. –puntualizzo sorseggiando la bevanda fresca.
- Non c’è bisogno che la giustifichi. Tutti abbiamo fatto delle stupidaggini.
Un sorriso gli compare sul volto mentre guarda il pavimento, forse accompagnato da qualche ricordo.
- Anche l’impeccabile Oliver Dawn? –sorrido.
- Io non ho mai detto di essere impeccabile.
- Non ho detto questo. Dai, racconta.
Oliver mi guarda scettico, ma con un sorriso.
- Come puoi pretendere di sapere tutto di me, quando io so solo che ti chiami Rachele Nardi e che hai un’amica che ama i coriandoli?
Sospiro.
- Ma le tue storie sono belle. Felici. Le mie no. –sussurro.
Oliver mi fissa con gli occhi socchiusi.
- D’accordo. Ma se ora ti parlo dei miei amici, poi tu mi racconti qualcosa di te.
- Va bene. Non ti dispiace se pulisco un po’ mentre racconti? –chiedo –Voglio dare una ripulita a questo posto, così poi Arianna non finirà in punizione per Dio solo sa quanto.
Mi avvicino al cassetto dove so che la madre di Arianna tiene i sacchi dell’immondizia.
- Ti do una mano. –esordisce Oliver.
- Non hai un coprifuoco? –chiedo lanciandogli il rotolo nero, in cerca di una scopa.
- Mia zia è... particolare –sorride strappando un sacco.
- Va bene, al lavoro allora!
 
- Scott, Jay, Ross e Will.
- Scott, Jay, Ross e Will –ripeto raccogliendo l’ultimo bicchiere.
- Sì. –Oliver sorride –Sono i migliori. Un po’ fuori con la testa, ma i migliori. Potresti adorarli. Avete lo stesso carattere.
- Lo stesso di tutti e quattro? –chiedo ridendo.
- Be’, no...di Scott e Jay. Li conosco da quando avevamo due anni.
Sorrido buttando nell’angolo l’ultimo sacco di immondizia. Abbiamo pulito ogni cosa. Abbiamo rimesso tutti i mobili al loro posto.
- Il secondo nome di Jay è Giselle –ridacchia il ragazzo –Ma tieni conto che non lo sa nessuno.
Sorrido.
Stanca, mi butto sul divano. Oliver si accascia accanto a me.
- Che ora abbiamo fatto? –biascico.
Oliver prende il cellulare dalla tasca dei jeans.
- Le cinque. Caspita. E’ praticamente mattina.
Chiudo gli occhi. Ho le palpebre pesanti.
- Ora tocca a me, o sbaglio? –mugugno.
Sento lo sguardo di Oliver su di me. Probabilmente non se la aspettava.
- Ti ascolto –sussurra.
- A casa ci siamo solo io, mia madre, e mio fratello Lucas. Mio padre ci ha abbandonati dieci anni fa. E’ andato a lavorare in America, e non è più tornato, praticamente. Si è rifatto una vita con una donna che potrebbe essere mia sorella e hanno un figlio. –racconto rapida. Meno dico, più indolore sarà la cosa.
- E’ terribile –dice con un filo di voce Oliver –Ti manca?
- Oh, tanto.
Potrei aggiungere un sacco di cose. Potrei parlagli di Lucas. O della torta speciale della mamma. Potrei dirgli che mi sento sola. Che la mancanza di mio padre mi ha lacerata dentro. Ma lui non lo chiede, e io non glielo dico.
 
- Ma guarda che carini!
- Smettila, sei infantile.
- Ammetti che sono teneri.
- Ammetto che sono i nostri angeli custodi, guarda che lavoro hanno fatto!
- Incredibile, non è vero? Dici che dobbiamo svegliarli?
- Nah, lasciali dormire.
- Ma è pieno pomeriggio! Diana sarà preoccupata. Conoscendola, non penso che Rachele abbia avvisato sua madre...
- Shh! Guarda che li stai svegliando...
- Ops...
Buio.
Sbatto le palpebre più volte, e la luce mi acceca.
Gemo e mi strofino gli occhi.
Davanti a me, Arianna e Rita mi fissano con dei sorrisi strani.
Mi guardo attorno. Sono sul divano di casa loro. Accidenti, devo essermi addormentata. Un braccio mi cinge le spalle. Ma che cosa...
Accanto a me, Oliver apre gli occhi.
Oliver!
Mi sono addormentata abbracciata ad Oliver!
Scatto a sedere.
Lui sembra svegliarsi completamente e, passandosi una mano tra i capelli, si siede dritto.
Fisso Arianna e sua sorella, sgomenta.
- Buongiorno! –sorride la mia amica.
Tossicchio e mi alzo.
- Sì, buongiorno...
- Che ora è? –chiede Oliver alzandosi accanto a me. Imbarazzata, gli lancio un’occhiata, per poi tornare a rivolgermi a Rita, che sorride.
- Oh, le cinque del pomeriggio, dormiglioni! –esclama Arianna.
- Cosa? –scatto –Mia madre mi ucciderà!
- Ti avevo detto che si era dimenticata di chiamarla! –sospira la mia migliore amica lanciando un’occhiata eloquente alla sorella.
Cerco con lo sguardo allarmato la mia giacca, nella cui tasca avevo lasciato il telefono.
Rita me la porge.
Con foga apro la cerniera e ne tiro fuori il cellulare. Non si accende.
- Merda, merda, merda! –strillo –E’ morto!
- Calma gli animi! –interviene Rita divertita tendendomi il telefono fisso.
Compongo rapida il numero di casa.
Uno squillo. Due squilli. Tre squilli.
- Pronto?
- Ciao, mamma, sono...
- Rachele Nardi! –tuona talmente forte da farmi stringere gli occhi. Accanto a me, Oliver si passa una mano sul collo e sospira.
- Mamma, io...
- Non mi interessa cosa hai da dire! Si può sapere dove sei?!
- A casa di Arianna...mi sono addormentata. –lancio un’occhiata ad Oliver, che sorride, forse ricordandosi di ieri sera.
- Si è addormentata! Si è addormentata! Scommetto che eri ubriaca!
- No, non ero ubriaca, lo sai che non bevo...
Arianna e Rita abbassano lo sguardo.
- Torna. Subito. A. Casa. –il suo tono è furente.
- Sì, arrivo...
Chiudo la telefonata. Porgo il telefono ad Arianna.
- Sei nei guai? –chiede in un filo di voce.
- Sì, Arianna, sì. –sospiro –Quando passa la prossima corriera?
Rita ed Arianna restano in silenzio.
- L’ultima è passata mezz’ora fa. Sai, è domenica...
Mi siedo sul divano.
- Scusa, avremmo dovuto svegliarti... –borbotta Rita.
- Io sono venuto in macchina. –interviene Oliver –Posso accompagnarti a casa.
Potrei accettare, o potrei ringraziarlo ma no, troverò un altro modo. Eppure l’unica cosa che riesco a dire è:
- Mi spieghi perché se hai la macchina, prendi la corriera per andare a scuola?
- E’ l’auto di mia zia. E non la uso per andare a scuole perché è... imbarazzante –sorride nervoso.
- Cosa significa “imbarazzante”? –chiede Rita con un sorriso sornione.
- Be’, ecco...
- Non è importante, ora! –esclama Arianna –Ti riporta a casa Rita con la sua macchina, chiede scusa a Diana e le spiega che ci siamo ubriacate e che tu e Oscar avete fatto tutto questo lavoro!
- Oscar? –sibilo fulminandola con lo sguardo.
Lei ridacchia.
Oliver sorride in uno sbuffo.
- Scusa, ma perché devo andare io a scusarmi? Sei tu che sei svenuta! –protesta Rita.
- Vengo anche io, se preferisci, ma mamma e papà tornano tra venti minuti e non trovarci a casa potrebbe metterci nei casini più di quanto già non siamo.
Quella di Ariana suona più come una minaccia.
Rita sospira.
- Sì, in fondo te lo devo... –borbotta accalappiando le chiavi dell’auto dal tavolino –Andiamo.
 
- Giuro che non uscirai più di casa...Rita?
Mia madre sembra stupita di vedere la ragazza, accanto a me.
Chiudo la porta di casa alle nostre spalle mentre Rita, piuttosto imbarazzata, prende un respiro profondo.
- Ciao, Diana –sorride.
- Ciao, cara. Tutto bene? –ora mia madre è preoccupata.
- Sì, sì, benissimo. Ho solo accompagnato Rachele perché ha perso l’ultima corriera.
- Ah –l’occhiata assassina di mia madre non ha pari.
- E volevo dirle che non deve punirla, perché...ecco, io e Arianna abbiamo alzato un po’ il gomito, ieri sera, e ci siamo sentite male. Rachele ci ha aiutato...ci ha portato a letto, e poi lei ed Oliver sono restati tutta la notte a pulire casa nostra, perché non finissimo nei guai, dato che i miei tornano oggi. E poi si sono addormentati sul divano. –Rita è rossa, mentre racconta.
- Chi è Oliver? –chiede mia madre, confusa.
Rita mi lancia un’occhiata, io chiudo gli occhi.
- Te ne parlo ora, mamma. Rita non c’entra. –intervengo.
Mia madre resta zitta, guarda me e poi Rita ad intervalli quasi regolari.
- Credevo che fosse giusto dirglielo di persona –aggiunge la ragazza.
Mia madre annuisce e la saluta mentre Rita esce, sale in auto e riparte.
Una volta rientrata in casa, mia madre si accascia su una sedia in cucina.
- Non hai idea di quanto mi sia preoccupata –mormora.
- Scusa, mamma.
Sospira e mi guarda.
- Così hai aiutato le tue due amiche ubriache e sistemato la loro intera casa perché non finissero nei pasticci, per poi finirci tu?
Sì, detta così sembra pura fantascienza. Però sono rimasta perché Oliver rimaneva. No, sono rimasta perché all’improvviso mi sono ricordata che Oliver mi doveva una Coca Cola, e una cosa tira l’altra...
- Suona strano, lo so. –borbotto.
E’ arrivato il momento di raccontargli di Oliver.
- La vuoi sentire una storia, mamma?
 
- Puoi invitarlo a cena qui. –sorride servendo la cena in tavola. Lucas freme dalla fame.
- Come, scusa? –chiedo, quasi strozzandomi con l’acqua.
- Oliver. Potresti invitarlo a cena, una volta. Magari con sua zia.
La guardo per capire se sta scherzando. Dato che non aggiunge altro, deduco che è seria.
- E perché mai? E’ un mio conoscente...l’unica persona che mi hai fatto invitare a cena è Arianna. –ricordo lentamente.
- Sì, lo so, però...
- Magari tra un po’, mamma –sussurro fissandola.
Lei si stringe nelle spalle.
- Come vuoi... –bofonchia servendo mio fratello.
- Oh, grazie al cielo! –esclama lui infilando in bocca una forchettata di pasta.
Lo guardo sorridendo.
- Allora, hai pensato a quella cosa di papà? –chiede, con la bocca piena.
Normalmente, mamma lo sgriderebbe e gli direbbe che non si parla con la bocca piena. Invece ora lascia cadere la forchetta sul piatto.
- Credevo che l’argomento fosse chiuso. –sussurra. Mi lancia un’occhiata in cerca di supporto.
Resto immobile.
- Anche a me farebbe piacere vederlo. –azzardo –Potremmo fare un viaggio in America e incontrarlo.
- Non avremmo abbastanza soldi da permettercelo –taglia corto.
- Lo so, ma papà sì. Non è forse un milionario? –suggerisco.
Mia madre resta spiazzata.
- Non ci si approfitta così delle persone, Rachele.
- Non è “approfittarsi”. Voglio dire, andremmo comunque là per lui. Solo un giorno, mamma, poi potremmo avere cinque o sei giorni per rilassarci, visitare il posto...staremmo in albergo...
Mi lancia un’occhiata disperata.
- Tuo padre mi ha fatto male, Rachele. Non ho intenzione di rivederlo.
- Ma è comunque mio padre, mamma.

ANGOLO AUTRICE:

Eccomi qui, di nuovo! ^^
Grazie a tutti quelli che seguono la storia! Mi fa davvero piacere!
In questo capitolo scaviamo nelle storie die due personaggi, in quella rose e fiori di Oliver e in quella più burrascosa di Rachele.
Che vi sembra? Perchè io non sono troppo convinta...
Grazie mille!
emmegili

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Capitolo 4
*** 4. ***


4.
 
- Come è andata? – il sorriso preoccupato di Oliver è tirato.
Si siede accanto a me.
- Rita le ha parlato. Me la sono cavata. –sorrido.
- Oh, per fortuna! Temevo non ti avrei più rivista.
Scoppio a ridere.
- Non siamo in una soap opera, Oliver –esclamo.
Lui sorride.
Guardo fuori dal finestrino. E’ ancora buio. La scuola che frequento è in centro città, mentre io abito in provincia. Devo prendere l’autobus ogni mattina alle sei e mezza per arrivare puntuale a scuola.
- Così suoni la chitarra –gli sorrido. Lui mi guarda e ricambia.
- Mio padre mi regalò una chitarra, quando avevo sei anni. E mi insegnò le basi per suonarla. Poi ho imparato da solo. Mi è sempre piaciuta, la musica. –racconta.
- Le canzoni di ieri sera erano tue? –chiedo.
- Alcune sì. Le altre erano cover -annuisce Oliver, con un sorriso soddisfatto.
- Erano molto belle. A primo orecchio. Sai, col fatto che Arianna era al settimo cielo, non mi ha lasciato tempo per ascoltarle bene. C’erano alcune frasi bellissime.
- Parli l’inglese? –Oliver è, oserei dire, stupito.
- Diciamo che mi piace –mormoro abbassando lo sguardo.
- Quindi, potrei parlarti mezzo italiano e mezzo inglese, che mi capiresti?
Sembra un bambino. E’ eccitato, incredulo.
- Dipende. Forse. –rido.
- Questo è... fichissimo. –esclama.
Rido, mentre la corriera si ferma ancora una volta per far salire e scendere altri passeggeri.
 
- Mi dici a che ora sei andata a dormire ieri sera, esattamente? –chiede Arianna agitando le mani davanti alla mia faccia.
- Non me lo ricordo. E poi non mi sembra di essere così assonnata, Ari... –borbotto mentre usciamo dal laboratorio di scienze, dirette verso la nostra classe.
- Sapresti dirmi cosa ti ho chiesto un attimo fa?
Arianna non è seccata, per fortuna.
- A che ora sono andata a dormire.
- Prima di quello... –sospira esasperata.
Ci penso su qualche secondo.
- Non me lo ricordo –borbotto.
- Ti ho chiesto cosa fai dopo scuola, ma a questo punto credo che tu debba andare a dormire.
Entriamo in classe e mi siedo accanto a lei. Prendo dallo zaino il libro di letteratura.
- Non ho nulla da fare, Ari. –sorrido.
- Bene. Perché Rita oggi è restata a casa. Si è beccata l’influenza. Non fare domande. Domani ha un compito di scienze, ma ha lasciato i libri a scuola. E mi ha chiesto di andare a recuperarli. Ma io non ci vado da sola in quel mattatoio. Credimi, la settimana scorsa, quando sono andata a scegliere il cantante per la festa, non vedevo l’ora di uscire.
- E perché mai? –rido.
- Non lo so. Ma non mi piace. Mi mette ansia. –risponde guardandomi nervosa.
Il professore di letteratura entra nell’aula, esclamando un “Buongiorno!”.
Mi alzo dalla sedia e ricambio il saluto, come fanno tutti i miei compagni.
Lui sorride e ci dice di accomodarci, poi chiede ad un ragazzo in fondo alla classe di aprire un po’ la finestra.
- Ha corretto i compiti, prof? –chiede Arianna, accanto a me.
Si riferisce ai temi che abbiamo fatto la settimana scorsa riguardo a Leopardi. Dovevamo commentare una sua poesia. Io ho scelto A Silvia.
- Sì. Ora ve li consegno.
Il professore si siede alla cattedra e prende a sfogliare i nostri compiti.
Inizia a chiamare gli studenti in ordine alfabetico. Sono a metà elenco. Arianna è la prima.
Si alza e va verso la cattedra.
Prendo la penna ed inizio a scarabocchiare su un pezzo di carta.
Nel frattempo Arianna torna al banco.
- Com’è andata? –chiedo allungando il collo per vedere il suo voto.
- Otto. Non poteva andarmi meglio! –sorride raggiante.
Ridacchiando, continuo a muovere la penna avanti e indietro, soprappensiero.
Ero abbastanza fiera del mio commento, una volta finito. Non può essermi andata così male.
- Nardi! –chiama il professore.
Mi alzo pigramente dalla sedia e lo raggiungo. Mi sorride raggiante, porgendomi il foglio a righe.
- Davvero impressionante, Rachele. –mormora con il sorriso sulle labbra – E’ semplicemente splendido. Ti sei soffermata sui particolari, magnifico! Persino un ignorante, leggendolo, potrebbe imparare ad apprezzare Leopardi, dico sul serio. I miei più vivi complimenti.
Il sorriso mi spunta sul volto. Una sensazione strana prende ad invadermi il petto, con calore. Orgoglio? Soddisfazione?
- Grazie, prof –sorrido.
- Hai per caso pensato a quello che ti ho detto la settimana scorsa?
Prendo un profondo respiro. L’ho fatto? No. L’unica volta che, casualmente, me ne ha parlato Oliver, l’ho presa sul ridere.
Scuoto la testa.
- Be’, dovresti. E’ un peccato avere un talento del genere e non usarlo. –sorride caloroso –A proposito, ho sentito che hanno deciso di fondare il giornalino della scuola. Potresti provarci. Cercano dei giornalisti. Hanno appeso una locandina in corridoio.
- Ci penserò. –sorrido tornando al posto.
Una volta seduta, mi concedo di riaprire gli occhi e guardare il voto. Arianna, accanto a me, lancia un urletto.
- Hai preso un dieci! –esclama portandosi una mano alla bocca.
 
- Dai, muoviti, che altrimenti il bidello se ne va a casa e Rita mi uccide! –strilla Arianna correndo a perdifiato per i corridoi della scuola, trascinandomi dietro di sé.
- Guarda che la mia corriera parte fra un quarto d’ora... –strillo invano, perché tanto non mi sente.
Con la coda dell’occhio vedo la locandina di cui parlava il professore di letteratura.
- Ari, frena un attimo! –ansimo strattonandola. Lei si blocca e mi guarda confusa.
La locandina annuncia la ricerca di volontari per il giornalino della scuola. C’è un numero di cellulare da chiamare.
Prendo il cellulare dalla giacca e me lo segno.
- Andiamo, polenta, muoviti! –esclama Arianna in un sospiro mentre, tirandomi per la giacca, esce dalla scuola.
Il buio della sera è interrotto dalle luci dei lampioni.
A grandi passi, Arianna mi conduce per il centro come se lo conoscesse come le sue tasche, fino al grande edificio di qualche giorno fa.
Borbottando qualcosa che non capisco, la mia amica sale la gradinata e spinge la porta.
- Non vedo cosa ci sia di tanto angosciante... –borbotto varcando la soglia del liceo scientifico che frequenta Rita.
Un grande ingresso, nel quale c’è una grande ed elegante rampa di scale che poi si divide.
Arianna inizia a salire le scale e la seguo.
Prendiamo la rampa che sale verso la destra.
- Sai dove andare, vero? –le chiedo una volta raggiunto il primo piano, dove c’è un grande corridoio con svariate stanze e altre rampe di scale.
Lei sorride impacciata.
- Più o meno.
- Cosa accidenti significa, più o meno? –chiedo scocciata. L’unica cosa che voglio è tornare a casa e dormire. Sono le sei di sera e la voglia di girovagare per questa scuola con Arianna è sotto lo zero.
- So che sono in classe di Rita, ma non so quale sia... –sorride sperando di non beccarsi una sfuriata.
- Il piano? –chiedo chiudendo gli occhi, conoscendo già la risposta.
- Ehm... –tossisce abbassando lo sguardo.
- Oh, che cavolo! –sbotto.
- Dividiamoci, okay? La classe è la 5a B. –sospira.
Non ho tempo di risponderle, che già sta correndo giù per il corridoio. In un lamento, prendo a salire le scale davanti a me.
E’ così vuoto, questo posto, senza studenti. Anche un solo sussurro rimbomba.
Arrivata al secondo piano, prendo a camminare come un’ebete lungo il corridoio, scrutando le targhette accanto alle porte.
Della classe di Rita, nessuna traccia.
Sento dei passi su per le scale. Mi blocco e mi volto nella direzione da cui sono venuta.
Arianna. Affannata, mi si avvicina.
- Niente al piano di sotto. Controllo l’ultimo! –esclama indicando con un dito il soffitto.
Senza lasciarmi il tempo di aggiungere qualcosa, anche questa volta la mia amica sfugge via.
In uno sbuffo, riprendo a camminare. I miei passi riecheggiano e per un attimo sono tentata di togliermi le scarpe.
Una porta non ha la targhetta. Incuriosita, mi avvicino. Seppur fievole, dall’altra parte si sente il suono di una chitarra. Dev’essere l’aula di musica.
Attenta a non fare rumore, apro lentamente la porta.
E il cuore mi salta in gola.
Nemmeno mi soffermo sul pianoforte nell’angolo, sulle chitarre appese al muro o sulla batteria proprio accanto alla porta.
Il mio sguardo si cristallizza sulla sedia al centro della stanza, sulla quale è seduto Oliver. A occhi chiusi, sta cantando mentre, con le dita, suona la chitarra. E’ la stessa canzone che stava cantando quando sono entrata a casa di Arianna, la sera della festa.
La stessa armoniosa, struggente, magnifica canzone d’amore. Appoggiandomi allo stipite della porta, inizio ad ascoltarne le parole. Sebbene siano in inglese, ne colgo il significato.
La ama. Anzi, è più corretto dire che la amava. Che era tutta la sua vita. Ma ora che lei se ne è andata, lui non sa più cosa farsene della vita. Lui lo sapeva. Sapeva che prima o poi sarebbe successo.
Gli manca da morire. Lei era il motivo per cui si alzava la mattina, il suo luminoso raggio di sole pronto a rischiarargli la giornata. E ora che non c’è più, le sue giornate sono grigie e tristi, come le grigie e fredde mattinate invernali.
Oliver canta le ultime note quasi in un sussurro, sempre con gli occhi chiusi. E’ così...attraente. L’espressione sul suo volto è pura passione, e lo rende ancora più bello.
Quando la canzone finisce e lui, di colpo, apre gli occhi, sussulto.
- Rachele? –mi chiama stupito.
Sorrido.
- Sì, be’, in carne ed ossa.
- Da quant’è che sei qui? –chiede, arrossendo. Arrossendo? Devo avere le allucinazioni.
- Abbastanza da capire la storia nella tua canzone. Lei è morta? –sorrido.
Anche Oliver sorride, abbassando per un attimo lo sguardo sulla sua chitarra.
- Non lo so. Dipende da chi la ascolta. Secondo te?
Lo guardo negli occhi, sorridendo.
E’ morta?
- No. Per me no. Si sono solamente lasciati. –concludo.
- Va bene, per te non è morta –annuisce Oliver appoggiando la chitarra alla sedia ed alzandosi.
- Come mai qui? –mi chiede avvicinandosi.
- Oh, Rita aveva dimenticato qui dei libri e...
- Li ho trovati! Possiamo andare! Ehi, ma cosa te ne stai lì sulla porta...
Arianna prorompe nella stanza, andando a sbattere contro la mia schiena.
Vengo spinta in avanti e Arianna per poco non cade a terra.
Quando si rimette in equilibrio, mi guarda in cagnesco, per poi accorgersi di Oliver, che la saluta sorridendo divertito.
- E sei venuta a prenderli con Arianna –conclude la mia frase lasciata in sospeso.
- Che ci fai tu qui? –gli chiede la mia amica.
- Io? Cosa ci fai tu qui! –ride il ragazzo –E’ la mia scuola, non la tua.
Arianna guarda prima me poi Oliver più volte.
- Stava cantando. –le spiego.
- Affascinante –mormora, poco convinta –Senti, a che ora era la tua corriera?
- Alle sei e un quarto, perché? –chiedo, confusa dall’improvviso cambio di argomento.
Arianna prende il cellulare dalla tasca e mi mostra l’ora. Sono le 18.20. E’ scritto in grande, ci manca poco che lampeggi.
- Andiamo... –gemo maledicendomi –Perché mi dimentico sempre di controllare l’orologio?
Arianna sorride, però poi si ricorda di qualcosa e il sorriso scompare.
- Stavo per dirti che Rita ti poteva dare un passaggio, ma sta male. E io non ho la patente. –biascica.
- Aspetta, era l’ultima corriera? –chiede Oliver, serio all’improvviso.
Annuisco in una smorfia.
Arianna scoppia a ridere.
- Siete in due, senza passaggio, a quanto pare. Beata me che vivo qui... –sospira divertita.
Oliver resta zitto per qualche secondo, poi prende il cellulare.
- Chiamo mia zia. –annuncia –Ti serve un passaggio?
Lo guardo stranita. Un passaggio mi farebbe comodo, però...
Lancio un’occhiata ad Arianna, che pare non accorgersene.
- Magari, grazie... –mormoro in un sorriso.
- Figurati –sorride componendo un numero sul telefono e portandoselo all’orecchio.
Si volta e cammina verso la finestra.
Arianna mi si avvicina.
- Sua zia non era strana? –mi sussurra.
Mi stringo nelle spalle.
- Strana o no, mi può accompagnare a casa.
Arianna sospira.
Oliver chiude la telefonata e si avvicina, sorridente.
- Mia zia riesce a venirci a recuperare, ma solo tra un’ora. –spiega.
- Non c’è problema –assicuro sorridendogli –Posso aspettare. Devo solo avvisare a casa...
- Be’, per quanto ti adori, tesoro, non posso stare qui ad aspettare –annuncia Arianna solenne, posandomi una mano sul braccio –Quindi, adios!
Ridacchio.
- Vai, tranquilla... –le sorrido –Rita deve studiare, no?
Arianna brontola qualcosa sul fatto che sua sorella non studia mai, poi ci saluta e se ne va.
- Adios? –chiede ridendo Oliver, le mani nelle tasche dei jeans scuri.
- Ieri ha iniziato il corso di spagnolo –racconto –La sua fissa di questo mese è la Spagna.
Arianna è sempre stata una persona aperta, schietta, pronta a tutto. Quando scopre qualcosa di nuovo, solitamente ne diventa ossessionata e si fissa per un mese, ovvero quando, abitualmente, trova una nuova mania.
Qualche settimana fa l’ho invitata a casa mia per la cena e abbiamo visto un film in cui l’attore protagonista, particolarmente attraente, era spagnolo. E da quel momento ha avuto il pallino di imparare lo spagnolo, di andare in Spagna e sposare uno spagnolo.
Lo scorso mese ha voluto buttarsi con il parapendio da una montagna solo perché la pubblicità del negozio di articoli per gli sport estremi durava due minuti interi ed era invitante.
- Così, abbiamo un’ora intera... –aggiungo in un sospiro.
Oliver mi sorride.
- Cosa vuoi fare? –mi chiede avvicinandosi alla chitarra e prendendola in mano, come per metterla via.
- Innanzitutto voglio avvisare mia madre –sorrido inviandole un messaggio dove la avviso di aver perso la corriera e di non sapere quando tornerò a casa, ma che ho rimediato un passaggio.
Ripongo il cellulare nella tasca della giacca e chiudo gli occhi.
Non so cosa mi prenda, ma all’improvviso una vocina inizia a strillare nella mia testa: Fallo suonare! Fallo suonare! Non lasciare che metta via quella dannatissima chitarra acustica!
Forse sbigottita da questa presa di potere del mio subconscio, devo assumere un’espressione strana, perché Oliver si blocca e mi guarda preoccupato.
- Tutto bene? –mi chiede.
- Sì, sì, certo. –mi affretto a rispondere, riscuotendomi –Io, ecco, mi chiedevo se...
Lascio la frase vagare nell’aria, così, senza terminarla. Mi mordo un labbro, nervosa, e prendo a giocherellare con il braccialetto che porto al polso, quello di fili colorati.
- Sì? –Oliver sorride, quasi fosse teneramente divertito dal mio comportamento. Quello stesso sorriso che ti spunta sulle labbra quando un bambino piccolo parla e parla, senza accorgersi di dire le parole in modo sbagliato.
Guardo per un attimo il braccialetto, poi alzo con uno scatto lo sguardo verso il ragazzo.
- Perché non mi fai sentire qualcosa? –chiedo tutto d’un fiato.
Il sorriso di Oliver tramuta in qualcosa di sorpreso e felice.
- Certo. – risponde sedendosi sulla sedia e imbracciando la chitarra.
Controlla le corde con cura mentre arraffo una sedia da un angolo e la posiziono di fronte al ragazzo, sedendomici sopra.
Tolgo la giacca e me la appoggio sopra le gambe.
Con un sorriso che illumina la stanza, Oliver alza il viso e mi guarda.
- Pronta?
Prendo un respiro e rilasso le spalle. Sorrido.
- Pronta.
 
Il bellissimo viso di Oliver è puro piacere. Se quando lo incontri per strada ti giri a guardarlo per la sua splendente bellezza, ora lo rincorri.
La felicità, il sorriso del suo volto mentre solletica le corde della chitarra, la sua voce che canta parole d’amore creano un’atmosfera magica; e la sua passione, la sua dedizione, il suo perdersi nella musica è contagioso. Quando sorride guardando la chitarra, un timido sorriso gioioso ti spunta sulle labbra. Quando chiude gli occhi e in una smorfia attenta cattura una nota alta, un brivido ti percorre la schiena. E quando ascolti, con attenzione, le parole che canta, che lui stesso ha scritto, un calore ti impregna il petto, una sensazione tale da mozzare il fiato.
Sono parole dolci, parole dal suono armonioso, che contribuiscono al ritmo della canzone. E sono belle. Ma quando poi arriva una frase, una sola piccola frase dal significato meraviglioso, una frase che vorresti tatuarti sulla pelle e scrivere milioni e milioni di volte, allora tutto cambia. Allora il cuore ha un sobbalzo, si ferma per un nanosecondo, lasciando scappare un battito.
Sentire cantare e suonare Oliver è tutto ciò di cui una persona ha bisogno. Un bagno nelle emozioni, nelle storie, nelle memorie, nel passato, nel futuro. Il presente si blocca, il tempo si dilata. Si viene a creare quella condizione per la quale vorresti fermare il tempo in eterno in quell’esatto istante.
Con degli ultimi pizzichi alla chitarra, Oliver finisce la canzone.
Non mi muovo, non ci riesco.
- Allora? –mi sussurra in un sorriso –Com’è stato?
Senza accorgermi di star trattenendo il respiro, riprendo a respirare.
- Intenso. –bisbiglio lentamente, cercando di assimilare tutto quanto.
Oliver non si muove, continua a guardarmi, capendo che ho bisogno di qualche secondo di tempo.
- Magnifico. Grandioso. Credo che potrei ascoltarti all’infinito. –continuo con un sorrisetto che mi fa socchiudere gli occhi.
Oliver ride.
- Be’, mi fa piacere. –conclude sorridendo – Vorrà dire che ti userò come cavia per le mie prossime creazioni.
Ridacchio, mentre il suono di un clacson entra dalla finestra aperta appena.
- E’ arrivata mia zia –annuncia Oliver alzandosi e chiudendo la chitarra nella sua custodia.
Mi alzo dalla sedia e, infilandomi la giacca, la ripongo nell’angolo.
Il ragazzo mi precede uscendo dalla stanza ed io lo seguo giù per le scale.
- Ti avverto: mia zia è stata una hippy da giovane. –esclama all’improvviso Oliver mentre scendiamo l’ultima rampa di scale.
Sbigottita, scoppio a ridere.
Lui si blocca e mi guarda curioso.
- Ed è questo il problema? – chiedo cercando di trattenermi –Che è stata una hippy?
Oliver sembra rilassarsi, e sorride, riprendendo a camminare.
- Non ha mai cambiato auto, da quando è stata una hippy. Non so perché. Per ricordo, forse. Ogni tanto sembra di nuovo quella giovane Sofia figlia dei fiori. E’ inquietante. –racconta mentre usciamo dall’edificio –E ora passa la sua vita credendo negli oroscopi e leggendo le stelle.
L’impatto con il freddo è fin troppo duro. Per essere gli ultimi giorni di ottobre, fa davvero troppo freddo.
Mi obbligo a respirare con il naso, perché i sospiri che escono dalla mia bocca diventano evidenti sbuffi bianchi.
Alzo gli occhi al cielo, che brilla di miliardi di stelle.
Oliver si ferma accanto a me, e alza la testa.
- Sono bellissime, non è vero? –sussurro.
- Favolose. –annuisce Oliver, serio.
- Vi piacciono le stelle?
Mi volto di scatto, ed Oliver con me. Ma a differenza mia, lui sembra meno sorpreso, come se conoscesse chi ha parlato.
Appoggiata ad un minivan dipinto con tantissimi colorati segni della pace, una donna dai capelli biondi, stretta in un giaccone di panno, ci sorride. E’ giovane, avrà una trentina di anni.
- Zia... –borbotta Oliver avvicinandosi a lei.
Io lo seguo, alquanto imbarazzata.
Non sono mai stata un asso nelle presentazioni. Non so mai cosa dire, mi sento sempre fuori posto.
La donna ride di gusto.
- Ciao, Oliver! –esclama divertita. Poi mi guarda complice.
- Tu devi essere Rachele, giusto? –mi sorride.
- In persona –ricambio, seppur un po’ stupita. Chissà perché mi ero immaginata una vecchia signora sovrappeso con una vestaglia con i gattini e degli orecchini lunghi e colorati.
La donna snella e attraente che mi trovo davanti non si avvicina minimamente a ciò che avevo immaginato.
- Scommetto che quello scapestrato di mio nipote ti ha raccontato la storia della hippy. –sospira fingendosi rassegnata –E magari ti ha detto anche che sono una vecchia zitella che legge le stelle.
Annuisco ridendo.
- Ah, povera me! –biascica portandosi una mano sul cuore.
Oliver geme, ma poi tace.
- Comunque sia, io mi chiamo Sofia, ho trentadue anni, e quando è nato mio nipote ne avevo tredici. Sono stata una hippy da diciassettenne e ora mi piace credere che le stelle siano artefici del nostro destino. –racconta tendendomi la mano.
Gliela stringo sorridendo, mentre Oliver sospira.
- Io sono Rachele, ho diciassette anni, ho un fratello minore che è nato dieci anni fa, vivo con lui e con mia madre. Mio padre ci ha abbandonati quando è nato mio fratello Lucas per un’altra donna, ora vive in America e ha un figlio. E mi manca.
Sofia non sgrana gli occhi, non spalanca la bocca e nemmeno dice che le dispiace. E la ringrazio mentalmente per questo. Non so perché le abbia raccontato la mia vita così di getto, ma sono contenta che non l’abbia commentata.
Annuisce e mi fissa negli occhi.
- Hai cenato? Scommetto di no –chiede come se non fosse successo niente, in un sorriso –Ti fermi da noi, vero? Devo giusto passare in pizzeria a comprare le pizze...
Apro la bocca per rifiutare l’invito, dire che non posso. Ma poi mi blocco, il sospiro ancora bloccato in gola.
- Dai, sarà divertente! –esclama Oliver, rianimato all’improvviso –Per le dieci sarai a casa nel tuo letto!
Lo guardo sorridendo.
- Va bene, grazie. –annuisco.
Oliver caccia un urlo di felicità e poi si avventa sul furgoncino colorato, aprendone lo sportello.
- In carrozza, signore!
Ridendo, Sofia mi guarda scuotendo la testa.
- Mamma, pronto?
In una smorfia, controllo il cellulare.
- Rachele? –mi arriva la sua voce, curiosa.
Sospiro, grata che riesca a sentirmi.
- Sì, mamma, sono io. Volevo dirti che ceno fuori. Torno per le dieci...
- Ah. –fa una pausa –Una volta mi chiedevi il permesso.
Chiudo gli occhi.
- Hai ragione. Scusa. Allora...posso fermarmi fuori a cena?
- Sei con Oliver? –mi chiede, con un tono strano.
Stupita, resto zitta.
- Rachele?
- Ehm, sì. Sua zia mi voleva dare un passaggio e mi ha chiesto di restare a cena. –mi riscuoto abbassando la voce, sperando per chissà quale motivo che Oliver e sua zia, di là in cucina, non mi sentano.
- Okay. Non fare tardi. Ti aspetto sveglia?
Penso centinaia di risposte diverse, ma le scarto tutte subito.
- Come preferisci –arrivo a risponderle alla fine.
- D’accordo, tesoro. Non fare niente che io non approverei!
Non riesco a risponderle, che ha già chiuso la telefonata.
In un sospiro, ripongo il cellulare nella tasca della giacca appoggiata sulla poltrona. La casa di Sofia è molto bella.
Ha un grande giardino esterno curato pieno di fiori colorati. Dentro, la casa è grande e ben arredata. Stando a quello che mi aveva raccontato Oliver mi ero immaginata una tenda colorata arredata da altre tende colorate, dove si poteva inciampare in una sfera magica ogni due per tre.
Sorridendo, torno in cucina.
- Tutto a posto? –mi sorride Sofia aprendo i cartoni della pizza.
- Sì –le sorrido sedendomi a tavola, accanto ad Oliver.
Ci passa le pizze e si siede davanti a noi.
Mentre taglio in quattro quarti la mia pizza, Oliver mi versa un po’ di acqua nel bicchiere. Lo ringrazio con un sorriso.
- Allora –esordisce Sofia –Com’è?
Ne mordo un pezzo.
- Squisita, come sempre –rispondo.
Oliver, invece, si spende in sospiri di piacere.
- Mm! –esclama chiudendo gli occhi, con mezza fetta di pizza in bocca –E’ deliziosa! Mi mancherà, quando tornerò a casa...
Sofia ridacchia e gli lancia un’occhiata mentre taglia la sua pizza.
- E quand’è che torni a casa? –gli chiedo.
Oliver manda giù il boccone che ha in bocca, prima di rispondermi.
- Per le vacanze di Natale. –mi sorride –Poi torno qui per finire la scuola e... dopo si vedrà. Però...voglio lavorare con la musica. Credo che sia la cosa migliore, per me.
Lo guardo socchiudendo gli occhi.
- E tu, Rachele? –mi chiede sua zia –Che piani hai?
Bevo un sorso d’acqua prima di rispondere.
- Non ne ho –rispondo imbarazzata.
- Hai intenzione di andare all’università? –mi incalza in un sorriso.
- Penso proprio di sì, ma non ho ancora scelto una facoltà...
- Qui in Italia? –interviene Oliver.
Sorrido guardando la pizza, prima di rispondere.
- Mi piacerebbe andare a studiare in Inghilterra –confesso. Non l’ho detto nemmeno a mia madre. E questo pensiero mi fa sparire il sorriso. Non posso andare a studiare in Inghilterra. Non posso lasciare mia madre per così tanto tempo. Non dubito sul fatto che se la caverebbe, figuriamoci. Ha cresciuto me e mio fratello da sola. Dico solo che non è più come quella di una volta. Ha bisogno di una mano. E Lucas è troppo piccolo per aiutarla.
- Oh, è grandioso! –sorride raggiante Sofia –Avrei voluto anche io avere così tanta volontà, alla tua età...per lo meno ora mio nipote non andrebbe in giro a dire che sono stata una hippy e tutte le atre cattiverie che racconta.
- Ehi, io non dico affatto cattiverie su di te! –esclama Oliver, serio.
- E’ vero –intervengo.
La donna ci guarda con il sorriso di una che la sa lunga.
- Sì, sì, vabbè... –borbotta –Com’è che vi siete conosciuti, voi due?
- Grazie all’autobus –spiego.
- Anche tu sull’autobus numero 3? –ride Sofia –E’ lo stesso che prendevo io per andare a scuola...
- Ma la signorina qui presente non è stata subito socievole... –mormora Oliver mangiando l’ultimo pezzo della sua pizza.
- Stavo leggendo, Oliver, non avresti dovuto stressarmi in quel modo –mi giustifico.
- Cercavo solo di essere carino!
- Ma io stavo leggendo. –sottolineo accigliata.
- E quindi?
- Regola numero uno: non mi interrompere mai se sto leggendo –recito.
Oliver scuote la testa ridendo, e quando lancio un’occhiata a sua zia, la scopro trattenersi dal ridere, mentre ci guarda divertita.
- E poi io sono andato a sonare alla festa della sua migliore amica –continua Oliver in un sorriso.
- E le abbiamo pulito la casa da cima a fondo –termino.
- Ah, quella sera in cui sei tornato dopo il coprifuoco... –rammenta Sofia in un’occhiata ammonitrice.
- Avevi detto di non avere un coprifuoco! –esclamo.
- Speravo si fosse già addormentata! –si difende Oliver gesticolando – Se ti avessi detto la verità non mi avresti lasciato aiutarti, ed ora saresti ancora lì a pulire!
Sorrido. E’ vero.
- Comunque, è stata un’esibizione fantastica –mi complimento –Potresti fare strada...
- Oh, è quello che gli dico anche io! – sospira Sofia, sorridendo al nipote, orgogliosa –E’ davvero fantastico. Another Life è la mia preferita...
Lancio un’occhiata curiosa ad Oliver, che mi sorride timido.
- E’ quella che piace a me? –chiedo –Quella della ragazza che non c’è più?
- Proprio quella... –sussurra guardandomi.
- Oh, piace anche a me! –strepito guardando la donna bionda.
- Secondo te cos’è successo? –mi chiede elettrizzata.
- La ragazza non è morta. Sarebbe troppo doloroso. Viene descritta in un modo che ti rende capace solo di amarla, e morire significa non esistere più. Sarebbe un vuoto nello stomaco, come quelli della paura. No, voglio credere che se ne è andata per altri motivi. –spiego lentamente.
- E’ quello che dico anche io. Ma Oliver...Oliver non si sbilancia. –mi sorride alludendo al nipote.
Lui non alza lo sguardo, continua a fissare il bicchiere davanti a sé.
- Volevo solo esprimere uno stato d’animo di un istante, congelare quel momento e scrivere le emozioni sulla carta. –spiega.
- Sei stato tu a provarle? –chiedo.
- No, no. –mi risponde finalmente guardandomi –Sto ancora aspettando l’amore della mia vita. Ma a dire il vero, credo che il ragazzo della canzone non sapesse di averlo trovato. Ed è per questo che il suo dolore è insopportabile, perché se l’avesse saputo se lo sarebbe goduto. Ma sta proprio qui il tranello: bisogna essere capaci di vivere ogni istante come se fosse l’ultimo, passare il tempo con le persone come se fossero le uniche sulla terra. Perché è proprio quando perdi una persona che ti accorgi di amarla.
Resto paralizzata. Milioni di immagini ed idee prendono a danzarmi in testa. Se solo avessi un foglio ed una penna...
- E’ vero. –sussurra piano Sofia –E’ proprio vero.
Annuisco, tornando alla realtà.
- Hai mai provato a... –inizio, rivolgendomi al ragazzo accanto a me.
Lui mi guarda curioso. Sofia mi incalza a continuare.
- Non so...a postare le tue canzoni su Internet? –chiedo –Tantissimi cantanti oggi famosi hanno iniziato così.
Sofia squittisce.
- E’ una grande idea, Olly. –esclama battendo le mani –Potresti provarci.
Oliver mi fissa, immobile, con l’inizio di un sorriso sulle labbra.
- Non lo so... –borbotta.
- Tentar non nuoce... –interviene Sofia.
Oliver continua a guardarmi.
- Forse, però, bisognerebbe iniziare con una cover. –conviene in un sussurro.
Sorrido, mentre Sofia esplode in un urlo di gioia.
- Sì, forse sì. – lo guardo in un sorriso.
 
- Piacere mio, signora!
Il sorriso sincero di Oliver è da restarci K.O. e non rialzarsi più. Quando ho raccontato a mia madre del ragazzo che suonava la chitarra, non le avevo minimamente accennato alla sua disarmante bellezza, e tanto meno al suo incredibile talento che ho scoperto qualche ora fa.
Forse per questo è alquanto stupita, mentre sorride ad Oliver che, alto, la sovrasta di un bel po’. Mia madre ha sempre adorato i ragazzi alti. Una volta è persino arrivata a dirmi che se mi fossi innamorata di uno più basso di me non sarebbe venuta al matrimonio.
- E’ bello conoscerti, Oliver –sorride mia madre, riprendendosi –Posso offrirti qualcosa?
- Oh, no, grazie! Sono venuto solo ad accompagnare Rachele. –mi guarda sorridendo –Credo che sappia meglio di me che non ha il senso del tempo.
- Ehi! –gli lancio un cuscino del divano al quale sono appoggiata –Guarda che l’hai persa anche tu la corriera!
Lui lo afferra al volo.
Mia madre sospira sconsolata.
- Sì, ed è anche molto educata...
Oliver ride.
Mia madre mi lancia un’occhiata.
- Ora devo proprio andare –si scusa in un sorriso il ragazzo.
- Certo, certo. –sorride mia madre accompagnandolo alla porta –Spero che ci rivedremo con più calma.
- Mi farebbe piacere.
Li raggiungo. Io e mamma ci fermiamo sulla soglia, mentre Oliver percorre il vialetto fino al furgoncino hippy di Sofia.
- Buonanotte! –strillo.
- Sogni d’oro –mi sorride lui salendo in macchina e mettendo in moto.
Mia madre gli fa ciao con la mano finché non sparisce dalla nostra vista.
Rientrate in casa, mi butto su una sedia della cucina.
Mia madre mi si avvicina con un sorrisetto.
Silenziosa, raggiunge il lavandino e riempie un bicchiere d’acqua fresca. Si appoggia al bancone e mi guarda, bevendo in silenzio.
Ricambio lo sguardo, impaziente di sentire cos’ha da dire.
Aspetto che finisca l’acqua e che lavi il bicchiere, che lo asciughi e che lo rimetta a posto.
Una volta tornata ad appoggiarsi al bancone, mi guarda.
- Forse dovresti andare a dormire –afferma serena, sempre fissandomi.
Confusa, borbotto un qualcosa che suona come un assenso e mi alzo dalla sedia.
 Metà scale, sento la sua voce:
- E, Rachele? La prossima volta che incontri un ragazzo così educato, bello e soprattutto alto, vorrei che lo specificassi, tesoro!
Ridacchio.
- Senz’altro, mamma. –esclamo raggiungendo la mia stanza.
Chiusa la porta, raccatto il pigiama e della biancheria pulita per andarmi a fare una doccia.
Passando davanti alla scrivania bianca, mi cade l’occhio su un quaderno bianco, aperto, e sulla penna nera lì accanto.
Mi blocco e li guardo.
Mandando al diavolo la doccia e anche il sonno, butto quello che ho in mano sul letto, mi siedo alla scrivania e, mordendomi un labbro, inizio a scrivere.

 

ANGOLO AUTRICE:

Eccoci qui, ancora!
Grazie a tutti quelli che leggono, seguono e recensiscono la storia, mi fa davvero tantissimo piacere. (Un grazie particolare a balli01, che è stato il motivo principale per cui ho aggiornato).
Allora, che ne dite? C'è qualcosa che secondo voi dovrei correggere o cambiare?
Grazie!
emmegili

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Capitolo 5
*** 5. ***


5.
 
La luce mi acceca. Strizzando gli occhi, brontolo in un lamento.
- Muoviti! –strilla quella che sembra la voce di mia madre – Si può sapere dove hai la testa? Non ti sei nemmeno lavata, ieri sera!
Lentamente apro gli occhi. Mi sono addormentata alla scrivania, ieri sera, la testa giacente sulle braccia distese sul tavolo.
- Hai quindici minuti, Rachele! Vedi di sbrigarti!
Scatto in piedi. Mia madre attraversa a stanza con ampie falcate, per poi uscire quasi sbattendo la porta.
Svelta, arraffo la biancheria pulita che ieri sera ho buttato sul letto e, aprendo l’armadio, ne tiro fuori il primo paio di jeans che trovo e la camicetta rosa perla in cima alla pila.
Corro in bagno a farmi una doccia. Lascio che l’acqua fredda mi svegli definitivamente, e che il profumo di pesco del bagnoschiuma mi inebri il naso.
Una volta vestita, passo davanti, per caso, allo specchio appeso al muro. In una smorfia di dolore, noto che più che dei capelli color ebano, i miei assomigliano ad un cespuglio di sterpaglie.
Prendo l’elastico nero appoggiato accanto al lavandino e, tornando in camera, mi faccio una coda di cavallo, tanto per renderli meno vistosi.
Raccatto lo zaino buttato nell’angolo ed esco dalla stanza in fretta, saltando i gradini delle scale due e due. Proprio davanti alla porta, con la mano già sulla maniglia, mi ricordo di aver lasciato il cellulare sulla scrivania.
- Cazzo... –impreco in un lamento, già voltandomi per andarlo a recuperare.
- Rachele! –mi rimprovera mia madre, spuntando dalla cucina. Sento la risata di Lucas, che sta facendo colazione.
- Scusa –borbotto tornando in camera.
Tutta la fretta, all’improvviso, davanti alla scrivania, sparisce.
Fisso la tavola di legno bianco, indecisa.
Il tempo pare fermarsi fino a quando, in uno scatto, raccolgo il cellulare e i quattro fogli che ho scarabocchiato ieri sera, infilandoli nello zaino.
 
Fisso lo schermo del cellulare mordendomi un labbro, mentre il numero di telefono che ho rubato dalla locandina ieri pomeriggio aspetta solo di essere chiamato. Il mio dito indugia sul tasto verde...
- Ehi –il sorriso di Oliver è uno di quelli assassini, che oltre ad illuminare a lui gli occhi, illuminano a me la giornata.
- Buongiorno –ricambio spegnendo il cellulare e poggiandolo sul sedile.
Lui si siede accanto a me, mentre l’autobus numero 3 riparte.
- Cos’era, il numero di un ragazzo? –mi sorride divertito.
- No. –per un momento resto in silenzio – E’ il numero del giornalino della scuola. Cercano dei giornalisti. Ieri sera ho provato a buttare giù qualcosa e...
Oliver pare illuminarsi.
- Davvero? –chiede in un sussurro.
Annuisco stringendo le labbra.
- Ti va...ti va di leggere? –sorrido timidamente.
- Certo! –scatta entusiasta, facendomi sorridere. Mi chino sullo zaino e ne tiro fuori i fogli stropicciati.
- Sei mai stato a Manarola, Oliver? –gli chiedo porgendoglieli.
Lui scuote la testa mentre, concentrato, si mette a leggere.
 
Anni fa andai in vacanza alle Cinque Terre. Mi piacque tutto di quel luogo, ma ci fu un paese in particolare, Manarola, che mi colpì più di tutti.
Sorgeva a ridosso di un’alta scogliera, come su tutto lo spazio per costruire un paese fosse stato occupato all’improvviso; un luccicante mare blu lapislazzulo si infrangeva sulle rocce grigiastre.
Nonostante l’acqua paresse minacciosa, decine di pescatori sulle loro barche galleggiavano al largo, indifferenti alle onde che sembravano gareggiare per chi si infrangesse prima sull’alta scogliera grigia.
Le case parevano confetti in una scatola troppo piccola per contenerli tutti: alte, strette e di mille colori, erano vicine, attaccate tra loro come se ci fosse troppo poco spazio per tutte.
Il verde non mancava di certo, a Manarola: tappezzava tutto lo spazio che non era occupato dalle case o dalle stradine, creando un contrasto di colori che risaltava a colpo d’occhio.
Una cosa che invece non mancava, in quel paese, era il silenzio: il vociare della gente, il rumore delle onde sugli scogli, il motore delle barche che si allontanavano dalla riva e il parlarsi dei gabbiani rendevano Manarola pieno di vita.
Nell’aria aleggiava il classico odore di mare, quell’odore di sale che pizzica il naso non appena lo si respira, quello che dà la sensazione di ripulire i polmoni dalla sporca aria di città.
Ma era di notte, che si assisteva al vero spettacolo: Manarola si accendeva di piccole luci calde, come se mille lanterne fossero volate lì per impedire all’oscurità di nascondere la bellezza di quel luogo.

 
- Allora, com’è? –chiedo impaziente, mordendomi il labbro inferiore.
Lentamente, Oliver si volta verso di me.
- Intenso –sussurra in un sorriso, imitando la mia reazione di ieri sera.
- Oh, finiscila! –gli tiro un pugno sul braccio, seppur sorridendo –Stavo parlando sul serio!
- Va bene, va bene –mi sorride porgendomi i fogli –Diciamo solo che devi chiamare quel numero, Ele. Il tuo è un talento. Bellissimo.
Un po’ sbigottita dal sentirlo usare il soprannome con il quale mi chiamano le persone a cui tengo di più, un po’ sbigottita da ciò che ha detto, ci metto un po’ a reagire.
- Ehm... –tossisco riscuotendomi – Non lo so...
Oliver sospira, poi mi guarda negli occhi.
- Facciamo che se tu non chiami quel numero, io non posto alcun video su Internet –conclude soddisfatto.
- Cosa? –gli chiedo schifata –Non puoi fare questo, Dawn!
Lui non mi risponde e distoglie lo sguardo, mentre l’autobus si ferma alla mia fermata.
Mi alzo e raggiungo il corridoio tra i due sedili.
Faccio un passo, ma poi mi volto e, con gli occhi chiusi, rassegnata, mi rivolgo ad Oliver.
- Quale cover vuoi cantare, nel video che posterai? –gli chiedo mentre sul suo viso compare un sorriso sornione.
- Devo ancora decidere –mi risponde –Ma pensavo ad un arrangiamento voce e chitarra.
- Ottima idea –sorrido.
Restiamo a fissarci in silenzio, poi una signora, dietro di me, mi borbotta di muovere le chiappe.
Sbigottita, mi scuso e urlo un saluto ad Oliver, che ride. Mi dirigo verso l’uscita.
- Ehilà, Rachele! –mi volto di scatto verso di lui, che mi lancia il mio cellulare.
- Ma cosa... –borbotto.
- Stai più attenta alle tue cose! –urla divertito, mentre la signora dietro di me, arrabbiata, mi spinge fuori.
 
Stringendomi nel cappotto, mi decido a premere il tasto verde sullo schermo del telefonino.
Lo porto all’orecchio, mentre gli studenti iniziano ad entrare a scuola.
- Pronto? –la voce dall’altra parte è quella di una ragazza. Pare affannata e di fretta.
- Sì, pronto. –rispondo un po’ impacciata, calciando un sassolino con la scarpa –Sono Rachele Nardi, chiamavo per il giornalino...
- Ah, il giornalino! –si illumina –Sì, sì, hai visto la locandina...Senti, ora non posso parlarti...ci vediamo dopo scuola al Caffè in centro, okay?
- Sì, d’accordo...
La mia risposta muore nell’aria, il bip-bip del telefono che mi avverte che la telefonata è stata chiusa.
In un sospiro, noto che Arianna si sta avvicinando, perfettamente in orario. Guardo l’entrata della scuola, sempre più gremita di studenti, mentre lei scuote il braccio sinistro, salutandomi.
Sorrido, facendo saltellare il cellulare da una mano all’altra.
- Buongiorno, bellezza! –esplode Arianna avvicinandosi, i capelli biondi intrecciati in una disordinata treccia laterale.
- Ari –la saluto sorridendo.
Prendendomi a braccetto, Arianna si incammina verso l’entrata.
- Devi raccontarmi qualcosa? –chiede sorridendo maliziosa.
Impegnata a cercare di spegnere il cellulare, non le rispondo.
Tengo schiacciato il bottone a lato.
 
Spegnere il telefono?
 
Mi arriva un messaggio. Confusa, annullo l’operazione e lo apro. E’ da un numero sconosciuto.
 
Stai attenta a dove lasci il cellulare, qualche scapestrato potrebbe tirarsi giù il tuo numero...Buona giornata, giovane Alcott!

 
Ridacchiando, salvo in memoria il numero di Oliver, gli invio una risposta affrettata e spengo il telefonino.
- Ehilà, bambina sperduta? –Arianna mi sta agitando le mani davanti al viso, con un’espressione buffa.
- Perché hai sorriso, guardando il cellulare? –mi chiede con fare indagatorio –Non mi pare di averti scritto già qualcosa, oggi.
Le lancio un’occhiata mentre percorriamo il corridoio principale.
- Infatti. –concludo con un mezzo sorriso.
- Allora scommetto che è Oscar! –si illumina all’improvviso, parandosi davanti a me e bloccandomi la strada.
- Si chiama Oliver –puntualizzo in un sospiro.
- Lo so bene. Ma è divertente chiamarlo Oscar. –borbotta guardando oltre me, con un mezzo sorriso ebete stampato in faccia, quasi parlasse da sola.
Resta qualche secondo così, poi, come se fosse presa da una scossa improvvisa, si riprende e torna a guardare me.
- Quindi è successo qualcosa, ieri sera. –dice sorridendo compiaciuta.
- Non è successo proprio un bel niente! –ribatto, in una smorfia. Arianna scoppia a ridere, mentre riprendiamo a camminare.
- Non ancora, per lo meno –borbotta sorridendo.
Alzo gli occhi al cielo, mentre la campanella segna l’inizio delle lezioni.
 
Ding–dong.
Apro la porta del Caffè, e un calore mi investe, accompagnato dal profumo di caffeina e cioccolato.
Richiudo la porta di vetro, alzando lo sguardo ed osservando curiosa il movimento della campanella d’ottone che trilla ogni volta che entra qualcuno.
Il colore arancione vivo delle pareti è quasi rilassante e le scatole di plexiglass accanto all’entrata stracolme di cioccolatini di ogni tipo rendono l’ambiente familiare.
Mi guardo attorno, osservando i clienti mentre mi scaldo, sfregandole tra di loro, le mani ghiacciate.
Seduta ad un tavolo accanto alla parete di vetro, una ragazza dalle trecce rosse gioca con una bustina di zucchero. Sembra aspettare qualcuno.
Mi avvicino, sorridendo timida.
-Ehm... –borbotto, improvvisamente ricordandomi di non conoscere nemmeno il nome della persona che devo incontrare.
La ragazza alza lo sguardo, stanca.
- Rachele Nardi? –chiede, flebile.
Sollevata, annuisco.
- Siediti. –mi sorride, ma sembra sforzarsi. Mi accomodo davanti a lei, imbarazzata.
La ragazza non parla, così io rivolgo lo sguardo alla parete trasparente, aldilà della quale i lampioni si sono appena accesi, per far fronte all’imminente arrivo del buio.
Una cameriera dai capelli corti e neri come la pece si avvicina al tavolo, masticando una gomma.
- Cosa ti porto? –mi chiede tirando fuori dal grembiule un taccuino ed una penna.
Colta alla sprovvista, lancio un’occhiata alla ragazza davanti a me. Lei non se ne accorge nemmeno, intenta ad osservarsi le unghie smaltate di nero.
- Uhm...be’... –ritorno a guardare la cameriera e le sue labbra rosso fuoco. Lei ricambia accigliata, mentre gli enormi orecchini a cerchio che le pendono dai lobi delle orecchie tintinnano.
- Una cioccolata calda? –chiedo più a me stessa che a lei.
La cameriera annuisce spazientita, masticando la gomma con la bocca aperta.
- Panna?
- No, grazie.
- Cioccolata fondente, normale o bianca? –continua la ragazza annoiata, probabilmente prendendomi per stupida.
- ...normale –rispondo in un sorriso. Lei alza le sopracciglia e, guardandomi strano, si gira borbottando qualcosa che suona come “Arriva subito”.
Interdetta, torno a rivolgermi alla ragazza davanti a me.
- Non è l’esempio di cameriera perfetta, ma che vuoi farci... –mi sorride.
Rincuorata, ricambio il sorriso.
- Io sono Camilla, ma tutti mi chiamano Cami. –continua, sempre armeggiando con la bustina di zucchero di canna.
- Piacere –sorrido torturandomi le mani.
- Quindi –continua –sei interessata al giornalino della scuola, Rachele?
No. Oliver e il mio professore di letteratura lo sono. No, non è vero. Anche io sono interessata. O no?
- Sì. –annuisco.
La cameriera torna al tavolo, e mi appoggia la tazza fumante sotto il naso.
- Grazie –le sorrido. Lei sospira e se ne va.
Avvolgo le mani attorno alla ceramica calda.
- Hai mai scritto...qualcosa? –mi chiede Cami in una smorfia.
Sorridendo, le dico di sì.
- Hai qualcosa da farmi leggere?
Prendo un respiro, poggiando sul tavolino la cioccolata calda.
- A dire il vero, sì. –rispondo frugando nello zaino.
Le porgo i fogli impacciata.
Cami sospira e si mette a leggere.
In attesa che parli, decido di aggiornare Oliver. Metto la mano in tasca e ne tiro fuori il cellulare.
 
Colloquio in corso. Dita incrociate. :)
 
Invio il messaggio e appoggio il telefono sul tavolo, accanto alla tazza fumante dalla quale bevo un sorso di cioccolata, in attesa.
Cami è concentrata, gli occhi verdi che corrono attenti sul foglio.
Il mio telefono vibra.
 
Fammi sapere. Se non ti prendono, ci parlo io. In bocca al lupo, Alcott.
 
Sorrido riponendo ancora il cellulare in tasca.
Quando torno a rivolgere il mio sguardo su Cami, lei mi sta guardando, cercando, credo, di decifrarmi.
Non l’ho mai vista a scuola, eppure ne dirige il giornalino. Non dev’essere una che dà nell’occhio.
- L’hai scritto tu? –mi chiede.
- Certo –rispondo, forse addirittura indignata.
- E’ un gran bel brano, Rachele –commenta ritornandomi i fogli –Potresti tornarci utile. Voglio dire, nessuno dei nostri giornalisti ha questo modo di scrivere. La gran parte si limita a scrivere. Tu...tu racconti.
Stupita, apro la bocca per ringraziarla, ma non mi escono le parole.
- Facciamo così. Il mio numero ce l’hai. Elabora un paragrafo su qualsiasi cosa, ma quando lo leggo deve toccarmi, devo provare delle emozioni. Quando l’hai finito, fammi uno squillo. Se è bello quanto questo, sei dentro. Altrimenti, nada. Devi stupirmi. – decide.
Annuisco lentamente, guardando la mia tazza.
- Okay. –convengo –Qualsiasi cosa?
- Qualsiasi cosa. Ma vedi di non metterci troppo.
Cami si alza, infilandosi il cappotto.
- Quella te la offro io –aggiunge alludendo alla mia cioccolata calda –E vedi di non farmene pentire.
Passa al bancone a pagare e poi, senza nemmeno lanciarmi uno sguardo, se ne va.
 
- Fantastico! –la voce di Oliver, aldilà del telefono, è pura felicità.
- Sì, be’...si vedrà. –sorrido infilando le chiavi nella serratura di casa, con la mano libera.
- Farai strada, Rachele...e poi potrò dire, fra vent’anni, quando sarò famoso anche io, di essere stato un tuo amico d’infanzia. E allora ti ritroverai circondata dai giornalisti, assetati di risposte. La brillante scrittrice con l’attraente cantautore...
Scoppio a ridere mentre la porta si apre, entrando in casa.
- Continua a sognare –rido ancora, chiudendomi la porta alle spalle. Raggiungo la cucina, ancora con il telefono accanto all’orecchio. Con un gesto saluto mia madre che, vedendomi, mi sorride.
- Puoi contarci.
- Sì, ma...Oliver?
- Sì?
- Niente strane fantasie. –sottolineo accigliandomi.
Oliver scoppia a ridere di pancia, dall’altro capo della cornetta. La sua risata è talmente contagiosa, che mi ritrovo a sorridere, osservando fuori dalla finestra.
- Hai già deciso che canzone cantare, nel video? –gli chiedo una volta che ha smesso di ridere.
Oliver sospira, cercando un punto da dove iniziare il discorso.
- Sono indeciso...
- Quali sono le opzioni? –chiedo sorridendo al vetro della finestra.
- Non penso te le dirò. Non adesso, perlomeno. –lo sento sorridere.
Sbuffo.
- Andiamo, Oliver... –mi lamento.
Mia madre mi lancia un’occhiata mentre inizia ad apparecchiare la tavola.
Oliver ridacchia.
- Ci vediamo domani, Ele.
- Ehi, no, aspetta! –quasi grido.
- Cosa c’è?
- Posso sentire le canzoni tra cui sei indeciso, domani? Voglio dire, potrei darti una mano... –tento, mentre con una mano faccio un inconsapevole segno di fermarsi a mia madre. Lei mi lancia un’occhiata e ridacchia, scuotendo la testa.
- Non lo so, Ele... –borbotta. Alzo gli occhi al cielo.
- Non divulgherò nulla, promesso. E poi mi devi aiutare a cercare un tema per il racconto. –spiego lentamente.
Oliver sospira, ma percepisco il suo sorriso.
- Vieni da me dopo scuola?
Colta alla sprovvista, boccheggio una sequenza di “ehm” e “uhm”.
- Non mi ricordo dove abiti, Oliver –tossisco piano.
- Ti passo a prendere fuori scuola.
- Con il minivan di tua zia? –chiedo con un sorriso furbo da orecchio a orecchio.
- Sì, con il minivan di mia zia –sbuffa ridacchiando –Sei impossibile, a volte...
- Okay, grazie –sorrido –Finiamo alle quattro, domani.
- Ci sarò. –assicura –E saluta tua madre da parte mia. L’ho sentita borbottare qualcosa, prima.
Lancio un’occhiata a mia madre, che continua tranquillamente il suo lavoro.
- D’accordo. Ci si vede.
- A domani, Alcott.
Sorridendo, chiudo la telefonata.
- Ti saluta –avviso mia madre, ancora interdetta.
Lei alza subito lo sguardo, illuminata.
- Oh. –esclama –Ringrazialo.
Annuisco.
- Sai, mamma, oggi ho parlato con una ragazza del giornalino della scuola. –le racconto sedendomi sul piano della cucina.
- Ah, sì? –mi chiede lei curiosa –Non sapevo scrivessi.
- Sì, be’... –sorrido impacciata –Ci ho provato. Sotto suggerimento di Oliver. E mi piace. Tanto. Cami ne è rimasta soddisfatta, direi, e ...
- Frena, giovane scrittrice, chi è Cami? –mi domanda posando l’ultimo bicchiere di vetro colorato in tavola, con un sorriso alquanto divertito.
- La ragazza del giornalino. –rispondo, come se fosse ovvio.
- Ah, scusa –ride mia madre, raggiungendomi –E posso leggere, io?
Arraffo lo zaino accanto a me e ne tiro fuori, per la terza volta in un giorno, i fogli stropicciati.
Quando li ha presi, le annuncio di aver bisogno di una doccia e, mentre lei si appoggia al bancone, gli occhi sul primo foglio, io esco dalla cucina e raggiungo la mia stanza.
 
Emozioni. Emozioni. Deve far trapassare le emozioni. Emozioni.
Quando si provano le emozioni? Quando si è innamorati.
Nah, è banale.
Quando si è tristi.
E quand’è, che si è tristi?
Quando si prende un brutto voto in un test.
No, no, più profondo.
Quando...quando litighi con qualcuno cui vuoi bene!
Più profondo, più profondo ancora.
Quando muore qualcuno che ami...
Bang.
Quando muore qualcuno che ami!
Fantastico, fantastico, trovato il tema.
Però...però non è mai morto nessuno che amassi, per fortuna. Come faccio a descrivere una sensazione che non ho mai provato?
E’ proprio quello che fa uno scrittore, piccola sprovveduta.
Giusto. Uno a zero per la vocetta che mi risuona in testa.
Smetto di fissare il muro viola davanti a me e scendo dal letto. Mi siedo alla scrivania, fissando il foglio bianco.
Avevo detto ad Oliver che mi avrebbe aiutata a trovare il tema per il racconto, però.
Non vedo il problema. Se l’hai già trovato, l’hai già trovato. Un problema in meno.
Annuisco, occhi socchiusi, seguendo il dibattito mentale. Questa strana vocetta ha ragione.
Prendo la penna, riscuotendomi, e ci giocherello mordendomi un labbro.
Forse dovresti creare dei personaggi veri e propri, Rachele.
Annuisco, infilando le cuffiette nelle orecchie e facendo partire una canzone triste. Chiudo gli occhi, prendo un respiro profondo e aspetto che la malinconia della canzone mi faccia pungere gli occhi.
Ed inizio a scrivere.
 
Una fitta allo stomaco, che ti toglie il respiro, impedendoti anche solo di lanciare un ultimo grido disperato, che ti punge agli occhi come migliaia di piccoli aghi e che però ti impedisce di piangere, che soffoca i tuoi singhiozzi quasi fossero la cosa più proibita del mondo.
-Cassie, ti senti bene? –un sussurro lontano, dalla voce ancora rotta dal pianto.
Scuoto la testa. O almeno è quello che vorrei fare.
Le gambe cedono, e mi ritrovo a terra, rannicchiata su me stessa, aggrappata ai miei stessi vestiti, trafitta da un dolore disumano.
- Cassie? Cassie! –ancora quella voce, anche se questa volta è un po’ più decisa dell’ultima volta. Ancora stravolta, ma un po’ più umana. Preoccupata?
Qualcuno mi si accuccia accanto, cingendomi le spalle con un braccio. Ho gli occhi appannati dalle lacrime, che ancora non si decidono a lasciarsi andare.
Alzo la testa tremante sulla persona accanto a me. E’ mia sorella Lana. Ha i capelli disordinati, quasi non ci fosse stato tempo di pettinarli. Il volto stravolto, arrossato dalle lacrime.
Non riesco a piangere. Eppure è tutto quello che vorrei fare: scoppiare in un lungo, lunghissimo, ininterrotto pianto liberatorio.
La fitta allo stomaco mi prende tutto il corpo, invadendolo di paura e terrore. Inizio a tremare per il freddo.
Caccio un urlo lacerante, che squarcia l’aria, che mi deruba i polmoni di tutto l’ossigeno al loro interno, che mi fa accasciare a terra scossa dai singhiozzi, accompagnati dalle lacrime che finalmente si sono decise ad arrivare.
 
Lentamente, quasi potesse scoppiare una granata, rimetto il tappo mordicchiato alla penna.
Finito, piccola sprovveduta.
La vocina nella mia testa è quasi soddisfatta. Sospiro. E’ proprio quado inizi a sentire le voci che sei ufficialmente andato. Caput. Adios.
Nah. E’ solo il tuo istinto di scrittrice che viene fuori.

Persa. Perduta. Smarrita.
Sento bussare alla porta.
- Avanti! –esclamo guardando l’entrata alla mia stanza.
Mia madre sbuca dall’uscio, sorridendo.
- Ehi, tesoro –dice entrando –E’ pronta la cena.
Annuisco, togliendomi gli auricolari. Il modo in cui si avvicina, impacciata, con i miei fogli in mano, è quasi buffo.
- Va tutto bene, mamma? –le chiedo.
- Oh, sì, sì, certo. Ho solo...letto quello che hai scritto, Rachele –sorride porgendomi i fogli. Li prendo, le cuffiette che mi ricadono appese al collo.
- E’ davvero bellissimo, tesoro. Un piccolo capolavoro, oserei dire. –sussurra orgogliosa.
Sorrido.
Brava, piccola sprovveduta. Farsi un pubblico è il primo passo verso il successo.
- Grazie. Sono contenta che ti piaccia.
Si passa le mani sulle cosce.
- Quindi, per il giornalino?
- Devo elaborare un racconto di prova. Sarà decisivo –sorrido.
- Hai già pensato a qualche cosa? –mi chiede, con un mezzo sorriso.
Mi lecco le labbra per un secondo, dubbiosa.
- Forse. Niente di che. –mormoro in un sorriso.
Mia madre annuisce, quasi capisse il mio bisogno di tenere per me le mie storie.
- Ti aspetto di sotto. –mi sorride e se ne va.
Mi torno a rivolgere ai fogli intrisi di inchiostro nero. Rileggo le parole.
Ho sempre voluto avere una sorella. Sorrido leggendo il nome di Lana. E Cassie, oh, Cassie è un nome che mi è sempre piaciuto.
E pensare che non hai progettato niente e che ti è venuto d’istinto. Ora muoviti, che ho fame.
Appoggio le cuffiette e il lettore mp3 accanto alla penna e mi alzo dalla sedia, con un mezzo sorriso.

NOTA DELL'AUTRICE:

Eccomi qui (ancora -eh, già. Poveri voi.)!
Ho aggiornato principalmente perchè nessuna delle storie che seguo aggiorna da mesi, ed io inizio a deprimermi. XD
Anyway, vi avviso che questa vocetta diventerà un personaggio fisso, d'ora in poi. Mi serviva qualcuno a cui affidare commenti e battutine. Denunciatemi pure per sfruttamento di personaggi...
Okay!
Grazie mille!

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Capitolo 6
*** 6. ***


6.
 
- Voglio dire, ho bisogno di un fidanzato. –quello di Arianna sembra quasi un pianto disperato.
Povera, povera, povera ragazza.
Continuo a camminare, ascoltando Arianna con un orecchio.
- Mi sento così sola, da quando tu hai incontrato Oscar. Voglio dire, è il Principe Azzurro. E’ bellissimo, è dolce, è simpatico, suona la chitarra, gli piaci parecchio e io...
Aspetta, cosa?
- Ari, smettila di dire sciocchezze. Non sei sola. –la interrompo lanciandole un’occhiata. Guardo una coppia di fidanzatini dirigersi verso la direzione dalla quale io e Arianna siamo venute, camminando mano nella mano tra gli altri studenti. Sospiro, mentre ci passano accanto.
Oh, ma guarda che carini, Romeo e Giulietta! Da voltastomaco.
- Ma ora tu passi tutto il tuo tempo con Omar e io...io devo stare con Rita! –pronuncia il nome della sorella con disgusto, in un lamento.
- Io non passo tutto il mio tempo con Oliver –sottolineo accigliandomi.
Lei smette di camminare e mi guarda scettica, incrociando le braccia al petto.
- Cosa fai dopo scuola, usciamo insieme? –mi chiede, quasi già sapendo la risposta.
Chiudo gli occhi.
- Non posso. Mi vedo con Oliver. –mormoro a denti stretti.
- Visto?
Arianna allarga le braccia, disperata.
Quella non è Camilla?
Mi volto verso le grandi finestre del corridoio. Appoggiata ad un balcone aperto, Cami guarda fuori.
- Torno subito! Tu vai in classe. –avviso Arianna allontanandomi. Lei sospira scuotendo la testa ed entra in classe.
- Ehi, Cami! –esclamo avvicinandomi.
Lei volta appena la testa e quando mi vede torna a rivolgere lo sguardo al panorama.
- Buongiorno, Rachele –gracchia.
Mi appoggio accanto a lei.
- Ho pronto il racconto. –le spiego, affannata, in un sorriso. Lei mi lancia un’occhiata dubbiosa.
- Di già?
Annuisco, confusa da tutto quel suo scetticismo.
Pff, qui qualcuno non sa apprezzare il talento...
- Fammi vedere.
Le consegno il foglio. Lei gli dà una scorsa, quasi annoiata.
- Ora scusami, ma devo andare. –la informo –Fammi sapere, poi.
- Sì, sì, certo.
Camminando all’indietro, lo sguardo confuso ancora sulla ragazza, raggiungo la porta della mia classe, proprio mentre suona la campanella.
Quando mi vede, Arianna si sbraccia per farsi vedere, seduta al banco. Faccio per avvicinarmi, quando un ragazzo le si affianca, sorridente. Mi blocco e guardo la scena da lontano, un sorriso divertito sulle labbra.
Mi chiedo se Arianna non abbia poteri magici. Si lamenta di non avere un fidanzato e puff, ecco un bel ragazzo! Senti, non è che potresti chiederle di lamentarsi del fatto che non ha mai conosciuto di persona Johnny Depp? Anche Matt Damon va bene, eh...
La mia amica pare stupita quanto me, perché gli occhi le brillano di sorpresa mentre, sorridente, giocherella con un riccio biondo.
Ha buon gusto, la tua amica...
Il ragazzo è alto, un fisico da atleta intravisibile da sotto la maglietta blu e la felpa grigia. I capelli, curiosamente ambrati, sono corti, mentre un ciuffo, sul davanti, è sparato in aria, donandogli un’aria affascinante. Non l’ho mai visto prima, dev’essere nuovo.
Decisamente sexy.
Sospiro davanti alla sfrontatezza della mia “coscienza”.
Certo, senza nulla togliere ad Omar, ehm...Oscar...uhm...Oliver.
Scuoto la testa con violenza.
- Buongiorno! –il professore di matematica entra in classe e, vedendomi in piedi, sulla porta, mi lancia un’occhiata.
- Be’, Nardi? –mi chiede annoiato.
Mi volto verso di lui, sorpresa.
- Ehm, salve! –sorrido imbarazzata.
Carino il parrucchino del tipo.
- Si è forse dimenticata dov’è il suo banco?
- No, è sempre quello accanto ad Arianna... –spiego, senza nemmeno sapere perché.
Lui guarda oltre la mia spalla.
- No, non lo è, Nardi. –sogghigna, quasi divertito.
Mi volto verso Arianna e il mio banco, occupato dal ragazzo con cui la mia amica stava parlando fino a poco fa.
Apro la bocca e poi la richiudo, presa alla sprovvista.
- Si vada a sedere, su! –incita il professore in un’occhiata. Annuisco, mentre con lo sguardo noto che l’unico banco libero è quello accanto ad Edgardo, la vittima preferita dai bulli. Innanzitutto emarginato per quel suo nome impronunciabile, Edgardo non è un tipo socievole. E’ timido, non parla mai con nessuno. E’ talmente magro da essere quasi trasparente e quegli occhiali troppo grandi non contribuiscono certo alla sua immagine. Durante le lezioni dorme, dubito sappia anche solo i nomi degli insegnanti. Quelle poche volte che l’ho sentito parlare, inoltre, si è dimostrato un tipo dall’ironia pungente.
Non ho mai avuto nulla contro il povero Edgardo, però preferirei sedermi accanto a qualcuno un po’ meno...ostile.
Prendo un respiro profondo e, occhi chiusi, mi dirigo verso il banco libero vicino a quello di Edgardo.
- Ciao, Ed –gli sorrido, sperando per il meglio.
Lui mi guarda inarcando un sopracciglio.
Santo Padre.
- Rachele Nardi, giusto? –bofonchia disinteressato.
- Proprio io –balbetto –Quindi, ehm, posso...sedermi?
Edgardo mi squadra per qualche infinito secondo, per poi alzare le spalle e distogliere lo sguardo.
Quanta generosità, dico sul serio...
Mi siedo sulla sedia.
- Prima di chiamare qualcuno di voi alla lavagna –sospira il professore sistemandosi gli occhiali sul naso –Mi è stato chiesto dai piani alti di presentare un nuovo studente.
- Oh, fantastico –borbotta Edgardo talmente sottovoce da farmi sospettare che, a parlare, sia stata invece quella mia inquietante vocetta.
La gioia del professore è tanta quanta quella del mio compagno di banco quando, per presentare il ragazzo che mi ha rubato il posto accanto ad Arianna, si alza dalla sedia.
- Prego... –il professore tossicchia accigliato, quando nota che il nuovo arrivato sta parlando con Arianna, che ridacchia.
- Be’, quando la signorina Orlandi avrà smesso di flirtare con il nuovo arrivato, ve lo potrò presentare. –esclama pacato fissando la mia amica, che si blocca, arrossisce e mormora una scusa, gli occhi bassi.
Il suo compagno di banco, interdetto, apre la bocca e poi la richiude di scatto, come me poco fa.
- Può raggiungermi, lei? –gli chiede il professore, sempre con quel suo modo di fare annoiato e disattento.
- Certo. –quello del ragazzo è un sussurro imbarazzato, mentre si alza e si affianca all’insegnante.
- Bene bene –sospira l’uomo –Questo giovincello qui è Leonardo Vitali. Vuole parlarci un po’ di lei, Vitali?
Il professore sospira e torna a sedersi, compilando alcune scartoffie. Leonardo, imbarazzato, sorride alla classe. Lancia un’occhiata ad Arianna, che lo incita con un movimento della testa.
- Be’, ecco...Il mio nome è Leonardo, ma tutti quanti mi chiamano Leo, quindi preferirei se mi chiamaste Leo. –sorride, tormentandosi le mani.
- Su, vada avanti –lo esorta il professore con un gesto della mano, senza staccare gli occhi dal registro sulla cattedra.
- Mi piace lo sport, la pallacanestro specialmente. Giocavo in una squadra, nella mia vecchia città, ma ora che mi sono trasferito...insomma, so che questa scuola non ha una squadra e quindi...
Grandi capacità colloquiali, il ragazzo...
- Potrebbe fare il presentatore –mormora Edgardo, facendomi sorridere.
Forse sentendolo bisbigliare, o forse vedendo me sorridere di punto in bianco, Leo sposta lo sguardo su di noi.
Notandolo, Arianna lo imita.
“Che stai facendo?” mima con le labbra, l’espressione quasi seccata.
Presa alla sprovvista, non le rispondo e prendo a scarabocchiare sul mio quaderno.
- E quindi...
Quello di Leo è un boccheggio.
- Ringrazi il cielo che insegno matematica, Vitali. –commenta in un’occhiataccia il professore, sollevando delle risatine da parte dai miei compagni di classe.
Leo biascica dei monosillabi, prima di essere rimandato al posto in modo brusco.
Non alzo lo sguardo dal foglio, mentre il professore inizia a spiegare.
 
- Si può sapere cosa ti è preso? –sibila Arianna aggredendomi, alla fine della lezione.
Spiazzata, spalanco la bocca. Lancio un’occhiata ad Edgardo che, accanto a me, sembra non accorgersi di nulla. Mi alzo in piedi e trascino Arianna in un angolo della classe.
- Cosa è preso a me? –chiedo –Cosa è preso a te! Voglio dire, quel ragazzo mi ha rubato il posto! E tu gliel’hai lasciato fare!
Arianna si acciglia.
- Sul serio? Hai intenzione di giocare questa carta con me? –esclama.
- Cosa? –sussurro, confusa.
Arianna, esasperata, alza gli occhi lucidi al cielo.
- Oliver. Oliver mi sta rubando il posto accanto a te. –spiega, cercando di controllarsi.
Oliver. L’ha chiamato Oliver.
- Non dire sciocchezze. Ci siamo visti un paio di volte e non mi sono mai sottratta ad un pomeriggio con te per stare con lui. –sussurro piano.
- Che mi dici di oggi pomeriggio, allora?
Arianna ha gli occhi umidi. Per la frustrazione, immagino.
- Me l’ha chiesto prima lui.
La mia amica sospira in un tremolio della voce. Si passa il palmo delle mani sotto gli occhi.
- Fa niente, tanto oggi pomeriggio esco con Leo.
Detto questo si volta e se ne va senza nemmeno degnarmi di uno sguardo. Tengo gli occhi su di lei, incredula.
Come può dire che sto sempre con Oliver, quando l’ho appena conosciuto, quando ci ho passato insieme un paio di sere?
Seduto accanto alla mia migliore amica, Leo cerca di consolarla.
Consolarla?
In un urletto nervoso, a grandi falcate li raggiungo.
Appoggio le mani sui loro banchi e li guardo dall’alto.
- Non ci sto. –annuncio.
Arianna mi guarda stupita. Leo, interdetto, alterna il suo sguardo tra me e lei.
- Rachele... –tenta Arianna.
- No, adesso mi ascolti. –la interrompo brusca –Io non ho mai avuto intenzione di emarginarti dalla mia vita e non l’ho mai fatto. Sei una delle persone più importanti per me e non litigherò con te per un belloccio che gioca a pallacanestro.
Lancio un’occhiataccia a Leo, che corruga la fronte.
- Non è per Leo. –puntualizza indifferente Arianna –Ma per Oliver.
- Non so chi tu sia –interviene Leonardo–Ma forse è meglio se te ne vai.
La mascella mi cade. Spalanco la bocca. Lancio un’occhiata ad Arianna, in cerca di sostegno.
Lei non muove un muscolo.
- Ha ragione. –si limita a mormorare.
Che cosa?
- Che...che cosa? –soffio.
Arianna distoglie lo sguardo. Leonardo, invece, continua a guardarmi. Devo sembrare distrutta, perché i suoi occhi blu si ammorbidiscono.
Mi sento affiancare qualcuno. Quasi mi viene un infarto, quando noto che è Edgardo.
- Mi spiace interrompere i vostri sereni colloqui –dice con aria solenne –Ma mi serve la mia compagna di banco.
Mi posa una mano sulla spalla e, lentamente, mi trascina via.
Arrivati al banco, mi siedo, ancora sotto shock.
- Grazie –mormoro ad Edgardo.
- Non ti montare la testa, principessa.
Nonostante tutto, però, lo vedo sorridere.
 
- Rilassati, principessa. E’ solo una crisi momentanea. Le passerà. –mi rassicura Edgardo, mentre camminiamo verso l’uscita della scuola, masticando a grandi bocconi un panino –E poi, credo fermamente che durerà al massimo due giorni. Voglio dire, quello ha le capacità colloquiali pari a quelle di un rospo sovrappeso.
Ridacchio.
- Io non ho idea di come mai tu sia così gentile e estroverso, Ed. –sentenzio- Ma sei una brava persona.
- E’ semplice, principessa. –spiega fermandosi nel mezzo del corridoio – Tu ti soffermi alle apparenze e alle voci che circolano, mentre io, prima di giudicare una persona, misuro alcuni parametri.
- Sarà. –bofonchio, uscendo dall’edificio. Oliver mi aspetta accanto al cancello.
Prendo un respiro profondo.
- E’ quello, Oliver? –chiede tranquillamente Edgardo, masticando deliberatamente quel suo panino.
Sbigottita, annuisco.
- Non è che me lo presenteresti? –domanda, come se fossimo amici di vecchia data.
- Be’...se...se proprio ci tieni. –balbetto, riprendendo a camminare.
Quando raggiungiamo Oliver, lui sorride, mani in tasca.
- Ehilà, Alcott! –mi saluta raggiante.
- Ciao –cerco di sorridere.
- Siccome la principessa, qui, è un po’ fuori fase... –interviene Edgardo, cuffie appese al collo, panino quasi finito in una mano – Io sono Ed.
Edgardo gli porge una mano ed Oliver, sorridente, gliela stringe, un po’ divertito.
Scuoto la testa.
- Sì, scusate. Edgardo, questo è Oliver. Oliver, lui è Edgardo, il mio nuovo compagno di banco.
- Solo Ed. –conviene Edgardo stringendogli la mano.
- D’accordo, Solo Ed. –sorride Oliver.
- E’ la battuta più vecchia del mondo! –protesto flebile, in un sorriso spento.
- Va bene. Ora io devo scappare. A domani, principessa!
Edgardo sorride allontanandosi.
Lo saluto, per poi tornare a rivolgermi ad Oliver.
- Principessa? –mi chiede divertito.
Mi stringo nelle spalle, mentre ci avviamo verso il minivan colorato.
- Ehi, tutto bene? –domanda, una volta a bordo del furgoncino. Mi metto la cintura e, guardando fuori dal finestrino, scuoto la testa.
 
- A casa! –urla Oliver varcando la soglia della graziosa casa di sua zia.
Lo seguo, chiudendomi la porta alle spalle.
- Ciao! –sento Sofia dalla cucina.
La raggiungiamo. E’ seduta al tavolo, con le gambe incrociate sulla sedia. Smanetta al computer, i capelli raccolti in una coda bionda disordinata.
- Ciao, Sofia –le sorrido, mentre Oliver le stampa un bacio sulla guancia e si avvicina al frigorifero. Lo apre e ne prende una bottiglia d’acqua.
- Ehi, Rachele! –la zia di Oliver mi sorride raggiante, sembra veramente contenta di vedermi.
Oliver beve un po’ dell’acqua dalla bottiglietta, prima di spiegare a sua zia i piani per il pomeriggio.
Come può qualcuno risultare sexy anche mentre beve dell’acqua?
- Le faccio sentire le cover –illustra infatti.
- Oh, d’accordo. Ti fermi per cena, vero, tesoro? –mi sorride Sofia.
- Non posso, davvero. E’ stata una giornata... pesante. Grazie comunque.
Mi torturo le mani.
Lei mi sorride.
- Sarà per la prossima volta, allora.
Annuisco, mentre Oliver mi passa accanto.
- Vieni?
In silenzio annuisco e, pensierosa, lo seguo in camera sua.
E’ grande e spaziosa, ordinata. La chitarra acustica è riposta in un angolo, accanto al muro.
Oliver mi sorride. Prende la chitarra e si siede sul letto. Io prendo la sedia della scrivania e la volto verso di lui, sedendomici sopra.
Per un attimo pare iniziare a suonare, in silenzio, quando si interrompe e mi guarda.
- Ti va di parlarne? –mi chiede, quasi gli avessi appena raccontato di aver litigato con Arianna.
- Di cosa? –biascico cercando di sorridere. Dev’essere un sorriso debole, perché non cede.
- C’è qualcosa che non va. L’hai detto tu, in macchina.
- Più che una macchina, quello è un minivan. –cerco di distrarlo.
Oliver sospira.
- Sto parlando sul serio. Credevo stessi in banco con Arianna, a scuola. Non l’ho vista, oggi. Il che è strano. E’ praticamente la tua ombra.
Scuoto la testa, deglutendo.
Non penserai mica di dirgli perché avete litigato, vero, Watson?
- Abbiamo solo avuto... una discussione. –taglio corto.
Oliver socchiude gli occhi.
- So che non sono affari miei, ma...
- Appunto –lo interrompo, anche se il mio tono risulta più una supplica – Suona.
Ti prego, aggiungo mentalmente.
Oliver mi guarda ancora per qualche secondo, poi annuisce.
Ed inizia a suonare.
All’inizio faccio fatica a riconoscere la canzone, ma quando capisco che Oliver sta suonando le note di Say Something, tutti i buoni propositi riguardo al contenermi, a non piangere, si sgretolano.
Oliver prende a cantare, piano, quasi un sussurro roco, all’inizio.
 
Say something, I’m giving up on you
 I’ll be the one, if you want me to
 Anywhere, I would’ve followed you
 Say something, I’m giving up on you
 
And I am feeling so small
 It was over my head
 I know nothing at all
 
And I will stumble and fall
 I’m still learning to love
 Just starting to crawl
 
Oliver chiude gli occhi, mentre le mani si muovono esperte sulla chitarra. Cerco di regolarizzare il respiro, di non pensare ad Ari, di non pensare a nulla. Eppure, Oliver riesce persino a farmi pensare a mio padre, al papà che mi manca tanto, al papà che mi ha abbandonato. La voce di Oliver è un grido, un richiamo disperato.
 
 
Say something, I’m giving up on you
 I’m sorry that I couldn’t get to you
 Anywhere, I would’ve followed you
 Say something, I’m giving up on you
 
And I will swallow my pride
 You’re the one that I love
 And I’m saying goodbye
 
Ho sempre cercato di essere forte, per non dare un peso agli altri. Ho sempre cercato di trattenermi. All’inizio credevo che il viaggio di mio padre si fosse semplicemente prolungato un po’. Però poi iniziai a capire. E, essendo un cambiamento graduale, non piansi nemmeno. Mi rassegnai. Ma dopo un po’ che gonfi il palloncino, questo scoppia.
 
Say something, I’m giving up on you
 And I’m sorry that I couldn’t get to you
 And anywhere, I would’ve followed you
 
Say something, I’m giving up on you
 
Ormai le lacrime mi rigano le guance, nonostante cerchi di nasconderle. Le mani mi tremano.
 
Say something.
 
La voce di Oliver è tornata un sussurro. Un piccolo, debole sussurro. Riapre gli occhi.
Veloce, cerco di asciugarmi le lacrime. Ma ho le guance arrossate, gli occhi lucidi e le mani che tremano.
- Faceva così schifo? –chiede in un sorriso Oliver, seppur capendo.
Gli sorrido tra le lacrime.
- Era bellissimo, Oliver. –sussurro.
Lui fa un piccolo sorriso schivo, poi si alza e mette a posto la chitarra.
- Sai, non sono un esperto sentimentalista –sorride avvicinandosi –Ma credo che tu abbia bisogno di un abbraccio.
Lo guardo, ancora seduta sulla sedia. Oliver mi sorride dolcemente, porgendomi una mano.
Credo che tu sia una di quelle persone che tengono il magone in gola per tutto il tempo, tanto da non riuscire a parlare perché il dolore di quel magone, attraverso le parole, si trasforma in un pianto disperato. E credo inoltre, cara piccola sprovveduta, che, di conseguenza, se qualcuno ti abbraccia quando sei affetta dal magone, scoppi a piangere come una fontana, incapace di trattenerti. E’ proprio una cosa meccanica. Come ti abbracciano, le barriere cadono.
Scuoto la testa.
- Sto bene –dichiaro.
Oliver distoglie lo sguardo e annuisce, con un sorrisetto.
- Certo. Figurati se Rachele Nardi si fa abbracciare. –ridacchia, tornando a sedersi sul letto.
Inspiro. Espiro. Inspiro. Espiro.
- Credo che dovresti fare questa, indipendentemente dalle altre. –concludo.
- Ma non le hai nemmeno ascoltate! –protesta Oliver, incredulo.
- Non importa. Secondo me, questa è perfetta.
Mi alzo in piedi.
- Ce l’hai una videocamera? –gli chiedo.
Oliver apre un cassetto della scrivania e ne tira fuori una videocamera, che mi lancia.
La prendo al volo.
- Vuoi già filmare? –mi domanda, passandosi una mano tra i capelli.
Mi stringo nelle spalle.
- Perché no? –borbotto.
- Non lo so, Ele. Non mi sembri a posto.
Alzo di scatto lo sguardo dalla videocamera. Oliver mi sta guardando preoccupato.
- Ti ho detto che sto bene. Seriamente, non sopporterei un’altra discussione.
So che vorrebbe ribattere, ma non lo fa. Mi ruba la sedia e la posiziona davanti alla grande finestra della sua stanza. Ci si siede sopra, chitarra in braccio.
Mi posiziono davanti a lui e, accendendo la telecamera, controllo la distanza necessaria a riprenderlo quasi completamente.
La chiarore del tramonto fuori dalla finestra illumina la figura di Oliver, che si sistema bene sulla sedia e prende un respiro.
- Parti quando annuisco, okay? –lo avviso.
- Okay.
Faccio due passi indietro, gli lancio un’occhiata da sopra la videocamera. I nostri sguardi si incrociano e, per un attimo, ci fissiamo negli occhi. Poi schiaccio il tasto sulla telecamera e annuisco.
Con mia grande sorpresa, Oliver parla in inglese.
- Hi guys, I’m Oliver Dawn and today I’m playing a cover of Say Something by Christina Aguilera and A Great Big World. I hope you enjoy. –sorride verso di me. “Ciao ragazzi, sono Oliver Dawn e questa è la cover di Say Something di Christina Aguilera e A Great Big World. Spero vi piaccia.”
E poi inizia a cantare.
 


- Thank you.
“Grazie”. Conto mentalmente fino a tre, poi interrompo la registrazione.
- Fatto. –sussurro.
Questa volta non ho pianto, ma comunque mi trema la voce.
- Com’è venuta? –chiede Oliver alzandosi e raggiungendomi.
- Oh, benone. –rispondo –Non ti resta che caricarla su YouTube.
Oliver accende il computer portatile sulla scrivania.
Una volta che il video è pronto per essere caricato, guardo Oliver.
- Schiacciare quel tasto potrebbe cambiarti la vita. –mormoro.
Lui annuisce.
- Lo so bene. –sospira premendo Invio.
Non cambia espressione fino a quando non compare l’avviso Caricamento Completato. Poi pare rilassarsi.
- Siamo a cavallo –sorrido.
- Pare proprio di sì.
Non so cosa, ma in Oliver c’è qualcosa di diverso. Sembra quasi che la sua luce si sia spenta.
Si alza dalla sedia sulla quale si era seduto per caricare il video.
- Ehi, va tutto bene? –gli chiedo.
Lui si dirige verso la finestra e guarda fuori, dandomi le spalle.
- Stavi piangendo per Arianna, prima? –mi chiede.
- E’ solo una cosa passeggera, domani se ne sarà già dimenticata. –borbotto.
- Quindi è un no?
Sospiro.
- E’ un no, Oliver. E’ un no.
- E posso sapere...
- Cazzo, Oliver! –sbotto –Fatti un po’ di affari tuoi.
Lui si volta di scatto.
- Stavi pensando a tuo padre, non è vero? –sussurra avvicinandosi.
Resto in silenzio.
- Ehi, Rachele?
Distolgo lo sguardo, le braccia incrociate al petto.
- Non voglio litigare anche con te, Oliver, e per questo resto zitta. –sottolineo, facendolo sorridere.
- Va bene. Grazie per l’aiuto, comunque.
- Figurati. –tossisco.
- E comunque... –inizia Oliver sorridendomi –So benissimo che volevi il mio abbraccio, prima.
Alzo gli occhi al cielo.
- Già. Proprio. Non so come fare, ora che non mi stringi tra quelle tue braccia.
Oliver ridacchia, abbassando lo sguardo.
- Sarà meglio che vada, ora. –annuncio controllando l’ora dalla sveglia sul comodino.
- Non puoi prendere la corriera, non arriverai mai in tempo. –nota Oliver.
- Prenderò un’altra corriera, Oliver. Mica devo sempre prendere la numero 3, eh.
Annuisce, sorridendo come un ebete.
- Però sulla numero 3 si fanno incontri interessanti...
Alzo di nuovo gli occhi al soffitto, in una preghiera silenziosa.
Ma, nonostante ai suoi occhi possa sembrare una preghiera per farlo scomparire dalla Terra, in realtà chiedo che non mi abbandoni. Mai.


 
Angolo autrice:

Eccomi qui, ancora e ancora!
Non so bene cosa pensare di questo capitolo. L'idea di base era un'altra, ma poi mi sono lasciata trascinare e puff! ecco nuovi personaggi! Perdonate la mia fantasia.
In secondo luogo, ma non meno importante, il ragazzo nella gif è sì, signore e signori, Shawn Mendes! *salta, strilla, fa gridolini eccitati, balla la danza della pioggia*.
Okay. Cerchiamo di contenerci. Shawn Mendes, autore di Stitches, che probabilmente avete sentito alla radio, ma anche di un album intero e mezzo (che uscirà presto) di canzoni altrettanto fantastiche. Se posso permettermi, vi consiglio di ascoltare e guardare il video di Treat You Better, singolo apripista dell'album due, con un forte messaggio molto bello e significativo.
Va bene. Ora metto fine a questo mio attimo di fangirlismo e vi saluto!
Che ne dite? Ma sopratutto, cosa pensate della vocina? Personalmente, la amo.
Mi farebbe molto piacere sapere il vostro parere!

Grazie!

 

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Capitolo 7
*** 7. ***


7.
 
Il telefono prende a squillare.
In un brontolio guardo la sveglia. Sarebbe comunque ora di alzarsi.
Mi siedo sul letto e afferro in cellulare.
Mentre mi alzo per andare ad aprire le finestre, rispondo, senza nemmeno badare a chi mi stia chiamando.
- Pronto? –gracchio spalancando i vetri.
- E’ una cosa folle! Folle! –dall’altro capo c’è la voce eccitata di Oliver.
Arraffo il cardigan abbandonato sulla sedia e, massaggiandomi le tempie, esco dalla stanza.
- Buongiorno anche a te, Oliver. –sospiro mentre, a piedi scalzi, cammino sul legno delle scale che portano in cucina.
- Rachele! E’ folle, follissimo!
- Che cosa è folle? –chiedo immaginandomi Oliver, in t-shirt e pantaloni del pigiama, che cammina su e giù per la sua stanza passandosi le mani tra i morbidi capelli castani, esclamando: “E’ folle! E’ folle!”.
Ridacchio all’immagine.
Raggiunta la cucina e appurato che mia madre non c’è, mi avvicino alla caffettiera che gorgoglia sul fornello.
- Il video, Rachele, il video! –grida Oliver, mentre prendo i pacchi di biscotti dalla dispensa. Notando i biscotti con le gocce di cioccolato, apro il sacchetto e ne addento uno.
- Oliver, parla! –esclamo, mandando giù il biscotto e allungandomi per prenderne un altro.
Mia madre entra in cucina, arrossata, il cesto della biancheria, vuoto, sotto braccio. Probabilmente era in giardino a stendere i panni. Mi sorride e mi stampa un bacio sulla fronte, per poi andare a versare il caffè in due tazze in ceramica.
Si siede davanti a me, prima di passarmi la mia tazza.
La ringrazio con lo sguardo.
- Mi sono alzato poco fa –spiega nel frattempo Oliver –E ho acceso il computer. E ho controllato il video e... oh, cavolo! E’ folle! E’ folle!
Decido di appoggiare il telefono sul tavolo e mettere in viva voce.
- Fischia, quando hai deciso di andare al sodo! –esclamo sorseggiando il caffè. Mia madre ridacchia.
- Il video ha avuto 20.000 like, Rachele! –sputa fuori, facendomi quasi strozzare con il caffè.
Mia madre lancia un gridolino, stupita.
- Cosa? –chiedo, scattando in piedi.
- Sì, Rachele! E’...
- Folle, sì, lo so! –rido.
- Folle!
- Cosa hai intenzione di fare, adesso? –chiedo piano.
- Non lo so, non lo so. –Oliver ride, la voce che vibra per l’emozione.
- Congratulazioni Oliver! –strilla mia madre.
- Grazie, grazie signora Nardi! –Olive è talmente emozionato da non riuscire a controllarsi.
- Dobbiamo postarne un altro! –mi illumino all’improvviso.
- Magari una delle due canzoni che non hai voluto sentire ieri...
- Ero emozionata! –mi giustifico riprendendo a bere il caffè.
- Stasera venite a cena qui, Oliver! –si intromette mamma –Tu e tua zia! Dobbiamo festeggiare! Così, magari, ci conosciamo meglio...E’ venerdì, non dovete andare a scuola domani...Perfetto! Perfetto! Non accetto un rifiuto!
La guarda da sopra la tazza. E’ eccitata. Sorrido.
- Va bene, grazie... –persino Oliver è talmente contento da non curarsi nemmeno di chiedere a Sofia.
- Che giornata meravigliosa! –salta ancora una volta Oliver –Ci si vede tra un attimo, Ele!
- A subito! –sorrido.
Sta veramente accadendo?
 
Oliver non c’era sull’autobus. Probabilmente, per l’emozione, l’ha perso.
Mi guardo le scarpe, aspettando che Arianna sbuchi da dietro l’angolo come ogni mattina.
I minuti passano lenti. Ragazzi e ragazze mi sfilano accanto, incuranti.
- Ehilà, principessa!
Alzo di scatto lo sguardo.
Ed mi sorride.
Diventerà un’abitudine, non è vero?
Mi ci devo ancora abituare. Non riesco a capire come sia stato possibile che da non sapere nemmeno il mio nome, Ed sia arrivato ad essere un mio amico. Ma forse, come ha già detto lui, è sempre stato così. Semplicemente tutti si fermavano alle apparenze e nessuno aveva mai voluto scavare più a fondo.
Il che è curioso, perché è stato lui a fare il primo passo.
- Ciao, Ed. –ricambio. Nonostante la scomparsa di Arianna mi stia preoccupando, la felicità per il video di Oliver è maggiore.
Sta sgranocchiando una mela, i riccioli neri spettinati.
- Sei sempre che mangi, tu? –gli chiedo fissando il frutto verde acceso.
Ed si stringe nelle spalle, poi, con la bocca piena, indica la scuola, alle mie spalle.
- Aspetti qualcuno o possiamo entrare? –bofonchia.
Sospiro, portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
- Possiamo entrare. –sentenzio, lanciando un’ultima occhiata alla strada.
Ed annuisce e, trascinandomi per un braccio, entriamo a scuola.
- Stavi aspettando la tua amichetta, non è vero? –domanda, anche se il suo tono assomiglia più a quello di uno che sa già la risposta.
- Ci speravo. Ma non si è fatta viva. –confesso, mentre con uno strattone libero il braccio dalla morsa di Ed e, in un’occhiataccia, riprendo a camminare al suo fianco.
- Voi ragazze siete strane. Per voi la vostra migliore amica è come l’aria. Se c’è un’emergenza, non chiamate i soccorsi, bensì la vostra alleata.
Rido in uno sbuffo.
- Si chiama lealtà, Edgardo. –puntualizzo.
Lui alza gli occhi al cielo.
- Non mi chiamare così, ti prego!
- E come dovrei chiamarti, se è quello il tuo nome? –rido mentre entriamo in classe.
- Ed. –spiega sedendosi al suo banco –Ed è un nome figo, Ed è folle.
Folle. Sorrido, lanciando un’occhiata al posto di Arianna. E’ vuoto, come quello di Leo.
Lo so che sono la parte più cattiva della tua coscienza, e per questo posso permettermelo: è una coincidenza che manchino i due piccioncini? No, perché sembra proprio...
Scuoto la testa con violenza, ma continuo a guardare quei due posti vuoti per tutto il giorno.
 
- Se giudichi un pesce dalla sua capacità di arrampicarsi sugli alberi, questo passerà tutta la vita a credersi stupido. –sentenzia Ed.
Accipicchia al filosofo.
- Davvero filosofico, Ed, ma non capisco cosa c’entri ora. –sospiro scrutando i volti delle persone che mi passano accanto, in cerca di Arianna, anche se so benissimo che, non essendo venuta a scuola, non può esserci.
- Albert Einstein, principessa. –continua imperterrito, quasi non avessi parlato.
Principe sarai tu, brutto...
- Ehi, Rachele! Ehi!
Mi volto di scatto, in tempo per vedere la figura di Cami sbracciarsi e venirmi incontro.
Quando ci raggiunge, vedo Ed ammutolire.
E’ affannata, quasi avesse corso una maratona. I capelli rossicci sono raccolti in uno chignon scomposto e veloce, che lascia il viso scoperto e mette in evidenza quei suoi sorprendenti occhi verdi.
Vestita immancabilmente di nero, con un camicione, dei jeans scuri e degli scarponcini lucidi, Cami ha le guance arrossate e le cuffie appese al collo, proprio come Ed. E’, a modo suo, bellissima.
Mi sorride.
- Cami –la saluto sorpresa.
- Ciao. –ripete in un sorriso buffo. I suoi occhi cadono su Ed, accanto a me. Apre la bocca per iniziare a raccontarmi quello che ha da dire, ma si blocca.
- Ciao, Edgardo –sorride raggiante.
Ed, stupito, alza lo sguardo verso di lei.
- Be’... c-ciao, Camilla. –balbetta, improvvisamente tornato timido. Le sue guance si arrossano.
Cami resta sorridente, il ciondolo pellerossa appeso al collo che pare illuminarsi della sua spensieratezza.
- Comunque –torna a rivolgersi a me –Ho letto il racconto che hai scritto, Ele. E ho pianto.
Trattengo il respiro, un piccolo sorriso che mi spunta sulle labbra.
- Ti giuro, è bellissimo. –continua –A proposito...
Fruga nella sua borsa a tracolla e ne tira fuori i miei fogli, porgendomeli.
- Be’, grazie. –arrossisco.
- Benvenuta a bordo! –trilla Cami battendo le mani –Ti lascio il fine settimana per riposare, ma da lunedì ti voglio a rapporto! Pensavo a qualcosa di nuovo, però...
Mentre parliamo riprendiamo a camminare.
- Tipo...saresti pronta a cominciare una serie di capitoli legati tra loro, da pubblicare uno a settimana sul giornalino? Una storia, così, per non metterci solo notizie noiose. Credo che incrementerebbe i lettori di parecchio e... –Cami si perde a parlare, ricordandomi un po’ Arianna.
- Vedo se mi viene qualche idea, Cami. –le assicuro sorridendo una volta che siamo arrivati al cancello nero.
- Fantastico!
Cami mi stampa un improvviso bacio sulla guancia, poi scompiglia i capelli ad Ed, prima di correre via.
La guardo con un sorriso divertito finché non sparisce dalla vista. Lentamente, mi volto verso Ed che, sconvolto, mi fissa a bocca aperta.
Scoppio a ridere.
- Che c’è, hai una cotta per Cami?
Lui scuote la testa.
- E’ che è bellissima... –mormora solo –Mi imbarazza parlarle.
- Grazie tante –sospiro –Con me parli tranquillamente.
Ed sembra riscuotersi. Mi sorride timido.
- Tu sei diversa, principessa. Non sei mai stata la mia fidanzata alle medie. –borbotta.
Lentamente, sgrano gli occhi.
- Mi stai dicendo che tu e Cami eravate fidanzati? –sputo fuori.
Lui si mette le cuffie alle orecchie e, mimandomi più volte che non riesce a sentirmi, inizia a fare qualche passo indietro.
- Ehi, aspetta, Ed! –piagnucolo –Torna qui!
Lui ride.
- Non ti sento! –urla andandosene –Ci vediamo lunedì!
- Ed! –strillo un’ultima volta, invano, prima di affrettare il passo verso la fermata.
 
