La ladra di sogni

di Mary_la scrivistorie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fiamme dell’Inferno ***
Capitolo 2: *** Fiamme del Purgatorio ***
Capitolo 3: *** Fiamme del Paradiso ***



Capitolo 1
*** Fiamme dell’Inferno ***


 
 La ladra di sogni
 
*

 
[Atto I]
 
Fiamme dellInferno
 
 
Inspirai l’aria stagnante di afa, facendola addentrare nei miei polmoni. Mia madre mi aveva consigliato di respirare in quel momento, perché le ore in elicottero sarebbero state dure. Con «dure» sapevo che intendeva «a corto di ossigeno». Il controllo dell’ossigeno nell’atmosfera terrestre era affidato da anni alla famiglia dei Rockefeller, da sempre nemica dei Darcy. Questo lo avevo imparato a memoria, ormai. Non fidarti mai di quella loggia, mi dicevano.
Neanche la spia che avevamo assoldato poteva permetterci un viaggio clandestino protetto e lussuoso. E l’ossigeno era uno dei lussi che non tutti potevano permettersi. 
Rammentavo nitidamente il terribile periodo in cui la decisione riguardo la Riduzione dell’Ossigeno, proposta dai Rockefeller, era stata accolta dal Comitato dell’Élite. I miei genitori si erano opposti fermamente per anni, appoggiati da soli due altri clan: Hawthorne e Singleton. Le uniche famiglie di cui mio padre si fosse mai fidato e a cui stava per mandarmi in custodia.
L’unico trionfo della mia famiglia in quel decreto legislativo era stato quello di ampliare il numero delle zone rifornite di ossigeno da trenta a cinquanta. Tra queste, le venti statunitensi erano state misteriosamente demolite durante l’urto dei missili spediti dell’Élite contro Washington DC, con il risultato dello sterminio di metà dei membri della famiglia Singleton, la metà che si era stabilita a New York per controllare da vicino le mosse degli avversari sovrumani. Mio padre, Philip Darcy, era stato formalmente invitato là per capitanare la Squadra di Osservazione, proprio in quell’occasione, tuttavia aveva rifiutato a causa di un incarico più urgente che richiedeva la sua presenza a Londra. I Rockefeller non perdonano: sono serpenti, assassini, che pianificano ogni dettaglio della tua morte.
I Rockefeller erano disposti ad allearsi con un imprevedibile ed incorruttibile stormo di zombie al fine di ottenere il primato assoluto sull’Élite, piuttosto che progettare soluzioni mirate allo scopo della salvaguardia del pianeta.
La Riduzione ‒ che consisteva nella disgiunzione della molecola di ossigeno riducente tramite appositi apparecchi di cui non conoscevo i dettagli ‒ , nociva per le vite dei Viandanti che non erano riusciti a stabilirsi in una Zona e che non aveva invece danneggiato in alcun modo gli zombie, aveva invece sortito gli effetti sperati dai Rockefeller. Primo, tutti gli spostamenti dell’Élite erano gestiti da loro. Secondo, la scarsità di ossigeno aveva consentito una riduzione delle persone sul pianeta, in modo da conservare quindi più scorte e provviste per se stessi. Terzo, i viaggi intercontinentali erano diventati un vero e proprio suicidio.
La nostra spia, Terence Jenner, era riuscito a procurarsi dieci bombole di ossigeno. Né più, né meno. Cinque per lui, cinque per me, la giovane ed impavida ‒ se sapessero... ‒ rampolla del clan. Lo stretto indispensabile, per così dire.
Non ero pronta a fuggire ma all’epoca solevo fingere il contrario. Era quello il mio compito: incarnare il ruolo di aristocratica rivoluzionaria senza macchia e senza paura, sebbene fossi tutt’altro. La mia vita era più che più una grossa ed illusoria menzogna imbevuta in una colonia di rosa canina e rivestita di pregiato broccato smeraldino. Aristocratica.
Nel mio zaino, a dispetto del completo elegante che avevo indosso, nascondevo una balestra, delle frecce, il libro Cime tempestose di Emily Brontë e circa dieci tramezzini, che aveva preparato io stessa per me e per Terence.
Rientrai nell’Atrium con fare pacato, nonostante la bufera emotiva che mi si scatenava dentro ‒ di certo si trattava della cima più tempestosa di qualsiasi altra ‒ , dove incrociai le figure slanciate di Annette e Christopher Rockefeller. Un battito cieco e sordido mi risuonò nel cuore, fino al momento in cui non lo repressi in un moto di ira funesta. Non essere stupida. Chris mi osservava con quel suo sguardo malinconico, un po’ ottenebrato, concentrato su irregolari sprazzi del mio viso che su qualcosa di particolare. Cercai di ignorare insistentemente i ricordi che mi balenavano in mente riguardo quelle maledette notti trascorse insieme, che erano state l’errore più grande e più bello della mia esistenza. Annette sorrideva con il compiacimento di un bracconiere che aveva agilmente carpito la propria preda.
«Mackenzie, che piacere vederti! Stasera sarai alla Cena dell’Élite, suppongo. Ho sentito dire che ci sarà anche il tuo futuro promesso sposo, Joseph Drayton. Un conservatore convinto, quello. Si vocifera che sul suo letto ci sia un flusso perpetuo di donne, da meretrici scostumate a nobili vergini; e si vocifera anche che le sue capacità sotto le lenzuola siano perfino migliori del suo fiuto per gli affari, dettaglio che mi sembra molto interessante. Spero soltanto che non ti infastidisca la sua nomina di Casanova, dopotutto....si commettono strani errori in gioventù, non è così?».
La voce di Annette era una cantilena ininterrotta, che avevo da sempre detestato con tutta me stessa. Infima, saccente, spudorata, sfrontata: Annette Rockefeller incarnava la perfetta erede dei lasciti della propria famiglia. Era anche dotata di grande bellezza, sebbene fosse quel tipo di malia rovinata, guastata dal sapore dell’età e dell’esperienza.
Annette era tuttavia una giovane donna nel fiore dei suoi anni, seducente e passionale come una rosa purpurea, con i morbidi boccoli di cannella, gli occhi grigi screziati di azzurro e l’incarnato di porcellana. Dotata di un prosperoso décolleté e di curve mozzafiato, era la celebre amante di uno dei vecchi e squallidi capi del Consiglio, Peter Landan: appresa la notizia, io avevo manifestato il suo disappunto, mentre mia madre mi aveva ben spiegato che era quello il «mestiere più antico del mondo», adeguato alle donne appartenenti all’Élite che desideravano consolidare il proprio potere. Proprio come lei.
Sebbene questa sua scandalosa tresca con un vecchio politico, era la promessa sposa di Johnathan Lennox, astro nascente di una dinastia tutta nuova di liberali di antiche origini scozzesi. Mi ero ritrovata perfino io a condividere le idee di quella famiglia, che, nonostante fosse appena sorta, era diventata riserva d’onore ‒ spazzatura d’emergenza, in pratica ‒ dei Rockefeller. Peccato.
Il mio promesso sposo, invece, apparteneva ad un clan che era stato conservatore per secoli, e che ripudiava l’indagine tecnologica a favore di un’immediata guerriglia al fine di salvare la Terra e ritornare a governare sui propri vecchi seggi. Un progetto rude e obsoleto, che aveva però convinto la mia famiglia. Sempre migliori dei piani escogitati dai Rockefeller, che erano solo perditempo accecati di potere e di odio.
Non ero particolarmente contenta di sposare proprio Joseph Drayton, che era un casanova perdipiù disinteressato ad una lotta contro i Rockefeller. Odiavo il fatto che il mio promesso si rotolasse sul letto con altre donne, prima del contratto matrimoniale con me, che ero una dignitosa nobile di buona famiglia. Odiavo perfino il suo aspetto fisico, caratterizzato da un ciuffo di capelli brizzolati che non bastava neppure per un minuscolo nodo ed un sorriso untuoso ed indispettito che era tutto fuorché charmante. Non era Chris.