- Apro io! Apro io! Apro io! –strilla Lucas alzandosi con uno scatto dal divano. Dal primo gradino delle scale, al suono del campanello, faccio un salto e rincorro Lucas.
- Non ci pensare nemmeno, apro io! –grido cimentandomi in una corsa sfrenata verso la porta.
Lucas caccia un urlo e accelera.
- Datevi una calmata! –sento esclamare mamma dalla cucina.
Mio fratello va letteralmente a sbattere, con un tonfo, contro la porta.
Gli faccio una linguaccia, la mano già sulla maniglia.
- Sei crudele! –esclama appendendosi al mio vestitino blu.
- Sono semplicemente più veloce! –gli faccio il verso tirando il vestito –E lasciami andare, Cristo!
Lucas mi investe con un’occhiata truce.
- Volete aprire o no? –sospira esasperata mia madre arrivando alle nostre spalle e aprendo la porta al posto nostro.
- Mamma! –mugoliamo all’unisono io e Lucas, mentre la porta si apre e il viso sorridente di Sofia, avvolta nel cappotto di panno, fa capolino.
- Buonasera! –saluta festante.
- Benvenuti, benvenuti! –sorride mia madre lasciandola entrare.
- Sofia! –si presenta la zia di Oliver stringendo la mano di mia madre.
- Diana, piacere! –sorride mamma.
Anche Oliver varca la soglia, le guance arrossate dal freddo polare e il sorriso che immagino essere lo stesso da stamattina.
- Oliver! –trilla mia madre abbracciandolo –Sono così contenta per te!
- Grazie, grazie davvero! –ricambia lui.
Me ne resto in un angolo, con Lucas, ancora innervosito, accanto.
Guardo la scena.
Sofia che porge a mia madre una teglia fumante, mia madre che la ringrazia e, nel mentre, si avvia verso la cucina.
Quando la zia di Oliver si volta verso di noi, sorride sorpresa.
- Tu sei Lucas, immagino –dice, accucciandosi davanti a mio fratello. Intenta a guardarli, non mi rendo nemmeno conto di dover ancora salutare Oliver.
Lucas sorride e inizia a parlare di qualcosa che Sofia finge essere molto interessante.
Quando mio fratello ha finito il suo monologo, la donna si alza e mi abbraccia.
- Ciao, cara –sorride a ridosso della mia spalla.
- Grazie per essere venuti –rispondo –Mamma è da un po’ che non riceve ospiti ed era decisamente eccitata.
Sento Lucas parlare con Oliver.
- Sei il fidanzato di mia sorella?
Una risata.
- No, per niente.
Un attimo di silenzio prima della sentenza finale.
- Mi piaci. Se ti va, puoi diventarlo. –concede Lucas facendo scoppiare il ragazzo in una risata.
Mio fratello annuncia di fare strada verso la cucina e si allontana.
Quando mi separo da una bellissima Sofia ridente che si affretta a seguire Lucas di là, mi accorgo di Oliver che, sorriso assassino stampato sul volto, si è tolto la giacca e mi guarda, in attesa.
Gli sorrido, saltellando sul posto.
Lui scoppia a ridere e, in uno scatto di euforia, mi abbraccia stretto.
- Grande! –mormoro contenta al suo orecchio.
Lo so che non vuoi morire giovane. E so che sei troppo contenta per rendertene conto. Ma stai abbracciando stretto stretto l’incredibilmente bello Oliver Dawn. Hai un desiderio di morte?
Per un attimo il naso mi si inebria del suo profumo, e inizio a rendermi conto che la vocetta ha ragione.
Gli carezzo rapida la schiena, prima di lasciarlo andare.
Il suo sorriso è senza pari. E’ felicissimo, estasiato. Dietro di lui, noto la chitarra, nella sua custodia, appoggiata al muro accanto all’entrata.
La indico con un dito, guardando Oliver con un sorriso.
Lui si volta, per capire di cosa sto parlando.
- Volevo girare l’altro video. –spiega, tornando a guardarmi, un po’ imbarazzato.
Annuisco.
- Certo.
Batto le mani, in un sorriso impaziente.
- Rachele! –urla mia madre dalla cucina. Lancio un’occhiata in direzione della voce, poi torno a guardare Oliver.
Lui fa un ampio cenno in direzione della cucina.
- Prego, signorina. –sorride sospingendomi con una mano, calda sulla mia schiena.
Non supereremo la serata, di questo passo. Mayday! Mayday!
- Dimmi! –esclamo raggiungendola. Lucas, già seduto a tavola, gioca con una macchinina sulla tovaglia rossa.
Sofia e mia madre parlottano accanto al fornello.
Mi allungo e arraffo un grissino integrale dal cestino sul tavolo.
- Quella macchinina, l’altro giorno, non era nella pozzanghera? –chiedo a Lucas, guardando con circospezione il giocattolo rosso.
Lui alza gli occhi verso di me.
- Sì, doveva fare un’ispezione. –racconta.
Sento Oliver ridacchiare. Gli lancio un’occhiata, per poi tornare su Lucas che continua a fare il rumore del motore con la bocca.
Arraffo la macchinina.
- Sarà meglio non giocarci sul tavolo, dove mangiamo, giusto? –sottolineo accigliandomi, prevenendo ogni sua protesta che si conclude con un’occhiataccia.
- Oh, tesoro!
Mia madre pare essersi accorta del mio arrivo. La guardo, appoggiando la macchinina in cima all’armadio con le ante di vetro.
- E’ pronta la cena. –annuncia sorridendo, le mani infilate in un paio di guanti da cucina.
Mi siedo a tavola, accanto a Lucas. Oliver si accomoda sul suo altro lato. Davanti a noi, Sofia aiuta mia madre a spiattare.
Una teglia di lasagne fumanti, una ciotola di insalata (alla vista della quale Lucas fa una smorfia), una ciotolina di pomodorini rosso fuoco.
Una volta che entrambe si sono accomodate, iniziamo a mangiare.
- E’ davvero squisito, Diana. –conviene Sofia, deglutendo una forchettata di pasticcio.
- Sul serio –concorda Oliver, gli occhi ancora accesi di felicità.
Sorrido, mentre Lucas prende a tossire.
Preoccupata, appoggio la forchetta sul piatto e gli metto una mano sulla schiena.
- Tutto bene? –chiedo, mentre il suo viso si rilassa un poco e i colpi di tosse vanno diradandosi.
- Si –borbotta lui prendendo il bicchiere pieno di acqua e bevendone un sorso –Mi è solo andato di traverso un pomodorino.
Appurato che non rischia di morire soffocato, tolgo la mano e riprendo a mangiare.
- Allora, Oliver –inizia mia madre sorridendo come una chioccia –Come ti senti?
- Credo che la domanda sia come mi sento io –interviene Sofia, muovendo pericolosamente il bicchiere colmo di vino in aria –Non si è calmato un secondo. Il livello di adrenalina in quel suo corpo è ben oltre il normale.
Oliver alza gli occhi al cielo.
- Non esagerare, zia –sospira, seppur sorridendo.
- Hai fatto le scale quattro gradini alla volta –ricorda Sofia tracciando una linea orizzontale immaginaria con il calice – Voglio dire, quattro.
Sia io che mia madre ridacchiamo.
- Sei solo invidiosa della mia agilità –conclude Oliver.
- Hai rotto due piatti, Oliver. –continua ostinata la donna –Dall’emozione, hai rotto due piatti.
- Ero felice! –sbotta il ragazzo sorridendo, allargando le braccia.
- Lo sei anche ora –convengo sottovoce.
Nonostante ciò, pare che l’abbia detto ad alta voce, dal momento che mi hanno sentito tutti.
- Be’, è naturale! Voglio dire, è praticamente diventato una stella del web! –lo difende mia madre. Oliver le fa un cenno sollevato, di ringraziamento.
- Per dire questo bisogna vedere come andranno i prossimi video –stabilisco sorseggiando dell’acqua.
- Che io sono impaziente di girare –ricorda Oliver, lanciandomi un’occhiata.
- Cos’è una stella del web, mamma? –chiede Lucas.
- E’ una persona che è famosa su Internet, piccolo.
- Quindi tu sei famoso su Internet, Oliver? –continua mio fratello, rivolgendosi a Oliver.
- No –rispondo io, beccandomi un’occhiataccia da mia madre.
- Non ancora, per lo meno. Non montiamoci la testa. –cerco di riparare, facendo ridere Sofia.
- Allora, come va con il giornalino? –mi chiede Oliver, cambiando argomento.
Si torna in scena.
- Mm, sì. –rispondo finendo di masticare –Mi sono messa a scrivere qualche sera fa. A Cami il racconto è piaciuto e mi ha proposto di scrivere una storia a capitoli per il giornalino. Un capitolo a giornalino. Dice che secondo lei i lettori aumenterebbero.
- Ma è fantastico! –esclama mia madre, fissandomi stupita.
Effettivamente, non gliel’avevi ancora detto, piccola sprovveduta...
- Mi ha tolto le parole di bocca, signora Nardi. –sorride Oliver guardandomi piacevolmente colpito.
Mi stringo nelle spalle.
- Siamo davanti a due stelle nascenti, Diana. –sorride fiera Sofia, guardandoci.
- Credo proprio che faranno strada. –annuisce mia madre –Ti immagini che bella storia? Fra dieci anni, quando saranno entrambi famosi e nel pieno delle loro carriere, una giornalista scoverà questi attimi del loro passato e scriverà una bellissima storia.
Alzo gli occhi al cielo.
- La storia del poeta –conclude Sofia indicando il nipote con la forchetta –e della sognatrice –sorride poi guardandomi.
Il poeta. Effettivamente, Oliver con le parole ci sa proprio fare.
E la sognatrice. Sofia sa che ho grandi sogni per il futuro. L’Inghilterra, la voglia di vedere il mondo. E annuisco.
Se diventeremo famosi è tutto da vedere, ma che siamo il poeta e la sognatrice è, direi, piuttosto azzeccato.
E tu sei un’inguaribile romantica, piccola sprovveduta.
Non diciamo cretinate.
Mentire a sé stessi è la cosa più stupida del mondo.
Sei tu che ti illudi, vocetta inquietante.
Se io sono inquietante, tu sei romantica. Direi che siamo pari.
Fammi il favore.
Perlomeno, io non sento voci nella mia testa.
Questo era un colpo basso.
E Vocetta vince ancora.
 
- Lucas, riesci a non fare rumore per cinque minuti? Altrimenti si rovina il video! –strillo, la testa fuori dalla porta della mia stanza.
- Non ti prometto nulla! –sento la sua risposta.
Sospiro, chiudendo la porta alle mia spalle. Oliver, nervoso, si strofina le mani.
- Rilassati –gli dico ridendo, divertita da tutta quella sua preoccupazione.
- E se non dovesse andare bene come il primo? –mi chiede prendendo la chitarra e sedendosi sulla sedia, posizionata strategicamente davanti al mio sciccosissimo muro viola.
Gli darà proprio un’aria da macho. Ah. Ah. Ah.
- Sii positivo –lo ammonisco prendendo la telecamera –Quindi, non vuoi farmi sentire la canzone che hai scelto, prima?
Oliver scuote la testa, pizzicando due corde della chitarra.
- Sorpresa. Lo scoprirai girando il video. –mi sorride- Non so cosa ascolti tutto il giorno con quelle tue cuffiette, ma credo che ti piacerà. E’ una canzone recente.
La curiosità è al massimo. Annuisco, sedendomi sul letto davanti a lui e accendendo la telecamera.
Quando gli do il segnale di partire, Oliver si presenta, di nuovo, in inglese.
- Hey guys! –sorride raggiante –I’m back with a new video! I wanna thank you for liking the last video I made. I’m really happy. I hope you enjoy this one, too.
“Ehi, ragazzi! Sono tornato, con un nuovo video! Voglio ringraziarvi tutti per aver visto e messo un like nello scorso video. Sono davvero felice. Spero vi piaccia anche questo.”
Oliver torna a rivolgersi alla sua chitarra. Mi prudono le mani dall’impazienza.
Le note che strimpella mi sono familiari, fin troppo, a tal punto che mi dico che è impossibile che Oliver abbia scelto questa canzone.
Ma quando inizia a cantare ogni dubbio si scioglie, e la canzone che ritenevo solo mia diventa, improvvisamente, anche di Oliver.
 
Things were all good yesterday
And then the devil took your memory
And if you fell to your death today
I hope that heaven is your resting place
I heard the doctors put your chest in pain
But then that could have been the medicine
There you’re lying in the bed again
Either way I’ll cry with the rest of them.
 
Ed Sheeran. Afire Love. Ripenso a tutte le volte che l’ho ascoltata. Centinaia. Mi commuoveva, mi commuove tutt’ora. Semplicemente, è un bel pezzo che non la ascolto.
 
And my father told me, son,
It’s not his fault he doesn’t know your face,
And you’re not the only one.
Although my grandma used to say,
 
That he used to sing
 
Darling hold me in your arms the way you did last night
And we'll lie inside, for a little while here oh
I could look into your eyes until the sun comes up
And we’re wrapped in light, in life, in love.
Put your open lips on mine and slowly let them shut
For they’re designed to be together oh
With your body next to mine our hearts will beat as one
And we’re set alight, we’re afire love, love, love oh.
 
E quante volte, quante altre volte ho desiderato che qualcuno mi dicesse queste parole? Quante volte mi sono augurata di trovare la mia anima gemella? Quante volte, chiudendo gli occhi, ho voluto sentirmi così voluta da una persona da diventare la sua aria, il suo ossigeno, indispensabile?
 
Things were all good yesterday
Then the devil took your breath away
And now we’re left here in the pain
Black suit, black tie standin' in the rain
And now my family is one again
Stapled together with the strangers and a friend.
Came to my mind I should paint it with a pen
Six years old I remember when.
 
And my father told me, Son,
It’s not his fault he doesn’t know your face,
And you’re not the only one.
Although my grandma used to say,
 
That he used to sing
 
Oliver chiude gli occhi e prende un respiro, prima di iniziare il ritornello. Chiudo gli occhi anche io.
 
Darling hold me in your arms the way you did last night
And we'll lie inside, for a little while here oh
I could look into your eyes until the sun comes up
And we’re wrapped in light, in life, in love.
Put your open lips on mine and slowly let them shut
For they’re designed to be together oh
With your body next to mine our hearts will beat as one
And we’re set alight, we’re afire love, love, love oh
 
Una piccola pausa, dove la regina indiscussa è la chitarra di Oliver. Cerco di rilassarmi, di non pensare che quella che Oliver ha scelto è una delle canzoni che scriveranno la colonna sonora della mia vita. Oltre al ritornello che scatena emozioni, ci sono tutte le altre strofe della canzone. E’ dedicata al nonno del cantante, morto di Alzheimer. E il solo pensiero di poter lasciare una traccia del genere in qualcuno, come ha fatto il nonno con il nipote, mi rodeva ogni volta che mi soffermavo sulle parole. Volevo crescere in fretta, per innamorarmi, per avere dei figli e dei nipoti. E volevo vedere che impressione avrei fatto loro, se sarei stata capace di lasciare loro una luce talmente luminosa da spingerli a fare qualcosa di grande.
 
And my father and all of my family
Rise from the seats to sing Hallelujah
And my mother and all of my family
Rise from the seats to sing Hallelujah
And my brother and all of my family
Rise from the seats to sing Hallelujah
And all of my brothers and my sisters, yeah
And my father and all of my family
Rise from the seats to sing Hallelujah
Hallelujah
Hallelujah
Hallelujah
 
Il silenzio mi riscuote. Guardo Oliver da sopra la telecamera. Ringrazia con un sorriso ed io termino il video.
Inspirando a fondo, spegno la telecamera.
Sarò anche ripetitiva, ma tu morirai entro domani mattina.
- Com’era? –mi chiede Oliver, sulle spine.
- In base a cosa scegli le canzoni? –gli chiedo in un sorriso.
Lui alza le spalle, sorride imbarazzato.
- Quelle che mi conquistano. Con una bella storia da raccontare.
La porta si spalanca e mia madre e Sofia irrompono nella stanza.
- Questo ragazzo è un dono di Dio! –esclama mamma.
Sofia sta quasi piangendo.
- Bravissimo, nipote! –esclama con voce tremante –E’ stato bellissimo.
Mi accorgo di avere la bocca spalancata per la sorpresa, e mi sbrigo a chiuderla. Oliver sgrana gli occhi.
- Voi due...voi due avete origliato? –chiedo guardandole.
Mia madre sembra ricomporsi un po’ e Sofia, forse rendendosi conto di aver esagerato, si passa le mani sulle gambe.
- Volevamo sentire che cosa avresti cantato –spiega rivolta ad Oliver –Non siete arrabbiati, vero?
Mi sento i loro occhi addosso.
- Bah, pubblichiamo questo video! –sbotto per allentare il momento e, alzandomi, vado ad accendere il computer.
Sentire il fiato sul collo di tre persone non dev’essere bello, ma Oliver preme indisturbato il tasto Invio.
 
- Mamma, voglio il gelato.
Lucas non è mai stato così sfrontato. Lo guardo stranita, mentre mamma sospira alzando gli occhi al cielo.
- Come, scusa? –chiede severa lanciando un’occhiata all’orologio. Sono le nove di sera.
- Vorrei il gelato. –bofonchia Lucas abbassando lo sguardo.
- Ah, già meglio. Non ne abbiamo, Lu. Lo sai bene.
- Ma magari Rachele poteva fare due passi fino in gelateria e comprarlo. Ho visto ieri che siccome c’è non mi ricordo quale anniversario, questa settimana sono aperti fino a mezzanotte.
- Perché devo andarci io? –protesto guardando Lucas con un’occhiata offesa.
- Perché non muovi mai un dito. –ribatte lui. Lo fisso a dir poco scioccata. Non dovrei farlo, ma non riesco a mordermi la lingua prima di rispondergli a tono.
Guarda tu il marmocchio!
- Almeno io i compiti li faccio –sibilo. Lucas alza lo sguardo in uno scatto disperato.
- Aspetta, cosa? –si intromette mia madre.
- Niente –si affretta Lucas –Niente di importante. Comunque, le farebbe bene fare una passeggiata.
- Ti ricordo che vado a correre –sottolineo, ricordandogli con lo sguardo che ho informazioni che gli potrebbero causare una punizione leggendaria.
- Be’, era uno dei buoni propositi di capodanno. L’hai mantenuto un paio di settimane. E siamo a fine ottobre. –borbotta mio fratello, facendomi seriamente dubitare che sia un suo clone a parlare. Lucas non è mai stato così insolente. E’ sempre stato una pecorella mite e buona. Che gli ospiti gli facciano quest’effetto?
- Lucas, finiscila. –placa le acque mamma.
Il silenzio cala sulla stanza.
- Ci andiamo io e Rachele, a prendere il gelato –spunta a un certo punto Oliver.
Gli lancio un’occhiata stupita. Non posso nemmeno oppormi che sono già stata trascinata fuori casa, il parka blu addosso.
- Ma io non voglio andare a prendere il gelato, Oliver! –sussurro in una nuvoletta bianca, chiudendo la cerniera del giubbotto e infilando le mani in tasca.
- Be’, io sì. –sorride –E non so proprio dove sia la gelateria.
Ci incamminiamo lungo la strada, i lampioni che rendono possibile vedere dove si mettono i piedi.
Oliver è stranamente silenzioso. E, in un lampo, capisco.
- C’è niente che vuoi chiedermi? –domando lanciandogli un’occhiata di sottecchi.
Vedo un mezzo sorriso comparirgli sul volto.
- Be’, volevo sapere se tu e Arianna vi siete riappacificate. –spiega francamente, senza nemmeno tentare di mentirmi.
Svoltiamo a destra; più ci avviciniamo alla piazza del paese, più la strada è illuminata.
- Come mai tanto interesse? -cerco di prendere tempo.
Oliver ridacchia.
- Non lo so...è solo che siete così legate. Sai, Arianna mi ha raccontato parecchie cose su di te, sulla sua migliore amica, quando ci siamo incontrati per i dettagli della festa. Non ti ha mai chiamato per nome. Sembrava quasi che non ne avesse bisogno.
- Sì, be’, Ari parla parecchio. –sorrido.
- Diceva che la sua migliore amica era un po’ asociale, ma che voleva farci? Era anche una persona onesta e buona, che amava le persone a lei vicine con tutto il cuore. Certo, a volte immaginarsi a una festa senza la migliore amica era dura, ma tanto lei alle feste non c’andava quasi mai comunque. La sua migliore amica mi sarebbe piaciuta, diceva, non vedeva l’ora di presentarmela. A volte risultava ostile, certo, ma non lo faceva apposta. Le veniva dal profondo, ogni tanto, quel suo sarcasmo. Era persino divertente. Trattava quelle lievi sfumature che solo la sua migliore amica sapeva cogliere. E poi, oh, era davvero fissata con i libri. In un modo anormale. Leggeva libri come respirava aria. A contratto. Capitava che si mettesse a citare i libri e allora non ce n’era più per nessuno. Non le capiva quasi mai, quelle sue allusioni, ma non importava. L’importante era che fosse ancora la sua migliore amica. –Oliver finisce il suo racconto da romanzo guardando le stelle. Quasi me la immagino, Arianna, gesticolare e coinvolgere in una conversazione del genere Oliver solo per chiacchierare.
Per un attimo sorrido, però poi un vuoto dentro inizia a farsi sentire. Faccio una smorfia.
Oliver pare coglierla, ma siamo ormai arrivati davanti alla gelateria e lascia stare.
- Buonaser... –il ragazzo dietro il bancone si blocca vedendomi. Non l’ho mai visto nei paraggi, e tanto meno lavorare qui. Ma solo dopo averlo guardato con più attenzione mi accorgo che è Leo, nell’uniforme de “I gelati di Maria”.
Quello non è il tipo con cui pomiciava Arianna? Già, proprio lui.
Spalanco la bocca.
Oliver mi guarda, in attesa di sapere. E intanto una rabbia, forse anche un po’ inspiegata, prende a nascermi nel petto.
- Dov’è lei? –sussurro. Leo mi guarda interdetto.
- Lei chi? –chiede, la sua espressione che muta in disprezzo.
- Oh, la mia migliore amica. Quella che ti sei portato via, sai? Hai presente?
Oliver mi mette una mano sulla spalla.
Ti pareva che con tutti i villaggi vichinghi del Pianeta, il tipo doveva venire in quello dove abita la piccola sprovveduta con una fragile stabilità mentale...
- Se Arianna non ti parla più, io non c’entro. –risponde Leo, guardandomi con gli occhi socchiusi –E’ una sua scelta preferire me a te.
La vedo brutta.
- Come cazzo ti permetti, tu, brutto piccolo stronzetto di città? –sbraito avventandomi nella sua direzione. Spaventato, fa un salto indietro, nonostante ci sia il frigo dei gelati a separarci.
Vengo agguantata da Oliver prima di poter rovinare quel suo bel faccino.
- Rachele, accidenti! –mi ammonisce all’orecchio. Il suo tono deciso mi fa rilassare un attimo i nervi.
- Scusa –torna poi a rivolgersi al ragazzo –A volte si lascia prendere la mano...
Ignorando l’occhiataccia assassina e indignata che gli lancio, Oliver mi lascia andare. Poi fa qualche passo verso il bancone.
- Possiamo ordinare? –chiede accigliato, mentre Leo continua a fissarmi in cagnesco.
Lo so di essere bellissima, ma Cristo Santo, smetti di fissarmi!
Sposta lo sguardo su di lui, e annuisce duramente.
-Allora, una vaschetta con... –Oliver ha ritrovato la sua leggerezza, così, di punto in bianco –Stracciatella. Fior di latte. Nutella. Biscotto. Vediamo...oh! Nocciola! Qualche preferenza, Rachele?
Mi riscuoto.
- Fragola. –rispondo roca, le braccia incrociate al petto.
- Non ti butti sulle calorie, eh? Va bene, che fragola sia. –sentenzia il nuovo Oliver spensierato. Leo, a rilento, gli serve il gelato.
- Fanno dieci euro –borbotta, lo sguardo sempre su di me.
Lo fisso negli occhi, l’aria di sfida.
C’erano una volta due cowboy nel lontano west...
Oliver paga e, trascinandomi per un gomito, mi porta fuori.
Non mi chiede nulla. Una volta svoltato l’angolo, capisco di dovergli, perlomeno, delle spiegazioni.
- E’ nuovo, a scuola –borbotto, guardandomi i piedi –Non sapevo abitasse qui. Ci vuole proprio sfiga, eh?
Oliver resta zitto, così continuo.
- Mi ha rubato il banco accanto ad Arianna, ieri. Io mi sono seduta accanto a Ed. E quando ho tentato di parlare con la mia amica, lei ha iniziato a dire che...
La voce mi muore in gola. Dovevo tralasciare questo punto.
Complimenti, sprovveduta. Vuoi una medaglia?
Oliver non mi incalza, si limita a lanciarmi un’occhiata.
- Ha detto che tu le hai rubato il posto accanto a me proprio come Leonardo ha fatto con me. Che non mi devo lamentare. –continuo in un tremolante filo di voce –E io ho cercato di spiegarle che non era vero. Siamo a malapena amici, noi due, no?
Oliver ridacchia, continuando a camminare.
- Certo. –annuisce sorridendo tra sé e sé.
- Non ha voluto darmi ascolto. Oggi non c’era a scuola. E nemmeno lui.
- Hai provato a chiamarla?
- No...
- E perché?
- Perché ero troppo presa...
- E da che cosa, Rachele?
- Da te.
La risposta mi esce automatica. Improvvisamente, mi rendo conto che Arianna ha ragione. Mi blocco, Oliver che fa lo stesso.
Mi guarda.
- Forse dovrei... –inizio.
- Sì, dovresti.

 
 
ANGOLO AUTRICE:

Ehilà, gente! 
Eccoci con un nuovo capitolo. Che ne dite?
Ringrazio tutti quelli che lasciano una recensione, perchè in fondo sono quelle che mi spingono a continuare a pubblicare!
Bene.
emmegili

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Capitolo 8
*** 8. ***


8.

Segreteria telefonica. Il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile. La preghiamo di richiamare più tardi.
Sbuffo.
Se Arianna non ha intenzione di rispondermi, allora chiamerò casa sua.
Mi massaggio le tempie con le dita, gli occhi chiusi.
- Pronto?
- Ciao, Teresa. Sono Rachele.
- Oh, ciao cara!
- Scusa…c’è Arianna?
- Cosa vorrebbe dire? Arianna è da te!
Chiudo la bocca di scatto.
- Ehm…
- Rachele?
Resto in silenzio.
- Non è lì da te, vero? –la voce della madre di Arianna è rassegnata, amareggiata.
Di sottofondo, si sente Rita.
- Chi è, mamma?
- Rachele.
- Cosa? Oh, no, cazzo!
- Rita!
- No, mamma, dammi il telefono.
- Ma insomma…
- Dammi quel ca…quel telefono!
A parlarmi poco dopo, è Rita.
- Hai già fatto saltare la copertura, eh? –la sua voce è ostile.
- Se mi avessi avvisato forse non l’avrei fatto, che dici? –sibilo.
Rita sospira.
- Ti ha usato come scusa per uscire con Leo.
- Cosa?
- Sì, be’…sai come è fatta mamma…
Si sente un botto. Qualcuno entra piangendo.
- Arianna!
- Chi è al telefono? –la riconosco piangere.
- E’ Rachele…cosa ci fai qui?
- Dammi quel telefono!
- Ehi, aspetta…
Cavolo, dovremmo denunciarli per molestie contro telefono fisso.
- Ele –Arianna singhiozza disperata.
- Arianna! –squittisco, come la sento.
- Vieni qui, ti prego…
- Arr…arrivo subito… -rispondo arraffando la giacca e chiudendo la telefonata.
- Dove stai andando? –chiede mia madre, mangiucchiando un biscotto.
La guardo.
- Da Arianna.

Rita mi incenerisce con lo sguardo. Non so se imparerò mai a sopportare quei suoi continui sbalzi d’umore.
- Posso entrare? –le chiedo, arrossata per la corsa dalla fermata dell’autobus a casa loro.
Rita sospira e si sposta per farmi passare.
Vengo avvolta dal calore del camino acceso in salotto.
- E’ di sopra –bofonchia solo la ragazza, prima di lasciarmi sola.
Nel salone irrompe Teresa. Quando mi vede, stupita, mi si avvicina fiduciosa.
I capelli biondi le ricadono morbidi sulle spalle, gli occhi blu vivi, accesi. Ha l’aria preoccupata.
- Ele –mi saluta.
- Ciao –le sorrido nervosa, passandomi tra il pollice e l’indice della mano destra il braccialetto di fili del polso sinistro.
- Va tutto bene? –mi chiede posandomi una mano sulla spalla.
Annuisco meccanicamente.
- Voi due... avete litigato? –continua pesando bene le parole.
- Più o meno. –mormoro lanciando un’occhiata alle scale di legno.
Teresa annuisce, stringendo le labbra.
- Vai –dice solo, scostando la mano.
La ringrazio in un sussurro e mi dirigo, velocemente, verso il primo gradino. Dopo un secondo di esitazione, prendo a salire.
Oltrepasso la porta della stanza di Rita, dalla quale proviene, a tutto volume, della musica hard rock. Per un istane mi chiedo da quando abbia una passione per la musica di questo genere. Rita cambia insieme al suo umore, ma quelle poche volte che ascolta della musica, è sempre musica classica. Componimenti d’orchestra, a volte anche un solo pianoforte e un violino. Quel lato di lei l’ha sempre resa più delicata, indipendentemente dal fatto che fosse allegra e serena o tetra ed insopportabile.
Faccio qualche passo indietro e poso l’orecchio sulla tavola di legno chiaro, trattenendo il respiro.
Mi pare siano i Guns N’ Roses.
Mi lascio scappare un gemito di sorpresa. Ma poi la canzone finisce e, nella frazione di secondo di silenzio prima che Rita faccia partire un’altra canzone, sento i singhiozzi di Arianna, dalla sua stanza.
E mi si scoglie il cuore, perché capisco l’unica ragione per la quale Rita ascolta a volumi stratosferici canzoni urlate.
Mi riscuoto e affretto il passo verso la stanza di Arianna. Non busso nemmeno, semplicemente spalanco la porta, il cuore che mi martella in gola.
Arianna, davanti alla finestra, si volta di scatto. Ha gli occhi gonfi, i ricci spettinati e il trucco che le cola come un mare di morte giù per le guance.
Come mi vede, i singhiozzi che cercava di contenere scoppiano in un pianto disperato.
- Cristo Santo –sussurro gettando lo zaino in un angolo e correndo ad abbracciarla.
Io e Arianna portiamo la stessa taglia, siamo più o meno alte uguali, eppure ora che la stringo al mio petto, tremante, sembra piccola e gracile come solo un bambino saprebbe essere.
Chiudo gli occhi, il mento sulla sua spalla.
Attendo che le passi.
Quando qualche minuto dopo sembra calmarsi, mi separo da lei e aspetto che mi guardi in faccia.
Lo fa. Mi sta pregando. Con lo sguardo, mi sta pregando.
Mi prende per il polso e mi fa sedere sul pavimento, ai piedi del letto, la schiena poggiata alla testiera. Si accomoda accanto a me, tirando su con il naso.
Inizia a giocherellare con il suo braccialetto di crini intrecciati. Glielo ha regalato suo nonno.
Non mi guarda in faccia, continua a tenere lo sguardo fisso sulle mani.
Non ho fretta, attendo mentre dalla camera di Rita proviene il silenzio. Per un istante, vorrei che non avesse interrotto in flusso di canzoni. Almeno ora il silenzio non risulterebbe così assordante.
- Scusa, mi dispiace –mormora Arianna, senza guardarmi. Aspetto ancora. So che non ha finito.
Faccio scorrere lo sguardo sul muro davanti a noi, tappezzato di nostre fotografie. Io e Arianna al parco acquatico, al parco giochi, il primo giorno di scuola. Sorrido, vedendo la foto della casa degli orrori. Sembravamo due degenerate.
Perché usi il passato, sprovveduta?
- Non so cosa mi sia preso, davvero –continua Arianna, alzando un poco la voce –Mi dispiace. Mi sono comportata da stronza. Com’era? Le amiche prima dei ragazzi? Be’, ecco, me ne sono dimenticata. Ma in quell’istante... insomma, un po’ ero gelosa di te. Eri mia, Oliver non aveva alcun diritto di frequentarti. Ma ero anche invidiosa. La mia migliore amica che aveva un ragazzo. Perché io no?
Frena, frena, frena, bambolina. Oliver non è il ragazzo di nessuno.
Annuisco lentamente.
- E ho colto la palla al balzo. Il nuovo ragazzo, che non conosce nessuno. Per giunta, alquanto attraente... –Arianna alza le sopracciglia, mugolando l’ultima parola. Sorrido.
- Non sembrava così deficiente, sulle prime... –continua bofonchiando.
L’avevo detto, io...
- Deficiente? –chiedo sorpresa, guardandola. Arianna alza lo sguardo e mi sorride mesta.
- Già. Siamo usciti insieme un paio di volte. Tre, forse, non ricordo. Ti ho pure usata come scusa per andare a un concerto con lui. –continua, la voce che si scalda –E poi ho scoperto che, oltre a uscire con me, si faceva Sara Turrini.
Sara Turrini. Miss Universo. Be’, autoeletta...
Sara Turrini è la ballerina due classi avanti a noi, a scuola. E’ piacevole come un secchio di acido in faccia, stupida come una gallina. Però è bella. Tipico fisico da ballerina classica, ha lunghi capelli biondi e piatti, un naso a punta, una pelle bianca candida, due grandi occhi verde chiaro.
A scuola la conoscono tutti. E’ rinomata per essere un astro nascente della danza e, da qualche tempo, anche della recitazione. Ha fatto un paio di pubblicità, una di bibite e l’altra contro lo sfruttamento degli animali, credo.
Le poche volte che io e Arianna le abbiamo parlato ci ha trattato come dei vecchi zerbini lerci, e io, incapace di tenere a freno la lingua quando vengo stuzzicata, le ho risposto per le rime. Da allora ci limitiamo ad ucciderci con lo sguardo, quando ci incontriamo, per caso, in corridoio.
- Mi dispiace –dico solamente, stringendole la mano.
Quel brutto pezzo di merda. L’avevo detto io. Che lurido fradicio bastardo. Proprio un co...
- Comunque, credo di doverti delle scuse anche io. –continuo –Mi sono lasciata trascinare via, ti ho trascurata. Scusami.
Arianna scuote la testa violentemente.
- No, non è affatto vero. Non mi hai trascurata, Ele. Al contrario. E ti chiedo scusa anche per averti detto cose del genere. Ma ora, credo che tu mi debba aggiornare su parecchie cose, no? –sorride furba.
Annuisco, ritrovando il sorriso.
- Magari un’altra volta. –mormoro –Ci sono cose più importanti.
La guardo sorridendo. Arianna mugola un “Ohhhh!”, per poi abbracciarmi stretta.
- Però, ho conosciuto delle persone fantastiche, ultimamente. Voglio proprio fartele conoscere. –annuisco risoluta –Ma prima... non è che per caso sai dove abita Leonardo?

-Non voglio finire dentro –mormora Edgardo stringendo con tanta forza la scatola delle uova da avere le nocche bianche. Rita alza gli occhi al cielo, sospirando.
- Coraggio, uomo –ride Cami ispezionando attenta un pomodoro e, con un occhio socchiuso, controllando la mira.
- Per quanto voglia farlo –sospira Ari con gli occhi chiusi –Io sto con Edgardo.
- Ed –la corregge lui in un’occhiata.
Arianna lo guarda, indifferente.
- Ed. –ripete piano.
Il silenzio cala su di noi, mentre la rigogliosa villetta a schiera che si staglia dall’altra parte del marciapiede pare attendere il colpo di grazia.
- Insomma, a me Leonardo non ha fatto nulla di male –tenta di nuovo Ed, lanciandomi un’occhiata disperata.
Mi stringo nelle spalle.
- Non sei obbligato a farlo –bofonchio –Ma ormai sei dentro. Ti chiederanno di testimoniare.
- E poi –interviene Cami arricciandosi una ciocca di capelli sul dito indice – c’è di mezzo Sara Turrini. E lei di male te ne ha fatto.
Ed lancia un’occhiataccia a Cami, fulminandola con lo sguardo. Lei alza le spalle e torna a concentrarsi sui pomodori.
- Ma stiamo per bombardare di uova e pomodori la casa di Leonardo. –ricorda il ragazzo.
- Oh –sbotta Rita –Non rompere, matricola. Se vuoi, quella è la strada per tornare a casa.
- Va bene, va bene –tento di placare le acque, gesticolando pericolosamente con un uovo –Nessuno è obbligato a fare niente. Chi non se la sente può andarsene. E non verrà giudicato.
- Obiezione! –salta su Rita, alzando la mano.
Le lancio un’occhiata scettica. Lei abbassa lentamente la mano e borbotta qualcosa.
- Io ci sto! Infrangiamo la legge! –strilla Cami saltellando sul posto, investendo tutti con la sua euforia. In un lampo mi ricordo della ragazza che mi ha accolto al Caffè, quel pomeriggio. Scontrosa, non troppo gentile. Non ha nulla a che vedere con la bambina esultante che abbiamo davanti. Magari era stanca. O magari Cami è fatta così, all’inizio diffidente come un cerbiatto selvatico.
Arianna esita, ma poi annuisce.
- Se lo merita. –conviene alludendo alla casa gialla.
L’idea di farla pagare a Leonardo mi aveva illuminato fin da subito, ma io non sarei mai riuscita a convincere Arianna da sola. Così ho chiamato in soccorso Rita che, venuta a conoscenza dei fatti, dopo aver investito di insulti Leonardo, si è, seppur a fatica, scusata con me. Grazie alla sorella, Arianna ha trovato un po’ di motivazione, ma non avevamo un’auto da usare in quanto quella di famiglia la stesse usando loro padre e non ci fosse una corriera diretta a casa del ragazzo. Ho scoperto che Leonardo lavora sì nella gelateria del mio piccolo paese, ma vive in una zona che dista venti minuti in auto da casa di Arianna.
Quindi impossibile da raggiungere a piedi, se non altro prima dell’alba. E poi mi è venuta in mente Cami che, avendo già compiuto i diciotto anni, ha la patente. Il suo entusiasmo è risultato quasi commovente, sul momento. Ha detto che sarebbe passata a prendere Ed (per farlo uscire un po’ di casa) e avrebbe fatto razzia dei pomodori di sua nonna, per poi passare a prendere noi.
Alla domanda curiosa di Diana che chiedeva dove accidenti fossimo dirette, noi tre adolescenti, con tre pacchi da dieci uova ciascuno, Rita si è inventata una bugia talmente ben architettata da lasciarmi a bocca spalancata.
- Rita? –chiedo.
- Stai davvero dubitando di me? –lo chiede in una smorfia disgustata, sputando le parole come fossero veleno.
Annuendo, mi ricordo che stiamo parlando di Rita.
- Ed, resti solo tu. –continuo guardandolo.
Lui sospira rassegnato.
- Maledetto quel giorno in cui ti ho lasciato sedere accanto a me... –bofonchia prendendo un uovo –Sarà solo colpa tua se finirò in prigione.
- A dirla tutta, sarà colpa di Leonardo che mi ha rubato il posto. Quindi, vendicati ora che ne hai ancora la possibilità. –sottolineo, dandomi un cinque mentale.
Ed mi fissa confuso.
- Quindi, sarebbe un circolo vizioso? –scandisce lentamente, gli occhi socchiusi.
Benvenuto nella mente contorta della Sprovveduta, baldo giovane.
- Oh, al diavolo! –esclama portando il braccio indietro e lanciando con forza l’uovo contro la finestra di casa Vitali.
- Che lancio! –strilla Rita portandosi un pugno alle labbra distese in un sorriso.
L’uovo si spappola contro il vetro della cucina.
- Centro! –esclama Arianna prendendo un pomodoro e lanciandolo verso la porta.
Cami urla, imitandola.
Prendo un uovo dalla scatola e, nello stesso momento di Rita, lo scaglio contro la casa.
Mentre Arianna tira un altro uovo verso la porta, questa si apre, facendo comparire un ragazzo alquanto arrabbiato sulla soglia. Un fratello?
Priva di poteri magici, posso solo assistere alla scena: l’uovo che colpisce il ragazzo sulla maglietta, imbrattandola.
- Oh, merda –sussurra Rita raccattandoci e tirandoci via, prima che la vittima possa memorizzare le nostre facce o chiamare la polizia.
Edgardo, ancora euforico, lancia un altro pomodoro.
Lo prendo per una manica e, correndo, seguo le ragazze che sono già in fondo alla strada.
- Andiamo, Ele! –strilla Ed.
- Non chiamarla per nome, deficiente! –urla Rita, ferma ad aspettarci all’incrocio. Cami apre la macchina e si fionda dentro, spingendo Arianna sul sedile posteriore.
Io e Ed ci catapultiamo nell’abitacolo, investendola; Rita ci imita e sbatte la portiera.
- Vai, vai, vai! –strilla prendendo a pugni il poggiatesta di Cami che, agli ordini, dà gas e corre via.
Il silenzio è palpabile per i primi due secondi, prima che Rita, trascinando con se tutti noi, scoppi a ridere.

Ehi, Alcott, è tutto il giorno che non ti sento. Tutto okay?

Sorrido guardando lo schermo del cellulare.
- Cos’hai da sorridere come un’ebete? –si intromette Rita, maciullando una fetta di pizza con la bocca aperta e sporgendosi verso di me.
Fatti gli affari tuoi. Fidati. E’ meglio.
Istintivamente, mi ritraggo.
Cami smette di sorseggiare rumorosamente la sua coca cola per fissarmi curiosa. Ari sospira e, strattonandola, fa tornare Rita al suo posto.
- Non sono affari tuoi. –le ricorda.
Seduta con le gambe incrociate sul pavimento della stanza di Arianna, penso che se anche Ed si fosse fermato a cena con noi, probabilmente potrei usarlo come scusa per non parlare.
Ma, per fortuna, Arianna cambia argomento.
- Così, Cami, dirigi tu il giornalino della scuola –sorride prendendo un’altra fetta di pizza.
Mando una risposta veloce ad Oliver.

Tutto okay. Ho parlato con Ari. Grazie ancora.smile

Cami annuisce violentemente.
- Proprio così. E a proposito di questo... hai già pensato a cosa scrivere? –chiede rivolta a me. Arianna mi guarda interessata: per lei quella della scrittura è una cosa nuova e che la attira.
- A dire il vero no, ma pensavo di sviluppare la storia all’idea che ho di questo personaggio... –bofonchio giocherellando con una patatina fritta sulla pizza.
- Tipo... un pirata? –salta su Rita.
Scuoto la testa ridendo.
- Lo pensavo più simile a me.
- Come... un alter ego? –chiede Ari.
-Più che altro la parte di me che non sono e che vorrei essere, che so essere rinchiusa in un angolino. Perché se anche solo voglio esserlo, allora un po’ già lo sono. –puntualizzo, fissando la mia fetta di pizza, imbarazzata –E’ un’idea stupida, lo so...
- Stupida? E’ fantastica! –interviene Cami –E quale storia vorresti fargli vivere?
Resto in silenzio.
- Nessuna, in particolare. Ho intenzione di ispirarmi a quello che vedo ogni giorno. Voglio parlare dei miei amici, delle cose che mi piacciono fare. E man mano che vivrò saprò come andare avanti.
Cami annuisce pensierosa.
- E quale momento della tua vita aprirebbe le danze, esattamente? –chiede Rita guardandomi attenta.
Sospiro.
- Quando ho incontrato Oliver la prima volta. –rispondo tutto d’un fiato –So che non siete d’accordo, ma io vedo davvero qualcosa in lui. Farà strada. Non sarà una vita come le altre, la sua. Lui farà grandi cose. E io voglio che uno dei miei personaggi sia come lui.
- Io la trovo una bella idea –annuisce Arianna, sorridendo timida. Mi si scalda il cuore.
- Sì, niente male. Potrebbe venirne fuori qualcosa di affascinante. –concorda Cami tornando alla sua bibita.

Il video. Il video ha fatto boom, Ele. 30'000 visualizzazioni, quelle dello scorso video sono triplicate. Sta cambiando. La mia vita sta cambiando.

Il messaggio di Oliver mi lascia a bocca spalancata.
Rita, rapida, si allunga e mi prende il cellulare.
- Rita! –strillo, ma lei sta ormai già leggendo i messaggi.
All’inizio sorride, ma poi assume una maschera di stupore.
- Cosa significa che il video ha avuto 30'000 visualizzazioni? –chiede piano. Mi ritrovo gli sguardi confusi di Arianna e Cami addosso.
Racconto loro dei video di Oliver e loro accendono subito il computer per andare a vederli.
Sto seduta sul letto, dietro a loro, mentre le ragazze si ammassano davanti allo schermo del computer.
- Quello è Oliver? –chiede Cami stupita, mentre Ari schiaccia sul primo video, quello di Say Something.
- Sì, perché? –chiedo riacciuffando il mio cellulare dal pavimento, dove Rita l’ha lasciato.
- Voglio conoscerlo –si limita solamente a sentenziare, con gli occhi adoranti.
- Che bello quel ragazzo. Chi è? –chiede tranquilla Teresa, comparendo alle mie spalle. Tende il collo verso lo schermo, e le mie amiche le fanno un po’ di posto.
- E’ il fidanzato di Rachele –racconta Rita, beccandosi una mia occhiataccia.
Teresa mi guarda con fare indagatorio.
- E’ un mio amico. –spiego –E ha suonato alla festa di Ari.
- Sì, sì, come vuoi –bofonchia Rita.
- Chiudi il becco, che parte! –la rimprovera sua madre tendendo l’orecchio verso la chitarra.
Oliver inizia a cantare, ed io, riavuto il mio cellulare, ne approfitto per rispondergli.

Lo so, Oliver. Non si torna più indietro. Dovremmo girare un altro video, te la senti?

- Oh, cavolo –gracchia Cami chiudendo gli occhi.
- Che bravo –conviene Teresa lanciandomi un’occhiata.
Mi sento avvampare, sebbene non conosca il perché.
Lo so io, il perché...
- Guarda quante visualizzazioni! E’ praticamente una star! –trilla Arianna indicando il numero a cinque cifre.
Mi arriva un nuovo messaggio.

Se me la sento? Cavolo, Ele, se me la sento.

Chiudo la porta alle mie spalle, piano.
- Rachele, sei tu? –chiede mia madre, seduta sul divano, con un libro in mano. Alza lo sguardo verso la mia direzione e sorride.
La televisione, accesa, continua a mandare immagini luminose sullo schermo, sebbene il volume sia talmente basso da risultare appena un brusio di sottofondo.
Avvicinandomi, noto Lucas, addormentato, con la testa in grembo alla mamma. Sorrido.
- Ciao –mormoro.
- Tutto bene? –mi chiede chiudendo il libro e poggiandolo sul tavolino.
Annuisco.
- Dovevo parlare con Arianna. Avevamo avuto uno screzio. Una stupidaggine. –spiego.
Dimentichi la parte in cui tu lanci uova e pomodori contro una casa.
- Basta che vi siate chiarite. –dice solo –Ma sai che puoi parlare con me, tesoro.
Annuisco, mentre il senso di colpa inizia a farsi sentire.
- Lo so, mamma –bisbiglio roca –E’ solo che a volte è più facile non dover spiegare le cose agli altri. Tenersele per sé è più rapido e semplice.
- Oh, non dire sciocchezze. Parlare fa bene. Non mi racconti mai nulla! Se mi basassi su ciò che mi racconti tu, Ele, non saprei nemmeno di avere una figlia! –il suo tono non è di accusa, risulta quasi divertito, ma il risentimento nella sua voce è palpabile.
Sospirando, torna a rivolgersi allo schermo. E solo ora mi accorgo di ciò che mia madre stava guardando.
Sono dei vecchi filmini dei saggi che facevo quando, da piccola, suonavo il pianoforte. Una piccola me con i codini che, impacciata, si siede sullo sgabello e, nervosa, inizia a suonare canzoncine per bambini davanti a una platea di genitori commossi.
Ho smesso di suonare il pianoforte due anni dopo che mio padre se ne è andato: mia madre era sola, con un bambino piccolo e non riusciva a permettersi le lezioni di piano.
Mi ricordo che mi dispiacque tantissimo smettere, ma per rendere le cose più semplici a tutti finsi indifferenza.
Ero brava, mi dicevano. A me piaceva tantissimo. Sognavo il momento in cui avrei potuto suonare brani dalle emozioni importanti, quelli che ascoltavo di continuo e che mi scatenavano una tempesta dentro.
Prima di smettere, riuscii a suonarne uno. Era tanto tempo che mi impegnavo al fine di riuscirci. L’impegno e la determinazione che avevo mi resero possibile suonare River flows in you di Yiruma, un pianista e compositore sudcoreano.
Era la mia ninna nanna, quando era ora di andare a dormire, papà mi accompagnava a letto, mi rimboccava le coperte, faceva partire la canzone e si sdraiava accanto a me.
Io chiudevo gli occhi e mi godevo la musica.
Mio padre era un appassionato di musica classica. Aveva una collezione di dischi di vari musicisti. Credo che mamma l’abbia buttata via quando se ne è andato. Non l’ho voluto sapere.
- Quelli... quelli cosa sono, mamma? –deglutisco indicando il televisore, mentre sento gli occhi appannarsi.
Mia madre mi guarda curiosa.
- Oh, be’, sono i filmini dei tuoi saggi, tesoro. –risponde serena.
La fisso sbalordita.
- E come mai li stai guardando? –le chiedo distogliendo lo sguardo dallo schermo con una smorfia.
- Perché li ho trovati in uno scatolone impolverato in cantina è mi è venuta voglia di riguardarli –spiega confusa.
- Spegni, ti prego –strepito chiudendo gli occhi.
- Andiamo, eri bravissima! –ride mia madre.
- Non è per quello...
- E allora cosa?
Sembra davvero non capire tutti i problemi che mi sto facendo.
Be’, non è l’unica.
Scuoto la testa, lentamente.
- Non importa –mormoro dirigendomi verso le scale –Vado a farmi una doccia.

Tuta comoda nera addosso, torno al piano di sotto spazzolandomi i capelli.
Mia madre si è addormentata sul divano. Spengo la televisione, dopo aver recuperato i cd dei vecchi filmati.
Stendo una coperta su di lei e su Lucas, perché non prendano freddo.
Il telefono di mia madre, sul tavolino accanto al libro, prende a squillare.
Incapace di fare altro, mi limito a fissare quello strano numero sconosciuto sullo schermo. Non è un prefisso di qui.
Messaggio di segreteria telefonica.
Fantastico, il killer ha ben pensato di lasciare un messaggio in segreteria.
- Ciao, Diana –è la voce di un uomo. L’ho già sentita, così mi spremo le meningi per ricordare il volto a cui l’ho associata. Invano, torno a concentrarmi sul messaggio.
- Ho visto che mi hai chiamato. So che dovrei essere sempre a disposizione, visto ciò che sta accadendo, ma mi era morto il telefono e...
La voce si spegne, stanca.
- Non importa. Volevo solo dirti che la situazione è peggiorata, Diana. Ho bisogno di vederli. E se loro spingono così tanto per incontrarmi, meglio ancora. La proposta di vacanza è l’ideale. Sarà tutto a spese mie, ma ti prego, accetta.
Non è il contenuto del messaggio a farmi scattare qualcosa nel cervello, ma la voce. Mi ricordo di chi è.
E capisco che, malgrado tutto, mia madre è in trattative con mio padre.

Devi calmarti, sprovveduta.
Cammino nervosa su e giù per la stanza, una mano su un fianco e l’altra alle labbra, per mangiarmi le unghie.
Non capisco. Mia madre era del tutto contraria a farci incontrare papà. Cos’è cambiato? Cos’è successo di così importante da farle cambiare idea? Ma soprattutto, ora che mi è così vicina, la cosa, sono sicura di voler vedere l’uomo che mi ha abbandonato?
Qualunque altro adolescente che si rispetti, in tutti i film della storia, si sarebbe arrabbiato. Passare l’estate con il genitore che se ne è andato? Scherziamo? Che muoia!
Ma io... io non mi sento così. Non ci riesco, nemmeno volendo.
Certo, pensando alle mie lezioni di pianoforte, avrei voglia di prenderlo a pugni. Vedendo mia madre faticare per me e mio fratello, vederla così sola al mondo, mi fa nascere dentro un rancore incredibile.
Ma dura poco, sostituito dalla struggente sensazione di vuoto. Cos’ho fatto, di sbagliato? Voglio riaverlo, qui, con me, subito. Perché tutti gli altri hanno un papà, e io no? Non me lo sono meritato?
Ehi, piano, piccolina. Va tutto bene. Non piangere.
Sbuffo frustrata, gli occhi che mi si appannano ancora.
Non so nemmeno che faccia abbia, mio padre. Ho ancora l’immagine del giovane uomo sorridente stampata in testa. Improvvisamente, mi blocco, rendendomi conto che mio padre è un milionario: ci sarà qualcosa di lui su Internet.
Svelta, mi siedo alla scrivania e, scostando il blocco degli appunti, apro il computer.
Enrico Nardi, digito.
Notizie. Tutte notizie americane. Enrico Nardi e la sua azienda creano altri 3000 posti di lavoro. Enrico Nardi ritira il premio dell’anno. Enrico Nardi tiene una conferenza sull’ambiente.
Cerco delle immagini.
Ed eccolo lì.
Un uomo sulla quarantina, affascinante. Capelli scuri, come i miei, ordinati sul capo. Sorriso da rivista.
Mi sorprendo in una smorfia: abbracciata a lui, una graziosa donna di poco più giovane (contrariamente a quanto diceva mamma), dai setosi capelli mossi e biondi, avvolta in un acceso abito verde, una preziosa collana che ne copre l’orlo. Ha un sorriso dolce. Sono belli, insieme. Sembrano la perfetta coppia felice. E forse lo sono proprio.
Sospiro, chiudendo la pagina e costringendomi a spegnere il computer.
Che ne dici di scrivere?
Fisso il blocco e la penna accanto alla mia mano. Annuisco.
Bene, bene. Che ne dici di iniziare con una descrizione della protagonista?
Nah, noioso. Ci vuole qualcosa di stimolante.
Mm... inizia a scrivere. Magari, riprendi la tua Cassie.
Pendo un profondo respiro, sperando con tutta me stessa che la scrittura possa aiutarmi a non pensare e, impugnando la penna, comincio a scrivere.

La luce arancione del bar risultava addirittura soffocante. La birra era pessima e il cartone sarebbe stato certamente più buono delle misere tartine che servivano.
Il ragazzo non aveva la minima idea di come fosse finito lì, in quell’orribile pub inglese, che non era nemmeno paragonabile a quelli della zona.
Forse la stanchezza e il ricordo della terribile giornata appena trascorsa lo avevano distratto a tal punto di farlo vagare senza meta, per poi farsi trascinare da qualche ubriaco dove si trovava ora.
L’aria pareva densa, colma di fumo, irrespirabile. E poi il ragazzo iniziava a sentirsi pesante e privo di equilibrio, come se l’alcol che i clienti avevano bevuto aleggiasse nell’aria per ubriacare le poche persone rimaste sobrie.
Sul vecchio palco scricchiolante si erano ormai esibiti tutti gli alticci della serata, e se prima avrebbero avuto anche la più piccola speranza, la sbronza aveva rovinato la loro carriera nascente.
“Musica Live”, diceva il foglio appeso al bancone. Se quella, per loro, era musica, si disse il ragazzo, allora il mondo non sapeva più cosa essa fosse realmente.
L’ennesimo ubriaco salì sul palco ed il ragazzo, sconsolato, si voltò dall’altra parte, seguendo distrattamente le parole che biascicava.
Annunciava qualcuno, il ragazzo non colse chi. Lo sentì protestare e poi applaudire.
Quando la chitarra attaccò, al ragazzo fu chiaro che a suonare non era un altro ubriaco. Erano delle note precise che creavano una melodia a dir poco grandiosa.
Il ragazzo riportò lo sguardo sul palco, e rimase folgorato.
Talmente minuta da scomparire quasi del tutto nel suo cardigan bianco, la ragazza dai capelli biondi iniziò a cantare.
E tutto si bloccò, si congelò, persino il tempo. Nel soffocante pub tutto si zittì, dagli ubriachi all’acqua che gocciolava dal lavandino.
Una voce calda, dolce, di quelle che riconosci subito, che vorresti sentire di continuo, che ti mettono in pace con il mondo.
La ragazza teneva gli occhi chiusi, come se, aprendoli, tutto sarebbe svanito. Non c’era nulla di speciale nel suo modo di vestire o nel suo atteggiamento, eppure era riuscita ad incantare tutti, in quei pochi metri quadrati.
I capelli biondi, raccolti disordinatamente in una coda, sfuggivano qua e là dall’elastico, incorniciandole il viso abbronzato.
- Chi è? –chiese con voce roca il ragazzo al barista, davanti a lui.
- Mable –annunciò l’uomo pulendo il bancone con uno straccio –ma è un nome d’arte.
- E qual è il suo vero nome?
Il barista si strinse nelle spalle, continuando il suo lavoro.
La ragazza aprì gli occhi e prese a sorridere, continuando a cantare.
E se prima la canzone era apparsa bella, ora era stupefacente.

 

ANGOLO AUTRICE:

Eccomi qui! Scusate il ritardo, ma ultimamente ho rivoluzionato la mia camera e il computer ha ben deciso di abbandonarmi, quindi sto facendo i salti mortali per pubblicare...

Sono cosciente che in questo capitolo Oliver sia praticamente insesistente, ma vi posso solo anticipare che presto potrebbe esserci qualche capitolo dal punto di vista del nostro gentleman talmente perfetto da risultare irreale. (Lo so, mi innamoro dei miei stessi personaggi. Che posso farci?)Okay. Che ne dite? Cosa vi è parso questo capitolo?Grazie mille a tutti quelli che passano!

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Capitolo 9
*** 9. ***


9.

Quando mi alzo, intenzionata a parlare con mia madre, trovo solo un post-it sul tavolo della cucina: Io e Lucas siamo usciti a fare spese. Torneremo pomeriggio. Ti vogliamo bene. Mamma.
- Oh, fantastico –borbotto guardando l’orologio –Mi tocca anche pranzare da sola.
Sono appena le dieci di mattina. Ho la casa tutta per me e una domenica curiosamente soleggiata a disposizione. Mentre aspetto che il caffè sia pronto, torno in camera per togliermi il pigiama.
Guardo disgustata la pila di jeans che ho nell’armadio, per poi investire di gioia anche tutte le magliette e camicette eleganti accanto a loro.
Non ho proprio voglia di far niente. Quindi, mandando al diavolo ogni paragrafo di qualche sorta di galateo, indosso dei pantaloni sportivi neri aderenti e la comodissima e calda felpa nera dell’NCIS che Arianna mi ha regalato lo scorso Natale.
Sentendo il profumo del caffè fin dalla mia stanza, corro di sotto, giusto prima che il caffè bollente inizi a uscire dalla moka.
Lo verso in una tazza e mi siedo a tavola.
Decido di mandare un messaggio a Cami per avvisarla che ho scritto il primo capitolo per il giornalino e poi spengo il cellulare, intenta a passare una giornata senza distrazioni.
Mi sento sciocca, così, qui, da sola. Trova qualcosa di stupido da fare, così posso fare commenti sarcastici sulla tua stupidità, ti prego.
Sospiro, chiedendomi se smetterò mai di non solo sentire, ma di pure ascoltare, la vocetta.
Sorseggio lentamente il caffè.
Se dovesse capitare qualcuno alla porta, probabilmente si chiederebbe chi cavolo ha lasciato un gorilla in libertà.
Vestita come una sociopatica fissata con le serie TV, con questi tuoi capelli indomati e gli occhi privi di qualsiasi aiuto divino...
Concludo che sarebbe meglio andarsi a dare una sistemata, ma poi, ricordandomi che richiederebbe tempo e voglia, decido che non importa cosa sarebbe meglio.

Evviva, qualcosa di stupido.
Sbatto la testa contro una trave del basso soffitto del solaio.
- Merda –impreco massaggiandomi la botta con una mano.
Signorina Nardi!
Sospiro, mordendomi un labbro e strizzando gli occhi per il dolore. Non so cosa mi abbia convinto a fare qualcosa di stupido come seguire le indicazioni di una vocina, soprattutto se quello che la vocina dice è di fare qualcosa di altrettanto stupido, fatto sta che resto incantata a fissare le particelle di polvere danzare nell’aria.
Mi dirigo verso la finestrella e la spalanco, lasciando entrare la luce e l’aria fresca tipica di una mattina di novembre.
Mi sfrego le mani, guardandomi attorno.
Che Dio ci benedica.
Mi avvicino al primo scatolone che trovo. Non è troppo grande e non è nemmeno chiuso, perciò lo apro senza nemmeno pensarci.
Non vedo bene cosa c’è dentro, così mi avvicino alla finestrella.
Appena mi rendo conto che sono i cd della collezione di mio padre, mi faccio sfuggire la scatola di mano, che atterra sul pavimento con un rumore sordo.
- Oh no, no, no, no! –mugolo accucciandomici accanto, pronta a raccogliere le macerie dei dischi.
Tiro un sospiro di sollievo quando noto che nessuno dei cd si è rotto nell’impatto.
Scorro la pila con le dita, che raccolgono della polvere.
Dopo un attimo di esitazione, raccolgo la scatola e, stringendola saldamente tra le braccia, torno al piano di sotto.
Accendo il computer e, mentre aspetto che si carichi, tiro fuori i dischi. Li scorro uno a uno, i nomi di alcuni degli artisti migliori di questi tempi che mi passano sotto gli occhi: Yiruma e Yo-Yo Ma, compositori italiani come Ludovico Einaudi e Giovanni Allevi, ma anche autori di secoli fa come Chopin o Mussorgskij.
Ne scelgo uno a caso e, stando attenta a non guardare la copertina per non rovinarmi la sorpresa, lo infilo nel computer.
Appena parte, mi siedo sul tavolo e, incrociando le gambe, chiudo gli occhi.
Il suono del pianoforte riecheggia in tutta la cucina, le vibrazioni delle note che mi fanno rabbrividire.

Il campanello suona.
Cosa? No, no, no, no, no.
Scatto in piedi, le cuffiette al collo. Fermo la musica e, terrorizzata, mi metto a testa in giù, cercando di sistemare i capelli.
Ci passo le dita attraverso con foga, scuoto la testa in tutte le direzioni.
Corro alla porta senza nemmeno ricordarmi del mio penoso insieme.
Il mio cuore si rilassa un po’ quando la faccia raggiante di Arianna compare nel mio campo visivo.
- Oh, vedo che la metti, allora! –esclama alludendo alla felpa –Credevo fossero soldi buttati.
Le sorrido.
- Sei tu –le dico, posandomi una mano sul cuore –Mi hai fatto prendere un infarto. Non sono presen...
Arianna mi dice con gli occhi di non terminare la frase.
- Ehi, Alcott!
Dietro la sua spalla, spunta Oliver, che sorride. Mi sento mancare.
Ah.
- O... Oliver –boccheggio.
- Già, in persona –stringe i denti Arianna –Possiamo...possiamo entrare?
... o c’è qualcosa che vuoi nascondere, prima?
Annuisco, piano.
- Certo. –rispondo automaticamente, fissando spaventata Ari.
Lei sorride e i due entrano in casa.
- Scusa –dice Arianna dopo essersi tolta il giaccone –Ho provato a chiamarti, ma il telefono era spento. Ho saputo che eri sola, così ho pensato di venirti a fare compagnia. Ho incontrato Oliver per strada e... ehi, tutto bene?
Sono ancora scioccata. Decido di distogliere lo sguardo da Oliver e lo riporto su Arianna.
- Sì, bè, guarda in che condizioni sono! –esclamo mentre noto la chitarra sotto il braccio di Oliver.
- Be’, perché? –chiede Ari.
Spalanco la bocca, per poi sbattermi una mano sulla fronte.
- Deve ancora svegliarsi –suggerisce Oliver in confidenza ad Arianna, che ridacchia.
- Hai proprio ragione. –concorda lanciandogli un’occhiata.
Li guardo in silenzio per un po’.
Arianna sta sicuramente fingendo per coprirmi le spalle. Ma... Oliver? E’ gentile e fa finta di niente?
- Bene. –annuisce Oliver con uno di quei suoi sorrisi da un miliardo di dollari –Se ci offri il pranzo, noi saremmo qui per girare un altro video.

- Cosa canti? –chiede Arianna mentre io controllo, attraverso la videocamera, l’inquadratura.
Oliver continua a guardare le corde della chitarra, pizzicandone una ogni tanto.
Ari mi lancia un’occhiata rassegnata, facendomi sorridere.
- Allora? –lo incalza.
Oliver alza lo sguardo su di lei, sorridendo.
- Skinny Love –annuncia, per poi tornare alla sua chitarra.
- Uh! –applaude Arianna, improvvisamente raggiante –Quella di Birdy?
- Anche –intervengo –Ma il brano originale è di un gruppo americano, i Bon Iver. Birdy ne ha fatto una cover.
Con la coda dell’occhio vedo Oliver sorridere.
- Fico –conclude Arianna pensierosa.
Controllo dall’inquadratura come appare il salotto di casa. Ordinato. Se non altro, mamma non avrà nulla da ridire.
- Ancora non capisco perché tu ti sia cambiata –esordisce Oliver, di punto in bianco, beccandosi due occhiate scioccate –Quella felpa era sensazionale.
Lentamente mi volto verso Arianna che, bocca spalancata, mi restituisce lo sguardo.
Per girare il video, mi sono cambiata. Ho messo dei jeans e una felpa bianca con la cerniera.
A dire il vero, hai solo approfittato della scusa per cambiarti.
- Sarà anche stata sensazionale –tentenno –Ma non presentabile.
- Mica devi apparire nel video!
- Le ragazze hanno i loro bisogni, Oliver –taglia corto Arianna, guardandolo altezzosa –E credo che tu non voglia sorbirti una lezione sul perché Ele si sia cambiata.
Oliver alza le mani in segno di resa.
- Va bene, va bene, andiamo avanti.
Sorridendo, accendo la telecamera e gli faccio segno di partire.

- I commenti?
Oliver sembra stupito, quasi non ci avesse mai nemmeno pensato.
- Certo –ribatte Arianna mordicchiando la barretta di cioccolato –Non ti è mai passato per la testa?
Sospirando, porgo il portatile aperto sulla pagina dei commenti della sua cover di Say Something a Oliver.
Lui, piano, lo prende e si mette a leggere.
Arianna aggira il tavolo e si siede accanto a me, mentre continuo a fissare Oliver in attesa di qualcosa.
O perché è talmente bello che non riesci a farne a meno?
Dopo poco, un sorriso gli spunta timido sulle labbra.
- Be’, che dicono? –chiede Arianna disinteressata, masticando la barretta.
- Mi hai fatto piangere. Magnifico. Hai una voce stupenda. –elenca scorrendo la pagina. Si blocca, in un sorriso sornione.
- E?
- E che vogliono un video senza maglietta. –legge, un’espressione da ebete dipinta sul volto.
- Oh, che aspettino pure! –mi lascio scappare.
Oh, povera sprovveduta. Dovrebbero tagliarti la lingua.
Mi ritrovo quattro occhi addosso.
Arianna mi guarda come se mi fossi fatta sfuggire qualche informazione segreta, mentre Oliver è solo interdetto.
- Siamo a novembre –mi correggo lentamente –Fa freddo per un video senza maglietta. No?
- Oh, questo dice che si ricorda di me. Ho suonato alla festa di compleanno della figlia. –Oliver pare rimuginare un attimo, per poi illuminarsi –Dev’essere il padre di Meg. Ho suonato al suo compleanno l’anno scorso.
- Fantastico –commenta Arianna, cauta.
Oliver annuisce.
- Ah, Ari, come va con il corso di spagnolo? –chiedo, ricordandomi improvvisamente di una bolletta che ho visto in cucina qualche giorno fa.
- Pff... –sospira la ragazza –Perché?
- Ora prendiamo anche i canali stranieri. Se ti interessa, credo di poter trovare anche quelli spagnoli. –borbotto armeggiando con il telecomando e camminando verso la tivù.
Ari mi trotterella dietro e ci sediamo sul divano, mentre Oliver resta in cucina a leggere i commenti.
Accendo lo schermo.
- Ehi, ma quelli non sono i video dei tuoi saggi di pianoforte? –chiede subito la mia amica, notando i dischi sul tavolino.
Oh, accipicchiolina.
- Cosa? –salta su Oliver, raggiungendoci.
- Niente! –avvampo, raccattando i filmati.
- Suonava il piano, da piccola –spiega paziente Arianna, mentre io mi stringo al petto il malloppo.
Oliver mi guarda, colpito.
- Suonavi il piano? –chiede in un sorriso.
- Era tanto tempo fa –mugugno, mentre con la mano libera cerco il canale giusto.
- Potresti duettare con me! –esclama, gli occhi che brillano.
- No, non potrei –taglio corto –Non suono più da un pezzo e non ho un piano da suonare.
- Ma...
Guardo Oliver. Vorrei che la mia fosse un’occhiata dura, della serie “fine della discussione”. Ma sono più che sicura che assomigli ad una supplica, così torno subito a cercare il canale della RTVE, la principale televisione spagnola.
- BBC... –mormoro passando il canale inglese –CNN, CBC...
- CBC! –esclama Oliver –E’ la televisione canadese!
Mi fermo per un attimo sul canale. Trasmettono un vecchio episodio di Anna dai capelli rossi.
- Anna dai capelli rossi! –esulta Arianna, iniziando a cantare la sigla italiana.
- Okay, okay –mi affretto a cambiare canale, prima che inizi a dare di matto.
Battuta sul tempo, direi.
Il canale successivo è quello della CBS, la televisione americana. C’è la pubblicità.
Resto assorta, per un attimo, ad ascoltare la pronuncia.
Per lo spot successivo, il volume viene alzato a livelli stratosferici. Mi affretto ad abbassarlo, per poi ascoltare, indignata, la voce dell’uomo.
Quando capisco di cosa sta parlando, richiamo Oliver, che presta attenzione.
- Sei un giovane cantante? Magari anche un cantautore? Cosa stai aspettando, ancora? Iscriviti al concorso! Vai sul sito 1Radio, scopri come vincere! Invia una tua cover e un tuo inedito, potrebbe essere l’occasione della tua vita! In palio, un contratto con una casa discografica! Sbrigati!
Lo spot che mostrava cantanti e concerti live termina, aprendo le danze ad una pubblicità di succhi.
Mi volto verso Oliver, un sorrisone sul volto.
Quando ricambia lo sguardo, la serietà del suo volto inizia a creparsi, facendo intravedere un piccolo sorriso incredulo.
- Ehm... potreste tradurre per noi italiani? –chiede Arianna, facendomi scoppiare a ridere.

- E’ una follia. –esclama Oliver passandosi le mani tra i capelli mentre continua a camminare su e giù per la stanza –Voglio dire, è dall’altra parte del mondo.
- Sì, be’, tu ci vivi, all’altra parte del mondo... –bofonchia Arianna.
- Qui c’è scritto che la cerimonia di premiazione si svolgerà là pochi giorni dopo Natale, Oliver: sarai a casa per le vacanze –ricordo leggendo il sito web di 1Radio –Tentar non nuoce.
- Sì, e dove si svolgerà, Rachele?
- A New York.
- Esatto. E chi può permetterselo, un volo per New York, Rachele?
- Oh, andiamo. –protesto –Un volo da Toronto a New York non costerà certo l’ira di Dio.
- Ma dopo aver appena speso i risparmi per un volo dall’Italia a Toronto, Rachele, è un costo non ignorabile.
- Potresti anche pagartelo di tasca tua, il volo per New York.
- Ma si può sapere perché vuoi tanto che ci partecipi, a quel concorso? –sospira Oliver fermandosi e guardandomi.
- Perché meriti di vincerlo. –affermo sicura, alzandomi dalla sedia –E poi stai già avendo successo su Internet, Oliver. Se continui di questo passo prima o poi qualcuno ti offrirà un contratto, ad ogni modo.
- E quindi?
- Tanto vale farsi avanti! Il verdetto andrà in onda in diretta televisiva, ti conosceranno tutti! C’è scritto che ci sarà uno spoglio iniziale di dieci candidati, i quali concorreranno per il premio finale. Le loro canzoni verranno trasmesse in radio, Oliver! Si parla di farsi un pubblico! A questo punto, che tu vinca o meno il concorso, qualsiasi altra etichetta potrebbe avvistarti e proporti un contratto! –urlo, a due centimetri da lui.
Oliver resta in silenzio, i suoi occhi scuri fissi nei miei.
- Non capisco perché tu non sia al settimo cielo –aggiungo sottovoce.
Oliver distoglie lo sguardo.
- E’ solo che è tutto così improvvisamente reale –mormora.
Continuo a guardarlo, le braccia incrociate al petto.
- Non sarebbe più uno scherzo. –prosegue, tornando a guardarmi –Non sarebbe più la stupidaggine di un diciannovenne. Ci andrebbe di mezzo la mia vita. E perché ci vada in mezzo la mia vita, devo prima esserne sicuro.
Annuisco, in un sospiro.
- Come vuoi –chiudo la discussione voltandomi e tornando in cucina, dove Arianna sembra attendermi ansiosa.
Mi chiede una risposta con lo sguardo, ma io scuoto la testa.
- Rachele. –sentire il mio nome pronunciato in un modo così profondo dalla voce di Oliver mi fa rabbrividire.
Non rispondo, frugando nella dispensa per fingermi occupata.
- Rachele –questa volta Oliver è in cucina: sebbene non lo veda, la sua voce è più vicina.
Continuo a far finta di nulla, cercando di prepararmi un discorso in caso che lui si metta a filosofeggiare sulla vita.
- Ehi. –ora è un sussurro, mentre sento la sua mano afferrarmi delicatamente il braccio.
Dio Padre Onnipotente!
Rassegnata, mi volto verso di lui.
- Sì? –chiedo, deglutendo. Oliver è talmente vicino che posso vedere le diverse sfumature di castano dei suoi occhi.
- Mi capisci, vero? –chiede, cercando i miei occhi che sviano, determinati a non guardarlo.
- No, non capisco, Oliver. –rispondo franca –E’ l’occasione della tua vita e tu stai perdendo il treno. Ma non sono affari miei, in fondo.
- Ho solo bisogno di pensarci su. –sussurra –Ti rendi conto che se partecipassi al concorso e riuscissi pure a vincerlo, la mia vita attuale scomparirebbe del tutto, Rachele? Almeno questo?
Sospiro, decidendomi a puntare gli occhi nei suoi.
- Sì, me ne rendo conto. –rispondo solo, annuendo.
- Okay –mormora sollevato, stringendomi al suo petto –Grazie.
Chiudo gli occhi, mentre la vocetta nella mia testa impazzisce. Mi lascio avvolgere dal profumo fresco di Oliver, intanto che, ne sono sicura, Arianna sorride fissandosi le unghie colorate.

- Mamma! –squittisco quando la vedo entrare dalla porta, sovraccaricata di borse.
- Ciao, figlia –sorride, cercando di togliersi le scarpe senza usare le mani.
Lucas entra in casa volando come un aeroplano, le braccia aperte. In una mano, un modellino di un aereo.
- Ciao Ele! –grida solo tra uno sputo e l’altro, correndo su per le scale.
Ecco, finita la pace.
Mi affretto ad aiutare mia madre.
- Quanto hai speso? –esclamo solo, avvistando una decina di borse diverse.
- Abbastanza. Era un pezzo che non andavo a fare shopping. Se poi contiamo che non c’eri tu a frenarmi...
- Oh, Dio. –sospiro, portando alcune buste in cucina.
- E’ venuta Arianna, per caso? –mi chiede poggiando le borse restanti accanto alle mie.
Annuisco, curiosando in quelle più accattivanti.
- Mi hai preso niente? –bofonchio mentre la delusione aumenta mano a mano che non trovo nulla di interessante.
- No. Ho visto un paio di cosucce, ma non sapevo se ti sarebbero piaciute –risponde lei semplicemente.
Non dovevi parlarle di una cosa?
Prendo un respiro.
- Mamma, devo dirti una cosa. –annuncio, guardandola attenta. Lei, le mani sui fianchi, mi guarda, raggiante.
- Sarai mica incinta... –inizia, un sorriso divertito del suo stesso umorismo.
- Ti prego, no! –sbotto.
- Okay, okay, era per scherzare! –si difende subito –Che palla, di te...
La guardo negli occhi, e come si accorge della mia serietà pare spegnersi un po’.
- Cosa c’è, Rachele?
Resto in silenzio, cercando di capire se sia meglio ritirarsi. Ma ormai ho già mezzo piede nella fossa.
- So di papà.
Se avesse un piatto in mano, ora sarebbe sfracellato sul pavimento.
Gli occhi diventano vitrei, il volto cereo.
- Cosa sai, esattamente? –chiede piano piano, cauta.
- Perché, cosa c’è da sapere? –ribatto fissandola con gli occhi socchiusi.
Lei si passa una mano tra i capelli, nervosa.
- Niente. –risponde –Niente.
- Ho sentito il messaggio in segreteria, ieri sera. Non l’ho fatto volontariamente, è solo che ero presente quando l’ha registrato e io... –la voce mi si spegne.
- Quindi sai che vuole incontravi? –chiede lentamente conferma.
Annuisco.
- Poi ha parlato di una situazione che peggiorava –ricordo –Ma non ho capito cosa intendesse.
Mia madre torna ad innervosirsi, ma cerca di non darlo a vedere.
- Parlava solo dell’azienda. Non va molto bene, ultimamente –mente. So che sta mentendo, ma decido di lasciar stare. Per ora.

- Sono quasi impaziente di leggerlo! –cinguetta Cami, ricoprendo il tavolino del Caffè di fogli.
- Anche io –concorda Arianna sorseggiando il suo cappuccino.
- Io non so nemmeno di cosa stiate parlando –notifica Ed guardandoci stranito.
- Della ragazza qui davanti! –esclama Cami indicandomi con un pasticcino mordicchiato.
Sorrido.
- Hai deciso di riprendere Cassie, quindi? –mi chiede calmandosi un poco.
- Ho scritto una specie di prologo al capitolo che ti ho fatto leggere tempo fa. –annuisco.
- Bene. Direi che a questo punto posso anche insegnarti come si fa –la luce che illumina gli occhi di Cami pare quasi spaventare Ed.
- A fare cosa? –chiede Arianna, precedendomi.
- A pubblicare questo –risponde armeggiando con i miei fogli –sul giornalino della scuola, baby.

Quando entriamo nell’aula della scuola destinata alla redazione del giornalino, Ed impazzisce.
- Cioè, avete tutti questi computer nuovissimi, e non li condividete? –strilla guardando le file di computer che lo circondano.
Ari ridacchia.
- Sono preziosi per il giornalino, Ed –si giustifica Cami sedendosi davanti ad uno degli apparecchi.
In breve mi spiega come trascrivere al computer il mio testo, come impaginarlo, come modificare il carattere e cento altri modi di sbizzarrirmi. Mi raccomanda di salvare il tutto su una chiavetta e di consegnarla a lei una volta finito.
Dice che posso venire qui quando voglio, e mi consegna una copia delle chiavi della porta, sotto lo sguardo indignato di Ed.
Trascriviamo insieme il mio prologo, correggiamo alcune frasi e impieghiamo un bel po’ di tempo a scegliere il carattere adatto, soprattutto perché Ed e Ari continuano a litigare sulle proprie preferenze di impaginazione.
Cami mi consiglia di scrivere anche un’introduzione, su me stessa e su ciò che ho intenzione di fare.
Annuisco, guardando estasiata il mio lavoro.

 

ANGOLO AUTRICE:

Bene, bene. Preparatevi, perchè da questo capitolo in poi tutto cambia! ;) Il prossimo sarà una sorpresa... non dico nulla!

Grazie!

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Capitolo 10
*** 10. - Oliver ***


10. – Oliver

Solletico distratto le corde della chitarra, fissando il muro.
Era seduta sul suo sedile. Cuffie rosa in testa, libro in mano, occupava due sedili. Su uno ci stavano le sue gambe. I lunghi boccoli scuri le incorniciavano il volto, gli occhi verdi che scorrevano rapidi la pagina di un libro di Giovanni Verga, Rosso Malpelo. Stretta nel suo giaccone blu invernale, indossava un paio di jeans scoloriti e delle All Star bianche. Me la ricordo come se ce l’avessi davanti ora. Era bella, non c’era che dire. Era diversa dalle ragazze che sedevano in fondo all’autobus, che indossavano abiti provocanti, chili e chili di trucco e che urlavano sguaiate, ridendo con i dongiovanni di turno. Ho lanciato loro un’occhiata, per decidere se fosse il caso di occupare uno dei posti liberi accanto a loro. Non lo era decisamente.
Sono tornato su Rachele, che pareva avvolta in una bolla, lontana dalle altre persone. Mi sono avvicinato. Ho attirato la sua attenzione. Lei ha alzato lo sguardo dal libro, piuttosto infastidita.
Pian piano la sua espressione è diventata di curioso stupore, per essere rimpiazzato quasi subito da una maschera di indifferenza. Non è stata cortese. Sono rimasto interdetto quando, dopo averle chiesto se il sedile dove poggiava i piedi fosse libero, mi ha risposto che “evidentemente non lo era”. Mi sono scusato e ho fatto per andarmene, quando lei ha parlato di nuovo.
- Hai fatto la domanda sbagliata –ha sospirato, aprendo un varco nel muro che si era costruita. Quando, in un sorriso, le ho chiesto spiegazioni, Rachele si è morsa un labbro.
- Mi hai chiesto se era occupato, non se potevo spostare i piedi per fartici sedere –ha borbottato gesticolando.
Il portatile inizia a squillare dalla cucina. Mia zia, che sta tagliando le fragole, mi chiama in un urlo.
Chiudo gli occhi, poi appoggio la chitarra sul letto.
- Oliver, cavolo! –grida, proprio mentre entro in cucina.
- Stavo arrivando! –mi giustifico mentre lei si pulisce le dita dal succo delle fragole infilandole in bocca.
Mi siedo al tavolo e accetto la videochiamata.
Mia zia mette i pezzettini di fragola in frigorifero, dopo aver spremutoci sopra un limone. Si sciacqua le mani sotto il lavandino e, mentre il collegamento con il Canada si carica, mi raggiunge, appostandosi alle mie spalle.
- Speriamo solo che sia tua madre a chiamare... –bofonchia.
- Perché? –le chiedo sorridendo –Non ti piacciono i miei amici?
Lei sbuffa, passandosi una mano tra i capelli biondo cenere.
- Perché, non posso desiderare ardentemente che sia mia sorella a chiamare, Olly? –cerca di recuperare terreno guardandomi scettica.
Mi lascio scappare una risatina.
- E comunque era il computer di casa che chiedeva il collegamento, quindi rilassati. Se fossero stati Scott o Jay a chiamare, lo avrebbero fatto dal loro portatile, no?
Sembra quasi confortata alla notizia.
Finalmente il collegamento si carica e compare, sullo schermo, la cucina di casa mia.
Quando mia zia realizza che lo sciagurato in primo piano, quello con un curioso cappello di lana natalizio in testa e la bocca piena, è Ross, sospira esasperata.
- Ci rinuncio! –esclama alzando le mani al cielo e tornando a dedicarsi alla cucina.
- Ehi, amico –sorrido, mentre Ross finisce di masticare quello che ha in bocca.
- Ehilà Oliver! –esclama –Era tua zia, quella?
Annuisco, mentre un sorrisone gli si dipinge sul volto.
- Be’, allora potrei anche venirti a trovare per Natale...
- Ross! –esclamo inorridendo. Dall’altra parte della stanza, mia zia mi guarda curiosa. Evidentemente, non ha capito ciò che Ross ha appena detto. Ogni tanto ringrazio il cielo del fatto che il suo livello di inglese sia sotto le scarpe.
- Ehi, aspetta un attimo –dico facendo due conti –Cosa ci fai tu a casa mia?
- Be’, che credevi, che venissimo a casa tua solo perché ci abitavi tu? –esclama Scott, comparendo accanto a Ross.
- Sì, be’... –inizio.
- Sì, be’... –mi imita Scott con una vocina sottile –Povero illuso.
Agita un muffin al cioccolato, di quelli che cucina sempre mia madre, davanti alla telecamera.
Sospiro.
- Come va, ragazzi? –chiedo loro, appoggiando il mento su una mano.
- Oh, benone –risponde Ross, scuotendo il pompon azzurro in cima al cappello. Sorrido.
- Ciao, Oliver–compare Allie, spingendo via Ross.
- Ehi, signorina, c’ero prima io! –protesta il mio amico.
- Si dà il caso tu sia in casa mia, davanti al mio computer, parlando con mio fratello. –ribatte mia sorella.
Ross riflette un attimo, poi sorride come uno scemo.
- Se volevi sederti accanto a Scott, bastava dirlo.
Allison diventa paonazza, mentre Scott lancia un’occhiataccia a Ross, che se la ride di gusto.
- Sono fidanzata–mormora solo mia sorella, lo sguardo basso.
- Smettetela, tutti quanti –intervengo.
- Andiamo, Oliver! Dillo, che Noah non ti piace. –continua Ross.
Allie si copre il viso con le mani, i capelli castani che le ricadono sul volto.
- Lasciala stare, Ross –sospira Jay, comparendo nell’inquadratura.
- Ma ci siete proprio tutti? –esclamo, notando che entrambi i miei due migliori amici, insieme a Ross e probabilmente anche Will, stazionano a casa mia.
- Will dev’essere in bagno –bofonchia Scott.
Annuisco.
- Ehi, Oliver –sorride Jay.
- Amico –ricambio.
- Sai, ci manchi tantissimo –uggiola Allison scoprendo il viso.
- Parla per te –ribatte Jay, con un sorriso. So che sta scherzando.
- Non prenderlo sul serio –interviene Scott fingendo un’aria femminile –E’ solo che da quando siamo fidanzati, gli basto solo io!
Jay si passa una mano sul volto. Credo abbia bofonchiato qualcosa come “Dio, non ancora, ti prego”.
- Scott, sei un idiota. –sospira.
- Lo so che mi ami –continua la recita l’altro, mentre Allie si lascia scappare un risolino e Ross li guarda esasperato.
- Non fare il deficiente.
- Oh, ammettilo! Sono la tua ragione di vita.
Jay mugola un gemito, poi annuisce.
- Hai decisamente ragione...
- Lo sapevo! –esulta Scott.
Ci sono pochi secondi di silenzio.
- Ehi, Scottie?
- Sì?
- Sei un idiota.
Scoppiano tutti in una fragorosa risata, me compreso.
- Ehi, Ross, dobbiamo andare –compare Will, con i suoi capelli spettinati. Lui e Ross sono fratelli.
- Oh, ehi, Oliver! –sorride quando mi vede –Come va, amico?
- Bene –sorrido.
- Mamma ha chiamato –continua a rivolgersi al fratello –Dobbiamo andare.
Ross sospira, poi si toglie il cappello e lo infila in testa a Jay che, spazientito, chiude gli occhi, le braccia incrociate al petto.
- D’accordo –conviene –Ci vediamo per le vacanze, no, Oliver?
Resto in silenzio.
- Sì, credo di sì –mormoro alla fine, prima di salutare Will e Ross che, dopo aver salutato mia madre, se ne vanno.
Restano Scott, che sorride calorosamente, Allie, che ha un’espressione fin troppo sollevata dovuta all’assenza di Ross e Will, e Jay, che si toglie il cappello natalizio con una smorfia.
- Senti che pace! –urla mia madre, in italiano, dalla cucina.
Io e Allie, comprendendo ciò che dice, scoppiamo a ridere. Scott e Jay, comprendendo invece la situazione, sorridono.
- Mamma! –chiama Allie –Vieni a salutare Oliver!
Poco dopo Scott si alza dalla sedia per far sedere mia madre.
- Tesoro! –sorride. I capelli dorati sono fermati sulla testa da una pinza.
- Ciao, mamma –ricambio, mentre una morsa prende a stringermi il cuore.
- Stavo facendo le prove per il cenone di Natale. Voglio cambiare, quest’anno.
- Voglio anche io una madre italiana –piagnucola Scott, facendo sorridere Allie.
- Anche tua madre cucina bene, Scott. –interviene mamma, guardandolo divertita –E poi anche Allie sa cucinare.
Allie sbianca, mentre Jay mi guarda preoccupato.
- E questo cosa vuol dire, mamma? –chiedo.
- No, voglio dire –rimedia mia madre –Può insegnargli come si fa. Tutto qui.
- Sì, be’... –mormora Scott, allarmato –Sarà anche il caso di cominciare, no?
Prima che possa dire nulla, lui trascina via Allie.
- Dovresti essere un po’ meno protettivo con tua sorella –conviene mamma esasperata -E’ giovane, e ha il diritto di farsi una sua vita.
Sospiro.
Allison è la mia sorellina, è naturale che voglia proteggerla.
Tra lei e Scott c’è sempre stato qualcosa, ma lei è troppo timida e lui è troppo rispettoso del nostro rapporto per farsi avanti. E lo ringrazio mentalmente di continuo, per questo.
E poi Allie è fidanzata, ora. E’ stata furba, perché l’ha fatto mentre io ero qui in Italia, e l’ho saputo attraverso uno schermo. Non vedo l’ora di tornare a casa e conoscere questo Noah. Noah. Ma che razza di nome è, Noah?
- Allora, ho saputo che stai sbarcando su Internet –commenta Jay, in un sorriso. Mia madre fa lo stesso, orgogliosa.
- Già –rispondo abbassando lo sguardo. Non ho ancora accennato al concorso, e nemmeno a Rachele. Ho parlato di lei solo a Scott via telefono una sera, ma sono quasi sicuro che lo sappia anche Jay.
- E che mi dici di... –Jay si concentra un attimo –Rachel?
Ecco, neanche detto.
- Rachel? –chiede mia madre, confusa.
- Okay, intanto è Rachele –sorrido, muovendo una mano verso di loro –E smettetela di inglesizzarlo.
Mia zia, sentendo il nome della ragazza, mi guarda sorridendo furba.
- Oh, è un nome bellissimo! –trilla mia mamma –Se Allie fosse nata in Italia, l’avrei chiamata Rachele!
Jay la fissa, sconcertato dall’immediata e perfetta pronuncia del nome. Ma d’altronde mia madre è italiana, per lei è un nome come un altro.
- Te l’ha detto Scott? –chiedo a Jay, anche se conosco già la risposta. Lui, infatti, annuisce ridendo.
- Be’, chi è Rachele? –chiede mia madre, in italiano. Ma Jay, che ha capito, mi precede.
- E’ la ragazza che l’ha convinto a postare il video su Internet. Scott mi ha raccontato tutta la storia.
Mia madre sorride come una che la sa lunga.
- Oh, illuminami, Jay, ti prego.
- Praticamente –inizia, mentre io mi preparo alle esagerazioni che Scott pompa nelle storie ogni volta che le racconta – Si sono incontrati sull’autobus, per andare a scuola. E la ragazza si è dimostrata, a ragione, indisponente, perché il signor Dawn, con centinaia di posti vuoti, si è seduto proprio vicino a lei, iniziando a parlare a macchinetta.
- Come fa sempre, del resto –annuisce mia madre, senza nemmeno guardarmi.
Tento di obiettare, ma Jay continua il suo racconto.
- Ma poi, si sono incontrati alla festa alla quale Oliver suonava, un po’ di settimane fa, perché la festeggiata era la migliore amica della ragazza, che ha sentito il nostro soggetto suonare.
- Il soggetto? –chiedo –Mi stai prendendo in giro?
Mia madre mi azzittisce con un gesto della mano.
- Poi Oliver si è messo a fare lo psicologo e, dopo aver stressato la povera Rachel per alcuni giorni, le ha consigliato di mettersi a scrivere, scoprendo un enorme talento.
Mia madre lo ascolta rapita. Scuoto la testa.
- E una cosa tira l’altra e...
- Sarà mica la tua fidanzata? –chiede mia madre in uno scatto, guardandomi speranzosa.
- Cielo, no! –esclamo –E’ solo un’amica. Una testarda, caparbia e a volte persino assillante amica che mi ha convinto a pubblicare un video su YouTube!
Suona il campanello, e mi si gela il sangue. E’ Rachele. E lo so per certo perché le ho detto di venire per girare un altro video.
Prima che possa fermarla, mia zia, con una gioia quasi famelica, corre ad aprire.
- Qualcosa mi dice che quello che abbiamo sentito era un campanello e, a giudicare dalla tua faccia, direi che stiamo per conoscere Rachele –conclude Jay, con una smorfia, pronunciando, seppur con un forte accento, il nome giusto.
Sento mia zia salutarla e la gioia contagiosa di Ele mi arriva fino a qui.
Quando arrivano in cucina, mia zia mi sorride trionfante.
Ele mi guarda e, quando nota ciò che sto facendo, sorride imbarazzata.
Ha le guance arrossate per il freddo, è stretta nel suo giubbotto blu. I boccoli scuri le cadono morbidi sulle spalle, coperte da una sciarpa particolarmente grande.
Mima con le labbra qualcosa tipo “ti aspetto di là”, ma mia zia si oppone e la invita a togliersi la giacca.
Lei ubbidisce e la ringrazia sottovoce.
Mi perdo a guardarla. Indossa dei jeans blu scuro, che le avvolgono aderenti le gambe slanciate. Le immancabili All Star alte e bianche ai piedi, porta anche un curioso maglione grigio a maglie larghe.
Le mani infilate nelle tasche posteriori dei pantaloni, sembra quasi dondolarsi sui talloni.
- Pianeta Terra chiama Oliver! Rispondi, Oliver! –si agita Jay, facendo sorridere Rachele, che evidentemente l’ha capito.
Mi volto verso il computer, ricomponendomi.
Sorridono entrambi divertiti.
- Possiamo conoscerla? –chiede mia madre.
- Ma io l’italiano non lo capisco! –protesta Jay.
- Oh, non credo sia un problema –mi lascio scappare, beccandomi un occhiataccia da Rachele che, riservata com’è, di sicuro preferiva restarsene in diparte.
- Dai, vieni qui –le sorrido. Scuote la testa.
- Andiamo! –quasi la supplico esasperato.
Lei sbuffa e mi raggiunge, impacciata. Si siede sulla sedia accanto alla mia e saluta mia madre e il mio amico in inglese, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
- Wow –tossisce Jay. Rachele è bella, sì.
Mia madre sorride raggiante.
- Ciao, cara. Immagino tu sia Rachele.
- In persona –risponde in un sorriso la ragazza, mentre continuo a guardarla assorto.
- Io sono la madre di quel disgraziato accanto a te –continua ridendo.
Rachele ride piano, guardandomi di sottecchi. Io sospiro alzando gli occhi al cielo.
- Io sono Jay, invece. –saluta il ragazzo, alzando una mano.
- Ah, quello simile a me? –ricorda Ele dandomi una gomitata.
- Più o meno... –bofonchio.
- Cosa vorrebbe dire? –incalza Jay, avvicinandosi alla telecamera.
- Niente. Non vuol dire niente –taglio corto.
- Gli hai già detto del concorso? –mi chiede Rachele sottovoce.
Scuoto la testa, ma ormai hanno già sentito.
- Quale concorso? –chiede subito mamma.
- Dio, scusa –sussurra passandosi una mano sul volto.
- Tranquilla –la rassicuro in un’occhiata.
- Quindi? –incalza Jay.
Racconto loro del concorso, senza accennare però ai miei dubbi al riguardo.
- Oh, ma è fantastico! Ci parteciperai? –chiede al termine del racconto mia madre, portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Non rispondo, lo sguardo basso. Sento, accanto a me, Rachele che si agita sulla sedia. Quando la guardo, di sottecchi, noto che si sta mangiucchiando, nervosa, le unghie.
- Sì –annuncio, stupendo persino me stesso.
Ele alza la testa di scatto, guardandomi con quei suoi magnetici occhi verdi spalancati.
- Sul serio? –mormora piano.
Annuisco, mentre un sorriso si allarga sul mio volto, incontenibile.
- Oh, ma è grandioso! –esulta mia madre.
Improvvisamente mi sento completo, come se tutto nella vita ora avesse un senso. Non riesco a togliermi il sorriso dalle labbra, avrei voglia di gridare dalla gioia.
E quando mi volto e vedo Rachele che ha il volto illuminato da un sorriso di felicità, ma che cerca di nasconderlo guardandosi le unghie e lasciando che i capelli le coprano il volto, capisco che sto facendo la cosa giusta.

Saltella emozionata, come una bambina.
- Oh, cavolo! –trilla, gli occhi che brillano di felicità.
Sorrido, appoggiandomi al davanzale della finestra e distendendo le gambe davanti a me. La guardo, finché non se ne accorge e cerca di calmarsi.
Ogni tanto credo che abbia un diavoletto e un angioletto sulle spalle, come nei cartoni animati, che le dicono come comportarsi.
Si schiarisce la voce.
- Che canzoni hai intenzione di spedire? –mi chiede, torturandosi le mani.
Prendo un respiro, grattandomi la nuca.
- Per l’inedito, pensavo ad Another Life. E’ l’unica che ho finito e che non penso di dover rivedere o rivisitare.
Esulta sottovoce, ma quando nota che l’ho sentita, mi guarda cercando di non ridere. Ridacchio in uno sbuffo.
- E per la cover? –continua eccitata.
- Per la cover, per la cover... –borbotto guardando il pavimento, pensieroso –A me piaceva molto Goodbye Philadelphia, hai presente?
Rachele spalanca la bocca.
- Se ho presente? –ripete scioccata –Cavolo, Oliver, certo che ho presente! Goodbye Philadelphia, quella di Peter Cincotti?
Annuisco.
- Oh, Dio, tu mi vuoi uccidere –mormora estasiata, gli occhi al cielo, facendomi sorridere.
Mi raddrizzo e mi avvicino a lei. Prendo un respiro, poi inizio ad intonare il ritornello.
- And I would lay your body down...
Rachele coglie al volo la mia intenzione e parte, seppur a voce bassa, con il secondo verso.
- And wipe your tears away...
- But it’s much too late for now... –continuo sorridendo mentre un sorriso le increspa le labbra.
- To be like yesterday...
Rachele si stringe le braccia al petto, guardandomi sorridendo timida.
Resto in silenzio, osservandola con un mezzo sorriso.
Lei mi guarda, in attesa che continui.
- And the time is running out... –mi suggerisce piano.
- And we still have to say...
- Goodbye... –intoniamo insieme, all’unisono, mentre lei abbassa gli occhi.
Le alzo il mento con due dita.
Mi guarda stupita, mentre finiamo di cantare. Resto incantato da quei suoi occhi verdi e ci leggo dentro, sono come un pozzo di emozioni.
Deglutisce imbarazzata. Schiarendomi la gola, allontano la mano.
- Per la voce –mormoro –Esce meglio. Tutt’altra cosa, ad essere onesto.
Lei annuisce, poi sorride cortese.
- Sì, ovvio. –concorda.
- L’ho già provata con la chitarra –racconto allontanandomi, andando verso la finestra.
- Ma...? –coglie sedendosi sul letto.
- Ma credo che verrebbe meglio se oltre alla chitarra ci fosse anche il pianoforte. –annuncio cauto.
Rachele raggela.
- Parla chiaro, Dawn. –sibila socchiudendo gli occhi.
- Voglio che mi accompagni con il piano.
- No. –risponde piano, scuotendo la testa –Lo sai che ho smesso di suonare da un bel pezzo, Oliver.
- E quindi? –insisto.
- Non mi ricordo come si fa! –protesta, evitando di incrociare il mio sguardo.
- Oh, non dire cretinate! –sbotto avvicinandomi alla ragazza, che si stringe le ginocchia al petto e ci appoggia sopra il mento –C’è qualcosa che non mi vuoi dire.
Mi accuccio davanti a Rachele.
Lei chiude gli occhi e scuote la testa.
- Niente –sussurra.
- Puoi dirmelo –la rassicuro cercando di scovare qualcosa sul suo volto.
Quando apre gli occhi, sono lucidi. Non so cosa l’abbia spinta a fidarsi davvero, vista la sua riservatezza, fatto sta che si confida.
- Ho smesso di suonare il pianoforte quando mio padre se ne è andato –mormora.
Una ciocca di capelli le cade davanti agli occhi, e delicatamente gliela sposto dietro all’orecchio.
- Mia madre non riusciva a permettersene il costo, da sola –continua.
Aspetto che termini il discorso.
- A mio padre piaceva da morire come suonavo il piano. E forse sono stata anche un po’ grata al destino, quando ho dovuto smettere. A volte, mentre suonavo, mi compariva davanti mio padre e il fatto che mi avesse abbandonato mi veniva sbattuto in faccia. –sussurra.
Annuisco.
- Hai mai provato a suonare di nuovo? –le chiedo.
- No.
- Be’, potresti provare?
Rachele ora ha eretto di nuovo quel suo muro di riguardo. Gli occhi non sono più umidi, sembra quasi aver già ritrovato quella sua risolutezza che ne affina le mille sfumature del carattere.
- Non lo so...
- Andiamo, Rachele –la incito –Fallo per me.
Lei sbuffa, poi mi guarda, soppesando le opzioni.
- Non ho un pianoforte –ricorda, arrischiando un ultimo disperato tentativo di dissuadermi.
- Oh, be’, io so dove trovarne uno.

Quando apro la porta del vecchio locale e faccio segno a Rachele di precedermi, lei mi guarda dubbiosa.
- Oh, andiamo –sospiro ridendo –Non siamo in un film di Harry Potter: non è che appena varcherai la soglia verrai spedita in un altro mondo!
- Sì, be’, ora ho un altro motivo per non darti retta –bofonchia a ridosso della sciarpa, senza muoversi.
La guardo esasperato.
- Sul serio? –chiedo scettico, vedendo che non si schioda dal marciapiede.
Lei fa un finto sorriso amabile, poi mi fa cenno di entrare.
- Sei impossibile –borbotto entrando nell’angusto bar. Lascio che la porta di vetro si chiuda alle mie spalle.
Rachele, ancora fuori, mi scruta. Allargo le braccia, a dimostrazione del fatto che non rischia nulla ad entrare in un maledetto locale.
Lei prende un respiro e, in uno sprazzo di coraggio, posa la mano sulla maniglia ed apre la porta.
Entra rapida e lascia che si chiuda alle sue spalle.
Quando nota che la sto osservando con la tipica espressione che urla “te l’avevo detto”, Rachele allenta la sciarpa attorno al collo e, mentre se la toglie, mi fa una boccaccia.
Avvolto dal piacevole caldo del bar, apro anche io il giaccone, mentre camminiamo verso il bancone facendo scricchiolare il vecchio legno sotto i nostri piedi.
- E comunque –sottolinea Rachele sottovoce, poggiando le mani intrecciate tra di loro sul bancone di legno lucido –Nei libri di Harry Potter non si sparisce varcando una soglia.
Mi volto verso di lei, che mi affianca, nauseato.
- Mi stai prendendo in giro?
- Al massimo, puoi sparire infilandoti in un camino con della polvere magica –mi corregge seria.
- Credi che non lo sappia? Io adoro Harry Potter. Vorrei vedere te, sotto stress com’ero io.
Lei sbuffa in un risolino, esaminandomi cinica.
- Nemmeno sotto tortura sbaglierei qualche riferimento a qualche libro, Oliver. Tu sottovaluti il mio potere. –ribatte, muovendo le mani davanti al mio volto con fare mistico.
Non so se scoppiare a ridere o continuare a fissarla preoccupato, e Rachele pare accorgersene.
- Ti sto prendendo in giro, idiota –mi punzecchia infatti, dandomi un pugnetto sul braccio –Ma non su quello che ho detto riguardo ai riferimenti ai libri. Quando un libro mi conquista, possono passare secoli che me lo ricordo alla perfezione.
Guardo lo scaffale dei liquori davanti a noi.
- Ah, sì? E qual è il tuo libro preferito, Alcott? –le chiedo, lanciandole un’occhiata di striscio.
Lei ricambia, indignata.
- Sarebbe come chiedere ad una madre di scegliere tra i suoi figli! –protesta risentita, portandosi una mano al cuore.
Scoppio in una fragorosa risata, senza riuscire a contenermi.
Rachele mi guarda, con un mezzo sorriso sul volto, per poi tornare a fissare le vecchie bottiglie polverose e a fingere sconcerto per la mia instabilità mentale.
- Oh, riconoscerei questa risata tra mille! –irrompe un anziano, entrando dal retro.
Rachele ammutolisce, mentre io, riconoscendolo, cerco di smettere di ridere.
- Nonno! –esclamo, asciugandomi le lacrime.
- Proprio io, Oliver –ridacchia, carezzando i baffi bianchi.
Rachele gli sorride.
- E questa bella ragazza chi è? –chiede mio nonno, ricambiando il sorriso.
- Rachele, piacere di conoscerla –si presenta la ragazza, stringendogli la mano.
Un sorriso compiaciuto illumina il volto dell’uomo, coperto di rughe.
- Piacere tutto mio, signorina. –poi mi lancia un’occhiata, in attesa. Scuoto la testa, prima che possa formulare la domanda a voce alta. Ma lo fa comunque.
- E’ la tua fidanzata?
Rachele scoppia a ridere, lasciandomi sbigottito.
- Con tutto il rispetto, signore, ma per i miei gusti suo nipote è troppo ignorante riguardo Harry Potter per conquistarmi. –annuncia guardandomi divertita.
Sospiro, scuotendo la testa.
- Non ci credo –affondo la faccia tra le mani.
- Sì, be’, non è mai stato uno che legge molto –conviene mio nonno, come se non fossi presente.
- L’avevo intuito. –continua Rachele –Ma sa, lo tenevo buono per rinfacciarglielo quando mi fosse servito.
- Comunque –intervengo prima che si perdano a fare conversazione – Noi saremmo qui perché Rachele suona il piano.
- Io non suono il piano –si rabbuia lei, guardandosi le mani.
- Invece sì –ribatto, per poi rivolgermi a mio nonno –Ce lo presti, per un po’?
- Certo, certo –sorride bonariamente lui –Sai dove si trova.
Prima che possa opporsi, prendo Rachele per un gomito e la trascino attraverso la porta dalla quale è entrato mio nonno, arrivando in una stanzetta di legno, al centro della quale c’è il pianoforte che suonava mia nonna da giovane.
Rachele si guarda attorno, ispezionando il vecchio divano polveroso addossato alla parete, il dipinto ottocentesco appeso al muro, la chitarra nell’angolo della stanza.
Poi incrocia il mio sguardo e mi guarda quasi impaziente.
- Prego –con un ampio gesto del braccio alludo al pianoforte.
Fa una smorfia e lentamente gli si avvicina. Una volta sicuro che non scapperà appena mi volto, raccatto la chitarra nell’angolo e mi siedo sul divano per accordarla.
Rachele si è seduta sullo sgabello davanti al piano, e lo fissa.
Ha bisogno di un incentivo.
- Dammi un sol –le chiedo pizzicando piano la chitarra.
Lei si volta verso di me, titubante.
- E non cercare di convincermi che non ti ricordi qual è il tasto del sol. –la prevengo –Perché non ti credo.
Rachele sospira e schiaccia il tasto che corrisponde al sol.
Mentre continuo ad accordare la chitarra, la vedo, con la coda dell’occhio, indugiare con le dita sospese sopra i tasti.
Poi, improvvisamente, si decide e suona un accordo. E dopo un altro. E un altro ancora.
Sorrido in silenzio.
Si toglie la giacca e la appoggia sul piano, poi sfila il cellulare dalla giacca e fa partire Goodbye Philadelphia. Se la ascolta attenta un paio di volte, ogni tanto provando qualche pezzo in sincronia con la melodia. Canticchia a bocca chiusa il ritornello.
Una volta finita la canzone, prova a suonarla ad orecchio. La prima volta è troppo bassa, la seconda troppo alta.
Si schiarisce la voce, poi cerca lo spartito su Internet e prova a suonarla.
Dopo le prime due strofe, alla volta del ritornello, mi inserisco anche io.
Come base, è perfetta. Mentre suono, osservo Rachele che si concentra per non sbagliare le note, i suoi occhi che saltellano dal piano allo spartito sul suo cellulare.
Quando arriviamo al bridge, che precede l’ultimo ritornello, mi ricordo che è suonato solo dal pianoforte e di conseguenza lascio la scena a Rachele.
E solo ora, che ho pochi secondi per perdermi ad ascoltarla, mi rendo conto che manca qualcosa. Manca qualcosa nel modo in cui lei suona.
Mentre cerco di capire cos’è, mi dimentico di ripartire a suonare, una volta terminata la strofa.
Rachel si blocca e si volta a guardarmi. E quando noto i suoi occhi vuoti, inespressivi, privi di ogni emozione, capisco.
- Perché lo fai, Rachele? –le chiedo osservandola. Lei, in soggezione, torna a rivolgersi al suo strumento.
- Fare cosa, esattamente?
- Perché non ti abbandoni alla musica?
Non si muove. Sfiora appena i tasti, senza produrre alcun suono.
- Non so di cosa tu stia parlando –gracchia –Mi hai chiesto di suonare, ed è quello che sto facendo.
- Io non ti ho chiesto di suonare perché mi serviva un pianoforte di sottofondo –metto in chiaro.
- Oh, be’, a me pare proprio che sia così.
Forse il suo intento era di essere pungente, ma il suo tono è talmente avvilito da rovinare tutte le sue antipatiche intenzioni.
- Mi dispiace che tu abbia capito questo –ribatto –Perché io ti ho chiesto di suonare perché volevo fare questa cosa insieme. E’ merito tuo se sto per giocarmi la partita della mia vita, Rachele.
Mugola un gemito.
Mi alzo e mi siedo accanto a lei sullo sgabello.
Si passa le mani sulle guance, veloce, come ad asciugare delle lacrime.
- Ma non voglio farti stare male, quindi se non ti va non importa. A me basta solo che non suoni per senso del dovere per poi suonare anche male, perché non lasci che la musica ti possieda. –continuo –Sii sincera, Rachele, e dimmi se vuoi fare questa cosa con me. Non dirmi di sì per farmi contento.
Rachele tiene lo sguardo sulle sue dita, che sfiorano i tasti.
- Ho paura che se suono con l’anima, Oliver, tornerà tutto il dolore che ho cercato di coprire tutti questi anni. –sussurra.
- Ma va bene! –esclamo –E’ questo il compito della musica: rievocare emozioni e ricordi. E una volta fatto, ti sarai liberata di un peso, credimi.
Le poso una mano sulla spalla e lei, lentamente, alza lo sguardo. Sorrido.
Non so per quale motivo, ma lei sorride piano e scuote la testa.
- E se cadrai, ci sarò io a prenderti.
Annuisce, in un mezzo, piccolissimo sorriso.
- Fammi sentire qualcosa –le suggerisco –Qualsiasi cosa, purché tu ci metta l’anima.
Non sembra troppo convinta, ma poi, come se dovesse immergersi in una piscina, prende un profondo respiro, chiudendo gli occhi.
Quando li riapre, fissa il muro davanti a noi.
E poi inizia la danza.
All’inizio è una melodia lenta, e mi pare di averla già sentita.
Man mano che va avanti, accelera sempre un po’ di più. Pare un salto alla corda tra le diverse note, che si alternano rapide. Aumenta l’intensità, mentre sul volto di Rachele cambia qualcosa, qualcosa si sblocca.
La melodia rallenta di nuovo, e lei espira piano. Muove le dita a memoria, e capisco che si sta lasciando andare.
Poi la musica esplode di nuovo, e sul volto di Rachele prendono a correre delle lacrime, mentre lei tiene gli occhi chiusi.
Tutto rallenta ancora, e assomiglia più a una staffetta tra le note, un continuo arrancare, arrivare all’ultimo secondo.
Tengo gli occhi sul viso di Rachele, ormai bagnato. Una lacrima cade sulla tastiera, ma lei non pare accorgersene. Continua a suonare fino alla fine, fino a quando l’ultima nota non si disperde nell’aria e tutto torna a cadere nel silenzio.
Lentamente, si porta le mani in grembo, gli occhi perennemente chiusi.
Quando li riapre e si volta a guardarmi, sta ormai annegando tra le lacrime.
- Vieni qui –sussurro stringendomela al petto.
Rachele prende a singhiozzare violentemente, le carezzo piano i capelli. Trema, ma so che il blocco che la fermava è stato tolto.
- Sei stata bravissima –mormoro, mentre lei continua a piangere.

 

NOTA AUTRICE:

Ve l'avevo promesso, per cui eccolo qui: il capitolo dal punto di vista di Oliver! E' una tecnica che mi va molto bene, per cui d'ora in poi  capiteranno spesso dei capitoli raccontati da altri punti di vista oltre che da quello di Rachele.

Grazie come sempre!

emmegili

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Capitolo 11
*** 11. - Rachele ***


 

 

11. - Rachele

Stringo al petto l’orsacchiotto di peluche, chiudendo gli occhi.
Oggi la mia vita ha avuto una svolta, non c’è che dire.
Be’, se non altro hai conosciuto la tua futura suocera.
Scuoto la testa.
Oliver sta cambiando la mia vita. Prima di incontrarlo non mi era mai nemmeno passata per l’anticamera del cervello l’idea di rimettermi a suonare.
Ma forse era proprio quello che mi ci voleva. Come un pianto liberatorio. La musica è il pianto liberatorio dei musicisti.
Oh, bene. Siamo passati da “non voglio nemmeno vedere un pianoforte” a “sono una musicista”.
Ho cercato di suonare la melodia di Goodbye Philadelphia senza lasciarmi coinvolgere, restando distaccata. E ci sono riuscita. Ma poi Oliver ha capito tutto e mi ha messa all’angolo.
Quando ho suonato con l’anima River flows in you, in fiume mi è letteralmente sfociato dentro. Tutte le emozioni represse sono venute fuori, mi hanno preso il cuore.
E’ stato liberatorio.
La testa mi si è riempita di ricordi, flashback che mi ero completamente scordata. Un tuffo nel passato.
Mi allungo verso il quaderno e la penna.
Scriviamo? Oh, fantastico!
Annuisco.
Bussano alla porta.
Ma che tempismo...
- Avanti! –esclamo.
Mia madre entra nella stanza.
- Ehi, tesoro... –bofonchia, grattandosi la testa –Ieri ho comprato questo... pacchetto... uno di quelli con gli ingredienti già pronti per fare i muffin. Penso di aver combinato un disastro, Rachele. Non ci sto proprio, al passo con queste cose. Volevo provare a fare i muffin in modo alternativo, però...
La guardo osservare concentrata la scatola per fare i dolcetti, trattenendo una risata.
- Sì, insomma, non è che sai come si fa? –chiede imbarazzata.
Mi alzo dal pavimento.
- Vediamo... –mormoro prendendo in mano la confezione –Non dev’essere troppo difficile.
- Ma io intendevo... –interrompe lei, mordendosi un labbro – Se potevi venire a farli, i muffin. So che sei capace.
Ma noi volevamo scrivere!
Annuisco subito, poi sorrido.
- Certo. Andiamo.

- Che profumo! –sospira estasiato Lucas, allungando una mano verso il piatto di muffin fumanti.
- Con comodo, eh –brontolo sedendomi sul divano, lettore pm3 in mano e gli auricolari pronti tra le dita.
- Rachele, aspetta.
Mia madre compare in salotto, l’ansia dipinta sul volto. Il cuore mi salta in gola, mentre il mio cervello inizia a fare milioni di miliardi di ipotesi terribili su incidenti, morti e cose terribili varie possibili.
- Vi devo parlare –annuncia, lanciando un’occhiata preoccupata a Lucas, che inizia a spaventarsi e lascia stare il dolcetto. Viene a sedersi accanto a me, che abbandono cuffiette e lettore sul tavolino.
Ecco perché voleva che facessi i muffin: per avere qualcosa con cui consolarsi dopo aver appreso la notizia, qualunque essa sia.
- Bene.
Mamma si siede difronte a noi, torturandosi le dita. La mano di mio fratello serpeggia sulla mia.
- Mi sono messa in contatto con vostro padre.
Lucas stringe la presa, trattenendo il fiato.
- Di comune accordo, abbiamo deciso una cosa. –non ci guarda in faccia, gli occhi verdi, come i miei, che guizzano a destra e a manca.
La spingo a continuare.
- Durante le vacanze di Natale –inizia piano –Andremo un paio di settimane negli Stati Uniti. La prima settimana la passerete con vostro padre, la seconda potremo fare quello che vorrete. Consideratela la vacanza estiva che non abbiamo mai fatto.
- Sul serio? –uggiola piano Lucas, un lampo che brilla negli occhi.
Mamma sorride, lo sguardo mesto che si posa finalmente su di noi.
- Certo –mormora –Qualsiasi idea innovativa riguardo a come spendere la settimana bonus è ben accetta.
- Oh, grazie mamma! –esclama Lucas gettandole le braccia al collo.
Lei pare stupita, ma quando nota la sincerità nella felicità di mio fratello lo stringe, sorridendo stupita.
- Quando si parte? –chiedo.
- Oh, be’... pensavo di passare il Natale là, quindi... la settimana prima di Natale? –propone mia madre, mentre Lucas corre in camera sua per “fare una selezione di quali giocattoli portarsi dietro”.
Vedendomi corrucciata, mamma mi precede.
- Cosa c’è, tesoro?
- Niente. Sono solo sorpresa. –sorrido nervosa, portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
- Okay –mia madre si alza, mi bacia sulla fronte e se ne torna in cucina.
Incontrerò mio padre. Andrò in America. Ho ripreso a suonare il pianoforte. Ho iniziato a scrivere. La mia vita è cambiata più nelle ultime settimane che in tutti i suoi diciassette anni.

- Non ne ho voglia, Oliver... –mi lamento riempiendo la bocca con una manciata di popcorn.
Arianna mi guarda, seduta sul divano. Mi distendo accanto a lei, il telefono all’orecchio. Le allungo i popcorn, di cui prende una manciata.
- Oh, andiamo! Un po’ di cultura... –sbotta Oliver all’altro capo del telefono –Accendi quel computer e vai sul sito.
Sbuffo e metto in vivavoce perché Arianna possa eseguire le richieste di Oliver, siccome ho le mani occupate.
- Come hai detto che si chiama? –mi chiede corrugando la fronte.
- Come hai detto che si chiama, il sito? –ripeto ad Oliver, ingoiando e preparandomi ad un’altra manciata.
- YouOnLine.
Arianna digita meticolosa.
- Il video in diretta di chi? –chiedo ancora, come una vecchia sorda.
- Cristo Santo –sospira esasperato Oliver –Muoviti, che altrimenti perdi tutto il video.
- Chi ha detto che è? –chiede Arianna.
- Cristo Santo –ripeto io sorridendo.
Arianna scoppia a ridere, mentre Oliver inizia a pregare in qualche strana lingua.
- Oliver, non ci sono video postati da Cristo Santo... –strilla Arianna, per farsi sentire.
- Siete impossibili, voi due. Messe insieme, ancora peggio. Possibile che non conosciate il cantante più amato del mondo nei nostri anni?
Arianna mi guarda speranzosa, desiderando che si tratti di uno di quei poveracci che ascolta lei.
- Sì, be’, sei anche tu una ragazzina urlante? –lo stuzzico –Oppure sei gay e non ce l’hai detto?
- Non si può ammirare un artista dal punto di vista, appunto, artistico?
- Oh, ma è un poveraccio che di positivo ha solo l’aspetto fisico, Oliver!
- Ma che ne sai, se non te ne ricordi nemmeno il nome?
Alzo gli occhi al cielo, Arianna che ridacchia sotto i baffi.
- Comunque, è Trevor Michaels. Capito? –scandisce piano Oliver.
Arianna sospira rassegnata, trovando il video in diretta di cui parla Oliver. E’ già iniziato da dieci minuti, ma l’interessato non pare intenzionato a smettere troppo presto.
E’ un ragazzo giovane, avrà al massimo venticinque anni. E’ senz’altro un tipo attraente, e infatti Ari comincia a sbavare sulla tastiera.
- Non lo conosco, ma posso documentarmi –assicura sognante.
Sorriso da pubblicità di un dentifricio, Trevor Michaels ha il tipico atteggiamento da fighetto drogato.
- Oliver, fa pena.
- Oh, andiamo. In America è l’argomento principale del giorno. E’ miliardario. Fa musica da quando aveva tredici anni. Non potete non conoscerlo.
- Be’, l’ho sentito nominare. –ammetto, anche se non ne sono poi così sicura. Infilo in bocca un’altra manciata di popcorn, mentre Trevor continua a parlare. Nonostante parli in inglese e di conseguenza Arianna non ci capisca un accidente, continua a fissarlo estasiata.
- Wow, ragazzi, siete fantastici... –mugola Trevor Michaels, leggendo i commenti che i fan postano in diretta col video. Ci manca poco che gli spuntino gli occhi a cuoricino.
- Qui con me c’è un’ospite speciale, stasera. –annuncia, con aria trasognata.
- E’ fatto –commento acida al telefono, fissando annoiata lo schermo del computer.
- Santo Dio... quando ti metti qualcosa in testa, tu... –bofonchia Oliver.
- Shelia Angel, ragazzi! –presenta Trevor, mentre nell’inquadratura compare il bellissimo volto della ragazza che sta iniziando a farsi conoscere anche qui in Italia, negli ultimi tempi.
Shelia Angel è famosissima all’estero, ma qui ha appena iniziato a sbarcare. E’ venuta in tour lo scorso mese, credo, facendo due concerti da urlo.
Diciannovenne svedese, ha dei lunghi e bellissimi capelli biondo cenere che le incorniciano a boccoli il viso chiaro e dai lineamenti dolci, gli occhi color del ghiaccio che incantano chiunque li incontri e un delizioso sorriso candido.
Un corpo da urlo che metà ne basterebbe, Shelia Angel è senz’altro la reincarnazione della perfezione. Fisica, perlomeno.
Finora non ha scatenato alcuno scandalo, si è sempre dimostrata gentile e carina e perciò ha superato a pieni voti i miei test di empatia.
- Ehi, ciao a tutti! –sorride, quasi illuminando la stanza.
- Oh, Shelia! –sospira Ari adorante, ancora.
- Ecco perché volevi vedere il video, Oliver –mormoro con la bocca piena.
- Be’, non nascondo che Shelia Angel sia bellissima, a parer mio. Gli svedesi hanno tutti quegli occhi blu e quei capelli che sembrano tanto morbidi...
Annuisco.
- Vero.
- Bene, oggi Shelia è qui con me perché volevamo annunciare che... –spiega Trevor Michaels sorridendo raggiante, facendomi sentire bruttissima. Insomma, includere due persone così belle in una stessa inquadratura è un’ingiustizia.
- Che duetteremo in un nuovo singolo inedito! –trilla Shelia muovendo le dita eccitata –che uscirà dopo Natale e che si intitolerà...
- Okay, Shelia, basta così. Altrimenti smettono di ascoltarci –la blocca Trevor. Lei resta un po’ sbigottita, ma ritrova subito il suo luminoso sorriso.
- Bene. –esordisce –Allora ne approfitto per ricordare che manca poco all’uscita del mio nuovo album, ragazzi! Non vedo l’ora di farvelo ascoltare e...
- No, non mi interessa. No. –Trevor interrompe Shelia ancora una volta, parlando al cellulare.
La ragazza lo fissa interdetta, ma poi si ricorda di essere in diretta mondiale e sorride alla telecamera.
Indica Trevor impacciata, mimando la parola “telefono” con le labbra rosee.
Il cantante si alza e se ne va, continuando a parlare freneticamente al cellulare, mentre Shelia, alquanto scandalizzata, raddrizza la telecamera e sorride.
- E’ un ragazzo impegnato – bofonchia in un risolino imbarazzato e nervoso.
- Visto? –scoppio indicandola con una mano –Nemmeno lei lo sopporta!
Già vedo Oliver alzare gli occhi al cielo, ma lui non dice nulla.
- Come sei prevenuta –lo anticipa Arianna.
- Qual era il punto di farmi vedere questo video, Oliver? –sospiro guardando male Ari.
- Oh, be’, volevo che lo conoscessi. Perché quando mi ritroverò a duettare con lui...
- Sì, Oliver.
- No, dico sul serio. Non voglio che mi fai fare figuracce.
- E come farei, a farti fare una figuraccia?
- Oh, perché sarai nel backstage, mia cara. E non voglio che, mentre parli con Taylor Swift, ti dimentichi di salutare Trevor Michaels.
- Io non sarò nel backstage –lo interrompo farneticando, mentre Arianna drizza le orecchie.
- Come no. Già ti immagino a supplicarmi di venire in tour con me.
Quasi mi strozzo con un popcorn.
- Vai tranquillo –rido.
- Be’, Oliver, ci vengo io in tour se lei non vuole –interviene Arianna –Voglio conoscere Taylor Swift.
Oliver ridacchia.
- Grazie, Arianna.
- Figurati! –bofonchia lei allungando una mano verso la ciotola di popcorn.

- Sì, be’, ecco... –mi dondolo sui talloni, le mani intrecciate dietro la schiena, mordendomi il labbro inferiore.
- Sì? –Oliver mi lancia occhiate curiose continuando a tratti a pizzicare la chitarra.
Abbiamo appena finito di girare un altro video.
- Mio padre – gorgoglio guardandomi i piedi.
- Cosa?
Dillo con parole tue, sprovveduta.
- Mio padre. Andremo a trovare mio padre –ripeto lentamente, alzando lo sguardo –Per Natale.
Oliver sgrana gli occhi.
- Andrai in America? –chiede sorridendo.
- A quanto pare...
- Oh, ma è fantastico! Per quanto tempo?
- Due settimane. La settimana di Natale la trascorreremo da mio padre, la settimana dopo avevamo idea di visitare il posto, ma non c’è nulla di fatto. Ogni idea è ben accolta. –recito, quasi a memoria, le parole di mia madre.
Oliver si illumina, quasi vedo la lampadina accedersi accanto alla sua testa.
- Potreste venire con me. –propone.
- Cosa?
Oliver rimane interdetto, poi pare ricordarsi di qualche cosa.
- Ma certo, non te l’ho detto! Che idiota! –esclama –Mi è arrivata una email da 1Radio.
- E? –chiedo, stupita.
- E hanno ascoltato le registrazioni che abbiamo mandato loro. Hanno detto che sono tra i dieci candidati.
Mi cade la mascella.
- E quando pensavi di dirmelo, brutto scemo? –strillo dandogli una sberla sul braccio.
Lui scoppia a ridere.
- Me ne sono completamente dimenticato, perdonami.
- Perdonarti? Dovrei appenderti nudo in piazza a testa in giù! –ringhio, seppur sorridendo –E quindi?
- Quindi –spiega incrociando le braccia al petto –Tornerò a casa, passerò la settimana di Natale con la mia famiglia, tu la passerai con tuo padre. La settimana dopo tu, tua madre e Lucas verrete in Canada, vi presenterò la mia famiglia, e poi tu mi accompagnerai alla cerimonia di premiazione.
Dove devo firmare?!
Annuisco piano.
- Okay, ma mia madre e mio fratello? Resteranno rinchiusi in albergo tutta la settimana mentre io faccio la splendida a New York con te? –chiedo scettica.
- In albergo? –a momenti Oliver mi ride in faccia –No, no. Alloggerete in casa Dawn, milady. Così mia madre potrà passare tutto il suo tempo libero a pettegolare con tua madre mentre sfornano dei biscotti tipicamente italiani.
- No –lo interrompo –I tuoi nemmeno ci conoscono, Oliver! Come puoi pretendere che ci ospitino in casa loro?
- Oh, andiamo, mia madre già ti adora!
Sbuffo.
- Non puoi... –inizio passandomi le mani tra i capelli –Non puoi chiederle di ospitare dei perfetti sconosciuti!
- Mia mamma non ha molte amiche. Di solito sono tutte più o meno conoscenti. Le farà piacere poter parlare di nuovo la sua lingua madre!
Lo fisso scioccata, seppur un sorriso mi increspi le labbra.
- E’ una cosa folle –ridacchio.
- No, mia cara –mi corregge Oliver con aria saccente –E’ follissima.

- Prendi un muffin, Oliver. Posso assicurarti che, sebbene li abbia cucinati Rachele, non sono avvelenati o esplosivi o andati a male o... –mia madre porge il vassoio ad Oliver, sotto una mia occhiata truce.
- Abbiamo capito, mamma –sottolineo chiudendo gli occhi esasperata, mentre lei e Oliver ridacchiano.
- Grazie –sorride il ragazzo addentando un dolcetto.
Mia madre si siede al tavolo, soddisfatta.
- Bene, di cosa volevate parlarmi? –chiede chioccia, facendomi sospirare.
- Be’, ecco, signora, io sono a conoscenza dei vostri piani per Natale. –va dritto al punto Oliver.
Ci mette cinque minuti a spiegare tutta la sua follissima idea, sotto lo sguardo sorpreso di mamma.
- Mi stai prendendo in giro? –chiede alla fine la donna, altalenando lo sguardo tra me e lui.
Essendo in piedi accanto ad Oliver, non devo sembrare nemmeno troppo alta.
- Non mi permetterei mai –assicura Oliver –Ma credo che sia un’idea fantastica. Se poi consideriamo che è tutto merito di sua figlia, se andrò a New York, signora, credo che sia suo diritto accompagnarmi alla premiazione.
- Non possiamo alloggiare a casa tua come dei vecchi parenti, Oliver! –sbotta mia madre.
Guardo il ragazzo con aria da “te l’avevo detto”, ma lui scuote la testa, deciso a non demordere.
- Rachele ha già conosciuto mia mamma e lei la adora. Ha già iniziato a farmi domande tipo: quando me la presenti? E’ la tua fidanzata? Voglio conoscerla. Adorerà ospitarvi a casa nostra, glielo assicuro. –la speranza brilla negli occhi di Oliver come un fuoco fatuo.
E decido in quell’istante che devo stare dalla sua parte.
- Ti prego, mamma –riesco a supplicare, beccandomi due occhiate stupite. Oliver sorride.
- Voglio parlare con tua mamma –minaccia mia madre indicando Oliver con un dito, nonostante pare stia cedendo.
- Subito.
Oliver prende il telefono e compone il numero con velocità impressionante. Parla con sua madre per spiegarle la situazione, e poi passa il cellulare in mano a mia mamma, che lo fissa scettica.
Siccome esita, il ragazzo si allunga ancora di più. Alla fine cede e si porta l’apparecchio all’orecchio.
- Sì, pronto. –mugola –Sì, esatto, sono io.
Un sorriso si forma sulle sue labbra.
- Oh, grazie. Sì, be’, suo figlio è pieno di iniziativa –continua guardando storto Oliver –Si figuri, si figuri. Del tu? Va bene, Luisa. Puoi chiamarmi Diana anche tu. No, no, figurati.
Oliver ed io ci scambiamo un’occhiata, trattenendoci dal ridere.
- Non voglio assolutamente arrecare disturbo. So che suo figlio ha un enorme talento e che vorrebbe che Rachele venisse con lui e che le coincidenze in questa faccenda sono persino troppe, ma sul serio, non vogliamo disturbare. Sì, be’, certo che so cucinare, ma cosa c’entra? Davvero? Non ci credo. Certo che mi piacerebbe. Sì, è l’unico problema: non voglio che vi... Ma siamo degli sconosciuti! Cosa?
Mia mamma ci guarda ridendo.
- Be’, mia figlia nega appieno. Anche Oliver, eh? A me piacerebbe tanto. Sì, davvero. Sono così carini insieme.
Già, lo dico anche io.
- Mamma! –sibilo lanciandole un canovaccio in un’occhiata omicida. Oliver si passa una mano sul collo, lo sguardo basso. Potrei giurare di aver visto un sorriso sulle sue labbra.
- Ne sei davvero sicura? –pare aver perso la battaglia – Sicura al duecento per cento? Okay, va bene. Ti faccio sapere. Sì, mi faccio lasciare il numero da Oliver. Ehi, cos’era quel grido? Un amico di Oliver? Sì, be’.
Oliver si sbatte una mano sulla fronte, morendo di vergogna. Ridacchio punzecchiandolo con una gomitata.
- Certo. Grazie infinite. Ricambieremo il favore. Sofia? Oliver, viene anche zia? –chiede mia madre.
Oliver annuisce.
- Ha detto di sì. Sì, certo. Non cosa dire. Grazie. Mille. A presto allora. Sì, ciao.
Mamma chiude la telefonata e ritorna il telefono ad Oliver.
- Ecco qui. Ti saluta un certo... Will? –bofonchia socchiudendo gli occhi.
- L’unico con quella faccia tosta, signora. Era di sicuro lui –sorride cortese il ragazzo.
- Allora? –sbotto io, in preda alla curiosità.
Mia mamma mi guarda, ancora incredula.
- E’ la cosa più folle che abbia mai fatto. –mormora, facendo sorridere me ed Oliver.
- Cosa? –interviene Lucas comparendo nella stanza. Batte un cinque spontaneo ad Oliver, che mi lascia sorpresa, agguanta una banana e fissa mia madre in attesa.
- Andremo in America. –risponde piano lei –e la seconda settimana la passeremo con la famiglia Dawn. Ancora non ci credo.
- Fico! –esulta Lucas abbracciando nostra madre.
Evviva! Era solo che ora!

- Tu cosa? –chiede Cami destabilizzata, mentre sia Ari che Ed mi fissano al limite dello stupore.
- Ve l’ho già ripetuto due volte –sbotto –Andrò in America a trovare mio padre per Natale.
- No, no, l’altra parte –interviene Ed per la terza volta.
Arianna scuote la testa, per poi scoppiare a ridere.
- Andrai a conoscere la famiglia di Oliver, che diventerà famoso grazie alla premiazione del concorso al quale tu l’hai convinto a partecipare e che si svolgerà a New York –riassume rapida, sempre ridendo.
Annuisco piano.
- Ma questo è... –balbetta Cami.
- Lo so, lo so –la prevengo –Scioccante.
- Ed io come farò con il giornalino? –mugola la ragazza.
- Cami, siamo in vacanza –sospira Arianna bevendo un sorso del suo milk-shake.
- E poi, se ti fa sentire meglio, ti invierò via mail i prossimi due capitoli, così li hai già pronti. –la rassicuro.
- E’ proprio amore –mormora piano Ed, ma non abbastanza da non farsi sentire.
- Oh, chiudi quella boccaccia! –gli intimo –Io ed Oliver siamo amici, ed io faccio questa cosa perché è un mio amico.
I tre ragazzi seduti con me al tavolo scoppiano a ridere talmente forte che credo si ribaltino dalla sedia.
- Sì, sì, come no –mormorano in un perfetto unisono, asciugandosi le lacrime.

- Lo stiamo facendo sul serio –ripete mia madre per la ottantanovesima volta (e ne sono sicura, perché le ho contate assieme a Lu) sottovoce, come se stesse avendo una conversazione con sé stessa.
Guardo Lucas, indicandogli con le dita un 8 e un 9. Lui ridacchia.
Mamma continua a camminare su e giù, mentre io e mio fratello la guardiamo divertiti seduti sulle poltroncine della sala d’aspetto dell’aeroporto. Oggi partono anche Oliver e Sofia, che però vanno diretti in Canada. Noi andremo a Miami, in Florida, dove abita mio padre.
Trascorsa la settimana, prenderemo un volo per Toronto e incontreremo la famiglia Dawn. Poi, quando sarà l’ora, Oliver ed io ci imbarcheremo su un volo per New York (finanziato, per fortuna, da 1Radio, che concede un accompagnatore per ogni concorrente) e alloggeremo due giorni nella Grande Mela. Dopodiché torneremo in Canada, dove trascorreremo gli ultimi giorni di vacanza insieme.
Per una fortunata coincidenza (un’altra) i due voli partono più o meno alla stessa ora, così stiamo aspettando Sofia e suo nipote per salutarli.
Non ho più visto un pianoforte da quando Oliver ha registrato Goodbye Philadelphia per il concorso, quindi dal giorno dopo le prove che abbiamo fatto nel locale di suo nonno.
Non so se mi sento in grado di riprendere a suonare del tutto, ma ora il blocco che avevo prima è sparito.
- Oliver! –strilla Lucas balzando in piedi e correndo verso il ragazzo che, accompagnato dalla zia, si stava avvicinando a noi.
Oh cavolo. Ritirata. Torniamo indietro. Subito! Ripeto, ritirata! Ritirata!
Oliver è talmente bello da far paura.
I capelli sono scompigliati, indossa dei jeans neri, una felpa chiusa da una cerniera e una giacca di pelle. Sulla spalla, a mo’ di zaino, la custodia della chitarra. Gli occhi sono accesi di entusiasmo.
Mi sento mancare un battito, che poi viene recuperato da un martellare talmente veloce del mio povero cuore che temo si riesca a sentire.
Qualcosa mi prende alla bocca dello stomaco quando arruffa i capelli a Lucas, abbracciandolo, e mi obbligo a deglutire per non affogare nella mia stessa saliva.
Be’, Ele? Che ti prende?
Mi costringo a tornare in me quando lo vedo camminare nella mia direzione.
Sorrido.
- Buongiorno, Alcott –mi saluta abbracciandomi.
E questo cos’era?
Non me l’aspettavo. Mi ritrovo ad affondare con la faccia sulla spalla di Oliver, la sua acqua di colonia che mi stordisce.
- Buongiorno –farfuglio quando mi lascia andare.
Probabilmente nota la mia confusione, ma la fraintende.
- Che c’è, non sei abituata a questi orari? –ride Oliver spintonandomi amichevolmente, mentre io guardo a malincuore l’orologio sul muro, che segna le cinque di mattina.
- Proprio così –borbotto, sorridendo.
Certo. Certo.
Oliver mi fa uno di quei suoi rinomati sorrisi assassini.
- Oh, Maria Vergine. –ansima Sofia lasciando a terra tutti i suoi bagagli multicolore e usando la mia spalla per sorreggersi.
Sorrido, mentre mia mamma abbraccia Oliver.
- Buongiorno –le sorrido divertita, osservando i suoi capelli biondi indomati, gli occhi privi di trucco e quello che indossa, che pare essere un pigiama.
- Ciao, tesoro. –sbadiglia –Come fai ad essere così sveglia?
- Caffè –rispondo sorridendo.
- Vedrai con il fuso orario... –esclama solo, quasi fosse una maledizione.
Incrocio ancora una volta lo sguardo bambinesco di Oliver, che mi fa sorgere un sorriso spontaneo.
- Lo stiamo facendo sul serio –constata ancora una volta mamma, facendo scoppiare Lucas in una fragorosa risata.
- Già, signore –conviene Oliver guardando sorridendo mio fratello, che ancora si sbellica –Ormai non si torna più indietro!

Guardo disgustata le stantie noccioline che la hostess mi ha dato, senza accorgermi che sta passando accanto al mio sedile.
Quando incrocio i suoi occhi spenti, sorrido colpevole.
La donna sospira e prende il sacchetto di frutta secca, per poi gettarlo nel sacco di spazzatura attaccato al carrellino che si trascina dietro.
- Posso portarti qualcos’altro? –chiede annoiata.
Se è tutto come quelle noccioline, bella, no grazie.
- No, grazie –scuoto la testa.
Accanto a me, Lucas sta guardando un film d’animazione. Noto distratta che si tratta di Alla ricerca di Nemo.
- In che parte sei arrivato? –gli chiedo spostandogli una cuffietta.
Lui mi guarda in cagnesco, ma poi sospira.
- Quando Dory salta sulle meduse. –mi informa.
Annuisco, lasciandolo al suo film. Dall’altra parte, mia madre sonnecchia.
Rassegnata, prendo il computer, decisa a mandare quella mail a Cami.
Prima non dovresti scriverli, i due capitoli?
Annuisco, dando ragione alla vocetta.
Cara Cami,
sono su un volo di una decina di ore e siamo appena alla seconda. Quindi, ecco a te la tua mail. Dopo il prologo dell’altro giorno, ci sarebbe il capitolo che ti ho fatto leggere tempo fa, ma te lo rispedisco comunque assieme ai due successivi.
Un bacio,
Rachele

CAPITOLO 1 – Un anno dopo

Una fitta allo stomaco, che ti toglie il respiro, impedendoti anche solo di lanciare un ultimo grido disperato, che ti punge agli occhi come migliaia di piccoli aghi e che però ti impedisce di piangere, che soffoca i tuoi singhiozzi quasi fossero la cosa più proibita del mondo.
-Cassie, ti senti bene? –un sussurro lontano, dalla voce ancora rotta dal pianto.
Scuoto la testa. O almeno è quello che vorrei fare.
Le gambe cedono, e mi ritrovo a terra, rannicchiata su me stessa, aggrappata ai miei stessi vestiti, trafitta da un dolore disumano.
- Cassie? Cassie! –ancora quella voce, anche se questa volta è un po’ più decisa dell’ultima volta. Ancora stravolta, ma un po’ più umana. Preoccupata?
Qualcuno mi si accuccia accanto, cingendomi le spalle con un braccio. Ho gli occhi appannati dalle lacrime, che ancora non si decidono a lasciarsi andare.
Alzo la testa tremante sulla persona accanto a me. E’ mia sorella Lana. Ha i capelli disordinati, quasi non ci fosse stato tempo di pettinarli. Il volto stravolto, arrossato dalle lacrime.
Non riesco a piangere. Eppure è tutto quello che vorrei fare: scoppiare in un lungo, lunghissimo, ininterrotto pianto liberatorio.
La fitta allo stomaco mi prende tutto il corpo, invadendolo di paura e terrore. Inizio a tremare per il freddo.
Caccio un urlo lacerante, che squarcia l’aria, che mi deruba i polmoni di tutto l’ossigeno al loro interno, che mi fa accasciare a terra scossa dai singhiozzi, accompagnati dalle lacrime che finalmente si sono decise ad arrivare.

CAPITOLO 2

Da piccola mi addormentavo solamente se papà mi canticchiava qualcosa, oppure se suonava qualcosa al pianoforte.
Il che era un problema, dato che il piano era in salotto. Mi rannicchiavo sulla poltrona con addosso il mio pigiamino azzurro e mio padre iniziava a suonare.
Quando, lentamente, mi addormentavo, papà smetteva di suonare e mi portava a letto. Nel letto affianco al mio, Lana dormiva già da un bel pezzo. La lampada sul suo comodino era ancora accesa e papà, dopo aver dato la buonanotte ad entrambe la spegneva, consapevole che, siccome dormivamo, non potevamo protestare. Entrambe eravamo terrorizzate dal buio. Quando poi, alla mattina, ci alzavamo, non ci accorgevamo nemmeno che la lampada era spenta e che, se fosse stata accesa tutta la notte, sarebbe dovuta esserlo ancora.
- Cassie?
La mattina la sveglia suonava alle sette in punto. Lana scattava in piedi e spalancava la finestra, poi provvedeva a tirare fuori me dalle coperte. Facevamo colazione in cucina mentre mamma finiva di preparare i plum-cake, con la radio che mandava in onda le canzoni più vecchie. Ci vestivamo mentre papà faceva una doccia e poi correvamo alla fermata dell’autobus, che prendevamo per un pelo.
Essendo più grande di due anni, Lana aveva il compito di badare a me.
Mi dovevo assolutamente sedere accanto a lei, nonostante le mie amiche fossero sedute tutte assieme in terza fila.
Ed io dovevo sorbirmi Lana e le sue amiche che parlavano di ragazzi, trucchi, ragazzi, soap opera, ragazzi, colori di capelli…
- Cassie?
La signorina Callaway era la mia maestra preferita. Mi insegnava musica. Ero la cocca dell’insegnante, d’accordo…era vestita sempre elegante e ci insegnava un sacco di cose nuove. Quando poi la sera tornavo a casa, dopo cena io e papà andavamo in salotto e io mi sedevo sulla poltrona, con addosso il pigiama azzurro ma con ancora troppe cose da raccontare per addormentarmi.
Lana aiutava mamma a sparecchiare e poi si sedevano in cucina a “fare cose da femmine”, come le chiamavo io: cucivano, ricamavano, facevano a maglia, parlottavano, leggevano…
Io raccontavo a papà tutto quello che ci aveva insegnato la signorina Callaway e provavo a suonare con lui.
Poi tornavo sulla poltrona, stanca, e lo ascoltavo suonare. Suonava divinamente…
- Cassandra?
Era sempre stato un bell’uomo. Si teneva ordinatamente, con la barba fatta. Andava a correre ogni mattina. Si svegliava prima ancora che si alzasse la mamma. Adorava suonare. Gli sarebbe piaciuto tantissimo fare il pianista, lo so. Però non era il suo momento, e aveva due bambine piccole. Doveva essere sicuro di portare il pane a casa. Così lavorava in un’azienda edile.
- Ehi, Cassie?
Man mano che crescevamo, io e Lana ci avvicinavamo sempre di più. Anche io, a otto anni, avevo iniziato a suonare il pianoforte e a tredici suonavo ogni sera insieme a papà per Lana e per la mamma.
Iniziai anche a comporre qualcosa di mio, ma non era nulla di eccezionale, e lasciai perdere. Nel frattempo Lana e la mamma passavano tanto tempo in città a fare compere, e alle loro richieste di seguirle, rifiutavo sempre. Avevo mio padre tutto per me, se loro non c’erano. Di solito passavamo il primo quarto d’ora a decidere cosa fare. Poi optavamo per una passeggiata, oppure andavamo a pesca, se non faceva troppo freddo. Ma il negozio di musica del paese era la nostra meta preferita. Ci passavamo ore intere, anche solo a guardare i clienti.
- Cassandra!
Alzo gli occhi, lentamente. Distinguo, davanti a me, la chioma rossa fuoco di Dot, la mia migliore amica.
- Tesoro, tua mamma e tua sorella ti stanno aspettando. Faremo tardi al funerale, altrimenti. Ce la fai? –mi sorride dolcemente.
Annuisco confusamente, poi mi alzo dalla sedia.

CAPITOLO 3

I piagnistei delle persone non vogliono smettere. Qualche singhiozzo qui, un lamento là, qualche sospiro più in giù.
Guardo fisso davanti a me, ma non sto osservando nulla in particolare. So che non dovrebbe, ma la mia mente è altrove. Chiunque mi guardi, vede i miei occhi vuoti e passa oltre. Potrei scattare da un momento all’altro.
Non ho mai fatto fatica a distinguere le cose vere da quelle finte. Le fate non esistono. Gli unicorni, purtroppo, nemmeno.
Ora proprio non ci riesco. Non riesco a capire se è vero o meno. E’ tutto confuso, un viavai di ricordi e momenti di vita presente. Sembra un sogno sfocato.
La mano di Dot che stringe la mia è indubbiamente reale, ne sento il calore.
I singhiozzi sommessi di mia madre sono veri, il dolore è talmente acuto da essere palpabile.
L’immagine di mio padre davanti a me? Il suo dolce sorriso? Le sue parole rassicuranti?
Sono veri o no?
Davanti a me compare lui, di nuovo.
Mi sorride teneramente.
- Papà, sei tu? –mormoro con gli occhi annacquati che non mi permettono di distinguere le figure.
Dot aumenta la stretta sulla mia mano.
- No, tesoro. –sussurra cercando di sorridere –Tuo papà è morto.
Proprio mentre volto la testa verso di lei, proprio mentre sto per ricominciare a piangere sulla sua spalla, proprio mentre altre lacrime mi scorrono sulle guance, il prete dice qualcosa.
- Preghiamo per lui.

Invio l’email dopo aver riletto tre volte il tutto. Spengo il computer e cerco di appisolarmi, invano.

- Sei già atterrata? –mi chiede Oliver al telefono, mentre cerco di decidere se fidarmi o meno dell’autista privato che mio padre ha fatto venire a prenderci all’aeroporto.
- Cosa? Uhm, sì. –mormoro distratta portando una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio, mentre Lucas continua il suo monologo su quanto sia bello il macchinone nero che ci è venuto a prendere.
Lancio un’occhiata a mia madre, che è silenziosa ed evidentemente turbata.
- Anche io. Bene. In bocca al lupo, Rachele –percepisco che sta sorridendo –Non vedo l’ora che arrivi la prossima settimana.
Cosacosacosa?
Sorrido guardando, fuori dal finestrino, le spiagge assolate di Miami e le persone abbronzate che fanno jogging o che si aggirano con borse della spesa colorate, ragazzi sui pattini a rotelle che sfrecciano tra i passanti e turisti che si fermano a fotografare ogni minima cosa.
- Ciao, Oliver –mormoro piano.
Chiudo la telefonata sotto uno sguardo incriminatore dell’autista. Inarco un sopracciglio, facendolo scuotere la testa e tornare a rivolgere gli occhi alla strada.
Continuiamo il viaggio in auto per una decina di minuti, durante i quali Lucas non tace un momento.
Mia madre si tortura le mani in preda all’ansia.
Solo quando scendiamo dal SUV nero lucido e davanti a noi si staglia un lussuoso grattacielo del quale non si vede nemmeno la punta, realizzo che sto per incontrare mio padre.
Non ho più tempo per ripensarci, non sono nemmeno sicura di volerlo vedere, ora. Ma, come ha detto Oliver, non si torna indietro.
L’autista, dopo aver parcheggiato la macchina, ci raggiunge. Lucas ha la bocca spalancata, mentre mamma continua con il suo silenzio.
- Vogliamo salire? –chiede docilmente l’uomo in completo nero, cogliendomi di sorpresa con il suo perfetto italiano.
Mia madre annuisce, le labbra ridotte ad una linea sottile.
L’uomo ci fa lasciare i bagagli nell’atrio, dicendo che subito verranno mandati degli uomini a recuperarli.
Restiamo nell’ascensore per quella che pare un’eternità. I piano continuano a salire, un din assordante che segnala un nuovo livello.
Della noiosa musica gracchia dall’altoparlante. Ticchetto nervosa con le dita sul braccio.
La canzone finisce e ringrazio il cielo sottovoce, beccandomi l’ennesima occhiata dall’autista che, a questo punto, presumo essere anche un agente della sicurezza.
Lo speaker annuncia qualcosa, ma non riesco a capire. Centunesimo piano.
Lucas prende a canticchiare.
Mancano pochi piani (si spera) al mega appartamento dove troverò il mio papà, che è anche l’uomo che mi ha abbandonato. Volente o nolente, ora è arrivato il momento.
Dalla radio arrivano delle note familiari. Familiari a tal punto che smetto di respirare.
- Mamma –ansimo.
Lei mi guarda curiosa.
- Che c’è, amore? –mi chiede.
- Mamma! –strillo –Alla radio! La radio! La radio!
Sia lei che Lucas che l’uomo mi squadrano preoccupati. Eppure, nessuno di loro pare riconoscere la voce di Oliver Dawn alla radio che canta Goodbye Philadelphia.
- Mamma, c’è Oliver alla radio! –grido con tutta l’aria che ho nei polmoni –Oliver!
Lei tende l’orecchio, e quando riconosce la voce del ragazzo sorride stupita.
- E’ fantastico, tesoro. –conviene annuendo.
- Se posso... chi è Oliver? Un concorrente del concorso bandito da 1Radio? –chiede l’uomo, questa volta con un lieve accento inglese.
- Oh, è il fidanzato di mia figlia –risponde con nonchalance mia madre, rivolgendosi alla guardia del corpo che già sorride sornione.
- Non. E’. Il. Mio. Fidanzato! –strillo allargando le braccia –Siamo solo amici!
Purtroppo.
- Ma certo, Rachele –assicura mamma.
Vorrei ribattere, ma le porte dell’ascensore si aprono al centoquindicesimo piano.
L’uomo mi fa segno di precederlo.
- Grazie... –lascio in sospeso la frase, chiedendomi il suo nome.
- Philip –completa con un minuscolo, piccolo, insignificante sorriso.
- Grazie, Philip –ripeto allora, mentre Philip ci fa strada. Solo ora mi accorgo che siamo arrivati direttamente dentro l’appartamento e non in un atrio.
E’ talmente grande che non riesco a vederne la fine. Pare essere un salotto, le cui pareti sono vetri che danno su Miami.
Lucas mormora uno “wow”, mentre mia madre si limita a bofonchiare qualcosa.
Un rumore di tacchi riecheggia nell’aria e poco dopo una donna viene ad accoglierci. E’ la stessa della foto che ho visto su Internet. Sorride smagliante.
Quando apre bocca e realizzo che anche lei sta parlando italiano, mi domando se mio padre si sia circondato solo di persone che sapessero la sua madrelingua e se abbia usato questo criterio anche per scegliere la donna da sposare. Evidentemente, sì.
- Benvenuti a Miami! –la donna è felice, sembra non aver aspettato altro che il nostro arrivo –Io sono Kate.
Se fossi in lei, non mi presenterei nemmeno. Come può essere così cortese e disponibile nei confronti della ex moglie di suo marito e dei suoi figli?
Mia madre, dal canto suo, è altrettanto gentile. Ma cosa prende, a tutti?
- Ciao, io sono Diana. –sorride stringendole la mano –E questi sono i miei figli, Rachele e Lucas.
Mi faccio avanti imbarazzata. Kate mi sorride dolcemente.
- Puoi parlare in inglese, con me –la precedo –Mi farebbe molto piacere.
Colta alla sprovvista, la donna annuisce.
- D’accordo. Quando tratterò con te, allora, parlerò in inglese. –sorride. Ricambio con un minimo sorriso.
- Avrete fame, immagino. Vi ho preparato qualcosa –ci informa Kate, facendoci strada verso la cucina –Non sarà buono come quello che siete abituati a mangiare di solito voi italiani, ma non dev’essere così irrecuperabile.
Mi avvicino a mia madre, improvvisamente ricordatami di una cosa.
- Mamma, ma il bambino? –chiedo alludendo al figlio di mio padre con questa donna.
Forse se ne era dimenticata anche lei, perché sgrana gli occhi.
- Passerà le vacanze dai nonni materni. –spiega –Tuo padre ha pensato che fosse meglio che non ci incontrasse.
Faccio una smorfia.
- Ovvio.
Ci sediamo all’enorme tavolo da pranzo, mentre Kate, sempre con quel suo sorriso spontaneo, ci serve del pollo e delle patatine.
- Ecco qui. Enrico arriverà a momenti. E’ in riunione. –ci spiega sedendosi difronte a noi.
Lucas si getta a capofitto sul suo piatto, mentre mia madre mangiucchia qualcosa.
- Tu non mangi? –mi chiede, in inglese, Kate. Alzo lo sguardo stupita, ma poi sorrido.
- Non ho molta fame, in effetti –rispondo, meritandomi un’occhiata stupita da Philip per il mio inglese fluente.
Lucas sospira, roteando gli occhi e mormorando qualcosa come “esibizionista”.
- Mangia quel che ti senti, non c’è problema –mi rassicura Kate facendomi l’occhiolino.
Bevo un sorso di acqua, ma non accenno a toccare il cibo.
- Allora, che vi è parso di Miami? –chiede Kate rivolgendosi a tutti.
- Oh, non ne abbiamo visto granché –spiega piano mamma, sorridendo alla donna.
- Be’, posso portarvi a fare un giro, allora. –si offre raggiante –Vi porto a fare shopping. Oh, e poi andiamo a fare una passeggiata sulla spiaggia. C’è una gelateria fantasmagorica!
- Io non vengo. –mette in chiaro Lucas.
Scoppio a ridere.
- Hai ragione, forse per te è un po’ noioso. –rammenta Kate guardando mio fratello pensierosa.
- Posso portarlo io, da qualche parte –propone Philip –Ho visto che c’è una mostra, oggi, sui supereroi Marvel. Ti piacciono, piccolino?
- Se mi piacciono? Io adoro i supereroi! –esclama Lucas alzando le mani unte di patatine in aria.
Kate ridacchia.
- Perfetto, allora –sentenzia.
- Ma quando incontreremo papà? –chiede mio fratello.
- Quando saremo di ritorno –risponde semplicemente Kate –Non c’è problema.
- Io credo che resterò qui –mugola mamma guardandoci impacciata –Voglio parlare con vostro padre.
- Ah.
Mi alzo dallo sgabello, pronta a seguire Kate fuori dall’appartamento.
- Rachele, hai preso il portafoglio? –mi chiede mamma, guardandomi strano.
- Oh, per favore! –interviene Kate –Qualsiasi cosa deciderà di comprare, gliela regalerà suo padre! E non ammetto obiezioni!
- Oh. Grazie.
Decido di uscire di lì prima che qualcuno cambi idea. Di qualsiasi tipo.

Il sole caldo pomeridiano di Miami mi inonda il viso. Spalanco le braccia, cercando di assorbirlo tutto.
Perché non viviamo qui, sprovveduta?
Kate cammina accanto a me, sorridente.
- Allora, che ti pare? –mi chiede leccando il suo cono gelato all’albicocca.
- Fantastico –mi stiracchio.
La donna ridacchia.
- C’è un bellissimo negozio di vestiti, dietro l’angolo. Ti va di farci un salto? –propone.
- Perché no?
Quando entriamo nel negozio in questione, mi ritrovo in uno spiazzo di due piani, brulicante di vestiti colorati.
- Guarda questo! –strilla Kate scomparendo dalla mia vista –E questo! No, questo lo devi assolutamente provare!
Quando ritorna, mi trascina in un camerino, obbligandomi a provare tutti i vestiti che ha trovato.
Il primo è un vestito estivo, bianco, semplice, stretto in vita da una cordicella.
Lo indosso veloce, per poi aprire la tenda rosso fuoco del camerino e attendere il giudizio di Kate.
- Uh, bellissimo. Lo prendiamo. –batte le mani estasiata, per poi rispedirmi nello stanzino con gesto impaziente della mano.
Rido, mentre infilo la tuta-pantalone nera con dei fiorellini fucsia disegnati sulle spalle.
Finiamo per comprare sia la tuta che il vestito bianco, più una bellissima gonna rosa pallido anni ’50 e una blusa bianca elegante.
Per i successivi trenta minuti Kate mi rinchiude in un negozio di scarpe, e alla fine spendiamo settanta dollari in un paio di decolleté nere bellissime ma che so già che non metterò mai.
Sono da poco passate le cinque quando il cielo si tinge di arancione e noi, sommerse da borse, ci avviamo verso la spiaggia.
- E’ molto bello, qui –constato con una nota di malinconia.
- Davvero –mi dà corda Kate, per poi zittirsi.
Non so cosa mi spinga a farlo, ma glielo chiedo.
- Com’è vivere con mio padre?
Kate si stupisce un poco, ma poi mi risponde.
- Non lo sposerei mai, questo è certo. A volte sa essere davvero un uomo rude.
- Voi due... voi due non siete sposati? –balbetto.
- No, certo che no! –ride Kate –Sono solo la sua assistente. Voglio dire, a volte si rifiuta persino di prendere le pastiglie. Devo lottare come un samurai per convincerlo.
- Le pastiglie? –chiedo.
- Sì, sai... per il tumore.
Mi blocco e guardo Kate con occhi vacui.
- Il cosa? –balbetto.
- Oh –è tutto quello che esce dalla bocca della donna.

Credo che se Kate potesse scomparire, probabilmente lo farebbe.
Fisso impaziente e sconcertata mia madre, che è rossa di vergogna.
Sposto un secondo lo sguardo sull’uomo accanto a lei. Alto, ben curato. Che mi squadra a bocca aperta. Mio padre.
- Rachele, sei bellissima –annaspa stupito.
- Sì, sì, d’accordo –taglio corto guardandoli con occhi di fuoco, incerta persino su quello che ha appena detto mio padre. Mi ha fatto un complimento?
- Io... io non volevo, credevo lo sapesse... non... –balbetta Kate frustrata, attirando l’attenzione dell’uomo.
- Cosa? –si riscuote, per poi tornare a guardare me –Cosa?
- Okay –sbotto –Credo che voi due mi dobbiate una spiegazione.
- E su cosa, tesoro?
- Non mi chiamare tesoro. -soffio indignata –Solo un padre può chiamare “tesoro” la propria figlia.
Stringo le braccia al petto. Avvolgo le dita attorno agli avambracci con tanta forza che le nocche mi diventano bianche.
- Touché. –borbotta solo grattandosi la barba che gli carezza il volto abbronzato.
- Basta, smettetela –si fa forza mia madre, facendo due passi avanti; poi si rivolge a mio padre –Dobbiamo dirglielo.
Lui la fissa. Poi annuisce.
E se fino a quel momento pensavo di essere inciampata in un malinteso, ora il mondo mi crolla addosso. Perché capisco che c’è davvero qualcosa che non va.
Assisto alla scena al rallentatore. Mia madre che si siede sul divanetto di pelle, mio padre che le si affianca e le stringe la mano. Le stringe la mano.
- La prima volta, sono venuto qui in America per lavoro. Davvero. –inizia l’uomo. Mamma tiene lo sguardo basso, forse pregando che Philip e Lucas non entrino nell’attico durante il racconto.
- Quando però sono tornato a casa... –la voce gli si incrina un poco. Decido di sedermi di fronte a loro.
- Mi hanno diagnosticato un cancro, Rachele. Sono tornato negli Stati Uniti per terminare il lavoro ed avvisare tutti della notizia, del fatto che dovevo tornare a casa. Ma mi sono sentito male e mi hanno ricoverato.
Deglutisco a fatica.
- Un dottore, il dottor Martin, mi ha detto che per il mio tumore non si poteva più fare niente. Che però avevano da poco scoperto questo farmaco sperimentale. Se me la sentivo, potevamo provare. Ma non poteva garantirmi nulla.
Annuisco piano, mentre la rabbia che covavo dentro per mascherare la disperazione va via via sgretolandosi, lasciandomi nuda ed indifesa davanti alla realtà.
- Ho accettato di provare la cura. Per questo, però, era necessario che mi trasferissi qui.
- Ed è quello che ha fatto –continua mamma per lui –Abbiamo deciso che per voi bambini trasferirsi in un luogo così lontano e farvi vivere nel terrore di perdere il vostro papà era troppo, così noi tre siamo rimasti in Italia.
Scuoto la testa, mentre gli occhi mi sono punti da miliardi di aghi invisibili.
- E la storia della nuova famiglia? –chiedo mentre le lacrime prendono a solcarmi le guance.
- L’abbiamo inventata credendo che, se foste riusciti ad odiarmi, vi avrebbe fatto meno male la mia assenza –la voce di mio padre è spenta.
- Il bambino? –chiedo fissandoli, ma senza più vederli a causa delle lacrime.
- Non esiste nessun bambino.
Scatto in piedi.
- Non ci credo –singhiozzo –Avete... Ci avete mentito per tutti questi anni? Mio padre stava morendo, e tu hai continuato a fingere di odiarlo, mamma?
Mia madre distoglie lo sguardo.
- E perché siamo qui? –chiedo ancora, la rabbia che torna ad impossessarsi di me –Qual è questa situazione che sta peggiorando?
Mio padre punta i suoi occhi nei miei. Il suo sguardo mi fa sentire vuota e stupida. Oh, povera bambina. E poi sgancia la bomba.
- Il farmaco ha smesso di funzionare. Sto morendo.

L’aria fresca mi sferza il viso. Guardo oltre la ringhiera. Le macchine continuano a percorrere la strada, le luci di Miami che illuminano la notte.
Il vento ghiacciato mi prende a schiaffi, le righe lasciate dalle lacrime che diventano carta vetrata.
Chiudo gli occhi.
Nemmeno sento i passi. Solo quando schiudo di nuovo le palpebre mi accorgo della figura di mio padre, che è affacciata al parapetto della terrazza, accanto a me.
- Mi mancano le stelle –esordisce guardando il cielo scuro –Mi ricordo di quando le guardavamo insieme in giardino.
Gli si forma un mezzo sorriso sul viso.
Passo la lingua sulla parete interna della guancia, restando in religioso silenzio.
- A volte mi capitava di domandarmi cosa steste facendo tu e Lucas. –continua –Ma vi conoscevo, quindi tiravo a indovinare.
- Tu non conosci Lucas –sussurro –Te ne sei andato che aveva pochi mesi.
Annuisce ancora, in un sorriso mesto.
- E’ vero. Ma conoscevo te. Sapevo che la mia piccola Rachele si sarebbe fatta forza e avrebbe preso in mano le redini della situazione.
Il silenzio cala su di noi. Non riesco a guardarlo in faccia. L’ho odiato per così tanto tempo...
- Come hai fatto? –chiedo, tirando su con il naso.
- A fare cosa?
- A lasciare la mamma. Quando ami una persona, non puoi starle lontana.
Mio padre sorride compiaciuto.
- E’ stato difficile. Credo di essere morto, senza tua madre.
- Come fai a capire di amare una persona, papà? –sussurro, pensando d’improvviso ad un certo sorriso sghembo.
- Se il solo pensiero di perderla ti distrugge, tesoro, allora direi che la ami.
Allora io direi che siamo nella cacca fino al collo.

 

ANGOLO AUTRICE:

Mi rendo conto che questo è un capitolo chilometrico e che se l'avete letto tutto meritate un Nobel. Il fatto è che sono stata in vacanza una settimana e non ho scritto per tutti e sette i giorni, il che mi ha provocato una crisi da asitinenza da Oliver Dawn, per cui eccomi qui con un capitolo che supera le 7'500 parole. Cavolo. Ammetto che all'inizio erano due capitoli separati, ma poili ho numerati male e ho combinato un casino e sono arrivata alla conclusione che unirli era la cosa meno indolore da fare.

Parlando di cose indolori... questo capitolo è stato tutto tranne che indolore, no? Ecco la verità.

Che ve ne pare del banner che ho fatto? *gongola come un pinguino*

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Capitolo 12
*** 12. - Oliver ***


 

12. – Oliver

- Cazzo, è già arrivato. E io che speravo che il volo subisse un ritardo. Ora mi toccherà sopportarlo per mezz’ora in più. Grazie, Dio. Dico sul serio. –borbotta Scott aprendo la porta di casa mia. Lo guardo stupito, non mi aspettavo di vederlo qui. Mia zia lo esamina confusa, chiedendosi se abbiamo sbagliato casa.
- Oh, amico, non rimanerci male. Ti stavo prendendo in giro –esclama con una smorfia quando nota che non reagisco.
- Cosa? Oh, sì, lo sapevo –mi riscuoto sorridendogli –Vieni qui.
Lo abbraccio ridendo.
- Mi sei mancato, amico. –dice a ridosso della mia spalla, facendomi scoppiare in un’altra risata.
- Anche tu, Scott.
Quando Scott si sposta, nota mia zia che lo fissa impaziente.
- Lei è mia zia, Scottie. –spiego –E non parla inglese.
- Sì, be’, qualcosa lo so –bofonchia in un sorriso Sofia stringendo la mano al mio amico, che poco dopo si scosta per lasciarci entrare.
Ho appena il tempo per gettare i bagagli nell’ingresso prima che mia madre mi venga incontro.
- Oliver! –urla abbracciandomi.
La stringo, nonostante debba abbassarmi per cingerla, perché più bassa di me.
- Ciao, mamma –mormoro godendomi la sua carezza.
Quando si separa da me per salutare sua sorella, mi ritrovo faccia a faccia con Jay, che mi sorride.
- Bentornato –mi dice allargando le braccia per farsi abbracciare. E’ quello che faccio.
- Uh, che bello avervi qui! –cinguetta mamma facendo strada verso il salotto.
Quando la raggiungo il profumo di biscotti al cioccolato mi travolge. Vedo il fuoco crepitare nel camino e le calze colorate che ci penzolano sopra.
Nell’angolo, il grande albero di Natale sfavilla di luci vivaci, dando nuovi colori alle palline appese ai rami.
Frizzle, il nostro gatto, si stiracchia quando mi vede. Scende in un balzo dal divano e viene a strofinarsi sulle mie gambe. Mi accuccio a carezzargli la testa con due dita, mentre lui miagola zelante.
- Ehi, micio –sorrido.
Scott e Jay mi superano e si gettano sul divano.
- Allison? Papà? –chiedo sorridendo a mia madre, che sposta un vaso di fiori sul tavolo mentre mia zia si appoggia allo stipite della porta.
- Sono andati a comprare il panettone. Me ne ero scordata. Sai che le tradizioni per me sono inviolabili, tesoro –ridacchia lei facendo spostare i miei amici e sedendosi tra di loro.
- Allora, dov’è Rachele? –domanda con un sorriso furbo.
Guardo allarmato Scott e Jay, che sorridono come due deficienti. Sofia si schiarisce la gola.
- E’ da suo padre, in Florida. Non ti ricordi? –spiego brevemente incrociando le braccia al petto.
- Oh, già. Povera ragazza. –mormora distratta mia madre –Non vedo l’ora di conoscerla di persona.
Scott mi lancia un’occhiata divertita.
- Che hai? –gli chiedo avvicinandomi e stampando un bacio sulla fronte a mia madre, deciso ad andare a farmi una doccia.
- No, niente. E’ solo che è bello vederti innamorato. –gorgoglia. Il problema è che sembra sul serio contento e orgoglioso.
- Non sono innamorato, cretino –esclamo dando loro le spalle e dirigendomi verso il piano di sopra.
- Le ultime parole famose! –ride Jay –Ma io l’ho vista. E’ davvero un bocconcino. Se a Oliver non interessa, allora posso...
- Stalle alla larga, Jay! –gli intimo voltandomi quel che basta per puntare un indice nella sua direzione.
- Che bambini, che siete! –sospira mamma alzandosi –Stuzzicarvi in questo modo a diciannove anni!
- L’hai chiamata, Oliver? –chiede Scott mentre scompaio dalla sua vista, imboccando il corridoio delle scale. No, no che non l’ho fatto.
Prendo il telefono dal mobile su cui l’ho lanciato poco fa e scorro la rubrica.
Conto gli squilli, mentre Scott mi si avvicina sorridendo timido.
- Pronto? –la voce di Rachele è affannata e distratta. Sorrido guardandomi i piedi, mentre con la mano libera mi gratto la nuca. Già me la immagino, in ritardo e senza la più pallida idea di dove andare.
- Sei già atterrata? –le domando appoggiandomi con una spalla al muro, sotto lo sguardo curioso del mio amico.
- Cosa? Uhm, sì. –bofonchia. Si sarà sicuramente spostata una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Chissà cosa sta cercando di capire. Scott mi fa un cenno. Provaci. Rischia.
- Anche io. Bene. In bocca al lupo, Rachele –decido di lasciarla andare, tengo gli occhi fissi in quelli blu di Scott e sorrido–Non vedo l’ora che arrivi la prossima settimana.
Scott fa una smorfia che sta a dire “Bravo, figliolo, tanto di cappello. Non ti credevo capace di certe frasi”.
E pare avere il suo effetto, perché Rachele resta zitta qualche secondo, poi sussurra.
- Ciao, Oliver.
E l’emozione nella sua voce è palpabile.

Esco dalla doccia, le goccioline di acqua che dai capelli mi scorrono giù per la schiena.
Le asciugo velocemente con un asciugamano bianco, infilo una t-shirt e dei pantaloni di tuta neri.
Corro fuori dalla stanza e inizio a scendere le scale, quando vado a sbattere contro qualcuno.
Il corpo di mia sorella si allontana di un poco, lasciandosi ammirare.
Allie è già pronta a disumanarmi, convinta forse che a venirle addosso sia stato Jay oppure Scott, ma poi il suo viso si dipinge di sorpresa.
La squadro da capo a piedi. I capelli del mio medesimo colore sono raccolti in una coda disordinata, che lascia sfuggire qualche ciocca qua e là.
- Oliver! –esclama stupita, mentre le labbra rosee si schiudono in un sorriso –Mamma non mi aveva detto che eri già arrivato!
- Sorellina –sorrido.
Mi getta le braccia al collo e me la stringo al petto.
- Come va? –le chiedo mentre scendiamo insieme le scale, un braccio stretto attorno alle sue spalle.
- Oh, benone. A parte il fatto che è tutto ghiacciato, fuori. Per colpa di quel panettone subito finivamo per non tornare a casa –borbotta.
Sorrido.
- Dov’è la zia? –mi domanda.
- Credo sia andata a fare una passeggiata. –rispondo - E papà?
- Oh, è in cucina che prega tutti i Santi che conosce. Non sapevamo quale panettone volesse nello specifico la mamma, e siamo finiti a comprare un pandoro.
- No, dimmi che non è vero.
- Non mento sulla fine del mondo, Olly.
Scoppio a ridere proprio quando varchiamo la soglia della cucina. Mia madre è appoggiata al bancone della finestra, che guarda poco convinta la confezione del pandoro. Mio padre la fissa spaventato.
Accanto a noi si materializzano Scott e Jay, che cercano di tagliare la corda. Li fermo per il colletto delle magliette.
- Quindi? –azzarda papà.
- Il pandoro mi piace. Non come il panettone, ma me ne farò una ragione. –sospira –L’importante è che Oliver sia qui.
Mio padre lascia uscire tutta l’aria che stava trattenendo e mi si avvicina con le mani protese, quasi avesse visto qualcosa di santo.
- E’ un miracolo, figliolo. Grazie. Grazie di essere tornato. Oppure saremmo tutti morti, ora. –enfatizza portando le mani ai lati della mia testa.
Mi bacia sulla fronte, prima di uscire dalla stanza. Lo guardiamo tutti a metà tra il confuso e il divertito, prima che il suono del mio telefono spezzi l’aria.
Quando vedo il nome di Arianna che lampeggia sullo schermo, rispondo sorpreso e mi allontano con una scusa.
- Ehilà, Oscar! –trilla facendomi alzare gli occhi al cielo. L’ultima volta che abbiamo avuto una conversazione seria, che non comprendesse celebrità come Trevor Michaels, è stato prima che lei e Rachele si riappacificassero.
Ho messo le cose in chiaro. Arianna se ne è andata piangendo. Non abbiamo litigato, lei si è semplicemente resa conto di aver fatto una cazzata.
- Ciao, Ari.
- Sei già arrivato?
- Sì, Ari, sono già arrivato.
- Hai sentito Ele?
- Sì, ma era di fretta.
- Oh, bene. Non si è nemmeno degnata di chiamarmi. E’ viva?
- Sì, è viva. –sorrido.
- Okay. E...
- No, non mi ha detto nulla di suo padre.
- Ah.
Resta in silenzio, il che è davvero strano.
- Ascoltami bene, Oliver.
Mi si drizzano i peli sul collo: il tono di Arianna è talmente serio che mi spavento. E poi, mi ha chiamato Oliver.
- Giuro che se osi spezzarle il cuore come ha fatto suo padre, io ti spezzo le gambe. Vedi di comportarti bene, con lei. Perché ormai siamo già sul punto di non ritorno, per quanto riguarda Rachele.
A restare zitto sono io, ora. Apro la bocca.
- Cosa intendi, Ari?
Non faccio in tempo a finire la domanda, che Arianna ha urlato un “Ti voglio bene, Omar” e ha già buttato giù.
Vorrei richiamarla, vorrei capire quello che sta dicendo. Ma la porta di casa si spalanca e mia zia, tremante, saltella in casa.
- Ma quanto freddo fa, qui? Cos’è, siamo al Polo Nord? –balbetta avvicinandosi minacciosamente al camino.
Ridendo, le porto una coperta, che si avvolge frettolosa sulle spalle.
- Non hai conosciuto Noah? –chiede papà entrando nella stanza. E’ un’evidente frecciatina ad Allison, che sbuffa rumorosamente e si rannicchia sul divano accanto a sua zia.
- Il fidanzato di Allie? –domando.
- Già già. –mio padre sembra soddisfatto. Probabilmente non aspetta altro che terrorizzi quel ragazzo.
- No –rispondo, cercando gli occhi di mia sorella che però non pare intenzionata a guardarmi.
- E tu hai conosciuto Rachele, papà? –interviene in un sibilo.
- Cosa c’entra Rachele, adesso? –spasimo coprendomi il volto con le mani.
- Oh, be’, se dobbiamo parlare di fidanzati, non vedo perché non dovremmo parlare anche di fidanzate.
- No, signorina –si mette in mezzo Scott, fingendosi un aristocratico dell’Ottocento –La signorina Rachele non è la fidanzata del qui presente Oliver.
- Frenate tutti, un secondo –si intromette mamma raggiungendoci, gli occhi fissi sul suo quaderno –Mi serve un sinonimo di amore.
- Affetto –strilla Sofia.
- Dolcezza –propone Jay, da un angolo.
- Calore –sospiro, chiedendomi se Rachele diventerà così, tra qualche anno. Mia madre è redattrice di una rivista. Adora scrivere. Proprio come qualcuno che conosco.
- Mm...okay. Grazie.
- Sei fidanzato, Oliver? –torna sull’argomento papà, beccandosi un’occhiataccia.
- No. No. No. E ancora no. Rachele è una mia amica. Punto.
- Però ti piace... –conviene Jay studiandomi con gli occhi ridotti a delle fessure.
- La adoro, se è per questo –rispondo –Ma non in quel senso.
- C’è un altro senso?
Resto spiazzato, ma per fortuna Sofia mi salva.
- La adoro anche io. Voglio dire, chi non la amerebbe? E’ così bella, solare, tosta, divertente, delicata... Un fiorellino. Forte e resistente. Una guerriera. –farnetica. Annuisco piano.
- Sul fatto che sia bella posso dire di essere d’accordo –interviene Jay avvicinandosi.
Gli tiro un pugno sul braccio.
- Finiscila.
- E’ la verità! –si difende lui.
- Qui qualcuno è geloso... –miagola Allison guardandosi le unghie.
- Non sono geloso!
- Oh, andiamo, lei è fantastica, l’abbiamo capito. E’ comprensibile tutta questa gelosia.
- Vogliamo parlare di questo Noah?
- Ma cosa c’entra Noah!
- Cosa c’entra Rachele!
- Idiota.
- Fifona.
- Innamorato!
- Che fai, ricominci?

 

NOTA AUTRICE:

Eccomi qui!

Questo capitolo è davvero corto, lo so. In compenso, il capitolo scorso era infinito, quindi direi che si compensano. Abbiamo lasciato la povera Rachele e i suoi problemi a Miami per affacciarci sull'atmosfera tutta zucchero e felicità di casa Dawn.

Inoltre, ho appena finito di leggere Io prima di te e il mio stato emotivo è ancora sottosopra. Non ho pianto nemmeno leggendo Colpa delle stelle, ma questa volta nemmeno io mi sono salvata.

Va bene.

Grazie per essere passati, come sempre. Ora torno a piangere in un angolo remoto della casa.

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Capitolo 13
*** 13. - Rachele ***


 

13. – Rachele

Sono cresciuta credendo che mio padre fosse un porco.
Invece no, era tutta una menzogna.
Ed ora che so la verità, mio padre sta morendo e il mio tempo con lui è limitato. Grandioso.
Guardo fuori dalla parete a vetri della mia nuova stanza.
Quando prima Kate me l’ha mostrata, era nervosa. Forse c’è qualcos’altro di cui non sono a conoscenza e che teme di lasciarsi sfuggire. Non lo so. Non mi interessa. Non importa più.
Il letto a baldacchino è talmente soffice che ci sprofondo dentro.
Vorrei riportare l’orologio indietro. Non so cosa darei per portare indietro l’orologio.
L’occhio mi cade sul libro che ho lasciato sul comodino. E’ lo stesso che stavo leggendo quando ho incontrato Oliver la prima volta, Rosso Malpelo di Giovanni Verga.
L’ho già letto tante volte, ma non mi stanca mai. La vita è così ingiusta nei confronti di Malpelo.
Apro il libretto e leggo la prima frase.
Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riuscire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.
Il povero Malpelo è maltrattato da tutti, odiato dalla madre e dalla sorella maggiore, ed è costretto a lavorare tutto il giorno in una cava. L’unico che gli vuole bene è il padre, che muore mentre è nella miniera. E Malpelo diventa piatto. Inizia ad apparire come la gente lo vede. Non gli interessa più nulla. Un giorno al giacimento c’è bisogno che qualcuno vada ad esplorare un nuovo cunicolo. E Malpelo non ha motivi per continuare a vivere, e va. Non torna più. Gli altri minatori temono di vederlo comparire, un giorno o l’altro.
Leggendo, graffio le pagine scritte, urlo a Malpelo di resistere. Non mollare, grido, non mollare. Qualcuno prima o poi si prenderà cura di te. Qualcuno ti amerà. Tieni duro, tieni duro. Passerà tutto.
Ma ora improvvisamente capisco. Capisco la voglia di mollare di Malpelo. Non la condivido, forse, ma la capisco.
Una rabbia mi prende il petto, e scaglio con un grido il cuscino contro il muro. Non è giusto. Le cose non devono stare così. Non è giusto.
Scoppio a piangere, stringendo le ginocchia al petto e affondandoci la testa.
Il portatile, sul letto accanto ai miei piedi, prende a suonare e nello stesso istante Lucas entra cantando nella camera.
- Ehi, cosa combini? –trilla, per poi notare il suono incessante del computer –Oh, una videochiamata!
Si avvicina pericolosamente all’apparecchio.
- E’ Oliver!
Prima che possa oppormi, le guance di nuovo bagnate e la voce incrinata, Lucas accetta la videochiamata.
- No! –esclamo allungando un braccio verso lo schermo. Ma ormai è troppo tardi.
La faccia sorridente di Oliver compare luminosa davanti ai miei occhi.
- Oliver! –strilla Lucas.
- Ehi, campione!
Spingo via mio fratello, che esce dalla stanza senza farsi troppo problemi.
- Scusa –bofonchio in un singhiozzo che cerco di trattenere. Mi asciugo le lacrime con le maniche della felpa e cerco di sorridere, ma ormai ha notato tutto.
- Ehi, cosa c’è che non va, baby girl? –chiede, gli occhi e il tono colmi di preoccupazione.
Baby girl? Ma che carino.
- Niente –scuoto la testa –Niente.
- Non mentirmi.
Quando alzo lo sguardo su di lui, vorrei abbracciarlo. Sa che sto mentendo. Il suo tono è dolce e preoccupato, sembra trattenersi per non prendere il prossimo volo per Miami.
- Non... –inizio, schiarendomi la voce –Te lo dirò di persona.
- C’entra un ragazzo?
Se non avessi appena smesso di piangere, probabilmente gli riderei in faccia.
- No, certo che no.
- Certo che no? –inarca un sopracciglio.
- Sì, be’... Che c’è, sei geloso? –ora sorrido, e a lui pare bastare. Sorride e abbassa lo sguardo.
- Ecco il sorriso. –mormora con voce roca, gli occhi sempre bassi.
Il mio cuore accelera.
Calma, sprovveduta. Mantieni la calma. Non fare cazz...
- Mi manchi, Oliver –mi esce di bocca prima che possa fermarlo.
Oh, fantastico. E il premio Nobel per la stupidità va a... esatto! Rachele Nardi!
I suoi occhi scattano su di me in un baleno.
- Mi mancano le tue canzoni –farfuglio avvampando e ringraziando la luce fioca della lampada sul comò.
Oliver fa un mezzo sorriso sghembo che fa svenire la vocetta.
- Oliver! –qualcuno lo chiama. Lui si volta in direzione della voce con una smorfia.
- Devo andare, baby girl. –mi sorride –Ci vediamo presto.
Annuisco.
- Oliver? –chiedo piano, senza nessuna vocetta a fermarmi.
- Sì?
- Mi piace –sorrido tirando su con il naso.
- Baby girl? –domanda con un luccichio negli occhi.
Annuisco, conquistandomi un ultimo dolce sorriso mozzafiato che mi fa addormentare serena.

Avrei dovuto cenare. Soprattutto dopo non aver pranzato. Ma io sono Rachele Nardi, la presidente dell’UCAS, l’Ufficio Complicazioni Affari Semplici.
Mi alzo con un gemito dal letto e lancio un’occhiataccia alla radiosveglia. Sono le due di mattina.
Cosa stai facendo, sprovveduta? Torniamo a letto, ti preeego.
Per un istante mi balena in testa l’idea di chiamare Arianna.
Ma poi realizzo che in Italia sono appena le otto e che se facessi squillare un cellulare a quest’ora, Rita distruggerebbe tutto quello che c’è sul cammino fino a qui, per poi distruggere anche me.
E poi, non saprei cosa dire alla mia migliore amica. Mi farebbe domande su domande e io...
Esco dalla stanza in punta di piedi e raggiungo la cucina dove a pranzo Kate ha cercato di convincermi a buttare giù qualcosa.
Ma ovviamente, la principessa ha gentilmente rifiutato.
Principessa. Ed.
Apro il gigantesco frigorifero argentato e ne tiro fuori una banana. Oh, tutto quello di cui avevo bisogno.
Mangio il frutto seduta sul bancone della cucina, gustandomi ogni singolo morso.
Indosso una maglietta dieci taglie più della mia, per dormire.
Se qualcuno ti vedesse adesso...altro che “Sei bellissima!” ...
Sbuffo, cercando un cestino per gettare la buccia della banana.
- Oh. Buongiorno. Non sapevo soffrissi di insonnie.
Mi alzo di scatto. Davanti a me, mio padre mi guarda divertito.
- Be’, non stavo cercando la cassaforte per rapinarti, se è quello che stai pensando –sospiro trovando il bidone e avviandomi verso il salotto.
Lui ridacchia.
Mi blocco di colpo, quando mi accorgo di un particolare che non avevo notato prima.
Un maestoso pianoforte a coda, nero, lucido, bellissimo.
Mio padre mi affianca silenzioso, un bicchiere di acqua in una mano e delle pastiglie bianche nell’altra.
Infila le pasticche in bocca con una mossa repentina, poi getta la testa all’indietro e trangugia l’acqua.
Vorrei fargli delle domande, ma lui mi precede.
- Suoni ancora?
Non so perché, ma il suo interrogativo mi suona strano. Suono ancora?
Scuoto la testa.
- Non più.
- Sicura?
Quando mi volto verso di lui, ha un sopracciglio inarcato.
- Ufficialmente, no.
- Ma ufficiosamente?
Scrollo le spalle, avvicinandomi allo strumento. Lo sfioro con le dita.
- Ufficiosamente, l’ultima volta che l’ho suonato dopo tanto, tanto tempo, è stata pochi giorni fa. Ho accompagnato Oliver in Goodbye Philadelphia. –spiego noncurante.
- Oliver?
- Mm –annuisco sedendomi sullo sgabello del piano –E’ un mio amico. E’ canadese, ma è venuto in Italia perché sua zia abita lì. Suona la chitarra. Ora è a casa sua in Canada.
- E’ quel “bellissimo ragazzo dolce e alto” che devi accompagnare a New York la prossima settimana? –mi domanda imitando la voce di mamma. Sorrido.
Oh yes, baby.
- Proprio lui. Prima l’ho sentito alla radio –racconto distratta fissando i tasti del pianoforte.
- Suona, se vuoi. –mi incita mio padre avvicinandosi –i muri sono insonorizzati.
- Ma certo. –commento con un sorriso amareggiato –Come ho fatto a non pensarci?
Il silenzio cala sulla stanza.
- Vestiti.
L’espressione sul mio volto quando lo guardo dev’essere davvero buffa, perché scoppia a ridere.
- Su, dai –mi incita in un sorriso divertito –Voglio portarti in un posto.
- Alle due di mattina? –lo scetticismo nella mia voce è talmente tanto da mangiarsi le parole.
- Non mi pare siano le otto, quindi direi che sì, ti porto a vedere un posto alle due di mattina.
Scrollo le spalle.
- Okay.
Okay? No, qui non è okay per niente.
Corro nella mia stanza. Al buio, tasto i muri alla ricerca della mia valigia, che non ho ancora disfatto.
Ne tiro fuori un paio di jeans –credo- e una vecchia maglietta, li indosso rapida e torno in cucina. Anche mio padre si è cambiato. Non indossa un completo firmato o una camicia, ma un semplice paio di jeans logori e una felpa dei Miami Heat, la squadra di pallacanestro di Miami.
- Andiamo? –mi chiede, sorpreso di vedermi già pronta.
- Non penso tu voglia svegliare Philip per farti da autista, però –bofonchio.
- Philip? Sai che posso guidare, vero? –ride, chiamando l’ascensore.
Incrocio le braccia al petto, sospettosa.
- Sai come si fa, almeno?
- Mi stai prendendo in giro. –constata pensieroso - Certo, è il sangue Nardi, quello che ti scorre nelle vene.
- Speriamo non del tutto –ribatto acidamente –Non vorrei mai essere una tale bugiarda da mentire a mia figlia sul mio stato di salute, sulla mia vita sentimentale e abbandonarla in un altro continente.
Colpo basso. Lo incassa. Continua a guardarmi a testa alta.
- Andiamo, principessa –mormora concentrato, cercando di decifrarmi.
- Oh, no. Solo Ed mi chiama principessa. –metto in chiaro sorpassandolo ed entrando nell’ascensore.
Lui sospira e mi raggiunge.
- Chi è Ed, il tuo fidanzato? –chiede cercando di mascherare la curiosità, mentre le porte argentate si chiudono.
Una smorfia involontaria mi si forma sul volto.
- No, per l’amor di Dio –mormoro –Perché siete tutti così convinti che debba avere un fidanzato?
- E’ solo per sapere.
- Sì, be’, credo che siano affari miei.
Oggi abbiamo una dose extra di ribellione fulminea, a quanto pare.
Mi lancia un’occhiata.
- Non eri così insolente, una volta.
- Una volta avevo una famiglia.
- So che per te è terribile, ma...
- No, direi che non lo sai.
Hai deciso di fare la figlia in piena crisi adolescenziale, alla fine?
- Mi lasci parlare, per favore? –chiede esasperato mentre usciamo dal palazzo, l’aria fresca della sera che ci travolge.
Sospiro, mentre mio padre svolta tranquillamente nel vicolo che separa i due grattacieli. C’è un vecchio pick-up parcheggiato in fondo alla stradina.
- Stavo dicendo che... –papà prende una pausa, come a riflettere attentamente sulle parole prima di pronunciarle, mentre infila una chiave nella portiera del camioncino e la apre.
Vado dall’altra parte della macchina, mi siedo sul sedile consumato proprio mentre mio padre chiude la portiera e mette in moto.
- Incredibile –bofonchio sottovoce, raccattando un vecchio cappello da baseball dal cruscotto e infilandomelo in testa.
Papà mi guarda di sottecchi, con un mezzo sorriso.
- L’abbiamo fatto in buona fede, Rachele –riprende il discorso mentre ci immettiamo nella strada principale.
Incrocio le braccia al petto e lo guardo, in attesa che continui.
- Pensavamo fosse la cosa migliore per tutti.
- Mi avete detto che ti eri fatto un’altra vita. E non potevo piangere, perché per mamma era già abbastanza dura. Non sarebbe la cosa migliore per nessuno, fidati.
- Non lo sapevamo –risponde battendo una mano sul volante –Eravamo convinti che fosse giusto.
- Tsk.
Accendo la radio, che inizia a crepitare. Cambio tre stazioni, invano.
- Oh, lascia stare. E’ vecchia. –mi consiglia, mentre fuori dal finestrino sporco il paesaggio urbano inizia a diradarsi lasciando spazio alla spiaggia.
- Come... com’è la tua vita, ora?
Armeggio con il frontino del cappello.
- Ho una migliore amica, te la ricordi? –sospiro.
- Arianna? –azzarda con un sorriso.
- Proprio lei. –annuisco –A scuola va tutto bene. Ma la mia vita era mille volte più noiosa, prima.
- Prima? Prima di cosa?
- Oh, prima di incontrare Oliver. –sorrido malinconica al ricordo –Mi ha spinto lui, ha iniziare.
- A fare cosa? –la voce allarmata di mio padre è stridula.
- A drogarmi. A fumare marijuana.
Mi fissa scioccato, per poco non ci schiantiamo.
- Ti sto prendendo in giro –alzo gli occhi al cielo –A scrivere. E’ lui che mi ha convinto a scrivere.
- Tu scrivi?
- Sì, scrivo.
- E Oliver ti ha anche convinta a risuonare il piano, no?
- Mm-mm
- E’ bello?
Lo guardo cinica.
- Era pura curiosità.
- Non funzionano i giochetti mentali, con me.
- Non era un giochetto mentale.
- Certo.
Restiamo in silenzio.
- Come mai non avete fatto l’albero di Natale? –domando dopo un po’.
- Oh, non ne ho avuto il tempo. Lo fareste tu e Lucas, domani? Mi farebbe piacere.
Mi mordo la lingua, prima di sparare un’altra dose di crudeltà.
- Certo. Sono sicura che Lucas non tentennerà. –annuisco continuando a fissare davanti a me –Pensate di dirglielo?
- A Lucas?
Mugolo un sì.
- Oh, no. Non ora. Quando sarà più grande, ci penserà tua madre. Ora non capirebbe.
- Non gli direte nemmeno del tumore? –chiedo incredula.
Quando non risponde, una fitta mi prende alla bocca dello stomaco.
- Morirai, cazzo –esclamo esasperata, arrampicandomi sugli specchi.
- Piano con le parole.
- No, ora mi ascolti –sbotto –Stai morendo. Lo sai. Sai che il tuo tempo è praticamente scaduto. Lucas ha il diritto di saperlo. Ha il diritto di scegliere come organizzare i suoi ultimi giorni con te. Glielo devi. E’ il minimo che tu possa fare.
Mio padre svolta in una stradina che porta in spiaggia. Poco più tardi, siamo davanti ad una delicata casa sulla spiaggia, con un enorme portico di legno che guarda verso il mare, a una decina di metri.
Spegne il motore del pick-up, ma non scende.
- Ne parlerò con tua madre –decide alla fine –Ora cambiamo argomento, voglio mostrarti questa.
Lo guardo torva scendere dall’auto e non mi muovo. Solo quando mi raggiunge e picchietta con le nocche sul mio finestrino, in un brontolio mi decido a seguirlo.
Il portico è scricchiolante ed immenso. Alla destra della porta ci sono due graziose sedie a dondolo, legnose. Dall’altra parte della terrazza c’è un bellissimo tavolo, anch’esso di legno, contornato da delle panche. Il centrotavola è colmo di conchiglie. Mi avvicino e ne prendo una azzurra, rigirandomela tra le dita. E’ ancora polverosa, granelli di sabbia che ne rendono la superficie ruvida.
La allontano dal mio viso, porgendola, in prospettiva, davanti alla luna piena, che ne illumina i contorni.
Rimetto al suo posto la conchiglia e guardo verso l’oceano, che, come in una culla, raggiunge la spiaggia con lo stesso rumore rilassante.
C’è un leggero venticello.
Mi ricordo della presenza di mio padre e mi volto improvvisamente. Lui mi guarda appoggiato alla ringhiera legnacea del portico, sorridendo.
- Ti piace? –chiede.
Annuisco.
- Vogliamo entrare?
Annuisco ancora, tirando le maniche della maglietta fin sulle nocche.
Mio padre fa un cenno di assenso, poi prende un mazzo di chiavi dalla tasca e si avvicina alla porta, aprendola.
Quando entro nella casa, è come se sbattessi addosso ad un muro invisibile che mi fa rimbalzare all’indietro.
Da fuori sembra piccola e vecchia, di legno cigolante. Ma, al contrario, questo salotto ha un arredamento più che moderno, ed è enorme.
- Caspita –sussurro attraversando la stanza. Le tende alle finestre sono fermate con delle cordicelle decorate con delle conchiglie.
L’immenso spazio è condiviso con una grandiosa cucina. I mobili sono evoluti, ma il tavolo pare essere qui da cent’anni.
- Ci sono ben tre camere da letto–mi informa mio padre mentre mi avvio lungo il corridoio al quale sono appesi dei quadri e delle fotografie di palme e spiagge.
C’è la porta dell’unico bagno della casa, sulla parete di fondo. Ogni camera ha i muri di un colore pastello diverso. Una azzurra, una gialla e una rossa.
- E’ bellissima –sussurro carezzando i muri, una volta tornati nel soggiorno.
- Vero?
- E il posto in cui si trova, poi... –continuo, gli occhi che studiano i vetri colorati che pendono dal lampadario.
- Sono contento che ti piaccia. –sorride soddisfatto, mentre torniamo al portico. Mi accomodo su un gradino che porta alla terrazza. Giocherello con la sabbia fresca.
- Non vi manca la neve, qui? –domando, guardando l’oceano.
Mio padre ridacchia.
- A Natale, ogni tanto.
Annuisco.
Non riesci a fare altro, sprovveduta?
- Perché mi hai portato in questo posto?
- Perché è il tuo regalo di Natale, per che altro, sennò?
Lo guardo, prima di scoppiare a ridere.
- Perché ridi?
- Divertente –mi tengo la pancia.
- Non sto scherzando.
Trattengo un respiro e cerco di restare seria, ma fallisco e sbotto in una risata ancora più fragorosa.
Mio padre aspetta che mi riprenda, dopodiché si spiega.
- Morirò presto, Rachele. Questa casa finirà all’asta o se la mangeranno gli avvocati. Voglio che sappia che è tua.
- Non rimanerci male, ma non so cosa farmene.
- Oh, usala come casa delle vacanze. Vienici con i tuoi amici. Sono sicuro che Arianna adorerebbe Miami.
- Non mi compri, così, lo sai? –sospiro.
- Lo so bene. –sorride triste, senza guardarmi in volto –Dopotutto, è sempre di mia figlia che stiamo parlando.

 

ANGOLO AUTRICE:

Bene bene bene.

Premetto che d'ora in poi gli aggiornamenti diventeranno un po' più frequenti, perchè poi il dodici ricomincia scuola e con il nuovo orario il mio tempo libero verrà polverizzato. Puff!

Che ne pensate del padre di Rachele? Come vi comportereste se foste al suo posto?

Nel prossimo capitolo conoscerete un  nuovo personaggio... e vi prometto che lo odierete con tutto il vostro cuore.

Ecco una piccola anteprima:

La ragazza assume un’aria indispettita, ma dopo quasi un minuto passato in silenzio a fissarla, cede.
- Okay. Ho capito. –annuisce sibillina –Ma dovresti imparare a crescere un po’, Oliver. Andare avanti. Buttarti tutto alle spalle.
- Buttarmi tutto alle spalle? –ribatto incredulo –Alyssa, stavamo insieme da sei mesi. Hai conosciuto la mia famiglia, cazzo. E io ti amavo.

 

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Capitolo 14
*** 14. - Oliver ***


14. – Oliver

- Noah –ripete sorridendo il moccioso per la quarta volta. Mi arriva una gomitata nelle costole. Mia madre mi guarda supplichevole.
Alzo gli occhi verso Scott e Jay che, dall’altra parte della stanza, sono rossi e si mordono la lingua per non scoppiare a ridere. Menomale che Noah dà loro le spalle.
Allie, accanto al suo fidanzato, si è già rassegnata.
- Oliver –reagisco finalmente, stringendo la mano al ragazzo.
Troppo splendido. Troppo bello. Troppo... innaturale.
- Allora, com’era l’Italia? –chiede gioviale il Ken, facendomi spuntare una smorfia inconsapevole sul volto.
- Già, com’era l’Italia? –ridacchia sottovoce Will, beccandosi una sberla sulla nuca da Jay.
- Bella –borbotto guardando Noah con sospetto. Lui sorride allegro.
- Ci sono stato una volta, da piccolo. Non mi ricordo molto.
- Grandioso.
- Be’, senza ombra di dubbio la cosa più bella che l’Italia abbia sfornato è stata Allison!
Punto uno, l’ha chiamata Allison e non Allie.
Punto due, Allie è nata in Canada.
Punto tre, Noah non mi piace.
- Mi sta venendo una crisi diabetica. –bofonchia Will, beccandosi un’altra sberla da Ross.
- Sì, Will soffre di diabete. –gorgoglia Scott avvampando, quando Noah ed Allie si voltano verso di loro –Proprio una brutta cosa, no?
- Mio padre è primario, in ospedale. Da quello che racconta, il diabete è bruttissimo –annuisce rapito Noah, facendomi alzare involontariamente gli occhi al Cielo.
Grazie a Dio che non mi sta guardando.
Punto quattro, Noah è un cocco di papà.
Punto cinque, non lo sopporterò un secondo in più.
- Bene –intervengo –mi è piaciuto molto conoscerti, Noah, ma ora dobbiamo andare. Will e Ross domani partono per l’Europa e dobbiamo andare a festeggiarli come si deve.
E non è una bugia. I fratelli Johnson si trasferiscono in Francia. I loro genitori hanno entrambi trovato lavoro a Parigi. L’ho saputo stamattina, e non ho nemmeno avuto il tempo di elaborare la notizia.
- Certo –assicura serio Noah –Magari la prossima volta.
- Magari la prossima volta... cosa? –chiedo esitante, infilandomi la giacca.
- Oh, magari la prossima volta andremo a fare un giro. Oppure una bella partita a carte. Che dici?
- Certo, non vedo perché no –mi sforzo di sorridere, per poi correre fuori di casa con i miei quattro amici alle calcagna.
Resistono poco più di un isolato. Quindi, scoppiano a ridere.
Will mi affianca, fingendosi commosso.
- Bravo, figliolo –dice, con una mano sul cuore –Sono orgoglioso del tuo autocontrollo.
- Sì, be’, io gli avrei spaccato la faccia dopo due minuti. Scommetto che sua madre è un avvocato. –bofonchia Scott.
- Persino se Allie avesse portato a casa Michael Jackson risorto, tu gli avresti spaccato la faccia, Scottie –annuisce malizioso Jay.
- E perché mai? –domanda Ross.
- Perché è da sempre che Scott ha una cotta per Allison –previene qualsiasi risposta Will.
- Non dire stupidaggini, lo sai che...
- La smettete, tutti quanti? –sbotto –O volete entrare al Molly’s urlando come sguaiati?
Il Molly’s è il locale che frequentavano i nostri genitori da giovani e che frequentiamo noi ora. Il proprietario, il vecchio Hank, è come un nonno, per noi.
- Che schifo, Scott –urla Will. Quando mi volto, Scott gli ha infilato una palla di neve sporca nella maglietta e se la ride di gusto.
Sospirando in un sorriso, spingo la porta del Molly’s.
Raggiungiamo il nostro solito tavolo. Nemmeno due secondi dopo, Lucy, la moglie di Hank, ci si avvicina sorridente.
- Ragazzi, che bello vedervi. Oh, Oliver! –esclama quando mi nota, abbracciandomi –Quanto tempo, caro. Sei a casa per le vacanze?
- Sì. Torno in Italia a gennaio.
- Ti trovi bene, lì, sì?
- Anche io mi troverei bene, con un’amica così –ride Jay, attirando la curiosità di Lucy.
- Oh, hai una ragazza che ti tiene sveglio la notte? –chiede curiosa, mentre Hank ci raggiunge.
- No, è solo...
- Un’amica, sì, dicono tutti così. E poi, vengono qui a ubriacarsi piangendo. –sogghigna l’uomo, dandomi una pacca sulla spalla.
I miei amici ridono.
- Ragazzo, non è che ti andrebbe di suonare qualcosa? La band che era prevista stasera ci ha dato buca e l’atmosfera è così noiosa... –chiede Hank indicando il palco.
- Certo –sorrido –Ho carta bianca?
- Fai quel accidenti che ti pare. Basta che suoni.
Mi alzo e mi avvicino al palco, ma poi mi blocco.
- Ehi, Scott?
- Sì, amico?
- Mi filmi, per favore?
- E perché?
- Tu fallo e basta.
- Okay...
Mi giro di colpo e una ragazza bionda mi si para davanti, sorridente.
- Oliver.
Nemmeno due secondi dopo, con la scusa di non trovare la fotocamera del telefono, Scott mi è vicino.
Alyssa. Quella Alyssa.
- Ciao, Alyssa –mi sforzo di sorridere.
Lei succhia la cannuccia del suo cocktail, sbattendo le ciglia.
- Sei tornato –constata.
- Sì.
- E... resti?
- No.
- Peccato.
- Già.
- Ciao, Alyssa –sorride in uno sforzo Scott, posandomi una mano sulla spalla. Stringe, come a farmi capire che lui c’è.
- Ciao.
L’atmosfera è così glaciale, che per un secondo temo che Scott le salti addosso e la uccida. Poi mi ricordo che Scott è un gentiluomo, e che non lo farebbe mai.
- Senti, Oliver... –inizia la bionda avvolgendosi una ciocca di capelli sull’indice –Domani sera andiamo in città, c’è una festa per la Vigilia di Natale. Ti andrebbe di venire?
Non ci credo. Non posso farlo. Apro un po’ la bocca, socchiudo gli occhi.
- Mi stai prendendo in giro?
Alyssa pare sorpresa.
- Perché? –domanda stupita. O forse sta solo fingendo. La prendo per un braccio e la trascino in un angolo del bar, lontano da orecchie e voci indiscrete.
La ragazza assume un’aria indispettita, ma dopo quasi un minuto passato in silenzio a fissarla, cede.
- Okay. Ho capito. –annuisce sibillina –Ma dovresti imparare a crescere un po’, Oliver. Andare avanti. Buttarti tutto alle spalle.
- Buttarmi tutto alle spalle? –ribatto incredulo –Alyssa, stavamo insieme da sei mesi. Hai conosciuto la mia famiglia, cazzo. E io ti amavo.
Lei resta in silenzio, così proseguo.
- Sai, i miei amici continuavano a ripetermi che stavo facendo una cretinata. Che non riuscivo a vedere la te che tutti, oramai, vedevano. E io li ho mandati a ‘fanculo, per te. Ho dato loro dei viscidi bugiardi. Quando invece l’unica cosa viscida eri tu.
- Oh, non ti permettere! –squittisce alzando una mano per darmi uno schiaffo, prima che le afferri il polso, bloccandola.
I suoi occhi non danno alcun segno di pentimento. E non l’hanno mai dato. Ed è questo, che non si sia mai pentita di ciò che ha fatto, che mi distrugge.
- Avrei tutti i diritti di questo mondo, Alyssa. –mormoro a denti stretti, lasciandole il braccio –Il fatto che non li sfrutti significa solo che sono migliore di te.
- Ti sbagli. Non sei migliore di me. –soffia piano –Hai fatto anche tu i tuoi errori.
- Ma, a differenza di te, io me ne sono pentito e ne ho imparato qualcosa.
Rotea gli occhi, poi torna a guardarmi.
- Sai che me ne sono pentita.
Sbuffo una risata amara.
- Non incominciare con questa storiella, Alyssa.
- Puoi crederci o no. –sentenzia –Ma sai benissimo che potrei avere tutti i ragazzi che voglio ai miei piedi, e nonostante ciò io mi ostino su Oliver Dawn.
Scuoto la testa, con un sorriso doloroso.
- Ti amo ancora, Olly. –mugola, con un labbruccio degno di premio Oscar.
- Se mi avessi amato, non mi avresti tradito e usato. Fine della discussione. –taglio corto con occhi duri –Ora scusami, ma devo andare.
Mi volto e salgo sul palco. Incrocio gli occhi preoccupati di Jay e Scott. Scuoto quasi impercettibilmente la testa.
Prendo una chitarra tra quelle appoggiate al muro, mi siedo sullo sgabello e sistemo il microfono.
Non serve che mi scervelli più di tanto, perché capisco quale canzone suonare prima ancora di pizzicare la chitarra per una prova.
- Cosa suoni, Oliver? –strilla Scott, tenendo il cellulare davanti a sé e girando il video.
Sorrido.
- Somebody To Die For degli Hurts –annuncio. Con la coda dell’occhio vedo Alyssa guardarmi pensierosa.
E poi inizio a cantare.

 

♥ANGOLO AUTRICE♥:

Chiedo venia. Chiedo venia per questi capitoli così corti, ma quando i miei due amori sono separati, non è che posso fare grandi cose, o no? XD

Bene, avete conosciuto Alyssa. Ora la cosa vi tormenterà finchè non scoprirete cosa è successo tra lei ed Oliver veramente, ma vi prometto che per un po' avrete di meglio a cui pensare... (non ho spoilerato niente!)

La cosa delle anticipazioni mi piace da matti, per cui...

Dal capitolo 15:

Non conosco la canzone, così ascolto attenta il testo.
La melodia è lenta, profonda. Assaporo ogni smorfia che Oliver fa quando raggiunge una nota alta e ogni singola vibrazione roca del suo tono quando tocca le note basse.

 

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Capitolo 15
*** 15. - Rachele ***


15. – Rachele

Non so come dovrei reagire. Non so come ci si dovrebbe comportare in una situazione del genere. All’inizio mi sono sentita presa in giro. Ho persino pianto. Dopo ho cercato di starmene da sola per capire la situazione e sono andata in terrazza. Però poi è arrivato mio padre e ci siamo messi a parlare e mi sono distratta dall’obbiettivo. La sera, a letto, ho lanciato un cuscino contro il muro e ho pianto ancora. Però poi mi sono svegliata alle due di mattina e, mentre dialogavo con mio padre, mi sono comportata da emerita stronza. O forse no? Era un mio diritto?
Non lo so. Non lo so. Non lo so.
- La pallina rossa l’hai messa prima, Ele. –mi fa notare Lucas.
Annuisco, riconoscendo che due palline rosse attaccate non vanno bene.
Detesto piangere davanti alle persone. Mi irrita, mi fa sentire stupida. Se però ho un nodo alla gola e qualcuno mi abbraccia, allora le lacrime scattano in automatico. E mi arrabbio con me stessa per questo.
Non dico mai ciò che provo. Mi tengo tutto dentro. A volte vorrei parlare con qualcuno, ma le mie labbra restano sigillate, non vogliono saperne di schiudersi.
Aggiro l’enorme abete che è arrivato questa mattina nell’appartamento, in cerca di un posto libero per la pallina rossa.
- Domani è Natale! –trilla Lucas eccitato.
- Hai già spedito la lettera a Babbo Natale, vero? –gli chiedo, aiutandolo ad appendere un omino di legno.
- L’ho fatta, ma non l’ho spedita.
- Cosa? –esclamo allarmata –Ma dobbiamo spedirla subitissimo! Altrimenti non arriva in tempo!
Lucas mi guarda confuso arraffare la mia borsa e il cellulare e correre all’ascensore.
- Tu sai dove spedirla? –domanda avvicinandosi piano.
- Certo! Guarda che io so tutto, marmocchio.
Lucas scoppia a ridere, mentre entra nella scatoletta.
- Non avvisiamo Kate? O mamma? O papà?
- Ci hanno lasciato a casa da soli, il che significa che il capo sono io. E chi decide?
- Il capo?
- E di conseguenza?
- Tu.
- Esatto.
Appena si chiudono le porte, Lucas inizia a strillare.
- Aspetta, la lettera!
- Eh?
- Non ho preso la lettera!
Sospiro e faccio riaprire l’ascensore. Lucas schizza fuori e torna in un battito di ciglia con una busta rossa in mano. Quando si volta a guardarmi, mi sorride.
E se da una parte mi si scoglie il cuore, dall’altra viene stritolato da una morsa.

- Rachele Nardi! –tuona Arianna a tal punto che devo allontanare il cellulare dall’orecchio. Lucas, con la sua mano stretta nella mia, mi guarda divertito.
La Terza Guerra Mondiale sta per iniziare, signore e signori...
- Ehi, Ari...
- “Ari” un corno! Si può sapere cosa ti è successo? Credevo fossi morta! –Arianna continua a urlare, mentre io e mio fratello camminiamo al centro del marciapiede.
- Sì, scusa, io...
- Scusa? Scusa?! Oh, non te la cavi con delle scuse, questo giro! Ma dico, ti sei bevuta il cervello?!
Lucas ridacchia. Faccio una smorfia.
- Lo so, Arianna. E’ solo che non sapevo come dirtelo...
- Dirmi cosa?! Che ti sei sposata a Las Vegas? Oh, Nardi, giuro che se ti sei sposata senza invitarmi metto su un caso di Stato!
- Ti inviterei, al mio matrimonio. –assicuro –Che poi, con chi avrei dovuto sposarmi? Con uno sconosciuto incontrato al casinò?
Potremmo farlo. Sul serio. Sarebbe troppo divertente.
- Credevo che fosse sottointeso che lo sposo era Oliver. –borbotta con ovvietà, facendomi roteare gli occhi al cielo.
- Arianna...
- Comunque –riprende –Spero per te che tu abbia un ottimo motivo che giustifichi quello che hai fatto. E per “ottimo motivo” intendo almeno una cosa tipo che hai incontrato Matt Damon che ti invitato sulla sua isola privata dove i cellulari non prendono!
- Ora non posso parlartene –sospiro, lanciando un’occhiata di striscio a Lucas –Ti chiamo appena torno a casa.
- Giuro che se osi...
Chiudo la telefonata.
- Brutto errore, sorella. –mormora annuendo Lucas. Scoppierei a ridere, se il mio cuore non battesse a velocità ultrasoniche.
Il telefono squilla di nuovo. Questa volta, è Cami.
- Pronto? –bofonchio chiudendo gli occhi, pronta ad una seconda rata.
- Rachele! Per fortuna! –Cami è sollevata –Iniziavo a preoccuparmi.
- Scusa, Cami. Ho avuto da fare, ultimamente.
- Certo, capisco. Come va? Tutto bene nella assolata Miami?
- Magnificamente.
Che bugiarda.
- Ho letto i capitoli che mi hai mandato. E’ davvero fico. Non vedo l’ora che finiscano le vacanze, così potremo pubblicarli.
- Grazie, Cami.
-Oh, figurati.
- Come sta Ed?
- Ed? –si fa nervosa, tutto d’un colpo –Ed, dici? Ma Ed... tipo... Edgardo?
- Certo. Chi altrimenti?
- Oh, non lo so. Io non conosco altri Ed. Tu conosci altri Ed? Oh, hai sentito? Era mia madre. Devo scappare, Ele. Ci sentiamo, eh!
Riattacca.
Guardo il telefono confusa. Lucas, nel frattempo si avvicina ad una casella postale e infila dentro la lettera, soddisfatto.
Torniamo a casa, Lu canticchiando, ed io ripetendo il discorso da fare ad Arianna nella mia mente.

Accendo il computer e trovo una email da Oliver. Incuriosita, la leggo.

Ehi, baby girl.
Hai detto che ti mancavano le mie canzoni, o sbaglio? Conto i giorni. Non vedo l’ora.


Sorrido come una deficiente mentre rileggo il messaggio tre, quattro, cinque volte.
Poi noto l’allegato video, e ci clicco sopra.
Non si vede molto bene, ma è chiaramente un locale. Sul palco, Oliver e la sua chitarra.
- Cosa canti, Oliver? –strilla il ragazzo che sta girando il video.
- Somebody To Die For degli Hurts –è la semplice risposta.
Non conosco la canzone, così ascolto attenta il testo.
La melodia è lenta, profonda. Assaporo ogni smorfia che Oliver fa quando raggiunge una nota alta e ogni singola vibrazione roca del suo tono quando tocca le note basse.
Wow. Sto per svenire. Voglio dire, hai sentito che voce roca? Da brividi, sprovveduta. Da brividi.
Colgo qualche frase qua e là.
And I don’t need this life, I just need... Somebody to die for, somebody to cry for.
Mi godo l’esibizione, al termine della quale si solleva un coro di applausi. Sorrido anche io.
Il cellulare, però, comincia a vibrare. Ho rimandato più che ho potuto. Ora è arrivato il momento di affrontare Arianna.

- Co... cosa? –la voce di Ari è flebile, un sussurro.
Annuisco, sebbene lei non possa vederlo.
- Oh Dio. Io... Posso... Vuoi che ti raggiunga a Miami, tesoro?
- No, Ari, grazie.
- Cristo. Scusa, per prima. Non ne avevo idea. Credevo ti fossi trovata un’amica e ti fossi scordata di me, io non ho mai pensato a una cosa del genere.
- Tranquilla, non potevi.
- E Lucas? Lo sa?
- No, non hanno ancora deciso se dirglielo o meno. –rispondo passandomi una mano tra i capelli e camminando su e giù per la stanza.
- Ah. E Oliver, invece? Gliel’hai detto?
- Non... non ancora. Aspetto di dirglielo di persona.
- Sì, meglio.
- Sì.
Arianna resta in silenzio.
- Come ti senti, Rachele?
- Non ne ho idea –confido, sprofondando sul tappeto ai piedi del letto.
- Per qualunque cosa, chiamami. Sono qui per questo. A qualsiasi ora, qualsiasi giorno. Tu chiamami, okay?
- Grazie.
- Non devi ringraziarmi. E’ il mio dovere.
- Okay.
- Okay. Ti voglio bene, zucchina.
- Anche io.
- Ciao.
Getto il cellulare sul letto con un sospiro.
Qualcuno bussa piano alla porta. Mia madre entra nella stanza, preoccupata. La evito da due giorni. Si siede accanto a me sul tappeto, in silenzio.
- E’ incredibile come con i soldi persino i tappeti diventino comodi –bofonchia sorridendo.
La guardo.
- Parlami, Rachele. –il suo è un invito. Una parte di me vorrebbe confidarle tutto. L’altra, impedisce alle mie labbra anche solo di separarsi.
- Sei forse arrabbiata con me?
Non lo so.
- Lo capirei.
Lo so.
Siccome capisce che non ho intenzione di parlarle, sospira.
- Mi dispiace. Ti chiedo scusa se ti ho mentito. E ti chiedo scusa se ti sei sentita in dovere di essere forte per me, tesoro.
Scuoto la testa.
- Non sapevamo cosa fare. Avevamo paura. –continua.
- Mamma, basta –la blocco.
Lei si volta verso di me, stupita. Inarca un sopracciglio.
- Mamma, tu come ti sentiresti al mio posto? –domando in un sussurro, mentre prendo a giocherellare con il braccialetto con su inciso il mio nome.
- Non è importante come mi...
- Invece lo è, mamma.
Lei si zittisce.
- Probabilmente... forse io... Ma perché è tanto importante? –domanda in un borbottio.
Prendo un respiro. Adesso basta. Voglio avere una spalla su cui piangere. Voglio confidarmi.
- Perché io non ho la più pallida idea di come dovrei sentirmi –sussurro, mentre la gola mi fa male a causa del magone che la blocca.
- Oh, tesoro.
Mamma mi stringe a sé. Come previsto, inizio a piangere.
- Forse dovrei essere arrabbiata –bofonchio tra i singhiozzi –Forse dovrei comportarmi da stronza. Ma non ci riesco. Non riesco né ad arrabbiarmi, né a piangere disperata, mamma. Sono vuota. Mi sento ferita, perché mi avete cresciuto su una menzogna. Una parte di me piange il padre che l’ha lasciata. L’altra non sa cosa fare, perché non è più quell’uomo. Mamma, io non ce la faccio.
Mia madre mi stringe con forza, carezzandomi le braccia e baciandomi la testa.
- Shh, va tutto bene. Si sistemerà tutto. Stai tranquilla, amore. –parlotta, le labbra a ridosso dei miei capelli –Va tutto bene.
- Non voglio essere vuota, mamma. –piango, aggrappandomi al suo maglioncino.
- Ma tu non sei vuota, tesoro. No, non lo sei. Sei la persona più piena che conosca. Devi solo riordinare le idee. Ti serve tempo. Tutto qui.
E per una volta, spero con tutta me stessa che abbia ragione.

 

♥ ANGOLO AUTRICE ♥

Aggiornamento flash, direi.

Ma siccome questi capitoli sono estremamente corti visti i continui cambi di punti di vista, è come se fossero un capitolo unico. E poi, voglio vedere la vostra reazione a quello che succederà quando si incontreranno i due piccioncini.

Inoltre, ero piuttosto tentata di cambiare il titolo, e avrei due candidati. Il problema è che sono entrambi legati a fatti che accadranno prossimamente e che quindi ora non potreste capire, ma io ve li metto lo stesso:

♠ Quattro baci e mezzo

♠ Non si prestano le stelle cadenti

E ora, l'anticipazione dal prossimo capitolo:

Però non oso guardarlo in faccia, perché il motivo per cui sorridevo era proprio quella curiosa ragazza dai magnetici occhi verdi e dai soffici boccoli corvini che mi ha rubato il cuore.

 

Grazie!

emmegili

 

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Capitolo 16
*** 16. - Oliver ***


16. – Oliver

- Ma buongiorno, dormiglione!
Entro in sala con un sorriso. Mia zia mi si avvicina, stretta in una coperta di lana, e mi abbraccia.
- Buon Natale! –gorgheggia, per poi superarmi e andarsi a sedere al grande tavolo di legno, sul quale c’è ogni tipo di dolce.
Nonostante tutto, mia madre adora mantenere le tradizioni italiane. Niente uova e pancetta, in casa Dawn.
Allie è già accomodata, accanto a Sofia, e sta spalmando una marmellata su una fetta di pane imburrato.
Mi avvicino e le bacio la testa.
- Buon Natale, Allie.
- Oh, auguri! –mi sorride, la bocca piena.
Mamma entra nella stanza in quell’istante, con in mano un vassoio di caffè fumanti.
- Il caffelatte è mio! –strilla mia zia sporgendosi verso la sorella.
- Oh, Oliver! Finalmente! –mi sorride mamma. Appoggia il vassoio sul tavolo e mi affianca. Mi stampa un bacio sulla guancia, poi mi dà un buffetto sulla mascella.
- Okay, giovincelli! –irrompe papà, arrivando, probabilmente, dalla cucina –E’ arrivato il momento di aprire i regali!
Allison trangugia rapida il suo caffè, poi salta, letteralmente, verso l’abete.
- D’accordo, faccio io! –canticchia eccitata nel suo pigiama grigio e bianco. Afferra alcuni dei pacchetti sotto l’albero, ricordandomi di quando era più piccola
- Questo qui –inizia esaminando un piccolo pacco rettangolare –Ha il nome di papà. To’.
Papà sospira mentre raggiunge la figlia.
- Grazie, tesoro, non serve che dimostri tutti questo affetto! –commenta sarcastico prendendo il fagottino.
Ridacchio, appoggiandomi al tavolo e incrociando le braccia al petto.
- Scusa, papino! –mugugna Allison abbracciando papà, che alza gli occhi al cielo con fare fin troppo teatrale.
Sofia e mia madre mi affiancano, per vedere meglio.
- Bene, bando alle ciance! –continua Allie spedendo mio padre al posto –Non abbiamo tempo da perdere. Ora tocca alla zia!
- Wow, una cravatta. –interviene papà dal divano, esaminando il nuovo regalo in controluce.
- Il mio pacchetto è rosa! –esulta Sofia, mentre Allison annuncia il turno di mamma –E contiene... una sciarpa! Oh, fantastico! Si gela, qui, fuori dal mondo!
- La solita esagerata... –bofonchia papà sottovoce, prima di beccarsi un’occhiataccia.
- Un libro di cucina italiana. Sul serio? Voglio dire, io sono uno di questi cosi vivente! –lamenta mia madre abbandonandosi sul divano accanto a mio padre.
- Oliver!
- Arrivo.
La mia è una scatola rettangolare non troppo grande. Quando la scarto, per poco non mi cade dalle mani.
- Mi avete regalato il paio di cuffie che chiedo da più o meno cinque anni? –urlo euforico, guardando mamma e papà sorpreso.
- Sì, be’, stai diventando qualcuno. Le tue canzoni sono alla radio di continuo. Te le meriti, tesoro. –spiega mia madre, mentre mi avvicino per baciarla.
- Grazie, grazie mille!
- Ed ora –grida Allie per farsi sentire –Apro io il mio pacco!
- Buongiorno famiglia Dawn! –strilla Scott comparendo nel salotto.
- E tu cosa ci fai qui? –grido esasperato –Non hai una casa tua?
Scott scoppia a ridere, mentre Jay spunta da dietro la sua spalla.
- Siamo solo venuti a farvi gli auguri di Natale –spiega Jay con un sorriso.
Allie li fissa scioccata.
- Voi non... voglio dire... sono in pigiama! –boccheggia passandosi le mani tra i capelli.
Scott sorride intenerito, senza accorgersene, mentre Jay fa un gesto di noncuranza.
- Con noi non c’è Noah, stai tranquilla.
- Noah? –balbetta, dimenticandosi del regalo, ancora da scartare –Cosa c’entra Noah, adesso?
- Niente, niente –interviene zia portandola via.
- Perché era così sconvolta? Quel pigiama è adorabile –si stringe nelle spalle Scott addentando una merendina.
- No, ma con comodo! –sospira mia madre, ridendo.
- Oh, non ti ho fatto leggere il contratto, cara? –si intromette papà –Quando abbiamo firmato per concedere loro l’amicizia di Oliver, li abbiamo anche adottati.
- Ah, ecco.
Scoppiamo tutti a ridere.

Guardo la neve ammucchiata ai lati della strada, camminando stretto nel cappotto. Accanto a me, papà passeggia rilassato, le mani intrecciate dietro la schiena, guardandosi attorno.
- Così tra una settimana parti con New York con una ragazza che non conosco. –constata fingendo disinteresse.
Rido.
- Questo pare più un discorso da padre a figlia. E’ una ragazza, non mi farà nulla. –l’istante stesso in cui pronuncio quelle parole, mi ricredo. E’ pur sempre di Rachele che stiamo parlando. Imprevedibile.
Papà inarca un sopracciglio, notando la mia esitazione.
- No, okay. Potrebbe fare qualsiasi cosa.
A ridere, ora, è lui.
- Ti piacerà, ne sono certo. –annuisco –Rachele è così... coinvolgente. Certo, non puoi mai prevedere la sua prossima mossa. Sembra non seguire uno schema logico.
- Emblematica. –suggerisce mio padre. Quel suo lavoro di avvocato gli permetteva, quando eravamo piccoli, di insegnarci una parola nuova ogni sera. Erano quasi tutte legate alla legge e al diritto, e probabilmente non le avremmo mai usate. Ma era diventata un’abitudine.
- E con la lingua, come farà?
- Oh, lei è un po’ come mamma. Spesso la guardo e ci rivedo lei. Adora le lingue. Ama i libri. Scrive.
- Scrive? –domanda, mentre vedo il suo interesse crescere. Continuiamo a camminare nel freddo invernale.
- Le ho consigliato io di farlo. Il modo in cui lei descriveva le persone, papà... notava dei particolari che io non notavo. Era attenta ai dettagli, inquadrava le persone in quattro e quattr’otto. E cavolo, se ha talento. Gioca con le parole.
- Un po’ come te.
D’istinto, mi viene spontaneo ribattere.
Ma non noto nulla su cui non abbia ragione, per cui taccio.
- Sicuro di essere pronto per tutto questo? Stiamo parlando di un concorso di fama internazionale, Oliver.
Annuisco lentamente.
- Lo so che me ne sono andato di qui che suonavo solo per me e non avevo mai pensato di voler vivere di musica. Però sai, a volte incontri delle persone che ti sconvolgono la vita, che ti aprono gli occhi.
Mio padre fa un mezzo sorrisetto.
- Che ti fanno battere il cuore, che ti tengono sveglio la notte a fissare il soffitto, che ti fanno sorridere come un deficiente, proprio come stai facendo tu ora.
Mi riscuoto dallo stato di trance in cui ero caduto.
- Cosa? Ma per favore!
Però non oso guardarlo in faccia, perché il motivo per cui sorridevo era proprio quella curiosa ragazza dai magnetici occhi verdi e dai soffici boccoli corvini che mi ha rubato il cuore.

 

♥ ANGOLO AUTRICE ♥ 

Eccomi con un altro micro capitolo! Ma prometto che sarà l'ultimo...

Il prossimo vi sconvolgerà la vita a tal punto che non vi preoccuperete della sua lunghezza, ve lo prometto. Darà avvio ad una lunga serie di cosucce... Dio, non vedo l'ora di farvi leggere i prossimi capitoli.

Bene.

Dal capitolo 17:

Seguo con gli occhi la direzione, fino al viso spaventato di Lucas.
- Oh, merda. –impreco sottovoce, mentre mio fratello scoppia a piangere.