Ma neanche tu sei così tanto illibata, principessa. Il messaggio dell’occhiata di Annette era questo, che mi preoccupò più del dovuto. Quindi lei sa?
Il petto di Christopher era soggetto agli spostamenti regolari e quieti del diaframma. Osservai i suoi muscoli contrarsi sotto gli indumenti, avida e rapita, fino a dimenticare ciò su cui stavo riflettendo. Avrei dato qualsiasi cosa pur di godermi un’altra notte di passione con Chris. Tuttavia, semplicemente non potevo. Era già oltraggio essere andata a letto più volte con un traditore della propria famiglia, senza che qualcuno dei Darcy lo scoprisse:  mi vergognavo molto, negli abissi del mio buonsenso, di quel passato così scandaloso. Mi ero già ripetuta tante volte che tra me e quel Rockefeller era finita: libidine adolescenziale ‒ seppur sfrenatae nientaltro.  Volsi inconsapevolmente lo sguardo verso quei bizzarri occhi grigi, plumbei come una tempesta e offuscati come il velo di Thanatos, che possedevano ancora la loro ancestrale e unica capacità di disorientarmi e ammaliarmi, gettando invisibili lacci che mi mantenevano stretta a lui. Lascia andare te stessa, Mackenzie.
Annette attendeva ancora un responso, con la testa piegata di lato ed un’occhiata penetrante che pareva saperla lunga. «Cosa ne pensi, Mackenzie?».  
Mi schiarii la voce, con un cenno drammatico, e sfoderai un sorrisetto pacato: «Credo che Joseph sia uno dei pochi che possa vantare origini così incredibilmente antiche e nobili. Insomma, non ritengo che sia un caso che la famiglia Drayton appartenga al ceto senatoriale da cinque secoli. È ormai celebre l’acume dei giovani rampolli Drayton: essi sono capaci di cogliere sottigliezze che vanno ben oltre il nostro comprendonio, Annette. Sarei molto lieta di unirmi in matrimonio con un individuo che ha così tanti valori e nozioni da insegnarmi: per una volta, la mia cultura non sarebbe affidata a precettori di alto livello, ma ad una persona vicina a me che, se vorrà, potrà trasmettermi molto sul suo sapere. È veramente un buon partito, e lo stimo caldamente per la sua etica.»
Annette reagì con una risata calda e accogliente. «Quant’è vero! Sembriamo destinate ad intraprendere cammini completamente differenti, contrapposti: non è così, amica mia? Tu, un frigido conservatore; io, un nuovo liberale...buffa la vita. Sembra ricondursi sempre allo stesso esito: Rockefeller o Darcy? Non biasimarmi, Mackenzie, ma la tua famiglia ultimamente pare distratta da qualche altro affare e, se non si concentrerà, potrà essere facilmente sconfitta. E allora il grosso delle famiglie dell’Élite sarà fatto. Nessun altro oserà schierarsi contro i Rockefeller, dato che contraddirci equivarrà ad essere brutalmente massacrati.»
Non sapevo cosa rispondere. La verità era che la mia testa era già abbondantemente affollata di quesiti che non avevano ancora trovato il loro esito: ci mancava aggiungerne altri! Ero cosciente dell’imminente scontro fra i miei genitori ed i Rockefeller: quello era scritto nelle stelle, così come la caduta dell’Élite e l’estinzione della razza umana. Ciò che mi turbava era essenzialmente il motivo per cui allontanarmi dalla sede a Tempe: ero forse il tassello vulnerabile di un ambizioso progetto che i miei genitori mi avevano volontariamente oscurato? Ero forse un pericolo per l’efficacia del progetto, dati i miei precedenti con Christopher? E ancora: erano consapevoli, loro, del passato della loro devota figlia e dei rischi che avrei corso là fuori, in balia dei Viandanti? Dire di essere figlia dei Darcy non mi sarebbe bastato a cancellare tutte quelle esistenze caratterizzate da carestie, conflitti e miseria. Era un dato di fatto: ero appartenuta all’Élite ‒ e lo sarei stata sempre ‒ e gli altri avevano invece patito la fame, nei meandri più critici della Terra.
«Vi auguro, allora, una vittoria rilassante, senza tanti spargimenti di sangue. Ritengo che ci pensi già qualcosaltro, a quelli.», mormorai, fissando Christopher, ponendogli un’infinità di quesiti silenziosi. Mi amavi? Ci appartenevamo? Stai con loro? Una miriade di minuscoli frammenti mi inondò la mente di eventi già accaduti e di desideri futuri. Un giaciglio segreto, sotto una quercia incantata. Una notte piena di stelle e di meteore. Il calore di pelli a contatto; le vertigini elettriche di sguardi segreti; i brividi di carezze dimenticate. Il sigillo d’amore che mi avevano regalato quelle labbra proibite...che ora si stavano dischiudendo per parlare. E non damore.
«La specie umana non finirà mai di accanirsi l’una contro l’altra, signorina Darcy. La nostra estinzione è un evento che l’Élite non potrà mai evitare. Importerà solo il nome di chi ci ha provato e, chissà, se Dio vorrà, i meritevoli troveranno uno scampo. Agli altri, auguro una fine dignitosa, tra le braccia di Morfeo piuttosto che tra i vessilli del panico.»
Le parole, pronunciate da lui, sembravano meno dolorose di ciò che erano in realtà.  Tuttavia, la mia mente registrò e decifrò il messaggio in una manciata di secondi.  Christopher Rockefeller, fratellastro minore di Annette, si era definitivamente schierato. E non dalla mia parte.
Faceva male? Sì, diamine, che faceva male. Non avevo mai smesso di sperarci, in una sua sorta di conversione, che puntualmente non era mai avvenuta. Traditore.
Osservai impotente la sua sagoma sbiadita, probabilmente a causa delle lacrime che nel frattempo mi erano salite agli occhi offuscandomi la vista, e non riconobbi nulla di quel corpo. Era ormai estraneo, costituito di lineamenti simili a quelli del mio Chris, ma null’altro. Non era Chris. Chris non aveva gli occhi iniettati di sangue, né la rigida posa di un fante a cavallo, né tracce della crudele smorfia dei Rockefeller. Chris era morto, per me.
Annette esibì un sorrisetto soddisfatto: «Fratellino, non essere così pessimista. La rampolla dei Darcy è al sicuro, diglielo: non perirà. Perlomeno non subito. E decisamente non fra le braccia di Morfeo».
Avevo fatto i conti più volte con la spietata malvagità dei Rockefeller, ma non avevo mai desiderato fuggire tanto quanto in quel momento. I polmoni, che prima mi erano serviti per i bei respiri profondi, avevano esaurito tutto il loro ossigeno, bersagliati dalla crescente ansia che mi attanagliava lo stomaco. Fuggi. Era l’unico pensiero che il mio cervello riuscisse ad elaborare, in quel momento. Non avevo la mente strategica di mia madre, né quella brillante di mio padre. Avevano ragione i miei genitori, qualsiasi cosa pensassero: non ero fatta né per la guerra né per la politica. Devi andartene. Fuggire, più lontano possibile, e raggiungere la mia Marguerite. In un giardino di tamerici e di ginestre. Parasole ricamati e vezzosi che proteggono le nostre corone di capelli...Non sarebbe mai accaduto, non più. I Rockefeller minacciavano il mio futuro, ed io...
Fui salvata dal pronto intervento di Terence, che mi informò con tono formale e strascicato: «Signorina Darcy, il suo tè è pronto». Le parole, lente e metalliche, risuonarono come il suono delle campane della Cattedrale di Southwark, che sentivo al mattino quando abitavo a Londra. Sembrava quasi una metafora che indicava che qualcosa si stava evolvendo.
Quella era la parola d’ordine.
Quello era il momento di fuggire da lì.
 