 

 

 

 

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Capitolo 17
*** 17. - Rachele ***


She would not show that she was afraid,

but being and feeling alone was too much to face

Thought everyone said that she was so strong

What they didn't know was that she could barely carry on

A Little Too Much - Shawn Mendes

 

17. – Rachele

- Ma buongiorno, principessa!
L’occhiata storta che lancio a mio padre, appollaiato tranquillamente su una sedia della cucina, con il giornale in mano e una vestaglia addosso, non serve e fargli sparire quel sorriso soddisfatto e chioccio dal volto.
Accanto a lui, Lucas si sta ingoffando di tutte le schifezze di questo mondo, mentre mamma e Kate, entrambe già vestite, parlottano accomodate sul divano.
- Non è citando La vita è bella che mi convincerai ad accettare quella casa, papà –sbadiglio sedendomi a tavola e mordicchiando un croissant.
Mi lancia un’occhiata, come a dire che non ho possibilità di scelta.
- E’ Natale! E’ Natale! –sputacchia mio fratello tra un boccone e l’altro, facendomi inorridire.
- Ehi, tesoro. –mia madre si alza e mi raggiunge, mi bacia sulla fronte e poi ammonisce Lucas riguardo al cibo.
- Finisci di mangiare, che poi apriamo i regali –mi incita Kate dal sofà, sorridendo.
- Oh, il mio l’ho già aperto. Non resistevo, Ele, scusami. –sorride colpevole Lu accennando all’enorme scatola appoggiata al muro, contenente una pista per macchinine a quattro piani.
Scrollo le spalle.
- Fa niente, tanto io so già qual è il mio. –borbotto noncurante, riferendomi alla casa.
A Lucas cade la mascella, e in un lampo mi ricordo di Babbo Natale.
- Voglio dire –tossisco –Io, che so tutto, ho già discusso di questa cosa con Babbo Natale e siamo arrivati alla conclusione che non serviva che facessi la lettera, perché io...
Kate interrompe il mio penoso monologo sorprendendomi con una scatolina color perla. Mi fa un occhiolino.
- Be’, pare che Babbo voglia tenersi l’esclusiva della sorpresa –conviene papà sorridendo complice.
Apro la scatolina diffidente. Poggiato su un morbido cuscinetto bianco, c’è un bracciale d’argento dal quale pendono delle note musicali.
E’ davvero bello.
- Io non suono più –ricordo più a me stessa che a loro.
- Be’, comunque sia, mi pare che la musica abbia un posto nel tuo cuore, ora. –suggerisce Kate ammiccante.
Aspetta, cosa?
Decido di lasciar perdere e torno a concentrarmi sulla colazione.
- Ho deciso di regalare a Rachele la casa sulla spiaggia –annuncia mio padre. Sospiro.
- Ottima idea, Enrico. –cinguetta Kate.
Mamma resta zitta, segno del fatto che lo sapesse già.
- Non la voglio. –ripeto, senza alzare lo sguardo.
- Oh, ma è magnifica! –continua l’assistente.
- Non saprei che farmene.
- Fallo per me, Rachele. Ti prego.
Quando incrocio gli occhi di papà, sono supplichevoli e non più divertiti.
Deglutisco a fatica il morso di croissant.
- D’accordo –mormoro, sentendomi al centro dell’attenzione e determinata a porre fine a quel supplizio –Se proprio ci tieni, accetterò quella casa.
Mio padre pare rilassarsi.
- La adorerai.
- No, l’unica cosa che adoro sono le parole sulla carta.
Mamma alza gli occhi al cielo con fare plateale.
- Oltre a un centinaio di cantanti.
- Tra questi è compreso Oliver? –chiede civettuolo Lucas.
- Oh, ma si può sapere che avete tutti? –sbotto –Se vi piace tanto Oliver, sposatevelo e lasciatemi respirare!
Ed ecco di nuovo tutti quegli occhi su di me.
- Non possiamo –ribatte tranquillamente Lucas, senza nemmeno l’intento di fare una battuta –Te lo sposerai già tu.

- Papà, io... –tentenno, mentre, seduti sulla spiaggia, guardiamo mamma e Lucas giocare con l’acqua. Le parole faticano ad uscire anche questa volta. Il muro costruito dal mio orgoglio è praticamente invalicabile.
Non mi abituerò mai alle temperature africane di questo posto persino a Natale.
Mi guardo i piedi nudi, affondati nella sabbia tiepida, e mi mordo l’interno della guancia.
- Ti devo chiedere scusa. Mi sono comportata male con te, l’altra sera. –sospiro –E’ solo che non sapevo come comportarmi.
Lui sorride.
- Sono io che devo scusarmi con te, tesoro. Abbiamo sbagliato a mentirti. E ora ti abbiamo dato un fardello troppo pesante da sopportare.
Scuote piano la testa.
- Papà... vuoi che... vuoi che resti qui? Intendo... tra tre giorni parto per il Canada. Ma se vuoi che resti, io posso restare.
Pronunciare quelle parole mi costa uno sforzo enorme. E mi sento uno schifo per questo. Perché, alla fine, l’unica cosa che voglio è andare da Oliver e scappare da questo posto, quando invece dovrei voler restare qui, accanto a mio padre, che sta morendo. Se ne sta andando. Un’altra volta.
- No, no, non pensarci nemmeno. Non è che cambieresti le cose, se restassi.
- Ma potremmo passare più tempo insieme.
Non so perché mi ostini a ribattere, perché non mi accontenti della sua risposta negativa e faccia un respiro di sollievo.
Forse è il rimorso, il senso di colpa. Voglio avere la certezza che, quando morirà, il senso di colpa verrà alleviato dal fatto che “perlomeno ho insistito per restare con lui”.
Faccio una smorfia. Non sono così. Sono molto meglio.
Ma non sono stata io a decidere di essere indifferente a mio padre. Non lo odio, ma nemmeno lo amo. E’ stato lui a creare questa condizione. Mi sento soffocare.
- Non cambierebbe niente, fidati. –ride amaro –non riuscirei mai comunque a conquistarti di nuovo, Rachele. Ti conosco.
Mi mordo la lingua, prima di dirglielo in faccia. No, no che non mi conosci.
- Non puoi saperlo. Sono cambiata.
- Oh, sappi che non sei cambiata per niente, bambina mia. Sei la stessa ragazzina che ho lasciato dieci anni fa. Ti senti in dovere di prenderti cura di me e di volermi bene solo perché sto morendo. Ti obblighi a essere carina e gentile perché sai che la mia vita è agli sgoccioli, non riesci ad urlarmi in faccia che sono un idiota, che non avrei dovuto mentirti, che è solo colpa mia se ora siamo in questa situazione. Comunque, le so già queste cose. So di essere un idiota, so che non avrei dovuto mentirti e so che la colpa non è di altri se non mia, se ora la situazione è questa.
Resto di stucco, ma cerco di non farglielo notare.

- Dimentichi un particolare. –gracchio –Io vorrei volerti bene, ma proprio non ci riesco. Mi hai già fatto male una volta. Ed ora ho la certezza assoluta che lo farai di nuovo.
- Certezza? –mio padre ride incredulo –Non ti farei mai del male...
- Morirai –sbotto –Morirai. E allora? Allora cosa accadrà, papà? Eh?!
Vedo mio padre guardare vitreo davanti a sé. Seguo con gli occhi la direzione, fino al viso spaventato di Lucas.
- Oh, merda. –impreco sottovoce, mentre mio fratello scoppia a piangere.

A Lucas non hanno raccontato tutta la storia. Gli hanno semplicemente detto che papà è malato. Per cui, lui si limita a piangere disperato per l’amorevole e onesto padre che sta perdendo.
Mi guarda in cagnesco tra una lacrima e l’altra, perché io non piango come lui. Crede che sia un mostro, a non piangere per papà. Probabilmente è persino convinto che sia malato a causa mia.
- Tranquillo, piccolo, andrà tutto bene. –sussurra mamma accarezzandolo.
- Io non vengo in Canada. Io resto qui con papà. –annuncia Lucas, gli occhi arrossati di pianto che mi fissano arrabbiati.
- Non puoi, Lucas, non essere sciocco –interviene mamma.
- Ho detto che resto qui!
Mia madre guarda speranzosa, in cerca di aiuto, mio padre, che scrolla le spalle.
- Per me potete restare.
Ecco l’aria soffocante che mi stringe il collo, di nuovo, la sensazione di annegare che si impadronisce dei miei polmoni.
- Oliver ci aspetta, io devo andare con lui a New York. –ricordo –Non posso abbandonarlo.
- Be’, però a quanto pare puoi abbandonare tuo padre! –strilla sibillino Lucas. Un pungo mi prende lo stomaco, me lo stringe, lo strizza come in una morsa.
- Lucas! –lo richiama papà, scioccato –Sai bene che non è così.
- Se te la senti di andare in Canada da sola, io e Lucas restiamo qui –mormora mamma, guardandomi di sottecchi.
- Ma il volo... l’avete già prenotato... –boccheggio.
- Oh, quello si disdice.
- Perché non li disdiciamo tutti e tre? Rachele dovrebbe rimanere qui. Sono sicuro che Oliver capirebbe. –mi lancia un’occhiata che annuncia, ma che non mi prepara, alla bomba –Lui non è egoista e menefreghista come te.
Non dovrei, ma i miei muscoli non reagiscono ai comandi del cervello e si muovono di istinto. Prima che passi una frazione di secondo, mi avvicino a Lucas e gli tiro uno schiaffo.
Il tempo si blocca, nessuno respira più. Il silenzio crea un fastidioso fischio nelle orecchie.

 

 ♥ ANGOLO AUTRICE ♥

Eh sì, la curiosità ha avuto la meglio su di me. Così eccomi qui, a pubblicare di nuovo questo capitolo ancora una volta per poter pubblicare il prossimo!

Bene, riassumiamo velocemente la nota dell'autrice della volta scorsa...

Il prossimo capitolo sarà lungo lungo lungo e ci sarà talmente tanto Oliver che potreste arrivare a stancarvi di lui... Ma chi voglio prendere in giro.

In ogni caso, la strofa della canzone in cima al capitolo l'ho messa perchè mi pareva fin troppo la definizione di Rachele, quindi...

Okay. Anticipazione? Anticipazione.

Oliver si limita ad aumentare la stretta, come se avesse paura di lasciarmi andare.

 

 

 

 

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Capitolo 18
*** 18. ***


So if you're hurting, babe

Just let your heart be free

You've got a friend in me

I'll be your shoulder at anytime you need

Baby I believe

You can lay it all on me

Lay It All On Me - Rudimental ft. Ed Sheeran

 

18.

Rachele

Non so come sia riuscita ad arrivare fino a casa Dawn. I programmi erano che Oliver sarebbe venuto a prenderci all’aeroporto.
Ma ho preso il primo volo che ho trovato, per cui lui non mi aspetta, ancora.
Mi aveva comunque lasciato l’indirizzo, salvo imprevisti. Sono talmente stanca, che potrei addormentarmi qui, appoggiata al cancello del vialetto della graziosa villetta canadese.
Ha un grande giardino, con un secolare albero sul quale è stata costruita una bellissima casa.
Guardo il cielo pomeridiano, tinto di arancione, del giorno di Santo Stefano. Sento il cellulare vibrare nella tasca del cappotto che mi protegge, anche se con scarsi risultati, da questo freddo polare.
Dieci chiamate perse da mamma. Be’, sapeva dove stavo andando. Non sono scappata. Spengo il telefono e lo ributto nella tasca, toccando il mazzo di chiavi che mio padre ha insistito prendessi. Sono quelle della casa in spiaggia.
Sospiro per poi avviarmi, trascinandomi dietro i bagagli, lungo la stradina, fino alla terrazza. Salgo i gradini svelta, poi suono il campanello.
La porta si apre. Il viso di Oliver si tinge di sorpresa, e apre la bocca per esclamare il mio nome, ne sono certa.
Ma non resisto.
Gli getto le braccia al collo e inizio a piangere.

Non era nei piani. Ci stiamo sfigurando, sprovveduta.
Guardo la tazza di tè fumante, avvolgendo le mani attorno alla ceramica calda.
Alzo lo sguardo. Appoggiato al muro di fronte a me, Oliver mi fa un piccolo sorriso, ma riesco comunque a vedere la preoccupazione nei suoi occhi scuri.
Sua madre, Luisa, mi sorride cortese, posandomi una mano sulla spalla.
- Mi scusi, signora Dawn –riesco a strepitare.
- E di cosa, cara? –sbotta la donna sedendosi accanto a me.
Guardo di nuovo Oliver, ma non riesco a sostenere il suo sguardo.
- Penso di... –esito –Probabilmente vi devo una spiegazione. Vi chiedo scusa se mi sono presentata qui così, di getto, in un giorno da passare in famiglia come questo, ma... le cose hanno preso una brutta piega.
Sofia ritorna nella tiepida cucina, passandosi le mani sulle braccia.
- Mi ha chiamato tua madre –tira un sorriso –Era preoccupata.
Ovvio. Quale sprovveduta risponderebbe alle chiamate della madre? Pff.
Annuisco, prendendo un respiro profondo. Poi mi fisso sugli occhi di Oliver, e non distolgo lo sguardo durante tutto il racconto.
Spiego i fatti come se fossero accaduti ad uno dei miei personaggi, mentre gli occhi del ragazzo sembrano spronarmi.
Riesco anche a capire alcune cose, parlando. Sofia si lascia scappare un gemito di sorpresa, Luisa ogni tanto annuisce con fare comprensivo. Ma Oliver... Oliver non muove un muscolo, nemmeno gli occhi. Mantiene lo sguardo fisso nel mio, come un salvagente nel mare in tempesta. Ogni volta che sto per affogare, mi aggrappo alla sua sicurezza.
Nemmeno quando arrivo alla parte dello schiaffo, di Lucas, Oliver mi abbandona. Resta sempre qui, non mi giudica.
Quando ho finito di raccontare, la signora Dawn mi chiede se ho voglia di andare in bagno a rinfrescarmi. Le sorrido debolmente, la ringrazio, e scompaio nel corridoio del piano di sopra. Mi appoggio con la schiena al muro, prendendo respiri profondi. Mi asciugo le lacrime, prima di sentire dei passi. Oliver si avvicina cauto, mi posa le mani sulle braccia.
Alzo lo sguardo e incrocio i suoi occhi.
- Mi dispiace tanto, baby girl. –sussurra abbracciandomi.
Chiudo gli occhi.
- Dio, tantissimo. –continua sottovoce –Mi dispiace.
- Non è colpa tua. –riesco a gracchiare a ridosso del suo petto.
- Era per questo che piangevi, l’altra sera?
Annuisco stringendo le palpebre, per non scoppiare a piangere.
Oliver si limita ad aumentare la stretta, come se avesse paura di lasciarmi andare.

- Io sono Rachele –cerco di sorridere alla bellissima ragazza dai capelli castani.
Lei ricambia timida.
- Allison. Ma chiamami Allie. –mi stringe la mano, per poi lanciare un’occhiata al fratello, accanto a me. Effettivamente, ha una mano sulla mia schiena.
Cosa? Oh, Maria.
- Ha diciassette anni –mi informa Oliver –Come te.
- Oh, grandioso. –assicuro, sorridendo –Ma avrebbe potuto averne anche undici, che l’avrei adorata. Voglio dire, è l’unica ragazza qui, oltre a me.
Allie annuisce con vigore, concordando in silenzio.
Oliver sospira.
- Scott e Jay...
- Sono sempre qui. Ho bisogno di rinforzi. –bofonchia Allie guardando scettica Oliver.
Lui fa un sorriso scemo.
- Sono contento che la pensi così –inizia noncurante –Perché Scott e Jay stanno arrivando qui.
Allie mugola un gemito.
- E perché mai?
- Oh, per i consueti giochi di Santo Stefano, Allie, non ricordi?

Probabilmente nell’aria canadese c’è una particolare sostanza che rende tutti più belli. E per “più belli” intendo come minimo modelli di Victoria’s Secret. E non mi interessa se Victoria’s secret lavora solo sulle donne. Non seguo certe cose, io... Oh, accidenti.
Ricomponiti, sprovveduta, o qui non ne veniamo fuori.
Sbatto le palpebre, ma niente. Sono ancora qui. D’accordo, Jay l’avevo visto attraverso un computer e più o meno un’idea me l’ero fatta.
I due ragazzi abbracciano Oliver. Io, dietro di lui, mi dondolo sui talloni, nervosa. Allison, accanto a me, sospira.
Finiti i saluti, tocca a me.
Oliver si volta nella mia direzione, sorridente come un bimbo, i suoi due migliori amici alle sue spalle.
- E questa, ragazzi, è Rachele. –annuncia orgoglioso. Sorrido timida.
- E questi, Ele, sono Scott –Oliver accenna al ragazzo alla sua destra, che alza una mano per salutarmi, sorridendo –E Jay.
Sono entrambi alti poco meno di Oliver. Entrambi hanno i capelli sparati in aria, ma mentre quelli di Scott sono castano scuro, quelli di Jay tendono più al castano chiaro.
Ma le somiglianze finiscono qui.
Il sorriso di Scott è contagioso e palesemente eccitato, mentre quello del suo amico è più contenuto, quasi cortese.
Jay ha la pelle abbronzata e un fisico chiaramente scolpito, quando Scott, invece, ha la pelle chiara e un fisico nella norma.
Ma non è quello a colpirmi.
Gli occhi di Scott mi bloccano. Sono azzurri. Sono del colore del ghiaccio. Non sono occhi. Sono pezzi di ghiaccio messi al posto degli occhi. Sono...
Okay, non sovraccaricare quel tuo povero cervellino. Abbiamo capito. Scott ha degli occhi meravigliosi.
- Piacere di conoscervi –farfuglio sorridendo, le mani nelle tasche dei jeans.
- Scusa un attimo –ricambia Scott, per poi voltarsi verso Oliver e tirargli uno schiaffo sulla nuca.
- Che c’è, sei per caso diventato scemo? –sibila, mentre Oliver lo guarda confuso, massaggiandosi la zona colpita dalla manata.
Lancio un’occhiata a Jay in cerca di risposte, ma lui sta già guardando i suoi due amici, nascondendo un mezzo sorriso. Evidentemente, lui ha capito.
Mi rivolgo allora ad Allie, che li guarda sconsolata, le braccia incrociate al petto.
- Ti eri giusto dimenticato di dirmi che la tua amica italiana è bellissima –sbuffa Scott, facendomi avvampare.
Oliver si schiarisce la gola, in imbarazzo. Mi lancia un’occhiata, interdetto. Sorridendo, mi guardo le All Star bianche ai piedi.
- Non siamo qui per giocare? –interviene Jay, salvando tutti quanti –Voglio vedere di cosa è capace la pivellina.
Accenna a me con la testa, ed io inarco un sopracciglio.
- Oh, no. –biascica Oliver, ma ormai il pilota automatico è già stato inserito.
- Pivellina? –domando, con una punta di sarcasmo sulla lingua –D’accordo, ma non venire a piangere, quando la pivellina ti straccerà a tal punto che chiederai pietà in ginocchio.
Jay sorride divertito. Perfetto, non aspettavo altro.
Torniamo in salotto, dove Oliver tira fuori una lavagna in ardesia. Porge un gessetto bianco a Jay, che inizia a scrivere i nostri nomi sulla lavagna.
- Aspetta, Rachele è impronunciabile. Abbiamo bisogno di un soprannome. –si lamenta.
- Io voto Bay! –esclama subito Oliver, alzando per un attimo lo sguardo dal foglio su cui sta scrivendo.
- Bay? –domando stranita –E da dove salterebbe fuori?
Oliver si limita a scrollare le spalle con un abbozzo di sorriso, mentre a Scott viene un’illuminazione.
- Rae. Da Rachel, che è la nostra versione di Rachele. –spiega. Annuisco sorridendo.
- A me piace. –approvo.
- E che Rae sia!
Jay procede con il suo lavoro: OLIVER, JAY, SCOTTIE, ALLIE, RAY.
- Perché hai scritto il mio soprannome R-A-Y? –gli domando –R-A-E è molto più femminile.
Quando si volta verso di me, le labbra di Jay si allargano in un sorriso furbo.
- E cos’avresti, tu, di femminile?
Scott fa per intervenire, ma lo precedo.
- Hai ragione –soffio, un sorriso vittorioso sul volto –Nulla in confronto a te, Giselle.
Boom! Un punto alla sprovveduta! Chi avrebbe mai pensato di usare il suo secondo nome?
Scott trattiene una risata, con poco successo, e scorgo uno schizzo di sorriso sul volto di Oliver, che mi fa sentire speciale.
Allie mi batte il cinque.
- Ti adoro. Posso sposarti? –mi chiede, facendomi ridere.
Lentamente, il sorriso di Jay tramuta in un sorrisetto soddisfatto, mentre cancella le lettere sulla lavagna e le sostituisce con quelle che volevo io.
- Mi piace, la ragazza –annuncia squadrandomi con gli occhi socchiusi –Ha passato il test, Oliver, puoi fare quello che vuoi, ora.
Mi volto scioccata verso il ragazzo, che guarda l’amico interdetto.
- Il test? –domando.
- Di idoneità all’idiozia del loro branco, Rae –mi spiega annoiata Allison, strappandomi un sorriso.
- Avremmo dovuto farlo anche ad Alyssa –mormora piano Scott, ma riesco comunque a sentirlo.
- Alyssa?
Nessuno mi risponde, perché qualcuno mi lancia addosso un cuscino. Il primo gioco è cominciato.
Allie mi si avvicina di soppiatto e mi trascina dietro al divano. Ci accucciamo a terra.
- Okay, Rae, questa è la battaglia dei cuscini. Il primo che si arrende, ha perso. Io e te facciamo squadra contro i trogloditi, intese? –spiega rapida.
Annuisco in un sorriso, arraffando i cuscini che trovo.
- Bombardiamoli! –strillo balzando in piedi e lanciando un cuscino dopo l’altro addosso ai ragazzi che, colti alla sprovvista, iniziano a gridarsi insulti.
- Idiota, ti avevo detto che erano pericolose! –urla Jay lanciando un cuscino a Scott.
- Sembrano così tenere ed indifese... –si giustifica l’altro ricambiando la cuscinata.
- E’ colpa di Oliver, che si è scelto una ragazza così gnocca! –strilla Jay colpendo Oliver.
Eh?
- Be’, perlomeno non si è scelto la sorella.
- Cosa state blaterando? –strilla Oliver in mezzo a folate di cuscini.
Io ed Allie ci limitiamo a guardarli divertite, perché si stanno battendo da soli.
- Che idioti –ridacchia la ragazza scuotendo la testa.
- Non è nemmeno divertente, così. –concordo ridendo.

- Cavolo, ragazzi –ride divertito un uomo, che presumo essere il padre di Oliver, John, entrando in salotto.
Guarda la lavagna con interesse.
- Sebbene fossero solo in due, le ragazze vi hanno stracciato. –continua.
Scott raggiunge me ed Allie, si appoggia a noi e ci scompiglia i capelli.
- Sono brave, sì. –ride, ignorando i nostri lamenti.
L’uomo si avvicina a noi, e il cuore inizia a martellarmi nel petto. Tiro una gomitata a Scott per farlo allontanare e mi passo una mano tra i capelli.
Mi schiarisco la gola e sorrido.
In poco meno di un secondo, Oliver affianca il padre.
- Papà, lei è Rachele –mi sorride incoraggiante.
L’uomo annuisce pensieroso, un sorriso sulle labbra.
- Piacere di conoscerla, signore –lo saluto, stringendogli la mano.
- Piacere mio, signorina. –ricambia, facendomi sorridere –E le mie più vive congratulazioni per aver battuto questi scimmioni qui, dico sul serio.
Allie mi circonda le spalle con un braccio.
- Non farmi arrossire, papà –ammicca, facendolo sospirare esasperato –Lo sai che non mi piacciono i complimenti!
Scoppiamo tutti a ridere, e sento la tensione dentro di me allentarsi.
John nota un pacchetto sul tavolo, ancora incartato.
- Ehi, Allie, non hai ancora aperto il tuo regalo?
Allison segue il suo sguardo fino alla scatola, poi arrossisce violentemente.
Vedo Jay sorridere furbo, mentre Scott pare non capire.
- Be’... ecco... me ne ero scordata. –balbetta la ragazza afferrando il regalo ed iniziando a scartarlo.
Sotto la carta natalizia c’è la confezione di una nuova videocamera, che lascia Allie a bocca spalancata.
Le labbra di John si schiudono in un sorriso soddisfatto.
- Voi... voi... –Allie altalena gli occhi tra la videocamera e il padre, scioccata –Grazie.
Getta le braccia al collo del padre, che la stringe ridacchiando.
- Dai, tesoro. Inaugurala. –le consiglia l’uomo allontanandosi da lei. Allie annuisce entusiasta.
Impiega cinque minuti ad aprire la scatola e ad avviare la videocamera, poi la punta su di me ed Oliver. Stupiti, non reagiamo subito.
- Okay, sono Allie Dawn e sto girando il primo video del... del reparto. –Oliver fa una smorfia divertita e io gli do un pugnetto sul braccio. Dietro la telecamera, Allie sorride.
- Bene. Sto filmando i due soggetti qui davanti a me, che non se ne sono ancora accorti.
A quelle parole, mi risveglio. Guardo Oliver con impazienza, accennando alla sorella. Lui mi guarda confuso.
Mimo con le labbra la parola videocamera. Socchiude gli occhi, poi mi sorride sornione. Scuote la testa e mi fa segno di cominciare.
- Ma cosa stai facendo?! –sibilo sottovoce.
- Prego, prima le signore –sorride divertito.
- Che razza di... –bisbiglio talmente piano e tra i denti che dubito qualcuno l’abbia sentito.
- Sono passati quaranta secondi e nessuno si degna ancora di proferir parola. Incredibile. –commenta Allie, cercando di non ridere.
Le sorrido innocente.
- Bene. –inizio guardando storto il ragazzo accanto a me –Io sono Rachele e questo qui è Oliver. Oggi è il 26 dicembre e abbiamo appena terminato i giochi di Santo Stefano. Come volevasi dimostrare, Allie ed io abbiamo battuto i ragazzi senza il minimo problema.
Allison mi tende una mano, e io le batto un cinque, ridendo.
- Esatto, gente. Campionesse indiscusse dei Giochi di Santo Stefano! –esulta.
Scott e Jay compaiono nell’inquadratura con fare plateale.
- No, no, no. Fermi tutti. Altolà. Stop. –interviene il primo piazzandosi davanti all’obbiettivo, dopo aver fatto una serie di boccacce infantili –Qui bisogna mettere in chiaro alcuni punti.
Allison ridacchia, e la videocamera trema un pochino.
- Loro non ci hanno “battuto senza il minimo problema”. –spiega, iniziando a camminare avanti ed indietro, una mano sul mento – Siamo stati dei validi avversari.
Nel tentativo di trattenere una risata, mi scappa un risolino e quando l’obbiettivo torna su di me ed incrocio gli occhi divertiti di Allie, scoppio a ridere a tal punto che mi devo appoggiare alla spalla di Oliver per non cadere, seguita a ruota da sua sorella.
- Certo. –prosegue Allison tra le risate –Avete iniziato a colpirvi da soli durante la battaglia dei cuscini. Mentre giocavamo al gioco del silenzio avete improvvisamente preso a guardarvi come idioti finché Scott non è scoppiato a ridere. Durante il salto con la corda, dopo tre soli salti Jay è finito steso a terra come un cotechino. Nel gioco dei mimi, Oliver ha impiegato un quarto d’ora a farvi capire che quello che stava mimando era un pesce. Un pesce, ci rendiamo conto?
Mentre Allie parla, io rivivo i momenti nella mia mente e rido, rido talmente tanto che iniziano a farmi male le guance e la pancia. Rido, continuo a ridere, Oliver che mi guarda a metà tra l’intenerito e il divertito.
Ohhhh!
- Okay, qui qualcuno ha seri problemi –decide Jay sorridendo, lanciandomi continue occhiate preoccupate.
- Concordo –ride Oliver, mentre io, ogni volta che alzo lo sguardo su una delle loro facce, sbotto a ridere come una cretina –Per me è ubriaca.
- Idiota –riesco a dirgli tra una risata e l’altra. Inarca un sopracciglio.
- Idiota? Idiota a chi, signorina?
Mi prende per la vita e mi carica di peso su una sua spalla. Nemmeno ora, a testa in giù, riesco a smettere di ridere.
- Mettimi giù! –strillo tempestandogli la schiena di pugni. In tutta risposta, Oliver prende a girare su sé stesso, a fare su è giù per le scale. Per tutto il tempo, Allie ci segue con la videocamera.
- Allie! Aiutami! –grido ridendo, stremata, la pancia ridotta a poltiglia e il viso che credo ormai sia paralizzato.
Sceso dalla rampa di scale per la sesta volta, Oliver si ferma.
- Ti pare modo di trattare una ragazza? –chiede quella che riconosco essere la voce di John.
Nel silenzio tombale che segue, io scoppio a ridere. Ancora.
Ti pareva. Che Dio ci aiuti!
Poco dopo, trascino tutti quanti in una risata. Oliver mi mette giù, e me lo ritrovo a pochi centimetri di distanza.
Sciolgo la coda di cavallo, oramai disfatta, e senza distogliere gli occhi da Oliver me ne faccio un’altra.
Quando ho le mani libere, gli tiro una sberla sul petto con il dorso della mano.
- Idiota. –ridacchio –Se poi ti vomito addosso non ti lamentare.
Oliver mi fa uno di quei sorrisi omicidi, e mi concedo di perdermi ad osservarlo. Gli occhi gli brillano di felicità.
Le forze ci stanno abbandonando. Aiuto. Mayday. Abortire missione. SUBITO!
- E’ stato fichissimo! –urla Allie spegnendo la telecamera –Dobbiamo assolutamente farne altri!

- Alyssa?
Oliver è scioccato.
La ragazza bionda varca la soglia di casa Dawn con tre chili di trucco ed arroganza. Abbronzata, sorrisetto strafottente. Però, malgrado tutto, è bellissima.
Allie non è qui per spiegarmi chi sia o cosa ci faccia in casa sua, perché è andata in bagno, e non mi pare il caso di chiederlo a Scott, a fianco a me.
- Ciao, Olly. –sorride Alyssa.
Mi sta venendo il diabete.
Oliver, malgrado i sorrisi tutto zucchero della Barbie, è freddo e distaccato.
- Cosa vuoi? –domanda in un sospiro.
- Oh. Giusto. –Alyssa scuote la testa –Tua madre deve ritornare alla mia una ciotola. Sono venuta a prenderla.
Oliver mi lancia un’occhiata fugace.
- Vado a prendertela.
Sparisce in un secondo, senza nemmeno fare delle presentazioni.
Incrocio le braccia al petto e mi preparo a mettere su un teatrino-tutta-gentilezza, ma Barbie mi precede.
- Non sapevo che i Dawn avessero assunto una domestica –sorride sibillina, squadrandomi da capo a piedi.
Apro la bocca, sento che Scott sta per intervenire.
Non stuzzicare la bestia, bambolina.
- A dire il vero, sono un’amica di Oliver –ricambio il sorriso tirato.
Alyssa finge sorpresa.
- Vero. E tu saresti...?
- Rachele.
La ragazza storce il naso.
- Che bel nome. –sorride falsa –Spero solo che tu non abbia speranze o mire espansionistiche su di Oliver.
- Cosa? No, io...
- No, perché sarebbe alquanto imbarazzante.
Spalanco le palpebre.
- Non...
- Voglio dire, guardati.
- Io...
Non riesco ad imbastire una frase completa, che Alyssa mi interrompe con una cattiveria.
- Insomma, non per essere scortese, ma dove l’hai lasciato, il sedere, tesoro? In Italia?
Non per essere scortese, ma certo.
- Voglio dire, hai il culo che è grande quanto metà della tua faccia, non è...
Ti avevo avvisata, Barbie.
- Almeno io non ho una faccia da culo.
Glielo sputo in faccia, a due centimetri dal suo viso truccato, con un sorrisetto soddisfatto stampato sulle labbra.
La zittisco. Vedo Scott trattenere un sorriso.
Alyssa si allontana un poco, cercando di nascondere la sorpresa. In quell’istante, Oliver ricompare con la ciotola in mano.
- Eccola. –gliela porge senza sprecare un sorriso, poi accenna alla porta –Ora puoi andare.
- Certo. Grazie. –sorride di nuovo, zuccherosa –E’ stato un piacere conoscerti!
Si rivolge a me, uscendo, la porta che si richiude quasi subito.
Dietro di me, Scott caccia un urlo entusiasta.
- Vai alla grande, Bay! –esclama piazzandomisi davanti, eccitato –Sei stata magnifica!
Faccio un piccolo sorriso.
- Oh, e non credere a tutte le stronzate che dice –aggiunge, prima di lasciarmi sola con Oliver – Per me sei perfetta.
- Grazie, Scott. –sorrido imbarazzata, mentre torna in salotto.
Quando mi volto verso Oliver, lui mi guarda confuso.
- Che è successo?
- Oh... be’... –balbetto, portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio, sfuggita dalla coda – Niente. Niente di importante.
Cerco di sorridere solidale.
Lui sospira, ma poi decide di lasciar perdere.
- Solo... –sta per aggiungere qualcosa, ma poi si blocca e, scuotendo la testa, sorride –No, nulla. Non importa.

- Posso dormire sul divano, non c’è alcun problema! –ribatte Oliver. Incrocio le braccia al petto, stressata.
- Oliver, non ce n’è bisogno! –assicuro –Il divano andrà più che bene. Anzi, il caminetto acceso mi aiuta ad addormentarmi.
Lui fa una smorfia di disapprovazione.
- Non voglio disturbarvi –aggiungo sottovoce, in un flebile sorriso.
- Non ho intenzione di farti dormire qui. Non si discute. Prendi la mia camera.
Oliver scuote la testa.
- Senti... il fuoco mi fa sentire a casa, Oliver. Mi aiuta a non pensare. Ti prego.
Sospira sonoramente, come a sottolineare tutto il suo disappunto, poi mi indica il divano letto.
- Se proprio ci tieni.
Faccio un sorrisetto soddisfatto, sedendomi sul bordo del sofà, a pochi centimetri dal fuoco crepitante nel caminetto.
Poco più in là, l’albero di Natale brilla sotto le lucine che sfavillano di felicità.
- Okay, allora buonanotte.
Mi volto di scatto verso di Oliver, che mi sorride timido.
Abbozzo un sorriso.
- Notte.

Le ginocchia strette al petto, sono ancora rannicchiata davanti al camino, con l’unica differenza che è notte fonda, che indosso una maglietta cinque volte la mia taglia e che sono accoccolata sul pavimento, anziché sul letto, perché sono più vicina alle fiamme che riflettono, sulle punte delle mie dita dei piedi, delle ombre arancioni che mi incantano.
Il viso appoggiato sulle ginocchia, gli auricolari nelle orecchie trasmettono una canzone praticamente sconosciuta e vecchia, ma che non smette mai di scavarmi nel profondo.
Gli occhi non mi pungono. E dovrebbero, visti i pensieri che mi passano per la mente.

 

Oliver

- Ti piace, vero?
Squadro Allison da capo a piedi. So di cosa sta parlando, ma non ho voglia di darle retta. Non è una conversazione che voglio affrontare, men che meno in corridoio a quest’ora della notte.
- No, Allison. –ribatto semplicemente, mentre lei socchiude gli occhi. E’ mezzanotte passata ed io stavo cercando di raggiungere il soggiorno: ho lasciato le cuffie nuove in salotto, dove ora sta dormendo Rachele. Non riesco a prendere sonno e la musica, di solito, è sempre un’ottima ninnananna.
Allie, però, che stava andando in bagno, mi ha sorpreso nel corridoio del secondo piano. Mamma e papà dormono da un pezzo.
In ogni caso, mia sorella approfitta della situazione per sottopormi ad un interrogatorio degno dell’FBI.
Sospira.
- Ho visto come la guardi. Vorrei che qualcuno mi guardasse come la guardi tu.
- Ti stai inventando le cose, Allie. Che poi, non sei fidanzata?
Scuote la testa, arrossendo un poco e ben decisa a non demordere.
- Non è di me che stiamo parlando. Sai che ho ragione. La ami. Come biasimarti? Rachele è così... travolgente. Un uragano. Mi piace, Oliver. Hai la mia approvazione.
Spalanco gli occhi e sorrido divertito.
- La tua approvazione? Sei tu, semmai, che devi avere la mia!
- Io ho già la tua approvazione. –ricorda inarcando un sopracciglio.
- Noah? –sbuffo –Ma se non sei nemmeno felice, con lui!
- Cosa te lo fa pensare?
- Hai appena detto che vorresti che qualcuno ti guardasse come io guardo Bay.
- E come la guardi, Oliver?
- Non so cosa tu stia cercando di fare, ma Cupido se la cava benissimo da solo.
Allie mi mette a tacere con un gesto impaziente della mano.
- Osa. –sussurra solo, attenta a non svegliare nessuno –Osa. Non ci perdi nulla.
- Non ci perdo nulla? Cavolo, Allison, ci perdo lei!
Fa un sorriso soddisfatto, poi mi posa una mano sul braccio.
- Fidati, non la perderesti. Rachele è cotta di te. –ride.
La fisso sconcertato.
- L’unico problema è che avete entrambi gli occhi foderati di prosciutto e che mi tocca aiutarvi a capire che siete innamorati pazzi l’uno dell’altra. Ora scusami, ma devo andare in bagno.
Mi abbandona lì, nel corridoio, solo con i miei pensieri.

Cerco di non fare rumore.
Quando però arrivo, in punta di piedi, nella stanza, mi blocco.
Lei è rannicchiata a terra, davanti al camino, la schiena appoggiata al divano. Indossa solo una maglietta, ma non deve sentire freddo.
Il fuoco gioca con la luce, ed illumina, a sprazzi, il suo viso.
Mi avvicino, ma Rachele non mi sente. Solo quando mi siedo accanto a lei, mi accorgo che ha le cuffiette nelle orecchie.
Mi lancia un’occhiata, poi si toglie un auricolare.
- Ehi. –sussurro.
- Cosa ci fai sveglio a quest’ora? Non ti fa bene. –il suo suona un po’ come un ammonimento, che mi fa ridacchiare sottovoce.
Mi guarda storto.
- Potrei dire lo stesso. –spiego. Quando se ne accorge, Rachele sbuffa piano, chiudendo gli occhi.
Non sembra la stessa persona. Certo, dopo il racconto di oggi nessuno starebbe da favola. Eppure, durante i giochi, era la stessa di prima. In fondo, era proprio quello il mio obiettivo.
Ridacchio ripensando alla faccia stupita che hanno fatto i miei amici e mia sorella quando ho chiesto loro se non ricordassero i giochi di Santo Stefano. Certo che non li ricordavano: non li avevamo mai fatti. Ma dovevo tirare su il morale a Rachele, in un modo o nell’altro.
- Cosa stai ascoltando? –domando.
Le mi porge pigra una cuffietta.
- One By One. –gracchia –Degli Unkle Bob.
Restiamo in silenzio per qualche minuto, mentre mi concentro sulla canzone. E’... calda. Dà una sensazione di calore e di sicurezza, come se stesse dicendo “ci sarò io, per te, non temere”. Ma, al contempo, è lenta e struggente. Un miscuglio di emozioni.
Mi permetto di osservare il viso di Bay, mentre lei tiene lo sguardo fisso sul fuoco. La luce dona ai suoi occhi delle sfumature nuove, compaiono delle pagliuzze dorate in mezzo a tutto quel verde.
Non è tesa, bensì... rassegnata. Bay è rassegnata, distrutta.
La canzone finisce, e ne approfitto per strappare via le cuffiette.
- Ehi!
Rae mi guarda male, ma non fa nulla per riprendersi gli auricolari.
- E’ una bella canzone –convengo, osservandola. Lei non pare intenzionata a rivolgersi a me. Annuisce lievemente, concentrata sulle luci che il fuoco crea sui suoi piedi.
- Come va, baby girl? –continuo cauto.
Rachele sospira e fa un sorriso tirato.
- Bene. Mi piace qui.
Evita comunque i miei occhi. Con una mano le prendo dolcemente il mento e lo rivolgo verso il mio viso.
All’inizio, la maschera di sicurezza permane. Ma dopo pochi secondi, inizia a creparsi.
- Puoi dirmi tutto quello che vuoi, Bay. –sussurro. Una lacrima le scivola via da un occhio. Cerca rapida di asciugarla, la mano che corre veloce verso la guancia. La precedo, asciugandola con un pollice.
Si schiarisce la gola.
- Mi sento stupida, Oliver. –annuncia sottovoce. Non dovrei, ma non riesco ad evitare di sorridere.
- Non sei stupida.
Alza gli occhi al cielo, ed io le lascio andare il mento.
- Dici che dovrei odiare mio padre?
Sembra quasi avere paura della risposta, formula la domanda in un sussurro.
Resto spiazzato.
- Perché non so cosa pensare. –la voce le si incrina –Mio fratello lo ama, ma non sa tutta la storia. Io... io non so come comportarmi, ho paura di aver sbagliato ad andarmene. Sono in un continuo stato di incertezza, di timore di sbagliare. Di fare la cosa sbagliata, di comportarmi come non dovrei. Non... non so cosa fare.
Il suo viso è puro terrore. Fragile, indifesa come non l’ho mai vista.
- Vieni qui.
La stringo al mio petto, e scoppia a piangere. Si aggrappa a me. Aumento la stretta, chiudo gli occhi per non vederla soffrire.
- Tranquilla. Va tutto bene. –sussurro a ridosso del suo orecchio, accarezzandole la testa.
Inizio a canticchiare sottovoce, giocherellando con una ciocca di capelli corvini.
La stringo. La stringo più forte che posso. E non la lascio più andare.

 

♥ ANGOLO AUTRICE ♥

*saltella eccitata*

Ed eccoci qui!

I due piccioncini riuniti! Chissà cosa accadrà ora... *occhiolino piuttosto goffo*

Il prossimo capitolo sarà scritto da un punto di vista completamente nuovo... vediamo se riuscite a capire di chi si tratta dall'anteprima...

Dal capitolo 19:

Ridacchio, mentre anche lui si tira su a sedere e beve un sorso del caffè bollente.
Mi soffermo sugli addominali scolpiti e abbronzati.

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Capitolo 19
*** 19. - Arianna ***


Who's a friend, whos' an enemy?

'Cause sometimes they look the same to me

But looks can be pleasing, yet so deceiving

Sweet words from a serpent's tongue

It's like playing with a loaded gun

Who knows what truth is?

How do you prove it?

Enemy Fire - Bea Miller

 

19. – Arianna

Tra noi due, è sempre stata Rachele quella forte.
Lei ha un orgoglio, dei validi e sani principi che la rendono quella che è. Magari non le piace stare tra la gente, forse a volte diventa persino timida ed impacciata. Comunque sia, Rachele non si fa mettere in testa i piedi da nessuno.
Vorrei tanto essere come lei. So come avrebbe reagito. Ho provato ad imitarla, all’inizio, ma ho fallito. Non so se dovrei pentirmene. Eppure, guardando la schiena nuda di Leo che dorme a pochi centimetri da me, non riesco a non pensare che forse ho fatto la cosa giusta.
Non me l’aspettavo. Mi ha colta alla sprovvista. Ho aperto la porta e bang! il suo viso sorridente mi fissava.
Dentro, sono andata in panico. Fuori, cercavo di essere come la mia migliore amica. Gli ho chiesto, stanca, cosa volesse.
E lui è partito con un monologo di scuse che è durato un quarto d’ora d’orologio. Sara l’aveva ammaliato, Sara era una gallina, Sara qui, Sara lì, Sara là.
Voleva riprovarci. Non l’aveva fatto apposta. Era stata tutta colpa di Sara Turrini.
E qui si sono aperte le due opzioni.
Opzione A –Rachele–: tirargli un ben assestato schiaffo sulla guancia, da lasciargli una manata rossa, dirgli che è un lurido viscido bastardo sciupafemmine, chiudergli la porta in faccia con un sonoro “vaffanculo”.
Opzione B –Arianna–: restare a fissarlo per qualche secondo, decidere di credergli perché, alla fine, è sempre di Sara Turrini che stiamo parlando, invitarlo ad entrare, lasciarsi baciare appassionatamente e poi portarlo in camera da letto. Perché è pur sempre un gran bel ragazzo che merita una seconda possibilità.
Per cui eccomi qui.
Grazie a Dio mamma e papà hanno accompagnato Rita a vedere un concerto di un’orchestra a Milano, questo fine settimana.
Se Rita entrasse nella mia stanza ora, ucciderebbe prima Leo e poi me. Questioni di dignità, direbbe.
Leonardo si stiracchia e, lentamente, apre gli occhi.
- Buongiorno –sorride.
Mi siedo sul letto, una vecchia maglietta addosso. Gli porgo una tazza di caffè, per poi sorseggiare la mia.
- Buongiorno. Dormito bene?
Fa un sorrisetto.
- Magnificamente.
Ridacchio, mentre anche lui si tira su a sedere e beve un sorso del caffè bollente.
Mi soffermo sugli addominali scolpiti e abbronzati.
- Ari?
Alzo lo sguardo. Leo mi fissa divertito.
- Sì, be’, scusa se voglio imprimere il ricordo. –tossicchio.
Scoppia a ridere, poi fa vagare lo sguardo attorno alla mia stanza. Sorride quando vede le foto mie e di Ele.
- Siete tu e Rachele? –domanda.
Annuisco, sorridendo.
- Lei è diversa. –continua, sorridendomi –Ha qualcosa di guerriero. Ha la ferocia di un generale nazista.
Annuisco piano.
- Credo che sia perché ha dovuto diventare forte e resistente. –mormoro.
Leo corruga la fronte.
- Cioè?
Esito, indecisa se confidarmi o meno. Mi perdo nei suoi occhi, che sorridono incoraggianti.
- Suo padre l’ha abbandonata quando aveva sette anni. Sua madre aveva appena partorito suo fratello. Non ha mai pianto. –racconto.
Leonardo pare colpito.
- Non lo sapevo.
Sorrido mesta.
- Ma ora... sbaglio o è in America?
- Sì. E’ andata a trovare suo padre. Lui... lui sta morendo. –decido di non accennare a tutto il resto e mi fermo.
- Caspita.
- Già.
- Forse l’ho giudicata male. E quando torna?
- Dopo le vacanze.
Suona il suo telefono. Si scusa e, afferrandolo, esce dalla stanza. Lo guardo con gli occhi socchiusi, chiedendomi se quello che ho visto lampeggiare sullo schermo fosse realmente il nome di Sara.

 

♥ ANGOLO AUTRICE ♥

Eccomi qui!

Questa è stata una settimana di fuoco, non ho avuto tempo per fare niente. Niente di niente.

Ma il tempo per aggiornare l'ho trovato! Alloora... cosa comperterà secondo voi questa cosa? Leo è onesto? E' Arianna che vede cose che non esistono? Come preoseguirà la cosa?

Mi rendo conto che il capitolo è microscopico, e chiedo scusa!

Dal capitolo 20:

Oliver non alza gli occhi al cielo, né ribatte. Il che mi spaventa. Mi guarda negli occhi con tanta intensità che perdo la cognizione del tempo e dello spazio.
I suoi occhi si abbassano per un istante sulle mie labbra, e rabbrividisco.

 

 

 

 

 

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Capitolo 20
*** 20. - Rachele ***


 

So come on girl let me hold your hand,

let's go get lost, leave without a plan

And I know you got the world to see,

But, you know, you mean the world to me

Strings - Shawn Mendes

 

20. – Rachele

Quando mi sveglio, sono sul divano, tranquillamente avvolta in un burrito di coperte. Apro gli occhi e mi domando se ho sognato tutto, prima di ritrovarmi il naso appiccicato alla telecamera di Allie.
Quando mi rendo conto che mi sta filmando, gemo.
- Allie... –piagnucolo guardandola male.
Lei ridacchia.
- Bene, ed ora che abbiamo filmato anche il soggetto B durante la mattina prima della partenza per la Grande Mela, passo e chiudo!
Allison spegne la telecamera e, dopo essersi seduta accanto a me, se la appoggia in grembo.
- Pronta a partire? –mi domanda.
La guardo in cagnesco.
- Che ora è?
- Sono le nove.
- Be’, io non sono socialmente attiva fino alle undici, come minimo.
Lei scoppia a ridere di gusto, si alza e fa per uscire.
- Ti consiglio di cambiarti prima che arrivino Scott e Jay!
- Ma cos’è, vivono qui?
- Oh. Probabilmente.
Prendo il suo consiglio al volo. Sistemo il divano e mi barrico in bagno con un paio di jeans ed una calda felpa.
Mi fermo davanti allo specchio.
Oliver ha cantato per me, ieri sera. Ho pianto tra le sue braccia. Mi sono addormentata avvolta da quella stretta sicura e dolce che mi ha drogata.
Frena. Cosa stai blaterando?
Scuoto la testa con fin troppa violenza. La vocetta ha ragione. Cosa accidenti sto blaterando?
Mi sciacquo la faccia con dell’acqua ghiacciata.
Mi cambio, cerco di dare una sistemata ai capelli, per quanto possibile, e raggiungo la cucina, dove l’intera famiglia Dawn sta facendo colazione.
- Oh, buongiorno, signorina! –mi saluta caloroso John, alzando gli occhi dal giornale che ha in mano.
- Buongiorno. –sorrido, accomodandomi nella sedia vuota accanto ad Allie.
Quell’uomo mi piace sempre di più.
Oliver, davanti a me, alza lo sguardo. Quando incrocio i suoi occhi, le farfalle iniziano a svolazzarmi nello stomaco.
- ‘Giorno –sorride. Cerco di ricambiare con un timido sorriso.
Cosa accidenti sta succedendo? Non ho il controllo della situazione. Non ho il controllo. Aiuto.
Luisa si siede al posto del capotavola, poggiando al centro del tavolo una brocca di caffè bollente.
- Buongiorno, cara.
Sofia, accanto ad Oliver, mi saluta con un cenno della mano, in quanto sia impegnata a masticare un boccone troppo grande di una merendina. Sorrido.
- Dormito bene? –domanda Allie, allungando un braccio verso la latta dei biscotti.
Un brivido mi corre lungo la schiena, e d’istinto i miei occhi scattano su Oliver. Purtroppo o per fortuna, lui è impegnato a guardare distrattamente fuori dalla finestra.
Deglutisco, mentre Sofia mi versa una tazza di caffè.
- Certo –sorrido alla donna in segno di ringraziamento.
- Ehi, io devo andare da Scott. Ha dei problemi con l’auto. –interviene Oliver alzandosi in piedi –A voi va bene?
Chissà perché, mentre lo dice guarda dritto nella mia direzione.
- Sicuro, vai. Anzi. –bofonchia Allie sorridendomi –Se tu non ci sei, ho Rae tutta per me.
Oliver sposta lo sguardo sulla sorella per un millisecondo, per poi tornare a me. Annuisco rassicurante, e lui pare distendere i muscoli.
- A dopo! –esclama uscendo dalla stanza.
- Divertiti! –strilla di rimando sua madre, per poi aggiungere, sottovoce, qualcosa sul fatto che aiutare Scott con la macchina non dev’essere poi tanto divertente.

- Quanto zucchero ci metti, tu, cara? –mi domanda la signora Dawn, guardando storto la crema del tiramisù.
Davanti a noi, Allie ci riprende con la telecamera. Fuori dalla finestra, il rimbombo della pioggia che cade a quantità impressionanti rende quasi difficile sentirsi.
- Mia mamma mette 120 grammi. –mormoro –Di solito.
- Okay, spiegatemi la situazione ancora una volta –ride Allie –Siete due italiane che state preparando un tiramisù, dolce tipico italiano. Ma la prima è troppo vecchia e non si ricorda la ricetta, mentre la seconda è troppo giovane e non la conosce.
Entrambe la investiamo con un’occhiataccia, ma lei scoppia a ridere comunque.
- Io propongo di arrenderci –mormora Luisa.
Annuisco fin troppo immediatamente.
- D’accordo. Io vado a scaricare i video sul computer. –annuncia Allison scomparendo in un battito di ciglia.
- Deve avere una reazione allergica alla pulizia. –sospira la donna, guardando sconsolata la marea di ciotole e padelle sporche sul tavolo.
Mi volto ad osservarla. E’ coperta di farina da testa a piedi. Io non devo essere molto meglio.
Sorrido.
- Direi di metterci al lavoro. –convengo sorridendo. Luisa mi guarda riconoscente.
Sta per dirmi qualcosa, quando la porta di casa si apre e richiude con un botto.
- Sono tornato! –questa è la voce di Oliver, che ci raggiunge ignaro.
Come mette piede in cucina, si blocca. Ci squadra da capo a piedi, poi, lentamente, passa in rassegna gli utensili sporchi.
Faccio un sorriso angelico, sua madre mi imita.
- Voi due mi fate paura.
Si avvicina, cauto, al tavolo. E’ davanti a noi.
Dio solo sa in che stati sei ora, sprovveduta.
- Ovvio. –ribatto con un sorrisetto – Fai bene.
- Ad avere paura di noi? –chiede Luisa –Oh, certo.
Oliver ci guarda cinico.
Lo fa con talmente tanta nonchalance che nemmeno me ne accorgo, ma fatto sta che due secondi dopo mi ritrovo la faccia coperta di farina, mentre lui ride divertito.
- Oliver! –lo richiama sua madre, seppur sorridendo.
Mi passo una mano sugli occhi e li libero dalla polvere bianca.
- Hai voluto la guerra –ringhio afferrando un uovo e lanciandoglielo contro. Come da previsione, si rompe e si spalma ben benino sulla sua maglietta. Sorrido perfida, aggirando il tavolo e avvicinandomi a lui.
Cavolo, se è più alto di me. Ricambia il sorriso, poi si passa una mano sulla chiazza unta. Mi spalma ciò che resta dell’uovo sulla fronte. Rabbrividisco per un secondo.
- Scusa. Non l’ho fatto apposta. –sorride falso.
Afferro la ciotola dove la crema del tiramisù, ormai inutile, è contenuta. Gliela rovescio in testa, il petto che esplode di orgoglio.
- Nemmeno io.
Prende qualche respiro profondo.
- Sai cosa ho una voglia tremenda di fare, ora? –mi domanda. Scuoto la testa, cercando di nascondere un sorriso divertito.
- Abbracciarti!
- No! –strillo. Cerco di correre via, ma, come previsto, Oliver è più veloce e forte di me. Sento le sue braccia avvolgermi da dietro e trascinarmi in cucina, ancora. Mi stringe e fa attenzione ad ungermi il più possibile di crema giallastra. Allunga una mano verso il sacchetto di farina, sul tavolo, e la fa cadere sulla mia testa.
- Oliver! Lasciami stare! –esclamo ridendo.
- Cosa? Non sento bene. Sai, ho tanta crema nelle orecchie.
Scoppia a ridere alla sua stessa battuta, e se ne avessi la possibilità, allora scuoterei la testa.
- Lasciami stare! –strillo –Voglio andare a pulirmi, Oliver!
- Pulirti? Tipo... un bagno?
- Sì, esatto. Sai, quella cosa che si fa quando si è sporchi!
- Ah. Hai ragione.
Non accenna a lasciarmi andare. Luisa ci guarda, le braccia incrociate al petto, esilarata.
- Sai, ho un’idea.
Mi si gela il sangue.
- Che tipo... che tipo di idea?
Non faccio in tempo a sentire la risposta, che Oliver ha urlato qualcosa a proposito di una piscina e mi ha sollevato da terra, trascinandomi fuori attraverso la porta sul retro.
Non ti butterà in piscina, siamo a dicembre! Chi vuoi che abbia una piscina in giardino, in pieno inverno?
- Oliver! Oliver! Fermati, dannazione!
Usciamo sul retro, e la pioggia ci mette pochi secondi a rendermi uno straccio bagnato fradicio.
- Oliver! –grido dimenandomi, ma lui non pare sentire. E solo allora la vedo. La piscina.
- No, no, no... –sussurro.
Mi volto verso Oliver, per quanto mi sia permesso farlo. Si china su di me e accosta la sua bocca al mio orecchio.
- Tranquilla, non è ghiacciata. –bisbiglia in un sorriso.
Te l’avevo detto.
Grido, ridendo.
Oliver mi solleva di nuovo da terra, la pioggia che mi tamburella fastidiosamente sulla fronte. Corre fino al bordo della piscina e poi si butta.
Non sarà la cosa più appropriata da pensare, ora, ma l’acqua è davvero riscaldata. Quasi quasi non esco nemmeno.
Quando riemergo in superficie, Oliver è a pochi centimetri da me e mi guarda soddisfatto.
- Sei un idiota –gli schizzo dell’acqua addosso.
- Mi pare che l’avessi già detto –ride lui, passandosi una mano tra i capelli.
Esco dalla piscina e corro sotto il portico, dove, almeno, non batte la pioggia. Mi stringo le braccia attorno all’addome, grondante d’acqua.
Oliver mi raggiunge. Per quanto sia arrabbiata con lui, non riesco a non soffermarmi sulla maglietta che, bagnata, aderisce ai suoi muscoli scolpiti.
Probabilmente lo sto fissando con la bocca aperta, perché quando distolgo lo sguardo lui sta guardando sì verso la piscina, ma ha un sorriso stampato sulle labbra.
Se non altro è un gentiluomo, Bay.
Cos’è questa tendenza a chiamarmi Bay?
Eh? Oh. E’ solo che è più corto di Piccola Sprovveduta. Tutto qui.
Non me la racconti.
- Bay? –mi chiama Oliver. Scuoto la testa.
- Dimmi.
- No, niente. –sorride –Sembravi in un altro mondo.
Succede spesso, fidati, bellimbusto. Anzi, belloccio. Che ne dici di “figo della Madonna”?
Luisa compare dalla porta, con due asciugamani. Ne porge uno a me e uno al figlio, lanciandogli un’occhiata disperata.
Mi stringo nel telo.
- Ehi... Perché Bay? –gli chiedo.
Fa un mezzo sorriso.
- E’ un acronimo.
- Uh. E per cosa sta?
- Non te lo dico.
- Oliver! –protesto.
Lui ride.
- Però, ho una cosa per te. –previene ogni mio tentativo di rivalsa. Mi prende la mano e mi trascina di nuovo sotto la pioggia.
Che?
Corre, trascinandomi dietro di lui, intorno alla casa, fino al giardino che si affaccia sulla strada. Si avvicina all’albero sul quale c’è quella bellissima casetta e prende ad arrampicarsi sulla scala a pioli.
Ehm.
- Muoviti! –mi urla, per sovrastare il rumore scrosciante dell’acqua.
Okay. Lo imito. Salgo la scaletta, ben attenta a non scivolare, fino ad una botola. Per fortuna, Oliver, che è già salito, me la sta tenendo aperta.
Mi porge una mano, ed io la afferro per aiutarmi a raggiungerlo. La botola ricade sul pavimento con un tonfo.
La casetta è tutta in legno, piccolina ma ben arredata. C’è un divanetto colorato al centro, sopra un tappeto multicolore, mentre accanto alla finestra c’è una scrivania intagliata nel legno.
- Che bella. –mormoro. Oliver mi sorride, poi accenna alla scrivania, sommersa di portapenne.
C’è una bottiglia trasparente, con un tappo di sughero. Al suo interno, un rotolino di carta fermato da un nastro rosso.
Inarco un sopracciglio.
- Coraggio. –mi incita Oliver sorridendo.
Mi avvicino al tavolo e prendo in mano la bottiglia.
- E’ per me? –domando armeggiando con il tappo.
- No. –sospira lui –Certo che è per te.
Gli faccio una boccaccia, mentre capovolgo la bottiglia per far scivolare fuori il foglio.
Sfilo il fiocco rosso e lo appoggio sulla scrivania assieme al tappo e al contenitore. Lo srotolo. Lancio un’occhiata ad Oliver, prima di mettermi a leggere.



Another Life ~ Oliver Dawn


And now you’re gone
Your loss breaks my bones
I’m gonna need another life
To go over, to forget.
To stand up again.

You were the sun, the light.
I took your heart and made it mine
You took my soul
I love you more than anyone else
Will ever do

So I woke up this morning
You weren’t by my side
I fell against the bed
And died again inside

[Chorus]:
Another life. Maybe I need one.
Where I don’t know who you are.
Where I don’t know I love you.
Where I don’t know you broke my heart.
Another life. Another life.
Another Life, nothing more.
Did you know you took my soul?
Did you know that loving you,
I died with you?

I don’t know what to do now.
Guess I have to go head
But I don’t know how.
I barely feel the others
Talking around me.
You were the only reason
I was happy for.

They’re tellin’ me: “She’s gone, my friend”.
But i can’t hear them
How could I forget you?
How could I delete us?
You were the only one
I’ve ever been in love with.


[Chorus] x2

Did you know that you changed my world?

 


Alzo lo sguardo dal foglio e lo rivolgo sul ragazzo seduto sul divano, in attesa.
- E’ il testo di Another Life. –mormoro guardandolo. Lui mi fa un sorriso a cinquecento denti.
Trattieni l’euforia. Non fare cavolate. Respira. Non farti trascinare da quel magnifico, bellissimo, dolcissimo sorriso. Non... oh, al diavolo!
Oliver si alza e mi raggiunge. Si avvicina talmente tanto che le farfalle ricominciano a svolazzarmi nello stomaco. Una volta avevo letto una frase che, all’inizio, mi era sembrata buffa. Dimentica le farfalle, quando sono con te io sento l’intero zoo! Ma mai come ora una frase si è adattata alla mia vita così bene.
Deglutisco mentre inclino la testa all’indietro per guardarlo negli occhi. Sorride. Continua a sorridere.
Vuole proprio farci fuori, eh.
Abbozzo un sorriso sincero.
- Grazie. –borboglio, avvampando.
- Figurati. E dato che è la copia originale, ho bisogno che tu mi prometta che non la venderai, tra vent’anni, al miglior offerente.
Sorride ancora.
Mi lascio scappare un risolino, abbasso lo sguardo.
- Ma poi le promesse vanno mantenute –obietto piano.
Oliver non alza gli occhi al cielo, né ribatte. Il che mi spaventa. Mi guarda negli occhi con tanta intensità che perdo la cognizione del tempo e dello spazio.
I suoi occhi si abbassano per un istante sulle mie labbra, e rabbrividisco.
Oliver si riscuote, un sorriso che torna a distendersi sul suo viso.
- Avrai freddo. Sarà meglio tornare in casa.
Annuisco.
Se c’è una cosa di cui sono certa è che quello era tutto tranne che un brivido di freddo, Oliver Dawn.

 

 

 

 ♥ ANGOLO AUTRICE ♥

Eccomieccomieccomi!

Mi siete mancate tantissimo! La settimana è stata un suicidio come sempre, ma eccomi qui!

Non uccidetemi per un bacio mancato, calmatevi. I progressi si fanno poco alla volta. XD

Okay, okay, voglio solo tenervi sulle spine.

La strofa all'inizio del capitolo mi piace tanto... *.*

"I know you got the world to seee but, you know, you mean the world to me"

"So che hai il mondo da vedere ma, sai, tu sei il mondo per me"

E avrebbe potuto addattarsi meglio ai nostri due pulcini?

Il prossimo capitolo?? New York!!!

Dal capitolo 21:

- E tu, sei sua sorella? –mi sorride mielosa.
No. No. Non farlo.
Faccio un sorriso talmente finto che mi do un cinque mentale.
- No, sono la sua ragazza.

 

 

 

 

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Capitolo 21
*** 21. ***


And if I kiss you darling,

please don't be alarmed

It's just the start

Of everything if you want

A new love

In New York

New York - Ed Sheeran

 

21.

- Non posso prenderla, Allie. –obietto, lasciando la maniglia della valigia accanto a me per infilarle nelle tasche del giaccone.
Lei sbuffa sonoramente.
- Voglio che tu la prenda, Rae. –sospira –Avrai molte più cose interessanti tu da filmare a New York, che io qui.
Mi porge la sua videocamera con insistenza.
Esito.
- Fai dei video diari. Mostrami la città. Mostrami Oliver. Ti prego. –mi sorride.
- Okay.
Accetto la custodia nera, ringraziandola con un sorriso. Oliver, accanto a me, scalpita dall’eccitazione.
- Divertitevi. –ci augura, stringendo in un abbraccio prima me e poi il fratello.
- Bene, ora tocca a me. –irrompe Scott facendo un passo avanti. Ridacchio.
Oliver fa un sorriso in uno sbuffo, scuotendo la testa.
- Ti invidio, amico. –fa Scott, rivolgendosi al ragazzo accanto a me –Tre giorni a New York, tu e lei. Approfittane.
- Finiscila! –gli tiro un pugno sul braccio. Lui si massaggia la parte che ho colpito, fingendo uno sguardo ferito.
- Non sarà una passeggiata –bofonchia guardandomi trattenendo una risata.
- Scott...
- Fammi finire, Bay! Stai rovinando tutta la scena che mi ero immaginato! –protesta sottovoce. Mi blocco. Sono io, ora, a trattenermi dal ridere.
Scott si sposta e si piazza davanti a me, tendendo una mano nella mia direzione.
- Dammi il telefonino.
Inarco un sopracciglio. Ma non demorde, quindi gli porgo l’apparecchio, seppur controvoglia. Me lo ritorna qualche secondo dopo.
- Che hai fatto? –gli domando preoccupata, vedendo il suo sorriso soddisfatto.
- Ho salvato il mio numero in rubrica. –spiega semplicemente –Così se questo scimmione –indica Oliver –ci prova con te, puoi chiamarmi.
Scoppio a ridere, Oliver con me.
- Okay, okay. –interviene Jay –Fate un buon viaggio. In bocca al lupo.
Abbraccia Oliver, poi mi stringe amichevolmente.
- Ci si vede, ragazza. -mi sussurra all’orecchio.
- Oh, certo. –assicuro sorridendo.
John e Luisa mi baciano ed abbracciano, quasi più di quanto strapazzano il figlio.
Prendo un profondo respiro e mi volto raggiante verso Oliver, impugnando di nuovo la mia valigia.
La felicità sprizza da ogni poro della sua pelle. I capelli sono spettinati, probabilmente si è dimenticato di pettinarli per l’agitazione.
Non che ci dispiaccia, certo. Per quanto possa sembrare impossibile, è ancora più bello.
Ma no, non sono quei capelli spettinati a renderlo bello. Per un attimo mi immobilizzo. Esattamente come la prima volta in cui l’ho visto, è quel tenero sorriso sghembo ad illuminargli il volto. Un sorriso involontario mi si abbozza sulle labbra.
- Andiamo?
- Andiamo.

- I signori passeggeri sono pregati di spegnere i cellulari. –gracchia la voce del pilota dalle casse.
Mi agito sul sedile. Accanto a me, Oliver mi sorride.
Quando alzo la tendina del cellulare, c’è ancora aperta la pagina della rubrica. Il nome di Scott è contornato da decine di cuoricini e bacini.
Sospiro in un sorriso, poi lo allungo verso Oliver, perché lo veda.
Lui ridacchia scuotendo la testa. Spengo il telefono e quando torno a voltarmi verso di lui non posso evitare di notare che mi sta ancora osservando, gli occhi leggermente socchiusi, un mezzo sorriso sulle labbra.
- Che c’è? –avvampo.
No, no, no. Non si arrossisce, tesoro.
Oliver mantiene quella sua espressione terribilmente...
Sexy.
Inarco un sopracciglio.
- No, niente. –sorride, distogliendo lo sguardo e puntandolo davanti a sé, mentre armeggia con una bottiglietta d’acqua.
Alzo gli occhi al cielo, deglutendo.
- Cosa vuoi fare quando arriviamo? –mi domanda, senza guardarmi.
Meglio. Potresti svenire seduta stante.
- Non lo so. Abbiamo tutto il giorno libero. –ricordo, perdendomi a giochicchiare con il braccialetto con il mio nome -E anche domani. A parte la sera, certo.
Sorrido, passando il dito sull’incisione. Mi ricordo di a cosa quel braccialetto abbia dato avvio. Forse non sarei qui, ora, se non l’avessi mai avuto.
- A che pensi? –mi chiede Oliver dolcemente. Alzo lo sguardo. Fa un cenno con il capo al mio polso. Torno a guardare il bracciale, sorridendo come una deficiente.
- Nulla. –mormoro –Solo vecchi ricordi.
- Belli o brutti?
Punto i miei occhi verdi nei suoi, con un piccolo sorriso.
- Meravigliosi.

- Wow. –è tutto quello che esce dalla bocca di Oliver. Io continuo a guardare la hall dell’albergo dove 1Radio ha fatto alloggiare i concorrenti al suo concorso con la bocca spalancata.
E’ un ambiente modernissimo e molto luminoso, in piena Manhattan. La ragazza dietro il bancone, elegante e raffinata, mi sorride calorosa. All’improvviso mi sento uno straccio, con addosso i miei jeans, il mio maglione grigio e lungo fino a metà coscia e una vecchia pashmina rossa al collo.
La studio cauta. Una gonna aderente, le gambe abbronzate, una costosa camicia bianca infilata nella gonna, tacchi vertiginosi.
Le altre donne attorno a noi sembrano seguire tutte una linea generale d’abbigliamento. Vorrei poter sprofondare nel pavimento.
Ci avviciniamo alla reception, trascinandoci dietro le valigie.
Vedo gli occhi della ragazza illuminarsi quando si accorge di Oliver. Sospiro.
- Buongiorno. Come posso aiutarvi? –ci sorride. Anzi, sorride ad Oliver.
- Salve. –quasi mi stupisco del fascino innocente del ragazzo. Lancio un’occhiata di sottecchi alla receptionist, che prende un profondo respiro.
E’ bello, sì, lo sappiamo.
- Io partecipo al concorso indetto da 1Radio, lei mi accompagna. Dobbiamo partecipare domani sera alla...
- Oh, sì! Sì! –salta su quella. Leggo il suo nome, sul tesserino minuziosamente appuntato all’altezza del seno: Patricia – Oliver Dawn, giusto? Sì, vi stavamo aspettando. Vi accompagno alla suite.
Inarco entrambe lo sopracciglia, guardandomi la punta rovinata delle Converse.
- Seguitemi.
Patricia-tutto-fascino aggira il bancone e ci raggiunge. Mi guarda smagliante. Sorrido. Cerco di farlo. Spero non l’abbia notato.
Cammina per il luminoso ingresso facendo riecheggiare quei suoi tacchi a spillo che le snelliscono ancora di più le gambe. I capelli, tutti al loro posto, sono morbidi sulle spalle.
Chiama l’ascensore schiacciando il pulsante argenteo.
- Ho sentito spesso le tue canzoni alla radio, Oliver. –racconta Patricia-tutto-fascino.
- Sì? Noi non abbiamo ascoltato molto le radio, ultimamente. –conviene Oliver interessato.
Ahi.
- Oh, sì. Credo che le tue siano le migliori. Onestamente, sei uno dei migliori partecipanti, a mio parere. Siete tutti molto giovani. –ridacchia civettuola –Be’, non che io sia una povera donna cinquantenne, è chiaro. Ho solo vent’anni.
Oh, ha solo vent’anni. Questa è quasi peggio Alyssa-tutto-culo. Pft. Hai sentito? Patricia-tutto-fascino è meglio di Alyssa-tutto-culo. Bella, eh?
- Certo. Grazie.
La gentilezza e la cortesia di Oliver mi mandano in bestia.
Brutta la gelosia...
- Se posso permettermi, Another Life è magnifica. –continua imperterrita mentre entriamo nell’ascensore vetrato.
- Grazie.
- E tu, sei sua sorella? –mi sorride mielosa.
No. No. Non farlo.
Faccio un sorriso talmente finto che mi do un cinque mentale.
- No, sono la sua ragazza.
Mi ascolti sempre, tu, vero?
Ma non importa. L’espressione sulla faccia di Patricia-tutto-fascino è impagabile. Mi devo trattenere da non riderle in faccia.
- Oh. Ah. Sì. –balbetta, abbassando lo sguardo sul pavimento.
Oliver approfitta del suo istante di assenza per lanciarmi un’occhiata tra il divertito e il confuso.
Le porte dell’ascensore si aprono di nuovo, e Patricia-tutto-fascino schizza fuori come un’anguilla. Ci guida esperta attraverso il corridoio ampio, sul quale si affacciano porte numerate molto distanti l’una dall’altra.
Cammina rapida davanti a noi, senza nemmeno badare se la seguiamo o meno.
Si ferma davanti alla porta 200. Che numero curioso. Si sforza di sorridere e ci porge un mazzo di chiavi.
- Eccoci arrivati. –annuncia schiarendosi la gola.
- Grazie.
Oliver sorride e afferra felino le chiavi. Mentre Patricia-tutto-fascino se ne va, le infila nella toppa e apre la porta.
La nostra non è una stanza, bensì un appartamento. Senza cucina, certo. Ci ritroviamo in un’immensa sala con un pianoforte e un grande divano color panna, dalle pareti di solo vetro che si affacciano su Manhattan.
Mi lascio sfuggire un gridolino eccitato.
Davanti al divano, appesa al muro, c’è una televisione nera e piatta, enorme.
Sulla destra si apre un corridoio, tappezzato di grandi fotografie in bianco e nero, che porta in due stanze separate.
Sulla sinistra, quella che dev’essere la porta del bagno. Corro ad aprirla senza nemmeno pensarci.
- Una vasca idromassaggio –il respiro mi si mozza in gola.
Torno nel salone. Oliver mi guarda ridendo, le braccia incrociate al petto.
- Questo posto è esilarante! –strillo, avvicinandomi alla parete-finestra per guardare il panorama.
- A quanto pare ti piace.
- Se mi piace?! Lo adoro!
La sua risata cristallina mi fa voltare nella sua direzione. Si è tolto la giacca, ha appoggiato la chitarra al muro.
- Assomiglia un po’ alla casa di mio padre –aggiungo sottovoce, accarezzando il piano.
Oliver mi si avvicina, si appoggia alla coda nera dello strumento e sorride furbo.
- Che hai? –chiedo, andando subito nel panico. Cosa ho fatto?
- No, volevo solo chiarire quella storia della mia ragazza. –si trattiene dal ridere con tanto autocontrollo. Avvampo.
- Uhm. Quella storia. –bofonchio distogliendo lo sguardo.
- Esatto, quella storia. –il suo tono divertito è quasi snervante.
Resto in silenzio e lo stesso fa lui. Alzo gli occhi con cautela, per vedere se se ne è andato, ma è ancora qui e mi becca in pieno.
Inarca un sopracciglio.
- Dovevo solo zittire Patricia-tutto-fascino! –esclamo alzando le mani in aria, esasperata.
Probabilmente ci prova, ma fallisce miseramente: Oliver scoppia a ridere a tal punto da avere le lacrime agli occhi.
- Patricia... cosa? –chiede ridendo, sedendosi sul divano per non cadere a terra.
- Ma sì! –sbotto –Oliver qui, Oliver lì, Oliver là! Che bravo che sei, Oliver! Che bello che sei, Oliver! La tua canzone è bellissima! Non sa nemmeno di cosa parli Another Life, quella brutta...
- Sì?
Aspetta che continui, divertito.
- Non posso dire le parolacce.
- Questa mi è nuova.
Lo guardo cinica e sospiro.
- Qualcuno doveva metterla a tacere, e l’ho fatto io!
- Ah-ah. Dico solo che è bello.
- Cosa?
- Vedere che sei gelosa. E’ davvero molto molto molto bello. Sei carina quando ti arrabbi.
La mascella mi cade sul pavimento.
- Scusa?
- Andiamo, hai capito benissimo.
- Io non sono gelosa. Perché dovrei? Io e te siamo solo amici.
Oliver si alza dal divano e mi si avvicina pericolosamente, come ha fatto sulla casetta sull’albero. Mi sovrasta, sorridendo come uno che la sa lunga.
Help. Aiuto. Aider. Hilfe.
- In ascensore hai detto di essere la mia ragazza.
- Lo so. Era solo per zittire Patricia-tutto-fascino, te l’ho detto.
I suoi occhi diventano puro divertimento.
- Che poi, non ho nemmeno mentito. “Ragazza” non nel senso di fidanzata, ma “ragazza” nel senso di individuo di genere femminile con cui passi il tempo. –borbotto, terminando la frase con una smorfia. Non ha senso neppure per me.
Mi rivolgo a lui con un’espressione speranzosa ed innocente. Si lascia scappare un risolino.
- D’accordo, hai vinto. –concede facendo un passo all’indietro.
No, dove vai...
Sorrido trionfante.
- Come sempre, del resto. Andiamo a farci un giro, Dawn, coraggio.
Saltello fino alla porta.
- Bah, va bene. –ridacchia seguendomi.

 

 ♥ ANGOLO AUTRICE ♥

 Lo so, aggiornamento doppio in due giorni!

Fatto sta che mi sono messa a rileggere questi capitoli e mi sono resa conto che il capitolo 23 è grandioso, e che voglio farvelo leggere il prima possibile!

Quindi, eccoci a New York!

Dal capitolo 22:

E per la prima volta da quando la conosco, mi rendo conto che è bellissima.

 

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Capitolo 22
*** 22. - Oliver ***


And I will follow where this takes me

And my tomorrow's long to be

unknown

When all is shaken, be my safety

In a world uncertain, say you'll be my

stone

Stone - Alessia Cara

 

22. – Oliver

Faccio una smorfia, guardando la m gialla di McDonald’s attraverso gli occhiali da sole. Ci siamo persi.
Quando mi volto verso di lei, Bay mi guarda in cagnesco mentre si raccoglie i capelli sciolti in uno chignon spettinato.
La vedo prendere la telecamera di Allie dalla borsa e puntarmela contro.
- Ci dica, signor Dawn. –inizia, facendomi sorridere.
- Sì?
- Dove siamo?
- Uh. Non lo so. Ci siamo persi.
- E ci dica, signor Dawn, perché ci siamo persi?
Alza lo sguardo dallo schermo e mi fissa con aria di sfida.
- Perché io ho insistito per prendere la strada a destra. Mentre tu volevi prendere quella a sinistra.
- Quindi chi aveva ragione? –mi incalza.
- Tu, avevi ragione tu! –esclamo esasperato.
- Quindi ora mi toccherà mangiare in un lurido McDonald’s americano! Pieno di grasso! –fa una smorfia, avvicinandosi a me, sempre con la videocamera puntata sul mio volto.
La guardo con un sorriso. E’ così buffa, a volte.
- Vuoi andare a mangiare in un ristorante italiano? Brava, brava. Questo è lo spirito del viaggiatore. Restare ancorata alle tradizioni patriottiche come una cozza! –la provoco.
- Oh, be’, volentieri. Ma purtroppo per colpa tua è l’una passata, io sto morendo di fame e se aspetto di affidarmi al tuo senso dell’orientamento per trovare un ristorante italiano posso campare cent’anni che ancora siamo qui! –esclama puntandomi un dito sul petto.
La guardo negli occhi, divertito, restando in silenzio. Quasi vedo il fumo uscirle dalle orecchie.
- Stai ancora girando? –sussurro.
Chiude gli occhi, sospirando.
Schiaccia un tasto sulla videocamera e la rimette in borsa.
- Ora non più. –risponde, incrociando le braccia al petto.
Le poso le mani sulle spalle.
- Rilassati, Rachele. Goditi la vacanza.
Mi guarda torva per un po’. Poi mi sfila gli occhiali da sole dalla testa e li indossa. Si volta e trotterella verso l’entrata del McDonald’s.
La guardo sorridendo, poi la raggiungo.

Guardo scettico il bicchiere di plastica trasparente contenente un frullato alle fragole. Bay infila la cannuccia rossa in bocca e mi guarda, in attesa che dica qualcosa. Poi abbassa lo sguardo sul mio panino farcito e fa una smorfia.
- E mangiare sano? –mi chiede tornando a risucchiare dalla sua cannuccia.
- Io mangio sempre sano. –le ricordo –Ma una volta ogni tanto farebbe bene anche a te un panino farcito con l’inverosimile, fidati.
- Ci sono due hamburger, in quel panino –sottolinea, indicando il mio piatto.
Sorrido.
- Quando sgarro, lo faccio con classe.
Per poco non le va di traverso il frullato. Tossisce, allontanando la cannuccia dalla bocca. Quando si calma, mi guarda e scoppia a ridere.
- Quando sgarro, lo faccio con classe –mi scimmiotta esilarata.
Scuoto la testa sconsolato, addentando il mio panino, in attesa che smetta di ridere.
Per un attimo ripenso alla scena dell’ascensore e sorrido. La mia ragazza. La osservo attento. Gli occhi verdi brillano mentre continua a ridere. I capelli scuri, raccolti così disordinatamente, le danno un’aria ancora più... intrigante.
E per la prima volta da quando la conosco, mi rendo conto che è bellissima.
Quel suo ostinato tentativo di essere forte agli occhi degli altri, quella sua determinazione, quel suo tenero arrossire di colpo quando mi avvicino troppo.
Ed ecco che lo fa di nuovo, ora. Ha smesso di ridere e mi guarda preoccupata, le guance più rosse del solito.
- Cosa c’è? –mi domanda cauta.
- Niente. Niente. –sorrido, tornando al mio panino.
Quando alzo di nuovo lo sguardo su di lei, si sta controllando le unghie, soprappensiero, ancora rossa in volto.
Prendo una patatina fritta dal mio piatto e gliela tiro addosso.
I suoi occhi verdi scattano subito su di me, fulminei.
- Tranquilla, non emanano sostanze pericolose –sorrido prendendola in giro.
- Ma che simpatico. –commenta lei in un sospiro, il rossore che comincia a scemare dalle guance.

 

 

 

 ♥ ANGOLO AUTRICE ♥

Bene balde giovani! (citazione random della mia vecchia prof di religione)

Questo capitolo è microscopico, lo so, e per questo molto probabilmente domani aggiornero ancora... Ma è così cariino. Voglio dire, mi sono sciolta a scriverlo.

Muoio dalla voglia di scoprire cosa vi immaginate succederà in quelle vostre testoline iper attive...

Dal capitolo 23:

- Non avresti dovuto difendermi in quel modo –sussurro solo. Si volta rabbioso verso di me.
- Ah no? E cosa avrei dovuto fare, eh?! –urla scattando in piedi –Lasciare che ti desse della puttana così, tanto per fare?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 23
*** 23. - Rachele ***


Staring at my hotel window

Too much on my mind

Maybe we should keep it simple

We don't have to decide

No Promises - Shawn Mendes

 

23. – Rachele

Mi butto sul divano della suite, stanca. Oliver si ferma in mezzo alla stanza, si passa una mano tra i capelli.
Che Dio ci aiuti. Quanto sembrano morbidi...
- Vado a farmi una doccia. –sorride, indicano con un pollice la porta del bagno.
Vengo anche io!
- Certo.
Si chiude la porta alle spalle.
Prendo un profondo respiro. Abbiamo passato tutto il pomeriggio a gironzolare per New York. L’unica cosa che voglio è farmi una doccia e andare a dormire, ma Patricia-tutto-fascino ci ha bloccati alla reception per informarci che un certo Lewis, il conduttore del concorso di 1Radio, vuole che tutti i partecipanti, seguiti dagli eventuali accompagnatori, si ritrovino questa sera nella sala da pranzo dell’albergo per una cena. Che gioia.
Il mio telefono, appoggiato sul bracciolo del divano, prende a vibrare.
Sullo schermo lampeggia il nome di Ari. Sorrido e rispondo.
- Ehi.
- Ele. Come va, tutto bene?
Mi siedo dritta, incrociando le gambe.
- Certo. Sono a New York. Con Oliver.
- Tu e lui da soli? –la malizia nella sua voce mi fa roteare gli occhi.
- Sì. –sbuffo sorridendo.
- E’ lì con te? O posso parlare?
- E’ a farsi una doccia. –ridacchio.
- Cosa?! E tu sei qui al telefono con me?!
- Abbassa la voce, ti prego. –sussurro, posando una mano sul telefono e guardando verso il bagno.
- Scusa. E’ solo che... Ti piace?
- Chi?
- Lui.
Trattengo il respiro. Ho la riposta a questa domanda. Mi passo una mano tra i capelli, per poi realizzare che sono ancora legati.
- Sì. –esclamo all’improvviso –Tanto.
Dall’altra parte della cornetta, Arianna fa un gridolino eccitato.
- Lo sapevo! Lo sapevo! –strilla. Sorrido.
Sento la porta del bagno aprirsi e mi volto di scatto.
Oliver, a petto nudo, con addosso solo un paio di pantaloni scuri. Mi sorride.
- Ele? Sei ancora lì?
- Ehm. Uhm. Sì, cosa? –balbetto arrossendo violentemente e distogliendo lo sguardo da Oliver.
- E’ uscito dal bagno, non è vero?
- Eh già.
Arianna ride cristallina. Sento Oliver arrivare da dietro e appoggiarsi con le braccia allo schienale del divano, accanto a me. Mi volto un poco, e mi ritrovo il suo volto a pochi centimetri di distanza. Riesco persino a vedere le goccioline d’acqua tra i suoi capelli.
E non si è rimesso la maglietta.
Avvampo, ancora.
- Posso salutarla? –mi chiede con una voce roca che mi manda in tilt. Annuisco e metto in vivavoce.
- Ehi, Ari, sei in vivavoce. –la informo, guardando lo schermo del telefono.
- Ciao, Arianna. –sorride Oliver.
- Oh merda.
Chiudo gli occhi imbarazzata. Tra tutte le cose che poteva dire...
Il ragazzo ridacchia.
- Trattieni l’entusiasmo, per favore. –commenta sarcastico. Guardo il suo volto dolce, poi mi lascio trascinare e proseguo. Le spalle possenti, gli addominali scolpiti.
Torno al suo viso, che mi guarda. Non sorride. Mi guarda intensamente, probabilmente come io sto guardando lui.
Sposto gli occhi sulle sue labbra per un secondo, poi incrocio di nuovo il suo sguardo intenso. Le farfalle ricominciano a svolazzarmi nello stomaco, una sensazione strana mi si propaga nel petto.
Il viso di Oliver si avvicina al mio, lentamente. I nostri nasi si sfiorano. Un brivido mi corre lungo la schiena.
Sento il suo respiro caldo, il cuore inizia a battermi all’impazzata. I suoi occhi ardono di desiderio.
- Ehilà, voi due? –strilla Arianna dal telefono.
Mi allontano di scatto da Oliver.
- Sì, scusa. Non ti sentivamo bene. –mento, tenendo lo sguardo fisso sul cellulare.
Mi schiarisco la gola, con una mano mi gratto il collo. Sento gli occhi di Oliver perforarmi la pelle.
- Ah, okay. Quindi... cosa fate stasera?
- Siamo a cena fuori –risponde Oliver raddrizzandosi –Per via del concorso.
- Interessante. –commenta Ari coinvolta –Mangiate anche per me!
- Certo. Ci sentiamo, okay? –lancio un’occhiata veloce ad Oliver, che si sta infilando una t-shirt bianca e non se ne accorge.
- Sicuro. Divertitevi.
Chiudo la telefonata e picchietto con le unghie sullo schermo, nervosa di affrontare Oliver.
Ma quando mi alzo dal divano, lui sta scomparendo in corridoio.
Mi mordo un labbro e, frustrata, mi dirigo verso il bagno.
Apro l’acqua calda dell’idromassaggio, mi spoglio e mi immergo tra le bollicine di schiuma.
Sciolgo i capelli e sprofondo nell’acqua, desiderando di scomparire dalla faccia della terra.

Mi rigiro davanti allo specchio.
La tuta-pantalone che ho comprato con Kate mi sta bene, non c’è che dire.
Infilo piano le scarpe con il tacco che sempre Kate mi ha regalato e controllo il risultato allo specchio, ancora.
Elegante.
Per una volta, mi sento all’altezza di Patricia-tutto-fascino, di New York, di una qualsiasi persona nel mondo dello spettacolo. All’altezza di Oliver.
Sospiro piano, abbandonandomi sul letto.
Qualcuno bussa piano alla porta della mia camera.
- Ci sei? –chiede Oliver.
Prendo un profondo respiro ed apro la porta. Lui se n’è già andato. Lo trovo nella sala, rivolto verso il cielo stellato che si vede attraverso la parete di vetro.
Si volta a guardarmi.
Mi torturo le mani, nervosa.
Ma quando lui fa un mezzo sorriso e mi accompagna alla porta, ho la sensazione che abbia preferito dimenticare tutto quello che è successo prima.
Anzi, tutto quello che non è successo prima.
Mi guida lungo il corridoio, con una mano sulla parte bassa della mia schiena. Entriamo nell’ascensore vuoto.
Mi scosto dalla presa di Oliver, attenta a non farglielo notare.
Non voglio giocare con lui in questo modo. Dobbiamo parlare. E dobbiamo farlo al più presto possibile.
Fuori dalla sala da pranzo dell’albergo, Patricia-tutto-fascino ci aspetta. Noto Oliver fare un sorrisetto quando la vede. Probabilmente sta pensando alla figura di questa mattina.
Infatti, si assicura di sfilarle davanti con la mano di nuovo sulla mia schiena. Questa volta, lo lascio fare. In fondo, è pura vendetta verso Patricia-tutto-fascino.
- Buonasera –ci saluta, sforzandosi di sorridere.
- Ciao, Patricia –ricambio io, afferrando la maniglia del portellone e aprendolo, serafica.
Oliver le sorride caloroso prima di lasciarcela alle spalle.
E’ una sale enorme. Grandissima, con delle finestre alte e contornate da tende di velluto rosso. Al centro c’è un grande tavolo rettangolare apparecchiato di tutto punto.
Raggruppate in grappoli sparsi un po’ ovunque, delle persone vestite, per fortuna, elegantemente, parlottano tra di loro.
Un uomo ci viene addosso, con un sorriso sul volto. Indossa una camicia dai cento colori, sopra un paio di jeans color panna. Sulla cinquantina, ha la tipica aria da presentatore televisivo.
- Buongiorno ragazzi! –esclama raggiante –Io sono Lewis Stevens.
Oliver si illumina.
- E’ un piacere conoscerla, davvero. –sorride stringendogli la mano. Gli occhi grigi di Stevens si posano leggiadri su di me, sorridenti.
- E questa bella fanciulla? –domanda.
- Oh, lei è Rachele –mi previene Oliver, sempre evitando il mio sguardo –E’ grazie a lei se sono qui, ora.
- Salve –lo saluto.
Stevens mi sorride gentile.
- Be’, allora presumo di doverti ringraziare, Rachele. Oliver ha un vero e proprio talento.
- Ha proprio ragione. –convengo sorridendo.
- Sapete che avremo degli ospiti speciali, questa sera? Saranno presenti anche domani, alla premiazione. –ci informa Stevens civettuolo.
- Ah, sì? –si interessa Oliver, togliendo la mano dalla mia schiena e mettendola in una tasca dei pantaloni –e chi saranno?
Stevens fa un sorrisone.
- Shelia Angel e Trevor Michaels! –annuncia frizzante.
Oh poveri noi.
- Sul serio? –esclama Oliver sorpreso.
- Certo, ragazzo, certo.
- Grandioso.
Stevens si allontana con una scusa. Mi volto verso Oliver, ma lui ancora non mi guarda.
Abbiamo schiacciato il tasto sbagliato, ed ora abbiamo combinato un casino.
- Ehm… Oliver? –lo chiamo piano. Lui si volta verso di me.
- Sì?
- No, niente. –faccio un piccolo sorriso. Non ora, decisamente.

Okay. Gli altri dieci partecipanti al concorso non hanno alcuna possibilità di stracciare Oliver.
Non lo dico perché è Oliver.
Sono tutti mediocri. Nessuno di loro ha quel qualcosa che mi ha fatto innamorare di lui.
Perché la prima cosa che si è aggiudicata un posto nel mio cuore, è stata la sua passione. La passione che mette quando canta, quando suona, quando fa qualcosa che ama.
Ci sono sei ragazze e tre ragazzi oltre a lui. Accompagnati da sorelle, fidanzati e fidanzate, qualcuno dalla mamma.
Seduta di fronte a me, c’è una ragazza dallo stile gotico che mi guarda male dall’inizio della serata.
Credo si chiama Destiny o una roba del genere.
Hanno cantato qualcosa tutti, a turno, eccetto Oliver.
Ci siamo interrotti perché sono arrivati i due ospiti speciali.
Trevor Michaels è ubriaco. Stevens sta cercando di tenerlo a freno, mentre Shelia se ne sta in parte imbarazzata.
- Be’… -si schiarisce la gola Destiny –Non abbiamo cantato tutti tutti.
E poi posa il suo sguardo di fuoco su di me ed Oliver.
- Oh, manca ancora qualcuno? –si interessa Shelia sedendosi al tavolo.
Oliver sorride imbarazzato, mentre Stevens riesce a far accomodare anche Trevor Michaels.
- E’ vero! Oliver Dawn! –trilla il presentatore –Forza ragazzo!
Quando si volta verso di me e mi sorride impacciato, il cuore mi salta in gola. Per tutta la sera non abbiamo parlato e lui ha evitato di guardarmi.
- Mi accompagni al piano?
Mi si gela il sangue nelle vene. Vuole che lo accompagni con il pianoforte. Apro la bocca per rifiutare, ma poi noto tutti gli sguardi che ho puntati addosso. Non posso far fare una brutta figura ad Oliver.
Annuisco e mi alzo dalla sedia, seguendolo. Mi siedo sullo sgabello del pianoforte, mentre Oliver armeggia con l’asta del microfono.
Una volta pronto, si volta verso di me. Mi guarda negli occhi con tanta intensità che dimentico tutto, per un istante. Poi recepisco il messaggio. Ho carta bianca.
Cerco rapidamente qualche canzone nella mia testa, e poi mi viene in mente.
Osservo i tasti dello strumento concentrata.
Li sfioro cauta, prima di cominciare a suonare le note di Say Something. In fondo tutto è cominciato con quella canzone.
Alzo gli occhi su di lui, che mi annuisce e poi prende a cantare.
Vedo i volti dei presenti tingersi di sorpresa. Persino Destiny abbandona per un secondo quella sua espressione arcigna.
Shelia Angel ascolta rapita, con gli occhi chiusi.
Mi lascio sfuggire un sorriso, poi torno ad Oliver.
Say something and I’m giving up on you.
Dì qualcosa e ti lascerò stare. Dì qualcosa e rinuncerò a te.
Incredibile come questa frase si adatti alla nostra situazione attuale. Non ci parliamo più. Dì qualcosa e ti lascerò stare. Dì qualcosa.
All’improvviso vengo travolta dalla rabbia. Perché? Perché? Perché sono cresciuta su una menzogna? Perché non hanno mai pensato a dirmi la verità? Perché ora devo sentirmi così stupida? Perché non posso avere una vita felice come quella dei film?
Ma poi il senso di colpa mi attanaglia. Non devo lamentarmi. Non devo permettermi di farlo. Ci sono persone che stanno cento volte peggio di me e che non si lamentano.
Sono a New York con il ragazzo dei sogni di migliaia di ragazze.
Ma puntuali e affilate, le parole di Lucas mi riecheggiano nelle orecchie. Egoista e menefreghista.
L’ultimo Say something della canzone mi colpisce in pieno cuore. Dì qualcosa.
Sussurrato, lasciato al vento. Dì qualcosa. Dì qualcosa.
Oliver si volta verso di me.
Dì qualcosa.
Non lo fa.
Ma non importa.
Avevo già smesso di sperarci.
Un coro di applausi si leva dal tavolo.
Mi riscuoto e ritorno al mio posto, imbarazzata.
- Bravi! Bravissimi! –strilla Shelia avvicinandosi.
- Grazie –Oliver le sorride riconoscente.
- Complimenti –sorride Destiny, rivolta a me. Scruto il suo volto. Ma niente, sta proprio parlando con me.
- Grazie. –ricambio.
- La pianista mi sembrava un po’ fuori fase –irrompe Trevor Michaels raggiungendoci barcollante.
- Come? –chiedo.
Oliver mi affianca.
- Ma sì. Era distante, lontana. –continua l’ubriaco –Non ha suonato bene.
Shelia inarca un sopracciglio.
- Invece, secondo me, è stata eccellente. –ribatte.
- Ma cosa vuoi capirne, tu –bofonchia Trevor –Sembrava quasi fosse… arrabbiata.
Fa un sorrisetto idiota.
- Che c’è, -si rivolge ad Oliver –Te la sei scopata e poi amici come prima, ragazzo? Perché posso assicurarti che alle signore non va bene. A meno che non siano delle puttanelle. Ora che la guardo bene, sembra proprio una puttanella. Scusate, errore mio.
- Adesso basta! –tuona Oliver facendo un passo avanti –Credo non siano affari tuoi e, in ogni caso, la prossima volta che ti azzardi a chiamarla così giuro che ti farò pentire di essere nato.
Gli poso una mano sulla spalla, cercando di trattenerlo.
- Oliver… -lo chiamo flebilmente –Oliver, lascia stare.
Stevens ci raggiunge in un lampo.
- Trevor, sono costretto a chiederti di andartene. –lo informa, mentre due agenti della sicurezza gli si avvicinano.
Lui non si dimena nemmeno, si limita solo a continuare a fissarmi insistente, facendomi rabbrividire, mentre lo allontanano.
- Scusa, Oliver. –mormora poi Stevens.
- E’ solo un povero idiota. –commenta acida Shelia –Vi chiedo scusa. Oliver, sei stato magnifico su quel palco. Mi hai regalato dei brividi senza pari. E tu hai suonato benissimo, non lasciarti condizionare da quello che dice Trevor.
Annuisco.
- Possiamo andare? –chiede stanco Oliver a Stevens –E’ stato un viaggio lungo e…
- Certo, certo. –assicura l’altro, preoccupato –Certamente. E ti chiedo ancora scusa, ragazzo.
Oliver annuisce, poi mi prende la mano e mi trascina via.
Torniamo nella suite in silenzio.
Si siede nervoso sul divano, passandosi una mano sul volto. Resto in piedi, dondolandomi sui talloni.
Decido di togliermi i tacchi e di sedermi accanto a lui.
Inspiro a fondo.
- Non avresti dovuto difendermi in quel modo –sussurro solo. Si volta rabbioso verso di me.
- Ah no? E cosa avrei dovuto fare, eh?! –urla scattando in piedi –Lasciare che ti desse della puttana così, tanto per fare?
- Oliver…
Si passa le mani tra i capelli, camminando avanti e indietro con furia tale da spaventarmi.
- Oliver, ci va di mezzo la tua carriera –mormoro raggiungendolo.
Quando mi guarda, i suoi occhi sono freddi.
- Non me ne frega un cazzo della mia carriera. Sei più importante tu. E se pensi che dovrei stare zitto mentre quello stronzo ti insulta ti sbagli di grosso. –grida.
L’hai sentito, Sprovveduta?
- Okay. Grazie. –annuisco.
I suoi occhi scuri diventano all’improvviso caldi come prima che accadesse tutto questo pasticcio, dolci.
Non dovresti aggiungere qualcosa?
- Oh, Dio. –gracchio, passandomi una mano tra i capelli –Va bene.
Oliver mi guarda in attesa che continui.
- Riguardo a quello che è successo prima, mentre eravamo al telefono con Arianna…
Lui distoglie lo sguardo e lo rivolge al pianoforte.
- Io…
Non so cosa dire. Cosa dovrei dire? Dovrei chiedergli per quale ragione abbia preso ad evitarmi dopo quel quasi-bacio? Dovrei confessargli perché io lo abbia quasi baciato in quel modo? Dovrei dirgli che…
Sii sincera.
Oliver ritorna su di me.
- Perché non mi parli più? –soffio.
- Cosa?
- Dopo che Arianna ci ha interrotti tu non mi hai parlato più! Sei stato distaccato, completamente un’altra persona. –spiego, osservando il suo volto.
Annuisce amareggiato, evitando i miei occhi.
- Bay, io…Io non ho sopportato il modo in cui tu hai reagito.
Inarco le sopracciglia.
Si mette una mano sul collo, l’altra nella tasca dei pantaloni.
- Ti sei allontanata da me come se avessi fatto l’errore più grande della tua vita. Non mi hai nemmeno guardato. E’ stato orribile capire che...
- Cosa? No, no. –esclamo colpita –Niente di tutto ciò, Oliver. E’ solo che…
- Sì?
Chiudo gli occhi.
- E’ solo che ero imbarazzata. Tutto qui.
- Imbarazzata? E perché? –sorride intenerito.
- Non guardarmi come se fossi una bambina di due anni –lo avverto torva.
Lui alza le mani in segno di resa, ma mantiene comunque il sorriso.
Balbetto qualche cosa.
- No, non importa. Lascia stare, okay? –ride Oliver –Ne riparleremo a tempo debito.

Nella bara, il corpo di mio padre.
Attorno a lui, un sacco di gente che piange disperata.
Mi avvicino. Tutti mi guardano con cattiveria, come se avessi fatto qualcosa di orribile. Mi avvicino ancora.
Ci sono altre bare, accanto a quella di mio padre.
Le raggiungo tremante.
Mia madre. Mio fratello. Oliver. Arianna.
- No, no! –grido, iniziando a piangere –No!
Sono morti, lì, freddi e bianchi come lenzuoli. Allungo una mano per carezzare il viso di mia madre, ma qualcuno mi spinge via.
- E’ colpa tua! E’ tutta colpa tua! –prende a gridare la gente, accerchiandomi –E’ colpa tua!

Mi sveglio di soprassalto, urlando. Sto piangendo. Tremo come una foglia.
La porta si spalanca e Oliver irrompe nella mia stanza.
- Bay! –mi chiama preoccupato.
- Oliver… -piango.
Lui mi si avvicina. Si siede accanto a me sul letto.
- Era un incubo. Era solo un incubo. –mi sussurra, stringendomi in un abbraccio.
Ho bisogno di toccarlo, di capire che non è morto.
Era un sogno. Era solo uno stupido sogno.
Eppure continuo a piangere.
Si stende sul letto e mi stringe a sé.
- Tranquilla. Era un brutto sogno, niente di più. –sussurra.
- Eravate tutti morti –singhiozzo –Per colpa mia.
- No, Bay. Non è vero. Era solo un sogno.
Affondo la faccia nel suo petto, mentre lui prende a carezzarmi i capelli per cercare di calmarmi.
- Dormi, baby girl.
E proprio come qualche sera fa, Oliver prende a canticchiare sottovoce. Solo che questa volta riconosco la canzone.
Goodbye Philadelphia.

 

 ♥ ANGOLO AUTRICE ♥

BANG!

Okay, ora, ritengo che ci siano diversi "blocchi" in questo capitolo...

Bene bene bene.

Dal capitolo 24:

- Tranquilla, baby girl.
E quel tenero soprannome basta a lasciarlo andare.

 

P.S. Non fatevi prendere dal panico dall'anteprima!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 24
*** 24. ***


Gonna wear that dress you like, skin-tight
Do my hair up real, real nice
And syncopate my skin to your heart beating
Cause I just wanna look good for you, good for you, uh-huh
I just wanna look good for you, good for you, uh-huh
Let me show you how proud I am to be yours

Good For You - Selena Gomez

 

24.

Quando mi sveglio, Oliver non c’è.
Mi metto a sedere con uno sbadiglio, i versi di Goodbye Philadelphia che mi risuonano in testa. Sospiro, alzandomi e dirigendomi verso la porta. Quando arrivo nel salone, la luce del sole mi colpisce come un macigno. Strizzo gli occhi, guardandomi attorno. Oliver è proprio sparito.
Scrollo le spalle.
- And I would lay your body down and rock your tears away... –canticchio sedendomi sul divano.
La porta della suite si apre di scatto, rivelando un affannato Oliver con un vassoio in mano.
- Guarda chi si è svegliato! –esclama con un sorriso. Gli lancio un’occhiata, sbadigliando.
Appoggia il vassoio sul tavolino davanti al divano e si butta, letteralmente, accanto a me.
- Buongiorno –mugugno. Noto che sul vassoio ci sono brioches, cornetti, pasticcini, due beveroni di caffè caldo, fette biscottate e cioccolatini.
- Ho fatto razzia al piano di sotto –spiega –Immaginavo non avresti avuto voglia di andare a fare colazione e vedere Patricia di prima mattina, così ho risolto il problema.
Annuisco allungando una mano verso una brioche.
- Bel lavoro, Dawn.
Mi guarda ridacchiando. Poi mi viene in mente una cosa.
Lui è bello e fantastico come sempre, sprovveduta. Ma tu? Ti sei appena svegliata. Osa solo immaginare...
- Oddio. –sussurro, nel panico.
Oliver corruga la fronte, addentando un pasticcino.
- Ehm. –lo guardo, cercando una scusa–Oggi è il grande giorno!
Lui annuisce sorridendo.
- Proprio così. Te ne eri dimenticata?
Mi gratto la testa.
- Non ho niente da mettermi –realizzo lentamente, prima di saltare in piedi come una molla –Oh, cavolo!
Inizio a saltellare qua e là, la brioche ancora in bocca, sotto lo sguardo divertito di Oliver.
- Non ho niente da mettermi! Non ho niente da mettermi questa sera! –strillo.
Lui si alza dal divano e mi blocca, mettendomi le mani sulle spalle.
- Calmati. Respira. Sono sicuro che troverai una soluzione. Hai una valigia piena di vestiti, Bay, qualcosa c’è di sicuro. –parla con calma e sicurezza, nonostante l’ilarità trabocchi a fiumi dai suoi occhi.
Afferra la mezza brioche che mi esce dalla bocca e se la mangia.
- Non disperarti, baby girl. –continua filosofeggiando.
- Facile, per te! –sbotto –Tu sei bellissimo anche con un sacco dell’immondizia addosso!
Cosa. Hai. Fatto.
- Ah, sì? –mi stuzzica sorridendo sornione.
- Bah, chiudi quella bocca! –esclamo arrossendo.
Socchiude gli occhi.
- Andiamo, Bay. Ti fidi di me?
Trattengo una risata.
Oliver alza gli occhi al cielo.
- Seriamente. –puntualizza.
- Sì, be’. Può darsi.
- Bene. –fa un sospiro –Quindi goditi la giornata senza pensare ai vestiti.
Bussano alla porta della suite. Oliver fa un sorriso furbo.
- Arrivo prima io. –sussurra.
- Non ci giurerei, Dawn. –ribatto in un soffio, fiondandomi sulla porta.
Purtroppo, lui mi ha preceduta e sta aprendo la porta, dietro la quale una Destiny piuttosto imbarazzata si tortura le maniche della maglia.
- Benvenuta nella suite Dawn, come posso aiutarti? –recita Oliver.
- Spostati, dovevo aprire io! –grido buttandomi su di lui.
Destiny sobbalza.
- Oh, non dire sciocchezze. Sono arrivato prima io, baby girl. –sminuisce con un gesto della mano.
Prendo a schiaffeggiarli il braccio.
- Non è giusto!
- Ehm. Siete... fidanzati? –domanda Destiny impacciata.
- Oh, sì. Sai, lei è la mia ragazza. –Oliver mi guarda superbo, beccandosi un pungo sul petto che però non lo sfiora nemmeno.
- Ti piacerebbe! –ribatto sibillina, per poi sorridere alla ragazza davanti a noi.
Direi che l’abbiamo spaventata.
- Sei stata tu ad inventarti questa cosa della fidanzata. –ricorda il ragazzo, guardandomi come una madre che sgrida il bambino.
- Era per Patricia-tutto-fascino! –sbuffo esasperata.
- See see.
- Se sono di disturbo, io...
Ci voltiamo entrambi verso Destiny, che sorride in forte imbarazzo.
- Cosa? No, no. –sorridiamo all’unisono io ed Oliver. Mi volto a guardarlo. Ricambia lo sguardo trattenendo una risata. Mi poggia una mano sulla spalla con fare teatrale.
- Ciao. –sospiro alla ragazza.
- Ciao. –ridacchia lei, soffiando su un ciuffo di capelli nero lucido.
Mi rendo conto di essere ancora in pigiama.
Abbiamo seriamente bisogno di aiuto. Così non va bene.
- Come mai questa visita mattiniera? –domando tossicchiando, abbassando per un istante lo sguardo sui miei piedi nudi per poi rivolgerlo di nuovo a Destiny.
Lei si gratta il collo.
- Volevo vedere come stavi. –confessa sorridendo.
- Oh. –mi lascio sfuggire sorpresa.
- Sai, dopo ieri sera... Insomma... Trevor... –Destiny continua a farfugliare parole confuse sull’episodio di ieri sera.
Sento la stretta di Oliver aumentare sulla mia spalla. Mi volto verso di lui. I lineamenti del suo viso sono contratti, tesi.
- Bene. Benissimo. –cerco di sorridere alla ragazza –Può dire quello che vuole. Non mi interessa cosa pensa di me uno come lui.
- Brava, ragazza! E’ così che si fa! –esulta Destiny agitando un pugno in aria.
Sorrido.
- Vuoi entrare? –le chiedo, indicando la sala alle mie spalle.
Annuisce allegra.
- Bene. Vi lascio a voi signore. Io devo andare a fare una cosa. –annuncia Oliver in un sorriso che non mi convince.
- Certo. –mormoro pensierosa, mentre Destiny mi supera ed entra nella suite.
Afferro il gomito di Oliver prima che sgusci via. Mi avvicino al suo viso confuso.
- Non fare stupidaggini. –gli ricordo sottovoce.
Lui fa un mezzo sorriso sghembo.
Ma che cariiino!
- Tranquilla, baby girl.
E quel tenero soprannome basta a lasciarlo andare.

- Insomma, oggi è il 31 dicembre! –strilla saltellando Destiny.
Sbuco dalla mia stanza, nella quale mi sono messa dei vestiti normali. Sorrido.
- E’ vero. Non ci avevo nemmeno pensato. –confesso sedendomi sul divano –Allora, che programmi hai per stasera?
- Be’, innanzitutto c’è la premiazione del concorso –ricorda civettuola –E poi penso che starò alzata fino a mezzanotte per vedere i fuochi d’artificio. E poi andrò a dormire.
Annuisco.
- Senti... –Destiny si siede accanto a me, nervosa –Lo so che ieri sera non sono stata molto... amichevole. Ti chiedo scusa. E’ solo che pensavo che fossi una bambolina snervante e stupida.
Sgrano gli occhi. Lei mi sorride imbarazzata.
- Sì, lo so. Scusa. –bofonchia –Ho molti pregiudizi. Finché non hai suonato il piano, ti ho praticamente odiata.
Che confessioni.
- Okay. –ridacchio –E sei venuta per dirmi questo?
- Anche –ammette –Ma sono rimasta davvero colpita dal tuo talento al pianoforte. Non è che... potresti suonarmi qualcosa?
Resto spiazzata dalla sua domanda.
- Cosa? E perché? –farfuglio, portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Lei scrolla le spalle sorridendo.
- Io non so suonare il piano, nonostante mi piaccia da morire.
- Ah.
- Per favore!
Il suo tono supplichevole mi convince. Annuisco e la faccio sedere sul seggiolino accanto a me.
- Cosa vuoi che suoni?
Destiny ci pensa su un istante, mentre io guardo fuori dalla finestra.

- Oliver mi ha appena detto che non torna per pranzo –confesso con una punta d’amarezza nella voce.
- Oh, ma è fantastico! –trilla Destiny, meritandosi un’occhiata confusa.
- Voglio dire –si affretta a spiegare –Possiamo andare fuori a pranzo io e te, se ti va.
Ho già la giacca sottobraccio quando rispondo:
- Certamente.
Apro la porta della suite, soprappensiero, Destiny che mi trotterella dietro.
E mi ritrovo davanti una bellissima Shelia Angel, perfetta con quei suoi capelli ordinatamente pettinati, quel suo trucco preciso, quei suoi vestiti firmati e nuovi di zecca.
Mentre io ho i capelli che sembrano un nido di cicogne, un trucco che è talmente misero da non essere nemmeno notato e i vestiti anonimi che mi porto dietro da un paio di anni.
Per questo, signore e signori, avvampo.
- Shelia... –balbetto sorpresa.
Lei sorride vitale.
- Ciao. Rachele, giusto?
Annuisco.
- Bene. Hai programmi per il pranzo?
Il suo sorriso da copertina mi fa dimenticare tutto quello che ha detto.
- No. –rispondo subito –Cioè, sì. Stavo uscendo con Destiny.
Indico la ragazza con un pollice.
- Oliver?
Abbasso lo sguardo.
- Francamente, non so dove sia. Ha detto che non riesce a tornare per pranzare insieme.
La bionda annuisce comprensiva.
- Vi porto a pranzo io! –esclama dopo un po’, muovendo le dita freneticamente.
Non posso oppormi, che ci sta già trascinando verso l’ascensore. Ma, al contrario di me, Destiny sembra alquanto elettrizzata.

Limousine, autista privato, manager, costumista, tour manager, assistente, addetto alla cura del chihuahua. Perfino l’addetto alla cura del chihuahua di Shelia. Mi pare si chiami Toy. O Boy. O Joy, non ricordo.
Ma tutta questa vita non fa per me. Troppi fiati sul collo, troppe aspettative.
Ma quello che sembra davvero scoppiare, sul serio, è Jack, il manager di Shelia.
Continuo a guardarlo di sottecchi mentre parla al telefono a pochi metri di distanza da noi.
Seduta davanti a me, Shelia mastica una foglia di insalata.
Destiny ha voluto ordinare un piatto di spaghetti alla carbonara, che sembrano tutto tranne che degli spaghetti alla carbonara, e io ho preferito sorvolare il menu del ristorante italiano per disperazione.
Distolgo lo sguardo da Jack per rivolgerlo, dubbioso, al piatto di Destiny.
- Vuoi un po’? –mi domanda.
Scuoto la testa e la ringrazio.
- Rachele –inizia Shelia –Volevo parlarti di Trevor.
- No, davvero. Preferirei lasciar correre.
Shelia pare stupita.
- Come?
- Sì. Insomma, era palesemente ubriaco, ieri sera. E poi, sinceramente, non mi interessa cosa pensa di me. Vivo benissimo. L’unica cosa importante è Oliver.
Lei annuisce piano.
- Lui non pare pensarla allo stesso modo...
- Già. Lui dice che se ne frega della sua carriera, se per arrivare al successo deve lasciare correre un sacco di piccole cose come quella che è capitata ieri. Sostiene che io sia più importante. –sospiro.
- Che romantico... –soffia sognante Destiny.
- Okay. Ma deve tenere presente che in questo mondo devi lasciar correre un sacco di cose. –avvisa Shelia dispiaciuta –Devi voltarti dall’altra parte e continuare a camminare. O non ne esci.
Annuisco appena, poi osservo Jack terminare una telefonata ed iniziarne subito dopo un’altra.