 
 
 
Terence era morto. Io, piegata sopra di lui, l’avevo capito dal pallore mortale del suo volto, e dal putrido tanfo che cominciava ad emanare il suo corpo. L’elicottero era schiantato al suolo, come avremmo dovuto prevedere, poiché l’ossigeno della bombola destinata alla carburazione non era sufficiente. Non avevo neanche riflettuto sull’utilizzo dell’ossigeno come comburente, altrimenti avrei provveduto a donare un’altra delle mie bombole. Oh. Terence non mi aveva detto nulla a proposito proprio per questo motivo: era stato pagato per farmi rimanere viva, anche a costo di morire. E questo presupponeva cercare di risparmiare più ossigeno possibile per me. Pensai stupidamente che, mentre il mio vecchio amante era a Cambridge in attesa di vedermi morire al fine di vincere la sua guerra per questioni puramente personali, il mio servitore aveva dedicato ogni istante della sua vita allo scopo di proteggermi.
Sebbene gli sforzi di Terence, le bombole rimaste erano a malapena cinque, oltre quella che stavo già consumando, e sarebbero bastate esattamente per altre cinque ore. Mi toccava sbrigarmi a capire dove fossi e un modo collaudato per raggiungere una Zona. Oppure viaggiare come Viandante e morire nel giro di un paio di ore. Mi alzai da terra con un goffo scatto, spolverandomi gli indumenti, e raggiunsi barcollando le rovine dell’elicottero, dove giaceva il cadavere sanguinolento di Terence.
«Riposa in pace, Terry.» bisbigliai con la voce rotta dalla mestizia. Scavalcai il corpo, tentando di non gettare lo sguardo verso la pozza purpurea di sangue che si era venuta a creare attorno al mio vecchio amico quasi come se fosse un corredo di ali sanguinanti, e mi osservai intorno. Metà degli oggetti che avevamo portato nell’elicottero erano andati distrutti, incluse le zattere, i piccoli jet, le capsule spaziali ed il PC. Le frecce erano andate disperse quando la zip dello zaino si era aperta durante lo schianto.
Rimanevano solo due sacchi a pelo, una tenda da campeggio, quattro tramezzini, una bottiglietta d’acqua, una torcia non funzionante ed una balestra senza frecce. Perfetto.
Pensa, pensa, pensa. Potevo sempre attendere l’arrivo della Morte che, presto o tardi, si accingeva sempre a raggiungere le persone. Negli ultimi anni, ero rimasta stregata dalla vita dei Viandanti ‒ prima della Riduzione, certo ‒ che vivevano come nomadi in tutte le parti del mondo, rimanendo separati dalla popolazione delle Zone, dando prova di spirito di sacrificio o, chissà, di lungimiranza. Forse tutte le Zone erano destinate ad essere prima o poi distrutte, come previsto dal Progetto originale.
Conoscevo il Progetto originale poiché mia madre Nadine ne parlava spesso, a casa. Il Progetto originale prevedeva il pensiero del «Morire? Non oggi» e quindi ritardare il più possibile le aggressioni zombie nelle Zone. Era stato accantonato con il trascorrere dei mesi e con l’incremento delle morti e del malcontento generale. Numerose erano state le rivolte contro l’applicazione del Progetto originale, molto più numerose che quelle contro la Riduzione dell’Ossigeno. Nessuno sapeva spiegarsene la ragione, eccetto mia madre: i Rockefeller si avvalevano di spie dell’Élite per controllare perfino i civili delle Zone. Avevano preso la guerra molto più seriamente di quanto facessero le altre famiglie, questo era indubbio.
Importerà solo il nome di chi ci ha provato e chissà, se Dio vorrà, i meritevoli troveranno uno scampo. Mi lasciai sfuggire un urlo agonizzante, senza riuscire più a controllare i flussi di lacrime, che allora mi sgorgarono e mi rigarono le guance. Mostro. Christopher Rockefeller, colui che mi aveva giurato amore eterno sotto le luci del firmamento, era un mostro e mi avrebbe odiato a vita, proprio come faceva la sorellastra da anni. Christopher Rockefeller era stata soltanto una lieve, opaca ombra nella mia vita, e nient’altro più di questo. Un fantasma del passato, destinato a rimanere tale, come una candela immobile in un granaio che brucia.
Christopher Rockefeller sarebbe stato lo spettro della mia esistenza, che aveva ripudiato le sue stesse silenti promesse d’amore a favore del potere politico che la sua famiglia aveva anelato sin dalla loro ascesa come membri dell’Élite. Christopher Rockefeller avrebbe presto preso Greta Bradley, migliore amica della sorellastra, come moglie, stringendo giuramenti non molto differenti da quelli che aveva stretto con me, però ufficiali ed infrangibili. Quanto a Mackenzie Darcy, cosa c’era di «infranto» in lei? Una risatina mi comparve a fior di labbra, riflettendo su quello: avrei potuto scriverci tre papiri interi di geroglifici, a riguardo. Il cuore che aveva furiosamente palpitato per un traditore della sua causa, la logica che aveva rinnegato quell’amore ma che si era abituata all’idea di una fuga contro il tempo e contro le loro fazioni per lui, i valori che avevo abbracciato quando il mondo in cui ero vissuta si era improvvisamente ribaltato, le promesse del mio Christopher quando eravamo ancora uniti sotto il suggello delle costellazioni, il servizio da tè di mia madre, le tazze di vetro che mi aveva regalato Marguerite anni prima quando frequentavano il college ad Oxford...Da quanto tempo non vedevo Marguerite! Con ogni probabilità, era stata spedita nella zona 1 insieme a tutti gli altri benestanti non appartenenti alla classe dell’Élite. Poi mi ricordai che la zona 1 era stata recentemente bombardata dagli zombie. La mia unica amica era probabilmente stata distrutta insieme a circa tre centinaia di persone. Fantastico.
Volevo urlare di nuovo, ma mi mancò la voce. Ero disgustata da me stessa.
 Ero stata tradita da un uomo: mia madre mi avrebbe volentieri deriso con nonchalance e distacco. Questo, ovviamente, se non avesse saputo l’identità del misterioso ragazzo. In caso contrario, mi avrebbe di certo cacciata di casa, sicura che fossi stata manipolata a rivelare i piani della famiglia o che li avessi senz’altro traditi. Invece, Chris non mi aveva mai pressata: una delle cose che ripeteva spesso era: «Siamo ciò che mostriamo quando non abbiamo paura dell’oblio dei segreti». Un vero poeta. Un vero traditore.
Un respiro più affannato mi interruppe bruscamente dalle mie metodiche riflessioni. La bombola numero cinque si stava esaurendo. Tornai dentro l’elicottero e cercai smaniosamente una delle bombole ancora intatte. Mi recai sul sedile anteriore e vi trovai, invece, un biglietto. Destinato a “M.D.”.
 
Cara Mackenzie Sophie Darcy,
Ho voluto scrivere il tuo nome completo perché ne ho nostalgia, negli ultimi tempi. Il tempo che ci è concesso insieme è sempre più limitato e, se il piano avrà funzionato, adesso sarai ad Edimburgo, sana e salva. Cerca l’indirizzo degli Hawthorne: saranno più che onorati di ospitare una Rivoluzionaria come te.
Amore mio, ci sono molte cose che non ho potuto raccontarti. Per esempio, dei recenti fallimenti di tuo padre. Come ben sai, è stato vittima di molte congiure e non è riuscito a sventarle tutte. Siamo in crisi, tesoro. Dobbiamo combattere con tutte le nostre forze e proteggere chiunque abbia bisogno di essere protetto. Compresa tu.
Essendo una Hazlitt di ceto piuttosto agiato, mi sono sempre sentita in causa in questioni di politica. Mi sentivo pronta, capisci? Avventata, ribelle, potente: un po’ come la giovane rampolla dei Rockefeller, Annette. Devo ammettere che ci somigliamo un bel po’, io e quella. Entrambe accecate dalla brama per il potere.
Tu non sei così. Sei diversa da me e perfino diversa da Eleanor Rockefeller, la più disinteressata al potere. Tu vedi le cose per come sono, non come vuoi vederle. Sei quella adeguata alla politica.
Ho iniziato come giovane amante di Peter Landan, lo stesso tizio che adesso frequenta Annette. È per questa ragione che non mi sono sconvolta quando ho appreso la notizia: per le donne di politica, è il partito più abbordabile e prestigioso a cui si possa aspirare.
La differenza è che io non ero promessa a nessuno. Facevo il mio dovere, sperando che il mio cliente mi riempisse di nomine sublimi o numerose pubblicità. Ero bella, promettente, ricca.
Uno di quei giorni, incontrai tuo padre. Era affascinante e galante. Diverso dalla gente che ero abituata ad incontrare in quel periodo. Sapeva della mia situazione, tuttavia mi prese sotto la sua protezione ed iniziai ad uscire con lui.
Gli Hazlitt erano vecchi collaboratori internazionali dei Drayton, e perciò avevano una spontanea inclinazione conservatrice. Tuttavia, tuo padre riuscì a farmi cambiare idea e a convincermi a sostenerlo nel suo Progetto. Ciò che sto facendo ancora oggi.
Il Progetto consiste in proiettili e frecce non ancora sul mercato, che però sono risultate efficaci su vari esemplari di mostro. Sono temperate in litio e tecnezio, e sembra che funzionino. Sotto alla botola d’emergenza, troverai tutti i rifornimenti ‒ comprese le bombole.
Se non sei arrivata a destinazione, mettiti in marcia. Scappa. Sopravvivi.
So che farai la cosa giusta, in qualunque posto tu sia.
Fai in modo che lottino per noi.

 
Con affetto,
Tua madre, Nadine

 
Echi dei pensiero iniziarono ad addensarsi nella mia mente. Non cè tempo, mi dissi. La botola.
Iniziai a tastare il freddo e ruvido pavimento con le dita, alla ricerca del meccanismo che sapevo esserci. Non appena avvertii al tatto un piccolo rigonfiamento, premetti con i polpastrelli e la botola si aprì.
Mi concessi mezzo minuto di sano stupore, alla vista di quel ben di Dio, dopodiché raccolsi le armi in dotazione e tutte le bombole di ossigeno disponibili. Osservai la landa desolata su cui ero atterrata, e provai una fitta di fastidio. Il paesaggio, pittoresco quanto solitario, offriva alla mia indagine quella che sembrava una costa isolata costellata di scogliere e montagne. Il cielo, color cobalto, era denso di una brezza invernale, che mi penetrava le ossa, facendole tremare. Non si trattava certo dell’Arizona, questo era sicuro. L’ambientazione geografica mi rammentava più che più le fotografie che aveva scattato Marguerite durante il mio viaggio sulle Highlands scozzesi. Sì, probabilmente mi trovavo in Scozia. Ma non ne ero certa. Non mi restava altro che camminare e scoprirlo.