- Ci ha provato con te? Dio, giuro che se...
Strizzo gli occhi.
- Scott, abbassa il volume –ordino, fermando il flusso di parole che gli escono dalla bocca. Lui si zittisce.
- Ti ho chiamato per sapere come vanno le cose lì. –continuo infilando le chiavi nella toppa ed entrando nella suite.
- Oh. Bene. Bene, certo. Allie passerà il capodanno con Noah.
- Il suo fidanzato, no?
- Sì.
- Mi pare alquanto normale, Scottie. –ridacchio chiudendomi la porta alle spalle.
- D’accordo, d’accordo... Che mi dici di te e Oliver?
- Io e Oliver cosa? –sospiro.
- Lo sai benissimo. Lo si vede a chilometri di distanza che tra di voi c’è... una cosa.
Scoppio a ridere.
- Dio, Scott. Sei peggio di una donna pettegola.
E’ lui a ridere, ora.
- Seriamente. E’ successo qualcosa?
- No. –rispondo subito, automaticamente.
- Bay...
Sospiro.
- E’ quasi successo qualcosa, okay?
- Quindi non è successo?
- No. Te l’ho detto, quasi. Ma poi siamo stati interrotti e...
- Nemmeno un bacio?
- No, Scott.
- Che peccato.
Alzo gli occhi al cielo, dirigendomi verso la mia camera.
- Scott, ora ti devo lasciare. La cerimonia è tra poco.
- Certo. Noi la seguiremo in televisione.
- Grandioso.
- Preparati. Magari ti becchi un bacio di mezzanotte.
Rido.
- Certo, Scott. Ci sentiamo.
- Sicuro. Divertiti.
- Ciao.
Chiudo la telefonata e butto il telefono sul letto, che va a sbattere contro una scatola rettangolare bianco perla.
Confusa, mi avvicino.
La apro cauta.
Ne tiro fuori un abito. Bellissimo.
E’ grigio scuro, a più strati sottili di tulle e velluto che si sovrappongono l’uno sopra l’altro. Lungo fin poco sopra le ginocchia, le spalline sottili, una scollatura a cuore luccicante di brillantini argentati.
E’ magnifico.
- Ma cosa... –borbotto, premendomelo contro il petto e raccogliendo un bigliettino rosa pallido dal fondo della scatola. Lo avvicino al viso. Profuma di rose.
Sorrido incantata, gli occhi che brillano di gioia, leggendo le parole scritte con una penna nera, nella grafia frettolosa di Oliver.

Ti avevo detto di fidarti di me, baby girl.

 

♥ ANGOLO AUTRICE ♥

Vi avevo detto di non farvi prendere dal panico per l'anteprima.

Bene bene bene. Quindi...

Pronte per il prossimo capitolo?

Dal capitolo 25:

Jeans neri, maglietta leggera a maniche lunghe del medesimo colore che Dio, gli dà un’aria talmente sexy da saltargli addosso, giacca di pelle sottobraccio e, ovviamente, quel sghembo sorriso da favola.

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Capitolo 25
*** 25. ***


When you're stuck in a

moment

And your spark has

be stolen

This is our time to own it

So own it.

Fire N Gold - Bea Miller

 

25.

Continuo a fissare l’immagine riflessa dallo specchio, a disagio.
La ragazza con addosso quel meraviglioso abito grigio, i capelli raccolti in uno chignon dal quale sfuggono delle ciocche scure che incorniciano un bel volto truccato delicatamente, la catenina argentata che pende dal collo con un ciondolo a forma di cuore... non sono io.
E’ semplicemente un’immagine che voglio dare di me. E il pensiero che dovrò continuare a fare tutto questo, che dovrò continuare a far vedere la me che gli altri vogliono vedere perché la vera me non va bene, mi distrugge.
Non riesco a sopportarlo. Come posso pretendere di restare al fianco di Oliver se è questo quello che dovrò pagare? E’ un prezzo troppo alto.
Soffocare me stessa. E’ questo che l’etichetta chiede. Solo chi ha la fortuna di rispettare i canoni già di natura non paga il biglietto.
Io sono quella ragazza che si era buttata sul letto, con addosso dei pantaloncini di cotone e una maglietta venti taglie la sua, le cuffiette nelle orecchie e il volume dell’ipod al massimo, un sacchetto di cioccolatini accanto al cuscino, i capelli che raccolti in qualcosa di disordinato assomigliano ad un cespuglio di more e le unghie mangiucchiate.
Non la bellissima e sofisticata giovane che riesce a camminare su questi tacchi vertiginosi come Patricia-tutto-fascino.
Quindi, la conclusione è una: non sono all’altezza.
Chiudo gli occhi, cercando di non pensare al fatto che dovrò andarmene, che dovrò lasciare che Oliver faccia la sua strada senza inghippi di nome Rachele Nardi.
Prendo un profondo respiro ed esco dalla stanza.
Oliver mi aspetta nella sala, proprio come ieri sera. E’ talmente bello che mi si mozza il fiato in gola, lo stomaco mi va in subbuglio e tutto quello che vorrei fare è gridare al mondo che sì, questo capolavoro della natura è mio. O ancora per poco.
Mi mordo la lingua e sorrido.
Jeans neri, maglietta leggera a maniche lunghe del medesimo colore che Dio, gli dà un’aria talmente sexy da saltargli addosso, giacca di pelle sottobraccio e, ovviamente, quel sghembo sorriso da favola.
Deglutisco, mentre si avvicina senza nemmeno mascherare il fatto che mi sta squadrando da capo a piedi.
- Sei bellissima –sussurra.
- Sai, un pazzo svitato mi ha regalato questo vestito... –mormoro sorridendo, nonostante la consapevolezza di essere sbagliata si insinui sempre di più nel mio cervello.
Lui ridacchia divertito, poi mi prende a braccetto e mi guida fino al taxi che Stevens ha fatto venire a prenderci.
Guardo le luci di New York sfilare via veloci fuori dal finestrino, per poi notare Destiny nel taxi davanti al nostro.
Sorrido.
- Tutto bene? –mi chiede Oliver. Quando mi volto a guardarlo, l’espressione premurosa del suo volto mi scioglie il cuore.
Annuisco.
No, invece. Qui la cose vanno tutto tranne che bene.

Lo studio televisivo dal quale manderanno in onda la premiazione è semplicemente enorme. Colossale. Qualche centinaio di persone ci girano attorno, chi sistemando le luci, chi aggiustando lo spacco del vestito di Shelia Angel che, rilassata, gironzola a destra e a manca.
Da dietro le quinte, vedo il pubblico iniziare ad arrivare a fiotti e prendere posto sulle poltroncine davanti al palco.
Un ragazzo sta aiutando Oliver a sistemare il microfono e l’auricolare. Mi avvicino loro e sorrido.
Oliver mi fa un occhiolino che manda la vocetta in cortocircuito.
- Come stai? –gli chiedo agitata.
- Alla grande. –mi sorride caloroso.
- Rae!
Mi volto di scatto, e rimango di pietra. Sposto lo sguardo su Oliver, che li fissa incredulo.
L’intera famiglia Dawn si fa largo tra gli addetti, sgomitando, per raggiungerci.
Ci sono anche, ovviamente, Scott e Jay.
- Dio Santo –mormora Oliver con un sorriso, abbracciando stretta sua madre.
Sofia si sbraccia per farsi notare. La saluto con una mano.
John mi stringe in un abbraccio.
- Che sorpresa! –esclamo ancora stupita.
- Signorina, che bello vederti. Sei una favola. –mi sussurra l’uomo all’orecchio.
- Grazie, signor Dawn. –sorrido, prima che Allie mi travolga.
- Rae! Rae! Rae! –squittisce esaltata.
Ridacchio, sollevata. Chissà perché, la loro improvvisa comparsa mi ha tolto quel senso di solitudine e imperfezione che avevo addosso.
- Scansati, Allie. –ordina Scott raggiungendoci. Lei gli fa una boccaccia, ma poi si scosta.
- La seguiremo in TV, noi. –rido, pensando alla conversazione avuta con lui al telefono –Probabilmente eravate già a New York!
Scott annuisce colpevole, Jay che si materializza alle sue spalle.
- Ehilà, ragazza. –mi saluta euforico.
- Ciao, ragazzo. –ridacchio alzando una mano.
Mi abbracciano nello stesso momento.
Sorrido.
- Sei davvero una meraviglia, Bay. –bisbiglia Scott.
- Esatto.
Oliver compare alle mie spalle. Mi volto verso di lui. Sorride orgoglioso.
Quando torno a rivolgermi ai suoi due amici, entrambi mi guardano con un sorriso furbo.
- Ehi ehi ehi –mi dà una gomitata Jay.
- Oh, finitela! –sbotto spintonandoli.
Tutto quello che ottengo è solo un coro di risate.

- Bene, ricordate, il codice per votare Destiny è lo 09! –urla splendido Lewis Stevens, sorridendo alla telecamera.
Ma non riesco a calmarmi. Ora tocca ad Oliver. Saltello sul posto, per quanto i tacchi me lo permettano.
- C’è la pubblicità... –biascico in una smorfia dopo l’annuncio del presentatore.
Lui mi lancia un’occhiata e sorride.
- Bay, calmati. –sussurra, seduto su una grande cassa nera e argentata che conteneva, probabilmente, dell’attrezzatura.
- Io? Ma se sono calmissima! –sospiro appoggiandomi alla sua spalla, facendolo ridacchiare.
Stevens compare magicamente davanti a noi, con quel suo sorriso eccentrico.
- Eccolo qua! –esclama allargando le braccia in direzione di Oliver –Ultimo ma non meno importante! Anzi, potrei proprio dirlo...
Oliver fa un sorriso che, nonostante la tarda ora, non è stanco.
- Gli ultimi saranno i primi –recita un vecchio detto.
- Esatto! Bravo, bravo. E tu, cara?
Stevens si rivolge a me, sorridente.
- Io? –chiedo, intrecciando le dita sulla spalla di Oliver.
- Certo. Sembri agitata.
Mi lascio scappare un risolino nervoso, che lo fa scoppiare a ridere. Oliver alza lo sguardo su di me e sorride.
- D’accordo. Ti lascio gli ultimi secondi di libertà, prima di salire sul palco.
Stevens se ne torna a parlare con Shelia Angel.
- Ti potrà cambiare la vita, salire quei due gradini –soffio piano, fissano i due gradini neri che portano al palcoscenico.
Oliver fa un mezzo sorriso.
- La mia vita è già cambiata quando ho conosciuto te.
Mi lascia così, a bocca aperta, senza possibilità di chiedere spiegazioni, perché Lewis Stevens ha ripreso la diretta.
Mi bacia veloce sulla fronte e sparisce dietro la tenda nera.

Mi pare di sentire le labbra di Oliver marchiate a fuoco sulla mia fronte mentre torno dalla famiglia Dawn.
Scott pare vedermi un po’ spossata, perché sogghigna e mi cinge le spalle con un braccio, mentre Stevens lascia il palco ad Oliver, alla sua chitarra e al pianista, per iniziare Goodbye Philadelphia.
- Come era? –mi domanda Luisa curiosa.
- A me stava venendo una crisi di panico e lui mi rideva dietro. Direi che stava alla grande –sorrido.
Allie prende un respiro profondo, mentre tutti quanti ci concentriamo sulla sua figura sul palco.
Oliver canta perfettamente, mettendoci tutta la passione che mi manda fuori di testa. Canticchio sottovoce il ritornello, annuendo piano. Sorrido al ricordo di quando, in camera sua, l’abbiamo intonato insieme. Sembra un secolo fa.
La folla scoppia in un applauso fragoroso, con tanto di urla, ancora prima dell’ultima strofa.
Rilascio l’aria che stavo trattenendo e mi concedo un sorriso.
Scott mi guarda dall’alto della sua statura, ridacchia intenerito e scuote la testa.

Un po’ mi brucia dentro.
Another Life ha letteralmente reso pazzo il pubblico.
D’altronde, è più di una settimana che non ascolto la radio: non potevo sapere che avesse avuto tutto questo successo.
Eppure... non è più mia. Non è più il mio piccolo segreto, non è più una cosa tra me e Oliver, per quanto lui me ne abbia regalato le parole.
Il sorriso sul suo volto è la cosa più bella del mondo, è felicissimo, incredulo, mentre si inchina davanti al pubblico, una mano sulla chitarra e una sul cuore, un timido grazie detto al microfono.
Mi schiarisco la gola, mentre lui scende dal palco, Stevens che riprende il comando.
Sofia esulta quasi come se fosse allo stadio, insieme ad Allie.
- Grande! E’ mio nipote quello, gente!!
John ha gli occhi lucidi di orgoglio, Jay un timido sorriso soddisfatto sulle labbra.
Scott urla euforico, strattonandomi di qua e di là.
- Scott, calma –rido.
Lui si scusa e continua a battere le mani, un grido ogni tanto.
Non possiamo raggiungerlo fino alla fine della trasmissione, e mi prudono le mani per questo.
I concorrenti salgono tutti e dieci sul palco.
Faranno uno spoglio generale: ne elimineranno uno alla volta.

Destiny ed Oliver sono abbracciati, gli occhi chiusi, i microfoni in mano.
Sono gli ultimi due concorrenti rimasti.
Guardo Destiny brillare nel suo vestito di paillettes fucsia, che si illuminano a seconda delle luci, i suoi stivali neri con una suola alta dieci centimetri, coperti di borchie.
Poi torno ad Oliver e l’unica cosa che voglio fare è correre lì e stringerlo in un abbraccio.
Lewis Stevens cammina lentamente attorno a loro per creare enfasi, una busta dorata in mano, aperta, che rivelerà il vincitore.
Ancora qualche secondo ed esplodo.
Ma proprio quando sto per farlo, una figura mi si para davanti.
Vedo Trevor Michaels e, istintivamente, indietreggio, per andare a sbattere contro il petto di Scott.
Probabilmente Oliver gli ha raccontato qualcosa, perché contrae la mascella.
- Rachele? –mi chiama la pop star.
- Non voglio parlare con te. Ora spostati, sto cercando di capire chi vince. –ribatto brusca, scrutando i suoi occhi.
Non appaiono luccicanti di alcol o rabbia, ma anzi mogi e dispiaciuti. Ed è questo che mi convince a lasciarlo parlare.
- Volevo solo chiederti scusa. –afferma infatti.
- Non ho intenzione di rendere pubbliche le tue sbronze, non preoccuparti. Non serve che cerchi di ripulire la tua immagine che, per quanto mi riguarda, è già lurida. –continuo glaciale.
Lui abbassa lo sguardo.
Nel frattempo, Stevens non ha ancora annunciato il vincitore.
- Oh, non è affatto per ripulire la mia immagine. E’ solo che... ero ubriaco e... e invidioso.
L’ultima cosa che dice mi fa tornare immediatamente su di lui.
- Come?
- Sì. Ero invidioso. Sono invidioso. –ammette –Di te ed Oliver. Di quanto siate belli e carini insieme. Del vostro talento. Della capacità di Oliver con la musica, e della tua incredibile dote al pianoforte.
Mi lascia a bocca aperta. Scott lascia cadere il braccio dalle mie spalle.
Non posso dire o fare niente, che la folla scoppia in un boato. Mi volto di scatto verso la famiglia Dawn, che ha preso ad urlare come una forsennata.
E poi capisco perché Scott ha fatto cadere il braccio: per la sorpresa.
Vedo Oliver abbracciare stretta Destiny, mentre i coriandoli piovono su di loro. Allie mi salta davanti e prende a scuotermi per le spalle con violenza.
- Ha vinto! Ha vinto! Cazzo, ha vinto davvero! –urla saltando.
- Cosa? –balbetto sconvolta, per poi gridarlo.
- Ha vinto! –strilla Scott caricandosi Allie sulle spalle. John e Luisa sono abbracciati, lei è scoppiata in lacrime. Mi volto verso Trevor Michaels per insultarlo e ricordargli che per colpa sua mi sono persa il momento fatidico, ma lui è sparito.

Come vedo Oliver, i miei muscoli fanno di testa loro.
Corro verso di lui a velocità impressionante, viste le mie scarpe. Quando mi nota venirgli addosso, lui lascia perdere gli addetti, i giornalisti, i presentatori, i direttori di case discografiche.
Allarga semplicemente le braccia, non si preoccupa nemmeno di appoggiare a terra la chitarra che tiene stretta nella mano destra.
Affondo nel suo petto, le lacrime di felicità che mi rigano le guance. Mi stringe con forza.
- Hai visto, baby girl? Ce l’abbiamo fatta. –mi sussurra. Sento dal suo tono che sta sorridendo e sorrido a mia volta tra le lacrime.
- Ce l’hai fatta. –lo correggo in un mugolio, senza nemmeno staccare il viso dal suo petto.
- Oh, no. –sospira rilassato –Senza di te non sarei mai stato qui. Ora capisci, quando dico che mi hai cambiato la vita?
Non posso fare nulla nemmeno questa volta, che Scott ci piove addosso, abbracciandoci entrambi.
Sento Jay ed Allie imitarlo, poi John, Luisa e Sofia trasformare il nostro intimo abbraccio in una stretta di gruppo.

- Cavolo.
Abbiamo appena salutato la famiglia Dawn all’angolo, diretta al suo albergo. Oliver ed io camminiamo fianco a fianco, nella notturna New York gremita di gente in attesa dei fuochi di artificio.
Abbiamo superato schiere e schiere di giornalisti armati di macchina fotografia con il flash attivato, fan già accanite ed innamorate e persino file di agenti che tentavano di strappare Oliver alla casa discografica che aveva messo in palio il contratto, la Reynold Records, una delle più importanti del Paese.
Ora, che stiamo passeggiando verso il nostro lussuoso albergo, la tranquillità è talmente tanta da mettermi in pace con il mondo.
- D’ora in poi puoi dire addio alla tua vecchia vita e a gran parte delle cose che ti collegavano ad essa –mormoro sorridendo.
Lui ricambia un sorriso.
Arriviamo nel cortile dell’hotel, pieno di ospiti con i nasi rivolti verso il cielo scuro.
Ho appena il tempo di controllare l’ora, che le urla del conto alla rovescia prendono a squarciare l’aria.
- Cinque!
Incrocio gli occhi di Oliver, che sorride.
- Quattro!
Mi perdo in quel suo sorriso sghembo, in quel viso dannatamente bello.
- Tre!
Rivolgo lo sguardo alla gente che ci circonda. Tantissime coppiette sono pronte al bacio di mezzanotte. Il cuore mi salta in gola.
- Due!
Oliver aspetta i fuochi, gli occhi al cielo.
- Uno!
Il buio viene interrotto da centinaia di esplosioni colorate, gli scoppi che coprono le urla sorprese dei bambini.
- Buon anno!
E via con i baci.
Guardo Oliver, sperando che sia distratto dai fuochi d’artificio che esplodono in cielo. Mi sta osservando. Deglutisco a fatica.
Lo vedo. Lo vedo avvicinarsi, ancora, per baciarmi. E Dio solo sa quanto vorrei assaggiare quelle sue labbra.
Ma poi una serie di immagini mi lampeggia in testa. Le fan. I giornalisti. Il pubblico. Shelia Angel. La sua eleganza. L’immagine costruita di Trevor Michaels.
L’intera nuova vita di Oliver. Dove non c’è posto per la vera me. Ancora, quei pensieri mi affollano la mente.
Non ho intenzione di baciarlo per poi lasciarlo solo al suo nuovo mondo. Sarebbe troppo doloroso ed io non voglio farlo soffrire.
Così, a due centimetri di distanza da tutto quello che ho sempre voluto, mi ritraggo e, con gli occhi che pungono, corro via.

 

 ♥ ANGOLO AUTRICE ♥

Respirate e non uccidetemi!

E' un capitolo piuttosto breve ma intenso, non è vero?

Oliver vince il concorso, la sua famiglia gli fa una sorpresa, Rachele ha paura.

Muoio dalla voglia di leggere i vostri pareri!

Dal Capitolo 26:

- Io guardo al nostro futuro, Oliver, e non lo vedo. –sussurro cercando i suoi occhi.

 

 emmegili

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 26
*** 26. ***


Waking up to kiss you

and nobody's there

The smell of your

perfume still stuck in the air

It's hard

And I wanna tell you everything

The words I never got to

say the first time around

This Town - Niall Horan

 

26.

La porta non fa nemmeno in tempo a chiudersi alle mie spalle che Oliver la spalanca con un tonfo.
Raggiungo la finestra, piangendo in silenzio. Sento la porta richiudersi e lui avvicinarsi.
- Rachele!
Mi ferisce ancora di più. Da quant’era che non mi chiamava così?
Mi volto lentamente, una mano sulle labbra, le guance bagnate e i singhiozzi soffocati in gola.
Ma lo sguardo di Oliver mi uccide. Mi mozza il respiro e mi fa desiderare solo di morire.
E’ distrutto. Disperato.
Sospiro tremante, mordendomi il labbro inferiore mentre Oliver mi fissa ferito, in cerca di risposte. E questa volta non demorderà.
Mi gratto la testa, poi lascio cadere il braccio lungo il fianco.
- Oliver... –il mio è solo un misero singhiozzo disgraziato che mi muore sulle labbra.
- Parlami, Rachele! –sbotta allargando le braccia –Parla! Dimmi cosa provi! Parla!
- Mi piaci! –grido, per farlo smettere.
Maria.
Il silenzio cala su di noi come una morsa, ma non ho intenzione di lasciar morire una frase del genere così, nell’aria.
- Mi piaci! –continuo a voce alta –Tantissimo, okay? Io... i tuoi occhi, quel tuo sorriso sghembo che fa la mia giornata! Il modo in cui canti, quel tuo continuo essere gentiluomo che mi manda fuori di testa!
- E allora dov’è il problema? –chiede, questa volta facendo un passo verso di me.
Non so se ho intenzione di dirglielo. Sarebbe capacissimo di mollare tutto per me. Ed io non voglio che lo faccia. Ma non trovo nulla di altrettanto verosimile che spieghi tutta questa situazione.
Allargo le braccia per poi farle cadere sulle gambe con uno schiocco, sospirando.
- Io guardo al nostro futuro, Oliver, e non lo vedo. –sussurro cercando i suoi occhi. Li trovo. Aspettano che prosegua.
- Guardo Shelia Angel, osservo tutto quello che passa in televisione, e l’unica cosa che riesco a pensare è che la vera me non va bene per questo mondo. Io non sono la ragazza che ti ha accompagnato stasera alla cerimonia, Oliver. Non sono raffinata come tutte le altre ragazze che presto ti circonderanno. Non sono interessante. Io me ne vado in giro per questo albergo in pigiama e con le pantofole a forma di unicorno e poi mi imbatto in Patricia-tutto-fascino, in Shelia Angel, in Destiny che, a modo suo, è sempre interessante. –la mia voce è un sottile flebile filo – Se stessi accanto a te, rovinerei la tua immagine.
Oliver prende ad avanzare verso di me. Mi prende una mano tra le sue e la sfiora con le labbra.
- Innanzitutto, mi permetto di dissentire. L’unica immagine che voglio è quella di me e te insieme. –il suo alito fresco mi solletica le dita mentre fa un sorriso – E poi voglio ricordarti che è di te che mi sono innamorato, Rachele. Non di Shelia Angel, di Patricia-tutto-fascino o di Destiny, okay?
Santa Maria Vergine Madre di tutti i Santi. Quanto era sexy quell’okay, sprovveduta?!
- In secondo luogo, sei completamente fuori strada. Nel mondo della musica, ognuno è sé stesso, d’accordo? E’ questo che ti rende un artista, essere te stesso. Se cerchi di essere qualcun altro, dimmi, quanto puoi durare? Sei mesi? Un anno? E dopo? Io voglio essere me stesso, e per farlo ho bisogno di te al mio fianco. Della vera te.
Il cuore parte a battermi all’impazzata. Il respiro mi si mozza in gola quando incontro i suoi occhi gentili.
E capisco che ha ragione. Che devo fregarmene di cosa pensa la gente. Che devo continuare a camminare a testa alta.
Ora sono io che voglio baciarlo. Lo voglio con tutta me stessa.
Ma bussano alla porta.
Oliver chiude gli occhi e sospira, mentre io rido.
- Stanno bussando. –sottolineo guardandolo divertita.
- E tu lasciali bussare.
- Hai appena vinto alla lotteria della vita, Oliver. Non posso lasciarli bussare.
- Vincerò alla lotteria della vita quando riuscirò a baciarti. Se mai ci riuscirò, a questo punto.
Sorrido, mentre la porta continua ad essere tempestata di pugni.
Oliver si separa da ma a malincuore, per dirigersi alla maniglia dorata e abbassarla.
Un uomo sulla cinquantina, elegante, dall’aria profumata.
Hai bevuto o fumato qualcosa, sprovveduta?
Insieme a lui c’è una donna della stessa età in un tailleur elegante, i capelli ramati raccolti in un’alta coda di cavallo.
Mi avvicino.
- Oliver Dawn? –chiede sorridendo l’uomo.
- Sono io. –annuisce Oliver in uno di quei suoi sorrisi.
- Sono Roger Reynold, della Reynold Records.
Mi pietrifico sul posto.
Oliver spalanca la bocca.
- Signor Reynold. –boccheggia riscuotendosi.
- Già. –l’uomo sorride, poi posa i suoi occhi scuri su di me.
- Oh. Salve. Sono Rachele Nardi. –sorrido calorosa stringendogli la mano.
- Che meraviglia. –il signor Reynolds mi guarda rapito, facendomi arrossire.
La donna si schiarisce la gola.
- Certo, che stupido. Lei è Sue, Sue Willis. –interviene l’uomo ridacchiando –E’ una manager e vorrebbe occuparsi di te, Oliver.
- Okay. Magari questo potevo dirlo anche io, Roger. –sospira Sue, facendo ridere l’uomo.
- Prego, accomodatevi. –Oliver si scosta dall’entrata per lasciarli entrare.
- Oh, no, no. –sminuisce il signor Reynold muovendo una mano –siamo solo passati a farti le nostre congratulazioni, ragazzo, e a dirti che ti aspettiamo domani in studio per definire i dettagli del contratto.
Sue fa una smorfia ed alza un dito, chiedendo il permesso di parlare, come una scolaretta. Colto alla sprovvista, l’uomo le dà la parola.
- Tecnicamente, ora è il primo gennaio. Quindi noi lo aspettiamo in studio il due gennaio? –domanda lentamente.
Restiamo tutti zitti per qualche secondo.
- Uhm. Sì, Sue. –borbotta alla fine Roger –Lasciamogli un giorno di riposo.
Ci sorride smagliante.
Oliver fa scivolare il braccio attorno al mio fianco, sorridendo.
- Grazie, signor Reynold. –si schiarisce la voce, mentre Sue apre già la porta per uscire.
- Figurati, ragazzo. Andremo lontano, noi due.
L’espressione soddisfatta dell’uomo viene rovinata da una risata divertita di Sue.
- Senza di me, voi due arriverete più o meno fino all’ascensore. –esclama, facendomi sorridere- Oh, e non che dubiti di Oliver. Magari lui se la cava. Ma tu, Roger. Pff. Saresti capace di far perdere persino una bussola!
Il signor Reynold sospira, poi ci saluta e si chiude la porta alle spalle, lasciandoci soli.
Oliver butta fuori tutta l’aria che stava trattenendo e mi guarda.
- Siamo a cavallo, ormai. –sorrido.
- Già. –annuisce, pensieroso per un secondo. Poi però un sorriso furbo si fa spazio sul suo volto.
- Allora... dove eravamo rimasti? –domanda ammiccando nella mia direzione. Sguscio dalla sua presa e appoggio le mani sui fianchi, fingendomi concentrata per un attimo.
- Fammi pensare. –mormoro guardando il soffitto –Ah, sì! Stavo per andare a mettermi il pigiama!
Esulto, facendo scuotere la testa ad Oliver, che, malgrado i suoi tentativi di nasconderlo, sta sorridendo.
Infila le mani in tasca, poi mi sorride apertamente.
- Okay. –sussurra solo. E il mio cuore prende a strillare che sì, Oliver Dawn è l’uomo giusto.
Mi volto e trotterello verso la mia stanza, sentendomi i suoi occhi addosso.
E non è una poi così brutta sensazione.

- Svegliati, Alcott.
Sbatto le palpebre in un lamento, per vedere Oliver appoggiato allo stipite della porta della mia camera da letto che sorride divertito, una tazza di caffè tra le mani.
- Cosa vuoi? –strascico coprendomi il viso con il cuscino. Ridacchia.
- Il tuo volo parte tra cinque ore. Pensavo volessi saperlo.
- Non dire sciocchezze. Il mio volo parte alle sei di sera. –mugugno.
- Hai ragione. Allora... il tuo volo parte tra tre ore. Sono le tre del pomeriggio.
Scosto il cuscino quanto basta per scorgere l’ora sulla radiosveglia. Caccio un urlo quando mi rendo conto che non mi sta prendendo in giro. Gli lancio il cuscino addosso, saltando come una molla.
- Perché non mi hai svegliato?! –strillo spalancando le tende e camminando freneticamente per la stanza.
Oliver non si smuove di un centimetro, mi segue con gli occhi, divertito.
- Dormivi così bene. –si giustifica.
Mi fermo davanti a lui fulminandolo con lo sguardo.
- Non vedo dove sia il problema, Bay. –continua rilassato –Hai tre ore di tempo.
- Il problema –ringhio colpendolo sul petto con l’altro cuscino –è che questo era l’ultimo giorno che avremmo passato insieme. Io ora tornerò a casa tua a fare le valigie e tu resterai qui, poi io andrò in Italia e tu rimarrai in America per Dio solo sa quanto e non ti vedrò più per mesi! Inoltre, considerando che devo essere in aeroporto un’ora prima la partenza, che devo vedermi con la tua intera famiglia prima di partire con lei, Oliver, ho un’ora e mezza! Lasciami mezz’ora per preparare le valigie e rendermi presentabile. Un’ora, Oliver! Un’ora! Una fottutissima ora!
Il suo sguardo si addolcisce all’istante. Si raddrizza, lanciando il cuscino sul letto.
- Non ci avevo pensato. –bisbiglia storcendo il naso –Scusami.
La gola inizia a farmi male.
- Non voglio vedere mia madre e mio fratello. Mi odiano. –aggiungo alla lista dei motivi per cui essere incavolata nera. Alzo gli occhi languidi sul viso di Oliver.
- Non ti odiano, Rachele. –sussurra convinto.
- Invece sì. Eccome. Li ho abbandonati. Sono stata egoista e strafottente e... e terribilmente stronza, perché l’unico motivo che mi spingeva a sorridere e a fingermi tutto zucchero con mio padre era la certezza che avrei potuto abbracciare te, Oliver. Rivederti. Non facevo altro che contare i giorni a quando me ne sarei andata da Miami. Avrei dovuto cercare di costruire un rapporto con mio padre, invece di fingere e basta. E se non fossi stata tanto indifferente magari non mi sarei lasciata sfuggire tutto davanti a Lucas ed ora lui non mi odierebbe! –parlo a raffica, le lacrime che mi scorrono sulle guance –E sono una vigliacca perché non voglio più vederli. Non sopporterei i loro sguardi di disapprovazione. Non ce la posso fare. Voglio restare qui, Oliver. Voglio restare con te. Ti prego. Ti prego. Per favore, Oliver, fammi restare.
Piango disperata, mentre gli occhi di Oliver si induriscono.
- Basta, baby girl. –mi blocca –Smettila di dire cose senza senso. Smettila. Andrà tutto bene.
Mi asciuga le lacrime, poi posa le sue labbra calde sulla mia fronte, abbracciandomi.
Chiudo gli occhi e prendo un respiro.
- Andrà tutto bene –ripeto piano.
- Esatto, bravissima. Andrà tutto alla grande. Tua madre è una in gamba. Di sicuro avrà già capito che tutta questa situazione è troppo per te da un bel pezzo. Avrà sicuramente compreso che avevi bisogno di una pausa per riflettere. –spiega con tono rassicurante –Tuo padre si sentirà tremendamente in colpa. In fondo è in gran parte colpa sua. Non si permetterà di giudicarti, Bay, te l’assicuro. Sono quasi convinto che si assumerà la responsabilità di tutto questo malinteso. E Lucas... Lucas è un bambino sveglio. Ma soprattutto, è un bambino. La tua mancanza supererà quella rabbia che prova nei tuoi confronti. Forse l’ha già fatto. Non devi preoccuparti di nulla.
Annuisco.
- Va bene.
- Va bene? –si separa da me dolcemente, guardandomi con un sopracciglio alzato.
- Sì.
Oliver sospira, per poi scrutarmi per un lungo istante.
- Cristo, quanto mi mancherai –mormora.
E mi stringe in un abbraccio al quale io mi aggrappo disperata.

Entrambi siamo dello stesso parere ed entrambi sappiamo che l’altro la pensa nello stesso modo solo guardandoci negli occhi: il nostro primo bacio non sarà un bacio in aeroporto, davanti all’intera famiglia Dawn.
Faccio un sospiro, sistemando meglio la borsa a tracolla sulla spalla, poi sorrido timida ad Oliver, davanti a me.
Lui ricambia appena, le braccia incrociate al petto. Resterà a New York ancora qualche giorno per sistemare le cose con la Reynold Records. John rimarrà con lui. E’ pur sempre minorenne ed è pur sempre suo figlio: non lo lascerà nella Grande Mela da solo.
Pensa che prima era nella Grande Mela con te, sprovveduta. Il peggio è già passato.
La serie di abbracci interminabili con sua madre e sua zia è appena terminata. Ha stretto per qualche secondo in più sua sorella, poi ha salutato i suoi due migliori amici. Avevano tutti e tre gli occhi lucidi. In fondo, nemmeno loro lo vedranno più per un po’ di tempo.
John mi ha abbracciata come fossi sua figlia, il che mi ha lasciata perplessa.
Ed ora, la parte più difficile.
- Promettimi una cosa –dice all’improvviso. Colta alla sprovvista, sposto il peso da una gamba all’altra, annuendo.
- Dimmi. –borbotto curiosa.
Oliver distoglie lo sguardo, facendolo vagare sui turisti accanto a noi che, indaffarati, si affrettano a non mancare il volo.
- Promettimi che non farai sedere nessuno accanto a te sull’autobus, Bay. –chiede.
Faccio un mezzo sorriso.
- Guarda che se per una volta ho fatto un’eccezione, non significa che ora prenderò a far sedere gli sconosciuti accanto a me, Dawn.
Lui mi sorride.
- Ma quell’eccezione non ti ha portata dritta tra le mie braccia, o mi sbaglio? –domanda sornione.
Deglutisco.
- Infatti è stata l’eccezione più sensata di tutta la mia vita. –sussurro.
Non posso fare niente, che mi ritrovo la faccia premuta contro il petto di Oliver. Ricambio la stretta, aggrappandomi alla sua maglietta. Lui affonda il naso nei miei capelli.
- Avvisiamo i gentili passeggeri che il volo per Toronto delle sei e cinque sta per partire.
Con una smorfia, mi separo da Oliver.
Ma prima che mi trascinino via, riesco a stampargli un bacio sulla guancia e, esattamente prima di girare l’angolo in fondo al corridoio, noto la sua mano premuta proprio dove le mie labbra l’hanno sfiorato.

Sprofondo nel sedile dell’aereo, tra Scott e Jay.
- Guarda chi c’è! –esclama il primo pizzicandomi un braccio.
- E noi che ci aspettavamo una vecchia signora, a separarci –ride Jay.
Sorrido loro, stanca. Per quanto possa sembrare assurdo essere stanca dopo solo tre ore, non riesco a tenere gli occhi aperti.
- Coraggio, Rae. Non sta partendo per la guerra. Sta realizzando il suo sogno. Dovresti essere contenta per lui.
Investo Jay con un’occhiata talmente ostile che probabilmente sembra omicida.
Scott, accanto a me, prende ad insultarlo a bassa voce. Il ragazzo alza le mani in segno di difesa.
- Okay, okay! Guardiamo un film! –li blocco entrambi accendendo lo schermo fissato nel sedile davanti a noi.
Nessuno si oppone, per cui continuo a scorrere i titoli cercando un film interessante.
- Hachiko! –esclamo, sollevata –L’avete mai visto?
- No.
Scott scuote la testa.
- Mi state prendendo in giro. –decido altalenando lo sguardo tra i due.
Quello che ottengo sono due occhiate confuse.
- D’accordo. Guardiamo Hachiko. –sospiro facendo partire il film.

- Sta piangendo. –sorride Scott osservandomi.
- No, non sto piangendo.
- Sì, sta piangendo. –constata Jay scambiando con l’amico un’occhiata divertita.
- Oh, ma questo film è così triste! –sbotto scoppiando in lacrime –Come fate a non piangere? Siete senza emozioni!
Li faccio scoppiare a ridere di gusto.
- Due brutti ceppi di pietra glaciale! –infierisco, mentre loro continuano a sbellicarsi.
Ridono, continuano a ridere.
- Sono innamorato di Allie.
Scott smette di punto in bianco di ridere e annuncia spaventato la cosa, fissando il vuoto davanti a lui.
Ben presto anche Jay placa le risate e lo fissa sconcertato, imitandomi.
- Tu cosa? –chiede il ragazzo alla mia destra in un sussurro.
Scott sposta lo sguardo su di noi, cauto.
-Mi piace. Da morire. Tipo... che la bacerei seduta stante. –ripete a macchinetta, terrorizzato.
- Oh merda. –Jay ruota sul busto e si abbandona sul sedile, una mano sul volto.
- Ma tipo... –inizio.
- Tipo davvero. Non sto scherzando. E’ così carina. E carismatica. E avete visto quando arrossisce? Esiste cosa più bella di Allie che arrossisce?
Jay geme. Chiudo gli occhi in un sospiro.
- Che mi dici di Noah? –domando titubante.
- Pff –questa volta è Jay a ridere in uno sbuffo –Quel pivello non è un problema.
- Ah, no? –inarco un sopracciglio.
- Ad Allie Noah piace un sacco. E’ innamorata, credo. –bofonchia Scott.
- Okay, okay, ma non avete calcolato un particolare –sbotta Jay guardandoci esasperato.
Restiamo entrambi zitti, in attesa che continui. Lui, dal canto suo, sta zitto in attesa che comprendiamo.
Dopo un minuto e mezzo circa, sospira.
- Vi siete dimenticati di Oliver Dawn. –spiega –Il fratello iperprotettivo, avete presente?
Aspiro l’aria dalla bocca socchiusa, facendola sbattere contro i denti.
Scott impallidisce, poi fa una smorfia.
- Oh merda.
E ruotando come Jay poco fa, sprofonda nel sedile con un piagnucolio.

- Ehi, Allie, quanto ti piace Noah?
Allie, comprensibilmente, mi fissa stralunata, mentre trasciniamo i bagagli lungo il marciapiede che conduce a casa Dawn.
Davanti a noi, Scott e Jay inciampano l’uno nella valigia dell’altro, e prendono ad insultarsi.
La ragazza ridacchia appena alla scena, poi torna a rivolgersi a me.
- Che domanda sarebbe, Rae?
Mi stringo nelle spalle, in uno sbuffo appena accennato.
- Sai, quando cominci una relazione sai che può andare a finire solo in due modi: o convolate a nozze, o vi lasciate.
Allison annuisce, scrutandomi, cercando di capire dove voglio andare a parare.
- Ecco, insomma... come pensi che andrà a finire tra te e Noah?
Scoppia a ridere, catturando l’attenzione persino di Luisa e Sofia, in cima alla carovana.
- Mai sentito di “vivere il momento”? –mi domanda regolando i toni.
- Sì, certo, ma...
- Come pensi che andrà a finire tra te e mio fratello, Rae?
La sua domanda mi lascia spiazzata, tant’è che mi blocco sul cemento.
- Tra me e tuo fratello non c’è proprio niente –cerco di declinare la cosa.
Lei inarca un sopracciglio, poi chiama a raccolta tutti gli altri davanti a noi. In breve, mi ritrovo circondata da cinque paia di occhi curiosi. Deglutisco a fatica.
- Bene. Scusate l’interruzione, ma Rachele ha detto la fesseria dell’anno ed io ho bisogno che voi la smentiate. –spiega.
- Nonononono! –strillo –Non serve! Non serve!
- Invece sì. –continua tranquilla lei –Perché tu ed Oliver siete le persone non cieche più cieche della Terra!
Oltre l’alta spalla di Scott, riesco a scorgere la meta. Magari, se corro, riesco a nascondermi in casa prima che mi tempestino di domande.
Ma non ce n’è bisogno, perché Scottie capisce al volo la situazione e mi salva.
- Allie, non interessa a nessuno. Lascia che Bay viva la sua vita mentre tu ti vivi la tua. Le cose andranno come devono andare, con o senza Cupido. –l’occhiata eloquente che le lancia mi fa rabbrividire.
La ragazza trattiene il respiro, sorpresa. La tensione nell’aria si potrebbe tagliare con un coltello.
- Esatto. Pensa a Noah, invece di preoccuparti di Oliver. –mormora Jay, lo sguardo rivolto alla casa –Perché penso che hai problemi più grossi, in questo momento.
Ci voltiamo tutti in direzione di casa Dawn, per vedere, in lontananza, un innamorato Noah con quello che pare essere un mazzo di rose dal diametro impensabile.
Lo stupore sul volto di Allie è tantissimo. Lascia cadere i bagagli e corre verso il fidanzato, che come la riconosce la imita.
Sembra il classico cliché dei due che si corrono in contro al rallentatore, sotto un arcobaleno perfetto.
Luisa e Sofia riprendono a camminare. Jay, io e Scott restiamo indietro. Mi avvicino a Scottie per ringraziarlo, ma lui, mani in tasca, sta guardando Allison e Noah abbracciarsi e baciarsi.
Scambio un’occhiata fugace con Jay, che stira le labbra e stringe una mano sulla spalla dell’amico.
- Mi dispiace, Scott. –mormoro io dispiaciuta, toccandogli un braccio.
Lui guarda Jay con un sorriso triste, poi si abbassa a sorridere a me.
- Grazie, ragazzi –borbotta riconoscente.
E prendendoci sottobraccio, riprende a camminare.
Mi sovrastano, tanto sono alti. Alzo la testa per guardarli, sorridendo. Scott se ne accorge e mi lancia un’occhiata divertita.
- Cos’hai, Bay? –domanda, quasi preoccupato.
Sospiro, scrollando le spalle.
- E’ innamorata, lasciala stare. –interviene Jay.
- Siamo in due, ti ricordo. Forse dovresti correre ai ripari –mi difende Scott con un sorriso furbo.
Jay si blocca e mette su un broncio.
- Voglio innamorarmi anch’io! –si lagna, facendomi scoppiare in una risata.
Forse, dopotutto, non me la passerò tanto male senza Oliver, se al mio fianco ci saranno questi due a farmi ridere.

 

♥ ANGOLO AUTRICE ♥

Eccomi qui! ♥

Già vi vedo disperare. Non vedremo Oliver per un'intera vita e non si sono nemmeno baciati!

Inoltre, al prossimo bacio mancato potrete uccidermi, vi autorizzo. E' solo che sono troppo pucciosi così...

Ma che ne dite di Scott e Jay? Io li amo con tutta me stessa, sul serio.

 

Dal capitolo 27:

Sarei stato disposto a rinunciare a tutto. Al contratto, alla musica, alla fama, ad un pubblico, pur di avere Rachele Nardi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 27
*** 27. ***


27. – Oliver.

Il signor Reynold ha prolungato la prenotazione per la suite.
Mi butto sul divano, stremato, mentre mio padre richiude la porta alle spalle con un sorriso.
- Che c’è, figliolo?
Si siede sulla poltrona davanti a me, con l’aria di uno che la sa lunga. Sul tavolino, c’è ancora la custodia del dvd del film che io e Bay abbiamo iniziato a vedere prima che partisse. Era suo. L’ha dimenticato. La prossima volta che la vedo, devo farglielo avere.
Continuo a fantasticare a tal punto che mi dimentico la domanda di mio padre.
- Ehi, Oliver?
Scatto con gli occhi nella sua direzione e tento un sorriso.
- Sì?
Ridacchia scrollando le spalle.
- Credo... credo che se glielo chiedi, magari la tua manager ti lascia tornare a casa per il fine settimana. –suggerisce.
Drizzo le orecchie.
- Andiamo, Oliver. E’ venerdì. Dobbiamo andare solo a firmare il contratto, non inizieresti comunque a lavorare fino a lunedì.
Non menziona tutta la parte che riguarda la mia incredibile voglia di passare ancora un po’ di tempo con lei perché sa che non ce n’è bisogno: è tutto quello a cui riesco a pensare.
Annuisco.
- Grazie, papà.
Fa un sorrisetto.
- E’ una così cara ragazza. Mi ricorda un po’ tua madre, a volte.
Rido piano, trovandomi d’accordo.
- Dio, se è vero. –continua lui –In ogni caso, non la vedrai per i prossimi mesi. E confesso che quel saluto in aeroporto è stato talmente misero, figliolo, che devi rifarti prima che se ne torni in Italia.
Lo osservo con calma, un piccolo sorriso sulle labbra. Mi vibra il telefono. E’ un messaggio di Sue, che, non si sa come, ha avuto il mio numero.
Ehi ragazzo. Ti aspettiamo tra mezz’ora, okay? Dimenticavo. Sono Sue, anche conosciuta come la tua futura manager.
Sorrido.
D’accordo, La Tua Futura Manager. Arriviamo.
La risposta non tarda ad arrivare.
Ma che simpatico. Scommetto che sarà uno spasso lavorare con te.
Mi limito a liquidarla con un Puoi Contarci.

La sede della Reynold Records è enorme. Uno stabile di completo vetro in centro a Manhattan. Una graziosa assistente orientale ci accoglie all’ingresso. Sulla targhetta, il nome Patty.
- Salve. Sono Patty. Posso aiutarvi? –domanda cortese, sorridendo dall’alto del suo metro e sessanta scarso.
- Sono Oliver Dawn...
Non mi lascia terminare la frase, che i suoi occhi si illuminano.
- Oliver Dawn! Ma certo! –squittisce conducendoci verso l’ascensore –Il signor Reynold vi sta aspettando.
Continua a parlare a macchinetta.
- Mi pare che sia Sue a voler occuparsi di te, giusto? –prosegue.
Annuisco con un sorriso, mentre sento mio padre sorridere al mio fianco.
- Credimi, per poco non scoppiava la Terza Guerra Mondiale, qui. Volevano tutti accaparrarsi il grande nuovo talento. Ma Sue ha il cipiglio di un militare, Quando vuole una cosa, se la prende. A proposito, forse non avrei dovuto dirtelo. Ops. Vabbè, ormai non si può piangere sul latte versato! Più che latte, preferirei un caffè. Ma forse è meglio di no. Quanti ne ho già bevuti, oggi pomeriggio? Cinque. No, forse erano sei.
Ecco spiegato il mistero dell’iperattività. Grazie a Dio, le porte dell’ascensore si aprono su un luminoso salotto d’aspetto, con tanto di piante esotiche negli angoli.
Mio padre ed io ci fermiamo tra i divanetti rossi, mentre Patty va spedita verso la porta sulla parete di fondo. Bussa.
Quando le viene accordato l’okay, apre la porta e ci annuncia. Sento il signor Reynold illuminarsi e comunicarle di farci entrare.
Muovendosi veloce come un topolino, Patty ci raggiunge e ci avvisa che il signor Reynold è pronto ad incontrarci. Poi, svelta come è arrivata, scompare nell’ascensore.
Prendo un profondo respiro prima di spingere la porta targata “Reynold”. Sento papà, alle mie spalle.
Okay, mi dico.
E spingo.

Fisso il foglio davanti a me, in sospeso, la penna che si muove frenetica tra il pollice e l’indice della mia mano. Devo solo firmare. Una firma. Una firma, e tutto cambia.
Alzo lo sguardo su mio padre, accanto a me. Mi sorride incoraggiante, prendendo un respiro.
Dall’altra parte della scrivania, il signor Reynold giocherella con i pollici. Dietro di me, la presenza di Sue è talmente imponente nonostante la sua minuta statura, che mi mette i brividi.
Mi dico che è tutto successo troppo velocemente. Solo due mesi fa cercavo di catturare l’attenzione di una bella ragazza su un autobus, anonimo e comune come tutti gli altri.
Tra due mesi, potrei ritrovarmi a firmare autografi, cantare concerti e scrivere canzoni per qualcuno, oltre che me stesso.
Ripenso a quanto mi si è scaldato il cuore quando, due sere fa, il pubblico ha iniziato a urlare e a battere le mani al ritmo di Another Life. Ho sentito di essere nel posto giusto, di aver trovato il mio posto nel mondo.
Quando però poi mi sono ritrovato ad osservare rapito il profilo di Rachele alla luce dei fuochi d’artificio, ho capito che sarebbe stato difficile avere entrambe le cose. E in quel momento, tutto quello che volevo era lei.
Sarei stato disposto a rinunciare a tutto. Al contratto, alla musica, alla fama, ad un pubblico, pur di avere Rachele Nardi.
Ma la cosa è rimasta in sospeso, perché ho dovuto rincorrerla fino alla suite, e non ci ho più pensato.
Ora mi ritrovo un bivio davanti. Decido di chiedere a Sue, prima. Mi volto sulla sedia, verso di lei che, stupita, raddrizza le spalle.
- Sue...
- Sì?
Sfoggio uno di quei sorrisi che fa arrossire Bay.
- Potrei tornare a casa per il fine settimana? Ho delle cose da sistemare. Lunedì torno e mi metto al lavoro. Promesso.
- Se non firmi, caro, non torni. –mi fa notare accigliata.
- Sì, ma se dovessi firmare...
Sue sospira, poi lancia un’occhiata al signor Reynold, che prende la parola al posto suo.
- Non vedo perché no. Per me va bene.
Il cuore mi si alleggerisce e la mia contentezza fa sorridere appena anche quella che, tra poco, chiamerò manager.
Firmo il foglio.

Corro, letteralmente.
Anzi, quasi volo.
Faccio le valigie in fretta, nonostante papà sostenga che non ci sia bisogno dei bagagli. Imbuco i vestiti a casaccio, chiudo cerniere.
Mio padre mi guarda storto, seduto comodamente sul seggiolino del piano, mentre vado avanti e indietro come una formica in ritardo.
- Io capisco che sei innamorato follemente di Rachele –inizia lentamente –Ma il volo, che tu lo voglia o meno, parte tra due ore, Oliver. Non è che se ti sbrighi a preparare le valigie parti prima.
Mi blocco e lo guardo. Ha ragione. Inarca un sopracciglio.
- Va bene, va bene. –ammetto –Ma non voglio perdere un minuto. Quindi, andiamo all’aeroporto.
Lui per un attimo esita, come a voler ribattere. Ma poi sorride, annuisce e si alza.

 

 ♥ ANGOLO AUTRICE ♥

E rieccoci!

Bene... Sono particolarmente affezionata al prossimo capitolo, voglio farvelo leggere al più presto...

Inoltre... non sapevo che strofa di quale canzone mettere all'inizio del capitolo, quindi se avete delle idee sono più che ben accette! :)

 Dal capitolo 28:

Lo vedo fare un sorriso idiota, mentre le sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio, con dolcezza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 28
*** 28. ***


Always thinking 'bout the two of us

You play on my mind, always

playing on my mind

I'll come around if you ever

want to be in love

If You Ever Want To Be In Love - James Bay

 

28.


Scott

Guardo Rachele, seduta sul divano, carezzare oziosamente Frizzle, che pare adorarla. Tale gatto tale padrone. Accanto a lei, Jay è immerso in una sessione di zapping a tal punto da tenere gli occhi socchiusi dalla concentrazione. Allie è uscita con Noah, Sofia si passa una limetta sulle unghie seduta al tavolo da pranzo mentre, accanto a lei, Luisa scribacchia attenta su un quadernino.
Lancio un’occhiata all’orologio; sono appena le quattro.
E poi, mi viene un’idea.
Spengo la televisione, dopo essermici piazzato davanti. Jay protesta, mentre Rachele si limita a guardarmi con quei suoi occhioni verdi.
- Ho una proposta –annuncio.
- Oh, grandioso. –borbotta Jay chiudendo gli occhi. Bay gli dà una gomitata e mi spinge a continuare.
Sorrido, mentre il gatto si stiracchia e salta sul tappeto.
- Vi porto in un posto.
- Tipo? –domanda la ragazza.
- Tipo è una sorpresa.
La loro voglia di alzarsi dal divano è pari a zero, ce l’hanno scritto in faccia. Nonostante ciò, lo fanno, seppur con un brontolio.

- Dove? –ripete Jay contrariato –No, Scottie, no.
- Andiamo, sarà divertente! –ribatto, accendendo la macchina. Rachele esce di casa e si avvicina alla portiera. Abbasso il finestrino del posto del passeggero, dove Jay è comodamente accoccolato.
- Amico, spostati. Fai sedere lei davanti.
Lui mi guarda svogliato, poi si rivolge alla ragazza, che gli sorride ruffiana.
- Ringrazia quei tuoi occhioni verdi –bofonchia scendendo dall’auto e accomodandosi in uno dei sedili posteriori.
- Grazie, Jay –ride Rachele sedendosi accanto a me. Quando mi guarda, le faccio un occhiolino.
Scoppia a ridere cristallina, mentre ingrano la marcia.

Infilo i pattini e mi lancio sul ghiaccio. Alzo lo sguardo sull’altissimo tetto del capannone della pista di pattinaggio. Jay mi raggiunge. Quando mi accorgo che Rachele è inchiodata all’ingresso, i pattini che penzolano da una mano, mi avvicino sorridendo.
- Cosa c’è, Bay? –le chiedo come ci si rivolge ad un bimbo.
- Io non ci vengo. –mette in chiaro, fissando il ghiaccio con una tale intensità che temo si spezzi da un momento all’altro.
- Andiamo –rido –Non è poi così difficile!
Lei mi investe con un’occhiata omicida.
- Disse quello che pattinava da quando aveva quattro anni! –mi rimbecca –In Italia noi non facciamo queste cose. L’Italia è un Paese caldo, Scott. Non mi sono mai infilata dei pattini in vita mia.
- Dai, ti tengo io. –le assicuro tendendole una mano.
- Oh be’, adesso sto molto meglio! –esclama ironica.
Ridacchio, mentre fa una smorfia.
- Scusa, quando sono nervosa il sarcasmo si impadronisce di me. –bofonchia.
Agito la mano tesa in avanti, come a sollecitarla.
Storce il naso, poi scruta per qualche secondo la pista. Sospira, chinandosi per indossare i pattini.
Una volta pronta, afferra titubante le mie dita. Con calma, indietreggio.
Scivola sul ghiaccio terrorizzata, aumentando la stretta sulla mia mano.
- Visto, non è impossibile –le sorrido.
Mi guarda, in cerca di una risposta affilata da piazzarmi davanti. Dopo un po’, si limita invece ad abbozzare un sorriso.
Si raddrizza sul posto, muovendo le braccia come ali di un aereo per mantenere l’equilibrio. Jay le schizza vicino, urlando qualcosa a proposito delle tartarughe.
Come era possibile immaginare, lei gli urla dietro un sonoro “Idiota!”.
Rido, facendo tremare il braccio.
- No, no, no! Scott! Stai fermo! –strilla iniziando a vacillare.
- Scusa, scusa. –respiro con calma, nonostante voglia scoppiare a ridere.
Rachele muove piano i piedi.
- Ora ti mollo, va bene? –chiedo, sorridendo per quello che scorgo arrivare nella nostra direzione.
- Cosa? No! Non ci pensare nemmeno! No! Scott! Scoooott! Dove vai?! No! Non... –inizia a gridare, ma ormai le ho lasciato la mano e mi sono allontanato di qualche metro.
Incrocio le braccia al petto in un ghigno soddisfatto. Jay mi affianca in una scivolata.
- Ehi –se ne viene fuori, guardando alle spalle di Rachele –Ma quello non è...?
Annuisco.
La ragazza perde l’equilibrio un’altra volta, ma ad impedirle di cadere ci sono le salde braccia di Oliver, che la avvolge da dietro.
Bay fa una smorfia terrorizzata al pensiero che qualcuno la abbracci in quel modo, dato che le uniche persone che conosce, Jay ed io, sono davanti a lei.
Ma poi Oliver le sussurra qualcosa all’orecchio e la mora, scioccata, si volta lentamente, per non cadere, e si ritrova a ridosso del petto del ragazzo.
Lo vedo fare un sorriso idiota, mentre le sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio, con dolcezza.

Rachele

Scott si allontana con un ghigno, lasciandomi la mano, mentre Jay lo affianca esibizionista, schizzando il ghiaccio poco più avanti con una scivolata. Li vedo borbottare tra di loro.
Probabilmente sei un mutante e ti sei trasformata in un alieno e loro si sono spaventati.
Okay, forse dovrei iniziare a preoccuparmi della mia salute mentale.
Tu dici?
Troppo coinvolta nei miei pensieri, perdo l’equilibrio. Sono già pronta a cadere con il sedere sul ghiaccio, a farmi tanto di quel male che resterò seduta per anni e a rassegnarmi ad avere una chiappa viola, quando qualcuno mi salva, abbracciandomi alle mie spalle.
Spalanco gli occhi terrorizzata. Sono venuta qui con Jay e Scott, e sono entrambi davanti a me. Mi mancava proprio un affascinante estraneo a salvarmi, così ora dovrò dirgli con non poco imbarazzo che grazie ma no, io sono impegnata. Che poi, non sono impegnata. Una specie, credo.
Le sue braccia forti mi stringono, intrecciandosi sul mio ventre. Affianca il viso al mio orecchio, mentre il suo fiato caldo mi solletica il collo.
Il suo profumo mi avvolge. Un attimo. Questo profumo...
- Attenta, baby girl. –un sussurro roco talmente sensuale che, se non ci fosse lui a sostenermi, cadrei come un sacco di patate dalle gambe gelatinose.
Cauta, badando bene a non rovinare a terra, mi volto.
Il cuore mi salta in gola quando mi ritrovo a ridosso di Oliver, in una felpa grigio chiaro che, assieme a quei capelli spettinati, Dio, non si potrebbe chiedere di più nella vita.
Deglutisco a fatica, mentre uno di quei suoi sorrisi sghembi gli illumina il volto. Allungo una mano e gli tocco una guancia, tanto per assicurarmi di non star sognando.
Lui ridacchia.
- Non dovresti essere a New York? –gli domando con un piccolo sorrisetto. Lui scrolla le spalle, alle quali mi stavo appoggiando per non cadere.
- Oliver! –squittisco, muovendo i piedi fuori controllo, nel disperato tentativo di restare in piedi.
Ridendo, poggia le sue mani salde sui miei fianchi, sostenendomi.
- Sei proprio una frana –sussurra intenerito, guardandomi con quei suoi occhi vispi.
Vorrei rispondergli per le rime, ma mi perdo ad osservarlo.
Terra chiama Rachele. Rispondi, Rachele.
Mi riscuoto.
Gli tiro un pugnetto sul petto.
- Smetti di ridere –gli intimo, nascondendo un sorriso.
- Amico! –Scott ci piove addosso, seguito da Jay.
- Fermi! –strillo, aggrappandomi al cappuccio della felpa di Oliver mentre lui cerca, ridendo, di riacquistare l’equilibrio.
Una volta immobile, mi guarda.
- Ti dispiace se ti lascio un attimo per abbracciare questi due? –mi domanda.
Sposto lo sguardo sugli altri due, ancora ancorata ad Oliver. Sorridono come ebeti.
- Sì, mi dispiacerebbe parecchio. –soffio terrorizzata, alzando un coro di risate.
E non solo perché potremmo cadere, fanciulli. Voglio dire, a chi non dispiacerebbe staccarsi da Oliver?

Avvolta nella giacca come un cotechino, stringo la tazza di cioccolata calda come se fosse l’ultima rimasta sulla Terra.
Alla mia destra, Scott sorseggia tranquillamente il suo tè, neanche minimamente scalfito dal freddo.
Con un braccio poggiato sullo schienale della mia sedia, Oliver sta raccontando di una certa Patty e di Sue, mentre Jay, davanti a me, lo ascolta giochicchiando con un bustina dello zucchero.
Hanno insistito per andare a bere qualcosa dopo cena in questo locale, il Molly’s.
Una signora sulla sessantina, graziosa, si avvicina al nostro tavolo.
- Ragazzi –sorride materna –Che bello vedervi.
- Lucy! –esclama Scott, illuminandosi. Lei gli scompiglia i capelli, ridendo.
- Lucy, lei è Rachele –presenta Oliver.
- Piacere di conoscerla –sorrido alla donna.
Come sente il mio nome, pare accendersi. Quasi vedo la lampadina lampeggiarle accanto alla testa.
- Rachele! Sei la ragazza italiana, vero? –domanda cortese.
Stupita, annuisco.
- Questi tre non parlano d’altro. –mi confessa in un occhiolino –L’ultima volta che sono venuti qui, Oliver sosteneva che fossi solo un’amica, Jay che fossi incredibilmente...
- Okay, okay! –interviene Jay interrompendola –Basta così!
Lo scruto.
- No, vada avanti, la prego. –mi rivolgo a Lucy. Voglio sapere cosa diceva Jay.
Lei altalena lo sguardo divertito tra me e lui.
- Jay sosteneva che fossi incredibilmente bella. –termina tranquillamente.
Inarco un sopracciglio in direzione del ragazzo.
- Ah, sì? –cantileno –Allora non ti sto poi così sulle palle.
Per la prima volta da quando lo conosco, Jay arrossisce.
- No, cioè... sì. Ovvio. No... Forse. Oh, ma che ne so!
Scott, Oliver e Lucy scoppiano a ridere.

I due ragazzi ci salutano dopo averci lasciato davanti a casa di Oliver e schizzano via.
Alzo lo sguardo sul cielo. E’ tardi, dovrebbero essere più o meno le undici. E’ scuro, illuminato da migliaia di punti luccicanti. Non avevo mai visto così tante stelle.
- Vieni.
Ci sediamo sui gradini del portico, i nasi all’insù.
- Che belle. –sussurro in un soffio.
- Bellissime –concorda Oliver annuendo.
Restiamo in silenzio per un po’, la notte che ci avvolge. Osservo lo spicchio di luna che illumina il giardino.
- Non ti dà fastidio che abbia detto in giro che sei solo un’amica? –chiede all’improvviso Oliver. Mi volto a guardarlo, trattenendo un sorriso.
- L’ho fatto anche io, in continuazione. –confesso, e vedo la sua mascella rilassarsi –Che poi, non è quello che siamo? Due amici?
Ride sottovoce, facendomi sorridere.
- Secondo me, no. –torna serio all’improvviso, guardandomi negli occhi. Solo ora mi accorgo di quanto siamo vicini.
Le sue labbra sono lì, a due centimetri. Due centimetri. Due, ed è fatta.

Oliver

La luna illumina la pelle di Rachele, rendendola ancora più bella. Mi avvicino lentamente. Ormai ci siamo. Devo solo chinarmi e baciarla.
Incontro ancora una volta i suoi occhi, che aspettano. La carezzo una guancia.
- Ragazzi! Siete tornati! –cinguetta mia madre spalancando la porta d’ingresso.
- Oh, merda. –mi lascio sfuggire alzando gli occhi al cielo.
Rachele scoppia a ridere, poggiandomi la testa in grembo. Continua a ridere di gusto, divertita. La guardo sorridendo, poi mi rivolgo a mia madre.
- Sì, mamma? –domando calmo. Lei fa un sorrisino imbarazzato.
- Scusate, io...
- Tranquilla – mentre parlo, Rachele continua a ridere.
- Ci sarebbe una cosa... –l’angoscia si dipinge sul suo volto ed è palpabile del suo tono, per cui Bay alza la testa e la guarda, ancora con un sorriso sul viso.
Ma il sorriso si spegne quando un uomo compare alle spalle di mamma. La vedo impallidire, cerca la mia mano e la stringe forte.
- Papà –sussurra spaventata.

 

♥ NOTA AUTRICE ♥

Ma quanto sono pucciose queste giornate autunnali?  *.*

Okay, so cosa avevo detto sui baci mancati ma... okay, okay. Chiedo perdono. Ma mi diverto troppo a torturarvi.

Sto scherzando. (forse)

Comunque, il prossimo capitolo è mooolto più intrigante di questo.

Cosa ci fa il padre di Rachele in Canada? Cosa accadrà ora?

Dal capitolo 29:

Faccio per andarmene, ma lui mi blocca trattenendomi per un braccio. Mi volto.
- Cosa vuoi? –gli chiedo, suonando più acida di quanto volessi.
Oliver pare non capire, lo sguardo ferito.
- Cosa c’è?
Alzo gli occhi al cielo, per evitare di mettermi a lacrimare come una fontana.

 

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Capitolo 29
*** 29. ***


I want you to know

That it doesn't matter

Where we take this road

But someone's gotta go

And I want you to know

You couldn't love me better

But I want you to move on,

So I'm already gone

Already Gone - Sleeping At Last

29.

Rachele

- Papà –sussurro nel panico, stringendo la mano di Oliver per farmi forza.
Mi raddrizzo sullo scalino, schiarendomi la gola.
Mio padre è lì, sulla porta, piuttosto a disagio, spostando il peso da una gamba all’altra. Luisa, poco più avanti, si tortura le mani.
- Rachele! –mia madre irrompe nella scena, correndo ad abbracciarmi.
Scioccata, non reagisco.
- Cristo, tesoro, mi hai fatto preoccupare. –continua mamma appendendosi a me. Cerco gli occhi di Oliver. Non ci sono.
E mi sento soffocare.
Scoppio a piangere.

Oliver

Osservo il viso dell’uomo davanti a me.
Doveva essere attraente, un tempo. Ora è pallido, smunto, la stanchezza scritta in ogni ruga che gli solca il volto.
Si siede affaticato sul bracciolo del divano, mentre la signora Nardi gli si avvicina e, con espressione preoccupata, gli stringe una spalla.
Poi si rivolgono entrambi a me, la donna con un sorriso dispiaciuto.
Penso a Rachele, di sopra con Allie.
Penso che tutto ciò che vorrei fare sarebbe correre ad abbracciarla, stringerla forte, talmente forte da farle mancare il respiro, stringerla a me in modo da non lasciare nemmeno uno spiraglio per lasciar passare l’aria.
Stringerla, abbracciarla, accarezzarla, rassicurarla. Perché anche se sembra tanto forte, la conosco e posso essere sicuro che dentro si è spezzata. E non voglio che si spezzi ancora di più.
Voglio essere un’ancora, qualcosa a cui lei possa aggrapparsi. Voglio salvarla dalla sensazione di annegamento che prova. Glielo si legge in faccia, quando prova quella sensazione.
Ricambio un piccolo sorriso a sua madre, incrociando le braccia sul petto.
- Oliver...
La sua voce si spegne nel vuoto. Siamo in tre nella stanza, eppure l’aria comincia già a mancare.
- Intanto, grazie per far sorridere mia figlia. –per la prima volta, sento la voce dell’uomo.
Fisso i miei occhi nei suoi e cerco di sorridere.
Annuisco, mentre la signora Nardi si passa le mani sul volto, ansiosa.
- Congratulazioni, sappiamo che hai vinto... –riesce a dire prima che la voce le si spezzi e si lasci sfuggire un singhiozzo.
Si porta una mano alla bocca e chiude gli occhi. Il signor Nardi la guarda e sospira. Poi torna a rivolgersi a me in un quasi sorriso.
- Ragazzo, vogliamo solo che tu sappia che non siamo i pessimi genitori che Rachele ti ha dipinto.
- Rachele non vi ha affatto dipinto come dei pessimi genitori, signore. –ribatto subito, con fermezza –Anzi, si è sentita piuttosto in colpa.
Gli occhi della signora guizzano su di me.
- Oh...
Con qualche difficoltà, l’uomo si alza e mi raggiunge. Mi posa una mano sulla spalla.
- So che non approvi le nostre scelte, e so che probabilmente mi odi per aver ferito in questo modo la ragazza che ami.
Un colpo dritto al cuore.
La ragazza che ami.
E’ vero. La amo. E, nel profondo, è vero che li odio per averla ferita, per averla fatta sentire uno schifo, per averle mentito.
Odio il fatto che la facciano soffrire, che scombussolino i suoi sentimenti come biglie sulla sabbia.
Odio che Rachele sia in questo limbo dove sono io, sono io quello che riesce a farla tornare la vecchia Bay.
Odio che come i suoi genitori tornano in scena, lei cada in un baratro senza fine.
Odio, odio, odio con tutto me stesso che sia così fragile ed indifesa. Voglio proteggerla, salvarla, voglio che non soffra.
Però, quando li guardo, non vedo altro che sofferenza nei loro sguardi. Dolore. Soffrono almeno quanto Rachele.
E la voce mi muore in gola. Cosa fare?
Deglutisco.
- Non... non posso permettermi di giudicarla, signore. –mormoro, fissandolo negli occhi.
Lui fa un mezzo sorriso.
- Cerca solo di far capire a Rachele che sta sbagliando a comportarsi così, caro, ti prego. –ed ecco la signora Nardi che sgancia la bomba.
La guardo, gli occhi socchiusi.
Vorrei dirle che “no, cazzo, Rachele non sta sbagliando. Sta seguendo il suo cuore e... come si fa a sbagliare quando si segue il cuore?”.
Ma annuisco e basta.
- Bene. E ora tiriamo fuori il pugno di ferro. –bofonchia la signora Nardi.
Chiudo gli occhi, sospiro e capisco.

Rachele

- Il volo parte tra poco, Rachele. Dobbiamo andare. –m’informa mamma tranquillamente.
- Papà viene con noi –aggiunge Lucas guardandomi sibillino.
- Una vacanza –prosegue mio padre.
Sgrano gli occhi. Dovrei protestare. Ma non ho la forza di farlo.
Allie, al mio fianco, finge di guardarsi le unghie.
Oliver ci raggiunge in salotto. Cerco il suo sguardo disperata, ma niente. Evita di guardarmi.
- Allie, vieni. –chiama la sorella –Lasciali soli.
Allison si riscuote.
- Oh, certo. Che stupida. Scusate. –fa un piccolo sorriso e poi scompare. Oliver la segue a ruota, dopo aver sorriso a mia mamma.
Sconvolta, sospiro sprezzante.
- Non posso partire ora, mamma. E’ tardissimo. Non ho nemmeno salutato Scott! –ricordo.
E Jay, aggiungo mentalmente.
- Non puoi chiamarlo quando atterriamo? –propone papà, beccandosi un’occhiataccia.
- Oh, ma certo. –ribatto in un sibilo, per poi tornare a rivolgermi a mia madre – Oliver è tornato da New York per passare qui il fine settimana, accidenti. Poi non lo vedrò più! Non puoi trascinarmi via così!
- La scuola ricomincia lunedì! –ricorda lei.
- Ma non importa! –esclamo –Posso saltare un giorno! Torniamo a casa lunedì, con calma.
Scuote la testa.
- Vai a prendere la valigia, muoviti.
Non ammette repliche. Guardo mio padre, in cerca di supporto, ma lui è altrove.
Lucas sembra quasi soddisfatto.
- Mamma... –la voce mi si incrina.
Si rivolge a me con durezza. Un’occhiata sola.
Scuoto la testa, incredula. La mia valigia è in camera di Allie. Esco dalla stanza e raggiungo la cucina, dove i signori Dawn, i figli e Sofia attendono preoccupati.
Come mi vedono, i loro occhi si illuminano. Questa volta, sento Oliver cercare il mio sguardo.
Eh no, caro.
- Allie... –sussurro, la gola che fa male –Potresti accompagnarmi a prendere la valigia?
Il dispiacere glielo si legge negli occhi.
- Certo. –cerca di sorridermi incoraggiante, ma non ci riesce.
Sorrido al resto della famiglia, poco prima che lei mi guidi su per le scale.
Arriviamo nella sua stanza. Raccolgo la valigia in silenzio.
Quando ho finito di sistemare, Allie mi abbraccia.
- Mi dispiace tanto, Rae –mi sussurra dolcemente.
- Mi mancherai, Allie. –le sorrido –E tieni d’occhio tuo fratello.
Ridacchia.
- Mi dispiace che non siate riusciti ad avere il vostro momento. –mi fa un occhiolino.
Sono stanca di fingere. Le faccio un piccolo sorriso.
- Mi chiedo se l’avremo mai. –confesso, abbassando lo sguardo.
- Ma certo, Rachele, che domanda sciocca. –mi carezza un braccio, ed io l’abbraccio di nuovo.
Mentre percorriamo il corridoio, Oliver ci si piazza davanti. Con nonchalance, Allison sguscia via, lasciandoci soli.
Incrocio le braccia al petto, lasciando il bagaglio a terra. Quando alzo la testa, i suoi occhi sono quelli di un cane bastonato.
Fa un piccolo sospiro.
- Così te ne vai.
Rido amareggiata.
- Oh, no. Mi trascinano via. –sottolineo, riprendendo la valigia –Saluta Scott da parte mia e digli che... che mi dispiace, okay?
Faccio per andarmene, ma lui mi blocca trattenendomi per un braccio. Mi volto.
- Cosa vuoi? –gli chiedo, suonando più acida di quanto volessi.
Oliver pare non capire, lo sguardo ferito.
- Cosa c’è?
Alzo gli occhi al cielo, per evitare di mettermi a lacrimare come una fontana.
- Niente. Lascia stare. –liquido –Divertiti, a New York. Saluta Patricia da parte mia e dille che se vuole ha il campo libero. Non me ne frega niente. Non ti vedrò più. Mi sembra chiaro. Dì a Sue che mi stava già simpatica. Anzi, no, non farlo. Fai la tua vita. Canta. Scrivi. Divertiti. Dì a Scott che mi stava dannatamente simpatico, che saremmo diventati grandi amici e che mi dispiace, ma che ho i genitori che mi ritrovo. A Jay, dì che è un’enorme testa di cazzo. Grazie. Anche se così sembra un po’ cruda... digli anche che nonostante sia una testa di cazzo, so che è un bravo ragazzo. E...
Mi ritrovo inchiodata al muro del corridoio in un battito di ciglia, e non mi ricordo come ci sono arrivata.
Oliver è attaccato a me, le mani sulle mie guance.
- Stai zitta, ti prego. –sorride –Zitta.
Le sue labbra sfiorano le mie, con dolcezza. Una scarica elettrica mi pervade il corpo. Ma finisce lì. Non mi bacia. Non lo fa, si limita a farmi assaggiare il sapore di quelle sue dannate labbra, sfiorando le mie. Un contatto lieve, appena accennato.
- Mi uccidi, lo sai? –sussurra.
Oh, be’, direi che qui quella che sta morendo è la sprovveduta.
Allontana il suo viso dal mio, lasciandomi sbigottita.
- Cosa cazzo stai facendo? –gli chiedo guardandolo negli occhi.
Inarca un sopracciglio.
- Non puoi quasi baciarmi così dopo... vediamo... quattro baci mancati! –ricordo.
Ride sottovoce.
- Hai ragione. Scusa. –ammette –Ma ho delle cose importanti da dirti e il tempo a disposizione è poco.
Sospiro.
- Come prima cosa, ti informo che sentirti chiamare Patricia-tutto-fascino con il suo vero nome mi ha distrutto.
Ridacchio. Sorride.
- Poi. Non so cosa tu intendessi quando hai detto che aveva il campo libero, ma per quanto mi riguarda non ti lascerò andare. La distanza non è un problema. Io sono innamorato di te, Rachele, e questo conta più di ogni altra cosa. Magari quest’estate ci rivedremo. O prima. Chi può saperlo.
Le sue parole mi colpiscono in pieno petto, lasciandomi senza respiro.
- So che tu e Scott diventerete grandi amici, e ti assicuro che avrete il tempo per farlo. Jay è una testa di cazzo, è vero, ma è una persona grandiosa.
- Lo so –ammetto in una smorfia –Lo so.
Sorride sghembo.
- Saluta Ari da parte mia.
Annuisco.
Poi gli salto al collo, e lo abbraccio. Oliver ricambia la stretta. A questo punto, devo andare.
Quando torniamo al piano di sotto, sono tutti sulla porta. Mia madre si sta scusando con Luisa.
- Finalmente –borbotta mio padre.
Gli lancio un’occhiataccia.
- Se hai tanta fretta, puoi tranquillamente andartene. –sibilo, incrociando le braccia al petto.
- Rachele –mi rimprovera mamma.
Non ho intenzione di fare scenate. Non qui. Per cui mi mordo la lingua.
- Ciao, signorina.
John, sorridendo paterno, si avvicina e mi abbraccia.
Il suo profumo assomiglia a quello di Oliver, solo più... vecchio.
- Ciao, signor Dawn. –sorrido a ridosso della sua spalla.
Improvvisamente, mi rendo conto che è il padre che vorrei. Che Oliver è stato fortunato. Che ha avuto un grande papà. Non come me.
Quando mi lascia andare, mi osserva per qualche istante.
- Lo sai che questo non è un addio, vero, signorina? –si accerta.
Abbasso lo sguardo in un sospiro.
- Lo so. –mento. Mento spudoratamente, perché non è vero. Non lo so. Non lo so affatto. Però lo spero. E forse, è quasi la stessa cosa.
- Vengo anch’io. –s’intromette Sofia, sorridendo a disagio –Credo di dover tornare a casa.
Il cuore mi si alleggerisce all’improvviso.
- Grandioso. –sorride mamma.
- Okay. –Luisa abbraccia la sorella, poi si rivolge a me –Ciao, tesoro.
Abbraccio anche lei.
Poi tocca ad Allie, mentre Sofia fa il giro di saluti.
- Ci sentiamo, promesso? –mi domanda, porgendomi il suo cellulare.
Sorrido, mentre salvo il mio numero in memoria.
- Promesso.
Mi volto lentamente, sapendo a chi tocca ora.
Lui è lì, accanto alle scale, con quel suo sorriso serial killer.
Mi avvicino gongolante.
Non mi abbraccia, non mi stringe al suo petto, non mi quasi-bacia, non si muove. Continua a sorridere incantato.
- Non abbiamo tutto il giorno. Ti decidi a baciarla o devo farlo io? –è la voce di Scott, affannata, tipica di qualcuno che ha corso. Mi volto appena per scorgere la sua figura e ridacchiare.
- Ma tu guarda che impiccione –ride Oliver.
- Se non ti decidi, io mi offro volontario –e questo è Jay. Sorrido al pensiero che nonostante tutto quello che predica, è venuto a salutarmi.
Mi volto nella loro direzione, dando le spalle ad Oliver.
- E voi che ci fate qui? –domando loro, avvicinandomi.
- Siamo venuti a salutarti, ovvio. –risponde pronto Scott sorridendomi dolcemente.
All’improvviso mi viene un’incredibile voglia di abbracciarlo.
- Oh, Scottie. –gemo, mentre lui mi avvolge con le braccia fino a farmi scomparire nel suo petto, come della gelatina.
Ricambia la stretta, il che mi scalda il cuore.
Quando mi lascia andare, Jay mi sorride con quel suo ghigno furbo.
- Ti offri volontario, eh? –lo canzono, ridendo.
Lui sbuffa ed alza gli occhi al cielo.
- Era per dire.
- Certo.
Mi abbraccia.
E manca ancora Oliver. Forse è il destino che non ci lascia abbracciare.
- Alcott?
Mi giro in direzione della sua voce.
Mi guarda impaziente, con un’espressione che urla “ti sei per caso dimenticata di me?!”, le braccia allargate.
Ridacchio.
- Alcott? –domanda mio padre corrugando la fronte.
Non lo guardo nemmeno.
Ritorno da Oliver, sospirando.
- Eccomi.
- Eccoti.
Qualcuno ha intenzione di fare qualcosa? O stiamo giocando alle belle statuine?
Poi il suo viso si contorce in una smorfia.
- Vieni. –gracchia.
Mi stringe al suo petto. Ed improvvisamente, anche per lui tutti i miei timori diventano realtà. Non sappiamo quando ci rivedremo. Non sappiamo se ci rivedremo. Questa potrebbe essere l’ultima volta.
Restiamo abbracciati per quella che pare un’eternità, gli occhi chiusi.
Qualcuno si schiarisce la voce.
Oliver mi lascia andare. Lo guardo negli occhi, mentre mia madre mi porge la giacca. La infilo.
Guardo di nuovo nella sua direzione.
Sospiro.
- Farai grandi cose. –mormoro solo in un sorriso triste.
- Anche tu, baby girl. Davvero.
Sorrido un’ultima volta, poi seguo la mia famiglia nel freddo canadese, dando le spalle alla porta. Sento gli occhi di Oliver addosso.
- Aspetta, Rachele!
Mi volto di scatto, in tempo per vedere Oliver corrermi incontro. Lo guardo stranita, mentre i miei genitori e Lucas si fermano accanto al taxi.
Arriva a pochi centimetri da me. Inarco un sopracciglio.
- Cosa c’è? –sussurro scrutando il suo volto. Prende un profondo respiro, poi fa un mezzo sorriso sghembo.
- Mi ero solo dimenticato di fare una cosa. –spiega con noncuranza.
Sistemo meglio la borsa sulla spalla, in attesa che continui.
- Ovvero? –lo incalzo quando non prosegue.
Si avvicina pericolosamente, un luccichio negli occhi. E poi capisco.
Mi prende delicatamente il viso tra le mani e posa le sue labbra calde sulle mie. Mi stringe a sé, ed io mi dimentico di tutto.
Sta accadendo sul serio. Oliver Dawn mi sta baciando. Ed è semplicemente tutto.
Rispondo al suo bacio, mentre lo sento sorridere a ridosso della mia bocca.
Si separa un poco da me, mi guarda negli occhi. E sorride. Sorride come non l’ho mai visto prima. Illuminante.
- Quant’era che volevo farlo –mormora con quella sua voce sexy, carezzandomi una guancia.
Sorrido.
- Mi pareva di averlo capito –lo prendo in giro, prima di baciarlo ancora una volta.


Guardo il tabellone dei voli. Milano. Tokio. New York. Venezia.
Sposto lo sguardo sulle persone che, rumorose, mi circondano. Una donna che corre affannata verso un gate, stretta in un foulard fiordaliso. Una famiglia che, rilassata, è appena tornata dalle vacanze natalizie. Quando noto una coppia di fidanzatini che si sta salutando, distolgo lo sguardo contorcendo il viso in una smorfia.
Rivedo il sorriso di Oliver, inconsciamente mi sfioro le labbra con due dita, quasi sento ancora il suo sapore.
Seduta sulla mia valigia, prendo a giocherellare con il tesserino delle informazioni sul bagaglio.
Nella panchina accanto a me, si siede mio padre. Gli lancio un’occhiata, poi torno al trolley azzurro.
Si schiarisce la voce, stringendosi nella sciarpa a scacchi che costerà, all’incirca, il doppio dei miei risparmi messi insieme. Ha una tazza di ceramica fumante in mano.
- Tua madre ha portato Lucas a prendere qualcosa di caldo. –m’informa.
Sospiro.
- Senti, tesoro...
- Rachele –lo correggo stancamente.
Rimane interdetto per un nanosecondo, poi prosegue.
- Senti, Rachele... mi dispiace. Mi dispiace per averti abbandonato, mi dispiace per averti mentito, mi dispiace per averti trascinato via così da Oliver. Mi dispiace di aver creato questo screzio tra te e tuo fratello, mi dispiace di averti messo in questa situazione. Ma, a mia discolpa...
- Il fatto che stai morendo non giustifica niente, Enrico. –taglio corto, in tono glaciale.
E’ scosso, glielo si legge in faccia. Nonostante ciò, continua a concentrarsi sulle persone davanti a sé. Abbassa lo sguardo sulla tazza ormai vuota, con una bandiera canadese stampata sul davanti.
- Solo, mi dispiace. –mormora piano.
Fisso la tazza, mentre parlo.
- Sono solo parole. –ricordo sprezzante –Parole.
- Lo so, però...
- Lancia la tazza a terra. –lo blocco.
- Come? –mi guarda stranito.
- Fallo e basta.
Dopo qualche secondo di esitazione, mi dà retta e, con un rumore assordante, la ceramica finisce in mille pezzi sul pavimento lucido dell’aeroporto.
- Chiedigli scusa.
La sua espressione tradisce tutto il suo sconcerto. Non demordo.
- Mi dispiace –sussurra rivolto a quella che prima era un’allegra tazza patriottica.
- E’ tornata come prima?
- No. –lo sussurra e dal suo sguardo capisco che ha capito. Mi chino a terra e raggruppo tutti i frammenti, poi li butto nel cestino accanto ai bagni.
Quando torno da lui, sta ancora pensando all’accaduto. Sofia ci raggiunge dopo una fermata in un negozietto di souvenir dell’aeroporto, raggiante, mostrandoci la colorata pashmina che ha trovato a soli cinque dollari.
Le sorrido, le dico che è molto bella.
Infilo le cuffiette e premo play.

Mi massaggio le tempie, mentre Sofia si agita sul sedile e spalanca le palpebre.
- Buongiorno –mi sorride –Quanto ho dormito?
- Oh. Mancano cinque ore, più o meno –cerco di ricambiare il suo sorriso, poi distolgo lo sguardo e lo riporto sulle mie dita intrecciate tra loro.
Fa un sospiro.
- Su, tesoro.
Mi volto a guardarla con aria interrogativa. Mi sorride materna.
- Saresti dovuta tornare a casa comunque –mi ricorda –Smettila di essere arrabbiata.
- Non mi pareva comunque il caso di mettere su una scenata del genere –sottolineo bofonchiando.
- Non c’è stata alcuna scenata.
Le lancio un’occhiata, poi mi rannicchio sul sedile, poggiando il mento sulle ginocchia.
- Sai... Oliver è proprio innamorato. –se ne viene fuori, sognante.
La mia occhiata scettica la spinge a proseguire.
- Dopo Alyssa, non pensavo riuscisse ad innamorarsi di nuovo...
- Che cosa?!! –strillo, beccandomi un’occhiataccia dall’assistente di volo.
Sofia arrossisce violentemente, sistemandosi la pashmina nuova sul collo. Guarda altrove imbarazzata.
- Sì, ecco... tu... non lo sai?
- Sapere cosa?
Mi sento crollare. Oliver era innamorato di Alyssa? Quella Alyssa?
Sofia mi guarda di striscio, sbuffando.
- Accidenti a me. –borbotta tra i denti.
La guardo con gli occhi spalancati, non sapendo da dove reperire le forze.
- Non so se posso dirtelo... –mi guarda dispiaciuta.
Lentamente, abbasso lo sguardo sui miei piedi.
- Sì, be’, mi pare un po’ tardi –sottolineo in un soffio.
Sofia fa una smorfia, poi si guarda le unghie. Mi esamina per un po’, poi pare arrivare alla conclusione che se non vuole che combini qualche casino internazionale, è meglio che vuoti il sacco.
- Prendi con le pinze quello che ti dico, okay? –fa un piccolo sorriso, ma tutto quello che riesco a fare io è guardarla con occhi vuoti.
Nella mia testa risuonano ancora gli insulti di Alyssa.
“Insomma, guardati”. “Sarebbe alquanto imbarazzante se avessi mire espansionistiche su Oliver”.
Deglutisco annuendo.
- Bene. Allora. –prende un profondo respiro –L’anno scorso, come ben già sai, Oliver viveva ancora in Canada. La sua era una vita tipo quella dei film americani. Un gruppo di amici divertenti, una famiglia amorevole, un liceo con le cheerleader e i giocatori di hockey. Era felice. Tutto quello che gli mancava era una fidanzata. Dopo, la sua vita sarebbe stata proprio perfetta.
Sposto lo sguardo altrove.
- E poi eccola. La dolce e bellissima Alyssa che, con la scusa di non riuscire a fare un esercizio di geometria, si avvicina ad Oliver. Lui era innamorato perso, Rachele. Sono stati insieme sei mesi esatti. Poi lei l’ha mollato dicendo che era tutta una scommessa. E’ venuto fuori che durante la loro relazione Alyssa aveva... ehm... frequentato anche altri ragazzi. Aveva vinto cento dollari, portando a termine la scommessa. Scott aveva sentito la ragazza parlarne con un’amica quando stavano ancora insieme e l’aveva detto ad Oliver. Ma siccome lui aveva occhi solo per Alyssa, ha inveito contro Scott difendendo sempre e comunque la reginetta. Ne è uscito distrutto, credimi. Aveva il cuore spezzato. Per un po’ è stato un pezzo di ghiaccio, tesoro. Pensavamo non si sarebbe ripreso mai più.
Se potessi, scenderei da questo aereo, nuoterei fino al Canada, andrei a cercare Alyssa e la picchierei. Come ha potuto fare una cosa simile? Come ha potuto fare una cosa simile ad Oliver? E’ un ragazzo così carino e premuroso, quella brutta strega puttanella non ha fatto altro che prenderlo in giro per sei mesi per che cosa? Cento dollari? Ma chi si crede di essere?
Sofia deve notare la mia rabbia, perché mi guarda di sottecchi.
- Rachele?
- Uhm?
- Tutto bene?
- Oh certo. A meraviglia.
E poi la verità mi colpisce come un macigno. Oliver la amava. E se fosse ancora innamorato di Alyssa?

Quando vedo Arianna saltellare in aeroporto, con un cartello stretto tra le mani che recita “LA MIA MIGLIORE AMICA”, gli occhi mi si riempiono di lacrime.
Accanto a lei, Cami batte le mani eccitata, saltando da una gamba all’altra. Ed, invece, se ne sta fermo lì, con una grande freccia gialla rivolta verso il cartello di Ari. Sopra, c’è disegnata una corona.
Come mi notano tra il mare di persone, iniziano a farmi ciao con le mani, chi a gridare il mio nome e chi a saltare letteralmente di gioia.
Lascio cadere i bagagli e corro loro incontro.
La prima che abbraccio è Arianna.
- Ele! –esclama ridendo, stringendomi –Quanto mi sei mancata!
Quando mi separo da lei, Cami mi si para davanti, elettrizzata.
- Allora, com’era il Nuovo Mondo? –domanda strapazzandomi in un abbraccio fin troppo stretto. Rido, mentre Ed mi picchietta su una spalla.
- Posso avere l’onore? –mi domanda inarcando un sopracciglio.
Mi asciugo le lacrime che non mi ero nemmeno accorta di versare e lo abbraccio.
Quando ci separiamo e mi volto, i miei genitori e Lucas sono immediatamente dietro di me. Mia madre sorride e saluta i miei amici, che però guardano cauti l’uomo che stringe la mano di Lucas.
Vedo la mascella di Arianna irrigidirsi.
- Ragazzi, che carini! Siete venuti fino a qui per Rachele? –cinguetta mia madre. In lontananza vedo Sofia farsi strada verso l’uscita. Mi saluta e mi sorride comprensiva.
Ari annuisce, mentre Cami prende a raccontare di quanto poco traffico ci fosse stato in giro quella mattina.
Vedo Ed studiare piano Enrico, poi posare i suoi occhi su di me. E vedendo che abbasso lo sguardo, anche la sua mascella, per quanto possibile, si irrigidisce.

 

♥ ANGOLO AUTRICE ♥

Allooora??? Beh??? Che mi dite??

Sono trooppo curiosa.

Questo è uno di quei capitoli BOMBA.

Sisonobaciatisisonobaciatisisonobaciati! *trilla eccitata*

Le verità su Alyssa, ora sapete pure questa! Quanto mi amate, eh? XD

Okay, okay. Mi rilasso. Ci sono così tante cose da commentare.

E, nel caso, non preoccupatevi: le recensioni lunghe sono la mia vita.

Il prossimo capitolo, il numero 30, sarà qualcosa di speciale:

 

Ma invece mi avvicino a Nene, mi siedo accanto a lei sul letto e la stringo in un abbraccio. Prendo a raccontarle a raffica le favole, alzando la voce più che posso, tentando di coprire quelle grida, quei rumori di bottiglie che si infrangono contro i muri.

 

Chi sarà mai il nostro narratore?

 

 

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Capitolo 30
*** 30. - Edgardo ***


 

30. – Edgardo

 

  

Accompagno la porta d’ingresso, sperando con tutto me stesso che stia dormendo.

Sgattaiolo nel salotto, ma poi la vedo.

Distesa in malo modo sul divano, un’immancabile bottiglia di vodka stretta tra le dita.

- Sei tornato –constata strascicando le parole, per poi scoppiare a ridere amareggiata –Vai, vai, che tanto qui non abbiamo bisogno di te, piccolo ingrato.

Sospiro, grattandomi la testa.

- Nene? –domando.

- Quella piccola strega è in camera sua. –risponde dopo un po’, tirandosi su a sedere e buttando giù un altro sorso di alcol.

Faccio per salire le scale, quando caccia un urlo.

Mi appoggio al muro, chiudo gli occhi e sospiro, mentre mia madre prende ad inveire contro quel lurido bastardo che l’ha abbandonata.

  

Busso piano alla porta della camera di mia sorella.

Si apre al contatto, così entro nella stanzetta.

Nene è seduta sul letto, si stringe al petto la mucca di peluche alla quale è affezionata da quando aveva tre anni.

Mi guarda con quei suoi occhioni grandi.

- Ha ricominciato ad urlare –sussurra spaventata.

Mi si stringe il cuore, e tutto quello che vorrei fare è scendere al piano di sotto, prendere a sberle quella donna e strillarle di svegliarsi, che non è così che funzionano le cose.

Ma invece mi avvicino a Nene, mi siedo accanto a lei sul letto e la stringo in un abbraccio. Prendo a raccontarle a raffica le favole, alzando la voce più che posso, tentando di coprire quelle grida, quei rumori di bottiglie che si infrangono contro i muri.

La bimba pare rilassarsi e, dopo un po’ si addormenta.

  

La porta sbatte ancora, e questa volta tiro un sospiro di sollievo. Se ne è andata.

Ad ubriacarsi altrove, probabilmente, ma non m’importa. Basta che stia lontana da mia sorella. Attento a non svegliarla, sfilo il cellulare dalla tasca e compongo il numero di Cami. Lo fisso per qualche secondo, poi lo cancello e ne compongo un altro.

- Pronto?

La sua voce affannata mi fa sorridere.

- Ti va di raggiungermi?

- Non aspettavo altro che una scusa per uscire da questa casa. Mandami l’indirizzo, arrivo subito.

 

- Non guardare il casino. Cerco di riordinare, ma lei puntualmente ha un’altra crisi isterica e...

- Non preoccuparti –mi sorride calorosa la ragazza.

Le sorrido grato, prima di condurla al piano superiore.

- Allora, ti sei divertita quest’ultimi giorni? –le domando, affiancandola.

- Ti riferisci al periodo con mio padre o a quello con Oliver? Perché sono uno l’opposto dell’altro –sospira piano Rachele.

Ridacchio.

- A quello con Oliver –le confesso, precedendola nel corridoio.

- Dio, è stato bellissimo! –squittisce emozionata.

Rallento un po’ passando davanti alla stanza di Nene, per assicurarmi che dorma, poi proseguo verso la mia camera.

Rachele si guarda attorno, poi si siede sul bordo del letto.

- Bellissimo, eh? –ammicco nella sua direzione. In tutta risposta, lei arriccia il naso.

- Ed! –esclama indignata –Non in quel senso! Pervertito.

Ridacchio, sedendomi davanti a lei.

- Ti ha baciata, almeno? –le chiedo sorridendo. So già la risposta. Gliela si legge in quel sorriso sognante che non l’abbandona un secondo.

- Ma chi sei, mia madre? –mi spintona amichevolmente, ridendo.

- E’ un sì? –la incalzo.

Mi guarda sorridendo, distende le gambe davanti a sé e poi fissa un punto indistinto davanti a noi.

Sospira serena.

- E’ un sì –gongola arrossendo.

E’ così tenera.

- Andiamo, principessa, voglio i dettagli.

Scoppia a ridere. Si porta una ciocca di capelli dietro l’orecchio, pensierosa.

- Ci siamo avvicinati tanto. –confida piano –E’ stato magnifico. E oh! Ha vinto il concorso!

- Cosa? –esclamo sorpreso. Gli occhi di Rachele si accendono, mentre batte le mani eccitata.

- Sì, ti dico! Ha vinto! E’ stato grandioso, Ed! Grandioso! Era così contento! Ci siamo abbracciati spesso, ora che ci penso. –si ferma un attimo a riflettere, poi l’entusiasmo di prima si impadronisce di nuovo di lei –E mi ha trattato come una principessa, Ed, io... io ero tra le stelle. E’ stato così bello... E quando mi ha baciato, Cristo... Era come se tutto l’universo si fosse messo ad urlare! Sua sorella è grandiosa, oh, e i suoi due migliori amici sono semplicemente fantastici! Li adoro! Sono tutti alti e Scott mi tratta come se fossi la sua migliore amica e in un certo senso credo che siamo sulla buona strada e oh! Il padre di Oliver! Mi chiama sempre “signorina” ed è così elegante e disponibile e amorevole...

La guardo divertito, mentre parla a macchinetta. E’ così bello vederla contenta.

Se ne accorge, e sorride impacciata.

- Scusa, mi sono messa a parlare a raffica. –bofonchia abbassando lo sguardo.

- No, ti prego. Era troppo bello. –la spingo a proseguire –Hai conosciuto qualcuno che non ti sta tanto a genio?

Fa una smorfia.

- Oh sì. La ex di Oliver.

- O-o. –socchiudo gli occhi, mentre mi racconta di Alyssa, di come sia insopportabile, di come abbia spezzato il cuore ad Oliver e di come lei abbia voglia di spezzarle il collo.

- Ma che mi dici di te e Cami, piuttosto? –cambia argomento all’improvviso, sorridendo furba e guardandomi con l’aria di una che la sa lunga.

Sorrido e distolgo lo sguardo.

- Te l’ha già detto?

- Oh, no. E’ piuttosto svenuta dal nervosismo.

Scoppio a ridere, ma poi Nene entra nella stanza piangendo.

Rachele la guarda, addolcendosi subito.

- Nene –la chiamo, mentre, piangendo, viene ad abbracciarmi –Un altro incubo?

Annuisce singhiozzando.

Rachele si alza e si accuccia davanti a me. Sorride.

- Ciao. –si rivolge dolcemente a Nene, posando una mano delicata su quella piccola e cicciottella di Nene –Io sono Rachele. Tu come ti chiami?

Nene tira su con il naso, si asciuga le lacrime.

- Irene.

- Oh, ma che bel nome! Lo sai che è uno dei miei preferiti?

Irene smette di piangere e guarda la ragazza.

- Davvero? –domanda esitante.

- Oh, sì. Tutte le mie bambole si chiamano come te.

Nene sorride e scende dalle mie gambe.

- Vuoi giocare con me?

La sua richiesta mi lascia spiazzato. Nene non vuole giocare mai con nessuno. La maggior parte del suo tempo libero lo passa a fare conversazioni profonde con quella sua mucca di pezza.

Rachele scatta in piedi, sorridendo.

- Certo! –esclama, mentre Nene la prende per mano e la trascina in camera sua. Le seguo sorridendo.

 

- Il vestito blu? Cosa? No, ti prego. –Ele fa una smorfia, appoggiando un vestito bianco sulla bambola bionda –Quando mai si è vista una sposa vestita di blu scuro?

Nene la guarda accigliata, sventolando un abitino blu in aria.

- Okay, ma il bianco è un colore molto più classico, Nene. –si corregge in un borbottio la ragazza, pettinando i capelli dorati del giocattolo.

- Ma chi ha detto che la mia bambola è una tipa classica? Guarda che Josephine è un’ex rockettara.

Rachele mi lancia un’occhiata divertita.

- Scusa, non lo sapevo. –torna a rivolgersi a Nene, che sorride trionfante, e le porge la bambola, così che possa vestirla.

Mentre aspetta, controlla l’ora sul cellulare.

- Dio, si è fatto tardi! –esclama alzandosi dal tappeto rosa –Devo proprio andare.

Irene fa un broncio.

- Non ti puoi fermare ancora un po’? –chiede, il labbro in fuori.

- No, tesoro. Scusa. –Rachele fa un sorriso dispiaciuto, poi si avvicina alla bimba e la bacia sulla fronte -Magari un’altra volta.

Accompagno la mia amica alla porta.

- Grazie. E’ stato bello parlare con te, principessa. –le sorrido.

- Per questo mi hai chiamato? Per sommergerti di chiacchiere frivoli ed inutili? –ridacchia.

- Hai portato un po’ di allegria. Ci voleva.

Stira le labbra, una linea sottile.

- Mi dispiace per tua madre, Ed. Se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, fammi sapere. Magari potrei badare a Nene, ogni tanto, se ti va.

Le faccio un sorriso.

- Sarebbe grandioso. –la abbraccio stretta –Tu sei grandiosa.

Ride.

- Non esagerare.

- Se hai mai bisogno di sfogarti, sai dove trovarmi.

- Grazie.

Si chiude la porta alle spalle. Mi volto. E inizio a pulire.

 

 

 

 ♥ ANGOLO AUTRICE ♥

 

Eccomi.

E' stato un po' complicato aggiornare perchè l'ispirazione è volata via e il capitolo successivo a questo mi sta dando non pochi problemi...

Quindi, se avete qualche idea da suggerire, qualche personaggio che vi piacerebbe approfondire, qualche domanda... è tutto ben accetto, anzi, sarebbe perfetto.♥

 

Riguardo a questo capitolo... Ed. Una piccola finestra sul suo mondo.

So che avevate piacere di conoscerlo meglio, per cui eccolo qui.

 

E anche, grazie alle mie amate recensitrici (inventiamo nuove parole, yee), che non ho avuto il tempo di ringraziare privatamente per lo scorso capitolo!

 

Baci,

emmegili

 

 

 

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Capitolo 31
*** 31. - Oliver ***


I'm gonna pick up the pieces
And build a Lego house
When things go wrong we can knock it down

Lego House - Ed Sheeran

 

31. – Oliver

Fuori nevica.
Osservo i punti bianchi fioccare giù dal cielo, sorseggiando del caffè nero bollente.
La casa è silenziosa: sono l’unico sveglio. Forse, la neve rende tutto ancora più muto.
Sono avvolto da quella sensazione di ovazione, protezione, calma che ogni anno i fiocchi bianchi portano con sé.
Amo la neve.
E’ mattina presto. Forse addirittura prestissimo, per gli standard delle vacanze natalizie.
E questo, noto con una punta di nostalgia mentre Frizzle viene a strofinarsi sui miei polpacci, è il mio ultimo giorno a casa.
Ho bisogno di riordinare i pensieri.
Quindi, badando a non inciampare nel gatto, raccatto le scarpe da ginnastica, tiro su il cappuccio della felpa e vado a correre.

L’effetto neve persiste ancora, facendomi rimbombare nelle orecchie il rumore dei passi sul terreno ghiacciato.
Il battito accelerato del cuore, quasi ritmico, il respiro regolare, il passo spedito, la nuvoletta di aria che si condensa ogni volta che espiro.
E’ ormai un’ora che corro. Eppure non sono stanco, l’adrenalina scorre nel mio corpo.
Proseguo, una falcata dopo l’altra, mentre rivivo i ricordi degli ultimi giorni nella mie mente.
Il cellulare vibra nella mia tasca.
Ne approfitto per fermarmi, le mani sulle ginocchia. Prendo tre respiri profondi mentre afferro il telefono e premo il tasto verde.
- Pronto? –ansimo in un soffio, stringendo gli occhi.
- Oliver? –la voce di Sue, calda dall’altra parte del telefono, è quasi scettica –Cosa stavi facendo, ragazzo?
Respiro a fondo, ancora, prima di risponderle.
- Correvo. –ribatto semplicemente.
- Con questo freddo? Le previsione mettono tanta neve e tanto, tantissimo freddo in Canada, in questo momento. –nel suo tono riesco a scorgere l’ombra di un ammonimento, ma non riesco a coglierlo in tempo per salvarmi.
- Ah-ah. –continuo, iniziando a camminare verso casa.
- Ti sei coperto la gola, vero, Dawn?
Ed eccolo lì, un colpo al cuore, un flashback vero e proprio, che mi fa girare la testa.
L’unica che mi abbia mai chiamato per cognome è stata Rachele.
Bene, ero andato a correre per dimenticarla. Missione compiuta.
- Oliver? Pronto? Ci sei?
- Che? Ah. Sì.
Sue sospira.
- Senti, capisco che devi mantenerti in forma per fare il playboy, ragazzo, ma devi anche tener conto...
- Scusa? –mi blocco nel bel mezzo del viale.
- Sì. Per le tue fan.
Ammutolisco, togliendomi il cappello nero e passandomi la mano tra i capelli, mentre i fiocchi di neve si posano delicati tra i ciuffi.
- Cosa significa, Sue?
- Che se sei un gran figo, attirerai più pubblico. A proposito di questo...
Faccio uno più uno in un nanosecondo, prendo a scuotere la testa.
- No.
- Non ho nemmeno... –obbietta piano la donna.
- Scordatevelo. Non mollerò Rachele per il pubblico, nemmeno dovessi morire oggi stesso.
Sue resta zitta, il che peggiora la situazione.
- Le tue fan sogneranno di incontrarti, conquistarti e poi sposarti. Come potranno farlo se sei fidanzato? Ci rinunceranno in partenza e smetteranno di ascoltare la tua musica.
- Be’, non sarebbero vere fan. Uno ti piace per le sue canzoni, non per il suo bel visino.
- Siamo d’accordo, Oliver, ma sappiamo benissimo che il numero delle ragazze che compreranno un tuo ipotetico CD solo per il tuo bel visino saranno gran parte del totale e che senza di loro gli affari crolleranno.
- Che schifo. Mi rifiuto di fare musica in questo modo. –sono schifato, guardo con rabbia la neve scendere dal cielo.
- Non essere sciocco.
- Oh, non penso proprio di esserlo. –sbotto, innervosendomi –Voglio veri seguaci, che mi amano per la mia musica. Se parto già con il presupposto di avere una fidanzata, che poi fidanzata proprio non è, almeno avrò la certezza che tutte le persone che mi supporteranno lo faranno per le mie canzoni e non per il mio aspetto fisico.
- Oliver... non funziona così.
- Be’, allora io mi ritiro.
- Non puoi –la risata amara di Sue squarcia l’aria –Hai firmato un contratto, ricordi?
- Non c’era alcuna clausola a proposito di questo –sottolineo, alzando gli occhi al cielo.
Ormai ho raggiunto il portico di casa.
- Lo so. Ma devi fidarti di me.
- Io la amo.
- Non esagerare... potrete sempre riprovarci tra un po’ di anni.
- Facile giocare coi sentimenti degli altri, vero, Sue?
- Oliver...
- Io ho chiuso.
- Tu non hai chiuso.
- Troverò una soluzione.
- Buona fortuna.
Chiudo la telefonata con rabbia.
- Cazzo.

Sbatto la porta alle mie spalle, facendo sussultare Scott, seduto sui gradini della scale che portano al piano di sopra.
- Oliv...
- Cosa hai? –ringhio stancamente.
Scott mi osserva con attenzione, poi salta felino già dalle scale e mi raggiunge. Braccia incrociate al petto, mi sfida a non ascoltarlo.
- Cosa è successo?
Sospiro, massaggiandomi le tempie.
- Lasciami fare una doccia, prima –lo prego, guardandolo in quei suoi occhi celesti.
Capisce, coglie al volo che c’è qualcosa che non va. Mi stringe una spalla, stira le labbra e annuisce.
- Olly, ehi. Sei tornato. –Allie compare nell’ingresso, allegra. Osserva la scena e si spegne un poco.
- Allie. –Scott le sorride, avvicinandosi, con l’intenzione di lasciarmi solo.
Allison si scosta dalla presa morbida di lui sul suo braccio.
La guardo, distrutto.
Lei deglutisce, preoccupata. Lancia un’occhiata al mio amico, poi annuisce e, tirandosi dietro Scott, scompare da dove è venuta.
Appoggio una mano sul legno freddo del corrimano delle scale, guardando in alto.
Chiudo gli occhi, sospiro e prendo a salire, fino ad arrivare in bagno. Apro l’acqua calda, il rumore del liquido che cade sulla ceramica mi aiuta a non pensare.
Quando ormai la stanzetta è avvolta dal vapore, mi spoglio ed entro nella doccia.
L’acqua è bollente, ma non ci faccio caso. Appoggio la testa alle mattonelle umide del muro, apro appena la bocca per regolarizzare il respiro.
Stringo le dita in due pugni.
Non ho intenzione di lasciare Rachele. E’ stata l’unica in grado di tirarmi fuori dal baratro in cui ero caduto dopo Alyssa, la luce in fondo al tunnel.
L’acqua continua a scorrere, percorre il profilo del naso, delle labbra, del mento.
La luce in fondo al tunnel.
La luce in fondo al tunnel.

- Cavolo, Oliver. Mi spiace. –Scott mi guarda dispiaciuto, passandosi una mano sul volto –Cavolo, amico.
Si avvicina e mi abbraccia.
Scott non mi ha mai abbracciato. Nemmeno quando ho scoperto la verità su Alyssa, quando il mio mondo è caduto a pezzi.
Eppure ora, eccolo qui. La cosa mi spiazza non poco, ma ho problemi più grandi a cui trovare una soluzione.
Forse è per questo che lo ha fatto: ha capito che questo giro è un casino sul serio.
Scott mi lascia andare, quella smorfia stampata in faccia.
- Gliel’hai già detto? –domanda piano.
- A chi?
- A Rachele. Chi, se no?
Mi blocco. Il mio migliore amico nota la mia confusione e mi precede:
- Devi dirglielo. Non puoi prendere certe decisioni alle sue spalle, Oliver. Riguarda anche lei.
Sospiro.
- Sai benissimo che cosa mi direbbe.
- Sì, lo so.
- E non posso permettermelo, di perderla. Di lasciarla andare.
Mi siedo sconfortato su una sedia della cucina. Scott mi stringe una mano sulla spalla.
- Non puoi nemmeno lasciare la tua carriera nascente, però.
Incrocio il suo sguardo.
- Sarei mille volte più felice a pulire bagni con la ragazza che amo, piuttosto che a firmare autografi solo come un cane.
- Okay, ho capito.
Scott alza le mani in segno di resa, facendo un passo indietro.
Affondo le mani tra i capelli, sconsolato. Sbuffo, massaggiandomi le tempie.
Mia sorella irrompe nella scena, sorridente.
- Andiamo in biblioteca! –annuncia Allie indicando con un dito Scott, che mugola qualcosa –E tu mi accompagni, Scottie caro.
Il ragazzo mi lancia un’occhiata disperata, ma non riesco proprio a sorridergli.
- Torniamo presto! –trilla mia sorella stampandomi un bacio sulla guancia e trascinando fuori un lamentoso Scott con sé.

- Ti prego.
Osservo Alyssa svogliato.
Indossa un cappello di lana calcato bene in testa, i boccoli biondi che le ricadono morbidi sulla giacca rosa acceso che indossa.
Tempo fa, avrei detto che era bellissima. Ora, mi provoca solo una fitta al cuore e un ribollio di rabbia in fondo al petto.
Sorride, pregandomi.
- Solo un caffè, Oliver. Devo parlarti. Per favore. –mi guarda speranzosa, e quasi sembra la vecchia ragazza di cui mi ero innamorato.
- Alyssa, no. Non è un buon momento.
- Mezz’oretta, niente di più. Andiamo. –piagnucola, spostando il peso da una gamba all’altra.
Sospiro, guardando la sua auto parcheggiata nel vialetto, alle sue spalle.
- D’accordo. –scrollo le spalle, prendendo la giacca dall’appendiabiti e chiudendomi la porta alle spalle.
Alyssa sorride soddisfatta, fa tintinnare le chiavi dell’auto, gira i tacchi e sale a bordo.
Resto immobile a riflettere per un altro secondo. Poi scuoto la testa, maledicendomi, e la imito.