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Capitolo 2
*** Fiamme del Purgatorio ***


La ladra di libri

*



[Atto II]
 
Fiamme del Purgatorio
 
 
 
Barcollai fino alla catapecchia, non riuscendo a credere ai miei stessi occhi. Ce l’avevo fatta. Raggiunsi traballando la porta, che riportava un’iscrizione su cuoio logoro: «Isola di Jura: Zona 11». Dunque, avevo ragione: mi concessi un respiro profondo di rassicurazione. Mi trovavo nelle Ebridi, proprio come nella cartolina che mi aveva spedito Marguerite. Grazie, Marge, spero che tu sia ancora viva. Bussai, con impazienza. Là dentro, nulla poteva nuocermi peggio che là fuori. Quando la porta si socchiuse, sentii soltanto un sonoro frastuono ed il buio invase le mie iridi.
 
«È una Viandante?» chiese una voce femminile ed euforica, appena sopra di me. Aveva un tono trillante, intriso di curiosità e di incredulità.
«Non esistono più i Viandanti, Lila.»
«Beh, Bram, non si sa mai. Magari le sono venuti i geni anaerobi.» bisbigliò la ragazza, che sembrava fremere di entusiasmo.
Me la immaginavo: una giovincella dagli occhi malandrini e dal sorriso radioso, come un folletto, in stile Marguerite.
«I geni non vengono da un giorno all’altro, Lila. Ci vogliono generazioni e generazioni prima di un’Evoluzione, e la Riduzione sarà stata applicata massimo un decennio fa. Non basta.» intervenne un’altra voce maschile, più cupa e roca.
«È proprio bella, non trovate?». La ragazza, Lila, li stava ignorando totalmente. Chissà com’era concentrata nella contemplazione del mio corpo. Non che mi dispiacesse più di tanto: soltanto che c’era stata un’unica altra persona al mondo che mi aveva esaminata, avidamente, da vicino, carpendo ogni segreto ed ogni centimetro di me. Chris.
Il solo pensiero mi procurò dolore fisico, oltre quello che già provavo alle costole e che sembrava intollerabile. Contrassi un muscolo e percepii che qualcuno, al mio fianco, era sobbalzato.
«Tranquilla, Church, non ti divorerà. I Cannibali si sono estinti insieme ai Viandanti, sai. O ai dinosauri.»
Fioche e brevi risatine. Quante persone erano lì? Quattro? Cinque, addirittura? Di più? Non riuscii ad identificare il numero delle voci che sentivo.
«Sì, dai, è piuttosto carina.» Probabilmente a parlare era stata la ragazza che era sobbalzata, per distrarre la combriccola dalla scena di divertimento a cui avevano appena assistito.
«Sembra un’aristocratica d’alto rango, a giudicare dagli indumenti. Church, cosa puoi dirci? Sei tu l’unica esperta in lusso e ricchezza, qui.»
Mani esperte cominciarono ad esplorare cautamente il mio corpo, che si irrigidì istintivamente al contatto con i polpastrelli troppo gelidi della ragazza. Sì, era proprio inverno nelle Ebridi. La ragazza frugò nelle mie tasche e ne estrasse qualcosa ‒ la lettera di mia madre? Lo stemma dei Darcy? Il mio bracciale di riconoscimento? ‒ che osservò esitando ‒ probabilmente. Passò un minuto interminabile: pareva che Church stesse trattenendo il respiro.
«I vestiti provengono da Cambridge. Appartiene alla famiglia Darcy, Rivoluzionaria, ed è anche membro ufficiale dell’Élite.»
Giunse subito una risata sprezzante che si distinse fra tutti gli altri mormorii di massa. «Élite? Élite? Perfetto. Fantastico. Ne vedremo delle belle. Ci farà morire tutti quanti.»
Mi accorsi che a parlare era stata la ragazza con la voce acuta che prima sembrava tanto cordiale, e che aveva detto che sembravo aristocratica e bella. Non la pensava più come prima, evidentemente.
Il ragazzo che aveva parlato per primo intervenne: «Potrebbe non essere vero. Potrebbe essere una che si spaccia soltanto per un’aristocratica. Ci sono un sacco di persone che sono disperate a tal punto da inventarsi una schifezza simile.»
Schifezza? Schifezza? L’Élite, una schifezza? Come osavano dare della «schifezza» alla  mia famiglia? Per quanto riguardava Comitato e Consiglio, potevo trovarmi d’accordo. La mia famiglia, tuttavia, si era guadagnata il suo titolo formulando le idee più brillanti ed i progetti più ambiziosi. Si era distinta, a differenza della maligna congrega dei Rockefeller. Che volevano ucciderla, per di più.
Non ero abituata a questi insulti verso l’ambiente nel quale ero cresciuta. Perciò, decisi di svegliarmi ed inveire contro quella mandria di analfabeti.
Non appena aprii gli occhi, mi ritrovai davanti una decina di persone. Tutti ragazzi, all’incirca della sua età, che mi fissavano grugnendo di soppiatto e passando gli sguardi sulla mia vestaglia rossa e sgualcita. Mi trovavo in una stanza priva di decori o personalità: la parete era bianca e argentea, come in un laboratorio, e non c’era traccia di finestre. Somigliava molto ad una cella.
I ragazzi indossavano tutti una divisa mimetica ed un berretto che raccogliesse le chiome. Perfino le ragazze erano in tenuta militare: anzi, le più brandivano fucili all’avanguardia o coltelli affilati.
Quella più vicina a me era una ragazza sui sedici anni, minuta e magra, con i capelli corti e castani e gli occhi ambrati. Il suo viso possedeva una di quelle bellezze straordinarie ed irripetibili, quasi come se fosse un incrocio fra le vecchie attrici Liz Taylor e Charlize Theron. Sì, aveva l’aria  elfica di Marguerite. Soltanto che non sorrideva più. «Piacere, mi chiamo Dalilah Evers.» sibilò, come se fosse un serpente.
Tesi  la mano e parlai tutto d’un fiato: «Piacere, sono Mackenzie Darcy.»
I bisbigli, dapprima soffocati, divennero fitti. Chissà cosa pensano di me. Aristocratica. Schifezza. Lanciai un’occhiata guardinga al tizio che supposi si chiamasse Bram, tuttavia lui si nascondeva nella penombra, dietro le sagome di Church ed il folletto.
«E quindi sei un membro dell’Élite?». La ragazza, Dalilah, inarcò un sopracciglio con fare sarcastico.
«Sì.»
Dalilah Evers reagì scattando immediatamente verso l’uscita con grazia felina, gridando ai muri: ‒ Io me ne tiro fuori, gente. Godetevi la vostra «aristocratica».
Il resto della gente mi squadrava con esitazione: nessuno osava avvicinarsi, né contrastare la nuova fazione fondata da Dalilah «anti-Élite». Parve che nessuno sapesse più come accogliermi.
L’altra ragazza, Church, accennò un minuscolo sorriso ‒ che somigliava più ad una smorfia. Aveva i capelli lisci color mogano, gli occhi azzurrini e le lentiggini sparse attorno al naso. Apprezzai particolarmente la sua audacia. «Perdonala: l’Élite ha ucciso i suoi genitori. Erano Viandanti.»
Feci un cenno d’assenso. «Dille che non tutti erano d’accordo con la politica dei Rockefeller, va bene? I Darcy si sono sempre opposti al loro regime, in quanto Rivoluzionari.»
«Non credo che per lei faccia differenza, Mackenzie Darcy. I membri dell’Élite sono appunto questo: membri dellÉlite. Noi non conosciamo le famiglie che la compongono e le loro faide: tutto ciò che conosciamo è la loro dittatura. E tu sei una dittatrice. Questo, per lei, basta a condannarti.» Era stato il primo ragazzo a parlare, quello che prima era rimasto in disparte. Gli occhi grigi e velati mi confusero per un istante, rammentandomi quelli di Christopher. Però quel ragazzo non era come Christopher: non era biondo, non era robusto, non aveva le fattezze di una scultura greca. Il tizio conosciuto come «Bram» aveva i capelli corvini e scarmigliati, la pelle diafana ed un fisico atletico, snello e slanciato. Fisicamente, non avrei potuto definirlo «brutto», anzi, era piuttosto attraente, oggettivamente parlando. Tuttavia, la sua espressione ombrosa deformava i suoi lineamenti rendendoli vagamente macabri.
Lo sondai più a lungo del dovuto, convincendomi che quegli occhi fossero soltanto uno degli incubi che la mente mi giocava. Il colore però non si affievoliva: si trattava di bufera pura.
«Ti serve un soprannome.» sussurrò improvvisamente lo strano ragazzo somigliante a Chris, sempre sondandomi con attenzione. «Dimostra di non appartenere all’Élite. Cambia il tuo nome. Tutti lo fanno.»
Riflettei. Era vero: pareva che tutti avessero un nomignolo.  Lila, Bram, Church.  «Mack» era il soprannome che mi aveva affibbiato Marguerite quando giocavamo insieme da bambine; «Kenzie» era il nomignolo che utilizzava Christopher per chiamarmi durante la passione dei nostri amplessi ‒ e che era in assoluto il mio preferito; il migliore era...
«Darcy.»
Mi piaceva. Diretto, armonico, breve. Rappresentava, inoltre, un nesso con la mia famiglia, che si era occupata di programmarmi una fuga con dedizione e amore. E che mi mancava così tanto. Li rivedrai.
«Mi sembra perfetto. Io sono Bram, e lei è Henriette Churchill, detta Church.» annunciò, formalmente, senza degnarmi di un contatto. Soltanto quello sguardo bizzarro, capace di perforare gli animi. Scacciai quel fastidioso pensiero, indignata. Non ero lì per piangere il tradimento di Chris; ero lì per sopravvivere. Giusto.
Volsi lo sguardo al secondo ragazzo, e mi presentai.
 