L’aria calda del Molly’s è un piacere.
Alyssa continua a parlare a macchinetta, le mani avvolte attorno alla tazza di ceramica contenente il cappuccino che ha ordinato.
- Oliver? Ehi? –la bionda sbatte le ciglia, attirando la mia attenzione.
- Scusa. Dicevi?
- No... ehm. Devo dirti una cosa importante, ho bisogno che mi ascolti. –tossisce, quasi timida.
Allargo le braccia leggermente, come a dirle che sono qui e non me ne vado. Non ancora.
Non so perché, ma più tempo passo con lei, più mi sento in colpa nei confronti di Rachele.
- Volevo chiederti scusa –la sua mano scatta sulla mia, e il mio sguardo sulle nostre dita. Poi le lancio un’occhiata, intimandole di scostarsi, ma Alyssa è troppo presa dal suo racconto per accorgersene.
- Sono stata una stronza e... mi dispiace. Ti ho ferito, mi dispiace. Mi sento terribilmente in colpa.
- Un po’ tardi, non ti pare? –mi schiarisco la gola, distogliendo lo sguardo.
- Lo so, lo so. Scusami. Il fatto... il fatto è che io ti amo ancora, Oliver. Mi manchi.
Faccio scattare lo sguardo su di lei, stanco.
- Te l’ho già detto, Alyssa.
- Lo so, ma fammi finire. –la sua mano si stringe attorno alla mia, si sporge verso di me.
Roteo gli occhi, deglutendo giù tutto il dolore passato che sta tornando a galla.
- Sono cambiata e posso cambiare ancora. Ho solo bisogno di una possibilità. Dammi una seconda possibilità, Oliver. Una sola. Posso renderti felice.
Ora è talmente vicina che sento il battito del suo cuore.
Scuoto la testa.
- Alyssa...
- Ho sbagliato. Lo so. Voglio rimediare.
Fisso i miei occhi nei suoi, pregandola di lasciarmi andare.
- Lasciami andare, Alyssa. –deglutisco, mentre sento già gli occhi pizzicarmi –Lasciami andare.
Il cellulare prende a vibrarmi nella tasca. Alyssa abbassa lo sguardo sui miei pantaloni.
E poi mi stampa un bacio sulle labbra, prima di ritrarsi, raccattare la sua roba e uscire dal locale.
Fisso il muro, in trance. Mi ha baciato.
Cazzo, mi ha baciato.
Cazzo.
Il vibrare del telefono mi riporta alla realtà.
Il solo pensiero che a chiamarmi possa essere Sue o, ancora peggio, Rachele, mi terrorizza. Nonostante ciò lancio un’occhiata allo schermo e, quando leggo il nome di Allison lampeggiare sul cellulare, allungo una mano e rispondo.
- Pron...
- Oliver –Allie singhiozza. Il cuore mi sprofonda nel petto e tutto si blocca.
- Allison? Allison!
- Oliver... Scott... Noah...
- Noah?
- Stavamo uscendo dalla biblioteca, quando abbiamo... abbiamo visto Noah... Noah che si stava... Oddio... –Allie scoppia in lacrime, ancora.
- Allie, calmati e dimmi cosa è successo.
- Noah stava baciando un’altra, Oliver. –la voce le trema –L’ho visto e sono scoppiata a piangere e Scott... Dio, Oliver. Aiutami, ti prego!
- Scott cosa? Allie, cosa sta facendo Scott? –cerco di mantenere la calma, ma il battito del mio cuore sta accelerando a velocità impressionante. Perché, sotto sotto, so benissimo cosa sta facendo Scott.
- Scott sta picchiando Noah, Oliver. Ti prego, vieni a fermarlo, Oliver, vieni a fermarlo.

Scott si asciuga il sangue che gli cola dal naso con la manica della maglietta, sotto il mio sguardo inquieto.
Allison si aggrappa a me, cercando di regolarizzare il respiro, mentre i paramedici controllano i valori a Noah, una decina di metri più giù.
Lo osservo attento, accarezzando la schiena di mia sorella per tranquillizzarla.
La ragazza che si stava limonando Noah gli sta avvinghiata come uno scoiattolo, lanciando continuamente occhiate di superiorità nella nostra direzione.
- Scusami, Allie. –Scott si alza e si avvicina ad Allison, che alza gli occhi languidi su di lui –Scusa.
Allie annuisce, poi affonda la faccia nel mio petto.
Do una pacca sulla spalla al mio amico, stirando le labbra.
Scott annuisce lentamente, lo sguardo e le orecchie basse. Si allontana piano, strascicando i piedi.
Non resisto. Affido Allie ad un paramedico lì accanto e lo rincorro.
- Scott. Ehi.
Lui si volta, mogio, e mi guarda.
- Grazie, amico. –gli sorrido –Avrei fatto lo stesso. Anzi, probabilmente l’avrei ucciso con le mie mani. Grazie per averla protetta quando non c’ero.
- Non l’ho protetta, Oliver. Ho menato il suo fidanzato davanti ai suoi occhi. Dovresti odiarmi.
Sospiro.
- Se fosse stata da sola, si sarebbe fatta male.
Scottie annuisce, sorridendo amareggiato.
- Si sistema tutto. –assicuro, abbracciandolo –Torno subito.
Noto Noah alzarsi e allontanarsi, dopo il via libera dei paramedici. Lascio Scott e corro per raggiungere lui e la ragazza.
- Noah. Fermati. –mantengo la calma quando lui si volta nella mia direzione con aria stizzita.
Conto fino a dieci, poi, dopo aver lanciato un’occhiataccia alla ragazza, proseguo:
- Stai lontano da mia sorella, hai capito? Non voglio più vederti in giro. –la mia voce fredda e distaccata non lo scalfisce nemmeno –Altrimenti, la prossima volta non sarà Scott a trovarti e non ne uscirai così bene. Intesi?
I suoi occhi brillano.
- Intesi? –ringhio, puntandogli un dito sul petto.
Annuisce.
- Bene. E ora sparisci.
Si allontana, assieme alla ragazza.
Mi ritrovo a guardarmi attorno, nel cielo ormai buio di sera, mentre la neve ricomincia a scendere dal cielo.
Alyssa mi ha baciato. Lo stomaco comincia a rodermi, inizio a sentirmi uno schifoso bastardo.
Ho tradito Rachele, per quanto di tradimento si possa parlare.
Noah ha tradito Allie, Scott l’ha menato.
Dovrò lasciare la ragazza che amo o la carriera che sogno.
Non so cosa fare.
Tutto lo stress si accumula in un’unica, enorme palla di emozioni.
Urlo, contro il cielo, mentre le lacrime prendono a scendermi giù per le guance.
Cazzo.

 

 ♥ ANGOLO AUTRICE ♥

E' passata un'altra settimana!

Questo capitolo è stato un vero e proprio parto, non avevo la più pallida idea di cosa scrivere. Ma poi, nella sua recensione, _Relativa_ ha detto che voleva vedere cosa succedeva dall'altra parte del mondo e be'... mi è venuto tutto di getto.

Non odiatemi. (nonostate abbiate più di una ragione per farlo: mi rendo conto che le speranze per la nostra coppietta sono fumate, ma aspettatevi di peggio)

Dal Capitolo 32:

Il mondo mi crolla addosso, il peso di mille elefanti mi cade sulle spalle.
- Cosa? –la mia voce è appena un flebile sussurro, non la sento nemmeno io.
Vengo avvolta da ovatta, assisto a tutto al rallentatore. Arianna scatta nella mia direzione, un’espressione sconvolta sul volto.

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 32
*** 32. - Rachele ***


What happened to perfect?

What happened to us?

We used to be worth it

We never gave up

It wasn't on purpose

But hurts like it was

Nobody deserves this

What happened to perfect?

What Happened To Perfect - Lukas Graham

 

32. - Rachele

Mi siedo sul letto, nella penombra. Mi passo le mani sugli occhi.
Mi guardo attorno mezza assonnata, mentre il mio cellulare prende a squillare nervosamente. Chi accidenti può essere quest’ora della mattina?
Mi allungo pigramente fino ad acciuffarlo e premo il tasto verde senza nemmeno leggere il nome sullo schermo.
- Pronto? –sbadiglio.
- Baby girl.
- Oddio.
Salto in piedi, la mano alla bocca. Dall’altra parte del telefono, Oliver ridacchia.
- Non volevo spaventarti. –dal suo tono capisco che sta sorridendo.
- Non mi hai spaventato. –mugugno, mentre mi ricordo improvvisamente di Alyssa e mi lascio scappare un lamento.
Quasi me lo vedo inarcare un sopracciglio.
- Che hai?
- Niente.
Risposta troppo affrettata, troppo scontata. Oliver sospira stanco, dall’altro capo.
- Rachele... –la sua voce pare aver perso ogni briciolo di allegria, si spegne, come se qualcosa gli fosse tornato alla mente e lo avesse rattristato.
- Niente, okay? Niente.
Mi infilo una vestaglia, lentamente.
- Se non ci fidiamo l’uno dell’altro, Rachele, come possiamo andare avanti? –ed ecco la conferma.
Colpo al cuore.
- Co...co...come?
- Cosa c’è che non capisci, Rachele? E non rispondere “niente”.
La durezza, la stanchezza e la scocciatura nella sua voce mi tagliano dentro. Rimango interdetta.
- Va tutto bene? –sussurro flebile.
- Non cambiare argomento.
- Io non...
- Rachele.
Mi viene in mente che non dovrei sapere quelle cose su lui e Alyssa. Mi viene in mente che una conversazione del genere non si dovrebbe affrontare al telefono. Mi vengono in mente tante cose, ma nemmeno una che possa tirarmi fuori da questa situazione.
Sbuffo.
- Mi stai dicendo che non possiamo farcela quando tra noi non c’è ancora stato niente, Oliver? –concludo, rispondendo solo ad una delle sue domande.
- Niente? Io non lo definirei “niente”. –voce fredda, cruda, distaccata.
- Sai che non intendevo questo.
- E cosa intendevi, allora?
- Ma si può sapere che cazzo hai? –sbotto allargando le braccia, guardando la tenda bianca che copre la finestra.
Lo sento sospirare.
- Lasciamo stare. Buona giornata.
E chiude la telefonata.

- Quel brutto bastardo. Come cazzo si è permesso di chiudermi il telefono in faccia? Stronzo. Idiota. Brutta merda.
Arianna inarca un sopracciglio e mi guarda sinistra.
Ed mi prende sottobraccio, mi scompiglia i capelli affettuosamente e sospira con fare esperto.
- La tua mancanza lo fa agire così, principessa, rilassati. –assicura in pace col mondo.
- Rilassati tu –ribatto acidamente, guardandolo male.
- E’ il dolore che parla, sicuramente. –interviene Cami fermandomi e poggiandomi le mani sulle spalle –Va tutto bene. Dovete solo abituarvi a questa nuova situazione.
- Mi ha detto che non abbiamo un futuro, Cami. Avresti dovuto sentire la sua voce. Sembrava fossi la rottura di palle più grande di questo mondo. Ed è stato lui a chiamarmi.
Mi scosto e cammino spedita lungo il corridoio, lasciandoli indietro.
Tempo tre secondi, ed ecco che li sento tacchettare veloci per raggiungermi.
- Aspetta, aspetta. Questo tuo cipiglio estremo non ti si addice, tesoro. –interviene Arianna, bloccandomi per un braccio.
Forse lo legge nei miei occhi, fatto sta che arraffa me e i nostri amici e ci trascina in un angolo.
- Sputa il rospo. Coraggio.
Sospiro, alzando gli occhi al soffitto.
Quando torno a rivolgermi a loro, ecco tre paia di occhi fissarmi curiosi.
- Andiamo. –mi incita Cami.
Così spiattello tutta la storia su Alyssa e su quanto mi stia innervosendo e bla bla bla.
Loro seguono il racconto rapiti, mentre il cuore mi sprofonda sempre più a fondo nel petto.
Fisso gli occhi sul pavimento, battendo nervosamente il piede a terra.
- Oh, ti fai solo che paranoie! –sbotta Ed quando ho terminato.
Lo guardo con tanto d’occhi, Cami ed Arianna che fanno altrettanto.
Ed si guarda attorno, mentre gli studenti sfilano tranquilli accanto a noi, poi si rivolge a me quasi sottovoce.
- Oliver è innamorato perso di te, principessa. Lo vedo, okay? L’ho visto. Il modo in cui ti guarda quando non lo noti, come gli si accendono gli occhi quando ti vede. Non devi preoccuparti di una sparta, mi hai capito bene?
Sgrano gli occhi.
- Una cosa? –domanda Cami battendomi sul tempo, strizzando gli occhi.
- Una sparta. –ribatte tranquillo Ed –Sai, per non dire troia.
- Edgardo! –strilla Arianna schiaffeggiandogli un braccio –Un po’ di decenza, ti prego.
Ridacchio.
- Carina, questa. –ammetto, meritandomi un’occhiata scioccata di Ari.
- Comunque, -interviene Cami –Ed ha ragione. Oliver ha occhi solo per te. Dovresti smetterla di preoccuparti così, tesoro.
- Sì, ma io cosa faccio? –piagnucolo, disperata –Non posso mica andare a dire ad Oliver “ehi, senti, sono gelosa di quella sparta!”.
- Perché no? –domandano all’unisono.
- Perché... no, okay?
- Far vedere ad una persona che hai paura di perderla, principessa, è qualcosa che dovremmo tutti imparare a fare più spesso.

Varco la soglia del bar, piuttosto in imbarazzo, provocando lo scampanellio della porta.
L’uomo dietro il bancone alza lo sguardo in uno scatto, mi riconosce e fa un tenero sorriso bonario, delle rughe che gli si formano attorno agli occhi.
- Cara. –mi saluta stupito, sorridendo soddisfatto.
- Salve, signore. –ricambio il sorriso caloroso e raggiungo il bancone.
Il nonno di Oliver si frega le mani.
- Come va, tesoro?
- Non c’è male. –sorrido guardandomi le mani.
L’uomo mi osserva con attenzione, sorridendo.
Apro la bocca, ma lui mi precede.
- Il piano è tutto tuo, Rachele.
Lo ringrazio di cuore, poi mi lascio guidare dal nonno nella stanzetta dov’è custodito il pianoforte.
Varcare quella soglia è come tornare indietro nel tempo.
Rivedo Oliver seduto sul divanetto a suonare la chitarra, poi eccolo lì, sullo sgabello, a consolarmi.
Deglutisco, sotto lo sguardo curioso dell’uomo.
- Tutto a posto? –mi domanda, preoccupato.
Annuisco, dopo qualche secondo, sforzando un sorriso.
- Sì, certo. Grazie mille, signore.
Lui fa un sorriso bonario, alludendo al pianoforte.
Mi accomodo sul seggiolino, osservo i tasti con attenzione. Prendo un respiro, e poi inizio a suonare.
Che cosa? Goodbye Philadelphia.

Mi mangiucchio l’unghia del pollice, seduta sul divano tra Ari e Cami, mentre in TV va in onda un telegiornale di gossip che guardo piuttosto annoiata.
Sto aspettando che in America ci sia un’ora decente per poter chiamare Oliver e parlargli.
Ho capito che devo essere sincera e dirgli la verità. E poi, voglio sapere cosa lo irritasse tanto l’ultima volta che l’ho sentito.
- Oh, andiamo! –esclama Ari riempiendosi la bocca con un morso di mela –Quei due non sono mai stati insieme!
I miei occhi guizzano sullo schermo. Proprio quando sto per distoglierli di nuovo, per rivolgerli allo schermo del cellulare, una foto di Oliver compare sullo schermo.
- Alza. –urlo, in preda ad un’improvvisa ansia.
Cami alza il volume sul telecomando, lanciandomi un’occhiata preoccupata.
- Rachele... non penso che dovresti... –Arianna tenta, ma la zittisco subito.
- Oliver Dawn, il vincitore del concorso indetto da 1Radio, una tra le radio nazionali statunitensi più gettonate, è già famoso in tutto il mondo.
Compaiono alcune fotografie, scatti rubati. Mi avvicino allo schermo per vedere meglio.
- Il giovane canadese è stato infatti fotografato ieri sera con una ragazza nei pressi della sua città natale. Che si tratti di una fidanzata nascosta? Oppure una nuova fiamma?
Il cuore mi salta in gola.
Ecco, mi dico, ora compaio in mondovisione.
E invece no.
Sulla televisione, ad un tavolino di un bar, Oliver e Alyssa. Lei è vicina, dannatamente vicina. Le loro mani sono intrecciate.
E poi, l’ultimo scatto.
Alyssa lo sta baciando.
Il mondo mi crolla addosso, il peso di mille elefanti mi cade sulle spalle.
- Cosa? –la mia voce è appena un flebile sussurro, non la sento nemmeno io.
Vengo avvolta da ovatta, assisto a tutto al rallentatore. Arianna scatta nella mia direzione, un’espressione sconvolta sul volto. Cami spegne la tv a velocità impressionante, entrambe si alzano per abbracciarmi.
Mi alzo dal divano, lentamente, mentre lacrime silenziose mi bagnano le guance con foga impressionante, ma non singhiozzo.
Esco fuori di casa. Il freddo pungente mi avvolge, ma quasi non lo sento.
Le immagini continuano a lampeggiarmi in testa.
Mi raggomitolo sui tre gradini del portico, gli occhi appannati dalle lacrime e dal gelo. Non vedo niente.
Semplicemente, piango.

 

♥ ANGOLO AUTRICE ♥

Capitolo 32!

Alloora... la nostra Rachele ha scoperto tutto in modo brutale e ha anche quasi frainteso tutto. Un'altra boccata d'aria fresca per la relazione tra lei ed Oliver.

Cosa accadrà ora? Le cose si aggiusteranno? Torneranno mai come prima?

Dal capitolo 33:

Probabilmente, di questo foglio non rimarrà nulla, perché è già zuppo di lacrime, ma non m’importa.
Non so nemmeno come si scriva un diario e di certo non inizierò ora a tenerne uno, però facciamo finta di sì.

Un bacio,

emmegili

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Capitolo 33
*** 33. ***


I can try to stop it, all I like

Hands down, I've lost this fight

And I thought I was strong, enough for you

But I just can't hide the truth

So I guess I'm going down

I guess I'm going down

I guess I'm going down

Like this

Like This - Shawn Mendes

 

33.

Caro diario,
mi hanno detto che la carta ascolta meglio delle persone e che non ti giudica.
Per cui, eccomi qui. Ho bisogno di sfogarmi, di scrivere.
Probabilmente, di questo foglio non rimarrà nulla, perché è già zuppo di lacrime, ma non m’importa.
Non so nemmeno come si scriva un diario e di certo non inizierò ora a tenerne uno, però facciamo finta di sì.
Fa male. Tutto quello che so è che fa male.
Pensavo di non poter essere ferita più di così, eppure eccomi qui, ora, a lacrimare su un vecchio quadernino tentando di mettere per iscritto i pensieri che mi ronzano in testa, per capirci qualcosa.
Credevo che nessuno potesse farti più male del tuo stesso padre.
Perché sono le persone che amiamo di più a distruggerci, diceva qualcuno. Insomma, chi può essere amato a tal punto da superare un padre?
Eppure, ecco la risposta: Oliver.
Oliver è la risposta.
Lo amavo così tanto da perdere la testa e nemmeno me ne rendevo conto. Credevo che anche lui mi amasse. Voglio dire... me l’aveva detto.
E poi, lui mi aveva guarita. Aveva ricostruito la piccola Rachele che amava il suo papà ed era contenta della sua vita, aveva tirato fuori il meglio di me.
Mi aveva concesso di svegliarmi la mattina con un sorriso e grandi aspettative, sogni ed ambizioni per sole ventiquattro ore.
Mi aveva fatto credere che sì, l’amore vero esiste.
Mi ero innamorata di lui. Con calma, senza fretta, mi ero presa tutto il tempo che mi serviva per abbassare la barriera.
La barriera. Cristo, non l’avevo mai fatto. Distruggere il muro che mi proteggeva dal resto del mondo.
Ma con Oliver è stato diverso. Lui... mi ispirava fiducia. Mi parlava in modo diverso, mi guardava in modo diverso. E’ logico che io mi sia comportata diversamente a mia volta.
Amavo il suo mondo. Era così diverso dal mio. Vedeva le cose da un’altra prospettiva, mi faceva notare lati delle persone e punti di vista che mi cambiavano la giornata. Magari in silenzio, senza dire una parola. Lo osservavo, guardavo come i suoi comportamenti differenziavano dai miei e imparavo tante piccole cose.
Amare Oliver mi ha aperto la mente. Ma mi ha anche aperto il cuore.
Quando Sofia mi ha parlato di Alyssa, ho iniziato ad avere i miei dubbi.
Avevo avuto a che fare con lei, sapevo di cosa era capace.
Così bella, seducente, da togliere il fiato. Come avrebbe mai potuto Oliver preferire me a lei?
Eppure mi ero detta che lei gli aveva spezzato il cuore, che forse qualche speranza l’avevo.
E invece no.
Povera illusa.
Povera, stupida ragazzina.

Arianna continua a lanciare occhiate in direzione del tavolo dove Sara Turrini è seduta in compagnia delle sue amiche e di Leonardo.
Deglutisce nervosamente, fingendo di seguire l’interessante discorso che Cami sta tenendo da più di un quarto d’ora.
Torno a rivolgere lo sguardo sulla rivista patinata che sto leggendo svogliata, giocherellando con il cibo nel piatto.
- Principessa, non hai mangiato niente. –mi fa notare Ed, davanti a me, con un’aria preoccupata.
Scrollo le spalle, mentre Ari insiste sul tavolo al centro della stanza.
- Devi mangiare qualcosa.
Lo guardo torva.
- Perché, Ed? –sibilo stancamente.
- Perché non ti fa bene.
- E che cazzo se ne frega? Voglio dire, a chi interessa? A Oliver? Ai miei? Non credo.
Mi alzo innervosita, dirigendomi verso il cestino, con il piatto in una mano e un beverone di caffè nell’altro. Me l’aveva offerto Cami perché voleva tirarmi un po’ su, ma non l’ho nemmeno toccato.
Mi guardo i piedi, notando che dovrei allacciarmi una scarpa.
Alzo appena lo sguardo, in tempo per notare una figura addosso alla quale vado a sbattere, rovesciando il caffè e il contenuto scolorito del mio pranzo.
- Oddio... scusami –inizio a balbettare, chinandomi a raccogliere il piatto di plastica.
- Tu!
Alzo lo sguardo.
Sara Turrini, in tutta la sua magnificenza, mi guarda incazzata nera, il suo top costosissimo zuppo di caffè, il purè spalmato persino sui jeans strappati.
- Merda –mormoro a denti stretti, rialzandomi lentamente.
Il silenzio cala sulla stanza, centinaia di occhi curiosi su di noi.
- Rachele Nardi, chi altrimenti? –sorride falsamente, infastidita –Chi altro sarebbe talmente imbranato e sciocco da ribaltare il suo pranzo su di me?
Alle sue spalle, seduto al tavolo, noto lo sguardo allarmato di Leonardo. Mi volto appena, per vedere Arianna sconvolta.
Sara scoppia in una risata.
- Ma voi la sapete la storia? –chiede alzando la voce, per farsi sentire da tutti i commensali –Lo sapete quanto viscida è Rachele Nardi?
Incrocio le braccia al petto, in attesa di capire dove voglia andare a parare. Cosa sa lei, di me? Nulla. Cosa può andare a dire? Nulla.
Sospiro, mentre Sara fa un passo avanti, facendo riecheggiare i suoi tacchi.
- La signorina –prosegue a voce alta, fissando i suoi occhi nei miei – E’ andata a trovare il suo papino milionario in America, durante le vacanze, perché lui sta per morire.
Colpo allo stomaco.
Come fa lei a sapere questo?
- E diciamolo, ragazzi, elemosinare l’eredità del padre moribondo è una cosa così viscida e priva di umanità che noi non possiamo nemmeno immaginarla.
- Elemosinare l’eredità del padre moribondo? –urla qualcuno.
- Che merda –strilla qualcun’altro.
La testa prende a girarmi, mi manca il pavimento sotto i piedi. Gli occhi mi pungono, le forze mi abbandonano.
- Brutto stronzo! –grida Arianna, scattando in piedi. A malapena la vedo correre verso Leonardo e scagliarsi su di lui – Sei un figlio di puttana! Stronzo! Come cazzo hai potuto?!
Qualcuno accorre, la strappano via da lui.
In preda al panico e alla confusione, riesco a collegare i puntini.
E’ stata Arianna, Arianna l’ha detto a Leonardo. E, automaticamente, l’ha detto a Sara Turrini.
Le lacrime ora scorrono libere sul mio viso, inizio a tremare.
Apro la bocca, ma non emetto alcun suono.
Vedo Cami e Ed venirmi in contro, al rallentatore.
Vaffanculo.
Corro fuori dalla mensa, dalla scuola, dal cortile. Indosso appena una camicia bianca, il freddo si insinua tra i miei vestiti facendomi rabbrividire. Le lacrime quasi si congelano mentre continuo a correre.
E’ tutto troppo pesante.
Non ce la posso fare.
Non ce la faccio.
Sbuco in un vicolo deserto, mi appoggio al muro di cemento. Cerco di prendere qualche boccata d’aria, ma il freddo e il battito accelerato del mio cuore, aggiunti all’ansia e ai respiri corti mi mozzano il fiato.
Scivolo piano a terra, mi stringo le ginocchia al petto.
E’ finita.
Per davvero, questa volta.

 

♥ ANGOLO AUTRICE ♥

E' passata un'altra settimana, e siamo sempre più vicini a Natale!

...no, eh? Lo so, lo so. Ma non odiatemi. Giuro che ho smesso di torturarla. Croce sul cuore!

Non avevo nemmeno previsto tutta questa crudeltà con la povera Rachele, ma quando scrivo perdo ogni forma di controllo.

Parliamo della canzone a inizio capitolo... *.* (tralasciando che è una canzone grandiosa). La strofa mi è calzata a pennello, per questo capitolo: "Pensavo di essere forte, abbastanza per te, ma non posso nascondere la verità. Sto scivolando giù, sto scivolando giù, sto scivolando giù... come tutto questo".

Scusatemi se a volte mi dimentico di rispondre alle vostre recensioni, sappiate che siete importantissime per me e che senza di voi non sarei qui, vi voglio bene!

 

Dal capitolo 34:

- No, Sue. Cazzo. Stai giocando con la mia vita privata. Non è un tuo dovere e men che meno un tuo diritto. Avresti dovuto dirmelo. E non dire che non lo sapevi, te lo si legge in faccia.
Mio padre e Jay assistono alla scena, senza parole.
Sue corruga le sopracciglia, ma non dice nulla.

 

 

 

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Capitolo 34
*** 34. - Oliver ***


I should’ve known all along
You gotta move or move on
When you break up in a small town
Break Up In A Small Town – Sam Hunt

34 – Oliver

 

- Oliver Dawn, che bello vederti.
La donna si sistema una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio. Sorride smagliante, mentre il pubblico smette di applaudire.
Mi siedo meglio sul divanetto del talk show, sorridendo a mia volta.
E’ la mia prima intervista, sono nervoso.
Sono a New York da stamattina. Ho lasciato a casa una Allie piuttosto scossa nelle mani di un amorevole Scott e una mamma premurosa, mentre Jay e mio padre sono dietro le quinte del programma, a pochi metri da me, in compagnia di Sue.
Sally, la presentatrice, sta facendo un piccolo riassunto della mia carriera nascente.
- Quindi, Oliver, come ti pare tutto questo? La tua vita è cambiata in poche ore.
Mi passo le mani sulle cosce.
- Oh, è stato piuttosto sconvolgente. Non me l’aspettavo. Devo ancora mettermi nell’ordine di idee.
Mentre rispondo, mi ricordo del problema al quale cerco di trovare una soluzione da due giorni: Rachele.
Non ho avuto occasione di chiamarla e, quando ho avuto il tempo per farlo, tutti i discorsi che mi ero preparato sono andati in fumo. Devo dirle di quello che è successo con Alyssa. Voglio farlo. Se lo merita, si merita la verità. Nonostante sia stata Alyssa a baciarmi, nonostante per me non abbia significato nulla... E’ successo. E Rachele deve saperlo.
- E la tua vita privata? –continua Sally –E’ stata sconvolta anche quella, immagino.
- Sì, parecchio.
- Be’, noi abbiamo alcune foto... –il sorriso colpevole della donna mi manda in tilt.
- Foto? –borbotto.
- Oh, sì. Di te e la tua fidanzata.
Rachele? Rachele non è la mia ragazza. Non ufficialmente, perlomeno.
Vorrei specificarlo, ma la mia lingua non si muove. Non riesco nemmeno a deglutire, mentre delle foto di me e Alyssa al pub compaiono sul megaschermo alle nostre spalle.
- Ma come diavolo... –sussurro.
- I paparazzi. –mi risponde preventiva Sally –Hanno colto te e questa ragazza qualche giorno fa in un piccolo pub del tuo paese natale.
C’è anche uno scatto del bacio.
- Non è la mia ragazza –ribatto, mentre le forze mi abbandonano.
- Dalle foto non sembrerebbe...
- E’ stata lei a baciarmi, non c’è nulla tra di noi e mai ci sarà. –chiarisco fin troppo bruscamente.
- In ogni caso, queste foto hanno fatto il giro del mondo e...
- Del mondo?
- Oh, sì.
- Anche... anche l’Italia?
Sally annuisce civettuola.
Mi crollano le ginocchia.
- Telegiornali di gossip, un po’ ovunque. Caro, non lo sapevi?
Arianna ama i telegiornali di gossip, obbliga sempre Rachele a guardarli con lei.
Non può essere. Lancio un’occhiata verso Sue, che evita il mio sguardo.
Lei lo sapeva.
Sento la rabbia montarmi dentro. L’unica cosa che voglio fare è alzarmi e scomparire, compiere una lunga serie di cose che ho rimandato per fin troppo tempo.
Sally pare cogliere il mio nervosismo, perché fa chiudere le diapositive e mi chiede se mi sento bene.
- Non... non proprio... scusatemi. –non riesco a deglutire, un groppo alla gola. La donna mi lancia un’occhiata preoccupata, dandomi il permesso di uscire dallo studio.
Mi alzo dal divanetto, facendo un sorriso tirato alla telecamera, e scompaio dietro le quinte.
Sue mi guarda con fare minaccioso e già sta per incenerirmi. La prevengo.
- No, Sue. Cazzo. Stai giocando con la mia vita privata. Non è un tuo dovere e men che meno un tuo diritto. Avresti dovuto dirmelo. E non dire che non lo sapevi, te lo si legge in faccia.
Mio padre e Jay assistono alla scena, senza parole.
Sue corruga le sopracciglia, ma non dice nulla.
- Cazzo. –mormoro, passandomi una mano tra i capelli. Cerco di mettere in ordine le idee, decidere cosa fare prima.
Lancio un’occhiata a Jay e a mio padre che, muti, mi guardano in attesa.
Sfilo il cellulare dalla tasca e chiamo Rachele.
Uno squillo, due squilli, tre squilli, quattro squilli, cinque squilli. Parte la segreteria.
Sbuffo, digitando il numero ancora una volta.
Squilla a vuoto, prima che scatti la segreteria telefonica ancora una volta.
Proprio mentre sto per chiamarla anche una terza volta, il cellulare mi vibra in mano.
Il cuore mi scoppia, sperando che sia Rachele.
Il nome che lampeggia sullo schermo, però, è quello di Arianna. Decido di risponderle.
- Ehi, Ari, non è il....
- Oliver –Arianna sta piangendo disperata, il che mi blocca –Oliver, ho...
Resto in silenzio, incapace di pronunciare una sola parola.
- Oliver... –Ari prosegue, singhiozzando –Ho fatto una cazzata, Oliver, io non potevo...
- Arianna... cosa... cosa è successo? –sento il panico prendermi il petto.
Papà mi lancia un’occhiata allarmata.
- Si è rotta, Oliver. –un altro singhiozzo –Si è rotta. Rachele... lei è crollata, Oliver, è crollata.
Mi volto sconvolto verso Jay e Sue, sento lo sguardo di papà perforarmi la pelle.
Quasi mi cade il cellulare dalla mano.
- Prenotatemi il primo volo per Milano. –riesco a balbettare.
- Tu non... –inizia Sue.
Questa volta è papà ad intervenire per me.
- Noi ce ne andiamo. E non sarà lei a impedircelo. –mette in chiaro.
- Sono d’accordo.
Ci voltiamo in direzione della voce. Nella penombra, il signor Reynold guarda con durezza Sue.
- Signor Reynold, io... –cerco di spiegare.
- Non ti preoccupare, Oliver. Qui ci penso io. La famiglia prima di tutto.
Il cuore mi si alleggerisce.
- Grazie, sign...
- Vai, Oliver. Vai.

 

♥ NOTA AUTRICE ♥

Mancano otto giorni a Natale! Otto!

Lo so. Volevo semplicemente aprire questo Angolo Autrice in modo innovativo. Allora... Ora avete scoperto che Oliver non sapeva che Rachele sapeva (giochi di parole) e non ne ha tutt'ora la certezza, ma vuole comunque parlarle, assicurarsi di chiarirsi. Quindi un po' ha recuperato, che dite?

Mi sento uno schifo per avergli fatto combinare tutto questo casino, però mi serviva una svolta... *occhiata da scrittrice*

E Sue... insomma... non doveva essere un'antogonista... L'ispirazione mi rovina tutti i piani...

Okay. Che ne dite? Cosa farà Oliver?

Premetto solo che Rachele farà, signore e signori, una grande cazzata. Ma questo non nel prossimo capitolo. Nel prossimo capitolo spostiamo la telecamera da un'altra parte...

 

Dal Capitolo 35:

- Pensavo che mi avrebbe fatta sentire meglio. –gracchia –Ma ho solo peggiorato le cose. Mi sento una merda.
- Per avergli tirato lo schiaffo migliore della storia, Allison? –domando divertito –Perché sei stata grandiosa.

 

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Capitolo 35
*** 35. - Scott ***


Could I ever be everything you need?
If I promise you my love
Could that promise be enough?
Would you wait for me?
Would you wait for me?
Would You Wait For Me – Brett Young

 

35. – Scott

I capelli di Allie sono morbidi mentre scorrono tra le mie dita.
Lei si gira su un fianco, in modo da potermi guardare negli occhi. Smetto di giocare con i suoi capelli e aspetto che parli.
- Grazie. –mormora –Per esserci.
Un sorriso sincero mi si abbozza sulle labbra.
- Grazie perché non mi odi. –ribatto sottovoce.
Allie corruga la fronte, puntellandosi sui gomiti per vedermi meglio.
- Perché dovrei odiarti? –domanda sospettosa, schiarendosi la voce.
Mi lascio cadere sul materasso in un sospiro, fissando gli occhi sul soffitto.
- Ho preso a pugni il tuo fidanzato. Almeno un po’ dovresti odiarmi.
Allison scoppia in una risata cristallina, che non le sentivo fare da giorni.
- Stai scherzando, vero? –domanda –Dovrei odiarti perché non l’hai ammazzato, piuttosto.
La guardo stupito.
- Sul serio?
- E’ un bastardo. Dovrei muovere il culo e andare a menarlo con le mie stesse mani. –sembra riflettere qualche secondo, poi si illumina –Anzi...
Rotola giù dal letto, si spazzola veloce i capelli. Poi esce dalla stanza e intravedo la sua figura scomparire in bagno.
Ritorna dopo qualche minuto, truccata alla perfezione e vestita di tutto punto con un grazioso vestitino nero. Si passa le mani tra i capelli, velocemente.
Le osservo le gambe slanciate, avvolte dalle calze color carne. Si infila una giacca di pelle nera sopra l’abito, fa scivolare i piedi in un paio di anfibi.
E’ stupenda. Ha un’aria che non ho mai visto alla piccola ed innocente Allie. Quasi selvaggia, aggressiva. Incredibilmente attraente.
- Ehi, sveglia. –mi schiocca le dita davanti alla faccia.
- Cosa? Uhm? –mi risveglio, sorridendo.
Allie rotea gli occhi.
- Muoviti. Mi accompagni.
- E dove, piccola? –faccio un ghigno, preparato all’occhiataccia che mi lancia.
- A mollare ufficialmente Noah. –sibila –E non chiamarmi “piccola”. Non sono più una bambina, Scott.
Mi alzo dal letto, stiracchiandomi. Mi avvicino a lei che, braccia incrociate al petto, mi guarda in cagnesco.
- No che non lo sei. Una bambina non può essere così sexy con il broncio. –gracchio stampandole un bacio sulla fronte.
Allie sospira con fare teatrale, prima di ribadirmi di muovermi.

La seguo con lo sguardo, sorridendo come un deficiente, mentre scende determinata dall’auto, sbattendo addirittura la portiera.
Marcia sul vialetto che conduce alla porta della casa dove abita Noah, per poi bussare quasi violentemente.
Ad aprire è una donna mora, probabilmente sua madre. Allison sorride falsamente, chiedendo di Noah.
E pochi secondi dopo, eccolo lì, sulla porta, mezzo assonnato. Squadra Allison da capo a piedi, risvegliandosi improvvisamente.
A pochi metri di distanza da loro, lui mi nota subito. Mi guarda confuso.
Alzo una mano in segno di saluto, sorridendo divertito.
- Cosa... –borbotta tornando su Allie.
Lei lo interrompe subito.
- Sono solo venuta a dirti che abbiamo rotto. E’ finita. Non voglio vederti più. –sorride soddisfatta.
- Sì... be’...
Stringo i denti. Mossa sbagliata.
Allison lo fulmina con lo sguardo, poi gli tira uno schiaffo talmente forte per una ragazza che sobbalzo.
- Ascoltami bene, figlio di puttana. –sibila incavolata nera – Non mi frega un cazzo se sei talmente stupido da tradirmi, ma voglio che tu sia abbastanza intelligente da memorizzare che se ti azzardi anche solo a rivolgermi la parola ancora una volta giuro che ti faccio diventare donna, intesi?
Noah è scioccato, glielo si legge in faccia. Balbetta qualcosa, poi chiude la porta e scompare in casa.
Allie si volta e trotterella allegra verso di me. Mi sorride.
- Quindi, Scott. Dove mi porti, a pranzo?

E’ ormai passato un quarto d’ora, e Allie è ancora in bagno.
Osservo le cameriere pulire rapide i tavoli, i clienti alzarsi e andarsene. E’ quasi orario di chiusura.
Mi schiarisco la voce e mi alzo, diretto verso il bagno delle donne. Potrà anche essere imbarazzante, ma sto iniziando a preoccuparmi.
Apro la porta sulla quale è disegnata una donnina stecchino. Il bagno è deserto.
Ma poi la vedo.
Seduta con la schiena appoggiata al muro di mattonelle bianche, il trucco nero sbavato sulle guance.
Alza lo sguardo e, come mi vede, fa una smorfia. Si copre il volto con le mani.
- Vai via –mugugna ricacciando giù un singhiozzo.
Silenziosamente, la raggiungo e mi lascio scivolare accanto a lei. Contemplo il muro davanti a noi per dieci minuti abbondanti, poi mi volto verso Allison.
Ha ancora la testa appoggiata sulle ginocchia, circondate dalle braccia.
Sospiro rumorosamente. Allie tira su col naso.
- Faccio schifo. –mormora, la voce rotta.
- Col trucco sbavato, dici? Be’... ti dà un’aria intrigante, a dire il vero.
Allie alza la testa e mi guarda male, attraverso le lacrime.
Le sorrido.
Sbuffa e guarda altrove.
- Pensavo che mi avrebbe fatta sentire meglio. –gracchia –Ma ho solo peggiorato le cose. Mi sento una merda.
- Per avergli tirato lo schiaffo migliore della storia, Allison? –domando divertito –Perché sei stata grandiosa.
- No... voglio dire... –deglutisce, passandosi le mani sulle guance – E’ orribile. Okay? Credevo che si sarebbe scusato, mi avrebbe implorato di perdonarlo. Pensavo che... pensavo che di me gli importasse almeno un poco.
La sua voce si spegne.
- Chi non vuole non merita. –ribatto subito. Allie sospira.
- Fa male lo stesso, però. –mugola, fissandosi gli anfibi neri –Pensavo di valere almeno qualcosa. Invece... A quanto pare faccio schifo e basta.
- Ehi. Allie. Ascoltami. –le prendo il mento con due dita e la obbligo a guardarmi negli occhi –Non fai schifo per niente, d’accordo? Sei meravigliosa. E Dio... Dio solo sa quanto sono pazzo di te. Pazzo, okay? Andrei nel fuoco, per te. Quindi credimi quando ti dico che non fai schifo.
Allie fa un mezzo sorriso.
- A quanto pare... be’... il tuo non è un giudizio lucido.
- Può darsi. –ammetto.
Restiamo in silenzio per qualche minuto, contemplando le scritte nere sulle piastrelle.
Proprio prima che diventi imbarazzante, Allison parla.
- Scott... mi hanno appena spezzato il cuore... però... se sei disposto ad aspettare per me...
La osservo, sorridendo.
- Ho aspettato dieci anni, posso aspettare ancora un po’.
Mi fa un sorriso sincero, poi lascia cadere la testa sulla mia spalla.

 

♥ ANGOLO AUTRICE ♥

Ho aggiornato in anticipo, come regalo di Natale. laughing

Ma quanto non sono pucciosi questi due? Li adoro.

Nel prossimo capitolo... eh... Inizio col dire che sarà molto più lungo. Lo so che ultimamente erano tutti microcapitoli.

Cos'altro anticiparvi? Niente.

Dal Capitolo 36:

- Devi ascoltarmi. Dobbiamo parlare. Nessuno lascerà questa stanza finché non avremo aggiustato le cose o, almeno, finché non saremo stati sinceri l’uno con l’altro, niente più segreti. Non pensare nemmeno di andartene, intesi, baby girl?
Una pugnalata in pieno petto.
- Non chiamarmi così. –gracchio, portando una mano al petto.
- Perché?
Gli occhi di Oliver mi guardano curiosi e forse anche un po’ feriti.
Distolgo lo sguardo, scuoto la testa.
- Perché fa male –bisbiglio piano.

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Capitolo 36
*** 36. - Rachele ***


So I'll hit the lights and you’ll lock the doors
We ain't leaving this room 'til we both feel more
Don't walk away, don't roll your eyes
They say love is pain.
Well, darling, let's hurt tonight.
Let’s Hurt Tonight - OneRepublic

 

36. – Rachele

Sospiro, creando una nuvola di aria condensata che si disperde sullo sfondo del cielo azzurro, mentre il pallido sole invernale cerca invano di scaldare gli animi dei passanti.
Infilo le mani nelle tasche del giubbotto di panno nero, sedendomi su una panchina di legno. Pensavo che il parco fosse deserto, alle sette di mattina di un sabato di febbraio.
Invece, oltre ad una coppia che fa jogging, ci sono anche una ragazza che porta a spasso un chihuahua piuttosto vecchio, un uomo che passeggia con le mani giunte dietro la schiena e un’anziana che viene verso la mia stessa panchina.
E’ mingherlina, stretta in un gioioso piumino rosso fuoco. Man mano che si avvicina, noto che ha degli orecchini di vetro pendenti dalle orecchie e un curioso cappello all’inglese posato delicatamente sui capelli bianchi.
Si siede sorridendo accanto a me. Sospira per la grande fatica compiuta per arrivare a sedersi sulla panchina, poi sfila un pacchetto di Marlboro rosse dalla tasca del cappotto.
- Che giornata meravigliosa, vero, cara? –cinguetta allegra.
- Potrebbe essere migliore. –obietto piano, guardandola prendere una sigaretta dal pacchetto –Me ne offrirebbe una?
La signora mi guarda, rimettendo a posto il pacchetto e tirando fuori un accendino con delle immagini di Londra.
- Il fumo uccide, tesoro. –spiega, mettendosi la cicca tra i denti e cercando di accenderla.
- Sì, be’, non sarebbe un male. –sussurro piano.
- Oh, voi adolescenti! –sospira con fare drammatico –Sempre depressi!
- Sa, magari una ragione per essere depressa ce l’ho. –ribatto stizzita, accavallando le gambe –O due, o tre. Forse pure quattro.
La donna ripone l’accendino nella tasca, spira dalla sigaretta e mi lancia un’occhiata divertita.
- Sono tutta orecchie. –ridacchia.
La osservo, cercando di decifrarla.
- Scusi eh, ma di lei non so una benedetta cippa! Perché dovrei raccontarle la mia vita, come una povera disperata?
- Be’, non te la prendere, tesoro, ma hai l’aria di una povera disperata. –azzarda la vecchina, guardandomi con tanto d’occhi.
- Ma per favore! –esclamo – Io non sono una povera disperata. Va tutto a gonfie vele!
- Okay.
Il silenzio cala su di noi, e all’improvviso sento l’impellente bisogno di spiegarle come stanno le cose.
- E’ che io mi sono innamorata di lui come una cretina.
La donna mi guarda attenta e curiosa.
- E ho un bisogno disperato di abbracciarlo. –aggiungo in un flebile sussurro.
- Ma?
- Ma lui è dall’altra parte del mondo con la sua ex. E l’ha baciata. –le lacrime riprendono a pungermi gli occhi, ma le ricaccio indietro.
- Ne sei sicura?
- Ho visto le foto.
- Foto?
- Sì, be’... lui è famoso.
La signora scoppia a ridere di gusto, quasi sputando la sigaretta.
- E io sono Mamma Natale! –ridacchia esilarata.
Sospiro, fissando dritto davanti a me.
- In ogni caso, cara, ti sei fermata all’apparenza. –consiglia, riprendendosi –Per quanto ne so io, potrebbero perfino essere... com’è che si dice?
La guardo inarcando un sopracciglio.
- Photo... photoshoppate?
Faccio un sorriso amaro.
- Mi creda, erano tutto tranne che photoshoppate.
- Gli hai parlato?
Scuoto la testa, ripensando a tutte le chiamate senza risposta che Oliver ha effettuato.
- Forse dovresti.
Non muovo un muscolo, fissando un punto indefinito davanti a me.
- Sono tante le persone con cui dovrei parlare –constato in un soffio.
- Be’. Parlaci.
L’anziana ha finito la sigaretta, la getta a terra e la schiaccia con una scarpa nera.
- Bene, tesoro. Ora devo scappare.
Si alza di tutta fretta, si passa le mani sul piumino. Mi sorride materna.
- Sì. Certo. Grazie.
Mi dà un buffetto sulla guancia, poi fa per andarsene.
A un paio di metri dalla panchina si blocca e si volta a guardarmi.
- L’amore può far male. Amare può ferirti, a volte. Ma è l’unica cosa che ci faccia sentire vivi.
La fisso mentre si allontana, sconcertata.
Ho appena incontrato una vecchietta arzilla che fuma Marlboro, indossa cappelli fuori da ogni logica, dispensa consigli che effettivamente tornano utili e cita Ed Sheeran.
Probabilmente me la sono immaginata.

Varcare la soglia di casa risulta ogni volta più difficile.
Mi richiudo la porta alle spalle, mentre il calore del fuoco che brucia nella stufa in salotto mi avvolge.
- Oh, tesoro. Sei tornata.
Lancio appena un’occhiata a mia madre, seduta sul divano con il computer sul grembo.
- Dov’è Enrico? –domando stancamente, giocherellando con un pacchetto di gomme da masticare, le mani nelle tasche del cappotto.
- In ospedale. Non ricordi? Aveva il monitoraggio.
Annuisco, dirigendomi verso le scale.
- Rachele? –domanda – Che fai stasera?
Un’altra cena di famiglia? Appassionatamente? No. Non posso superarla. Un’idea mi balena in testa.
- Esco.
- Esci?
- Ah-ah. Vado a divertirmi.

Okay, forse questo vestito è un po’ troppo corto.
E okay, forse ho bevuto un po’ troppo.
Ma il sorriso del ragazzo accanto a me è così luminoso...
La musica sparata a palla nella discoteca è talmente alta che mi sento rimbombare il sangue nelle vene.
L’aria consumata, fritta, è quasi irrespirabile. Ragazzi e ragazze ammassati al centro della pista da ballo si strusciano l’uno sull’altro.
Dan, mi pare si chiami. Il tipo con cui sto bevendo alcolici da mezz’ora, intendo.
E’ davvero carino, e questo lo pensavo anche prima di ubriacarmi.
Butto giù pe la gola un altro drink, mentre lui racconta qualcosa di divertente. O forse no, ma comunque mi metto a ridere.
Ho perso il conto di quanti cocktail ho bevuto, mi ricordo solo che ero triste. Ora quella tristezza è sepolta in fondo al mio stomaco, ogni tanto si fa sentire, ma non abbastanza a lungo perché faccia in tempo a ricordarmi di lei.
Gli occhi di Dan brillano mentre si alza e mi tende una mano.
- Balliamo?
Annuisco brilla, lasciandomi trascinare tra la massa.
Gli occhi verdi del ragazzo mi ipnotizzano, mentre tra di noi non c’è nemmeno un millimetro di distanza, il suo corpo attaccato al mio.
Eccola di nuovo, la tristezza, che spacca il muro per farsi sentire. Fin troppo nitida, fin troppo vicina alla realtà.
Mi attacco alle labbra di Dan quasi disperatamente. Lo colgo alla sprovvista, ma non si fa scoraggiare.
Cinque minuti dopo, nemmeno mi ricordo come la sua mano sia finita sotto la mia gonna, a sfiorare la coscia.
Porto la mia mano sulla sua, cercando di trascinarla via. Lui non demorde, così stacco le mie labbra dalle sue.
- Dan, basta. –boccheggio.
Non mi dà retta, prende a baciarmi il collo, avvicinandomi con forza a sé.
- Dan... –ansimo, mentre la vista prende ad annebbiarmisi. Maledetta me e tutto quell’alcol.
- Shh. –sibila lui, stringendomi il polso –Lasciati andare.
- Dan... lasciami. –esclamo, cercando di staccarmi da lui.
La musica rimbomba nelle orecchie, nessuno pare badare a noi. Fa caldo, un caldo bestiale.
Non ho più forza, mi sento girare la testa.
- Aiuto. –sussurro talmente piano da non sentirlo nemmeno io.
All’improvviso qualcosa colpisce Dan, che mi lascia andare e indietreggia barcollando, una mano sul volto.
Faccio un passo indietro, perdendo l’equilibrio a causa dei tacchi vertiginosi. Due braccia salde mi afferrano e mi sostengono.
Nel mio campo visivo compare Oliver. Oliver? Cosa? Eh? No.
Afferra Dan per la maglietta, avvicina il suo viso al suo.
Gli intima qualcosa, ma non colgo cosa. La testa ricomincia a girarmi.
Qualcuno che non è né Oliver né Dan mi abbraccia. Riconosco il profumo di Jay e, disperata, mi aggrappo a lui.
Mi trascina fuori, dopo avermi appoggiato sulle spalle la sua giacca di pelle. L’aria glaciale mi investe come un pugno nello stomaco.
Mi sento gelare e mi stringo ancora di più a Jay, sconvolta.
Lui mi dà un buffetto sulla guancia.
- Rae? Ehi. Ci sei? Mi senti? Rae? –mi chiama dolcemente.
Ed improvvisamente, scoppio a piangere. Disperata. Senza pudore. Piango, piango sulla spalla di Jay. Lui mi stringe a sé, mi rassicura che ora va tutto bene.
- Come sta? –riconosco la voce affannata di Oliver.
- Così. –risponde preoccupato Jay.
- Cazzo. Dobbiamo... Dobbiamo riportarla a casa.
- Oliver, aspettiamo che si calmi un attimo.
- Non vedi in che stati è?! Non possiamo... non possiamo...
Sento lo sconcerto nella sua voce, lo vedo passarsi le mani tra i capelli con la coda dell’occhio.
Mi separo da Jay velocemente, prima di piegarmi in due e vomitargli sulle scarpe.
- Merda –impreca lui, scostandosi per tenermi i capelli dietro la testa.
- Non regge l’alcol... dobbiamo... forse... portiamola in macchina.
- Oliver...
Reprimo l’ultimo conato, disgustata. Tossisco, prima di rialzarmi lentamente.
Il trucco sbavato dalle lacrime, pallida come un cencio per i conati, i capelli spettinati e il vestitino stropicciato.
Lo sguardo di Oliver mi perfora la pelle. Mi osserva centimetro per centimetro.
- Baby girl... –sussurra guardandomi negli occhi, rassicurato un poco nel vedermi in piedi.
Distolgo lo sguardo, fingendo di concentrarmi su Jay che si toglie le scarpe con attenzione.
- Dobbiamo parlare. –decide, acquistando un po’ di fermezza.
Sto per guardarlo stancamente, dirgli che non mi interessa un fico secco di quello che ha da dirmi. Ma mi piego in due e butto fuori tutto l’alcol della serata. Ancora.

- Ma dico, guardati! Una puttana, sembri! –urla mia madre, sconvolta, stringendosi nella vestaglia.
Oliver e Jay, qualche metro più indietro di me, non osano quasi respirare.
Lancio un’occhiata all’orologio appeso al muro. E’ mezzanotte e mezza.
- Ringrazia solo il cielo che non ti ho vista uscire! Dio mio. –continua a ripetere scioccata –Cosa ti è successo, si può sapere? Dove l’hai lasciato il buon senso? Mi mancava solo una figlia rincretinita.
Ogni parola scava, fende, taglia, sempre più a fondo. Mi stringo le braccia al petto, sfiorando con le dita la giacca di pelle nera di Jay.
- Non ce la faccio più... –boccheggio piano, guardandomi i piedi nudi.
- Cosa? –domanda mia madre, accigliata –Non ce la fai più a fare cosa, esattamente?
- A vivere così! –strillo, rimettendomi a piangere –In mezzo alle balle. Bugie. Tradimenti. Basta!
Lei ammutolisce.
- Non c’è una persona, dico una, che sia sincera ed onesta con me fino in fondo! Mi sono stufata di vivere in questo modo! Non ce la faccio più! E’ esasperante! Hai idea di cosa voglia dire incontrare una nuova persona ed essere terrorizzati dal pensiero che possa ferirti proprio come hanno fatto tutti gli altri?
Chiudo la bocca, le mani che tremano di rabbia, mentre le lacrime mi solcano le guance.
Mia madre ha capito, cerca di trovare le parole giuste.
Non le concedo il tempo che le serve. Corro al piano di sopra.

E’ strano. Sono ormai quaranta minuti che sono qui, tra questi quattro muri, e nessuno si è fatto ancora vivo.
Pensavo mi avrebbero rincorsa.
Pensavo che Oliver, perlomeno, sarebbe venuto a parlarmi. Insomma, farsi dodici ore di volo per nulla deve essere un po’ frustrante.
E invece no.
Ho tutto il tempo di fissare il soffitto, cercare di regolarizzare il respiro, preparami centinaia di discorsi mentali che poi non avrò mai le palle di dire davvero.
Magari mi sono montata la testa.
A nessuna delle persone al piano di sotto interessa veramente di una povera ragazzina frignona e stupida. Stupida, Cristo. Cosa mi stava passando per la mente?
La vita fa schifo.
La mia vita fa schifo. Non vale nemmeno la pena di viverla.
Magari con qualche pillola potrei persino mettere fine a questa tortura.
Proprio mentre sto per alzarmi dal materasso per andare ad ispezionare le pillole che mamma custodisce in bagno, la porta della camera si spalanca, rivelando un Oliver piuttosto determinato.
La richiude subito, alle spalle.
- Ascoltami. –previene ogni mio tentativo di ribattere.
Mi si avvicina, mentre mi alzo dal letto ed incrocio le braccia al petto. Immagino solo la sua reazione se fosse entrato due minuti dopo, beccandomi a cercare la combinazione letale di medicine per farmi fuori.
Mi vergogno. Mi vergogno terribilmente. Mi schiarisco la gola, alzando la testa.
Quando incrocio il suo sguardo supplichevole, qualcosa dentro mi si rompe. Per un pelo non mi si toglie l’espressione ferita e stanca dal viso.
- Devi ascoltarmi. Dobbiamo parlare. Nessuno lascerà questa stanza finché non avremo aggiustato le cose o, almeno, finché non saremo stati sinceri l’uno con l’altro, niente più segreti. Non pensare nemmeno di andartene, intesi, baby girl?
Una pugnalata in pieno petto.
- Non chiamarmi così. –gracchio, portando una mano al petto.
- Perché?
Gli occhi di Oliver mi guardano curiosi e forse anche un po’ feriti.
Distolgo lo sguardo, scuoto la testa.
- Perché fa male –bisbiglio piano.
Oliver sospira.
- Siediti. –accenna al letto. Riluttante, mi accomodo sul bordo del materasso.
Si siede accanto a me, nervoso.
- Devo dirti una cosa, anche se penso che tu la sappia già. –inizia.
- Cosa mi dirai, Oliver? –domando acidamente –Che non è come sembra? Che mi sto sbagliando?
- Sì. –risponde prontamente.
Faccio un sorriso sprezzante.
- Ma per favore –sbotto, facendo per alzarmi.
Lui mi afferra un polso.
- Non andartene, fammi parlare.
Lo fisso per qualche secondo.
I suoi occhi... sono gli stessi del ragazzo di cui mi sono innamorata, persa. Dolci, amorevoli, attraenti. Il cuore mi fa male, un male cane, perché mi manca. Mi rendo conto che questo ragazzo mi manca da morire. Vorrei abbracciarlo e basta, farmi cullare da lui. Ma la consapevolezza di quello che ha fatto mi blocca, mi congela, mi fa sentire un’idiota anche solo per desiderarlo.
Mi risiedo accanto a lui, deglutendo.
- Una possibilità –mormoro.
Oliver pare rianimarsi.
- Quel pomeriggio, Alyssa si è presentata alla mia porta. –inizia a raccontare –Mi ha chiesto, anzi supplicato, di andare con lei al Molly’s. Ha detto di dovermi dire qualcosa di molto importante. E io ho acconsentito.
Apro la bocca per ribattere, ma lui mi guarda, ricordandomi di lasciarlo finire.
- L’unica cosa che mi ha detto è stata che mi amava ancora, e che voleva che tornassi con lei. Ovviamente, Rachele, l’ho respinta. E lei mi ha baciato. Non l’ho baciata, non ti ho tradita, non l’avrei mai fatto. Per me non è significato nulla.
Alzo gli occhi al cielo, cercando di sembrare forte e di fermare le lacrime.
Mi alzo in uno scatto.
- Risparmiami queste storielle, Oliver. –balbetto –Non avresti nemmeno dovuto aprirle la porta.
- Oh, andiamo! –esclama lui, alzandosi a sua volta –Cos’hai da temere? Alyssa è una partita persa in partenza. Sei mille volte meglio di lei.
- Non mi mentire. –intimo – Lo sai benissimo che lei è una fotomodella, praticamente, che è bellissima, da mozzare il fiato e che io sono solo... io.
- Non dal mio punto di vista, Rachele. –insiste Oliver, disperato –Lei mi ha baciato, io...
- Va bene, facciamo finta che ti creda, per un minuto. –lo interrompo –Spiegami perché cazzo le hai detto di sì! Perché hai accettato, Oliver? Perché?
Sto di nuovo piangendo. Lui si passa una mano tra i capelli, riflettendo, mentre io cerco di trattenere i singhiozzi.
- Era una brutta giornata, non ero in me. –mugola soltanto, rabbuiandosi.
Capisco di aver centrato il bersaglio.
- E perché mai? Cosa può esserti successo di tanto brutto, Oliver? Oliver dalla vita perfetta? –m’intestardisco, asciugandomi le lacrime.
- Io non...
- Hai detto di essere sinceri, niente segreti. –lo prevengo.
Sospira, guardandomi indeciso.
- Mi ha chiamato Sue, quella mattina. –sussurra, fissando il pavimento –Mi ha detto che... che se volevo decollare dovevo presentarmi in un certo modo al pubblico.
- In un certo modo? –domando, reprimendo un singhiozzo.
- Single, esattamente. –bisbiglia, per poi fissare i suoi occhi nei miei –Mi ha detto che se volevo continuare a lavorare con lei, dovevo lasciarti.
Il mondo mi crolla sulle spalle, la voce mi muore in gola.
- Cosa? –emetto appena un suono. Cerco di deglutire il groppo che mi si è formato in gola, invano.
Oliver mi si avvicina, le mani tra i capelli.
- Cosa... cosa le hai detto? –domando, portando una mano alle labbra.
I suoi occhi guizzano sui miei, fa un sorriso dolce, intenerito. Lo stesso che si fa quando ci si trova davanti un bambino che sbaglia una parola.
Ha gli occhi lucidi anche lui, mentre mi asciuga le lacrime e mi carezza una guancia.
- Gli ho detto di andare a farsi fottere, ovviamente –risponde in un sorriso, la voce che trema un poco.
Prendo a scuotere la testa.
- No, no. –borbotto –Oliver, no.
Mi scosto dalla sua presa e mi allontano.
- E’ la mia vita, baby girl. Decido io cosa farne. E io voglio te. –esclama, riacquistando sicurezza e determinazione all’improvviso.
Mi asciugo le guance con le maniche della felpa.
- Il signor Reynold mi ha dato il permesso di venire da te nonostante Sue non volesse, la mia carriera non è comunque finita –aggiunge, per rassicurarmi.
Lo guardo con la coda dell’occhio.
Mi manca.
E’ tutto quello a cui riesco a pensare. Mi manca.
- Io non resisto più –sussurro piano, in un flebile soffio, sedendomi sul tappeto.
Oliver mi raggiunge e, cauto, si siede accanto a me.
Mi prende una mano e la stringe.
- Mi dispiace. Mi dispiace così tanto. –bisbiglia, cercando i miei occhi –L’ultima cosa che voglio è farti soffrire.
Scosto la mano dalla sua, mi alzo di scatto.
- E’ quello che dicono tutti, ma alla fine è esattamente quello che fanno! –esclamo, la rabbia negli occhi –Siete tutti così stupidi! Pensate che sia un’idiota, eh? Oh, facciamo soffrire Rachele! Tanto lei è talmente scema che non riesce a restare arrabbiata con le persone a cui tiene! E’ vero, okay? Mi affeziono troppo alle persone! E poi tutte, dalla prima all’ultima, mi spezzano il cuore! Tu compreso! Tu!
Oliver si alza, sconcertato, mentre continuo con il mio monologo.
- Pensavo fossi diverso, Oliver! Pensavo che fossi la mia àncora. Ma che povera stupida che sono stata. Te ne andrai esattamente come tutti gli altri. Vattene, Oliver! Vattene! –grido –Vattene! Perché non te ne vai, eh?!
- Perché ti amo, cazzo! –urla lui –Ti amo!

 

♥ ANGOLO AUTRICE ♥

Okay, avevo detto che sarebbe stato lungo. E' più lungo, ma non quanto doveva esserlo in principio, perché l'ho diviso in due!

Ammetto che adoro il modo in cui ho concluso questo capitolo. Parecchio ad efetto.

Il prossimo capitolo è uno dei miei preferiti.

 

Dal Capitolo 37:

- Ti amo, baby girl.
Mi piove un cuscino addosso.
Mi volto di scatto verso Jay, che sorride soddisfatto.
- Ci voleva tanto, idiota?

 

Buone Feste a tutti!

Un bacio,

emmegili

 

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Capitolo 37
*** 37. - Oliver ***


And give you the future you gave away
And give you my youth for some million days
I'll do all these things for you
Take what's broken make it new
Yesterdays gone yeah it went away
I've been lost but I'm here today
I'll do all these things for you
I'll tell you the truth when it's all lies hey
All These Things – OneRepublic

 

37. – Oliver

Rachele è sconvolta. Mi guarda respirando piano, quasi avesse il timore di fare troppo rumore. Si aggrappa ai vestiti, le lacrime quasi congelate, immobili sulle guance.
Scuote quasi impercettibilmente la testa.
- Ti amo. –ripeto sottovoce, supplicandola con lo sguardo –Sei stata la mia salvezza. E non esagero quando dico che sei tutta la mia vita. Mi hai aggiustato il cuore quando era rotto in mille pezzi, quando tutti avevano abbandonato le speranze.
Le lacrime riprendono a scorrere sul suo viso, silenziosamente.
- Io ti amo. –ripeto, avvicinandomi.
Lei non si muove. A due centimetri dal suo viso, fisso i miei occhi nei suoi. Le accarezzo una guancia.
Rachele posa una sua mano sulla mia, lasciandomi sorpreso. Mi guarda.
E nei suoi occhi leggo soltanto il bisogno, disperato, di essere amata.
Mi chino e, lentamente, la bacio.

- Mi dispiace per le tue scarpe –gracchia Rachele, schiarendosi la gola.
Jay alza lo sguardo e sorride.
Sulla soglia del salotto, la ragazza si dondola sui talloni.
- Sul serio. Erano delle belle scarpe. –insiste, un abbozzo di sorriso sulle labbra.
Carezzandole una spalla, la oltrepasso e mi siedo sul divano con Jay.
- Oh, lo so. Infatti sto ancora... –finge lui –Sono ancora convinto che mi stiano guardando dall’alto.
Melodrammaticamente, fa finta di asciugarsi una lacrima da sotto l’occhio.
Rachele abbassa lo sguardo e sorride.
- Ehi. –la chiamo, allargando le braccia.
I suoi occhi scattano su di me. Ci raggiunge e si siede tra me e Jay.
Si accoccola sulla mia spalla. Poso le labbra sulla sua fronte.
- Oliver? –mi domanda, flebile.
- Sì?
- Dillo.
Sorrido, a ridosso della sua fronte.
- Ti amo, baby girl.
Mi piove un cuscino addosso.
Mi volto di scatto verso Jay, che sorride soddisfatto.
- Ci voleva tanto, idiota?
- Guardiamo un film –interviene Rachele, sedendosi diritta, nascondendo un sorriso.
Fa per alzarsi, ma le prendo un polso e la faccio cadere di nuovo sul divano, accanto a me.
- Nah. Fai alzare Jay. –mugugno stringendomela al petto.
Il mio amico mi lancia un’occhiata scettica, facendomi ridere.
- Siete adorabili –sospira, alzandosi per andare ad ispezionare i dvd nel mobiletto accanto alla porta d’entrata.
Rachele si sistema meglio a ridosso del mio petto, guardandomi negli occhi. Sorride.
Le scosto i capelli dal viso, sorridendo.
- Baby girl?
- Mm?
Prendo un respiro.
- Vorresti essere la mia ragazza? –le chiedo, sorridendo divertito.
Rachele ride.
- Ufficialmente? –domanda.
Annuisco.
- Se proprio devo. –mi prende in giro, poi posa le sue labbra sulle mie.
- Quando avete finito di pomiciare, voi due, potete dirmi se volete guardare Titanic? –esclama Jay, facendoci scoppiare a ridere entrambi.
- Jack, sto volando! –si illumina Bay, saltando in piedi.
La guardo sorridendo, scuotendo la testa.
All’improvviso, suona il campanello. Rachele si congela sul posto, mi lancia un’occhiata allarmata.
Annuisco a Jay, contraendo la mascella. Lui si alza dal pavimento dove era seduto ed apre la porta.
Arianna lo fissa sconvolta, stretta nel cappotto.
Rachele pare rilassare i muscoli delle spalle, sorride leggermente osservando la scena.
Jay si immobilizza, stregato.
Mi alzo dal divano per vedere meglio, abbracciando Bay da dietro.
I due si fissano per una trentina di secondi, incantati.
- Ehm. –si schiarisce la voce Arianna, tentennando –Io... entro.
- Sì, certo. –si riscuote Jay.
Arianna varca la soglia, confusa. Appena i suoi occhi si posano su Rachele, pare sciogliersi.
Allento la presa su Bay.
Infatti, un secondo dopo, si corrono in contro. Si abbracciano, strette.
Jay si gratta la nuca, ancora perplesso, e richiude la porta.
- Mi dispiace tanto, tesoro. –mugola Ari.
- Tranquilla, ho capito. –ribatte Rachele.
Il mio amico mi raggiunge, mani nelle tasche dei pantaloni.
- E’...
- Ah-ah. –rispondo subito, sorridendogli furbo.
- E’ carina.
- Ah-ah.
Le due ragazze, nel frattempo, si sono riappacificate. Rachele saltella fino a noi, tenendo per mano l’amica.
- Jay, questa è Arianna, la mia migliore amica. –li presenta, eccitata.
I due si fissano, come stregati. Si squadrano l’un l’altro, spogliandosi con lo sguardo.
Rachele cerca il mio sguardo, divertita.
La strappo ad Arianna e la bacio, avvolgendola con le braccia, attirandola a me.
- Santo Cielo, state battendo ogni record! –esclama Jay lanciandoci un’occhiata esasperata.
Arianna gli sorride, per poi tornare a rivolgere lo sguardo su di me e Bay.
Ha tante domande negli occhi.
Rachele pare accorgersene, ma non fa in tempo a dire una sola parola, che i suoi genitori, accompagnati da Lucas, varcano la soglia.
Si spegne immediatamente, perde ogni tratto di luminosità e serenità che eravamo riusciti a farle riacquistare.

Pensavo avrebbe urlato.
Pensavo avrebbe pianto.
Pensavo li avrebbe fatti sentire in colpa.
Pensavo avrebbe reagito.
E invece no.
Ha perso ogni forma di attività. Se ne sta appoggiata allo schienale del divano, spenta. Li guarda a malapena e quando lo fa, i suoi occhi non sono altro che pozzi neri.
Loro continuano a parlarle. Lei nemmeno li sente.
Incrocio gli occhi preoccupati di Jay e quando mi soffermo su quelli di Arianna, terrorizzati, inizio ad avere paura anche io.
Rachele sembra un manichino, privo di vita, afflosciata come un vecchio moccio.
Lucas, seduto sul pavimento, a pochi metri da noi, continua a giocare con un trenino. Lo raggiungo, accucciandomi alla sua altezza.
- Ehi, campione. –cerco di sorridergli. Lui alza gli occhi su di me e ricambia.
In sottofondo, la voce dei signori Nardi continua a ronzare. Continuano ad assillarla con risultati degli esami medici del padre, a dirle che dovrebbe preoccuparsene.
- Com’è stata la tua sorellona, ultimamente? –domando al bambino, cercando di nascondere la preoccupazione.
- Un fantasma, praticamente. –si stringe nelle spalle Lucas –Mangia pochissimo, non parla. Ma se lei non si preoccupa per papà, perché dovremmo preoccuparci per lei?
Le sue parole mi colpiscono in pieno petto, una pietra che mi trascina sul fondo.
- Non l’avete portata dal dottore, per vedere se era tutto a posto? –chiedo sottovoce.
Lucas annuisce.
- Ha parlato di qualcosa come... –il bambino smette di giocare e ci riflette un po’ su – Esaurimento nervoso. Me lo ricordo perché mi ha spiegato che è come se si fossero scaricate le batterie.
Col respiro mozzato in gola, mi rialzo e raggiungo Jay ed Arianna.
Leggono lo shock sul mio volto.
Ad Arianna scappa una lacrima, silenziosa, mentre il suo viso si contorce in una smorfia.

- Avreste dovuto dirmelo! –esclamo, sconvolto, sbattendo una mano sul tavolo.
Il padre di Rachele sussulta, mentre la signora Nardi sospira.
- Mi pareva aveste litigato... –mugugna la donna, frustrata.
- E con questo? –alzo la voce –La ragazza che amo è malata, e voi nemmeno vi preoccupate di dirmelo? Ma lasciamo stare me. Nemmeno Arianna lo sapeva. La sua migliore amica!
- Adesso calmati, Oliver. –interviene Enrico.
Prendo un respiro profondo, mordendomi la lingua.
- Non è un tumore, è solo un esaurimento. –come pronuncia quelle parole, non sono più padrone di me stesso.
- Che cosa?! –grido –Solo un esaurimento?! Ha diciassette anni, cazzo!
- Non è nemmeno totale, ha attimi di lucidità. Il dottore ci ha consigliato di trovare un’idea innovativa che la coinvolga. Dice che prima di passare alle medicine dobbiamo provarle tutte.
- Non è ancora totale! –lo correggo, furente –Più tempo passa senza che le cose cambino, più lei peggiora! Non ho la minima intenzione di starmene qui fermo a guardarla morire.
- Oliver. –la signora Nardi mi guarda sconvolta.
Il silenzio cala sulla stanza.
Senza nemmeno rendermene conto, sto piangendo.
- Un’idea innovativa? –domando, la voce tremante, guardando altrove.
- Già. –sussurra flebile la donna –Anche portarla lontano da qui, se necessario.
E poi, poi ho un’idea.
- La casa sulla spiaggia –ragiono ad alta voce –La casa sulla spiaggia.
Enrico mi scruta con gli occhi socchiusi, poi pare capire.
- Oliver ha ragione.
La signora Nardi alterna il suo sguardo tra noi due.
- Voglio il vostro permesso per portare via Rachele –spiego, cercando di controllare la voce, rotta.
Sul viso della donna passano troppe emozioni per coglierle tutte.
- Portarla... portarla via?
Annuisco.
- Credo che se la portassi lontano da qui, potrebbe riprendersi. A Miami. La casa sulla spiaggia.
- Senza di noi? –la donna abbassa sempre più la voce, assimilando le informazioni.
Annuisco, contraendo la mascella. Mi rendo conto di quello che sto chiedendo. Ma è necessario.
- E... E per quanto?
- Per quanto ci vorrà, signora.
- E la tua carriera?
Sospiro, componendo il numero del signor Reynold sul cellulare.
- Non lo so, signora Nardi, non lo so. So solo che amo sua figlia. E questo è tutto quello che conta.

- Santo Cielo, Oliver... è orribile.
- Lo so, signor Reynold. Volevo solo dirle che non posso più farlo. Le consegno le mie dimissioni.
- Cosa? Ma Oliver...
- Non insista, la prego. Quella ragazza è la mia ragione di vita, non ho intenzione di abbandonarla.
- Ragazzo... Dico solo che non è finita per forza.
- Cosa... cosa intende, signore?
- Sei davvero sicuro che se abbandonassi la musica, lei starebbe meglio? Voglio dire... vuoi tenerla confinata in quella casa per sempre? Potremmo organizzare una serata qui, una là. Qualche locale di Miami. Portarla fuori potrebbe farle bene, qualche distrazione.
Resto in silenzio, rimuginandoci sopra.
- Ma se questo dovesse portarmi via tempo da dedicare a lei, io...
- Non accadrà. So che sei sotto contratto, ragazzo... però... dedicati a scrivere finché lei non starà meglio. Non rinunciarci del tutto.
- Non posso chiederle di aspettarmi, signore. Non so quanto tempo ci vorrà...
- Io sono disposto ad aspettarti. Credo in te. Farai strada, figliolo. Ed io voglio essere lì con te quando accadrà. Prenditi il tuo tempo. Pensaci.
Sospiro, fissando il panorama fuori dalla finestra.
- Grazie, signor Reynold.
- Figurati, ragazzo. Salutala. Dalle un bacio da parte mia.
- Sicuro. –sorrido –A presto.
- Ciao, Oliver.
Chiudo la telefonata, mi siedo sul letto. Continuo a guardare fuori dalla finestra, dove il vento scuote le chiome degli alberi, il cielo grigio.
Mi massaggio le tempie, cercando di mettere in ordine le idee.
- Ehi, fratello.
Mi volto verso la porta, mentre Jay richiude la porta e viene a sedersi accanto a me.
Restiamo in silenzio, entrambi.
- Cosa vuoi fare, Oliver? –mi chiede Jay dopo un po’, guardandomi.
- Voglio salvarla. –rispondo subito.
Lui fa un mezzo sorriso.
- La voglio portare via di qua. Suo padre mi ha lasciato le chiavi della casa sulla spiaggia, a Miami. –continuo, tirando fuori le chiavi dalla tasca della giacca e osservandole in controluce.
- Solo tu e lei?
- All’inizio, sì. Voglio tastare il terreno.
- Cosa hai intenzione di dirle, per convincerla a venire? –domanda Jay.
Sospiro, piano.
- Non ne ho idea. Deciderò.
- Cos’ha detto Reynold? –prosegue.
- Che non mi abbandona. –confido, in un sorriso.
- Nemmeno io, fratello. –ribatte subito Jay, dandomi una pacca sulla spalla.

Prendo un respiro profondo, sotto lo sguardo ansioso di Arianna.
Rachele, accoccolata accanto alla finestra, fissa vacua le pagine del libro che ha in mano.
La raggiungo.
- Ehi, bellissima.
I suoi occhi verdi scattano su di me. Sorride appena.
Le stampo un bacio sulla fronte.
- Possiamo parlare, un secondo?
- Sì.
Si alza e si sposta di qualche metro, lontano dalla finestra. Mi guarda in attesa, mentre Arianna ha bisogno di appoggiarsi alla spalla di Jay per non crollare.
Sto per trattarla con i guanti, quando mi blocco.
Perché mai dovrei? Perché dovrei parlarle come se fosse stupida, se non fosse più la brillante ragazza che conosco?
- Come stai?
- Bene. –risponde automaticamente.
La guardo sospirando, accarezzandole una guancia.
- Ehi. Ehi. –le sussurro –Non mi devi mentire.
Rachele si morde il labbro inferiore, gli occhi che diventano più lucidi.
Si fissa nel mio sguardo, quasi disperata.
- Portami via, Oliver. –gracchia solo, supplicandomi con gli occhi - Portami via di qui.
- Non avevo bisogno di sentire altro, baby girl.

- Allora. Abbiamo informato il preside, con il certificato medico. Ha detto che va bene. Poi. Il dottore. Lui ha detto che è un’idea grandiosa. Chi altro? –la signora Nardi pensa ad alta voce, marciando su e giù per il salotto – Per me ed Enrico va... va bene. Il tuo capo?
- Il signor Reynold ha acconsentito. –rispondo prontamente.
- E i tuoi genitori?
- Loro hanno detto che va bene.
Bugia. Balla. Beep. I miei nemmeno lo sanno. Ma è una cosa che devo dire loro di persona. Sono sicurissimo che non avranno alcun problema.
- Va bene, allora. –sospira la donna, sedendosi sul bracciolo del divano –Va bene. Salva la principessa, Oliver. Salva la principessa.

Arianna ce la sta mettendo tutta per non scoppiare a piangere.
Rachele la abbraccia stretta.
- Non fare così, tesoro. Non parto mica per la guerra.
- Lo dicono sempre tutti –piagnucola Ari, facendo sorridere l’amica.
Si separano.
Arianna mi si para davanti, puntandomi l’indice sul petto.
- Tu. Stai ben attento, giovanotto. –mi intima –Giuro che se provi anche soltanto a farla stare male prendo il primo volo che trovo e vengo a picchiarti, okay?
- Woah. –ridacchia Jay stupito. Ari si volta verso di lui e arrossisce, sorridendo.
- Okay. –le rispondo con un sorrisetto, ma dubito mi abbia anche solo sentito.
Rachele sospira.
- Ari... io... –tentenna, torturandosi le mani –Vorrei restare qui, per te, per... Ma proprio non ce la faccio. Ho bisogno di staccare la spina.
Gli occhi di Arianna si riempiono di lacrime.
- Lo so, lo so. –scoppia a piangere, abbracciandola di nuovo.
Ed è vero che lo sa. Lo sappiamo tutti. L’unica che non lo sa è Rachele. Il medico ha detto che per lei è meglio non saperlo, è meglio cercare di tirarla su senza che lei lo sappia.
Ho avuto un lungo colloquio con il dottore che l’ha visitata. Era sollevato. Contento che la portassi via. Ha detto che era tutto quello di cui lei aveva bisogno.
Lo so, lo so benissimo.
Ma ho paura.
Sono terrorizzato.
E se non dovessi riuscirci? Se lei peggiorasse e basta? Se peggiorassi solo le cose?
Il medico ha anche detto che è all’inizio dell’esaurimento, che a volte non vorrà alzarsi dal letto, che altre sprizzerà gioia da tutti i pori. Che devo essere paziente, trattarla come ho sempre fatto. Farle provare cose nuove, farle vedere il lato belle delle cose.
Che tornerà in qua senza che me ne renda conto.
Gli ho chiesto come farò a capire quando sarà guarita. Lui ha detto che non ci sarà un momento in cui potrò capirlo. Semplicemente, piano piano, Rachele ritroverà la serenità.
- Ehi, dobbiamo andare. –interviene Jay, bloccando il mio flusso di pensieri, guardando l’orologio.
- Sì. –convengo.
Entrambi ci voltiamo a guardare Rachele.
Lei prende un respiro profondo. Poi annuisce.
- Andiamo.

 

♥ ANGOLO AUTRICE ♥

Bene.

Ho aggiornato un po' in anticipo, ma domani è l'ultimo dell'anno e Dio solo sa se sopravvivremo, per cui, eccoci qui.

Mi rendo conto che questo capitolo è distruttivo e che non ve l'aspettavate. Ma nemmeno io, a dirla tutta. L'idea mi è venuta all'ultimo momento.

Non odiatemi. Anzi, dovreste amarmi, perchè ora Rachele e Oliver se ne staranno soli soletti in una casa su una spiaggia. No? No. Okay.

Grazie mille a tutti quelli e leggono e scusatemi se a volte mi dimentico di rispondere alle vostre recensioni, cercherò di rimediare al più presto!

Un bacio,

emmegili

 

Dal Capitolo 38:

- Sì, Scott, lo so. –la voce di Oliver è stanca e frustrata. Le urla di Scott, dall’altro capo del telefono, arrivano ovattate alle mie orecchie. In ogni caso, non riesco a distinguere quello che dice.
Non dovrei origliare. Ma mi sto preoccupando.

 

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Capitolo 38
*** 38. - Rachele ***


Lately, I've been, I've been losing sleep
Dreaming about the things that we could be
But baby, I've been, I've been praying hard
Said no more counting dollars
We'll be counting stars
Yeah we'll be counting stars

Counting Stars - OneRepublic
38. – Rachele
 
Non lo so, non ne ho idea.
Non so cosa mi stia succedendo.
Semplicemente, alterno momenti di felicità assurda a crisi di isteria e pianto. A volte non me ne rendo nemmeno conto.
Il venticello mi scompiglia i capelli, facendomi stringere ancora di più nel golfino bianco.
Guardo il sole tramontare oltre la linea del mare, appoggiata alla recinzione di legno del portico.
Sento la porta aprirsi e richiudersi.
Pochi secondi dopo, Oliver si appoggia accanto a me.
Ha i capelli spettinati, la luce arancione del tramonto gli illumina gli occhi.
- Hai fatto una doccia? –gli chiedo rapita. E’ più bello che mai.
- Già. –mi sorride.
Cadiamo nel silenzio.
- Oliver... senti... –mi decido, staccandomi dal legno e raddrizzandomi, per guardarlo in faccia.
Lui mi imita, così ora me lo trovo davanti.
Il mio sguardo si posa sui suoi pettorali, coperti da una leggera maglietta blu.
- Io... grazie. –riesco a balbettare, staccando gli occhi dai suoi muscoli e riportandoli sul suo viso.
- Di che cosa? –domanda sinceramente. Davvero non ha idea di quello che sto dicendo. Grandioso.
Sospiro, guardando le onde che, calme, raggiungono la spiaggia.
- Di avermi portata qui. –sussurro.
Quando lo guardo di nuovo, Oliver sorride dolcemente.
- Starai bene, vedrai. –promette, appoggiandomi le mani sulle spalle.
Sono spinta a credergli. Quel suo sorriso affabile, la sua stretta sicura sulla mia spalla. Mi dicono che ha ragione. Che starò meglio.
Di slancio, lo abbraccio.
Affondo la testa nel suo petto, sento il suo cuore che batte.
Oliver mi stringe a sé, mi accarezza la schiena, posa le sue labbra tra i miei capelli.
- Cosa vuoi per cena? –mormora.
Scuoto la testa, a ridosso del suo corpo.
- Non ho fame. –bofonchio allontanandomi.
- Devi mangiare qualcosa –obietta lui quando ho ormai raggiunto la porta.
- Ho detto che non ho fame –ribatto, chiudendomela alle spalle.
 
- Sì, Scott, lo so. –la voce di Oliver è stanca e frustrata. Le urla di Scott, dall’altro capo del telefono, arrivano ovattate alle mie orecchie. In ogni caso, non riesco a distinguere quello che dice.
Non dovrei origliare. Ma mi sto preoccupando.
Mi lascio cadere a terra, lentamente, vicino alla porta della camera da letto dove si trova Oliver.
- Avrei dovuto, sì. –ripete Oliver, mantenendo la voce calma –Ma ehi, non lo so nemmeno io. Cosa? Scott, per favore. No. No! Non puoi. Non le farebbe bene. Non te ne frega niente? Scott. Ascoltami. Non farti prendere dal panico. No, non sto dicendo questo. Be’, sto dicendo che... Calmati. Non sta morendo. No, non dire assurdità.
Silenzio.
- Amico, ti chiedo solo... –Oliver sospira flebile, devo sforzarmi per sentire quello che dice – Dammi tempo. Ho bisogno di capire... Puoi... puoi darmi tempo? Grazie, Scottie. Sì. Sicuro. Ciao.
Mi alzo in fretta e sgattaiolo in cucina.
Faccio appena in tempo a trovare qualcosa da fare per fingermi occupata, quando Oliver mi raggiunge.
Ha il viso stanco. Si passa una mano sul volto, frustrato. Quando mi vede, sforza un sorriso.
- Tutto bene? –domando, preoccupata.
Lui annuisce, sospirando.
Si avvicina, mi bacia sulla guancia.
- Da parte di Scott. –spiega.
Si allontana e si siede sul bordo del divano, la testa fra le mani.
Mi sento terribilmente in colpa per come l’ho trattato prima e mi odio per avergli chiesto di portarmi qui. Ho sconvolto la sua vita e non avrei dovuto. Sono stata egoista con la persona più altruista e generosa del mondo. Mi faccio schifo.
Vederlo così, triste, mi distrugge.
- Oliver... –squittisco, deglutendo.
Lui alza lo sguardo, fingendo un altro sorriso che mi pugnala allo stomaco.
-Dio, scusami. Mi dispiace così tanto. –soffio –Mi sento così egoista. Sono una stupida.
I suoi occhi brillano mentre deglutisce, preoccupato.
- Cosa c’è, baby girl? –domanda, cercando di nascondere la preoccupazione.
- Non so cosa mi stia succedendo, ma... ti voglio chiedere scusa. E devo anche dirti che... non posso permettermi di farti perdere così tanto tempo. Io me la caverò, ma tu devi andare, devi lavorare. Non puoi permetterti di scomparire nel nulla proprio ora. Non me lo perdonerei mai...
Oliver sorride abbassando lo sguardo, si gratta la nuca.
- Vieni qui –mi guarda dolcemente.
Lo raggiungo timidamente, mi fa sedere sulle sue gambe come se fossi una bambina. Lo guardo dritto negli occhi, in attesa.
-E’ qui che voglio stare, okay? Con te. –assicura –Se non lo volessi, ora non sarei qui. E non preoccuparti per me. Continuerò a fare musica lo stesso. Tanto la mia ispirazione ce l’ho proprio qua.
Sorride solleticandomi il collo con le labbra.
Sospiro, carezzandogli i capelli.
- Oliver. –lo chiamo in un sussurro.
I suoi occhi incrociano i miei e, istintivamente, sorrido.
- Mi suoni qualcosa? –gli domando, mordendomi il labbro inferiore.
Oliver si illumina, sorride e mi stampa un bacio sulle labbra, poi mi fa sedere sul divano e si alza.
Quando torna, chitarra in braccio, mi guarda, un poco nervoso, e si siede davanti a me.
- Cosa vuoi che ti suoni? –domanda gongolante.
- Quello che vuoi –rispondo subito, sorridendogli.
Oliver ricambia il sorriso, poi si mette a suonare.
E, come per magia, tutto il dolore scompare.
 
- Svegliati, dormigliona! Non abbiamo tempo da perdere! Alza quelle tue chiappe dal materasso! –le urla gioviali di Oliver mi riscuotono dal mondo dei sogni.
Apro appena le palpebre, giusto per vederlo correre avanti e indietro come una formica, aprire le finestre e far entrare la luce del mattino nella stanza.
- Ma che ora è? –mi lamento, affondando la faccia nel cuscino.
- Le sei e mezza.
- Che cosa?! –strillo, saltando su come una molla. Il suo sguardo divertito mi innervosisce ancora di più. Mi guarda con le braccia incrociate, un sopracciglio inarcato.
Noto, lentamente, il suo abbigliamento sportivo: pantaloni da basket, t-shirt piuttosto larga e comoda. Ma i miei sospetti vengono confermati quando gli occhi mi cadono sulle scarpe da ginnastica blu, Adidas.
- No. –soffio sconvolta, tornando sul suo volto.
Oliver fa un sorriso sghembo, abbassando lo sguardo. Per un attimo mi sciolgo, osservandolo.
Ma poi torna a guardarmi, esilarato, e tutta l’infatuazione mattutina sparisce in una nuvoletta.
- Oh, sì, cara. Andiamo a correre. –annuncia risoluto.
- Ma perché? Non è giusto. Voglio dormire. Lasciami dormire. –mi dispero, scomparendo tra i cuscini.
Continuo a mugolare a ridosso delle lenzuola, finché non lo sento avvolgermi con le braccia e prendermi in braccio, di peso.
Mi butta sulla sua spalla, a penzoloni.
- Mi hai obbligato tu a passare alle maniere forti! –si giustifica.
- Oliver! –piagnucolo tempestandogli la schiena di pugni.
- Niente obiezioni, baby girl. Si va a correre. Sulla spiaggia. Che vuoi di più dalla vita? Sarà magnifico.
-Magnifico? –ribatto –Mi stai prendendo in giro?
Mi lascia andare e i miei piedi nudi toccano il pavimento freddo.
Lo guardo torva, incrociando le braccia al petto.
Oliver fa un sorrisetto malizioso, all’improvviso, e tutta la mia sicurezza scompare.
- Cosa c’è? –gli domando, cercando di sembrare indifferente.
Se possibile, il suo sorriso si allarga ancora di più.
- E poi, si suda, a correre. –accenna.
- E quindi? –domando, non arrivando proprio al punto.
- E quindi –spiega –Dopo dovremo fare una doccia.
Non ci arrivo ancora, finché Oliver non mi guarda esilarato e sussurra:
- Potremmo farla insieme.
- Oliver Dawn! –trillo, schiaffeggiandogli un braccio –Ma ti pare il caso?
Lui scoppia a ridere.
- Ma guarda un po’… -bofonchio allontanandomi.
- Era per risparmiare l’acqua! –riesce ad aggiungere tra una risata e l’altra.
- Sì, certo! –esclamo lanciandogli un’occhiataccia.
- Lo sai che in Africa, ogni sessanta secondi…
- Passa un minuto! –lo tronco sul nascere.
- Perspicace. –mi prende in giro –Dai, vatti a cambiare.
- Vatti a cambiare. –gli faccio il verso tra me e me, tornando in camera.
- Ti ho sentita!
- E’ per questo che hai le orecchie!
- Wow, quanta acidità!
- Scusami! –strillo, infilandomi un paio di pantaloncini –La prossima volta che mi svegli all’alba per andare a correre cercherò di essere più entusiasta!
Ritorno in salotto, legandomi i capelli.
- Eccomi. –sospiro –Andiamo.
- Oh, be’, potresti lanciare una nuova moda. Già vedo gli articoli sul giornale: Andare a correre con la maglia del pigiama, lo stile in voga tra le adolescenti.
Abbasso lo sguardo, notando che effettivamente ho ancora addosso la maglia del pigiama.
 
L’aria fresca mattutina mi invade le narici, ripulendomi i polmoni. Non lo ammetterò mai ad alta voce, nemmeno sotto tortura, ma fare jogging di prima mattina, in riva al mare, apre la mente. E i polmoni.
Quasi non sento la fatica, mentre i miei piedi battono la sabbia compatta ed umida, bagnata dall’acqua.
Accanto a me, Oliver mantiene tranquillamente il ritmo, lanciandomi qualche occhiata di tanto in tanto, giusto per assicurarsi che sia viva.
Quando scorgo ricomparire la casa all’orizzonte, un po’ mi dispiace. La nostra casa. Sorrido inconsciamente, mentre mi fermo e appoggio le mani sulle ginocchia, riprendendo fiato.
Oliver si blocca e mi guarda curioso, le mani sui fianchi.
- Stanca? –domanda.
- Un po’ –annuisco raddrizzandomi e passandomi una mano sui capelli legati dall’elastico.
- Tanto siamo praticamente arrivati. –conviene tra sé e sé, avvicinandosi.
Mi guarda sorridendo, mentre stendo la gamba per rilassare i muscoli.
- Allora? –mi chiede.
- E’ stata l’esperienza più brutta della mia vita. –gli sorrido sfacciata.
- Lo vedo da come sorridi, che è stato terribile.
- Ognuno manifesta il disgusto a modo suo. –ribatto scrollando le spalle.
Oliver ride scuotendo la testa.
- Sei incredibile.
- E’ per questo che mi ami. –cinguetto, continuando con i miei esercizi di stretching.
- Hai proprio ragione. –annuisce, baciandomi la fronte.
Il rumore di due portiere che vengono chiuse, seguite da un vociare concitato, ci fanno voltare verso la casa.
Scorgo il fuoristrada nero dei signori Dawn, e il mio cuore perde un battito. Noto Scott e Jay prendersi in giro, mentre Allison cammina dietro di loro, paziente.
Luisa e John ispezionano il portico della casa, alla ricerca, probabilmente, di noi due.  
Si guardano intorno e, quando ci scorgono, scuotono le braccia con vigore per salutarci.
Mi volto verso Oliver, gli occhi che pungono.
Ma, per la prima volta dopo tanto tempo, sono lacrime di felicità.

♦​ ANGOLO AUTRICE ♦
​Bene, e abbiamo pubblicato anche il capitolo 38! Sembra solo ieri che ho pubblicato il primo... come passa il tempo!
​Innanzitutto, buon 2017 a tutti! Evidentemente, sono soppravvissuta anche a quest'anno.
​Oh, e volevo tantissimo mettere come strofa inziale una delle nuove canzoni del vecchio Ed, ma nessuna delle due era adatta, perciò... mi sono buttata sugli OneRepublic.

Dal Capitolo 39:

Bay ride scuotendo la testa, si asciuga le guance umide e gli corre in contro.

Forse, dopotutto, mi stavo sbagliando. Queste persone sono tutto ciò di cui ha bisogno.


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Capitolo 39
*** 39. ***


When the rain came
It washed us out to sea
I'm holding what I love
And she's holding on to me
It's no surprise
It brought me to my knees
You're never really ready
You're ready as can be
The sun was coming up
We were sifting through the sand
Looking for the pieces
Of our broken plans
It's gonna take a while
We're gonna get it back
We gotta carry on darling
We were built to last

Changing tides
Baby that's the hardest part of life
Hold me tight
And we will move as one in the changing tides

Changing Tides - The Fray

 
39.
Oliver
Una lunga seria di pensieri mi attraversa la mente alla vista della mia famiglia.
Avevo detto a Scott di stare alla larga da noi, perché avevo paura che Rachele la prendesse male.
Ed ora eccolo qua, con tanto di scorta.
Stringo i pugni lungo i fianchi, cercando di mantenere la calma.
Guardo la ragazza accanto a me, in tensione. Non ho idea di come reagirà. Ma, con mia grande sorpresa, gli occhi di Rachele sono lucidi e sorride, guardando verso la casa.
- Tutto bene? –le domando, accarezzandole la schiena.
Annuisce sorridendo, le lacrime che le solcano le guance.
Mi guarda, gli occhioni umidi.
- Grazie. –sussurra solo, baciandomi una guancia –Grazie.
Noto Scott correrci in contro con drammaticità teatrale e trattengo un sorriso.
- Raacheeellee! –chiama, al rallentatore.
Bay ride scuotendo la testa, si asciuga le guance umide e gli corre in contro.
Forse, dopotutto, mi stavo sbagliando. Queste persone sono tutto ciò di cui ha bisogno.
 
Rachele
Affondo nel petto di Scott, ridendo, e lui mi stritola in un abbraccio.
-Quanto mi sei mancata, piccoletta! –esclama lui.
- Anche tu, Scottie. –rido.
Quando mi lascia andare, mi perdo un po’ ad osservarlo. Ha i capelli spettinati, ma quei suoi occhi blu sono accesi e brillano più che mai.
- Ehi, guarda un po’ chi c’è qui! – Jay spunta da dietro la spalla di Scott, sorridente. Toglie gli occhiali da sole e se li appoggia in testa.
- Quant’è che non ti vedo! –esclamo abbracciandolo. Lui scoppia a ridere, cingendomi la vita con le braccia.
Dietro di noi, Scott abbraccia Oliver.
- L’hai portata a correre? –ride Scottie prendendomi sottobraccio.
- Crudele, vero? –piagnucolo.
Ci incamminiamo tutti e quattro verso la casa e la raggiungiamo in pochissimo tempo.
- Rae! –squittisce Allie vedendomi. Corre ad abbracciarmi.
Dopo essere stritolata anche da Luisa ed elegantemente salutata da John, mi sento parecchio meglio.
 
E’ impossibile non notare il palese cambiamento del rapporto tra Scott e Allie.
Li osservo con gli occhi socchiusi, concentrata. Accanto a me, Oliver fa lo stesso. Sono piuttosto sicura che sembriamo due cretini.
Ma insomma… Scott che balla con Allison, ridendo fino alle lacrime… non s’è mai visto.
- Secondo te… -inizia Oliver, senza distogliere lo sguardo dai due.
- Assolutamente sì. –rispondo prontamente, osservandoli fin nei particolari.
- Ehi, voi due. –Jay ci schiocca le dita davanti al viso, la bocca piena di patatine.
Oliver gli scosta la mano.
- Shhhhh –lo zittisce.
Allora Jay deglutisce il boccone e si accosta a noi due, seguendo il nostro sguardo.
- Ah, i due piccioncini. –si lascia sfuggire.
I miei occhi scattano su di lui, allarmati. I suoi si spalancano, sbarrati. Entrambi ci rivolgiamo, molto lentamente, ad Oliver.
Il ragazzo chiude gli occhi e prende un respiro molto profondo. Con calma, si volta verso Jay, che a un sorriso affabile che mi fa scappare un risolino.
- I che cosa? –domanda, sottolineando il concetto con un dito, a mezz’aria.
- Di cosa state parlando? –cinguetta Allison comparendo nella mia visuale, sorridente e tenendo Scott per mano.
Sempre mantenendo la calma, Oliver si volta verso Scott e lo fulmina con lo sguardo.
- Dobbiamo parlare. –asserisce.
Scott mi lancia un’occhiata interrogativa, ma io mi limito a mordermi un labbro.
- No. No. No. –interviene Allison con fare determinato, parandosi davanti al fratello.
Oliver inarca un sopracciglio.
- Scott è stato la mia ancora di salvezza, Oliver. Mi è stato accanto dopo che Noah mi ha tradita, mi ha sostenuto e ci siamo avvicinati parecchio. Nonostante ciò, non c’è nulla tra noi due, non ancora, e tu non ti devi preoccupare. Insomma. E’ il tuo migliore amico da una vita, lo conosci e sai benissimo che non mi farebbe mai del male. E’ la persona più dolce che conosca e non sarai tu a terrorizzarlo con i tuoi soliti discorsi da fratello iperprotettivo. Lasciami vivere una storia d’amore come quella tra te e Rachele, per una volta. –mette in chiaro la ragazza, lasciando a bocca aperta sia me che Jay. Vedo la sicurezza di Oliver vacillare per un attimo, al pensiero della nostra storia d’amore.
Scott fa un passo avanti, prende un respiro profondo e poi guarda Oliver dritto negli occhi.
- Okay. E’ arrivato il momento. –inizia.
Tutti e tre, tranne Oliver, lo guardiamo piuttosto confusi. Probabilmente è qualcosa tra loro due, perché né io né Jay né Allie sembriamo avere idea di cosa stiano parlando.
Scruto il volto di Oliver e scorgo l’ombra di un sorriso sulle sue labbra. Okay, c’è sicuramente qualcosa sotto.
- Oliver, voglio il permesso per uscire con tua sorella.
Il sorriso di Oliver diventa un vero e proprio sorriso sincero, che illumina la stanza.
- Ce ne hai messo di tempo. –ridacchia abbracciando uno Scott sollevato –Pensavo ti fossi dimenticato del nostro accordo.
- Accordo? Quale accordo? –mi immischio, non riuscendo a trattenermi.
Oliver lascia andare l’amico e mi guarda.
- Oh, ho detto accordo? Volevo dire rapporto. –mi sorride angelico.
Incrocio le braccia al petto e mi assicuro di sospirare con fare teatrale.
- Quanto sei carina… –ridacchia Oliver prendendomi il mento e dandomi un bacio a stampo sulle labbra, per poi sgusciare in cucina, dai suoi genitori. Lo seguo con lo sguardo, sognante.
- Terra chiama Rachele. Rispondi, Rachele. –ride Allison, scuotendo una mano davanti alla mia faccia.
- Cosa? Ehm? Sì. –borbotto, riscuotendomi.
Scott e Jay scoppiano a ridere.
- Quanto non è tenera quando arrossisce? –sorride Scott scompigliandomi i capelli.
- Troppo, decisamente. –conviene Jay, ridendo, pizzicandomi una guancia.
 
Oliver
Rubo un grissino con il prosciutto crudo dal vassoio che mamma sta preparando, beccandomi un’occhiataccia.
Le sorrido, colpevole. Papà ridacchia e mi dà un buffetto sulla nuca.
- Possiamo parlare? –domando, deglutendo l’ultimo boccone di grissino.
Mamma nota l’improvvisa serietà nel mio tono e, preoccupata, chiude piano la porta della stanza, assicurandosi che gli altri non ci sentano.
- Si tratta di Rachele. –spiego, sospirando.
Papà annuisce con fare grave, quasi convenendo.
- Sono venuto qua senza avvisarvi, ho portato via Rachele da casa sua, ho quasi lasciato il mio lavoro, ma… c’è un buon motivo.
L’espressione di mia madre si addolcisce mentre si butta il canovaccio sulla spalla.
- Lei non sta bene. –confido piano.
- Come? –chiede mio padre, preoccupato. Spalanca gli occhi, facendo un passo avanti. Mi si scoglie il cuore a vedere quanto tenga a Rachele.
- Ha… ha un esaurimento. A casa ha una brutta situazione. Ho dovuto portarla via. –spiego, come a dovermi giustificare –Non riuscivo a vederla soffrire. Quando ami una persona fai di tutto per vederla felice ed io… io la amo, davvero.
Mamma si lascia sfuggire un sospiro, quasi sognante, e mi carezza una guancia.
Papà mi stringe una spalla, guardandomi con l’ombra di un sorriso.
- Sono orgoglioso di te, figliolo. Davvero orgoglioso.
 
- Ragazzi, andiamo. –esclamo mostrando loro le chiavi dell’auto.
Sia Scott che Jay mi lanciano un’occhiata confusa, mentre Rachele trotterella fino a me, sorridendo come una bambina.
- Dove andate? –mi domanda, le mani dietro la schiena, con fare furbo.
E’ così carina che mi spunta un sorriso sulle labbra.
- Da nessuna parte –ribatto sorridendo innocente, guardandola negli occhi.
Scott e Jay ormai mi affiancano, osservando la scenetta divertiti.
Rachele geme.
- Torniamo subito. –la bacio rapidamente, poi le faccio un occhiolino che la fa sorridere –Ti amo.
Senza darle il tempo di aggiungere altro, mi chiudo la porta alle spalle.
Fischiettando, raggiungo la macchina.
- Dove andiamo, Olly? –chiede Scott.
- A prendere una cosa per Rachele. –rispondo sorridendogli.
- Ovvero? –incalza Jay, sedendosi al posto del passeggero.
Gli faccio un sorriso serafico, mettendo in moto l’auto.
La testa di Scott sbuca tra i due sedili anteriori.
- Non penso ce lo dirà. –constata guardando Jay con fare sospetto.
- Credo sia l’ideale per lei –cedo un pochino, gesticolando con la mano destra che stacco dal volante- Voglio dire… potrebbe darci una grande mano. E poi lei adora quel genere.
- Genere di che cosa? –sorride Jay, inarcando un sopracciglio.
- E poi, sei sicura che le piacerà? –aggiunge Scott girando la testa verso di me.
Faccio una risatina.
- A quale ragazza non piacciono i cuccioli?
 
- Ma quanto non è carino? Adorabile! Aww… io lo amo già. –gongola Scott, fissando la palla di pelo scuro che inciampa nelle sue stesse zampe.
La donna davanti a noi gli lancia un’occhiata sorridente.
- Tutti lo amano fin da subito. –confessa sospirando.
- Che razza è? –chiede Jay concentrato, abbassandosi sulle ginocchia e bilanciando il peso, ad altezza del cane.
- Pastore tedesco. Pelo lungo. Estremamente morbido. –elenca subito la donna, a memoria. Non siamo i primi che vengono a vederlo, di sicuro.
- E quanto ha? –continua Jay in un sorriso, quando il cucciolo gli si avvicina, scivolando sul parquet lucido, e prende a mordicchiargli un indice.
- Due mesi. E’ l’ultimo della cucciolata. E’ un maschio. –risponde spicciola la signora, portando una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio.
Lo osservo nei movimenti goffi, gli occhioni vispi che spruzzano felicità, la coda che pare un’elica, muoversi a destra e a manca senza un barlume di schema preciso. Ha un orecchio piegato su sé stesso che fa semplicemente sciogliere il cuore.
Jay ormai è innamorato, l’abbiamo perso. Scott osserva la scena intenerito.
Quando incrocio lo sguardo della padrona del cucciolo, mi sorride calorosa.
- Ti dirò la verità, Oliver. Mi piaci parecchio e il tuo scopo è davvero nobile, quindi sono tentata di regalarlo a te. –ammette –Però non mi pari convinto. E ho bisogno che tu lo sia.
Annuisco, sorridendo al cane che, come se si fosse sentito chiamato in causa, mi guarda scodinzolando.
- Sono convinto. –assicuro, sorridendo caloroso alla donna.
- Quindi lo prendiamo? –saltella Scott.
- Lo prendiamo.
- Lo tengo io, in macchina! –salta su subito Jay.
- Oh, non penso proprio! –ribatte Scott, incrociando le braccia al petto.
Alzo gli occhi al cielo, per poi abbassarmi e prendere in braccio il cucciolo, che fatica a restare fermo.
Sfilo le chiavi dell’auto dalla tasca e le lancio a Jay.
- Tu guidi. –li interrompo, accarezzando il cane.
Lui mi guarda imbronciato e prima che Scott possa cantare vittoria aggiungo:
- E io tengo il cane.
 
Rachele
- Mi ha detto ti amo. –ripeto sconvolta per la cinquantasettesima volta, facendo sospirare Allison.
- Credevo non fosse la prima volta... –fa notare, alzando per un secondo lo sguardo dalla rivista di moda che sta sfogliando.
- Sì, però... era una situazione normale, questa volta! Non doveva farmi stare zitta, né farmi capire quanto tenesse a me. L’ha detto così... come se fosse normale! –ribatto, buttandomi sul divano.
- Be’, allora significa che è vero. –scrolla le spalle Allie, spicciola.
- Ma io non gliel’ho ancora detto! –piagnucolo –Nemmeno una volta!
Lei decide di lasciar stare la rivista e la appoggia sul tavolo, accanto a sé.
- Innanzitutto. Lo ami? –mi domanda, abbracciandosi le ginocchia.
In un secondo, una lunga serie di dolcissimi ricordi mi lampeggia davanti.
Il sorriso che aveva la prima volta che l’ho visto, i capelli spettinati che gli donavano un’aria intrigante.
La passione dipinta sul suo volto quando l’ho visto cantare al compleanno di Arianna, la sua estrema dolcezza nell’aiutarmi a ripulire tutto fino alle cinque del mattino.
La sorpresa e anche il piacere segreto nel ritrovarlo nella scuola deserta, quella sera in cui ho accompagnato Ari a prendere i libri per Rita.
La complicità che c’era nell’aria quando poi ho cenato con lui e Sofia, l’espressione compiaciuta di mamma quando l’ha incontrato per la prima volta.
I video che abbiamo girato insieme. Le parole che lui mi ha spinto a scrivere.
La sua famiglia. I nostri tre giorni a New York. I sacrifici che ha fatto e che sta facendo per me.
Le farfalle che mi svolazzano nello stomaco appena mi sfiora.
- Eccome se lo amo... –concludo in un bisbiglio.
Allie sorride.
- Glielo dirai quando sarai pronta per dirglielo. –mi rassicura –Intanto puoi dimostrarglielo.

♦ ANGOLO AUTRICE ♦

​Come prime cosa, ecco la traduzione delle strofe della canzone dei "The Fray" all'inizio del capitolo,
Changing Tides, perchè non ho mai trovato niente che si addattasse così perfettamente alla mia, anche se ormai nostra, storia.

Quando è arrivata la pioggia
​Ci ha lavato al mare
Sto abbracciando ciò che amo
​E lei si stringe a me
​Non è una sorpresa
Mi ha messo in ginocchio
Non si è mai davvero pronti
​Si è pronti quanto si può esserlo
Il sole stava sorgendo
​Eravamo seduti sulla sabbia
Cercando i pezzi
Dei nostri piani distrutti
Ci vorrà un po'
Lo avremo indietro
Dobbiamo solo resistere, tesoro
Siamo stati costruiti per durare

Le correnti che cambiano
​Piccola, sono la parte più difficile della vita
Stringimi forte
​E ci muoveremo insieme nelle correnti che cambiano


Okay... Ora. Le cose sembrano andare meglio per davvero, no? Come scritto nella canzone, le cose brutte accadono. Ma saranno insieme ad affrontarle.
​Personalmente, Scott e Jay che sclerano per un cucciolo di cane sono troppo adorabili. Li ho amati tantissimo mentre scrivevo la scena.

​Ho quasi pianto scrivendo la serie di flashback che ha Rachele alla fine del capitolo. Questa storia è cresciuta in così poco tempo. Ritornare indietro nei capitoli è stato come aprire un vecchio libro di fotografie...Il prossimo capitolo è il 40! Okay, devo smetterla di fare la malinconica.


Dal Capitolo 40:
- Ho appena realizzato che non siamo mai usciti a cena come si deve, io e te.

Un bacio,
​emmegili

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Capitolo 40
*** 40. - Rachele ***


And darling I will be loving you 'til we're 70
And baby my heart could still fall as hard at 23
And I'm thinking 'bout how people fall in love in mysterious ways
Maybe just the touch of a hand
Oh me I fall in love with you every single day
And I just wanna tell you I am
So honey now
Take me into your loving arms
Kiss me under the light of a thousand stars
Place your head on my beating heart
I'm thinking out loud
Maybe we found love right where we are

​Thinking Out Loud - Ed Sheeran

40. – Rachele
 
- Venire a trovarci, dici? –domando, eccitata, il telefono in vivavoce sul tavolo.
Mi rigiro davanti allo specchio, passando le mani su uno dei vestiti che Allie mi ha portato dal Canada.
Lei, seduta sul letto, batte le mani, approvandolo.
- Sì, be’… non subito. Fra un mese, più o meno. –spiega Arianna dall’altro capo del telefono –Mamma dice che devo migliorare il mio inglese. E che devo viaggiare, perché sono giovane.
- Io non vedo perché no. –interviene Allie, ordinandomi di girarmi su me stessa con un dito.
- Sarebbe grandioso. –confermo, ubbidendo –E poi devo assolutamente farti passare del tempo con Jay.
Allie mi lancia un’occhiata esilarata, mentre mi sfilo di dosso l’abito celeste e lo ripongo nell’armadio.
- Come? –borbotta Arianna, imbarazzata.
- Oh, andiamo. Vi divorate con gli occhi. –obbietto, provando l’abito seguente.
E’ corto, rosa pallido, con del pizzo nero sulle maniche, a tre quarti, e sullo scollo. E’ davvero grandioso.
- Noi non… -balbetta lei dall’altro capo del telefono, mentre io mi pettino i capelli con le mani per volumizzarli.
- Sei fantastica. –sospira Allison squadrando lo specchio.
- Vabbè, ci sentiamo. Ora devo andare. –bofonchia Ari –Un bacio. Ti voglio bene.
- Ciao Ari. Ti voglio bene anche io. Oh, e ti saluta anche Allie. –aggiungo, notando in un’occhiata che Allison scuote la mano con foga.
- Salutala tanto. Ciao.
Chiudo la telefonata.
- Ti sta benissimo, Rae. Sei una vera bomba. –si complimenta Allison porgendomi delle scarpe con il tacco –Vediamo come si abbinano.
Faccio scivolare i piedi nelle calzature, rigirandomi davanti allo specchio.
- Perfezione. –sospira sognante.
Bussano alla porta della stanza, e dall’uscio sbuca la testa di Jay. Ci sorride caloroso.
- Ehi, belle fanciulle. Posso entrare?
- Sicuro. –rido.
Quando si chiude la porta alle spalle, mi squadra da capo a piedi, la bocca aperta.
- Cavolo, Bay. –balbetta –Sei mozzafiato.
- Oh. Ti ringrazio. –arrossisco, sminuendo la cosa con un gesto della mano –Ma stavo solo provando gli abiti che mi ha regalato Allie.
Lui si passa una mano tra i capelli castani. Capisco Arianna: sa essere davvero irresistibile.
- Non sbavare, Jay. –ride Allison –E’ pur sempre la ragazza del tuo migliore amico.
- Purtroppo…- mugugna lui, per poi sorridermi raggiante –Noi… avremmo una cosa per te.
- Oh. –esclamo stupita –Fammi cambiare e… e arrivo.
- Certo. –mi fa un occhiolino che mi scioglie il cuore e ci lascia sole.
- Sai, sono i momenti come questo che mi aiutano a capire perché tutte gli corrano dietro. –confessa Allie divertita, porgendomi i jeans e il maglioncino che indossavo prima.
Quando arriviamo in salotto, le facce colpevoli ed esilarate di Jay e Scott mi fanno rivolgere lo sguardo immediatamente verso Oliver, che mi sorride come un bambino.
John sbuffa una risata, sedendosi sul divano e aprendo il giornale.
- Baby girl. –inizia Oliver diplomatico –Ho una sorpresa per te.
Annuisco accondiscendente.
- Ah, sì? E in onore di che cosa? –domando, facendo sorridere Allie.
Oliver pare pensarci un po’ su, poi sorride impacciato e accenna ad una grande scatola colorata nell’angolo della stanza.
Lo raggiungo e lo bacio.
- Grazie. –sorrido –Non serviva.
Mi perdo nei suoi occhi infiniti, mentre mi carezza una guancia. Resterei così per sempre.
- Dai, sono curiosa. –mi sprona Allie.
Ridendo, mi avvicino cautamente al pacco.
Quando tolgo il coperchio, una palla di morbido pelo scuro mi salta addosso.
- Ma cosa…? –rido stupita, prendendo in braccio il cane.
I due grandi occhioni, lucidi ed attenti, mi fissano sorridenti. Un sorriso mi spunta spontaneo sulle labbra.
- Ehi. –sussurro al cucciolo –Ciao.
In risposta, lui scodinzola e mi si strofina sul petto. Ha un orecchio piegato che è estremamente adorabile.
E’ così carino che mi dimentico delle persone che mi circondano. Lui scodinzola e mi saltella attorno, iperattivo.
Oliver si accuccia accanto a me, guardandomi curioso.
- Ho pensato che ci mancava, un cane. Così ora ho una scusa per portarti a correre. –mi sorride.
Ricambio un sorriso antipatico, giocherellando con il pelo del cucciolo.
- Come si chiama? –domando, sorridendo spontaneamente quando il cane si inciampa nelle sue stesse zampe.
- Non ha un nome, ancora.
Salto su, esilarata.
- Sei serio? –trillo battendo le mani –Oddio, da dove comincio? Direi per ordine alfabetico. A… Aron. No! Argo. Blake! Oh!! Blue! Blue!
Oliver mi guarda intenerito, avvicinandosi.
- Grazie –lo abbraccio eccitata –Grazie mille. Sono così contenta. Ora ho qualcosa da fare tutto il giorno. Tipo… wow. Dio, che bello!
Gli occhi di Oliver brillano, il suo sorriso è pura felicità. Mi circonda la vita con le braccia, avvicinando il mio viso al suo.
Incrocio le mani dietro il suo collo, sorridendo.
- Grazie.
 
-Vada per Blue? –si accerta Luisa, agitando in aria una penna.
- Sì, io approvo. –conferma Scott con professionalità, poggiando le gambe sul tavolino.
Accanto a lui, sul divano, Jay alza un pollice.
Accanto a loro a mia volta, seduta sulle ginocchia di Oliver, annuisco.
John approva in un brontolio, in quanto intento a leggere il quotidiano, mentre Allison bofonchia qualcosa che suona come un sì, una mela in bocca.
- Vada per Blue. –conferma Luisa sollevata, guardando la palla di pelo che, a ridosso del mio grembo, pare quasi sonnecchiare.
- Sentito? –sussurro all’orecchio del cane –Ora ti chiami Blue.
Blue alza il musetto all’improvviso e mi carezza una guancia col naso umido.
- Voglio portarlo a fare due passi. –annuncio solenne. Stampo un bacio ad Oliver e poi mi alzo, riappoggiando Blue a terra.
- Posso… posso venire con te? –domanda Scott, sorridendomi.
Stupita, lo fisso per qualche secondo.
- Certo. –gli sorrido –Perché no?
 
Le mani in tasca, faccio il possibile per assorbire più luce del sole che posso. Chiudo gli occhi, respirando a pieni polmoni.
Accanto a me, Scott cammina con le dita nelle tasche dei jeans, un sorriso sereno sulle labbra.
Davanti a noi, Blue corre e inciampa con cadenza quasi regolare, giocando entusiasta con le onde dell’oceano che lo investono.
- Posso sapere cos’è quell’accordo tra te e Oliver? –gli sorrido angelica, come una bambina di cinque anni che sa di avventurarsi in acque pericolose domandando al padre una cosa che le è già stata negata dalla madre.
Scott sospira teatrale, poi scuote la testa.
- Rachele, Rachele… -sospira.
- E dai… -lo imploro.
Mi osserva fingendosi serio, poi manda al diavolo Dio solo sa cosa e bofonchia un “d’accordo”.
Mi prende a braccetto e gesticola davanti al mio viso.
- Bene. Devi sapere che quando Oliver è venuto a sapere che mi piaceva Allie, qualche anno fa, non si è incazzato com’era sua abitudine.
- Ah, no?
- Nein. Anzi, mi ha fatto promettere una cosa.
- Che cosa?
- Quante domande…
- Scott!
- Va bene, va bene… Mi ha fatto promettere che…
Resta zitto, per creare suspense. Lo uccido con un’occhiataccia e, ridendo, prosegue.
- Mi ha fatto promettere che quando fosse arrivato il momento, avrei fatto la persona intelligente e gli avrei chiesto formalmente di poter uscire con sua sorella, senza nascondermi e senza sotterfugi. Ammetto che me la stavo facendo sotto fino a prima, però poi quando l’ho visto incazzarsi mi sono detto “Scott, sii ragionevole una volta tanto”. Così ho preso coraggio e ho mantenuto la promessa. Mi è parso piuttosto soddisfatto, no?
Ridacchio, dandogli una pacca sul braccio.
- Siete una bella coppia. –sorrido.
- Io e Oliver?
Alzo gli occhi al cielo.
- Tu e Allison. Tu. E. Allison.
Mi sorride, per la prima volta, impacciato. Faccio un sorriso sornione.
- Oh, sei imbarazzato! –sottolineo intenerita –Allora lei ti piace parecchio.
- Be’…
- Scott. Sono tua amica, ti devi confidare. Anche perché dubito che Jay ed Oliver siano bravi a mantenere i segreti. Sotto sotto sono due vere e proprie pettegole. –mormoro, ragionando a voce alta.
Scott scoppia a ridere.
- Sì, lei mi piace parecchio. E sì, sono talmente pettegoli che non si fanno gli affari loro nemmeno per sbaglio.
- Lo sapevo. –sorrido soddisfatta, con una punta di superbia che lo fa ridere ancora di più.
Mi stringe a sé con un braccio e, sempre ridendo, mi bacia la fronte.
E’ probabilmente la persona che più si è avvicinata, nella mia vita, al concetto di persona su cui poter contare davvero, dalla quale correre nel bel mezzo della notte, della quale fidarsi senza nemmeno un’ombra di dubbio. Al concetto di amicizia fra uomo e donna. Al concetto di fratello maggiore.
 
Quando, la sera, torno a casa dopo una sessione intensa di shopping con Allie, la quale si è dileguata con una scusa piuttosto banale abbandonandomi a milioni di borse colorate di carta, nemmeno mi accorgo della luce spenta e della completa assenza di vita in casa.
Decine di candele sono accese, sparse in giro per la casa, petali di rosa sul pavimento, ovunque.
Un unico tavolo apparecchiato per due, a lume di candela, dalla tovaglia rossa.
Richiudo la bocca che ho spalancato per la sorpresa, quando Blue scivola nella stanza facendomi le feste.
- Ehi, ciao, patato. –sorrido accucciandomi per accarezzarlo.
Quando alzo lo sguardo, un Oliver vestito con un completo da uomo elegantissimo mi porge un mazzo di rose rosso fuoco.
Ora la bocca non riesco più a chiuderla.
- Mi sono appena reso conto che non siamo mai usciti a cena come si deve, io e te.
Sorpresa, mi alzo dal pavimento e, passando una mano sui jeans, lo guardo. Le farfalle prendono a svolazzarmi nello stomaco e mi sembra tutto come la prima volta.
Non riesco nemmeno a spiccicare parola, è come se mi avesse stregata. Mi sento quasi la ragazzina timida che parla per la prima volta con la sua cotta storica.
Oliver fa un sorriso sghembo che mi fa abbassare lo sguardo in un sorriso.
- Hai cucinato tu? –gli domando, schiarendomi la gola.
- Mi ha aiutato mamma mentre eri fuori con Allie. –ammette.
Ridacchio.
- E loro dove sono? I tuoi, dico.
- Non preoccuparti per loro. Vuoi… vuoi cambiarti?
Il suo sorriso dolce accelera il mio battito cardiaco. Deglutisco annuendo.
 
Jay ha detto che ero mozzafiato, Allie ha persino usato la parola “perfezione”. E’ questo che devo mettere, punto.
Se aspetti ancora un po’ la cena si raffredda.
Ammutolisco davanti allo specchio. Era tanto che non sentivo quella sfrontata vocetta.
Sorrido inconsciamente, ammirando le scarpe con il tacco. Prendo un rossetto rosso dal comodino e me lo metto attenta sulle labbra.
Apro e chiudo le labbra, cercando di farlo aderire bene. Ravvivo i capelli velocemente.
Sei magnifica, sì. Ora muovi quel bel culetto.
Sorrido e, con un respiro profondo, apro la porta della stanza.
 
Ho i crampi alla faccia da quanto sto ridendo. Quasi mi dimentico di respirare.
Oliver ride a crepapelle a sua volta, dall’altra parte del tavolo.
Non mi sono mai sentita così leggera in tutta la mia vita. Oliver è un toccasana, una boccata d’aria fresca.
La sua espressione quando sono arrivata in salotto è stata impagabile. Gli è letteralmente caduta la mascella. E’ stata una sensazione magnifica, sentire i suoi occhi su di me. L’avevo già sperimentata altre volte, ma stasera… è stato diverso. Ho visto i suoi occhi illuminarsi.
Dal canto mio, ho fatto fatica a mantenere la lucidità a mia volta. E’ così bello con la giacca e i pantaloni neri, la camicia bianca sbottonata per i primi bottoni…
Non sbavare, si noterebbe.
- Tua madre è una cuoca eccellente. –commento, sorridendo.
- Ehi, ho detto che mi ha aiutato, non che ha fatto tutto lei. –puntualizza Oliver offeso, facendomi scoppiare a ridere.
Mi guarda, scuotendo la testa con un tenero sorriso. Si schiarisce la gola e si alza. Aggira il tavolo e mi tende una mano.
Persino le sue mani sono stupende.
- Vieni?
Lo osservo curiosa, poggiando la mia mano sulla sua.
Mi porta fuori, sul portico adornato da lucine calde appese al tetto. L’atmosfera è magnifica, mi perdo a guardarmi attorno.
- E’ bellissimo –sussurro rapita, voltandomi verso Oliver.
Lui mi sorride, poi raggiunge uno stereo vecchio poggiato sul tavolo e schiaccia un bottone. Parte un lento.
Sento le guance andarmi a fuoco mentre lui si avvicina lentamente.
- Stai arrossendo? –mi sussurra roco, intenerito.
Abbasso lo sguardo, schiarendomi la gola.
- Aw, stai arrossendo. –constata con un sorriso stupito. Mi alza il mento con un dito, facendo incrociare i nostri sguardi.
Mi cinge la vita con l’altra mano, tracciando dei piccoli cerchi immaginari con il pollice sulla mia schiena.
- Sei meravigliosa, te l’ho detto? –soffia sulle mie labbra.
Gli sorrido riconoscente, iniziando a dondolare a ritmo di musica. Mi imita e, prima che me ne accorga, stiamo ballando.
Affondo la faccia nell’incavo del suo collo, inspirando il suo profumo. Dio, è così buono.
Oliver mi bacia una tempia, stringendomi a sé.
Il rumore delle onde che si infrangono sulla spiaggia, in sottofondo, fa sembrare tutto un lontano sogno. Mi concentro sul pollice di Oliver che mi accarezza.
All’improvviso mi ricordo di una cosa.
Mi allontano dolcemente da Oliver, incrociando i suoi occhi appena confusi.
- Che c’è? –mi domanda, preoccupato.
- Niente, solo… -sospiro, chiudendo gli occhi.
Quando li riapro, li fisso in quelli di Oliver.
- Ti amo.
Il sorriso sghembo che gli compare sulle labbra è la cosa più bella che abbia mai visto.

 
 ♦ ANGOLO AUTRICE ♦

​Prima di tutto, scusatemi per il ritardo!
​Il fatto è che questo finesettimana è stato davvero troppo intenso e ieri non sono riuscita ad aggiornare... chiedo perdono!

​Sono innamorata di questo capitolo. E' probabilmente uno dei miei preferiti.
La canzone... quale meglio di Thinking Out Loud?

Riguardo all'anteprima... questa volta salta...
​Purtroppo sono in dubbio su una cosa, per cui non mi sento di mettervi un'anteprima che poi non verrà rispettata.

Un bacio grande,
​emmegili

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Capitolo 41
*** 41. ***


41.
 
I don’t wanna be your lover
I don’t wanna be your fool
Pick me up whenever you want it
Throw me down when you are through
'Cause I’ve learned more from what’s missing
It’s about me and not about you
I know I made some bad decisions
But my last one was you
You Don’t Know Love – Olly Murs
 
Diana Nardi
Corro su per le scale, badando a non far cadere la cesta della biancheria pulita.
Lancio un’occhiata affannata all’orologio da polso. Le sette. E’ tardi.
Passando davanti alla stanza di Lucas, mi fermo per svegliarlo.
- Sveglia, Lucas! –esclamo battendo la mano sulla porta –Muoviti, che è tardi.
Mi dirigo a passo spedito verso la camera di Rachele.
- Rachele, alzati! Sei tardissimo, potresti perdere l’autobus! –grido aprendo la porta.
La stanza è vuota, il letto fatto. Non c’è un capello fuori posto.
Perplessa, appoggio la cesta a terra e mi passo una mano tra i capelli. Non mi pare si sia già alzata.
- Rachele? –chiamo esitante, allungando il collo –Tesoro?
Che mia figlia non ci sia, a questo punto mi pare chiaro. Ma dove si è cacciata?
- Enrico? –esclamo –Enrico, vieni!
Mio marito compare in pochi secondi sulla soglia della stanza, preoccupato.
- Che c’è, Diana? –domanda, guardandomi attento –Che ci fai nella stanza di Rachele?
- Come che ci faccio? Sono venuta a svegliarla. –rispondo con ovvietà, portando le mani ai fianchi –Ma non c’è. Sai per caso dov’è?
I suoi occhi di riducono a due fessure, osservandomi attento. Prende un respiro profondo.
- Ti senti bene? –mi chiede cautamente.
- Ma certo! –sbotto –Non capisco tutti questi problemi! Dov’è mia figlia?
Cerca di nascondere lo stupore dal suo viso e si schiarisce la gola.
- E’ in America, Diana.
Lo guardo inarcando le sopracciglia.
- America? Non mi prendere in giro.
- E’ andata con Oliver a Miami, non ricordi? –ribatte piano, scandendo con attenzione le parole.
Improvvisamente, mi sento un’idiota.
- Miami. Oliver. Ma certo. –soffio sottovoce, sedendomi sul letto.
Mi massaggio le tempie.
- Non te lo ricordavi? –mi domanda Enrico.
Scuoto la testa. Cosa mi sta succedendo? Prendo qualche respiro profondo, concentrandomi.
- Cosa mi è successo, Enrico? –balbetto con un groppo in gola –Ho lasciato andare via mia figlia quando aveva bisogno di me. L’ho abbandonata. Non l’ho minimamente presa in considerazione. Mia figlia sta male a causa mia e… Perché l’ho lasciata? Perché non ho pensato che forse, magari, avrei dovuto starle vicino? Perché? Perché sono una madre così orribile?
Lui scuote la testa, avvicinandosi.
- Lei sta bene, è con Oliver. –mi rassicura, stringendomi una mano.
- Appunto! –singhiozzo –Dovrebbe essere qui, con me, con noi! Dovrei essere io ad occuparmene!
Enrico non sa più cosa dire, si limita a stirare le labbra in una linea sottile.
Inizio a piangere, confusa.
- E’ come se non fossi stata me stessa per gli ultimi mesi –annaspo.
Enrico mi abbraccia.
 
Lucas
Vedere mamma piangere nella stanza di Rachele mi confonde. Non è stata lei a darle il permesso di andare con Oliver?
Oliver. Lui mi piace. E’ divertente. Non mi tratta come se fossi stupido.
Papà abbraccia forte mamma.
Non erano arrabbiati con Rachele?
Corro nella mia stanza. Inciampo in una scatola colorata che si apre e rovescia il suo contenuto sul tappeto ai piedi del letto.
- Accidenti. –bofonchio accucciandomi a raccogliere gli oggetti.
Ci sono anche le conchiglie che io e Rachele raccoglievamo quando andavamo al mare.
Di forme e colori diversi.
Le ributto nella scatola.
Trovo una fotografia. E’ Rachele, sorride e mi abbraccia.
Mi manca tanto.
Due lacrime mi cadono sulla foto, bagnandola.
- No! No! –esclamo, cercando di asciugarla.
La porta della camera si spalanca e papà entra nella stanza.
- Lucas? Tutto bene? –mi domanda raggiungendomi.
Lo abbraccio stringendolo forte.
- Mi manca Rachele –piango sulla sua spalla.
- Vuoi chiamarla? –mi propone lui sorridendomi.
Annuisco.
 
- Pronto?
La sua voce è serena, rilassata.
- Ciao. Ciao Rachele. –mi affretto –Sono Lucas.
Lei resta zitta un secondo, poi mi risponde.
- Ciao, Lucas. –dal suo tono sento che sta sorridendo –Come stai?
- Bene. Bene, sì. E tu?
- Sto benissimo, grazie.
- Ti diverti con Oliver?
Papà, accanto a me, ridacchia.
- Certo che mi diverto con Oliver –ride Rachele dall’altro capo del telefono.
- Volevo dirti che mi manchi. –soffio sulla cornetta.
Rachele si zittisce.
- Mi manchi anche tu, nanerottolo. Ci sentiamo, okay?
- Okay. Ciao.
- Ciao.
 
Arianna
Ed mi guarda ferito.
- Che cosa?
Sospiro, allargando le braccia.
- E’ a Miami. Con Oliver.
- Non mi ha nemmeno salutato. Ed è andata a Miami con quel figlio di puttana? L’ha tradita. –sbotta lui, sbattendo un pugno sul tavolino del bar.
- Ed, calmati. –cerco di fermarlo –Non l’aveva tradita. E’ successo tutto un casino con i giornalisti. Erano photoshoppate.
D’accordo, non dovrei mentirgli. Ma non mi pare nelle condizioni di poter accettare la verità, oltre al fatto che non mi crederebbe mai.
Ma io con Oliver ci ho parlato, e anche con Rachele. Io ho capito. Ed non capirebbe.
Tiene così tanto a Rachele. Non pensavo ci si potesse affezionare a qualcuno così in fretta.
- Erano false? –deglutisce.
Annuisco risoluta.
- L’ha portata via perché gliel’ha chiesto lei. Restare qui non le avrebbe fatto bene. E poi… mi ha detto di salutarti. Tanto. Mi spiace se non l’ho fatto prima. –mento, nervosa.
So che Rachele l’avrebbe fatto se fosse stata in sé. Non c’è ragione per farlo soffrire inutilmente.
- Non voglio che stia male. –bofonchia, giocherellando con una bustina di zucchero.
- Nessuno di noi lo vuole. –convengo, vedendo entrare dalla porta Cami. Le faccio un cenno e lei si accomoda dopo aver stampato un bacio sulla guancia al fidanzato.
Mi fa ancora uno strano effetto vederli insieme.
Le racconto rapidamente la storiella che ho raccontato ad Ed.
Non mi piace mentire. Ma a volte è necessario.
 
Apro la porta del locale per uscire, quando vado a sbattere contro qualcosa.
Alzo lo sguardo e, immediatamente, mi pietrifico.
Gli occhi di Leonardo mi fissano spaventati. Odio il fatto che mi superi di trenta centimetri buoni.
Mi schiarisco la gola e mi scosto per andarmene, quando lui mi trattiene per un polso.
- Posso parlarti? Ti prego. –mi supplica.
Ed e Cami mi guardano, in attesa. Rivolgo il mio sguardo su Leonardo ancora una volta, poi faccio segno ai miei due amici di proseguire.
- Vi raggiungo dopo. –spiego.
Quando sono abbastanza lontani, mi volto verso il ragazzo.
- Ti do dieci minuti. E spero per te che tu non abbia intenzione di sparare cazzate. –sibilo, incrociando le braccia al petto.
Leonardo sospira, poi fissa i suoi occhi nei miei.
- D’accordo. Io… Io volevo chiederti scusa. Sono stato uno stronzo. Un coglione. Tutti gli insulti che ti vengono in mente. Be’, io lo sono stato.
- Chiedermi scusa? A me? –ripeto sibillina –Rachele stava passando un momento di merda e per colpa tua è caduta in depressione, brutto deficiente!
Il suo stupore è tale da farmi venire voglia di schiaffeggiarlo.
- Come?
- Con la roba di Sara e tutto il resto. –alzo gli occhi al cielo.
Annuisce dispiaciuto, poi sospira.
- So che non potrai mai perdonarmi per averti usata così. E non ti sto chiedendo di farlo. –sussurra, gli occhi dispiaciuti –Voglio solo che tu sappia che so che sono stato un idiota e che me ne pento. E che ho intenzione di parlare con Rachele appena potrò.
Lo scruto, stringendomi nel cappotto. Mi porto una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Se non altro, sembra sincero.
- Bene. Grandioso. –tiro un sorriso.
- E volevo anche dirti che mi piacevi sul serio. –aggiunge –Sei una brava ragazza.
Annuisco.
- Forse era proprio questo il problema. –commento, prima di andarmene.
 
Sara
Sbuffo sonoramente, sperando che Lizzie si decida a notarmi.
Ma niente, la bionda continua a limarsi le unghie, alternando lo sguardo tra le sue mani e il televisore, dove stanno trasmettendo la sua soap opera preferita.
- Possibile che devo sempre annoiarmi, con te? –sbotto, scattando in piedi.
Lei mi lancia un’occhiata esasperata.
- Senti, tu non mi piaci. Pensavo ti fosse chiaro. –sottolinea, agitando in aria la limetta –Sei qui solo perché Leonardo è mio fratello.
- E’ impossibile. Io piaccio a tutti. –ribatto con noncuranza, tornando a sedermi sulla poltrona.
Lizzie rotea gli occhi e riprende il suo lavoro di manicure.
La porta di casa si apre e Leonardo varca la soglia. Se la richiude alle spalle e, stanco, si scompiglia i capelli.
- Grazie al cielo! –esclama sua sorella, raggiungendolo in tutta fretta –Ancora qualche minuto e l’avrei uccisa.
La fulmino con un’occhiataccia, ma Lizzie pare non interessarsene e sguscia via.
Il ragazzo ha l’aria stanca, pesante. Si avvicina e si abbandona sul divano di pelle in un sospiro.
- Che c’è? –chiedo civettuola, cambiando canale.
- Niente. –mi liquida subito.
Lo osservo per un po’, poi mi alzo e mi siedo sulle sue gambe, sorridendo sensuale.
- Sei così teso… -mormoro, passando le mani sui suoi bicipiti.
Leonardo non pare scomporsi, anzi mi guarda con stizza.
- Smettila. –ordina, distogliendo lo sguardo.
- Che cosa?
- Smettila. –ripete lui semplicemente, prendendomi di forza e spostandomi dal suo bacino.
- Ma si può sapere che cazzo ti prende? –scoppio, rizzandomi in piedi come una sentinella.
- Mi hai stancato. –spiega lui con prontezza –Non voglio più avere a che fare con te.
- Che cosa? –ripeto stridula, puntandogli l’indice contro –Oh, capisco. Hai appena visto quella puttanella.
Incrocio le braccia al petto, inarcando le sopracciglia. Leonardo scatta in piedi, furente.
- Come prima cosa, si chiama Arianna e non è una puttanella. –sibila freddo –In secondo luogo, non so proprio come ho fatto a farmi abbindolare da te.
- Abbindolare? –ribatto ridendo amaramente –Tesoro, sei tu che sei caduto ai miei piedi. Proprio come tutti gli altri.
- Può darsi, va bene. Ma Rachele Nardi non si meritava niente di tutto ciò che le hai fatto. Sta male, per colpa tua. Non sei altro che una strega. Hai bisogno di vedere gli altri soffrire per sentirti importante. –soffia, creando enfasi su ogni singola parola –Non sei altro che una vigliacca. E per colpa tua, ho perso la mia occasione con Arianna. La mia occasione di piacerle veramente.
- Non mi dirai che ti sei innamorato di quella, spero. –commento disgustata.
L’occhiataccia che mi lancia non fa altro che confermare i miei sospetti.
- In ogni caso, lei ti odia. Non la riconquisterai mai. –scrollo le spalle –Hai me. Che vuoi di più?
- La sai una cosa? –ringhia –Potrai avere quei capelli lunghi e lucidi, quel visino perfetto, quel corpo da favola che ti tiene sveglio la notte. Ma sei una da una botta e via. Perché sei talmente piccola e stupida dentro, Sara, che non c’è persona che trovi un motivo per starti accanto.
Le sue parole mi schiaffeggiano.
- Come osi? –sputo –Brutto pezzo di merda.
- Vattene. Non voglio più vederti qui. –mormora, fissandomi truce. Indica la porta con una mano.
Offesa, prendo la mia borsetta e faccio come ha detto.
Sbatto la porta con talmente tanta veemenza da temere che mi cada sulle spalle.
 


≈ ANGOLO AUTRICE ≈

​LO SO. Questo capitolo è più che strano. Stranissimo. 
​Ma sentivo il bisogno impellente di spostare l'obbiettivo sui personaggi che circondano i protagonisti, perchè sono davvero importanti, anche se non si direbbe.
Muoio dalla voglia di leggere i vostri pareri su tutti loro! (grazie a tutti quelli che seguono la storia, non so come farei senza)

Dal Capitolo 42:

Sbuffo, guardandolo male.
- Insomma, Oliver. Io cerco di salvarti la vita e tu mi chiedi se stiamo giocando ai soldatini? –soffio esasperata.
Mi osserva divertito.

P.S. Ecco la traduzione della strofa iniziale:

Non voglio essere il tuo amante
Non voglio essere il tuo stupido
Vieni a prendermi quando vuoi tu
Mi butti via quando ne hai avuto abbastanza
Perché ho imparato di più da ciò che manca
Riguarda me e non te
So che ho preso alcune decisioni sbagliate
Ma la mia ultima sei stata tu

 
 

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Capitolo 42
*** 42. - Rachele ***


I met a girl
She made me smile
​She made me wait
She crossed the street
She crossed my heart
​She fixed her dress
She bit her lip
She lit me up
​I met a girl woth crazy shoes and baby
blues
​The way she moves is changing my
whole world

I Met A Girl - Sam Hunt

42. - Rachele
 
Scosto la tendina azzurra, cercando di restare comunque nascosta.
La tenue luce del sole delle nove di mattina mi acceca per un secondo. Stretto al mio petto, Blue si dimena.
- Shh. –gli sussurro, scrutando attenta le cinque persone che si organizzano fuori dalla casa, sistemandosi sulla sabbia. Poso gli occhi sulle loro macchine fotografiche e sospiro.
Tre uomini e due donne. Come ci siano arrivati, qui, quei giornalisti, solo loro lo sanno.
Uno degli uomini si volta all’improvviso nella mia direzione ed io, con uno scatto, scivolo sulla parete, fino a sedermi sul pavimento.
Il cuore mi batte all’impazzata. Chiudo gli occhi, cercando la concentrazione, mentre stritolo Blue in un abbraccio, per calmarmi. Lui si divincola e si sistema meglio nel mio grembo.
Mi guarda con occhi umidi e scodinzola.
- Quelli non avranno pietà di noi, Blue. –gli spiego, prendendolo sotto il mento e obbligandolo a guardarmi negli occhi –Devi intervenire. Tira fuori le palle e salvaci. Confidiamo in te, cosa pelosa.
Lui mugola e mi mordicchia il pollice, facendomi il solletico.
Chiudo gli occhi, sospirando. Attiro le ginocchia al petto, facendo fare i salti mortali al cane.
- Ehm. Baby girl?
Alzo lo sguardo, che va a posarsi su un Oliver mezzo addormentato e a petto nudo.
Che spettacolo, di prima mattina.
Lui fa per aggiungere qualcosa.
- Shh! –lo blocco, agitata.
I suoi occhi confusi mi squadrano con attenzione. Con aria assonnata, si massaggia le palpebre. Magari spera di avere le allucinazioni.
Mi rendo conto che sì, rannicchiata così sotto la finestra e con il cane appiccicato addosso, non devo sembrare molto a posto.
- Cosa accidenti stai facendo? –mi domanda, sorridendo divertito. Ha i capelli scompigliati e un’aria adorabile. Fa un passo avanti, nella mia direzione, ma lo stronco prima che dia troppo nell’occhio.
- Stai giù! –sibilo, gesticolando come un’ossessa.
Oliver mi lancia un’occhiata che mi domanda se mi sento bene, poi gattona fino a raggiungermi, sorridendo sotto i baffi.
Con un sospiro si addossa alla parete, accanto a me. Mi guarda con la coda dell’occhio, poi parla, tentando di non scoppiare a ridere.
- Buongiorno anche a te, bellissima. –mi prende il viso tra le mani e posa le sue labbra sulle mie.
Quando si allontana, distende le gambe davanti a sé, stiracchiandole.
Belli, i pantaloni della tuta. Be’, bello tutto.
Mi esamina, in attesa.
- Stiamo giocando ai soldatini?
Sbuffo, guardandolo male.
- Insomma, Oliver. Io cerco di salvarti la vita e tu mi chiedi se stiamo giocando ai soldatini? –soffio esasperata.
Mi osserva esilarato.
- Salvarmi la vita? –sussurra. Sono sicura che se usasse un tono normale, probabilmente si metterebbe a ridere senza più smettere.
Annuisco con enfasi, accarezzando Blue dietro le orecchie. Lui allunga una mano e scompiglia il pelo del cane, fissandomi.
- Okay, qualcosa ti ha dato alla testa. –decide risoluto.
- Sì, tu. –ribatto mielosa, guardandolo sbattendo le palpebre.
- Oh, quanto sei tenera. –sospira dolcemente, carezzandomi una guancia.
- Lo so. –affermo, fiera. Oliver allontana la mano e fa un sospiro teatrale.
- Rovini sempre tutto! –esclama sofferente.
Rido piano, solleticando il pelo scuro di Blue che si trasferisce sulle gambe del ragazzo.
- Quindi, siamo sotto attacco? Devo avvisare il sergente? Battiamo in ritirata? Credo di avere delle granate in bagno… Fammi controllare…
- Smettila! –gli schiaffeggio un braccio, offesa –Poi non ti venire a lamentare, quando quelli si divoreranno la tua privacy per colazione!
- Cosa? –salta su, facendomi sorridere.
- Hai sentito bene, caro. Ci sono cinque giornalisti, là fuori.
- Sei seria?
- Nah, stavo scherzando.
- Stavi scherzando? –strabuzza gli occhi, come un bambino che crede ad ogni singola cosa che dici.
- No che non stavo scherzando! –sbotto, alzando gli occhi al cielo.
- Okay, niente panico. Dobbiamo trovare una soluzione. Niente panico. Capito? Niente panico.
Oliver si guarda attorno con fare frenetico.
- Super spia, rilassati. –rido, pizzicandogli un bicipite.
Approfittatrice.
- Se vuoi, posso uscire io e convincerli che si sono sbagliati. –propongo.
Oliver mi fa un sorriso dolce, poi stira le labbra e scuote la testa.
- Apprezzo il pensiero, ma quelli non si sbagliano mai. E lo sanno. Non ci crederanno. Dobbiamo pensare a qualcos’altro... –mormora, prendendomi una mano e stringendola fra le sue.
Il suo cellulare, sul tavolo, prende a squillare. Oliver mi porge Blue, si alza e lo raggiunge.
- Pronto? –risponde, stiracchiando i muscoli delle braccia –Signor Reynold! Che piacere sentirla. Come sta? Noi bene. Rachele anche, sì.
Mi lancia un’occhiata che ricambio con un sorriso. Blue scende dalle mie gambe e trotterella fino ai miei piedi, che mordicchia attento.
- Sì, sono d’accordo. Anche io sono impaziente. Certo, capisco benissimo. Sarebbe grandioso. Se può venire qui, oggi? –un’altra occhiata, interrogativa.
Annuisco tranquilla, sorridendogli incoraggiante.
- Sicuro. Sue? Anche lei? Parlarci? Mm. Se lo dice lei, signore. Va bene. Vi andrebbe di raggiungerci per cena? Cucino io. Sì, certo che so cucinare.
Scoppio a ridere sonoramente, beccandomi un’occhiata indignata.
- Sì, è Rachele. Be’, crede che non sappia cucinare. Ovvio che si sbaglia. D’accordo. A stasera. Grazie, signore.
Agito le braccia, per farmi notare. I suoi occhi si posano su di me. Indico la finestra, stringendo i denti.
- Oh, signore? Avremmo un problemino… Già. Che genere di problemino? Be’, ecco… paparazzi. Sì. Fuori casa. Non ne ho idea. Okay, grazie. A stasera.
Oliver chiude la telefonata, incrocia le braccia al petto e socchiude gli occhi.
- Che hai? –domando divertita.
- Io so cucinare. –mette in chiaro, gesticolando. Alzo gli occhi al cielo, sbuffando.
- Non è vero. –ribatto –Io so cucinare. Tu non sai nemmeno distinguere sale e zucchero.
- Nessuno sa farlo! –obbietta, allargando le braccia –Se non fosse per i barattoli colorati…
- Okay, okay. –gli concedo –Ma lascia cucinare a me, stasera. Va bene?
Oliver appoggia il cellulare al tavolo e si avvicina a me, squadrandomi dall’alto.
- Propongo una gara. –sentenzia –Chi cucinerà la cena migliore vincerà.
- Quanto sei infantile. –lo punzecchio, cercando di trattenere un sorriso.
- Se vinci, puoi vestire Jay da donna.
Quando incrocio il suo sguardo, inarca un sopracciglio.
Sospiro, roteando gli occhi.
- D’accordo.
Oliver fa un sorrisetto soddisfatto, poi mi tende una mano. La afferro e la uso come appoggio per alzarmi da terra.
 
- Blue, no. Non posso distrarmi. No, finiscila. –prego la bestiolina che si diverte e tirarmi per il lembo del grembiule –Erano 90 grammi a testa?
Alla fine, io cucinerò il primo ed Oliver il secondo. Volevo optare per la pasta al forno, ma non ricordo le dosi.
Dall’altra parte della cucina, Oliver fissa il pollo crudo, aspettando che si riveli e gli dica come cucinarlo.
La regola è che non possiamo consultare né Internet né libri di cucina. Il che rende tutto un po’ più difficile.
Gli lancio un’occhiata, mordicchiandomi un labbro. Lui ricambia.
- Cos’è più importante, il tuo orgoglio o la tua carriera? –domando esitante, fissando il cellulare con intensità.
- Il mio orgoglio. –ribatte Oliver –Però non vorrei vincere troppo facilmente contro di te. Non ci sarebbe gusto.
- Ah-ah. –annuisco, senza nemmeno ascoltare quello che dice. Continuo a fissare il suo pollo, pallido, piuttosto bruttino.
Oliver sospira e si gratta la nuca.
- Tregua? –propone lentamente, dandomi un’occhiata di striscio.
- Dio, sì. –rispondo subito, lanciandomi sul cellulare. Oliver si butta letteralmente sul divano, dove aveva lasciato il suo.
- Lo sapevo! –esclamo, leggendo su un blog di cucina che la dose consigliata di pasta è di 90 grammi a testa. Faccio due conti e poi controllo l’acqua sul fuoco. Peso i fusilli e rifaccio i conti. Okay, ce la possiamo fare. Non giocavi a Cooking Mama da piccola?
Annuisco, cercando di autoconvincermi.
Sento Oliver parlare e mi sporgo oltre il mobile, cercando di capire se sia impazzito e stia parlando da solo. E’ al cellulare e cerca di non alzare troppo la voce.
Insospettita, mi avvicino in silenzio, alle sue spalle.
- Ti prego, aiutami. Jay mi ammazzerà. Il pollo, sì- bisbiglia frenetico –Okay. E poi? Mamma?
- Oh, no! –grido, rubandogli il cellulare in uno scatto.
Si volta, stupito, e cerca di riprenderselo.
- Avevamo detto tregua! –si lagna, allungando le mani.
- Non comprendeva chiamare la mamma! –ribatto, muovendo le braccia in modo che non riesca a riprenderselo.
Corro via e salgo in piedi sul divano. Mi porto il cellulare all’orecchio.
- Signora Dawn? Sì, salve. Come sta? Io bene, grazie. Non l’ho nemmeno salutata, ve ne siete andati di nascosto. Sì.
Salto come una deficiente giù dal cuscinone quando Oliver ci sale a sua volta per acchiapparmi. Me la do a gambe, scomparendo nel corridoio.
- Mi dispiace dirglielo, ma non può aiutare Oliver. Stiamo facendo una gara di cucina. Sì, stava barando. Lo dico anche io. –spiego con il fiatone, fermandomi e appoggiando una mano al muro.
- Rachele! Torna qui! –urla Oliver dal salotto –Non farmi venire a prenderti!
Rido, a ridosso della cornetta.
- A presto, allora. Sì. Mi saluti tanto Allie! –chiudo la telefonata proprio nell’istante in cui Oliver sbuca dal nulla e mi salta addosso.
- Oliver! –strillo ridendo, mentre lui mi blocca al muro e arraffa l’apparecchio tanto ambito. Se lo infila in tasca e poi mi sorride diabolico.
- Sei stato pessimo. Chiamare la mamma. Non pensavo saresti mai caduto così in basso. –lo prendo in giro.
- L’ultima volta che mi hai stuzzicato in una cucina, ti ho cosparsa di farina e crema. –ricorda canzonatorio –E poi ti ho buttata in piscina. Ricordatelo, prima di aggiungere altro.
Gli faccio una linguaccia.
 
- Signor Reynold! Come ha fatto a sopravvivere ai giornalisti? –balbetta Oliver stupito, aprendo la porta all’uomo, seguito da Sue.
- Oh, questo è qualcosa di cui parleremo stasera, garantito. –sorride Reynold varcando la soglia. I suoi occhi si posano su di me. Fa un sorriso caloroso.
- Rachele, cara. –si avvicina e mi abbraccia bonario.
- Salve, signore. Come sta? –ricambio.
- Bene, bene. Ho una proposta per te. Ma prima…
Sue si sistema la giacca, nervosa. Tira un sorriso, imbarazzata.
- Io vi devo parlare.
Oliver mi lancia un’occhiata, poi la incoraggia a proseguire. Mi raggiunge e mi cinge la vita con un braccio.
- Vi devo delle scuse. –ammette, gli occhi bassi –Mi sono immessa nelle vostre vite private senza averne alcun diritto. Mi sono lasciata trascinare dal senso del dovere. Lavoro, lavoro, lavoro. Spero possiate perdonarmi. Non volevo ferirvi e men che meno farmi gli affari vostri.
Io sono coinvolta solo in parte, per cui attendo la reazione di Oliver, che scambia un’occhiata con Reynold. L’uomo annuisce comprensivo.
Il ragazzo sospira e torna a volgere gli occhi sulla donna davanti a noi.
- D’accordo. Possiamo ricominciare da capo. –le sorride, tendendole una mano –Io sono Oliver Dawn.
Sorpresa, Sue spalanca gli occhi e apre e chiude più volte la bocca. Poi si riprende e osserva la mano tesa.
- Sue. La tua futura manager. –ricambia la stretta, sollevata.
- Bene. –intervengo raggiante –E’ ora di mangiare!
- Concordo. Tutti a tavola! –esclama Oliver, sospingendo gli ospiti verso il tavolo ben apparecchiato.
Mi guarda con un sorrisetto.
- Servi pure il primo, se ne sei sicura. –mi dà una pacca sul sedere.
- Oliver! –squittisco tra i denti, assicurandomi che Reynold e Sue non se ne siano accorti.
Lui mi sorride e mi stampa un bacio sulle labbra.
- Mi ero dimenticato di dirti che se vinco io, non ti bacio per una settimana.
- E dov’è il vantaggio? –domando divertita.
- C’è una grandissima perdita per te, però. –sospira superbo, facendomi scoppiare a ridere.
- Okay, Dawn. Vediamo quanto resisti.
- Stai dicendo che perderai? –mi guarda inarcando un sopracciglio.
- Ti piacerebbe!
 
Il signor Reynold posa la forchetta e beve un sorso di vino rosso. Possiamo dire che hanno ufficialmente finito di mangiare.
Difronte a loro, Oliver ed io fissiamo lui e Sue impazienti.
- Quindi? –li incalzo –Era più buono il primo o il secondo?
Reynold mi guarda con una punta di divertimento.
- Perché?
- Perché ho usato delle ricette diverse dal solito e… e voglio sapere come sono. –farfuglio confusamente.
- Decisamente meglio il pollo, secondo me. –sentenzia Sue in un sorriso.
- Cosa? –chiedo, incredula.
Oliver prende un respiro profondo, si alza dalla sedia e alza il bicchiere di vino.
- Signore e signori, Rachele Nardi è appena stata sconfitta dal sottoscritto. Propongo un brindisi.
- Idiota. –bofonchio sottovoce, mentre sia Sue che Reynold scoppiano a ridere.
 
- Tornare a lavorare, certo. Non vedo l’ora. –annuisce Oliver, rapito. Il signor Reynold gli sorride.
- Pensavo ad un concerto a sorpresa in un locale di Miami. –continua l’uomo –Per sconvolgere la stampa.
- Non vedo perché no. –conviene Oliver. Li osservo, appollaiata sulla sedia.
- Un effetto a sorpresa sensazionale –interviene Sue con enfasi.
- A proposito di stampa, come li avete cacciati quelli là fuori? –domando.
Il signor Reynold si illumina.
- Sì, a proposito di questo. Ho sentito che sai scrivere.

ANGOLO AUTRICE

​Eccoci qui con l'aggiornamento settimanale!
​Grazie a tutti quelli che leggono, recensiscono e seguono, come sempre!
​Questo capitolo è stato un incubo: l'ho scritto la prima volta ed era grandioso, ma poi si è cancellato insieme agli altri capitolo che avevo già pronti, quindi ho dovuto riscriverlo in tempo! Se dovessi per qualche miracolo riuscire a recuperare quello vecchio, lo pubblicherò.
E questo è anche il motivo per cui non ho l'anteprima: devo riscrivere tutto.
​Un bacio,
​emmegili

 

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Capitolo 43
*** 43. ***


When the one you care for just takes it all
Washing you down like a waterfall
You lose the way and you hit the wall
I'll be the one, I'll be the one, I'll be the one to
Carry you home
When it hurts like you've crashed from above
Heal your broken bones
When you can't move, your heart's still locked up
You rise, you rise, you rise
Sometimes you need someone to carry you home
When it hurts like you've crashed from above
When it's true love

Carry You Home - Zara Larsson

43.
 
Rachele
- Sì, è bravissima. Non la ascolti. Tende a sminuirsi. –previene Oliver ogni mio tentativo di protesta, lanciandomi un’occhiata.
Il signor Reynold sorride.
- Bene. Perché ho bisogno di te.
- Bisogno di me?
- I paparazzi. Li ho mandati via promettendo loro degli articoli esclusivi su Oliver che tu dovresti scrivere. –conclude.
- Scrivere degli articoli su Oliver? –ripeto, stupita. Guardo il ragazzo che, sorpreso a sua volta, guarda l’uomo con fare curioso.
- Si tratterebbe di un articolo al mese. Per conoscerlo meglio. Per mostrare al mondo che sta lavorando sodo. Abbiamo bisogno di rimetterlo sulla piazza. Agli occhi dei lettori tu sarai la ragazza che lo segue passo passo.
Apro la bocca e la richiudo, non sapendo cosa dire.
- Ovviamente, non dovrà accennare alla nostra relazione. –constata tristemente Oliver, guardandomi.
- Sarebbe meglio di no. –interviene Sue –Però non significa che non possiate cercare di tenerla nascosta.
 
- Non reggi. –ribatto trattenendo una risata, impegnata in una sessione di zapping.
Oliver mi lancia un’occhiataccia.
- Questa doveva essere una punizione per te. –bofonchia, raggiungendomi.
Lo guardo sospirando.
- Allora io sono più irresistibile di te, Dawn. –gli faccio notare.
Scoppia a ridere.
- Non penso proprio.
Inarco un sopracciglio.
- Ah, sì? –lo sfido, sedendomi a gambe incrociate sul divano e guardandolo con superiorità.
Annuisce risoluto.
- Allora facciamo un patto.
- Ancora?
- Hai paura?
Mi becco un’occhiata esasperata.
- Se non riesci a non baciarmi entro la fine della settimana, io posso vestire Jay da donna.
Oliver tentenna. Ma non può darmela vinta. Così mi sorride, cercando di sembrare soddisfatto.
- Okay. Va bene. Perfetto.
 
Prendo un respiro profondo, mentre la barista, dietro il bancone, mi sorride solidale.
Faccio roteare il contenuto del bicchiere che mi ha appena offerto, ricambiando mite.
Lancio uno sguardo nervoso verso il palco illuminato dalle luci, mentre il locale comincia ad affollarsi.
- Nervosa? –mi domanda la ragazza, scostando i capelli biondi dal viso con uno sbuffo.
Annuisco, torturandomi le mani.
- Andrà bene, vedrai. –mi rassicura lei con fare materno, nonostante appaia appena cinque anni più vecchia di me –L’ho seguito in tv. E’ un grande.
Vorrei aggiungere che a quest’ora Oliver potrebbe essere molto più famoso, molto più lontano nel suo lavoro, se non fosse stato per me. Ma non lo faccio, non mi sembra il caso. Mi limito a sorriderle grata.
Sento una pacca sulla spalla e mi volto.
- Guarda chi si vede! –Jay mi sorride radioso, cogliendomi di sorpresa.
Lo fisso stupita. Cosa ci fa lui qui? Sto per chiederglielo, quando Scott compare nel mio campo visivo. Finge stupore.
- Signorina Nardi. Che piacere. –sorride.
Mi alzo dallo sgabello ed incrocio le braccia al petto, metabolizzando la loro presenza.
Alzo un dito, per porre una domanda, ma Jay mi precede.
- Sì, Oliver sapeva che saremmo venuti.
Stupita, cerco di chiedere la seconda cosa che mi frulla in testa.
- E siamo qui perché sappiamo che avresti avuto bisogno di noi, Bay. –questa volta è Scott ad anticiparmi, sorridendomi dolcemente –Sappiamo che non è facile.
Mi sciolgo, facendo un sorriso.
- Grazie. –sussurro, mentre Scott mi abbraccia stretto.
- Oliver dov’è? –domanda Jay quando mi allontano.
- Dietro le quinte, credo. –borbotto, lanciando un’occhiata alla barista, che annuisce come a confermare.
- Possiamo vederlo?
- Ci sono Sue e il signor Reynold con lui, ma immagino di sì. Andiamo.
Striscio tra la gente, con Scott e Jay che mi seguono.
Manca poco, pochissimo.
Dietro il palco, il signor Reynold sta rileggendo la lista di cover che Oliver ha in programma di suonare stasera. Come mi vede, mi sorride caloroso.
- Rachele! Com’è di là?
- La gente sta cominciando ad arrivare. –sorrido cortese.
L’uomo ricambia, poi osserva Scott e Jay.
- Loro sono i migliori amici di Oliver. –mi riscuoto –Scott e Jay. Sono venuti a vederlo cantare.
- Piacere.
Si stringono le mani, sorridenti, mentre io mi perdo ad osservare le luci colorate, cercando di calmarmi.
Non so cosa mi prenda. Dovrei essere contenta per Oliver. Lo ero, quando ha vinto il concorso. Perché ora non ne sono più tanto sicura? La verità è che paura. Ho una paura tremenda di perderlo.
- Ragazzi!
Oliver ci raggiunge, sorridendo solare e fingendosi stupito.
- Amico, lei sa che tu sapevi. –lo ferma Jay, mettendogli una mano sul petto. Scott e il signor Reynold scoppiano a ridere, coinvolgendo anche Oliver.
- Ehi, baby girl. Tutto bene? –mi domanda, vedendomi pensierosa, accarezzandomi una guancia.
- Cosa? Sì, certo. –gli sorrido –Ora vai là e fai vedere loro chi comanda.
- Oliver, è ora. –interviene Sue, comparendo da dietro il sipario.
Oliver prende un respiro profondo. Scott gli dà una pacca sulla spalla, Jay alza un pollice.
Si sporge verso di me, per baciarmi.
- Ah-ah. –lo blocco –Ricordati il patto.
- Ma almeno un’eccezione! –protesta, facendo gli occhi da cucciolo.
Scuoto la testa, ridendo.
- Vai, Dawn. –lo incito, alludendo al palco con la testa.
Lui mi stampa un bacio sulla fronte, fa un saltello sul posto.
- Okay. Ci siamo.
E poi sale i gradini che portano al palcoscenico.
 
In fondo al locale, appoggiata al muro, con Jay e Scott ai miei lati, tengo lo sguardo fisso in quello di Oliver che, sul palco, canta una versione mozzafiato di Iris dei Goo Goo Dolls e mi fissa sorridendo.
E’ una canzone che ho sempre amato. E cantata da Oliver, così, solo con la chitarra, è ancora più bella.
- Quante smancerie... –mormora Jay stuzzicandomi, notando l’intensità degli sguardi tra me e il suo amico. Lo ignoro.
Oliver finisce di cantare e, sorridendo, distolgo lo sguardo, per rivolgerlo ai miei piedi.
- Love you, Bay! –urla al microfono.
Alzo gli occhi in uno scatto, avvampando. Cosa gli passa per la testa? La nostra relazione deve rimanere segreta. Però poi realizzo che mi ha chiamata per soprannome, che è anche piuttosto banale e che si potrebbe scambiare per qualsiasi cosa, quindi rilasso le spalle.
- Addirittura! –esclama Scott, fingendosi sorpreso – “Love you, Bay!”.
- Guarda che ha detto “Love you, Jay”. –tossisco guardandolo.
Jay scoppia a ridere, e Scott con lui, per poi cingermi le spalle con un braccio.
- Ha sempre avuto un debole per quel troglodita, ti dirò. –ride.
- Guarda che ti sento! –protesta Jay dietro di noi.
Sorrido inconsciamente, mentre ci incamminiamo verso il bancone. Nel frattempo, Oliver intona Goodbye Philadelphia.
- Ti andrebbe una Coca Cola? –mi propone Scott, per poi bloccarsi nel bel mezzo della sala e fissare, pallido, un punto davanti a sé.
Seguo con gli occhi la direzione del suo sguardo e mi sento le ginocchia molli.
Jay mi affianca, ma nemmeno ci faccio caso. Sono travolta dalla presenza di Alyssa, appoggiata al banco, e delle sue due seguaci che, civettuole, ridono di qualche sciocchezza.
Come se mi leggesse nel pensiero, Alyssa si volta e mi guarda con finto stupore.
- Oh, guarda chi si rivede! –ride falsamente, raggiungendoci.
Sbuffo. Scott mi sussurra un “lascia stare” all’orecchio. Le due galline in compagnia della nuova venuta ridacchiano.
Decido di seguire il consiglio di Scott, così la supero a grandi falcate, il mento alto. Ma è il suono della sua voce a bloccarmi.
- Stai andando da Oliver? Non penso abbia tempo per una scappatella. In ogni caso, non ne avrebbe nemmeno voglia, dopo il fantastico quarto d’ora che gli ho fatto passare durante la pausa di prima...
Mi volto di scatto e le vado vicina, il dito puntato sul suo top attillato.
- Stagli alla larga. –sibilo a pochi centimetri dal suo volto. Mi trema la voce dalla rabbia e dalla paura.
- E’ single, tesoro. Può frequentare chi vuole. –ribatte con aria innocente –Voi due non uscite insieme, no?
Sì, brutta troia. E’ il mio ragazzo.
Le parole quasi mi escono di bocca, quando mi ricordo dell’accordo di segretezza. In ogni caso, non posso lasciarle l’ultima parola.
- No, non usciamo insieme. Ma lui è comunque mio. –sussurro a denti stretti –Per cui porta quel tuo culo rifatto lontano da noi, o giuro che ti spezzo le gambe, intese?
L’espressione di Alyssa è puro odio. Pare sul punto di saltarmi addosso. O perlomeno, sta per farmi una scenata.
Le sue due amiche paiono accorgersene e si affrettano a trascinarla via prima che possa aprire bocca.
Scott mi si avvicina euforico. Mi sento vacillare le gambe.
- Wow, Bay! –urla –Sei stata grandiosa! L’hai zittita! Se non avessi appena sentito ciò che hai detto, ti bacerei! Ehi... Bay? Perché piangi? No, tranquilla... Dai, vieni qui... shh... va tutto bene.
Mi lascio stringere forte dalle sue braccia, mentre scoppio a piangere.
- Vieni, andiamo a casa... –mi sussurra, facendo un cenno a Jay. Lui annuisce e, tra le lacrime, vedo la sua mascella contrarsi, mentre Scott mi porta via.
 
Scott
Vederla lì così, su quel letto della sua stanza, con le guance umide e la tazza di camomilla tra le mani, alla quale pare appendersi, mi stringe il cuore.
Oliver sarà qui a momenti. Ho fatto promettere a Jay di non dirgli nulla prima della fine della serata, di modo che non si rovinasse l’ultima occasione per fare breccia.
Ho avuto il tempo per scervellarmi. Come faceva Alyssa a sapere dove si trovasse Oliver? E dopo ore e ore di ragionamenti, mi sono ricordato del padre di Alyssa, che gestisce una catena di locali notturni piuttosto famosa. Come abbiamo potuto dimenticarci che il locale in cui avrebbe suonato Oliver era di sua proprietà? Siamo stati degli incoscienti, ecco tutto.
- Va meglio, Rae? –sorrido a Rachele, appoggiato al muro, accanto alla porta della stanza.
Lei pare riscuotersi.
-Sì, grazie... è stata solo... una crisi di nervi... troppa tensione... –mormora imbarazzata, facendomi sorridere.
Sento la porta principale spalancarsi e la voce di Oliver chiamarci a gran voce.
- Siamo qua. –rispondo.
Prorompe nella stanza, lanciandomi un’occhiata spaventata. Come lo vede, Rachele scatta in piedi, poggiando la tazza sul comodino.
- Gli hai raccontato tutto? –mi chiede disperata.
- Certo. –le faccio un sorriso incoraggiante.
- Ehi, baby girl... –quello di Oliver è un sussurro mortificato. Le si avvicina.
- Mi dispiace così tanto. –biascica, stringendola in un abbraccio.
Rachele sembra aggrapparsi a lui, come se fosse una zattera nel bel mezzo del mare aperto.
 

​♦ ANGOLO AUTRICE ♦

Rieccoci!
​Chiedo perdono per l'Angolo Autrice dello scorso capitolo, ma ero davvero disperata. Avevo perso tutti i nuovi capitoli e li sto tutt'ora riscrivendo.
​Allora... in questo capitolo ritorna la vecchia Alyssa, causando una crisi a Rachele. Cosa succederà ora? Come la prenderà Oliver? Cosa deciderà di fare?
E c'è anche la proposta del signor Reynold, gli articoli di giornale. E' fattibile? Sarà accettata?
Con questi dubbi amletici, vi lascio.

​P.S. Le anteprima per ora sono sospese, devo ancora recuperare tutto!
​Un bacio e grazie mille,

​emmegili

 

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Capitolo 44
*** 44. - Oliver ***


Tu portami via
​Se c'è un muro troppo alto per vedere
​il mio domani
​E mi trovi lì ai suoi piedi con la testa
fra le mani
​Se fra tante vie d'uscita mi domando
quella giusta, chissà dov'è
Chissà dov'è
E' imprevedibile
Portami via dai momenti
​Da tutto il vuoto che senti
​Dove niente potrà farmi più del male
ovunque sia
Amore mio, tu portami via

Portami Via - Fabrizio Moro

44. – Oliver
 
Guardarla dormire infonde tranquillità.
Sembra così piccola, così indifesa. Così fragile. Sospiro, appoggiandomi allo stipite della porta della stanza.
- Ehi.
Scott compare alle mie spalle, un sorriso sulle labbra.
- Come sta? –domanda affiancandomi.
Mi passo una mano tra i capelli, lanciandogli un’occhiata.
- Dorme –sussurro –Era stanca.
Scott annuisce, pensieroso.
- Sai, è stata grandiosa, prima. Tiene davvero a te, Oliver.
Un piccolo sorriso mi si abbozza sulle labbra.
- Lo so. E’ solo che...
La frase muore nell’aria. Scuoto la testa, incrociando le braccia al petto.
- Non riuscirò mai a prendermi cura di lei come merita se dovrò lavorare. –mormoro a fior di labbra.
- Ci sarò io ad aiutarti. –ribatte prontamente lui.
- Tu devi andare al college. –ricordo subito, guardandolo con la coda dell’occhio.
- Ho già ritardato di un anno –scrolla le spalle –Qualche mese in più non cambierà le cose. E poi lei ha bisogno di noi. E tu devi seguire i tuoi sogni.
- Non è giusto che ti sacrifichi tu al mio posto. E’ la mia ragazza, non la tua. –obietto piano, scrutandolo.
- Sì, ma è mia amica. E poi non è un sacrificio. Ogni secondo passato con quella ragazza è pura magia.
Un sorriso gli increspa le labbra.
- Lo so, Scott, lo so. –sospiro –E’ speciale. Di Rachele Nardi ce n’è una sola.
- Ed è tua.
Annuisco lentamente.
- Ed è mia.
Rachele si rigira nel letto e fa cadere un cuscino. Vado a raccoglierlo e lo ripongo sopra le lenzuola. Mi fermo ad osservarla. Una ciocca di capelli le ricade sul viso e, cautamente, gliela scosto con la punta delle dita. Mi soffermo sulla guancia, calda e morbida.
Manderei davvero tutto a ‘fanculo per lei. Tutto.
- La ami, eh? –sussurra Scott, osservando la scena da lontano.
Annuisco, allontanando la mano.
- E’ tutta la mia vita. Non posso vivere senza di lei.
 
- Allora... –Jay apre il frigo, speranzoso. Io e Scott, al tavolo, aspettiamo che decida cosa vuole per colazione.
- Questo è succo di fragola? –domanda, prendendo in mano un cartone.
- Non lo so, Jay. Muoviti. –sospira esasperato Scott, facendomi ridere.
Jay gli lancia un’occhiata della serie “la colazione è il pasto più importante della giornata, per cui non rompere”.
- Serve una mano?
Rachele entra nella stanza, con addosso una mia felpa a maniche lunghe, lasciando scoperte la gambe. Ai piedi, porta dei calzini verdi a pois neri.
Jay si volta verso di lei e, immancabilmente, l’occhio gli cade sulle sue gambe.
Mi schiarisco la voce.
Rachele incrocia le braccia al petto e ridacchia, mentre Jay mi lancia un’occhiata, cercando di giustificarsi.
- Scusa, amico, ma... –borbotta, alzando le mani.
- Ho dormito con una felpa del mio ragazzo perché amo le sue felpe. –spiega lei frivola.
- Ah, ami le mie felpe? –intervengo, inarcando un sopracciglio.
Ci pensa su un attimo.
- Oh, amo anche te. Certo. –sorride angelica.
Scott sbuffa, divertito.
- In ogni caso, stavo dicendo che non ho pensato di cambiarmi perché sentivo i vostri tre stomaci brontolare. Non volevo che moriste di fame. Ma se ci sono problemi, io...
- L’unico problema qui –la interrompe Jay –E’ che il tuo fidanzato è iperprotettivo e geloso.
- Be’, puoi darmi torto? –sbotto, indicando Rachele con una mano.
Lei si appoggia al bancone, esasperata.
- Sono lusingata, davvero, ma... avete finito? –esclama.
Io e Jay le sorridiamo.
- Grazie. –mugugna sollevata, per poi rivolgersi a Scott –Scottie, ti vanno i pancake?
- Sarebbe perfetto. –le sorride, alzandosi dalla sedia e stampandole un bacio sulla guancia.
Gli lancio contro il giornale, arrotolato.
- Ahia! –si lamenta, massaggiandosi la nuca, dove l’ho colpito.
- Oliver. –mi ammonisce Rachele, avvicinandosi.
Me la ritrovo accanto, squadrandomi dall’alto. Incrocia le braccia.
- Scusa, baby girl. Ma sei troppo bella. –mi scuso.
Lei alza gli occhi con fare teatrale, poi mi fa il verso.
- Mi stai facendo il verso? –domando con tono accusatorio.
- Mi stai facendo il verso? –ripete lei con una vocina fastidiosa.
- Oh, mossa sbagliata.
La afferro per i fianchi e la faccio sedere sulle mie ginocchia. I suoi occhi, stupiti e curiosi, sono a pochi centimetri dai miei.
Proprio quando inizia a rilassarsi, prendo a farle il solletico.
Non pensavo ne soffrisse così tanto. Si contorce e si dimena, ridendo, pregandomi di smetterla.
Scott ride a sua volta, sedendosi al tavolo, mentre Jay borbotta qualcosa sull’esibizionismo.
Quando la lascio stare, è talmente arrossata da risultare ancora più bella. Non riesco a trattenermi e la bacio.
Quanto mi mancavano le sue labbra. Risponde al bacio, ma non dura più di due secondi.
Rachele scoppia a ridere di gusto, guardando Jay.
Me ne ricordo troppo tardi, mentre il mio amico inizia a fare domande confuse.
- Che le prende? –interviene Scott, divertito.
- Merda. –impreco sottovoce.
Rachele si volta verso di me, esilarata.
- E Rachele Nardi colpisce ancora. –sussurra –Sapevo che ti avrebbe mandato fuori di testa.
- Che cosa? –esclamo, sconvolto –Ti sei conciata così per farmi cedere?
Lei si alza e sistema meglio la felpa, che le copre appena le natiche.
- E ha funzionato. –sorride trionfante –Dimmi, Jay, preferisci il rosso scuro o il rosa pallido?
Jay è sempre più confuso.
- Io preferirei i pancake! –esclama Scott, guardando Rachele con occhi supplichevoli.
- La colazione, giusto! –si illumina lei, raggiungendo i fornelli.
Jay mi guarda con fare indagatore.
Mimo uno “scusa” con le labbra che lo manda letteralmente in panico.
Mentre Rachele cosparge di marmellata i pancake e serve Scott con fare esperto, mi arriva il messaggio che stavo tanto aspettando da Arianna.
A bordo. Ci vediamo tra otto ore. :)
 
Il compleanno di Rachele si sta avvicinando. I fatidici diciotto anni.
Per questo ho bisogno di Arianna. Inoltre, voglio che passi un po’ di tempo con la sua migliore amica. Ho una lunga serie di cose da fare. Non posso ricordarmele tutte. Altro motivo per cui ho bisogno di Arianna.
- Ehi? Oliver? Ci sei? –Jay mi scuote una mano davanti al volto.
- Sì, sì, dimmi. –mi riscuoto, stringendo le mani attorno al volante dell’auto.
- E’ quella la gioielleria?
Osservo il negozio al quale allude Jay, nel centro di Miami. Abbiamo lasciato Scott a casa con Bay per fare una delle tante cose della lista, appunto.
- Sì. –annuisco, prendendo un respiro profondo.
Scendiamo dall’auto ed entriamo nella gioielleria.
- Sei sicuro di volerle fare un regalo del genere? –si assicura, mentre veniamo avvicinati da una commessa.
Sorrido a Jay e lui si rilassa.
- Posso aiutarvi? –domanda la ragazza, scostandosi i capelli ramati dietro la spalla e sorridendo raggiante.
Sospiro, poi sfoggio un sorriso, senza riuscire a trattenermi. Sprizzo gioia da tutti i pori.
La ragazza pare accorgersene, perché si rallegra e diventa subito più disponibile.
- Ci servirebbe una mano, già. –convengo.
- Che pessima battuta, amico. –si lamenta Jay guardandomi storto.
Scoppio a ridere, mentre la commessa inizia a capire.
- Siete qui per un anello, non è così?
 
- Wow.
Arianna, seduta al posto del passeggero, tiene in mano la scatolina di velluto rosso.
- Dici che le piacerà? –le domando, nervoso.
Ari alza lo sguardo e mi lancia un’occhiata intenerita.
- Certo che le piacerà. E’ stupendo.
Siamo passati a prenderla all’aeroporto dopo essere usciti dalla gioielleria, dove ho comprato l’anello.
Jay è sceso per andare a prendere tre frullati da Starbucks ed io e Arianna lo stiamo aspettando in macchina.
- Non vedo l’ora di riabbracciarla. –sospira, guardando fuori dal finestrino.
Sorrido vedendola avvampare quando Jay compare accanto al finestrino, mostrando orgoglioso il cartone con i tre frullati e facendole un occhiolino.
- Ma dov’era finito? Non l’avevo visto. –bofonchia, guardandomi allarmata.
Trattengo un sorriso mentre il mio amico sale a bordo ed infila la testa nello spazio tra i due sedili anteriori.
- Allora. Fragole per la signorina.
Porge il bicchiere di plastica ad Arianna, che lo ringrazia ed infila la cannuccia in bocca.
- Un caffè nero per Oliver. –mi allunga il beverone –E questo è per me.
- Quindi, quanti giorni abbiamo? –chiede Ari, accendendo la radio.
- Dieci.
- Dieci giorni. Abbiamo uomini –la ragazza rotea un dito, indicandoci tutti e tre –e mezzi –solleva la custodia dell’anello –per portare a termine il nostro obbiettivo. Dichiaro ufficialmente aperta l’organizzazione del diciottesimo migliore della storia.
 
- Arianna?
Lo stupore sul volto di Rachele la rende ancora più tenera. Chiudo la porta alle mie spalle, osservando la scena.
- Sì, be’, mi chiamano così. –Arianna allarga le braccia, lasciandosi abbracciare.
Scott mi si avvicina furtivo, sorridendo.
- L’hai preso? –sussurra, approfittando del momento di distrazione.
Annuisco, allargando le labbra in un ampio sorriso. Tiro fuori la scatoletta dalla tasca dei pantaloni e la apro, mostrandogli il gioiello.
Scott fa un sorriso timido, poi mi dà una pacca sulla spalla, mentre lo rimetto a posto.
- Come mai sei qui? –sento Rachele chiedere all’amica.
- Perché mi mancavi. Ho anticipato la vacanza.
- Oh, ho proprio bisogno di te!
Rachele si separa da Arianna e mi guarda elettrizzata.
- Cosa mi sto dimenticando? –le domando, abbracciandola. Lei ridacchia e intreccia le mani dietro al mio collo, poi si sporge oltre la mia spalla.
- Jay, la gonna la vuoi nera oppure grigia? –domanda sorniona.
Chiudo gli occhi, mentre Jay inizia a fare domande.
Mi volto e lo guardo stringendo i denti.
- A proposito, amico... ho perso una scommessa. –lo avviso.
- E quindi? –mi incalza, spaventato.
- Quindi Rachele ha il permesso di vestirti da donna. Scusami.
- CHE COSA?! –strilla, scioccato.
Scott scoppia a ridere, tenendosi la pancia.
- Questa me la paghi, Oliver. –minaccia sfilandomi davanti, tirato da Rachele.
- Se non altro, Arianna mi darà una mano. Non sarà così male. –Bay fa un occhiolino a Jay, che arrossisce violentemente.
Arianna, dal canto suo, sospira teatrale, seguendo i due in camera.

ANGOLO AUTRICE

Bene, bene, bene.
Come state?
​Questo capitolo è così leggero, non è vero?
​Scott prende una decisione importante per Rachele, Bay riesce a vincere la scommessa, Arianna ritorna per organizzare una grandiosa festa di compleanno per la sua migliore amica e, cosa più importante, Oliver compra un anello.
​Il quesito esistenziale ora è: vuole chiedere la mano a Rachele? Oppure è un semplice anello?

Con questi dubbi esistenziali,
emmegili

 

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Capitolo 45
*** 45 - Rachele ***


God knows I'm hurting, but God knows you're worth it.
Worry - The Vamps

45. – Rachele
 
Cerco di non ridere, ma è proprio difficile.
Arianna pare quasi imbarazzata, mentre mette il rossetto a Jay. Probabilmente, è la vicinanza. Sfiorare le labbra di un figo è una cosa che le capita raramente.
- Ecco fatto. –annuncia Ari facendo un passo indietro.
Respiro. Devo assolutamente trattenermi, oppure Jay mi ammazzerà. Il ragazzo, infatti, mi lancia un’occhiata esasperata e si alza in piedi.
Ha indosso un vestitino a fiori rosa, abbinato con un cardigan lilla di Arianna che gli sta veramente troppo stretto. Lo abbiamo truccato di tutto punto.
Scott ci ha fermate prima che gli facessimo la ceretta, però.
Jay allarga le braccia.
- Avete finito?
Annuisco.
- Ora andiamo in salotto.
Prima che possa opporsi lo trascino fuori dalla stanza. Scott ed Oliver sono seduti sul divano a guardare la televisione.
Come alzano lo sguardo, restano impietriti.
Entro tre secondi, Scott scoppia a ridere. Ride talmente forte che Oliver è costretto a mettere in pausa il programma che stavano guardando.
Jay rotea gli occhi.
- Se pensi di poter smettere di ridere entro quest’anno, faccelo sapere. –sibila.
Oliver si alza e ci raggiunge.
Inspira, facendo sbattere l’aria contro i denti. Gli dà una pacca sulla spalla.
Jay inarca un sopracciglio, come a sfidarlo a dire qualunque cosa.
Oliver mi lancia un’occhiata complice, alla quale mi limito a rispondere sorridendo innocente. Gli provoco un’ondata di tenerezza, perché lascia perdere l’amico e viene ad abbracciarmi.
- Sei troppo carina. Non riesco nemmeno ad arrabbiarmi con te. –sbuffa. Ridacchio.
- Quando voi due avete finito di pomiciare, potete per favore togliermi questa roba di dosso?
- Ci può pensare Arianna. –mugugno, a ridosso del petto di Oliver –Vero, Ari?
Sento Oliver voltare il capo nella loro direzione e lo imito.
Arianna mi fissa sconvolta.
Annuisco, convincente. Cerca di protestare, ma poi decide che è meglio non fare brutte figure.
- Certo. –mormora flebile, guardando incerta Jay.
Dal canto suo, il ragazzo è troppo truccato per lasciar trasparire emozioni.
 
- Lavorare, bisogna lavorare! –ripeto come un mantra, camminando avanti ed indietro nel salotto, una matita dietro l’orecchio e una in mano.
Devo scrivere il primo articolo per la rivista. Sono stata al telefono mezz’ora con Sue riguardo ai limiti e alle cose che non avrei dovuto dire e un’altra mezz’ora con il redattore della rivista che be’, vuole solo vendere più copie possibile.
Arianna applica lo smalto rosa acceso sulle unghie con precisione millimetrica. Siamo rimaste solo noi due a casa: Oliver è andato in studio per registrare Another Life (a quanto pare Sue ha intenzione di farlo uscire come singolo), mentre Scott e Jay sono andati a fare una passeggiata sulla spiaggia.
Quando sono usciti dalla stanza, lui ed Arianna, li abbiamo fissati in cerca di qualche imperfezione, un bottone fuori posto, il trucco sbavato. Ma niente da fare. A quanto pare, hanno bisogno di una spinta più forte.
- Rachele. Tesoro. Rilassati. –Arianna cerca di fermarmi. Rimanendo seduta, ovviamente. Altrimenti poi le si rovina lo smalto.
La guardo disperata, abbandonandomi accanto a lei sul divano.
- Non so cosa scrivere. Ho paura di sbagliare. Di deludere il signor Reynold. –confesso, prendendo il computer e digitando il nome di Oliver su Google, giusto per vedere che impatto ha avuto il suo concerto di ieri sera.
Subito mi si aprono decine di link di articoli appena pubblicati.
Il ritorno a sorpresa di Oliver Dawn che lascia tutti a bocca aperta.
Dopo un periodo di silenzio, il vincitore del premio più ambito dell’anno torna sul palco.
Ecco come il diciannovenne canadese sconvolge la critica.
La nuova promessa della musica: Oliver Dawn.
Caspita. Ha avuto un sacco di successo. Il mio articolo dev’essere altrettanto promettente.
- E’ un articolo di presentazione, giusto? –domanda Ari, sporgendosi per vedere meglio lo schermo.
- Una specie di introduzione al personaggio, sì. –convengo, scorrendo le foto di ieri sera.
- E può essere soggettivo, vero?
- Deve esserlo.
Arianna sorride.
- Be’, allora scrivi di lui e basta. Di quello che ti ha fatto innamorare di Oliver Dawn, in modo da far innamorare anche chi leggerà l’articolo. Parla di lui, dimenticati della rivista.
La osservo, gli occhi ridotti a fessure.
Annuisco lentamente.
- La sai una cosa? Hai ragione.
 
Oliver è attraente.
Certo, buona parte la fanno quei suoi occhi scuri e quei capelli bruni perennemente spettinati.
Ma non è questo che rende Oliver bello. Oliver è bello per altre centinaia di motivi.
Quel suo tenero sorriso sghembo che toglie il fiato.
Quella sua dolcezza, quella che scioglie il cuore mentre leggi le parole delle sue canzoni.
Quel suo modo di abbracciare la chitarra, di sfiorare le corde. Il modo in cui chiude gli occhi mentre canta frasi speciali o mentre, semplicemente, la musica che crea arriva a scorrergli nelle vene, facendo della sua musica un’esplosione di emozioni che obbliga a trattenere il fiato per qualche secondo. Quel modo magico, che solo Oliver sa avere, di cantare, di avvicinarsi al microfono. E se non c’è il microfono, non è importante. Anzi, è forse meglio. Quell’espressione che gli si dipinge sul viso mentre suona la sua chitarra e le sue parole, è quella la vera magia.
Traspare la sua passione, la sua gioia immensa, il suo amore per la musica.
E nessun biglietto varrà mai abbastanza per poter vedere quella sua magia, nessuno.
Le parole che canta, poi… all’inizio non si riconoscono, non si capisce che la frase di cui fanno parte sarà una di quelle frasi che costringono a restare in silenzio per qualche secondo.
Quando poi, però, capita per mano il foglio su cui Oliver aveva scritto per la prima volta quelle parole, quelle frasi, ci si rende conto che sono le più belle del mondo, che esprimono pensieri e concetti che solo un ragazzo come Oliver può riuscire a concepire.
Quando penso ad Oliver Dawn, mi viene in mente un violino.
Ero immersa in una delle mie canzoni preferite quando me ne sono accorta la prima volta. C’erano dei violini di sottofondo, nella canzone. Erano loro a dare quella magia, quel tocco alla cui mancanza si sarebbe sentito un vuoto nello stomaco.
Ecco, per Oliver è lo stesso. Lui è quel pizzico, quel pezzo di puzzle che rende la mia esistenza unica. Lui è il violino della mia canzone.
E spero che possa diventare il violino anche della vostra, perché ne vale davvero la pena.
 
Gli occhi di Arianna scorrono la pagina.
Quando ha finito di leggere, posa il quaderno e mi guarda. Fa un sorriso timido.
- E’ bellissimo. –sussurra solo –Chiama il signor Reynold.
 
Roger Reynold resta in religioso silenzio mentre, al telefono, gli leggo ciò che ho scritto.
Seduta sulla sabbia, osservo il sole tramontare oltre l’oceano. Una leggera brezza mi scompiglia i capelli. Scott e Jay sono tornati dieci minuti fa dalla loro passeggiata e sono entrati subito in casa, per aiutare Arianna con la cena. Oliver è ancora allo studio.
Leggo l’ultima frase del brano, per poi ripiegare in quattro il foglio e aspettare la reazione dell’uomo. Siccome non dice nulla, decido di intervenire io.
- Lo so che è molto intimo e lascia decisamente sospettare che tra me e Oliver ci sia qualcosa, cosa che effettivamente c’è, ma ho seguito il consiglio di Arianna, ovvero quello di scrivere la verità e…
- Rachele? –la voce del signor Reynold mi interrompe, zittendomi.
- Sì?
- E’ davvero molto intimo, hai ragione. –spiega –Ci sono lati di Oliver che nemmeno io conoscevo e che solo tu che lo ami puoi notare. Sei sicura di voler rendere pubbliche tutte queste piccole cose di lui che ti fanno impazzire? Non ne sei… gelosa?
Rifletto qualche secondo.
- Sarò sincero, è un articolo stupefacente. –continua, senza aspettare una mia risposta – E’ un pezzo molto bello, niente di meglio per avvicinarsi ad Oliver. Ed è questo che vogliamo, che le persone si sentano vicine a lui. Io lo approverei seduta stante, Rachele, ma forse dovresti rifletterci. Magari parlane con il diretto interessato.
- Okay. –soffio piano, facendo scorrere una manciata di sabbia tiepida tra le dita –Grazie.
- Ah, ragazza?
- Mm?
- Oliver aveva ragione, quando ha detto che sai scrivere.
Sorrido, chiudendo la telefonata. Abbandono il cellulare sulla sabbia e, in un sospiro, rivolgo lo sguardo verso il mare, mi concentro sul rumore delle onde.
- Ehi, baby girl.
Mi volto, in tempo per vedere Oliver avvicinarsi. Quando mi raggiunge, si china a baciarmi la testa.
- Ciao. –gli sorrido.
- Che fai qui? –mi chiede, sedendosi accanto a me. Mi circonda le spalle con un braccio, avvicinandomi a sé.
- Guardo il tramonto. –rispondo semplicemente, chiudendo gli occhi e godendomi la sensazione di sicurezza che sprigiona il suo corpo contro il mio.
- Cos’è quel foglietto? –domanda curioso.
- Accipicchia, quante domande. –ridacchio, giocherellando con il pezzo di carta –E’ la bozza dell’articolo che devo scrivere per quella rivista.
- Su di me?
- Sì, su di te. –sbuffo divertita.
- E posso leggerlo? –fa un sorriso sghembo, guardandomi.
Annuisco, porgendogli il foglio.
Mi stringo a lui, mentre Oliver spiega la carta e si mette a leggere. Mi accarezza un braccio distrattamente mentre i suoi occhi scorrono le parole.
Pian piano, un sorriso gli si abbozza sulle labbra. Quando ha finito di leggere mi ritorna il foglio e mi guarda.
- Lo vuoi sapere perché sono pazzo di te, baby girl? Perché sono pazzo di te, in caso non l’avessi capito.
Colta di sorpresa, annuisco.
Si abbraccia le ginocchia con le braccia, poi fissa i suoi occhi nei miei. La luce sprigionata dal sole arancione li illumina, rendendoli magnetici.
- Sono pazzo di te perché sei capace di cogliere anche i dettagli più insignificanti di una persona. Sai coglierli, sai innamorarti perdutamente di loro e sai conservarli per sempre. Sono pazzo di te perché sei sensibile, non vuoi vedere le persone soffrire. Sei luminosa, sei buffa, sei divertente. Fai delle battute pessime e ti metti a ridere da sola, senza nemmeno preoccuparti delle facce schifate delle persone che le ascoltano. Sono pazzo di te perché ogni volta che ti vedo, le farfalle prendono a svolazzarmi nello stomaco, perché come i miei occhi si posano su di te mi dimentico di come si cammina, di come si parla e persino di come si respira. Mi togli il fiato. Sono pazzo di te perché la mattina, quando mi sveglio, mi volto e ti osservo dormire e tutto quello a cui riesco a pensare è che voglio svegliarmi al tuo fianco per il resto della mia vita perché, Cristo, sono pazzo di te.
Mi sento avvampare ed abbasso lo sguardo, sorridendo.
- E sono pazzo di te perché sei bellissima quando arrossisci.
Alzo gli occhi e gli lancio un’occhiata divertita.
- Adesso stai esagerando. –gli faccio notare. Fa un sorriso sghembo e sincero che mi scioglie il cuore.
- Muoio dalla voglia di baciarti, in questo momento.
- Te l’ho mai impedito? –scoppio a ridere.
Mi si avvicina, le nostre bocche si sfiorano, quando sorride.
- No, effettivamente no. Si vede che ho il mio fascino.
Mi bacia con passione, più di quanta ce ne abbia mai messa. Mi sfiora la pelle con la punta delle dita, facendomi rabbrividire.
- Ti amo –sussurro quando mi lascia un secondo per respirare. Incontro i suoi occhi, sorride.
- Ti amo anche io, baby girl.
Lascio che mi abbracci, lascio che mi stringa forte. Non ho bisogno d’altro.
- Comunque… quell’articolo è stupendo. –soffia, a ridosso della mia testa.
- Sì?
- Dovresti mandarlo a quella rivista.
Mi scosto, in modo da riuscire a guardarlo in faccia. Sorride, sereno.
- Sei sicuro?
Annuisce, baciandomi la fronte.
- Sicurissimo.
Guardiamo le onde in silenzio, per qualche minuto. Se potessi fermare il tempo, questo sarebbe l’attimo ideale. Resterei così in eterno.
- Com’è andato il primo giorno in studio? –mi ricordo di chiedergli, all’improvviso.
- Oh, a meraviglia. Abbiamo registrato Another Life. A breve sarà disponibile per il download. –racconta –Ah! Ti ricordi Shelia Angel?
- Certo. Perché?
Oliver fa un sorrisetto, tradendo tutto il suo entusiasmo.
- Il suo tour mondiale parte ad agosto.
Continuo a fissarlo, aspettando che arrivi al punto.
- Mi ha chiesto di andare in tour con lei. Vuole che apra alcuni dei suoi concerti.
- Cosa? –esclamo sorpresa –Ma è magnifico!
Lui mi guarda, gongolante.
- Lo è? –domanda, incerto.
- Certo che lo è! E’ un’occasione pazzesca, Oliver! –salto su, eccitata –Stai veramente sbaragliando la concorrenza. Dio, è una notizia fantastica!
Si alza a sua volta, impacciato. Poi, sorride.
- E’ una notizia fantastica. –ripete, acquistando sicurezza.
- Sì! –esclamo, alzando le braccia al cielo.
- Sì! –ride, sollevandomi per i fianchi e facendomi volteggiare.
Rido a mia volta, appendendomi al suo collo.
Il sole è ormai tramontato quando decidiamo di raggiungere gli altri.
 

ANGOLO AUTRICE

​Eccomi qui, come ogni sabato!
​Alloora... non si è scoperto nulla di nuovo sull'anello, ma Oliver ha grandi novità: un tour da aprire. Certo, c'è tempo... ma cosa accadrà?
​E Rachele ha iniziato a scrivere per la rivista, che ne pensate?
Un bacio come sempre,
​emmegili

 
 
 

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Capitolo 46
*** 46. ***


I'm so in love with you
And I hope you know
Darling your love is more than worth its weight in gold
We've come so far my dear
Look how we've grown
And I wanna stay with you until we're grey and old
Just say you won't let go
Just say you won't let go

Say You Won't Let Go - James Arthur

46. – Rachele
 
Okay, non dico una torta dalla quale spunta fuori Johnny Depp bello e fatto.
Ma almeno qualcosa me l’aspettavo...
Invece no. Quando metto piede in cucina, i miei attuali coinquilini si limitano ad alzare lo sguardo da quello che stanno facendo e sorridermi un buongiorno.
Arianna mi sfila davanti con un vassoio di biscotti.
- Buongiorno! –trilla, appoggiando il carico sul tavolo. Scott ci si butta a capofitto, suscitando i commenti infastiditi di Jay.
- Buon... buongiorno. –dico, confusa. Confusa, delusa, in attesa, speranzosa.
Oliver si alza dalla sedia e mi si avvicina sorridendo. Mi bacia e sorride.
- Ciao. –mi saluta.
Per un po’ credo stia per farmi tantissimi auguri di buon compleanno e dirmi quanto mi ama, ma poi si allontana e torna al suo posto, come se niente fosse.
- Be’, che te ne stai lì impalata? –mi domanda Arianna, guardandomi –Non vuoi assaggiare un biscotto, prima che...
Scott allunga una mano sul vassoio e prontamente Ari gli tira una sberla.
- Qualcuno li finisca tutti. –termina la frase, lanciando un’occhiata ammonitrice al ragazzo.
Altaleno il mio sguardo tra i presenti.
- Sì, certo. –bofonchio dubbiosa, raggiungendo il tavolo.
Addento un biscotto, abbandonando ogni speranza.
- Bisogna che qualcuno vada a fare la spesa... –ricorda Arianna, osservando pensierosa il frigorifero chiuso.
- Ci andiamo io e Bay! –ribatte fin troppo subito Oliver, lanciandomi un’occhiata.
- Ma io non voglio –piagnucolo, appendendomi al suo bicipite come una bambina.
- Preferisci venire in palestra con me e Scottie? –mi sorride Jay, la bocca piena di cereali.
Scott geme, accasciandosi sulla sedia.
- No, direi di no. –sospiro.
 
- Adesso mi spieghi perché vuoi che mi metta la gonna per andare a fare la spesa. –incrocio le braccia al petto e inarco un sopracciglio, picchiettando il piede sul pavimento di legno, mentre Oliver, innocente, si siede sul letto.
- Non posso voler vedere la mia ragazza con la gonna? –domanda.
Socchiudo gli occhi, riducendoli a due fessure.
- Tu non me la racconti giusta. –decido.
Oliver scoppia a ridere.
- Tu e le tue teorie complottiste dovreste andare in pensione.
- Io non ho nessunissima teoria complottista. –metto in chiaro, cercando un dannato vestito nell’armadio.
- Se lo dici tu.
Tiro fuori un vestitino estivo bianco e un golfino azzurro, poi li mostro ad Oliver.
- Va bene? –esclamo, esasperata.
Annuisce pensieroso, fingendosi un esperto.
- Azzardati a contraddirmi e ti lancio una gruccia. –lo minaccio.
- E’ perfetto, proprio come te. –sorride angelico, alzandosi e avviandosi verso la porta della stanza.
Gli faccio un sorriso finto, scuotendo la testa divertita quando si richiude la porta alle spalle.
 
Mi appendo letteralmente al carrello, esausta.
- Cristo, Oliver, puoi darti una mossa? –esclamo, mentre lui osserva minuziosamente gli ingredienti di una salsa pronta al pomodoro.
Sfilo il cellulare dalla tasca per guardare l’ora. Sgrano gli occhi.
- Sono due ore e mezza che siamo qui dentro!
Mi lancia un’occhiata, poi controlla l’ora anche dal suo telefono.
- Eh, già. Come vola il tempo quando ci si diverte! –mi sorride.
Lo fisso con la bocca spalancata, cercando di capire se mi stia prendendo in giro oppure no.
- Andiamo! –mi prende per una mano e mi trascina alla cassa, improvvisamente preso dalla fretta.
Lo osservo spostare le cose dal carrello al nastro trasportatore con foga, come se qualcosa gli avesse suggerito che è ora di muoversi.
Paga e si butta fuori dal supermercato, correndo verso la macchina.
- Si può sapere che accidenti ti prende? –chiedo, scioccata, mentre mi apre la portiera.
Fa un sorriso sghembo.
- Non voglio che Arianna si arrabbi perché abbiamo fatto raffreddare il pranzo con il nostro ritardo.
Per tutto il tragitto mantiene una velocità costante, canticchiando i ritornelli delle canzoni che passano alla radio.
Io fisso fuori dal finestrino, imbronciata.
Come hanno potuto dimenticarsi del mio compleanno? E stiamo parlando del mio diciottesimo compleanno, mica stupidaggini!
- ‘Cause after all, you’re my wonderwall... –canticchia Oliver, imperterrito - Canta, baby girl.
- Non mi va. –lo tronco subito, incrociando le braccia al petto.
Lui mi lancia un’occhiata, mentre svolta verso casa.
- C’è qualcosa che non va? –domanda cauto, spegnendo l’auto. Fisso il retro della casa.
- Tutto benissimo.
Apro la portiera e scendo. Raggiungo il bagagliaio e ne tiro fuori due delle borse di alimenti che abbiamo comprato al supermercato, per poi marciare decisa verso il portico.
- Rachele! Aspetta! Cosa c’è che non va, piccola? –sento Oliver corrermi dietro, dopo aver chiuso il bagagliaio e recuperato le altre borse.
Mi blocco davanti alla porta, lanciandogli un’occhiataccia.
- Che giorno è, oggi, Oliver? –gli chiedo, sibillina.
Socchiude gli occhi, spaventato della risposta che sta per dare.
- Ehm. Martedì? –borbotta, a denti stretti.
- Martedì, ma certo! –sbotto, alzando gli occhi al cielo.
Sento le lacrime pungermi gli occhi mentre cerco la chiave nella tasca e la infilo nella serratura.
E io che credevo che gli importasse almeno un poco di me.
- Baby girl? Ehi? Cosa c’è? Che giorno è, oggi? –mi incalza lui, preoccupato.
- Niente, Oliver, lascia stare. –taglio corto, tirando su con il naso.
La porta si apre, rivelando una casa deserta.
Fantastico, quei tre non hanno nemmeno preparato il pranzo.
Appoggio le borse a terra per asciugarmi le lacrime.
- Buon compleanno!
Un sacco di gente salta fuori dal proprio nascondiglio, sorridente. Tra le tante facce scorgo, scioccata, quelle dei miei genitori. E poi i signori Dawn, Cami, Ed, Allison.
Al centro della stanza ci sono Scott e Jay, che reggono una torta piena di candeline. Qualcuno lascia andare dei palloncini colorati che finiscono per sbattere contro il soffitto.
Vedo Arianna corrermi incontro, eccitata.
- Tesoro! –squittisce, abbracciandomi.
Quando mi lascia andare, mi sfugge un sorriso.
- Che giorno è, oggi, Oliver? –mi fa il verso Oliver, passandomi un braccio sulle spalle.
- Smettila. –gli tiro un pugno amichevole nel petto, ridendo. Lui sorride e mi stampa un bacio sulla fronte.
- Tanti auguri, piccola. –mormora, orgoglioso.
Incrocio il suo sguardo dolce e felice, e tutto quello che vorrei fare è restare sola con lui. Ma poi vengo trascinata in una lunghissima serie di abbracci e stritolamenti che paiono non finire più.
- Ele!
Cami e Ed mi raggiungono, sgomitando.
Li abbraccio stretti stretti.
- Quanto mi siete mancati, ragazzi. –borbotto, a ridosso delle loro spalle.
Sembrano felici.
- Scusate se non vi ho salutati, quando sono partita. –aggiungo, dispiaciuta.
- Oh, non ti preoccupare. Te la faremo pagare, principessa. –mi assicura Ed, pizzicandomi una guancia.
- Oh, finiscila. –sbotta Cami, guardandolo spazientita.
Poi si rivolge a me, sorridendo comprensiva.
- Non c’è nessun problema. L’importante è tu stia meglio.
- Grazie, davvero. Per tutto quello che avete fatto per me. –li ringrazio, commossa, per poi abbracciarli di nuovo.
- Rachele!
A tirarmi via da loro, questa volta, è mia madre.
La fisso imbambolata, a disagio. Mi mordo il labbro inferiore, torturandomi le mani.
Lei mi guarda, gli occhi lucidi.
- Oh, tesoro. Non sai quanto mi senta idiota. Scusa, amore, scusami tanto. –scoppia a piangere.
Mi si stringe il cuore a vederla così. Pare davvero dispiaciuta per avermi lasciato andare. E, se non altro, ora è qui. Per me.
La abbraccio di slancio, lasciandomi accarezzare i capelli, la schiena. I suoi singhiozzi vanno pian piano calmandosi.
Quando mi lascia andare, le faccio un piccolo sorriso che pare risollevarla di morale. Alle sue spalle, compare mio padre.
Prendo un respiro profondo. Lui mi porge una mano, come segno di pace. Indugio un po’, per poi posare la mia mano sulla sua. Annuisco, eloquente.
- Tanti auguri, bambina. –mi sorride, dispiaciuto.
E nel suo sguardo vedo il rimpianto. Vedo il desiderio di aver fatto scelte diverse, tanti anni fa. Vedo il bisogno di salvare ciò che è rimasto.
- Grazie. Come... Come stai? –mi sento in dovere di chiedergli.
Un lampo gli corre negli occhi.
- Andiamo avanti. –si limita a rispondere, con un flebile sorriso.
Annuisco.
- Signorina!
Il signor Dawn si avvicina festante. Un sorriso spontaneo mi si forma sulle labbra mentre mi abbraccia affettuosamente.
- Signor Dawn, come sta? –domando, raggiante.
- Ora molto meglio. –mi sorride, strappandomi una risata.
Sua figlia mi piove letteralmente addosso, costringendomi a fare qualche passo indietro per recuperare l’equilibrio.
- Allie! –esclamo, abbracciandola.
- Mi sei mancata tantissimo! –ribatte lei, stringendomi forte.
I suoi occhi brillano d’entusiasmo.
- Non ci avrai creduto davvero? –domanda, trascinandomi in giro.
- A cosa? –chiedo, salutando la signora Dawn con un cenno della mano.
- All’enorme “Che giorno è oggi? Martedì!”. –ride lei.
Scrollo le spalle.
- Oddio, ci hai creduto sul serio. –alza gli occhi al cielo, divertita.
Scorgo Scott e Jay maneggiare con cura la torta, neanche fosse una bomba. Ridendo, li raggiungo.
- Ehi. Che fate? –li saluto, allegra.
- Guarda un po’ quanta allegria. –nota Jay, appoggiando la torta sul piano della cucina.
- Già. Volevo solo ringraziarvi.
Mi alzo sulle punte e bacio sulla guancia entrambi.
Jay mi scompiglia i capelli con fare affettuoso.
- Non c’è di che, piccolina.
- Per te questo ed altro. –aggiunge Scott, baciandomi a sua volta sulla tempia.
Ancora una volta, sento qualcuno chiamarmi. Quando mi volto e i miei occhi si posano su Sofia, la zia di Oliver, sento gli occhi riempirsi di lacrime.
- Sofia! –esclamo, abbracciandola.
Lei ride, ricambiando la stretta.
- Sei quella che mi è mancata di più. –le confido, cercando di trattenere la lacrime.
- Anche tu, bambina. Anche tu.
 
Aiuto Arianna ad allestire un’enorme tavolata fuori casa e pranziamo tutti insieme.
E’ una giornata grandiosa, mi sento finalmente felice e spensierata.
Le persone continuano a baciarmi, abbracciarmi, a dirmi quanto sia bella e quanto mi vogliano bene. Al momento di tagliare la torta, Scott per un soffio non la fa cadere sulla sabbia, scatenando l’ilarità generale e una crisi di nervi di Arianna.
Continuo a lanciare occhiate al fondo del tavolo, dove Oliver è seduto, accanto a suo padre.
Non sono nemmeno più riuscita a parlargli, sono stata occupatissima ad intrattenere gli ospiti. Lo osservo, rapita, mentre Cami continua a chiacchierare aggiornandomi su ciò che succede a scuola.
Lui fa roteare il contenuto del suo bicchiere, le mani sul tavolo, sorridendo a Sofia che gli parla serenamente.
- Ehi, bella addormentata nel bosco?
Mi riscuoto, per notare Allie che mi schiocca le dita davanti al viso.
Le sorrido.
- Dimmi.
Mi piazza sotto il naso un pacco rosa che teneva nascosto dietro la schiena, poi richiama l’attenzione dei presenti.
- Questo è il regalo che tutti noi abbiamo deciso di farti. –mi spiega, facendomi un occhiolino.
Imbarazzata, mi volto a guardare gli altri. Sorridono, eccitati.
- Grazie mille. A tutti. Vi voglio bene. –premetto in un sorriso grato.
Scarto il pacco.
Mi cade la mascella per la sorpresa quando i miei occhi si posano su una macchina fotografica istantanea dall’aria antica e vintage che mi manda fuori di testa.
Lentamente, sposto lo sguardo su Allison, gongolante.
- Voi siete matti. –sussurro solo.
- Siamo i tuoi matti, però. –mi sorride lei.
- Dobbiamo assolutamente provarla! –salta su Arianna, scuotendo i ricci biondi.
Annuisco, eccitata, mentre mi alzo dalla sedia.
La mia migliore amica prende la scatola e ne tira fuori la macchina fotografica, se la studia un pochino per capire come funziona e poi mi ordina di sorridere.
- Cosa? No, io non mi metto in posa. –ribatto, nervosa.
- Oh, andiamo, sei la festeggiata! –protesta Cami, dal tavolo.
- Ragazze...
Sento qualcuno abbracciarmi da dietro.
Ridendo, mi volto verso il mio assalitore e, quando incrocio quegli occhi dolci e caldi, tutto si blocca. Oliver mi sorride e mi bacia una guancia, stringendomi a sé.
- Scattata! –la voce di Arianna mi riporta alla realtà.
La schedina esce dalla macchina e lei prende a scuoterla, in attesa che compaia l’immagine. Allie, da dietro la sua spalla, la guarda e sorride sorniona.
- Oh, è bellissima! –sospira Ari, per poi porgercela.
Sorrido, fissando l’immagine. Sento lo sguardo di Oliver perforarmi la pelle.
Quando sollevo gli occhi, è talmente vicino che sento il suo respiro. Sorrido.
- Quanto non sono adorabili? –esclama sognante la signora Dawn, appoggiandosi alla spalla di Jay.
- Okay. –Oliver si riscuote e si allontana, poi unisce le mani, cercando di fare un annuncio generale.
Gli invitati lo fissano curiosi.
- Posso portarla via per un po’? Prometto che saremo di ritorno prima dell’alba.
Qualcuno ridacchia.
- Certo. –risponde Ari, facendo un riassunto mentale del programma che aveva preparato.
Guardo Oliver, interdetta.
Lui sorride sghembo, mi prende per mano e mi conduce verso la macchina.
 
- E adesso? Siamo arrivati? –domando ancora, giocherellando con il cubo di Rubik che ho trovato nel portaoggetti.
Oliver mi lancia un’occhiata divertita, mentre continua a guidare, rilassato.
- Non ancora. Non ci vorrà molto.
Sbuffo con fare plateale, in attesa della sua reazione. Ma Oliver non pare accorgersene.
- Devo chiederti scusa per questa mattina. –decido allora –Ti ho insultato in tutte le lingue di questo mondo.
- Insultarmi? –mi lancia un’occhiata –Ma se non mi hai quasi nemmeno rivolto la parola!
- Ah, già. –sorrido, mordendomi il labbro inferiore –Allora ti chiedo scusa per aver pensato tante brutte cose su di te.
Oliver sbuffa una risata.
- Eccoci.
L’unica cosa che vedo è una spiaggia. Ne avevamo una fuori casa, perché portarmi fino a qui?
Scendiamo dall’auto. Oliver intreccia le mie dita alle sue, mi sorride e poi si incammina.
- Dove mi stai portando? –tento, invano. Lui ridacchia e mi dice di essere paziente.
Camminiamo per dieci minuti, mentre il sole tramonta e il cielo inizia a scurirsi, rivelando delle luminosissime stelle.
Sono talmente presa dall’ammirare il cielo notturno che nemmeno scorgo la nostra ambita meta.
Quando abbasso di nuovo lo sguardo, rimango a bocca aperta.
In riva al mare c’è un piccolo palco quadrato con quattro pali di legno alle estremità, dai quali penzolano delle lucine di Natale.
Davanti al palco c’è una sedia a dondolo, una sola.
La mia bocca resta spalancata fino a quando non arriviamo sotto al palco.
- Ti piace? –mi domanda Oliver, fremente.
Gli sorrido.
- E’ stupendo, davvero. –annuisco, come una bambina.
Oliver mi fa sedere sulla sedia a dondolo e solo ora mi accorgo della chitarra nera, sul palco.
Lo osservo attenta, cercando di capire dove vuole andare a parare, mentre sale sul palco ed abbraccia la chitarra.
- Okay. –prende un profondo respiro e mi sorride, poi inizia a suonare.
Riconosco la canzone solo quando arriva al ritornello. E’ dei Bon Jovi. Non mi ero mai resa conto della bellezza di quelle parole fino ad ora, fino a quando non è Oliver a cantarle.
- And I will love you, baby, always. And I’ll be there forever and a day, always. I’ll be there till the stars don’t shine –Oliver alza lo sguardo al cielo e sorride –Till the heaven bursts and the words don’t rhyme. And I know when I die, you’ll be on my mind. And I’ll love you, always.
Inizio a piangere, all’improvviso, come se la potenza di quelle parole mi avesse colpita in pieno petto.
Ti amerò per sempre. Ci sarò per sempre ed un giorno, sempre. Ci sarò finché le stelle non smetteranno di brillare, finchè il paradiso non scoppierà e le parole non rimeranno più. E so che quando morirò penserò a te. E ti amerò, per sempre.
Oliver termina la canzone, con un sorriso che ricambio tra le lacrime. Mi asciugo le guance e mi alzo in piedi, battendo le mani.
Lui ride, appoggia sul palco la chitarra e mi raggiunge. Continuo a sorridere, come paralizzata.
- Ehi. –Oliver sorride a sua volta, accarezzandomi una guancia.
Poso la mia mano sulla sua e solo ora mi accorgo della tensione nei suoi occhi.
- Tutto bene? –domando, la preoccupazione che crepa appena il mio sorriso.
Lui annuisce, sorride come a rassicurarmi.
Poi fa un passo indietro, prende un respiro profondo e si inginocchia a terra. Non capisco fino a quando non lo vedo tirare fuori dalla tasca un astuccio di velluto rosso.
Le mie mani scattano a coprirmi le labbra. Milioni di pensieri mi passano per la testa.
Mi sta chiedendo di sposarlo? Dio, sarebbe la cosa più bella del mondo. Sposare Oliver, intendo. Ma non ora. Devo viaggiare, devo scrivere, devo vedere il mondo! Devo vivere la mia vita. Come farò, se sarò sposata? E lui? Sposarsi sarebbe assolutamente sconveniente per Oliver. Ad agosto ci sarà il tour! E poi? Andremo a vivere insieme? Sono appena maggiorenne...
- Frena i pensieri, baby girl. –mi stronca sul nascere Oliver, con un sorrisetto –Lo so che devi fare ancora un sacco di cose. Anche io devo fare un sacco di cose.
Inarco un sopracciglio, senza riuscire a trattenere un sorriso.
- Non ti sto chiedendo di sposarmi. –aggiunge –Non ancora, perlomeno.
Il mio cuore manca un battito.
Oliver apre il cofanetto, rivelando un anello argentato con un diamante. E’ talmente bello che mi manca il fiato.
- E’ una promessa. –continua lui, fissando i suoi occhi nei miei e facendo un piccolo sorriso impacciato –La promessa che, la prossima volta che mi inginocchierò, mi dirai di sì. Che mi sposerai. Che mi sopporterai fino all’ultimo giorno. Perché io ti amo, ti amo davvero. E il solo pensiero di una vita senza di te, senza il tuo sorriso, mi distrugge. Sei la cosa più bella che mi sia mai capitata, Rachele Nardi. La più bella.
Ormai non respiro nemmeno più.
Mi limito a piangere in silenzio, le labbra curvate in un sorriso, chiedendomi cosa accidenti abbia mai fatto nella vita per meritarmi Oliver Dawn.
Gli porgo la mano sinistra, annuendo.
- Sì. –sussurro –Sì!
- Sì?
Il sorriso che gli illumina il viso mi fa venire voglia di piangere, piangere e basta. E’ tutto così bello, così perfetto.
Oliver mi infila l’anello al dito, poi si rialza.
Non gli lascio il tempo di pulire i pantaloni dalla sabbia, gli salto al collo, piangendo sulla sua spalla.
Lui mi stringe, mi stringe forte.
- Grazie, baby girl. –mi sussurra all’orecchio.
Scoppio a ridere, lo guardo negli occhi.
- Grazie a me? Sei tu che mi stai salvando la vita. –mormoro. I suoi occhi si addolciscono ancora di più, mi scosta i capelli da davanti al viso.
- Dio, quanto ti amo. –la sua frase viene stroncata dalle mie labbra contro le sue, perché non resisto un secondo di più.
E’ quello giusto.
 
Inciampo in qualcosa, non so bene cosa, che rotola sul pavimento molto, molto rumorosamente.
- Shh. –Oliver ridacchia. Non so bene dove sia, è troppo buio.
- Non vedo niente! –protesto in un sussurro, cercando a tastoni l’interruttore della luce.
E’ notte fonda. Oliver mi ha portata fuori a cena dopo avermi dato l’anello. La casa sulla spiaggia è talmente buia da sembrare persino disabitata.
- Oh, eccolo! –premo l’interruttore dopo averlo trovato sul muro, accanto al divano.
Il salotto si illumina, lasciandomi tirare un sospiro di sollievo.
- Dove sono tutti? –domando ad Oliver, dall’altra parte della stanza.
Fa un sorrisetto, poi scompare in camera da letto senza rispondermi.
- Oliver? Ehi? –rido, togliendomi le scarpe.
Lo raggiungo, confusa. Si sta sbottonando la camicia nera e, quando mi sente entrare, alza lo sguardo e sorride.
- Sì?
- Dove sono tutti? –ripeto la mia domanda, avvicinandomi.
- Sono tutti in hotel. –risponde, in uno sbuffo, mentre cerca di slacciare il bottone del colletto, con qualche difficoltà.
Lo raggiungo con due falcate e lo aiuto.
- E come mai? –insisto, divertita. Mi ringrazia con un occhiata.
- Be’... Si erano fatti strane idee.
Inarco un sopracciglio, scettica, mentre lui si gratta il mento. L’occhio mi cade –si fa per dire- sui muscoli che la camicia sbottonata lascia intravedere.
Porto le mani alle sue spalle, sotto la camicia, e la lascio cadere a terra.
Oliver mi guarda, in attesa.
Mi alzo sulle punte dei piedi e poso le mie labbra sulla sua mascella, lentamente.
- Strane idee? –sussurro –Questo genere di strane idee?
Lascio scivolare le mie mani sui suoi addominali.
Alzo lo sguardo e incrocio i suoi occhi.
- Sei sicura, baby girl? Non voglio che... –bofonchia, accarezzandomi un braccio.
- Mai stata così sicura in vita mia. –sussurro, sorridendo.
Mi scruta per un po’, poi pare convincersi.
- Se lo dici tu, allora...
Con un sorrisetto sornione, Oliver mi afferra per i fianchi. Gli avvolgo la vita con le gambe, portando le mie mani al suo collo.
Ridacchio, mentre posa le sue labbra sulle mie, dolcemente, come solo lui sa fare.

ANGOLO AUTRICE
​Chiedo scusa, ma non ho potuto aggiornare prima! Però ce l'ho fatta per la serata... :)
​Così... ecco la festa di compleanno, un sacco di vecchie conoscenze e la rivelazione dell'anello... Che mi dite?
Un bacione grande e un grazie enorme,
​emmegili

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Capitolo 47
*** 47. ***


We are still kids, but we’re so in love
Fighting against all odds
I know we’ll be alright this time
Darling, just hold my hand
Be my girl, I’ll be your man
I see my future in your eyes

Perfect - Ed Sheeran

47. – Rachele
 
La luce del sole filtra dalla finestra.
Sbatto più volte le palpebre, stiracchio le braccia davanti a me. I raggi del sole sbattono contro l’anello che porto all’anulare sinistro, facendolo brillare.
Sorrido come un’idiota, ammirandolo.
Mi rigiro nel letto. Oliver, accanto a me, dorme ancora. Mi sollevo su un fianco, per vederlo meglio.
Le lenzuola gli lasciano scoperta la schiena possente. I capelli, decisamente spettinati, gli ricadono sul viso rilassato.
Sospiro sognante, sfiorandogli la fronte con le labbra.
Rotolo fuori dal letto e raccatto la sua camicia nera dal pavimento, stando ben attenta a non svegliarlo. La infilo sopra un paio di mutandine pulite e sgattaiolo in cucina.
Accendo la radio e spalanco le tende, lasciando entrare la luce.
Canticchiando, accendo i fornelli ed apro il frigorifero.
Da sotto il tavolo spunta la testa pelosa di Blue, che mi guarda curioso.
- Oddio, sei ancora vivo? –rido accarezzandolo.
Prendo le crocchette dalla dispensa e gliene rovescio un po’ nella ciotola.
Poi torno al frigorifero e, sempre cantando sottovoce, decido di cucinare le crepes. Controllo che ci siano abbastanza uova e tiro fuori il vasetto di Nutella.
Metto sul fuoco anche la moca del caffè, quando sento scattare le serratura e la porta principale aprirsi.
Mi sporgo verso il salotto, pronta a colpire chiunque sia con la padella.
Quando incrocio gli occhi blu di Scott, tiro un sospiro di sollievo.
- Cristo, Scott, mi hai fatto prendere un colpo!
Lui ridacchia e si avvicina.
- Pensavo dormiste. Sono venuto a prendere il portafoglio, l’ho lasciato qui ieri sera. –accenna al tavolo con la testa e solo ora mi accorgo del suo taccuino di pelle nera, lì, incustodito.
- Ah. Vuoi fermarti per colazione? –gli sorrido raggiante, indicando i fornelli.
Scott fa un sorriso furbo.
- Ti ringrazio, ma no. Non vorrei essere di troppo.
Solo ora mi rendo conto di indossare solo un paio di mutande e una camicia, e avvampo.
- Oddio, sono una cretina. Scusa, Scott. –bofonchio, mordendomi il labbro.
Lui scoppia a ridere e mi dà un buffetto affettuoso sulla guancia.
- Figurati. Sei come una sorella, per me. Ci vediamo dopo. –mi fa un occhiolino e, dopo aver recuperato il portafoglio, si dirige verso la porta.
Mi fa un cenno di saluto, che ricambio con un sorriso.
Torno alle mie crepes, fischiettando.
- Ma che spettacolo.
Mi volto di scatto.
Oliver mi osserva sorridendo, appoggiato al muro. Indossa i pantaloni della tuta grigia, ha i capelli spettinati e un’aria intrigante.
- Già sveglio? –gli sorrido, avvicinandomi per baciarlo.
- Avevo sentito dei rumori. –scrolla le spalle, sorridendo a ridosso delle mie labbra. Gli passo una mano tra i capelli.
- Era Scott, aveva lasciato qui il portafoglio. –spiego –Ho fatto le crepes, spero tu abbia fame.
- Eccome. –ride –Con tutte le calorie che ho bruciato stanotte...
Gli lancio un’occhiata, servendo le crepes su un piatto.
- Ah, sì? –decido di stare al gioco.
- Già. –annuisce, sedendosi al tavolo.
- Che c’è, sei stato a correre fino all’alba? –continuo, spalmando della Nutella sulla mia crepes.
- Mm. No, non proprio. Molto, molto meglio. –risponde, masticando.
Lo guardo con un sopracciglio inarcato, mentre sorseggia un bicchiere di succo d’arancia.
Mi fa un occhiolino, al quale reagisco con un sospiro.
Scoppia a ridere, quasi strozzandosi con il succo. Posa il bicchiere sul tavolo.
- Sapevo non avresti retto. –canto vittoria.
- Saresti un’ottima attrice. –conviene Oliver, prendendo un’altra crepes –E un’eccellente cuoca, tra l’altro.
- Modestamente. –sospiro, ammirando l’anello in controluce.
Con la coda dell’occhio, noto Oliver sorridere.
- Allora, che programmi abbiamo? –domando, raggiante.
- Io devo andare in studio. –risponde –Riguardo a te... non so cosa abbia organizzato Ari. E non ho intenzione di contestare i piani di quella maniaca del controllo. A cui voglio molto bene.
Annuisco, pensierosa.
- E poi? Rimarremo qui? O dovrò tornare in Italia?
- Oh, be’. Sei liberissima di scegliere. –mi sorride alzandosi. Mi bacia e ripone il piatto sporco nel lavandino. Lo osservo mentre scompare nel corridoio.
Va tutto alla perfezione.
 