Il secondo ragazzo si chiamava Alec Hershey, ed aveva un vero e proprio talento per le armi medioevali, che nessuno soleva scegliere più. Era stato spedito nella zona 11 dopo la disfatta nella sua vecchia area. Zona 9, Edimburgo, guidata dagli Hawthorne e che sarebbe dovuta essere la mia meta.
Alec era solo, forse anche più di me. Un uragano si era portato via suo padre quand’era ancora un neonato; gli zombie avevano invece provveduto alla scomparsa della madre, Chantal, e della sorella maggiore, Piper. La cosa che più detestava delle morti era l’oblio che trascinavano con sé: presto o tardi, a poco a poco i ricordi sarebbero diventati fioche ombre in attesa di una sepoltura definitiva.
Alec era slanciato, smilzo, ordinario: la cosa che più risaltava in lui era la gran forza di volontà che traspariva dai suoi occhi, il cui colore era un nocciola tenue. Capii ben presto che, nonostante tutte le tragedie che gli erano capitate, lui non era uno di Noi. Non era uno di «Quelli-che-avevano-perso-la-speranza», ma un intrepido e caparbio combattente. Scoprii un altro dettaglio interessante della sua routine: ogni mattina, all’alba, si arrampicava sugli aceri di fronte alla catapecchia sino a risalire sul ramo più elevato e maestoso. Da lì, contemplava una fanciulla che, a quell’ora, usciva in terrazza e cominciava ad annotare fiumi di parole, scorrendo con uno stilo antiquato sulla sottile carta del suo quaderno.
Mi confessò il suo segreto una settimana più tardi, rivelandomi l’identità della ragazza sconosciuta. Si chiamava Catherine Blair, soprannominata dai più intimi “Cate”. Cate non era una guerriera: aveva ereditato i geni creativi del bis-bis-bisnonno George Orwell, autore del romanzo distopico 1984.
Cate Blair scriveva storie di fantascienza e d’orrore, non molto diverse dalla realtà in cui vivevamo. Non parlava con nessuno, se non con la lapide del proprio avo, che si trovava in mezzo alle radici di due larici che si trovavano nei pressi di un lago vicino. Cate si recava là ogni giorno, piuttosto che allenarsi all’Armeria con i compagni, e si sfogava a lungo riguardo le proprie turbolenze interiori. Non era nata per combattere, lei.
Alec ne era consapevole e l’amava proprio per questo motivo. Era stanco della guerra. Stanco di non soddisfare le aspettative dei suoi luogotenenti. Stanco di non essere all’altezza della sorella, che si era impavidamente sacrificata per il bene della propria famiglia ‒ o di quel poco che ne restava. Voleva la Pace e voleva lei, perché incarnava nel miglior modo possibile il genere di «pace» che lui così tanto bramava.
Alec aveva un solo amico, oltre me: Abraham Taylor, il tizio con gli occhi di Christopher, che puntualmente mi odiava. Si era ben presto schierato con la combriccola fondata da Lila Evers contro di me; il motivo mi era ancora oscuro. Quando passava insieme ai suoi compagni e a Dalilah, ero bersaglio delle frecciatine più squallide e che, per la maggior parte delle volte, terminavano con i loro giudizi in merito al mio ruolo nella società. Mi avevano di fatto etichettata come «snob dell’Élite». Nessuno conosceva la mia storia, e la ragion per cui ero finita tra di loro. Nessuno sapeva che stavo fuggendo perfino io da ciò che ero, e dallÉlite.
Alec si era proposto tante volte di difendermi e anche di «pestarli tutti, dal primo all’ultimo» tuttavia gli avevo consigliato di non sprecare il suo ardore e di riservarlo a Cate. Detto ciò, era diventato rosso come un pomodoro. Mi rammentò l’innocenza che io avevo perduto quella notte di tante lune fa, avvolta dalla rugiada e dalla pelle del mio amante.
Bram era quello che mi insultava meno frequentemente e con minor furore, in quella combriccola. Forse era Alec che lo frenava a dovere, o forse non gli importava più di tanto; fatto stava che spesso neanche mi degnava di uno sguardo.
Non avevo ancora smesso di essere turbata dai suoi occhi maledetti, che infestavano sia i miei giorni che le mie notti. Uno degli incubi peggiori che affrontavo era percepire la risata crudele di Christopher nell’ombra, mentre le mie carni bruciavano in fiamme nere e grigiastre che lambivano la mia pelle e la impregnavano di elettricità, rendendola una massa incandescente che aleggiava nel vuoto più totale. La sensazione che percepivo durante quelle fasi del sonno era così reale da ferirmi e da farmi angosciare fino al mattino seguente: mi capitava sovente di destarmi di soprassalto, priva della voce che sarebbe altrimenti esplosa insieme al mio corpo, e di avere un batticuore frastornante. Paura. Si era ormai accanita sulla mia anima, violenta e pungente, ed era riuscita a sopraffarmi. Ero un altro essere umano in balia di fobie che non potevano essere raggirate.
Era solitamente Church a raggiungermi nel mio letto con un fruscio leggiadro e ad abbracciarmi con fare rassicurante, passando le dita affusolate sulla mia pelle imperlata di sudore e sulle mie braccia tremanti, utilizzando parole silenziose che non occorreva  pronunciare.
Nei giorni a venire, evitavo il più possibile qualsiasi contatto con Abraham ‒ e con i suoi occhi. Alec si chiedeva il motivo di un atteggiamento tanto evasivo ma io non ero con lui: la mia mente già era tornata a bruciare tra le fiamme nere. Invece di partecipare alle lezioni di gruppo mattutine, mi ritiravo nell’armeria durante l’ora del tramonto, provvista delle mie frecce e della mia balestra, e mi esercitavo finché non centravo con letale precisione il mio bersaglio.
 
 
«Chi l’avrebbe mai detto? Darcy, aristocratica modello e balestriere professionista. Se tu fossi furba, useresti una pistola o un mitra.»
La voce neutra e pacata di Bram Taylor mi carezzò la schiena e poi l’udito, facendomi voltare immediatamente verso di lui.
Vorrei non averlo mai fatto. I suoi occhi, più scintillanti e nitidi delle altre volte, erano lì, ad attendere i miei.
«Lascio quella roba a Lila e alle altre.» replicai seccamente, continuando ad incoccare le frecce. Non distrarti: è ciò che vuole. Continuai a fronteggiare, dirimpetto e con furia, il bersaglio e a colpirlo ripetutamente, facendo uso di tutte le frecce di cui disponevo.
«Quella roba avrebbe mezza possibilità di salvarti da uno zombie. Con una balestra non hai alcuna garanzia. È uno strumento suicida. Dovresti fidarti delle nostre armi, sai: nuocciono soltanto agli avversari.»
Conoscevo i tipi come lui: saccenti fino all’inverosimile, che si dilettavano nella critica e negli ammonimenti, relativamente calmi e innocui. Probabilmente, neanche sapeva combattere. «Non mi fido di niente e nessuno, eccetto i miei genitori.»
«La penserei esattamente come te, se ne avessi la possibilità.» L’insopportabile tenebra che sopraffaceva talvolta i suoi bei lineamenti era tornata a guastarli, rapida e silenziosa.
«Cosa ti è successo, Abraham?» chiesi, per una volta sinceramente interessata al passato di uno dei militari della zona 11.
Lui raccontò ogni cosa, per filo e per segno, come se attendesse quell’interrogativo da tempo immemore.
 
 
Abraham aveva avuto una ragazza, anni fa, di nome Rebecca Coleman, di cui era stato profondamente innamorato. Entrambi provenivano dalla zona 7, una di quelle perennemente sotto assedio.
Bram, ex mercenario, era stato inizialmente arruolato in una squadra di volontari esperti, insieme al padre di Becca, Patrick, che gli aveva presentato la famiglia. Sua moglie si chiamava Clarisse ed era una donna sensibile, con un profondo moto di empatia e senso materno; il primogenito si chiamava Eleazar, era appassionato di genetica molecolare ed aveva un paio d’anni più di lui ed infine la figlia minore, di nome Rebecca, aveva un anno meno di lui e tanti sogni alle spalle.
Rebecca era una ragazza a dir poco bizzarra: nessun maschio osava avvicinarla, dato che la gente la additava come «psicotica» o «strega». Aveva sempre potuto vantare un’indole notevolmente intuitiva, che molti avevano, nel corso degli anni, scambiato per chiaroveggenza. Le sue premonizioni si rivelavano veritiere il più delle volte e, approfittando delle persone che accorrevano a casa sua per ricevere presagi, iniziò a sfruttare le sue doti straordinarie per racimolare denaro. Il fratello Eleazar non concordava con questo subdolo progetto, ma la madre Clarisse lo mise a tacere quando Becca rientrò in casa con un gruzzolo niente male.
Rebecca era alta, castana, regale, come il fratello: il suo portamento ricordava i modi d’altra epoca ed i più la scambiavano per una principessa orientale caduta in disgrazia dopo l’Invasione.
Abraham Taylor, d’altro canto, era ancor più disgraziato di lei: orfano e con tre fratelli minori da mantenere. I gemelli, Isabel e Daniel, parteciparono alle campagne di esplorazione insieme a Bram in modo da facilitargli il lavoro. La sorellina, Sarah, era ancora troppo piccola per cercare un impiego.
Venne la guerra vera e propria ed i suoi effetti collaterali non tardarono a farsi sentire. Bram percepiva che il peso del lavoro diveniva sempre più opprimente, viste le crisi dei suoi superiori. La piccola Sarah si era ammalata, ed il fardello che Abraham già tollerava da mesi sembrò aggravarsi di molto. In un impeto di disperazione, l’Élite approvò una missione per i militari che si sarebbero offerti come esca e che avrebbero dovuto piazzare una bomba a Washington DC.
Abraham non poteva accettare, perché Sarah non glielo avrebbe mai perdonato. Tuttavia, i soldi guadagnati per la spedizione avrebbero potuto permettere loro l’acquisto di medicine o la visita di un dottore e dunque un miglioramento della salute della sorellina.
Fu in quel periodo di tormento interiore che si avvicinò a Rebecca. Con il suo fine sesto senso, lei aveva percepito i turbamenti di Abraham e si impegnò a sostenerlo come meglio poteva. Bram non lo dimenticò mai. Sebbene fosse un periodo di traviamento morale, tornò a sorridere e a vivere, grazie all’intervento di lei. Il fidanzamento fu ben accetto dal fratello e dalla madre, ma non dal padre, che sapeva che quella relazione non avrebbe giovato a nessuno dei due innamorati.
Abraham non partì per la missione. Quel giorno, giurò a Rebecca che non se ne sarebbe mai andato via da lei. Aveva ancora il sapore delle sue labbra sulle sue, quando scoprì che i gemelli erano entrambi saliti su quel velivolo, accompagnati dal signor Coleman. Il mondo parve piombargli addosso, mentre realizzò che l’amore era stata una delle principali ‒ e gradevoli ‒ catene che l’avevano imbrigliato a terra e portato alla decadenza.
I gemelli erano partiti per assicurare il denaro necessario al sostentamento di Bram e Sarah; il signor Patrick era partito per provvedere al mantenimento della moglie e dei figli, dato che Rebecca non avrebbe contratto un matrimonio con i comandanti militari che le aveva presentato, accogliendo le sue richieste di «vivere il suo idillio».
In casa Coleman il clima era denso di angoscia e morte: Clarisse rimase sconvolta per mesi di quella decisione sofferta a cui non aveva partecipato e presentò tracce di follia; Eleazar trovò un impiego in un centro militare pur di non restare a marcire di dolore in quella casa infestata di fantasmi fin troppo visibili; Rebecca iniziò a star male e ad ammalarsi sempre più frequentemente e gravemente, finché non contrasse un’influenza spagnola che le costò la vita. Abraham non fu mai più lo stesso.
Il suo mondo si infranse: trascorreva le giornate in casa, con gli occhi spiritati, mentre teneva la mano della signora Coleman che intanto era la viva preda del dolore, di singhiozzi e di convulsioni interminabili.
I due, troppo accecati dal vuoto e troppo consumati dal fuoco, non si accorsero che Eleazar, nel frattempo, si era avvicinato a Sarah. Il primogenito dei Coleman si premurava di tenerle compagnia perché provava pietà per il suo passato. Sarah, dal canto suo, accettò la compagnia di Eleazar ed iniziò ad affezionarsi a lui quasi come ad un fratello maggiore, dato che il suo sembrava essere svanito per sempre.
Un giorno, i due scomparvero nel nulla, lasciando una lettera che spiegava tutto e nulla. Eleazar, studiando in un archivio segreto della compagnia militare una molecola di ossigeno riducente contenuta in uno dei Pannelli, aveva dedotto che l’ossigeno sulla Terra non poteva essere gestito tutto da questi ultimi, poiché l’assenza di ossigeno libero avrebbe provocato l’oppressione di tutti i coni vulcanici e dunque un cataclisma apocalittico. Doveva esserci una Barriera che separasse il mondo dei Pannelli da quello in cui c’era ancora aria respirabile. E così erano partiti, insieme alla ragazza di Eleazar, alla ricerca di quella Barriera, rubando quante più bombole di ossigeno possibili. Un piano brillante, sebbene suicida.
Abraham non ricevette mai notizie né di Eleazar né di Sarah. Clarisse, esanime, era definitivamente crollata in un misantropo stato di coma mentale, da cui non si sarebbe mai risvegliata. Bram badò a lei come meglio poteva, dopodiché la zona 11, che era in cerca di soldati esperti, lo reclamò e lui partì per le Ebridi.
 