- Guarda un po’ che sorrisetto.
Allie mi squadra da capo a piedi, con aria maliziosa. Accanto a lei, Arianna annuisce, concorde.
Le fisso, spazientita.
- Che avete? –sbotto.
- Niente. Cambiati, che andiamo. Scott e Jay non aspetteranno tutta la vita. –mormora Allison, senza smettere di scrutarmi con quello sguardo da poliziotta.
Decido di lasciarle perdere e scompaio in camera, per indossare un paio di pantaloni neri attillati e una maglietta rossa con le maniche a tre quarti.
Non faccio nemmeno in tempo a voltarmi, che me le ritrovo sulla soglia della stanza.
- Mm, il letto è disfatto. –sussurra Ari, cospiratrice.
- Oddio, sono i pantaloni di Oliver quelli là per terra? –squittisce Allison indicando quelli che sì, effettivamente, sono proprio i suoi pantaloni.
Sospiro con fare plateale.
- Come siete pesanti! Il letto è disfatto perché ci ho dormito e i pantaloni... be’... Oliver non è molto ordinato. –le liquido, dirigendomi verso il bagno.
Prendo a spazzolarmi i capelli, quando le scorgo scrutarmi dal riflesso dello specchio.
- Rachele Nardi. –mi chiama solenne Arianna –Dicci la verità. Cosa è successo ieri sera?
- Ieri sera? Oliver mi ha dato questo. –allungo loro la mano sinistra, facendo luccicare l’anello –E mi ha portata fuori a cena.
Allie mi lancia un’occhiata scettica, spingendomi a proseguire.
- E quando siamo tornati a casa tutti voi non c’eravate, perché vi eravate fatti strane idee. –le accuso con un sorriso malefico, incrociando le braccia al petto e voltandomi per guardarle negli occhi.
Allison arrossisce violentemente ed inizia a balbettare giustificazioni, ma Ari non demorde.
- Sì, be’. State insieme da un po’. Lui è una specie di bomba sexy e tu lo mandi fuori di testa. Non ci vedo nulla di male. E’ normale. –scrolla spicciola le spalle, cercando di raggirarmi.
Poso le mani sui fianchi, fissandola.
- Finalmente fai parte del nostro mondo di adulti. –aggiunge ridendo sotto i baffi.
- Arianna! –esclamo scioccata, schiaffeggiandole un braccio.
- La prenderei come una confessione... –commenta Allie.
- Cosa? Io... no... –borbotto, uscendo dalla stanza. Chissà che non mi ci chiudano dentro per farmi confessare.
Ma non lasciano perdere, e continuano a seguirmi, affamate di risposte.
- Stanotte è successo qualcosa. Oh, eccome. Guarda com’è rossa. Quasi più della sua maglietta. –insiste Allie –Certo, ammetto che l’idea che il misterioso lui sia mio fratello mi fa perdere un po’ di entusiasmo, ma...
- Okay, okay! Avete vinto! –esclamo esasperata, alzando le mani in segno di resa.
Sorridono beffarde, entrambe. Si battono un cinque, poi mi guardano.
- Ed e Cami sono andati a fare una gita romantica Dio solo sa dove, i tuoi genitori, i tuoi futuri suoceri e Sofia hanno deciso di visitare la città. Scott e Jay vogliono portarci al luna park. E tu vieni con noi. –cambia repentinamente argomento Arianna, contando sulle dita tutte le cose che deve dire.
- Ma sarò la terza in comodo! –protesto. Le loro occhiate confuse mi fanno ridere.
- Oh, andiamo. Allie e Scott, tu e Jay. Ed io? Il mio povero fidanzato è a lavorare. –piagnucolo.
Allison sospira plateale.
- Non fare storie. –ordina, prendendomi per un polso e trascinandomi fuori.
 
- Rae! –Scott mi stritola in un abbraccio affettuoso, scompigliandomi i capelli.
Ridendo, ricambio la stretta.
Facendo un passo indietro, mi soffermo ad osservarlo. Indossa una primaverile giacca di jeans che si intona in modo spaventoso ai suoi occhi, schermati da un paio di occhiali da sole. Ha i capelli scuri spettinati dal vento e schiariti un poco dai raggi del sole.
- Che classe, Scottie. –gli faccio notare, alzando gli occhiali sulla testa per vederlo meglio. Lui si passa le mani sui jeans neri, tutto orgoglioso.
- Grazie, piccolina. –sorride gongolante, per poi notare Allison e carezzarle una guancia distrattamente.
- Ehi, tu. –Jay mi pizzica un braccio, con fare offeso.
Mi volto a guardarlo e sorrido.
- Ciao, scusami. –ridacchio, abbracciandolo.
- Per questa volta ti perdono... –sospira lui, attento –Ma ricordatene!
Quando mi allontano da lui, ridendo, Arianna lo guarda timida. Jay se ne accorge e le sorride.
- Arianna... –gracchia in un sorriso imbarazzato, abbassando lo sguardo e passandosi una mano tra i capelli.
La mia migliore amica sussulta sorpresa, mentre Scott, Allie ed io osserviamo la scena stupiti.
- Jay che fa il primo passo? –sussurro piano all’orecchio di Scott. Lui mi guarda con tanto d’occhi, scrollando le spalle.
- Sì? –riesce a balbettare Ari, portando un ricciolo dietro l’orecchio.
- Vorresti essere la mia accompagnatrice ufficiale per questa giornata al luna park?
Ad Allison cade la mascella: probabilmente non aveva sospettato nulla sui due.
Scott mi lancia un sorrisetto, mentre incrocia le braccia al petto.
Arianna sorride, mentre riprende lentamente a respirare. Annuisce, frenetica.
- Certo. Mi piacerebbe molto.
Gli occhi di Jay brillano. Mi guarda di sottecchi, contento.
- Ma non è giusto. –sospiro lagnante. Quattro paia di occhi si posano su di me, incuriositi.
- Voglio Oliver. –mugolo disperata, facendo scoppiare a ridere tutti quanti.
 
- Sei una schiappa. –ripete Allie per la quinta volta, guardando sconsolata le paperelle di plastica che continuano a nuotare nella piscinetta, mentre io cerco invano di pescarle con una canna da pesca di plastica rosa.
- Ero bravissima! –protesto debolmente, lasciando la canna alla signora che, con un sorriso imbarazzato, mi comunica che ho troppi pochi punti per vincere qualcosa.
- Come va, signorine? –Scott ci raggiunge, mangiucchiando dello zucchero filato rosa.
- Rachele ha perso il suo charm. –risponde disperata Allison –Non attira più nessuna papera. Men che meno i cigni. Abbiamo perso 10 dollari.
Quando Scott mi guarda scettico, gli piagnucolo di stare zitto e gli rubo lo stecco dello zucchero filato, riempiendomi la bocca.
Lui mi lancia un’occhiata malinconica. Anzi, lancia un’occhiata malinconica allo zucchero.
- Non buttarti sul cibo... –mi rimprovera Allie. La guardo tristemente.
- Non so più vincere alla pesca, che ne farò della mia miserabile vita?
Scott rotea gli occhi, prendendomi sottobraccio.
- Magari hai sviluppato qualche altra abilità... Possiamo provare... il tiro al bersaglio? Che ne dite del tiro al bersaglio? Secondo me sei una specie di cecchino. –assicura.
Annuisco, poco convinta.
- Dove sono Arianna e Jay? –domando, la bocca piena di zucchero filato.
- Sugli autoscontri. Finiranno per farsi male. –Scott accenna col capo alla giostra degli autoscontri, quella con la coda più lunga. Sulle mini macchinine colorate intravedo la chioma bionda di Arianna.
Mentre Allie e Scott chiacchierano allegramente, trascinandomi verso la bancarella del tiro al bersaglio, mi riempio la bocca di zucchero.
Ho bisogno di Oliver Dawn. Adesso. All’istante.
- Oh, devi solo colpire le lattine. Con una palla da baseball. Ce la puoi fare, Bay. –fischietta Scott, osservando i peluche giganti che penzolano dal soffitto della bancarella.
Scott dà un bigliettone da cinque dollari al gestore, che, cicca in bocca, mi piazza in mano una palla da baseball.
La fisso, spaesata.
- Scottie?
- Mm?
- Non le beccherò mai. –mormoro, altalenando lo sguardo tra lui e la palla.
- Ho io la soluzione! –interviene Allie, masticando una gomma alla fragola che ha appena preso dalla sua borsa.
Sia io che Scott la guardiamo, in attesa.
- Immagina solo che quel triangolo laggiù, -sussurra cospiratrice –sia la faccia di Alyssa.
Un sorriso mi si scocca impertinente sulle labbra. Mi faccio spazio e mi preparo a lanciare.
Quando la palla colpisce in pieno il triangolo di lattine, facendole cadere tutte tintinnando sul pavimento, per un secondo vedo davvero la faccia di Alyssa, e scoppio a ridere.
-Wow! –strilla Scott, portandosi un pugno alla bocca –Grande!
Allie caccia un urlo e applaude.
- Dovrò stare attento a non farti arrabbiare...
Mi volto di scatto, credendo di sentire le voci. Eppure eccolo lì, il mio grande amore, nel suo giubbotto di pelle, che sorride sghembo.
E accanto a lui, semplice e tranquilla, Shelia Angel si complimenta per il tiro eccellente.
- Oliver? –domando, lanciando un’occhiata fugace all’orologio che porto al polso –Che ci fai tu qui?
- Sue mi ha chiesto di portare Shelia a fare un giro. –mi sorride.
Mi avvicino a loro.
- Ciao. –sorrido a Shelia, che mi abbraccia di buon grado.
- Ciao! Come stai? –mi chiede lei, allegra.
- Ora molto meglio. –sospiro, lanciando un’occhiata ad Oliver.
Lui mi avvicina a sé e mi bacia la fronte.
Scott ci raggiunge, con Allie al seguito. La ragazza continua a fissare Shelia, scioccata.
- Ehi, voi? Lo volete il premio? –urla l’uomo, dietro la bancarella.
- Sicuro. –trascinando Oliver con me, torno alla palla e ai bersagli.
Il signore mi porge un orso di peluche bianco grande quasi quanto me, che molto cavallerescamente Oliver si offre di portare al mio posto.
- Grazie. –Oliver sorride all’uomo.
- Stai attento, giovanetto. Quando si arrabbia, la ragazza ha una mira pazzesca.
Sorrido angelica ad entrambi, per poi tornare da Scott, Allie e Shelia.
Allison sta parlando incredula con la cantante. Scott segue la conversazione, interessato.
- Okay, dove vogliamo andare, ora? –domanda eccitato Oliver.
- Montagne russe? –propone Jay, saltando fuori da Dio solo sa dove. Accanto a lui, Arianna cerca di riprendere fiato.
C’è qualche urlo confuso di approvazione, poi la massa si muove in direzione della struttura blu che si intravede alzando lo sguardo al cielo.
Afferro il braccio di Shelia e la prendo da parte.
Lei mi sorride, curiosa, mentre il resto del gruppo prosegue.
- Shelia, io... volevo ringraziarti. Per l’opportunità che dai ad Oliver, intendo.
Il suo sguardo si addolcisce, mi accarezza un braccio.
- Se l’è guadagnata e se la merita. Ed è un piacere, per me. Non avrei potuto chiedere di meglio per il tour.
Annuisco, sorridendole.
 
- Non lo stiamo facendo sul serio. Dio, siamo due deficienti. –continua a ripetere Oliver come un mantra, guardando oltre la navicella e poi chiudendo gli occhi terrorizzato ogni due secondi.
Sorrido flebile, stringendo la presa sulla sbarra di ferro davanti a me.
- Sul serio, non so come quelli abbiano fatto a convincermi. Porca miseria. –insiste, terrorizzato.
Mi lancia un’occhiata.
- Se non dovessi sopravvivere, ti amo. –aggiunge, deglutendo.
Non riesco a mandare giù il magone che mi si forma in gola, mentre i ricordi continuano ad affiorare nella mia mente.
- Ehi, baby girl, tutto bene? –si preoccupa Oliver, posando la sua mano sulla mia.
Lo guardo, sorridendo triste.
- E’ solo che... l’ultima volta che l’ho fatto, è stata con mio padre. –sussurro.
Oliver riesce solo a stringermi la mano, prima che la pista blu vada giù a precipizio e le nostre grida si perdano nell’aria.

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Capitolo 48
*** 48. ***


And I'll be here until you fall asleep.
The storm is getting closer, I won't leave.
All the words I sing are whispers in your dreams.

When I said I wanted it all, I wanted it all.
It hurts more than ever, I won't give up now.
And all that you are is all that I need,
I promised forever.

So tell me it hurts, tell me it burns,
Tell me it's love and that you're ready to fall
Into my arms or into the ground,
It's lost or it's found,
Whatever you need to say, say it now, say it now, say it now.

​Say It Now - We The Kings

48.
 
Oliver
Me la stringo al petto, affondando il viso tra i suoi capelli.
Mi perdo a guardare il mare, seduto sul dondolo del portico. Rachele si accoccola a ridosso del mio petto, accarezzandomi i pettorali con la punta delle dita.
La osservo con un mezzo sorriso, poi intreccio le sue dita alle mie, portandomele alle labbra.
Lei sospira, mi guarda sorridendo.
- Non hai idea di quanto mi senta fortunata a conoscerti. –sussurra.
- Be’, se non ti avessi rotto le scatole quei primi giorni sull’autobus, ora non saremmo qui. –ridacchio, perdendomi a giocherellare con una ciocca dei suoi capelli.
Rachele sbuffa una risata.
- Eri così ostinato. –ricorda, baciandomi la mascella. Amo quando lo fa.
- Avresti dovuto vedere la tua faccia la sera del compleanno di Arianna. –rammento con un sorrisetto –Credo mi odiassi un poco.
- Un poco? Non ti potevo vedere. –sottolinea, inarcando un sopracciglio.
- Oh, andiamo. Ti scioglievi come un cioccolatino ogni volta che mi vedevi! Ti sei messa a balbettare quando ti ho chiesto se volessi bere qualcosa con me dopo la festa e, quando la mattina dopo ci hanno trovati addormentati insieme sul divano, eri tutta rossa e gongolante.
Sorride, pensierosa.
- Che bei ricordi. –soffia solo, sottovoce –Sembrano passati anni, non è vero?
Si lascia prendere dalla malinconia, e affonda il viso nel mio petto.
- Sembrano passati secoli. –convengo, in un sospiro.
Restiamo qualche minuto in silenzio, mentre Blue continua a giocare in riva al mare, saltando ogni volta che una nuova onda si infrange sulla sabbia.
- Sai, una relazione è fatta per sostenersi a vicenda. E direi che io e te siamo in una relazione fino al collo. –tento titubante, in attesa della sua reazione.
Rachele alza il capo, mi osserva.
- Che vuoi dire? –chiede esitante.
Prendo un respiro profondo e mi sistemo meglio sul dondolo, allontanandomi da lei. Continua a guardarmi, in attesa, mentre la preoccupazione si fa strada nei suoi occhi verdi.
Le prendo la mano sinistra e la stringo.
- Ti va di parlare un po’? –domando.
- Stiamo già parlando, Oliver, non...
- Lo sai cosa intendo. –la tronco sul nascere, osservandola con un piccolo sorriso ammonitore.
Lei posa lo sguardo sull’anello che le ho regalato e pare riflettere per qualche secondo. Poi, con una smorfia, fissa i suoi occhi nei miei.
- Mi sento una persona orribile, Oliver. –confessa, e tutto il dolore che teneva dentro pare sfociare fuori come un fiume dalle sue parole, dai suoi occhi –Mio padre sta morendo ed io non ho nemmeno la più pallida idea di come si senta. Ho abbandonato mia madre e mio fratello. Sono scappata, Oliver. Come una vigliacca.
Vorrei poterlo fare. Vorrei poterle dire che non stava bene per davvero, che i suoi, in un attimo di debolezza, la avevano abbandonata a sé stessa. Che ho dovuto salvarla, che non deve affatto sentirsi in colpa. Passo trenta secondi a domandarmi cosa faccia più male, se il senso di colpa o una bugia.
- Non sei stata una vigliacca... –ribatto flebilmente.
Lei socchiude gli occhi e mi osserva.
- Cosa c’è che non mi hai detto, Oliver? –sussurra spaventata.
E così ormai mi ha beccato. Non posso continuare a mentirle.
Chiudo gli occhi e cerco di mettere ordine nella testa.
- Non stavi bene, quando siamo venuti qui.
- Sì, be’, era piuttosto evidente... –borbotta confusa.
- No, non hai capito. Eri malata. –deglutisco –Ti ricordi? I tuoi genitori ti avevano fatto vedere un medico.
Annuisce lentamente.
- Avevano detto che era tutto a posto.
- Non era vero. Avevi... Avevi un esaurimento nervoso, baby girl. –mi costringo a non piangere.
Incassa il colpo ritraendosi di scatto, lo sguardo ferito.
- I tuoi non me l’avevano detto. Ho dovuto scoprirlo da tuo fratello. Ho consultato chiunque si potesse consultare. L’unica soluzione era portarti via. E quando tu me l’hai chiesto, io... Non ho potuto fare altro che portarti qui.
Si alza di scatto, le lacrime che le rigano copiose le guance.
- Come hai potuto? –singhiozza –Come hai potuto non dirmelo? Si trattava della mia salute, Oliver. Della mia vita. Non ne avevi alcun diritto.
Mi alzo a mia volta.
- Lo so. Lo so, okay? Ma avevo paura. Avevo una paura folle di perderti. –ribatto con voce rotta.
Mi guarda, mi guarda negli occhi, tremando.
- Alla fine mi hai perso comunque. –sussurra, piangendo.
Le sue parole mi tagliano, mi squartano, mi uccidono.
Resto lì, imbambolato, vuoto, a pregare che non si volti, che non se ne vada.
- Baby girl. –la chiamo, piano.
Lei scuote la testa.
- Siete tutti dei bugiardi. Non ce n’è uno che sia sincero fino in fondo. –gracchia solo, per poi superarmi e scendere dal portico.
Osservo la sua figura camminare lungo la riva fino a quando non sparisce all’orizzonte.
 
- Cavolo.
Quello di Scott è un sospiro esausto, mentre si passa le mani sul viso. Aspetto che dica qualcosa.
- Era sconvolta. –riesco solamente ad aggiungere.
Lui fa una smorfia di dolore, poi fissa le pareti dello studio, ricoperte di cornici con dischi di platino e chitarre.
- Ragazzi? –Sue spunta dalla stanza accanto, un sorriso dispiaciuto sulle labbra.
- Sì, abbiamo finito. Un minuto solo. –la ringrazio. Lei annuisce e scompare.
Scott mi guarda, preoccupato.
- Si sistemerà tutto, vedrai. –mi abbraccia.
Lo spero davvero. Mi saluta e si dirige verso la porta, mi lancia un sorriso teso prima di uscire.
Mi lascio cadere sul divanetto. Massaggio le tempie, nervoso.
- Buongiorno giovane canadese! –Shelia entra nella stanza, sprizzando gioia da ogni poro. Alzo lo sguardo, cercando di sorridere.
- Oh, no. Che c’è che non va? –mi raggiunge e si siede accanto a me, preoccupata. Mi posa una mano sulla schiena, in attesa.
- Ho litigato con Rachele. –confesso –Be’, più che altro lei si è incavolata. L’ho delusa. Dio, cosa ho combinato, Shelia?
Lei stira le labbra, dispiaciuta.
- Oh, Shelia. Bene! Possiamo iniziare a lavorare? –domanda Sue, comparendo nel mio campo visivo.
- No, no, no. –scatta in piedi la ragazza, con una determinazione tale da lasciarmi a bocca aperta –Oggi troveremo una soluzione a questa cosa. Ti aiuterò io. A costo di stare qui tutta la notte. Scusami, Sue.
Il sorriso angelico che regala a Sue conquisterebbe chiunque. La donna sospira e annuisce.
- D’accordo. Se avete bisogno di me, sapete dove trovarmi.
- Bene. Andiamo.
Shelia mi prende per un braccio e mi trascina letteralmente fuori dalla stanza.
- Dove stiamo andando? –le chiedo.
- A risolvere i tuoi problemi, Oliver, ecco dove stiamo andando.
 
Rachele
Quando apro la porta e mi ritrovo davanti Scott, per poco non scoppio a piangere di nuovo.
Lui mi sorride debolmente.
- Vuoi venire a fare due passi? –domanda dolcemente.
Annuisco, prendendo un respiro profondo.
Ci incamminiamo lungo la riva del mare, mentre il sole inizia a tramontare oltre l’orizzonte.
- Cosa c’è, Scott? –gli chiedo.
Non so cosa lui sappia, non ho idea di come lui si sia comportato. Ma proprio non riesco ad arrabbiarmi anche con lui.
- Volevo parlarti. –annuncia, sedendosi sulla sabbia. Dopo un po’ di esitazione, mi siedo accanto a lui.
Attira le ginocchia al petto, poi comincia a parlare.
- Lo sapevo, okay? Tutti lo sapevamo, Bay. –sussurra –E tutti volevamo farti stare meglio. Se fossi rimasta in Italia, le cose sarebbero solo peggiorate. So che sei incazzata. So che era un tuo diritto sapere. Hai ragione. Ma ti saresti sentita impotente, ti saresti fatta un sacco di paranoie e le cose non sarebbero migliorate di un centimetro.
Annuisco, concedendogli un briciolo di ragione.
- Oliver ha sacrificato tutto. Avrebbe dovuto cominciare a lavorare, ma ha pregato il signor Reynold di aspettare. Voleva prima starti vicino, farti guarire. E l’ha fatto. Si è dedicato completamente a te.
Gli occhi cominciano a pungermi, mentre cerco di calmarmi.
- E sai perché l’ha fatto?
Lo guardo negli occhi, non sentendomi pronta per la risposta. Perché per quante volta possa già avermelo detto, sentirlo da qualcun altro fa tutt’altro effetto.
- Perché ti ama. –esclama Scott, deciso –Ti ama. E’ così. Non puoi farci niente. Sei il suo primo pensiero quando si sveglia, l’ultimo quando va a dormire e quello che occupa tutto lo spazio in mezzo. Qualunque cosa faccia, la prima persona a cui pensa sei tu. Sei la sua intera esistenza, Bay.
Ormai le lacrime mi rigano le guance, silenziose.
- E puoi odiare me, puoi odiare Arianna. Anche Jay. Puoi odiarci tutti per non averti detto la verità. Ma non Oliver. Perché qualunque decisione lui abbia preso, l’ha fatto nel tuo interesse. Quando ha deciso di non dirtelo, è stato solo ed esclusivamente per il tuo bene. Per te. –Scott continua a parlare con tono dolce, amichevole.
Quando si volta a guardarmi, mi asciuga le lacrime con la manica della felpa.
- Lo amo anche io. Tanto. –sussurro, la voce rotta dal pianto.
Scott sorride, poi allarga le braccia. Mi ci butto a capofitto, come se non controllassi più i miei muscoli. Lui mi accarezza la schiena, mi stringe forte.
- E io? –domanda –Sono perdonato anche io?
Sorrido tra le lacrime.
- E’ impossibile arrabbiarsi con te, idiota. –strascico le parole, facendolo ridacchiare.
- Forse dovresti andare. Ho sentito una macchina. –Scott si guarda alle spalle, un sorriso dolce sulle labbra.
Mi abbasso e gli bacio la fronte.
- Grazie mille.
- Figurati, piccolina. Vai, adesso.
Corro verso la casa e spalanco la porta. Oliver, nel soggiorno, si volta di scatto. Il suo viso pare rilassarsi, probabilmente si era preoccupato non trovandomi a casa.
- Rachele. –dice il mio nome, riprendendo a respirare.
Chiudo la porta alle mie spalle, poi, a lunghi passi, lo raggiungo.
- Mi hai fatto preoccupare, io... –inizia, affannato. Si blocca, chiude gli occhi e si calma.
- Scusami. –ricomincia da capo, cercando i miei occhi –Avrei dovuto dirtelo, hai ragione. Mi dispiace tanto. Non voglio... Non posso perderti.
Faccio una smorfia, rendendomi conto del peso delle parole che gli ho detto.
- Possiamo mangiarci cento barattoli di panna montata, fare maratone di High School Musical, qualunque cosa. Se vuoi prendiamo un aereo e lasciamo tutto. Ce ne andiamo ai Caraibi, scappiamo via da qui. Sono disposto persino a una gara di karaoke. Ma ti prego, ti prego, non te ne andare.
E’ distrutto. Lo dicono i suoi occhi, il suo tono, le sue parole.
- Non volevo dire quello che ho detto, prima. –sussurro, scuotendo la testa –Ho esagerato, ti chiedo scusa. Non potrei mai lasciarti. Sei tutto ciò che mi rimane.
Sorrido, accarezzandogli una guancia.
- Prometto di non mentirti più. –bisbiglia.
- E io ti prometto che ce la faremo. Diventeremo vecchi e sordi insieme. –assicuro, asciugando con un pollice una piccola lacrime solitaria che gli traccia una linea bagnata sulla guancia.
Oliver sorride.
Gli vibra il telefono e lo tira rapidamente fuori dalla tasca dei jeans.
- E’ Jay. –mi informa, leggendo il messaggio –Chiede se stasera usciamo con lui e Arianna.
Sospiro innocente, sbottonando il primo bottone della camicetta.
Oliver inarca un sopracciglio, divertito.
- Be’, in fondo forse dovremmo lasciargli il loro spazio. –decide risoluto, rispondendo al messaggio e spegnendo il cellulare. Poi mi guarda, con un sorrisetto.
- Che gli hai detto? –domando, avvicinandomi.
- Che avevamo altre cose importantissime da fare. –sorride sornione, circondandomi la vita con le braccia.
Attacco le sue labbra alle mie e lo bacio, come se lui fosse aria ed io non riuscissi a respirare.
 
ANGOLO AUTRICE

Eccomi!
​Chiedo scusa per l'aggiornamento mancato di sabato scorso, ma il capitolo non era pronto e non me la sentivo di aggiornare con una vera e prorpia schifezza fatta di fretta, solo per aggiornare. A dirla tutta, anche questo capitolo non è che mi piaccia, ma non sapevo proprio come metterlo giù...
​Riguardo ai prossimi capitoli, posso dire solo che ci saranno colpi di scena!
Grazie mille e scusate ancora,
​emmegili

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Capitolo 49
*** 49. ***


When you go, I can't watch you leave
Just promise me you'll sneak out when I'm asleep
And when you go, and you're miles down the road
I'll wake up wishing everything was just a dream

Act Like You Love Me - Shawn Mendes

49.
 
Rachele
Quando entro nella stanza e mi ritrovo sette paia di occhi addosso, sussulto per la sorpresa.
- Oh, pensavamo fossi morta. –sospira sollevato Ed, con un marcatissimo accento che fa ridacchiare Allie.
Gli faccio una linguaccia, sorridendo.
- Ha ragione. –conviene Scott, la bocca stracolma di frittelle. Lancio un’occhiata scettica a Jay, lì accanto. Lui mi sorride impacciato, scrollando le spalle.
- Frittelle? –Oliver mi scivola accanto, porgendomi un piatto di frittelle cosparse di zucchero a velo.
Gli bacio una guancia e prendo un dolcetto, sedendomi al tavolo.
- Qualcuno mi spiega perché ogni mattina questa casa è più popolata di un grattacielo di New York? –domando, allungando il cartone del succo di frutta ad Arianna, che sventola la mano in aria cercando di attirare la mia attenzione.
- Perché vi amiamo e non riusciamo a stare senza di voi. –assicura Cami, prendendo un’altra frittella.
- Chi ha cucinato, stamattina? –chiedo, notando la quantità industriale di dolcetti sparsi in giro per la cucina.
- Jay ed Oliver! –risponde tutta orgogliosa Arianna.
- Davvero? –quasi mi strozzo.
Oliver mi passa accanto e mi batte la mano sulla schiena.
- Non capisco tutto questo stupore. –sottolinea offeso –L’ultima volta l’ho vinta io, la gara di cucina...
Gli lancio un’occhiataccia, che lui ricambia con un sorriso trionfante. Mi scompiglia affettuosamente i capelli, annodandoli.
Brontolando, sfilo l’elastico nero che porto sempre al polso e li lego in una coda morbida, fulminando Oliver con lo sguardo.
-OMMIODDIO, TI HA MANGIATA VIVA?
Mi volto di scatto verso Jay, che, scioccato, ha ancora la bocca aperta dopo il grido disumano che ha lanciato.
Sia io che Oliver lo fissiamo con tanto d’occhi, senza capirci un accidente. Scott ridacchia sommessamente, mentre tutti i presenti pian piano assumono un’espressione esilarata.
Lancio un’occhiata ad Oliver che, dopo qualche secondo, fa una smorfia, coprendosi il viso con la mano. Impreca sottovoce.
- Ehi, che c’è? –gli sibilo. Lui stringe i denti e mi guarda.
- Ehm. –bofonchia.
- E così è questa la cosa importantissima che dovevate fare ieri sera. –commenta quasi offesa Arianna, sorseggiando piano il succo.
In breve faccio due conti, e la mia mano scatta sul mio collo, a coprire la macchia violacea.
- Non ci vedo nulla di strano. –scrolla le spalle Ed –Se non altro non è una vecchia scorbutica arrapata.
Il silenzio cala sulla stanza, e dopo qualche secondo ne approfitto per cambiare argomento.
- Che volete fare, oggi? –cinguetto, spiluccando una fetta di crostata.
- No, no, no, non cercare di cambiare argomento, signorina sono-troppo-carina-e-innocente-per-fare-sesso. –mi blocca Jay, incrociando le braccia al petto con un sorrisetto.
Alzo gli occhi al cielo, sbuffando.
- Cosa vuoi, ancora? –sbotto, allargando le braccia.
- Da quant’è che va avanti, questa storia? –inquisisce, interessato.
- Non sono affari tuoi. –ride Oliver, per poi sorridermi e farmi un occhiolino.
- Oh! L’avete visto? L’avete visto? –salta su Ari, indicando Oliver come se fosse posseduta –L’occhiolino! Io direi almeno un mese.
Mi alzo dal tavolo, esasperata, e ripongo la tazza nel lavello.
- Un mese? –ripete Scott colpito.
A fior di labbra, stando attenta a non farmi beccare, sorrido.
Oliver mi passa accanto, diretto verso la credenza. Mi lancia un’occhiata, che sostengo senza problemi. Dopo qualche secondo, scoppiamo a ridere.
 
Alla fine, vista l’imminente partenza di Arianna, Cami e Ed, abbiamo deciso di trascorrere la giornata a casa. Domani partiranno, e voglio godermeli ancora un po’.
Il sole splende e fa piuttosto caldo, immergere i piedi della sabbia tiepida è un piacere.
Scosto i capelli dal viso, cercando di assimilare più luce che posso. Sdraiate accanto a me, Cami e Arianna chiacchierano allegre, giocherellando con la sabbia.
- Io propongo –annuncia Oliver, piazzandosi davanti a noi –Di…
- Spostati, che interferisci tra me e la mia leggera abbronzatura primaverile. –piagnucola Ari, gesticolando come un’ossessa.
- Sbaglio o ho sentito la parola “propongo”? –saltella eccitata Allie alle nostre spalle.
Oliver mi guarda, chiedendo aiuto, e io mi limito a scrollare le spalle, divertita.
Fa un passo a destra, spostandosi da davanti al sole, e apre la bocca per continuare il discorso.
Indossa dei pantaloni corti e una maglietta estiva, le braccia incrociate al petto. Ha i capelli spettinati e un sorriso impaziente.
- Noi non proponiamo. Noi sfidiamo. –interviene Scott, appoggiandosi alla spalla dell’amico. Oliver gli lancia un’occhiata furba, poi trattiene una risata.
- Noi sfidiamo voi ragazze ad una partita di beach volley. –conclude Ed, con aria da macho, spuntando da dietro i due. Accenna con la testa alla sua sinistra, dove Jay ha appena terminato di montare una rete da pallavolo.
- Oh, eravamo così impegnate a ciacolare che non ce ne siamo nemmeno accorte. –bofonchia Cami, schermandosi il viso dal sole con una mano.
- Ci sfidate, eh? –mi schiarisco la voce, alzandomi in piedi e avvicinandomi pericolosamente ad Oliver. Sostengo il suo sguardo di sfida, le braccia incrociate al petto.
- Sissignora. –ribatte lui, con un sorrisetto.
- Bene. –sfilo l’elastico nero dal polso e mi lego i capelli, fregandomene del succhiotto in piena vista.
- Oh no, si sta legando i capelli. –sussurra Scott.
- Ci stiamo legando i capelli. –puntualizza Allie, raccogliendo i capelli in uno chignon disordinato.
Anche Arianna e Cami, in breve, sono pronte.
- Bene. –ribatte Oliver, sorridendo con gli occhi socchiusi. Mi squadra da capo a piedi, poi annuisce.
- Avete voluto la guerra? E che guerra sia. –assicura combattiva Arianna, allungando i muscoli delle braccia.
Raggiungiamo il campo di gioco e ci posizioniamo. Maschi contro femmine.
- Chi comincia? –domanda Jay, facendo saltellare la palla da una mano all’altra.
- Prima le signore. –concede Oliver, rubandogliela e lanciandola a me, in battuta.
- Allora forse la cavalleria non è morta del tutto. –grido, dal fondo del campo.
- Nah. Siamo dei veri e propri gentlemen. –sorride Scott.
Siccome sono impegnati ad elogiare la loro cavalleria, non si accorgono del fatto che ho lanciato la palla e l’unico che tenta di acchiapparla, Ed, la manca.
Ari ridacchia malefica, battendomi il cinque.
 
Il sole sta ormai tramontando, quando battiamo i ragazzi per la sesta volta.
- Vi. Abbiamo. Stracciati. –urla Allie, mentre ci sediamo sulle sedie del portico. I ragazzi si abbandonano sul dondolo, feriti nell’orgoglio.
Scott sorride.
- Direi di sì. –mormora, incredulo.
- Effettivamente, statisticamente parlando, sono le ragazze che giocano a pallavolo. –conviene Ed, passandosi una mano tra i capelli.
Ridacchiando, Cami si offre di portare da bere per tutti e scompare in casa.
Quando ritorna e mi poggia il bicchiere di succo sotto il naso, lo stomaco mi si rivolta.
- Scusate –riesco a dire, prima di dover correre in bagno.
Vomito anche l’anima. Non riesco a tenere nello stomaco nemmeno un pezzo di frittella di questa mattina.
- Ehi, baby girl. –sento Oliver raggiungermi. Mi tiene i capelli raccolti dietro alla nuca, di modo che non mi diano fastidio.
Mi accarezza la schiena con dolcezza, preoccupato. Quando alla fine mi appoggio al muro, mi sorride.
In due nanosecondi Arianna piove nella stanza, porgendomi un bicchiere di acqua.
- Bevi un po’. –mi sollecita, quando vede che esito a prendere la tazza.
- Chissà come mai… -mormora Oliver, pensieroso, senza staccare la sua mano dalla mia schiena.
Arianna socchiude gli occhi, sospettosa, ma poi, con un gesto noncurante della mano, liquida il dilemma con le frittelle.
- Mi dispiace tanto. La prossima volta lascio cucinare Ari, promesso. –mi assicura, sfiorandomi una guancia.
- Figurati. –gli sorrido, flebile –Tanto l’ho sempre detto che cucino meglio io.
Lui scoppia a ridere.
- Incredibile. E’ rompipalle pure dopo aver vomitato un fiume intero. –sospira divertita Arianna.
- Andiamo fuori, così prendi un po’ di aria fresca. –suggerisce Oliver, accompagnandomi di nuovo in terrazza.
Scott mi porta una coperta e me la sistema sulle spalle, mi arruffa i capelli e poi torna a sedersi sul dondolo, lanciandomi un’occhiata di tanto in tanto.
- Non pensavo facessero così schifo, le nostre frittelle… -mugola Jay dispiaciuto, facendomi ridere.
- Non preoccupatevi. –gracchio, schiarendomi la gola –Sono solo giramenti di pancia. Non morirò.
Cami sbuffa un sospiro, guardandomi poco convinta.
- Speriamo solo che tu possa accompagnarci all’aeroporto, domani. –mormora.
- Certo che ci sarò. –affermo, risoluta –A costo di vomitare fuori dal finestrino per tutto il tragitto.
 
Oliver
Fisso il soffitto, prendendo un respiro.
Accanto a me, Rachele dorme beata. Allungo un braccio, a raggiungere la sveglia sul comodino.
Sono le sette e mezza. Devo alzarmi per andare a lavorare. Shelia Angel ha proposto di collaborare per un singolo, dobbiamo accordarci su un paio di cose.
Bacio la tempia di Rachele, poi scivolo fuori dal letto. Esco dalla stanza badando a non fare rumore.
Come entro in salotto, Blue alza la testa dal pavimento sul quale è accoccolato e scodinzola.
Gli accarezzo la testa e accendo il cellulare. Apro il frigorifero e ne prendo una mela rossa, che addento infilando una felpa.
Esco sulla terrazza. Fa fresco. Mi riempio i polmoni di aria pulita. C’è qualcosa di diverso. Lo sento. Ma non so spiegarmi cosa.
 
Rachele
Quando mi sveglio, Oliver è già andato a lavorare. Tutti sono in albergo a preparare le valigie e a sistemare le ultime cose. Ci ritroveremo davanti allo studio di registrazione di Oliver, per andare insieme all’aeroporto.
A casa ci siamo solo io e Blue. Sul tavolo c’è un post-it rosa acceso di Oliver: Buongiorno, bellissima. Sono a lavoro. Ci vediamo per le dieci. Dopo l’aeroporto possiamo andare a mangiare qualcosa fuori, che dici? Un bacio.
Sorrido, versandomi una tazza di latte.
Non riesco nemmeno a berne un sorso, che devo correre di nuovo in bagno per vomitare. Per fortuna, avevo appena legato i capelli.
Mi siedo sul pavimento, la schiena appoggiata al muro freddo. Prendo boccate d’aria, mentre Blue mi raggiunge e mi si sdraia sulle gambe. Lo accarezzo distrattamente.
Non ho mangiato nulla di strano ieri, a parte le frittelle. Che sia un virus? Ma, complessivamente, sto bene… E poi non è stagione da virus.
Un sussurro, un filo sottile, si insinua tra i miei pensieri. Di solito sono solo le mie paranoie. Ma se… avesse ragione?
 
Fisso la parete davanti a me con occhi vuoti, in preda al panico.
Ho controllato cinque, sei volte. E’ matematicamente impossibile che mi sia sbagliata sei volte, no?
Okay. Devo mantenere la calma. Continuo a fissare la parete della stanza, mi infonde tranquillità, mi fa credere che il tempo si sia fermato.
Le mani mi tremano mentre mi asciugo una lacrima. Prendo un respiro profondo, due, tre.
Lo sguardo mi cade sul cellulare, lì, sulle coperte del letto. Lo prendo in mano, esitante. Compongo il numero di Oliver, ma poi mi blocco. Che sto facendo? Non posso dirglielo così.
In uno scatto felino, raccatto carta e penna e faccio la cosa che proprio lui mi ha insegnato a fare: mi metto a scrivere.
Una lettera. La soluzione ai miei problemi è un pezzo di carta bagnato di lacrime, ora di disperazione, ora di un barlume di felicità.
Quando poso la penna sul tavolo, il foglio è già in una busta color avorio indirizzata A Oliver.
Mi asciugo le guance, ancora, poi infilo la lettera nella borsa.
In cucina, mi chino e bacio il muso di Blue, che inizia ad abbaiare come un ossesso senza ragione. Confusa ed incapace di farlo smettere, infilo la giacca nera di jeans ed apro la porta. Blue continua ad abbaiare disperato, grattando con le zampe sulla superficie di legno che ci separa.
Mi dirigo verso il ciglio della strada. Controllo un’ultima volta la presenza della lettera nella borsa, poi prendo il cellulare.
- Si, pronto? Vorrei un taxi, se possibile. –mi avvio sulle strisce pedonali –Sì, poco fuori Miami.
La vedo arrivare.
Mi blocco sul posto. Il telefono mi cade a terra, mentre l’operatore dall’altro capo continua a chiamarmi.
Un clacson.
Due fari accecanti.
E poi nulla.




 
Okay.
Ho deciso di cambiare il violetto in rosso, spero vi piaccia. Vi avevo premesso dei colpi di scena e mi si è letteralmente spezzato il cuore quando ho letto le vostre recensioni, perchè avevo già i capitoli pronti (questo e i prossimi). Non odiatemi. Amo i miei personaggi come se fossero delle persone reali.
​I prossimi capitoli saranno tutti piuttosto corti, quindi probabilmente aggiornerò più spesso.
​La strofa all'inizio è presa dalla canzone Act Like You Love Me di Shawn Mendes, ed è una delle mie preferite. Vi consiglio veramente di ascoltarla.
Un bacio,
​emmegili

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Capitolo 50
*** 50. ***


50. – Charlotte Henry
 
Quando sei una pivellina impari a notare un sacco di piccole cose.
L’espressione annoiata di Jones, ad esempio, è sempre una buona notizia. Significa che, dall’inizio del suo turno, non ha avuto molto da fare. Di conseguenza, poche persone si sono sentite male in quelle ore.
Faccio davvero fatica a capire i tirocinanti del reparto di chirurgia. Si ammazzerebbero pur di ottenere un caso grave. Un incidente stradale che ha coinvolto tre auto, il crollo di un edificio, un tizio rimasto infilzato da un paletto del parco.
Ma io sono diventata paramedico per salvare la gente. Ed ogni volta che ci danno un indirizzo, tremo. Chi rischierò di perdere, questa volta? Chi non riuscirò a salvare?
Jones alza lo sguardo dalla rivista di gossip che legge da ormai una settimana e mi fa un cenno di saluto.
Sollevata dall’estrema noia che aleggia sul suo volto, gli concedo un sorriso e perfino un “Buongiorno, Jones!”.
L’uomo mi lancia un’occhiataccia, mal disteso sulla barella dell’ambulanza. Non mi lascio demoralizzare e apro la portiera del mezzo, per adagiare il cappotto sul sedile.
- Come mai tanto buon umore, Henry? –sento urlare Jones, dall’altra parte del mezzo. Scrollo le spalle, sebbene non possa vedermi.
- Mi sono svegliata bene, stamattina. –esclamo di rimando, mentendogli un po’.
D’altra parte, l’unica cosa che spezza la monotonia della vita di un medico cinquantenne calvo relegato all’ambulanza per l’avanzata età e per una mancata brillantezza nel precedente lavoro è una chiamata all’ambulanza, dove è pregato di guidare velocemente, trasgredendo anche qualche norma del codice stradale.
Sto per scendere dal mezzo, quando la radio, attaccata al cruscotto, prende a gracchiare.
- Ambulanza 68? Ambulanza 68?
Con il cuore in gola, rispondo alla chiamata.
- Qui Charlotte Henry, ambulanza 68. –la mia voce è ferma e decisa, sebbene dentro stia tremando. Forse non sono tagliata per questo lavoro. Forse non ho i nervi adatti. Forse avrei dovuto dare retta a mia madre e diventare avvocato.
- Abbiamo un’emergenza a River Beach, un incidente d’auto. E’ rimasta ferita una ragazza, diciotto anni. –l’operatrice si occupa di darci tutti i dettagli nel minor tempo possibile.
- D’accordo, andiamo noi. –annuisco, seria –Jones, dobbiamo andare!
Sento Jones scendere dal retro del veicolo e chiudere i portelloni, per poi raggiungermi e sedersi al posto di guida.
Si allaccia la cintura e mi guarda, scuro in volto. Le labbra sono ridotte ad una linea sottile, quasi invisibile.
- Fate in fretta. –è l’ultima cosa che esce dalla radio.
 
River Beach sarebbe un posto magnifico, se non fossi occupata a mangiarmi le unghie, guardando le palme sfilare fuori dal finestrino. Il rumore della sirena dell’ambulanza mi rimbomba nelle orecchie, vedo le luci rosse e blu riflettersi su ogni cosa alla quale passiamo accanto.
- Lascia stare le unghie –mi ammonisce Jones, senza staccare gli occhi dalla strada.
Svoltiamo l’angolo e nel nostro campo visivo compare un’auto sportiva argentata. Un uomo sulla quarantina si avvicina a noi non appena ci vede arrivare. Il sollievo sul suo volto mi stringe lo stomaco.
Senza nemmeno più controllare i miei muscoli, apro la portiera e scendo dall’ambulanza saltando i gradini.
L’uomo mi si avvicina correndo.
- Vi prego, è qua dietro. –ansima, indicando l’altro lato dell’auto –Non l’ho vista, è sbucata dal nulla… Non so cosa fare.
- Ce ne occupiamo noi. –assicuro all’uomo, senza però fare a meno di notare le macchie di sangue che gli imbrattano la camicia bianca.
Oltrepasso la macchina, il kit di primo soccorso sottobraccio.
A terra, sull’asfalto, giace il corpo di una ragazza. Qualche metro più in là ci sono il cellulare e la borsa, che probabilmente l’urto a scaraventato lontano.
Mi accuccio accanto a lei. Non è cosciente.
Le scosto i capelli incrostati di sangue rosso dal viso, prendendo un respiro profondo. Jones piove accanto a me, frenetico.
Le avvolge il polso con due dita e aspetta qualche nanosecondo in silenzio. Quando alza lo sguardo, gli occhi gli lampeggiano.
- Il polso è debole, dobbiamo portarla in ospedale. Subito. –quasi me lo urla, improvvisamente preso dall’urgente bisogno di salvarla.
L’unica cosa che riesco a fare è annuire sconnessamente, mentre lui mi porge il collare. Lo aggancio al collo della ragazza con delicatezza, per poi aiutare Jones a trasferirla sulla barella.
L’uomo che l’ha investita è alle nostre spalle, ansioso. Si passa le mani sul viso ritmicamente, come se fosse un tic nervoso.
Jones raggiunge i piedi della ragazza e allude col capo all’altro estremo della barella, al quale mi avvicino.
- Al tre. –avvisa con tono all’improvviso gentile –Uno, due… tre!
Solleviamo la barella e il corpo della ragazza, inerme. Mi concentro solo sui portelloni dell’ambulanza, cercando di non soffermarmi troppo sui suoi vestiti impregnati di liquido rosso.
La adagiamo sulla struttura del letto. Jones mi dà rapide istruzioni. Se il cuore smette di battere, parti immediatamente con il massaggio cardiaco. Proviamo una flebo. Non distogliere lo sguardo dal monitor.
Annuisco, nonostante la mente mi si stia svuotando. Farò le cose che sta dicendo solo perché sono le cose che farei comunque, indipendentemente dai suoi ordini. Ma non sarei in grado di ripetere le sue stesse parole. Non lo sto ascoltando.
Scende rapidamente, per mettersi alla guida. Prima che chiuda il portellone, l’uomo che ha investito la ragazza si avvicina, allungandomi la borsa e il telefono.
Lo ringrazio e, notando l’ansia e la preoccupazione nei suoi occhi, aggiungo il nome dell’ospedale, dato che è meglio che non ci sia troppa gente nell’ambulanza.
Jones impedisce ogni altra interazione chiudendo con forza i portelloni, saltando al volante e partendo in bomba.
- Okay, Charlie. –mi dico, prendendo la borsa della ragazza e cercando un documento di identità.
Rachele Nardi.
Diciotto anni compiuti poco più di un mese fa.
Italiana.
Il monitor segnala un calo del battito cardiaco, così, fulminea, le poso due dita sul collo. Le pulsazioni ci sono ancora e dopo un paio di secondi il monitor smette di lampeggiare, silenzioso.
Prendo la mano della ragazza, notando l’anellino che porta all’anulare. Che sia già sposata?
Per un breve istante, lei stringe la presa. Sorpresa, mi avvicino al suo volto. Sbatte le palpebre, respira rumorosamente.
- Ehi. –esclamo, stupita –Ehi. Tranquilla. Va tutto bene. Va tutto bene.
Cerca di dire qualcosa, così le scosto la mascherina dell’ossigeno dalla bocca.
- Puoi ripetere? –domando, cercando di risultare tranquilla e per nulla preoccupata.
Dopo più di qualche tentativo, comprendo le due parole che continua a dire: lettera, borsa.
- Certo, certo. –asserisco risoluta, lasciandole la mano per poter cercare meglio.
Un po’ stropicciata, trovo la busta color avorio sul fondo della borsa. Con grafia elegante c’è scritto il destinatario: Oliver.
- Oliver. Okay. Gliela darò, certo. La avrà personalmente da me. –assicuro con un debole sorriso, infilando la busta nella tasca posteriore dei jeans –Anche se sono piuttosto sicura che riuscirai a dargliela tu stessa.
Il suo viso pare rilassarsi, Rachele chiude gli occhi.
Deglutisco, tornando a stringerle la mano. Gliela accarezzo con il pollice, pregando.
Dio, ti prego, salvala. Se ci sei, salvala.

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Capitolo 51
*** 51. - Oliver ***


51. – Oliver
 
Annuisco, cercando di assimilare tutte le informazioni.
Accanto a me, chitarra a braccio, Shelia fa ticchettare il piede sul pavimento di legno.
- Riprovate ancora una volta. –suggerisce festante Sue, soddisfatta del risultato. Seduto sul divanetto di pelle, il manager di Shelia alza un pollice, in segno di approvazione.
Lancio un’occhiata alla ragazza, che sorride e batte il piede a terra, dando il tempo. Ricominciamo a cantare quella che secondo Sue diventerà una hit mondiale, la colonna sonora dell’estate.
Guardo nervosamente l’orologio appeso al muro. Tra poco devo uscire per accompagnare i ragazzi all’aeroporto.
Terminata la canzone, Jack, il manager di Shelia, decide che per oggi è abbastanza e, con un’affettuosa pacca sulla spalla, mi lascia andare.
Lo ringrazio ed esco dalla stanza. Quando prendo in mano il cellulare per controllare se qualcuno mi ha cercato nelle ultime ore, noto venti chiamate senza risposta.
Perplesso, scorro la rubrica. La maggior parte delle telefonate sono di Scott, ma ce ne sono un paio di Jay e di mio padre, una da Arianna.
- Tutto bene? –s’informa Shelia, facendo capolino dall’interno della stanza –Ti ho visto lì fermo e mi sono preoccupata…
La guardo negli occhi, passandomi le mani tra i capelli.
- Spero di sì. –borbotto, componendo il numero di Scott.
Risponde dopo uno squillo e mezzo.
- Dove cazzo sei? –urla.
In una sola frase sento la sua voce graffiata, grattata, sento la sua disperazione appendersi e scivolare giù pian piano, come le unghie su uno specchio.
E in quel momento il mio cuore parte all’impazzata, si stacca dal petto e mi salta in gola, rendendomi difficile anche solo respirare.
- E’ un’ora che cerchiamo di chiamarti. –continua, lasciando scemare la rabbia e lasciando spazio allo sconforto. Quasi me lo vedo, seduto su una sedia, a coprirsi il volto con le mani, respirando piano.
- Che è successo? –riesco a domandare, con un filo di voce.
Inspira a pieni polmoni.
- Siamo… siamo in ospedale.
Mi appoggio con una mano al muro.
- Co… cosa? –balbetto.
Un altro sospiro, la voce incrinata dal pianto. Ho paura.
- Siamo in ospedale. Rachele ha avuto un incidente.
Le notizie mi arrivano ovattate, da lontano, come se fossi dentro una bolla, isolato dal mondo. Perdo ogni sensazione all’istante. Le orecchie mi fischiano, la vista mi si sfuoca, la sensibilità mi abbandona le mani.
Scorgo la figura di Shelia avvicinarsi tesa, mentre sento la sua voce distante ripetere il mio nome.
Oliver. Oliver. Oliver, Oliver. Oliver.

 

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Capitolo 52
*** 52. ***


52.

 

22:46.

Sembra che il tempo si muova solo attorno a noi.

Pare che le seggioline di plastica blu dell’ospedale abbiano il potere di rallentare e bloccare il tempo.

E’ come se le altre persone, le infermiere, i dottori si muovessero al doppio della velocità, come in un video velocizzato. E noi qui, su questi scomodi sedili, con la sensazione che un minuto duri un’eternità.

In un certo senso, è davvero come se fossimo più lenti rispetto agli altri: le voci sono solo un brusio fastidioso, le persone solo fantasmi, ombre.

Massaggiandomi le tempie, mi guardo attorno. Accoccolata su una seggiola, Allison sonnecchia, abbracciata a Scott che, sveglio, lancia un’occhiata all’orologio che porta al polso ogni due minuti. So che è ogni due minuti perché lo faccio anche io. Ha la mascella tesa, picchietta nervosamente il piede a terra.

Accanto a lui, Jay ha gli occhi chiusi e le mani giunte. Prega. Prega per Rachele, per me, per tutti noi. Non ho il coraggio di rivolgermi a Dio, non ora. Non so nemmeno se ci sia qualcuno, lassù, in questo momento. Ma sono silenziosamente grato a Jay per quello che sta facendo.

Seduta vicino a me, mamma mi stringe una mano.

Continua a guardare davanti a sé, ordinatamente seduta su quella dannata sedia blu, come se la sua mano si fosse mossa di sua spontanea volontà. Eppure il calore che emana e la debole sicurezza che mi infonde mi dicono che è consapevole del messaggio che mi sta mandando.

Sull’altro mio lato, papà stringe i braccioli della sedia con tanta forza da avere le nocche bianche. Da quando sono qui, non ha mai mollato la presa.

Schiena contro il muro, seduta sul freddo pavimento del corridoio, Arianna giocherella con gli anelli che porta alle dita.

Continua a piangere in silenzio da quando sono arrivato. Il trucco nero le sbava le guance, le lacrime le bagnano e irritano la pelle. Non singhiozza, non dice nulla: le lacrime continuano a sgorgarle dagli occhi. Jay ha provato più volte a consolarla, ma lei è inavvicinabile.

Qualche metro più in là, appoggiato al muro, Ed ascolta la musica a volume talmente elevato che la sento persino io da qua. I suoi occhi sono un miscuglio di rabbia e dolore, tiene le braccia incrociate al petto perché non gli tremino.

Cami, seduta ai suoi piedi, ha gli occhi chiusi e prende regolarmente dei respiri profondi, cercando di mantenere la calma. Stretta fra le mani ha una tazza di caffè ormai freddo, sono ore che lo stringe tra le dita.

Appesa al bancone della reception, la madre di Rachele fissa il nulla. Ha gli occhi vuoti, spenti, privi di luce. Pare quasi non respirare, è pallida come un cadavere.

All’improvviso, si volta verso l’entrata del reparto. Le porte si aprono, come a confermare il richiamo che ha sentito, facendo comparire un piccolo Lucas, assonnato, che stringe la mano al padre. Come gli occhi del bambino si posano sulla madre, molla la presa e le corre incontro.

La donna pare riprendere vita: allarga le braccia e stringe a sé il figlio, cominciando a singhiozzare disperata.

Sposto il mio sguardo su Enrico e incrocio il suo. Tra il terrore che gli galleggia negli occhi, scorgo qualcosa che chiede scusa.

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Capitolo 53
*** 53. - Rachele ***


53. – Rachele
 
Quando riapro gli occhi per la seconda volta, non ho idea di quanto tempo sia passato.
Ma nemmeno stavolta, come in ambulanza, riesco ad aprirli del tutto. Riesco appena a sollevare le palpebre.
Sono distesa, il letto si muove. Delle persone corrono accanto a me, parlando frenetiche e sussurrandosi nomi che finiscono in –ina che non ho mai sentito. Morfina è l’unico che riconosco.
Cerco di dire qualcosa, ma non esce nemmeno un suono. La gola mi brucia, la testa mi scoppia.
Vedo le luci attaccate al soffitto scorrere via veloci, mentre le persone mi trascinano lungo i corridoi, veloci.
Scorgo la chioma bionda della ragazza dell’ambulanza e, improvvisamente, mi calmo. Si volta a guardarmi proprio in quell’istante e tira un sorriso.
Poi, esattamente come ha fatto prima, mi stringe la mano.
Vorrei ricambiare la stretta, ma non ci riesco. Mi rendo conto che non ci riesco e sento la gola stringersi, il cuore battere all’impazzata.
Una donna esclama qualcosa, un uomo urla qualcos’altro. L’espressione allarmata sul viso della ragazza bionda mi spaventa.
Vorrei piangere ma, proprio mentre sto per farlo, tutto si spegne ancora una volta.
 
E’ bello. E’ caldo. E’ silenzioso, rassicurante, luminoso, pacifico.
Lui dice che starò bene, che non dovrò più preoccuparmi di nulla.
Ed è l’unica cosa di cui ho bisogno.
Sorrido.



Dopo diversi capitoli di silenzio, eccomi qui.
​Allora. Che dirvi? Dipende da voi. Potete scegliere di interpretare questo capitolo come volete: quello a cui la nostra protagonista si riferisce è un dottore? Oppure no, qualcun'altro un po' più in alto? Lo scoprirete solo nel prossimo capitolo. In ogni caso, volevo davvero ringraziarvi tutte di cuore. Siete voi a spingermi a continuare a scrivere anche quando non ho la minima ispirazione o voglia. Ma si sa, un capitolo scritto male è sempre meglio di un foglio bianco...
​Quindi, lasciandovi sulle spine...
Un bacio,
​emmegili

 

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Capitolo 54
*** 54. - Oliver ***


54. – Oliver

 

Ormai, più che rallentato, il tempo pare essersi fermato.

Nessuno si muove, nessuno parla. Tutti aspettano che le porte si aprano e che il chirurgo venga a dirci qualcosa.

E’ notte inoltrata, forse è già mattina. Non ho idea da quanto tempo siamo chiusi in questa stanza.

Dalla reception, l’infermiera ci guarda preoccupata e dispiaciuta. Ci osserva da così tanto tempo che probabilmente ha imparato a memoria i nostri visi.

Quando alzo lo sguardo, Scott è davanti a me.

- Andiamo a prendere qualcosa da bere? –domanda. La sua voce è vuota, spenta, ma cerca di sorridere. Invano: i suoi occhi sono due pozzi bui. Se ne accorge e il suo sforzato sorriso si spegne con una smorfia.

Mi passo le mani sul viso e mi alzo, annuendo. Ci avviamo verso la fine del corridoio, dove i distributori automatici sono relegati.

Scott preme i tasti, senza dire nulla inserisce le monete. La bottiglietta di plastica cade, lui si china a prenderla.

E poi sento un grido. Disumano, disperato, che lacera l’aria.

Quando mi volto e vedo Diana Nardi inginocchiata a terra, le mani strette al petto, le vene del collo sporgenti mentre lancia un altro urlo silenzioso, qualcosa dentro di me si rompe.

Come quando lanci un sasso contro una vetrina e va tutto in mille pezzi. Non riuscirai mai a riattaccare frammento per frammento fino a ricostruirla da capo. E’ andata. Non c’è più nulla da fare.

Sposto lo sguardo sul dottore davanti alla donna. Ha un’espressione mortificata, dispiaciuta, si tormenta l’orlo del camice.

All’inizio non ci credo. E’ tutto solo un orribile incubo, uno scherzo di pessimo gusto.

Ma poi vedo Arianna scivolare di nuovo sul pavimento, gli occhi vitrei, rigida come un blocco di legno.

Vedo Enrico stringere forte al petto il corpo di Lucas, scosso dai singhiozzi.

Vedo Jay scuotere la testa, mentre continua a mimare con le labbra una lunga catena di no.

Vedo mio padre chiudere gli occhi e alzare il viso al soffitto, in un profondo sospiro.

Vedo Edgardo scagliare un pugno al muro, con violenza.

Vedo Camilla tremare dietro di lui, cercando in lacrime di fermarlo.

Vedo mia madre reggersi esile allo schienale della sedia, per poi voltarsi nella mia direzione, il terrore negli occhi.

Accanto a me, vedo la bottiglietta d’acqua che Scott teneva tra le mani cadere a terra e rimbalzare via.

Un soffio di aria gelida mi sfiora il collo per una frazione di secondo.

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Capitolo 55
*** 55. ***


55.
 
So che sono ancora seduto sulla sedia azzurra solo perché le ossa mi fanno male.
La vista è appannata e l’udito completamente andato. Tutto ciò che sento è un fischio, un sibilo. Come quando esplode una bomba.
Lei era una bomba che è esplosa e ha travolto ogni cosa, trascinando chiunque le fosse vicino in un baratro.
Mi rende impossibile anche solamente pensare di fare qualcosa di utile, come alzarmi, oppure andarmene, o magari anche solo mettere due pensieri in ordine logico.
Qualcosa mi spinge ad alzare lo sguardo. Non so che cosa. Lo faccio e basta, ritornando per un secondo nel mondo dei vivi.
In fondo al corridoio vedo due infermiere spingere un letto, sul quale la persona è completamente coperta, viso compreso, da un telo celeste.
Qualcosa dentro di me scatta. Come un interruttore della luce. Solo che la luce si spegne, tutto diventa buio. Un macigno pesante trascina giù il mio cuore, giù, giù.
I muscoli delle gambe agiscono senza nemmeno interpellare il cervello. Sto correndo, correndo verso quel letto.
Mentre mi avvicino, vedo la preoccupazione e la curiosità dipingere il volto delle infermiere.
E poi ce l’ho lì, a due centimetri, coperta da un telo.
Una delle donne dice qualcosa, il suo tono, nonostante la dolcezza, è fermo. Ma non rielaboro le informazioni.
Me ne sto lì, esitante, con la mano tremante che indugia sull’angolo della stoffa azzurra.
La donna alza la voce, la dolcezza diventa minima. Penso che voglia mandarmi via.
L’altra infermiera, una bionda, afferra il braccio della collega e la rassicura.
Scosto il telo, scoprendo il viso e le spalle nude.
Come un pugno in pieno petto, che fa rivoltare lo stomaco. Mi chino sul lettino, l’aria mozzata in gola.
Rachele. E’ lei. La pelle pallida, i capelli castani spenti e più scuri del solito abbandonati sul materassino, sparsi a raggio di sole intorno alla testa.
Le palpebre chiuse mi impediscono di vedere i suoi occhi verdi, vispi, sorridenti, che erano un pozzo in cui affogarsi.
Le sue labbra non sorridono, non mi baceranno mai più. Lei non morderà mai più il labbro inferiore quando è nervosa.
Tremando, le poso una mano sulla fronte. E’ fredda. Leggero, le accarezzo la guancia, il collo.
Ma il colpo basso è quando, risalendo il braccio, arrivo alla mano sinistra.
Il suo anello è ancora lì, sull’anulare, brillante.
Non ce la faccio più. Quelle che fino ad ora erano lacrime silenziose si trasformano in singhiozzi gutturali, disperati, che nascono dal profondo del mio petto.
Mi premo le sue dita sulla guancia, non voglio lasciarla andare via, non voglio.
Ma se fino ad adesso ho potuto mentire a me stesso, ora la verità mi annega nel mio stesso pianto.
Rachele se n’è andata. Non ci sarà mai più. Lei è morta.

 

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Capitolo 56
*** 56. ***


I can smell you in the halls
Lord knows I'd cry if I was able
But that won't get me through tomorrow
And no it's not like I was counting
Or thought that we'd run out of days
So I'll be holding onto something
Breathing the air you took away
I, I'll keep a picture of you one the wall, of you on the wall
And choke on the memories

Choke - OneRepublic

 

56.

- Oliver, andiamo via. Non puoi vivere qui dentro. –mio padre mi supplica, inginocchiato davanti a me.
Le mani sulle mie gambe, cerca di convincermi ad alzarmi dalla sedia blu dell’ospedale.
Dietro di lui, mamma si trattiene dallo scoppiare in lacrime, ancora. Stringe Allie a sé e le carezza i capelli per non perdere la lucidità, per rimanere stabile.
Allison non riesce a guardarmi in faccia.
Ma non ce la faccio. Andare via da questo ospedale farebbe troppo male. Qua dentro, sono al sicuro. Ma uscire, ripercorrere le strade che lei aveva percorso, toccare le cose che aveva toccato, mangiare dalla stessa scatola di biscotti con cui lei amava fare colazione, dormire nello stesso letto dove lei ha dormito fino a qualche giorno fa... fa troppo male.
Scuoto la testa, alzando lo sguardo su mio padre. Mamma soffoca un singhiozzo, affondando il viso tra i capelli di Allie.
Papà sospira, passandosi una mano sul viso.
- Figliolo, lei non tornerà. Non puoi lasciarti andare in questo modo. Devi prenderti cura di te stesso. –dice con dolcezza.
Nonostante ciò, le sue parole mi fanno male. Mi alzo in piedi e mi allontano.
Solo quando ho raggiunto le scale d’emergenza, mi fermo. Dove voglio andare?
Mi rispondo automaticamente, dopo aver raggiunto il tetto dell’ospedale. Lentamente, mi avvicino al cornicione. Il cielo è dipinto di rosa, i grattacieli spiccano davanti al mare.
C’è un leggero venticello che mi attacca la maglietta all’addome. Sfioro il cemento del parapetto, in un sospiro.
Sembra tutto così surreale che stento a crederci. Lei, la mia lei, la donna che avrei voluto sposare, lei se n’è andata. Lei.
- E’ meraviglioso, non è vero?
Mi volto di scatto per notare, accanto a me, una ragazza bionda. Mi fa un debole sorriso, alludendo col capo al panorama.
Annuisco, confuso. A guardarla meglio, è l’infermiera che stava portando via il letto. Quella che mi ha concesso di vederla ancora una volta. Lo sguardo mi cade sulla giacca della sua uniforme, e deglutisco.
- Sei... sei un paramedico? –le domando, distogliendo gli occhi dal suo petto e rivolgendoli al suo viso. Ha gli occhi verdi. Come i suoi. Il cuore mi si stringe, come in una morsa.
Lei annuisce, porgendomi la mano.
- Sono Charlotte. –cerca di sorridermi, il vento che le scompiglia i capelli biondi.
Gliela stringo, incerto.
- Oliver. –mormoro, ritornando a guardare le luci di Miami. Mi appoggio con i gomiti al cornicione.
- Lo immaginavo. –sospira Charlotte, infilando una mano in tasca. Ne tira fuori un anello e se lo rigira tra le dita.
La osservo, un sopracciglio inarcato. Lei se ne accorge e sorride, poi me lo porge.
- Non lo voglio. –taglio corto, distogliendo lo sguardo –Non avresti dovuto prenderlo. Ora puoi anche andartene.
Charlotte non dice nulla e, quando mi giro a controllare se c’è ancora, noto il dispiacere nei suoi occhi venire fulmineamente rimpiazzato da pazienza.
- Scusami. Pensavo avresti voluto tenerlo. –si scusa, mortificata.
- E’... era –mi correggo, chiudendo gli occhi –di Rachele. E’ giusto che resti con lei.
La ragazza indietreggia con il capo, come se qualcosa l’avesse colpita. Il suo viso si contorce in una piccola smorfia.
Resto in silenzio, in attesa che faccia qualcosa.
- Non è compito dei paramedici occuparsi dei... dei defunti. –bisbiglia a mezza voce –Sono stata io a soccorrerla per prima. Non volevo... non volevo che andasse in obitorio da sola, come uno qualsiasi degli altri morti.
Le parole che escono dalla sua bocca mi stregano all’istante. Ma non faccio in tempo ad aggiungere nulla, perché all’improvviso lei pare intenzionata a chiudere la conversazione.
Dalla tasca posteriore dei jeans tira fuori una busta bianca e me la tende.
- Mi ha chiesto di dartela, in un momento di lucidità. –spiega –E io le ho promesso che l’avrei fatto.
Stupito, non muovo un muscolo. Lei insiste, tendendomi la lettera. La afferro incerto, sfiorando con il polpastrello il mio nome scritto con dell’inchiostro nero.
Charlotte si volta di scatto e fa per andarsene, lasciandomi lì, da solo.
- Charlotte? –la chiamo, seguendola con lo sguardo.
La ragazza si blocca, le mani in tasca, e mi guarda; la luce arancione del sole la trafigge, donandole un’aurea magica, come quella di un angelo.
- Grazie.
Si sposta una ciocca bionda dietro l’orecchio, abbozza quello che è un sorriso triste.
- Mi dispiace per Rachele. Sembrava una brava persona.
Poi se ne va in silenzio, così com’è venuta.

 
 
 
Penso che sia arrivato il momento di ricominciare con i miei angoli a fine capitolo e con le canzoni all'inizio...
​Mi spezza il cuore leggere le recensioni (mi scuso se a volte non rispondo, ma faccio davvero fatica!). Io stessa sono cresciuta insieme a Rachele, ho scritto di lei per quelli che ormai sono quasi due anni e mezzo.
​Se può consolarvi, non è morta perchè non sapevo più cosa scrivere: sapevo che sarebbe morta dalla prima parola che ho scritto (Autobus).
Per chi è interessato, ecco la traduzione della strofa iniziale:
 
​Posso ancora sentire il tuo profumo nei corridoi
Dio sa che piangerei, se ne fossi capace
Ma questo non mi farà arrivare a domani
E no, non è come se avessi messo in conto
o pensato che il nostro tempo sarebbe scaduto
Quindi mi aggrapperò a qualcosa,
​respirando l'aria che tu ti sei portata via
 
 
 

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Capitolo 57
*** 57. ***


57.
 
Arianna
Sono passati tre giorni, cinque ore e ventidue minuti.
Sono passati tre giorni da quando quella che era la mia migliore amica ha avuto la brillante, grandiosa idea di farsi prendere sotto da un’auto.
Tiro su con il naso, asciugandomi una guancia. Le dita mi si macchiano di nero.
A dirla tutta, non so nemmeno perché continui a truccarmi. Forse è una delle poche piccole cose che mi impediscono di perdere la testa.
Seduta sul dondolo del portico della casa sulla spiaggia, stringo al petto una maglietta che Rachele mi aveva prestato la settimana scorsa. Ha ancora il suo odore.
La porta della casa è chiusa a chiave. Il padre di Oliver è venuto a prendere Blue, il cane, e poi ha chiuso tutto. Come se un pezzo di lei fosse ancora intrappolato lì dentro e, entrando, si corresse il rischio di farlo andare via.
Così mi accontento del dondolo. Lei lo amava.
- Ehi.
Alzo lo sguardo.
Sui gradini di legno, esitante, cercando di sorridere dolcemente, Jay mi guarda. Accenna al dondolo, come a chiedere il permesso.
Mi rannicchio in un angolo e annuisco. Lui mi raggiunge con un sospiro, poi appoggia i gomiti alle ginocchia e si passa le mani sul volto stanco.
Ora che è più vicino, noto che non si fa la barba da qualche giorno.
Scommetto che sono tre giorni, cinque ore e ventiquattro minuti.
- Come stai? –mi chiede, premuroso
Scrollo le spalle.
- Di merda. Mi pare ovvio. –mormoro.
- Hai ragione. Scusa. Ma ho bisogno di parlare con qualcuno, altrimenti impazzisco.
I suoi occhi scuri sono spenti, tristi, vuoti.
- Scusami, non volevo essere maleducata. –faccio una smorfia –E’ solo che... fa male. Parecchio.
- Già. Credo di saperne qualcosa.
- Come sta Oliver? –domando, guardando le onde infrangersi sulla sabbia.
Lui sospira.
- Non l’ho ancora visto. Stanno faticando per convincerlo a lasciare l’ospedale. Il padre di Rachele ci ha procurato un appartamento in cui stare momentaneamente, qui a Miami. Ci sono parecchie cose da decidere. –mormora sottovoce.
- Come quando e dove fare il... –la voce mi si spezza.
- Sì. –mi rassicura.
E poi Jay fa qualcosa che non mi aspetto. Mi prende la mano e la stringe.
Il calore che sprigiona mi tranquillizza all’istante e mi dona forza, una forza che prima non avevo.
Lo guardo negli occhi, stupita. Lui abbozza un piccolo sorriso.
 
Allison
Se c’è una cosa che fa ancora più male della scomparsa di Rachele, è vedere gli uomini della mia vita letteralmente distrutti, a pezzi.
L’appartamento che ci ha messo a disposizione il padre di Rachele è enorme. Riusciamo a starci tutti: mamma, papà, Scott, Jay, Camilla, Edgardo, Arianna. Persino Oliver.
Almeno, fisicamente parlando. Perché mio fratello ha un peso, un dolore talmente grande da non riuscire a sopportare di stare qui con noi.
- Sofia. Ciao. –sento mamma telefonare alla zia, nella stanza accanto. E’ dovuta partire all’improvviso qualche giorno fa per un impegno di lavoro, non lo sa ancora.
Mia madre è un’eroina. E’ riuscita a non crollare. E’ l’unica ad avere la forza di comunicare la notizia alla zia.
Seduto nervosamente sull’altra sponda del divano, Scott non muove un muscolo.
Gli lancio un’occhiata, nervosa. Di notte lo sento piangere. Non sono ancora riuscita a parlargli. Deglutisco il magone che ho in gola e mi faccio coraggio.
- Scott? –lo chiamo.
Si volta di scatto nella mia direzione, come se lo avessi strappato a chissà quale sogno.
Mi alzo e mi avvicino a lui, cauta.
- Penso che dovremmo parlarne. –esordisco, cercando di decifrare il suo volto.
Scott si rabbuia e scatta in piedi.
- Di cosa dovremmo parlare, Allison? Uh? –sibila.
Mi ritraggo istintivamente, ferita.
- Di Rachele. –aggiungo in un soffio, fissandolo imbambolata.
- E perché? –ribatte, contorcendo il viso in una smorfia triste che preannuncia le lacrime –Ormai lei è morta. Morta, Allison. Capisci?
Come mi alzo e gli poso le dita su una guancia, lui inizia a piangere. In silenzio, pregandomi con gli occhi di aiutarlo. Chiedendomi scusa con lo sguardo. Supplicandomi di diventare il suo salvagente.
- E’ morta. –ripete.
Le sue sono parole pesanti come macigni che ci trascineranno giù tutti quanti.
Annuisco, mentre le lacrime bagnano anche il mio viso. Gli carezzo la nuca, lo abbraccio.
- E’ morta. Morta. Morta. Lei è morta. Morta, morta, morta. Lei è morta.
Continua a ripeterlo fino a quando la parola non ha più senso, fino a ridurla ad un ammasso di lettere messe lì a caso.

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Capitolo 58
*** 58. - Oliver ***


 58. – Oliver
 
Mio padre spegne la macchina, poi sospira.
Si passa le mani sulle cosce e mi guarda. Apre la bocca per dire qualcosa, ma poi ci ripensa e si mette ad osservare interessato il mare grigio.
- Non credo che sia una buona idea. –esordisce.
- Voglio stare qui con lei. –bisbiglio, per poi correggermi –Con il ricordo di lei.
Il silenzio cala nell’abitacolo.
- Sarai da solo.
- Sarò con lei.
- Oliver...
Finalmente mi guarda in faccia, sconsolato.
Di nuovo silenzio.
- Vogliamo solo aiutarti.
- Allora lasciatemi stare qui.
- Non credo che sia una buona idea.
- Diciassette.
- Cosa?
- Diciassette. Le volte che hai detto questa frase da stamattina.
Silenzio.
- So che fa male, però...
- No, non lo sai. La mamma è ancora viva.
Silenzio.
- So che è difficile da capire, ma lei era la mia Luisa.
Silenzio.
- Sono passati quattro giorni.
- Direi che possiamo escludere la resurrezione, allora.
- Oliver.
- Mi lasci andare, per favore?
Lo guardo, piangendo.
- Voglio solo che mi lasci andare.
Silenzio.
- Ti prego.
Mi fissa per qualche secondo, indeciso. Poi si sporge verso di me e apre la portiera del passeggero.
- Non fare cavolate. –dice solo, guardando fisso davanti a sé.
Aspetto un po’, poi scendo dall’auto.
 
Quando apro la porta della casa sulla spiaggia, tutto mi travolge.
In particolare, l’odore. Ogni cosa è impregna del suo profumo.
E poi, le ombre. Mi pare di vederla svoltare in corridoio, imbucarsi in cucina, arrampicarsi fino alla mensola delle chiavi dell’auto.
La vedo ridere, seduta sul divano, la vedo infilarsi un biscotto in bocca. Ora è sdraiata sul pavimento, mentre gioca con Blue.
Devo appoggiare la schiena alla porta per non collassare a terra. Prendo respiri profondi, sfiorando il legno con i polpastrelli.
Quando la testa smette di girarmi, faccio un passo avanti. Prendo la busta stropicciata dalla tasca e la appoggio sul tavolo, cauto. Non l’ho ancora letta.
Mi concentro sui battiti del mio cuore, sul respiro. Cerco di non notare la sua tazza di ceramica nel secchiaio, fingo di non vedere il braccialetto che ha dimenticato sul bancone della cucina, quello con la targhetta d’argento, quello con il suo nome, quello che indossava la prima volta che l’ho vista.
Ma l’occhio continua a caderci sopra, incapace di ignorarlo. Non riesco a fare a meno di fissarlo.
E’ stata lei a dimenticarlo lì. Magari se n’è accorta dopo essere già uscita ed ha pensato di rimetterlo a posto una volta tornata. Una volta tornata.
Mi scappa un risolino amareggiato. In pochi secondi, senza nemmeno sapere come, sto piangendo.
Scosso dai singhiozzi, mi siedo sul divano. Tremo, piango, urlo.
Se n’è andata. E fa dannatamente male.
 
Quando mi sveglio, lei non è accanto a me.
Mezzo addormentato, mi sollevo sui gomiti. La porta della stanza è aperta e una luce illumina il corridoio.
Sguscio fuori dal letto ed infilo una maglietta a caso, per poi dirigermi verso la luce. Quando vedo da dove arriva, sorrido.
Raggiungo la stanza e mi appoggio allo stipite, osservando la scena.
Rachele è seduta sulla sedia a dondolo, accanto alla culla. Tiene tra le braccia nostra figlia, canticchia sottovoce una ninnananna.
Alza lo sguardo e incrocia il mio. Sorride. E’ così bella...
Mi avvicino, le braccia incrociate al petto.
- Si era svegliata? –domando sottovoce, per poi baciarle la fronte.
Rachele sorride, accarezza la testa della bambina.
- Già. Penso fosse solo un brutto sogno: non aveva fame... –risponde rapita, cullandola.
La bimba spalanca gli occhi, verdi come quelli della madre. Come mi vede, muove il piccolo pugno in aria.
Sorrido, porgendole l’indice. Lei lo stringe forte.
Rachele ridacchia, baciandomi una guancia.
- Ti amo tanto. –sussurra. Incrocio i suoi occhi, sorrido.
- Anche io ti amo tanto.

Scatto a sedere, con un grido.
Sono sul divano, fuori il sole sta tramontando. La mia maglietta è bagnata fradicia, il cuore mi batte a mille, ho il respiro pesante e le guance umide di lacrime.
Affondo le mani nei cuscini, stritolandoli.
La lettera è ancora lì, sul tavolo. Pare attendere senza alcuna fretta. La osservo, mentre il mio cuore riprende a battere normalmente.
Perché mi ha scritto una lettera? E’ tutto quello a cui la mia mente riesce a pensare. Cosa accidenti voleva dirmi?
Allo stesso tempo, ciò che mi ferma è la consapevolezza che è l’ultima cosa che mi lega a lei. Dopo che l’avrò letta, non ci sarà nulla di nuovo da scoprire, nulla di cui innamorarsi ancora e ancora.
Ma mi manca. Da morire. Ho un buco nello stomaco, non riesco nemmeno a respirare. Voglio riaverla indietro, voglio stringerla tra le mie braccia, voglio baciarla, voglio sentirla ridere, voglio sentirla suonare. Voglio che mi dica che sono un idiota, voglio che arrossisca dopo che le ho fatto un complimento. Voglio lei. Indietro.
Quando arrivo davanti alla tavola, non mi ricordo nemmeno come ci sono arrivato. So solo che la sua assenza pesa troppo, mi sta trascinando a fondo. Mi manca.
Afferro la busta e mi dirigo verso quella che era la sua stanza. Ingenuamente.
Perché quando apro la porta e trovo tutto come lei l’aveva lasciato, vengo travolto da una valanga.
I vestiti buttati sul letto, la scrivania cosparsa di fogli e pennarelli, i libri seminati a destra e a manca, i cd che amava di più ordinati sul comodino.
Nonostante nell’ultimo periodo dormisse con me, nella mia stanza, mi rendo conto che non ha mai abbandonato la sua. E’ rimasta sempre il suo piccolo rifugio, dove andare a nascondersi quando ne aveva bisogno.
Prendo dei respiri profondi, cercando di limitare l’ondata emotiva al tremore delle mani. Lentamente mi siedo sul suo letto, cercando di ignorare le lenzuola impregne del suo odore.
Mentre gli occhi mi pungono, come afflitti da migliaia di aghi, decido di smettere di rigirarmi la busta avorio tra le mani e la apro.
Spiego il foglio ordinatamente piegato in tre e, mentre ricomincio a piangere, inizio a leggere.
 
Oliver,
amore mio.
Non hai idea di quante emozioni stia provando in questo istante. Volevo dirtelo di persona, ma poi mi sono resa conto che non avrei mai trovato il coraggio di farlo, senza contare che probabilmente mi sarei messa a piangere alla seconda parola. Lo sai anche tu che me la cavo meglio con l’inchiostro. Quindi ti prego di non alzare lo sguardo dal foglio fino a che non avrai finito di leggerlo, perché sebbene sia davanti a te in religioso silenzio, dentro di me c’è una tempesta.
 
Alzo gli occhi dal foglio e fisso la stanza vuota. Lei voleva essere con me quando l’avrei letta. La vista mi si appanna e sono costretto a sbattere più volte le palpebre, bagnando la carta con le lacrime.
 
Ti avevo detto di non guardarmi. Oh, vabbè. Tanto ti saresti comunque accorto delle mie guance umide quando avresti finito di leggere.
Non ti preoccupare. Non sono lacrime tristi.
Anzi, all’inizio lo erano. Non riuscivo a crederci, mi sentivo così stupida. Come avevamo fatto a non pensarci? Sarebbe stata la rovina della tua carriera e della nostra giovinezza, avremmo dovuto rinunciare a un sacco di cose e probabilmente alla fine avremmo rovinato anche il nostro rapporto.
Però poi, mentre avevo la penna in mano, ho avuto una visione. Non prendermi per pazza, ma era una visione vera e propria. Era un’immagine bellissima, Oliver, e mi ha rassicurata.
Okay. A questo punto temo di dover sputare il rospo, non posso continuare a farneticare. Premetto che sono sicura al cento per cento di quello che stai per leggere e che nemmeno io volevo crederci, sulle prime.
Oliver, tesoro. Sono incinta. Non guardarmi, non azzardarti a farlo. Arriva prima alla fine, per favore.
Bene, stavo dicendo...? Ah, ecco. Diventerai papà. Uno di quei papà super fichi, quelli che fanno perdere la testa alle maestre.
Lo so, è un colpo basso. Ma continuavo a vomitare e allora sono andata in farmacia. Non puoi nemmeno immaginare la faccia della farmacista quando ha visto che avevo intenzione di comprare sei test di gravidanza. E prima che tu lo chieda, sì, ho rifatto il test sei volte.
Ero sconvolta. Continuavo a fissare il muro in preda al panico, mi credi? Ho addirittura pensato ad abortire, Oliver. Però poi... poi ho visto le dita cicciottelle di una bimba di pochi mesi avvolgere il tuo indice e ho scacciato subito quei pensieri.
Ho intenzione di tenere questo bambino e spero che tu possa superare lo shock e sostenermi in questa scelta, perché, alla fine, questo bambino è tuo.
Mi rendo conto di quello che ti sto chiedendo, amore, e capirò se deciderai di non farlo.
 
Non riesco a leggere oltre. Le mani, più che tremarmi, paiono avere degli spasmi. I singhiozzi sono talmente violenti e disperati da sembrare disumani.
Tutto quello che riesco a fare è affondare la testa tra le mani e urlare. Urlare, gridare fino a quando non avrò più voce.
Perché fa male, è straziante. Prende il cuore e lo strappa, lo tira, lo lacera, lo trasforma in mille brandelli rossi sangue. Lo rende incapace di amare di nuovo.
Annegando tra le lacrime, scorgo appesa al muro la fotografia che abbiamo scattato il giorno del suo compleanno. E non ce la faccio.
Scatto in piedi e con un pugno colpisco la parete con forza, urlando, piangendo. Quasi non mi accorgo del buco che creo, ma di sicuro non me ne importa.
Mi risiedo sul letto, tremante. Singhiozzando, riprendo in mano la lettera.
 
Adesso andrò a toccare argomenti che mi farebbero arrossire violentemente se ne stessi parlando, quindi togliti quel sorrisetto dalla faccia e non mi guardare.
Voglio che tu sappia che non mi sono pentita di quella notte. E’ stata la notte più bella della mia vita. E non mi riferisco solo a quando, a quanto pare, abbiamo concepito questa creaturina che ama farmi vomitare ad intervalli regolari di centoventi secondi.
E’ stato bellissimo anche tutto il “prima”. Probabilmente, dopo le paranoie iniziali, se mi avessi chiesto di sposarmi, anziché di prometterti di farlo, ti avrei detto di sì.
E non me ne frega niente se quella notte le nostre vita sono cambiate per sempre, perché è questo che i momenti importanti fanno: ti cambiano per sempre.
Sei la persona più importante per me, Oliver. Sei il grande amore di cui parlano nei film, quella persona che ti stravolge l’esistenza. Quella che se ne arriva con un sorriso sghembo e che non se ne va più.
Mi sento più che fortunata ad averti, nella mia vita. Senza di te non sarei ciò che sono. Ti amo.
Per sempre tua,
Rachele

 
 

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Capitolo 59
*** 59. - Sofia ***


59. – Sofia
 
Dopo che Diana ha pronunciato la frase che probabilmente si stava preparando a dire da ore, il silenzio cala sulla stanza.
Il viso pallido, stanco, struccato, privo di ogni traccia di emozioni della donna si contorce in una piccola smorfia, mentre il marito, accanto a lei, la stringe a sé. Sembrano sostenersi a vicenda, per non crollare a terra.
- Cristo. –John emette un lungo sospiro, passandosi la mani sulla barba.
Degli altri presenti, nessuno pare intenzionato a reagire. Lancio un’occhiata a mia sorella, seduta sul bracciolo del divano. Si rigira tra le dita il crocifisso d’oro che porta al collo.
- Come... Come fanno ad esserne certi? –domanda Jay, guardando i genitori di Rachele con occhi grandi. Accanto a lui, Scott fissa sconvolto il pavimento.
- L’autopsia. –risponde schiarendosi la voce Enrico, per poi farla morire man mano che continua a parlare – Siccome è... è morta durante un intervento chirurgico, volevano accertarsi della causa e...
- Il funerale è oggi pomeriggio. –ricorda flebile Arianna –Cosa... Voglio dire, non se n’è andata solo lei. E’ morto anche un bambino.
Gli occhi le si riempiono di lacrime.
- Per la legge, non era ancora un bambino. Era solo un embrione. –la risposta di Diana è vuota, ridondante, meccanica.
- Ma lo sarebbe diventato. –ribatte Scott con rabbia, alzandosi e dirigendosi verso la porta della stanza.
Allison sospira tremante, chiamandolo indietro. Una, due, tre volte. Invano. Alla quarta, si alza e lo raggiunge in corridoio.
- Dobbiamo dirlo ad Oliver. –ricordo, cercando di sovrastare i singhiozzi di Scott nella stanza accanto.
- Sì. –conviene Luisa, annuendo.
- Vado io. Così mi assicuro che sia pronto per le tre. –mormoro, arraffando la borsa.
Diana soffoca un singhiozzo affondando il viso nel petto del marito.
 
Quando varco la soglia della casa sulla spiaggia –si dà il caso la porta fosse aperta – la cosa che mi colpisce di più è il fatto che tutto faccia pensare ad una normalissima casa, dove tutti sono felici e disordinati.
Effettivamente, mi dico, è impossibile che Oliver sia anche solo riuscito a toccare le cose di Rachele, figuriamoci a metterle a posto.
- Oliver –lo chiamo, dondolandomi sui talloni –Sono la zia. Tesoro, ci sei?
Non ricevendo risposta, decido di passare attraverso il soggiorno per andare a cercarlo. Lo trovo nella terza stanza, quella che capisco subito essere di Rachele.
E’ raggomitolato sul letto, gli occhi vitrei.
Mi si spezza il cuore e devo guardare per qualche secondo al soffitto per non scoppiare a piangere.
- Ehi. –sussurro, avvicinandomi. Mi siedo sul bordo del materasso, accarezzandogli i capelli.
Mi lancia un’occhiata. Gli sorrido dolcemente.
Contorce il volto in una smorfia, poi mugugna qualcosa. L’occhio mi cade sul foglio di carta che stringe nel pugno della mano destra, poi sulla busta a terra.
- Vieni qui. –dico solo, allargando le braccia.
Come in un disperato bisogno di essere cullato, Oliver scatta a sedere e scoppia a piangere, come un bambino, gettandosi tra le mie braccia.
Gli carezzo la nuca, chiudendo gli occhi.
- Era incinta. –singhiozza, aggrappandosi al mio cappotto –Rachele aspettava un bambino.
Sospiro piano, tentando di non lasciarmi andare.
- Lo so, piccolo. Mi dispiace tanto.
 
Mentre Oliver è sotto la doccia, cerco di dare una sistemata.
Liscio la lettera che lei gli aveva scritto e la rimetto ordinatamente nella busta che poi appoggio in salotto.
Quando torno in camera e vedo il buco nel muro, resto imbambolata a fissarlo per due minuti abbondanti. Mi avvicino, sconsolata.
Come hanno anche solo potuto pensare che lasciarlo qui da solo fosse una buona idea?
Però, forse, anche io mi sarei sentita meglio senza essere circondata da persone morbose continuamente in attesa di un mio crollo emotivo...
Tra i pezzi di parete sbriciolata, c’è qualcosa.
Stropicciata, tiro fuori la foto che Arianna ha scattato ad Oliver e Rachele il giorno del compleanno.
Sono felici. Innamorati.
Sospirando, cerco di sistemarla alla buona e meglio e la ripongo nella stessa busta della lettera.
Quando mi volto, Oliver è in piedi, nel bel mezzo della stanza. Indossa un completo elegante, nero, e mi guarda con gli occhi rossi e i capelli umidi.
- Non voglio andarci. –pigola piano, strascicando la voce.
Lo guardo, mortificata.
- Poi te ne pentiresti. –dico solo, abbracciandolo stretto.
Lui ricomincia a piangere.
 
Nessuno pare ascoltare. C’è chi fissa il cielo, chi l’erba verde. Qualcuno guarda malinconico la bara, qualcun altro singhiozza sommessamente.
Al mio fianco, Oliver tiene gli occhi chiusi, picchiettando le dita sulla gamba.
Non ha voluto vederla. Io sì.
Indossava un grazioso vestito azzurro. Le stava bene. I capelli erano puliti e ordinati, il viso sereno. Le ho carezzato la testa.
Sembrava dormire.
Nessuno pare ascoltare fino a quando Arianna non si avvicina alla bara di legno, invitata dal prete.
Deglutisce un singhiozzo, portandosi le dita alle labbra. Poi sfiora appena il legno freddo, tremante.
Si schiarisce la gola, fissa per qualche secondo il foglio a righe stropicciato che stringe tra le mani.
- Sì, be’, non sono io quella brava con le parole. –borbotta, lanciando un’occhiata alla bara –Ma qua qualcuno ha optato per il mutismo, quindi direi che tocca a me.
La voce le si spezza e ha bisogno di qualche secondo per riprendersi. Si asciuga le lacrime e prosegue.
- Volevo fare un elogio funebre normale, serio, qualunque. Ma lei non è mai stata nessuna di queste tre cose, quindi ho lasciato perdere le belle intenzioni.
Prende un respiro profondo, osservando tutti i presenti. Incrocia il mio sguardo, poi si sofferma su Oliver.
Il viso le si contorce in una smorfia, scuote la testa, piangendo. Mi guarda.
Le faccio un piccolo sorriso, annuendo rassicurante.
Arianna continua a fissare Oliver, al mio fianco, mentre le lacrime le scorrono a fiumi sulle guance.
No, no. Fa di no con la testa. Non può fargli questo, continua a ripetersi.
- Oliver. –sussurro, posando la mano sulla sua gamba.
Lentamente, lui apre gli occhi e si volta verso di me. Ha un’espressione che prega di lasciarlo stare, che urla che non può superare tutto questo restando vigile.
- Arianna ha bisogno di te. –bisbiglio, accennando alla ragazza che se ne sta là, in piedi, fragile, vicino alla bara della sua migliore amica.
Oliver sposta lo sguardo su di lei. Una lacrima gli scende dall’occhio sinistro. Poi, quasi impercettibilmente, annuisce.
Arianna pare ricominciare a respirare. Si asciuga le guance e riprende a parlare.
- Ho… mi sono ricordata del giornalino della scuola. Rachele aveva iniziato a pubblicarci qualcosa ogni mese. Aveva scoperto l’amore per la scrittura e non sembrava intenzionata a smettere più. –fa un piccolissimo sorriso, poi lancia un’occhiata ad Oliver. Ma lui si è chiuso di nuovo in sé stesso.
Nonostante ciò, la ragazza continua.
- Quindi ho preso il primissimo paragrafo che aveva scritto. Ho pensato si sarebbe adattato fin troppo alla situazione. –soffoca un singhiozzo –Rachele descriveva la morte, l’effetto che ha sulle persone che ti stanno vicino. Diceva: Una fitta allo stomaco, che ti toglie il respiro, impedendoti anche solo di lanciare un ultimo grido disperato, che ti punge agli occhi come migliaia di piccoli aghi e che però ti impedisce di piangere, che soffoca i tuoi singhiozzi quasi fossero la cosa più proibita del mondo.
-Cassie, ti senti bene? –un sussurro lontano, dalla voce ancora rotta dal pianto.
Scuoto la testa. O almeno è quello che vorrei fare.
Le gambe cedono, e mi ritrovo a terra, rannicchiata su me stessa, aggrappata ai miei stessi vestiti, trafitta da un dolore disumano.
- Cassie? Cassie! –ancora quella voce, anche se questa volta è un po’ più decisa dell’ultima volta. Ancora stravolta, ma un po’ più umana. Preoccupata?
Qualcuno mi si accuccia accanto, cingendomi le spalle con un braccio. Ho gli occhi appannati dalle lacrime, che ancora non si decidono a lasciarsi andare.
Alzo la testa tremante sulla persona accanto a me. E’ mia sorella Lana. Ha i capelli disordinati, quasi non ci fosse stato tempo di pettinarli. Il volto stravolto, arrossato dalle lacrime.
Non riesco a piangere. Eppure è tutto quello che vorrei fare: scoppiare in un lungo, lunghissimo, ininterrotto pianto liberatorio.
La fitta allo stomaco mi prende tutto il corpo, invadendolo di paura e terrore. Inizio a tremare per il freddo.
Caccio un urlo lacerante, che squarcia l’aria, che mi deruba i polmoni di tutto l’ossigeno al loro interno, che mi fa accasciare a terra scossa dai singhiozzi, accompagnati dalle lacrime che finalmente si sono decise ad arrivare.
Nessuno si muove, nemmeno il prete. Siamo tutti stregati da ciò che Arianna, in lacrime, ha appena finito di leggere.
La mano di Oliver, sulla sua gamba, si è stretta in un pugno. Ha le nocche bianche da quanto stringe. Ma a parte questo, pare impassibile.
- Ci sono tanti modi diversi di amare qualcuno. –continua la ragazza, quasi in un sussurro –Posso dire che Rachele li ha provati tutti. Era circondata da persone che la amavano, ognuna in modo diverso. Io la amavo perché era la mia migliore amica, perché potevo contare su di lei sempre e comunque. La amavo perché senza di lei la mia vita non avrebbe avuto senso. –sospira, chiude gli occhi –Ora scusate, ma devo andare a dare un nuovo senso alla mia vita.
 

 
 
 

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Capitolo 60
*** 60. - Oliver ***


60. - Oliver
 
Scott mi fissa, determinato.
E’ qui da due ore e ventitré minuti e non ho aperto bocca. Dice che devo reagire, che ormai lei è morta da un mese. Che non posso chiudermi nel mio silenzio per sempre. O, perlomeno, questo è quello che ha detto all’inizio. Poi si è seduto davanti a me, a braccia incrociate, e non ha più detto nulla.
Di punto in bianco, si alza dalla sedia e sbatte le mani sul tavolo, facendomi sussultare.
- Svegliati, Oliver! –sbraita –Devi svegliarti! Lo so che uccide! Lo so che ti manca!  Lo so che sembra stupido vivere senza di lei! Manca a tutti, amico. Ma devi svegliarti. Lei non avrebbe voluto questo!
- Non dirmi cosa avrebbe o non avrebbe voluto, Scott! –scatto all’improvviso, come una molla –Non la conoscevi!
Scott mi fissa con tanto d’occhi.
- Era la mia migliore amica, cazzo! –urla –La conoscevo eccome!
Mi alzo ed esco di casa sbattendo la porta.
 
Guardo il sottile confine tra mare e cielo, seduto sulla sabbia umida accanto ad uno silenzioso Scott.
Non ci parlavamo da quel giorno. Non parlo con nessuno da quel giorno. A parte Rachele. Con lei parlo spesso. Ma prima Scott è riuscito a farmi parlare. Più che altro, urlare.
- Amare fa male –esordisco di punto in bianco, la gola che gratta come carta vetrata.
Scott continua con il suo silenzio, ma percepisco il suo sguardo su di me.
- Più si va avanti, più fa male –sussurro –E so che non dovrei, ma mi sorprendo a desiderare di non averla amata. Vorrei non averla amata, Scott. Se non l’avessi amata, lei non sarebbe venuta qui a Miami. Se non l’avessi amata, lei non sarebbe stata investita da un auto. Se non l’avessi amata, sarebbe ancora viva.
- Io mi ritengo fortunato ad averla amata, Oliver –sorride triste lui –Sono contento di aver avuto la fortuna di conoscerla, amico. E non è vero che è stato il tuo amore ad ucciderla. Sono invece piuttosto convinto che il tuo amore l’abbia salvata.
Scuoto la testa, gli occhi che pungono.
- Cavolo, Scott… -singhiozzo, sentendomi stringere il cuore già lacerato.
Lui mi cinge la spalle con un braccio, abbracciandomi.
- Lo so, lo so.
 
Spengo l’auto, con un sospiro.
Mi passo le mani sulle gambe, mentre il sole entra dal finestrino. E’ una bella giornata primaverile, quasi estiva. Aspetto qualche secondo, poi mi faccio coraggio, arraffo la rosa sul sedile del passeggero ed apro la portiera.
L’erba è di un verde smagliante, il cielo di un azzurro intenso, senza nuvole. Gli uccellini cantano, una leggerissima brezza mi sfiora i vestiti.
Quando arrivo alla lapide, mi blocco. Eccola lì, sommersa da fiori colorati, fotografie plastificate e lettere.
Poggio la rosa in cima alla pietra, la sfioro con la punta delle dita.
Faccio un passo indietro e sospiro.
- Cavolo, baby girl. Mi hai distrutto. L’ho sempre saputo che non eri una da troppi complimenti, ma… cavolo. Non puoi entrare nella mia vita, renderla fantastica, farmi innamorare così perdutamente di te e poi andartene in punta di piedi, di sottofondo…
Scuoto la testa, sorridendo.
- Una volta Allie ha detto che eri “travolgente”. E non c’è aggettivo più azzeccato, amore mio. Sei un uragano. Quando qualcuno entra nella tua spirale, non ne esce più. E forse dovrei parlare al passato. Ma non ne ho il coraggio. In qualche modo, ti sento ancora qui, accanto a me. E mi si spezza il cuore perché, cazzo, se devi andartene, vattene del tutto.
Prendo respiri profondi, facendo scemare la rabbia improvvisa.
- Eppure ho paura che con gli anni il tuo ricordo svanirà, che mi dimenticherò del tuo viso, che mi scorderò i particolari che amo più di te. –un sorriso mi si dipinge sul viso –come quel sorriso nascosto che fai quando dico una cretinata, mentre fingi di essere seria e per nulla divertita. Come il riso eccitato che fanno i tuoi occhi quando sei contenta. Come i gesti scoordinati delle tue mani quando cerchi di spiegare qualcosa di complicato. Come il dolce profumo dei tuoi capelli quando ti bacio la testa, come l’indescrivibile sapore delle tue labbra. Come il tuo tocco delicato quando le tue dita scorrono tra i miei capelli. Come la tua presunta fragilità quando ti stringo al petto, in un abbraccio, come il tuo sguardo assorto quando leggi un libro. E tutte queste cose già mi mancano…
Fisso la rosa rossa che ho poggiato sulla tomba, mentre mi si stringe il cuore.
- Mi manchi tu, amore, mi manchi da morire. Non riesco ad andare avanti. –sospiro, la voce rotta –Appena ci provo, io… io penso a te e… e piango. Non ce la faccio, senza di te. Ho un vuoto dentro, amore mio. Voglio morire anche io, Rachele.
 
 
 

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Capitolo 61
*** Epilogo - Due anni dopo ***


Epilogo – Due anni dopo
The first words that come out
And I can see this song will be about you

I can't believe that I can breathe without you
But all I need to do is carry on
The next line I write down
And there's a tear that falls between the pages
I know that pain's supposed to heal in stages
But it depends which one I'm standing on
I write lines down, then rip them up
Describing love can't be this tough
I could set this song on fire, send it up in smoke
I could throw it in the river and watch it sink in slowly
Tie the pages to a plane and send it to the moon
Play it for the world, but it won't mean much
Unless I sing this song to you

Song On Fire - Nickelback


 
Sospiro, torturando l’orlo della gonna.
E’ la cosa giusta, continuo a ripetermi. Mi dondolerei sui talloni, se non indossassi i tacchi. Mi guardo attorno.
Non mi sono mai piaciuti gli aeroporti. Troppe persone, troppa confusione. Francamente, li ho sempre ritenuti dei luoghi tristi.
Ma è la cosa giusta, lo sento dentro.
Se solo penso alla faccia di Scott quando gliel’ho chiesto, sento che è la cosa giusta.
Non lo vedevo dal funerale di Rachele. Parecchio, parecchio tempo. Era sinceramente colpito. E sollevato, credo. Sollevato che me ne fossi resa conto. Un po’ in ritardo, d’accordo, ma senz’altro me ne sono resa conto. Iran, ha detto.
E poi lo scorgo. Lontano, tra la folla. I capelli rasati ai lati della testa, la mascella contratta. Indossa una divisa militare verde, stringe un borsone color crema nel pugno della mano destra.
Man mano che si avvicina, noto i suoi occhi spenti.
Deglutisco. Forza, Arianna. Ora o mai più.
Faccio un passo avanti. E poi un altro. Un altro ancora.
- Jay.
Il ragazzo si blocca. Osservo i muscoli possenti della sua schiena contrarsi mentre, lentamente, si volta. Mi osserva con calma, confuso. Poi pare avere un’illuminazione e la tristezza viene spazzata via dai suoi occhi.
Apre leggermente la bocca, lascia cadere il borsone a terra.
Gli occhi cominciano a pungermi e devo asciugarmi rapidamente una lacrime dalla guancia, sorridendo.
Jay resta serio, impassibile, mentre avanza nella mia direzione.
Non riesco a trattenermi e gli corro incontro. Mi butto tra le sue braccia, che lui stringe con forza attorno al mio corpo.
Inizio a singhiozzare sulla sua spalla, mentre mi accarezza i capelli e mi stringe forte.
- Grazie. –sussurra solo, al mio orecchio –Grazie.
 
~
 
- Non mi puoi abbandonare così. Questo fine settimana c’è la partita.
Alzo lo sguardo dai calzini che sto imbucando nel borsone per rivolgerlo a Jim, il mio compagno di stanza, e lo osservo divertito.
Ha le braccia incrociate al petto e pare seriamente turbato. Continua a sistemarsi gli occhiali, sul naso, e a tamburellare con il piede per terra.
- Puoi sopravvivere a una partita di football, Jim. –commento, sorridendo –Puoi sopravvivere tu come possono sopravvivere i miei compagni di squadra. Dio, non so chi sia più disperato tra te e loro...
- Quei bestioni non mi sopportano! –si lamenta lui, senza nemmeno notare l’esasperazione nel mio tono –Se ci sei tu, almeno mi lasciano in pace...
- Non ti sfioreranno, Jim, e lo sai benissimo...
- Ma...
- Senti. –sospiro, lasciando perdere la valigia –Non è come nei film, dove gli sportivi prendono a pugni i secchioni. Se sono qui, vuol dire che non sono idioti. Io ho una fidanzata da cui tornare, per non parlare dei miei due migliori amici che tornano a casa nello stesso fine settimana. Uno torna dall’Iran, l’altro da un funerale che gli ha rivangato ricordi che... Non ho intenzione di restare qua, okay? Penso che abbiano molto più bisogno loro di me, Jim, non trovi?
Jim ammutolisce, per poi annuire.
- Hai ragione. Scusa. –sospira, cercando di tirare un sorriso.
Gli sorrido, chiudendo la zip del borsone. Raccatto le ultime cose, poi lo saluto.
- Torno tra una settimana, Jim. Non morirai. –ripeto ancora, ridendo alla sua espressione turbata.
Poi esco dalla stanza, dal dormitorio, dall’edificio, dal giardino curato dell’ingresso.
Supero le colonne con la targhetta dorata, quella con su inciso il nome dell’università.
Lo osservo, mentre il sole gioca con i riflessi. Sulle labbra mi spunta un sorrisetto soddisfatto. Mi passo una mano tra i capelli, orgoglioso.
Lancio un’ultima occhiata alla scritta, prima di partire. Università di Harvard.
 
~
 
Spingo la porta del Molly’s ed entro nel locale deserto. Sarebbe orario di chiusura. Ma devo riempire un’ora e non so dove altro andare.
Hank sta pulendo il bancone. Come alza lo sguardo e mi vede, si blocca.
- Ti ricordi quando mi hai detto che poi venivano tutti qui ad ubriacarsi piangendo? –gli domando con un sorriso mesto.
L’uomo annuisce e mi fa cenno di sedermi al banco. Ubbidisco. Mi versa un bicchierino di qualcosa e poi si apposta davanti a me, il canovaccio sulla spalla.
- Io ho sempre ragione, figliolo. –sorride.
Annuisco.
- Ho paura di sì, Hank.
- Mi dispiace tanto, ragazzo.
- Lo so, Hank. Grazie.
Per un po’ restiamo in silenzio, mentre l’uomo finisce di lavare i bicchieri.
- Allora, ho sentito che sei diventato uno importante.
Ridacchio.
- Alla gente piace la mia musica. E la mia storia. Per quanto abbiamo cercato di mantenere una certa privacy, tutto il mondo sa che il mio decollo nel mondo della musica è stato reso difficile dalla morte della mia ragazza. –commento amareggiato.
- Be’, magari le persone sentono una connessione con te. Non per essere stronzo, ragazzo, ma non sei l’unico che ha perso qualcuno di importante.
- Lo so. –sospiro –Ma vedi, ogni volta che mi metto a scrivere una nuova canzone, so già che sarà su di lei. E quello che mi brucia dentro è che quella dannata canzone non potrà mai avere il giusto significato, perché non potrò mai cantarla alla persona che l’ha ispirata. E il problema è che alla gente piace comunque, Hank. Le persone la amano nonostante sia incompleta.
Hank smette di asciugare i calici e si appoggia al bancone, guardandomi.
- Le persone amano te, Oliver, perché non sei un personaggio costruito dai media. E per quanto ti possano sembrare incomplete, le tue canzoni dicono la verità. E la verità è quello di cui le persone hanno bisogno, in un mondo di ipocriti.
Con un gesto secco, butto giù il liquore che Hank mi aveva versato.
 
- Allora. Io capisco che sei un fighetto e che adesso esci solo con i VIP, ma non puoi tirarci così il pacco, Oliver Dawn.
Alzo lo sguardo su Scott, che mi fissa con aria di sfida. Accanto a lui, Allison annuisce.
- E la notte di San Lorenzo, cavoli! –continua il mio migliore amico, allargando le braccia.
- Okay, tu vai. Qui ci penso io. –interviene Allie, sorridendo.
Scott la guarda con scetticismo, poi posa i suoi occhi su di me. Scuote la testa, sospira e se ne va.
Allison si siede accanto a me, in un sospiro.
- Allora, com’è andata in Italia? –domanda premurosa, posandomi una mano sul braccio.
- Come vuoi che sia andata, Allison? –le domando, sibilante –Sono andato al funerale del padre della mia fidanzata morta. Diana era distrutta. Ha perso metà della sua famiglia nell’arco di due anni ed io ero lì, come un deficiente, a fissarla imbambolato, senza sapere che cosa dirle.
Allison chiude gli occhi.
- Hai ragione, scusami. –sussurra –Senti, lo so che domani è il grande giorno, ma dovresti venire fuori con noi. Per divertirti un po’. Ritornare alle origini prima di partire.
La guardo di sottecchi, poi sospiro.
- Va bene, andiamo.
 
Distesi sull’erba, i nasi all’insù, sono accanto a Scott.
Le mani dietro la testa, aspettiamo di vedere una stella cadente da quasi mezz’ora. L’ultima se l’è aggiudicata mia sorella, che ora cerca di non addormentarsi tra le braccia del fidanzato.
- Le stelle cadenti si possono esaurire? –domanda Scott –Nel senso… dopo una certa ora smettono di cadere? Perché secondo me è così.
Scoppio a ridere.
- Sei un idiota. –sentenzia Allie ridendo.
- Come sta Jay? –domando dopo un po’.
- E’ tornato ieri dall’Iran. –mi risponde Scott –Arianna ha voluto fargli una sorpresa all’aeroporto. E’ venuta a parlarmi qualche giorno fa. Credo che abbia capito cosa vuole fare nella vita. E credo che comprenda Jay.
-Ah.
Per una frazione di secondo distolgo lo sguardo dal cielo per rivolgerlo a Scott, e in quell’istante lui salta su, strillando.
- Eccola! L’ho vista! L’ho vista! –esclama, euforico.
- Accidenti! –impreca Allie.
- Nemmeno io l’ho vista… -sospiro, mentre Scott smette di fare la danza della vittoria e si riaccomoda sull’erba, buttando giù un sorso di coca cola dalla bottiglietta di vetro.
- Però io voglio prestarla ad Oliver. –decide, guardandomi –Penso ne abbia più bisogno.
Gli sorrido.
- Non si prestano le stelle cadenti, Scott. –gli ricordo –Specialmente se il desiderio dell’amico a cui vuoi prestarle è che resusciti una morta.
Il silenzio ci piove addosso come un macigno, l’aria diventa gelida.
- Oliver… -sussurra Allison scioccata.
- Scusate. –scuoto la testa, alzandomi –Scusate. Non volevo, io...
Li lascio in giardino, mentre corro in quella che era camera mia.
Chiusa la porta alle mie spalle, mi lascio scappare un singhiozzo.
Non sto bene. Non sto bene. Non sto bene.
Mi avvicino alla finestra, intenzionato a chiuderla. Per un istante mi metto a guardare il cielo. Per un’assurda coincidenza, becco una stella cadente.
Così, senza nessun preavviso.
Istintivamente chiudo gli occhi ed esprimo un desiderio.
Fa’ che stia bene. Ti prego, fammi trovare la pace interiore. Voglio solo essere felice.
 
- Okay, mancano cinquanta secondi. –annuisce Sue, mettendomi le mani sulle spalle.
Saltello da un piede all’altro, prendendo respiri profondi.
- Quella gente là fuori è qui per te, ragazzo. –mi ricorda la donna, sorridendo –Ce la puoi fare. Non sei il primo ventenne a fare il sold out al Madison Square Garden in due minuti a caso.
Annuisco, infilando l’auricolare nell’orecchio.
- Venti secondi. –ci ricorda Tom, il mio insegnante di chitarra nonché mio grande amico, porgendomi la chitarra. Altaleno lo sguardo tra lui e Sue per qualche istante. Quando vede che esito, Tom mi dà una pacca sulla spalla, sorridendo.
- Io credo in te, Oliver Dawn.
- Va bene. –decido alla fine, afferrando la chitarra.
Mi volto verso le scale che portano al palco.
- Va bene. –ripeto tra me e me, per poi iniziare a salire i gradini.
- Forza, Oliver! –sento urlare Sue.
Quando arrivo al centro del palco, vengo accolto da centinaia di migliaia di urla. E’ tutto buio, eccezione fatta per le luci dei cellulari del pubblico.
Urlano il mio nome, gridano, strillano. Sono qui per me.
- Oliver! Oliver! Oliver! Oliver!
Per la prima volta da tanto tempo, vengo invaso da una sensazione di calma.
Per la prima volta da tanto tempo, sto bene.
Nessuna vecchia ferita, nessun ricordo che mi perseguita. Nessun senso di colpa, nessun rimorso.
Solo una strana sensazione di felicità.
Sorrido.
 
 
 
Fa male, già.
​Siamo arrivati alla fine di questa storia e nemmeno io, che l'ho scritta, ci voglio credere. Siamo alla fine. Fine. Stop. Nient'altro.
Abbiamo visto che cosa è successo ai personaggi più vicini a Rachele due anni dopo la sua morte.
​Jay, Arianna, Scott, Allie. Più indirettamente, Enrico, Lucas e Diana. Ma soprattutto Oliver. Oliver, che neanche due anni dopo riesce a racapezzarsi, fino a quando non si rende conto di dove è arrivato e per merito di chi.
​Volevo ringraziarvi tutte per esserci state fino alla fine. Siete state l'unica cosa che mi spingeva a continuare a scrivere, e vi devo ringraziare di cuore.
​Questa storia mi ha lasciato tanto, sono cresciuta con lei.
E spero che abbia avuto lo stesso effetto su di voi.
Un abbraccio e un grazie immenso,
​emmegili
 
 
 

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