Quella sera, gli raccontai anche io la mia storia. Non omessi nulla, neppure la parte relativa a Christopher e la somiglianza impressionante tra loro due. Non omessi nemmeno le mie paure e la mia viltà di fronte all’idea del potere assoluto e di fronte agli ultimatum dei Rockefeller.
Abraham mi ascoltava in silenzio, fissandomi come se avesse intenzione di carpirmi l’anima, oltre che le parole. I suoi occhi, minacciosi e rassicuranti al contempo, accompagnarono con dignitosa fedeltà il mio racconto, narrato dalle mie labbra tremolanti e dischiuse.
Parlare di Christopher mi ferì e ‒ tanto vale dirlo ‒ mi fece pungere gli occhi di lacrime. Era come avere un insetto fastidioso che mi pungolava le palpebre e non dava loro tregua. Tentai più volte di ricompormi e di apparire algida, determinata e distaccata da quella storia che, sebbene non lo volessi, mi apparteneva in ogni sua sfaccettatura.
Abraham notò i miei occhi rossi e, senza emettere un suono, si sporse verso il mio volto per  sbirciarlo dettagliatamente. Portò le dita ai miei occhi e raccolse la lacrima lì insinuatasi, con una leggera vibrazione dei polpastrelli, dopodiché mi attirò a sé con una mano e mi osservò a lungo, come se un dubbio lo tormentasse.
Il contatto con la sua pelle mi disorientò, e la realtà caotica si smarrì nell’eco pulsante dei miei desideri.
La verità era che, , volevo un suo bacio. Patetica, vero? Ci eravamo confidati le nostre vite passate e percepivo la necessità impellente di approfondire la conoscenza di lui. Era come se la mia mente si fosse infatuata di Abraham Taylor: assuefatta, esigeva sempre di più, oltre. In quel momento, sottoposta al suo tepore, mi sembrò di ritrovare le stelle che avevano assistito allo smarrimento di me stessa e della mia innocenza. La volevo di nuovo, per caso? No, voglio me stessa.
Abraham, sempre in compagnia del suo prudente silenzio, lambì con un dito la mia fronte, il mio naso, le mie labbra sino a scendere sul mio collo, come incuriosito dalla conformazione del mio corpo. Lì si bloccò, e per la prima volta espirò in modo affettato, come se fosse rimasto senza fiato. La interpretai come una flebile vittoria sul suo autocontrollo, e non tardai ad approfittarne.
«Christopher Rockefeller è stato il mio incubo. Mi ha avuta, ingannata, tradita. Non glielo perdonerò mai. Non credevo che sarei mai stata pronta per concedermi ad un altro uomo, capisci? È stato umiliante, essere stata raggirata in questo modo. Soprattutto per una come me. Sono però giunta ad una conclusione: tu puoi liberarmi da questo demone. Tu puoi far riaffiorare me stessa dall’abisso in cui ero precipitata, se lo desideri.»
Abraham mi fissò, severo, poi incredibilmente si aprì in un sorrisetto malizioso che mi mozzò il respiro. «Lo dici perché lo pensi o perché mi vuoi?».
«Forse entrambe, o forse solo la seconda.»
«Apprezzo la sincerità, Darcy.»
Muoviti, pensai. E ‒ finalmente ‒ Abraham Taylor, dopo un’esitazione lunga cent’anni, mi baciò. Non si trattava di uno di quei contatti delicati e pudici di cui si era servito fino a quel momento allo scopo di portarmi allo strenuo del desiderio; ma una pretesa imperiosa, invincibile, potente. Le sue labbra lambirono le mie con passione, accendendole di vita, e la sua lingua, dopo essersi delicatamente insinuata in me, cercò la mia. Lui mi afferrò malamente per i fianchi, spingendomi al muro, ed io passai la mano fra i suoi capelli neri come l’ebano, con fare selvaggio. Non mi ero mai comportata con così tanta foga, soprattutto non in un frangente amoroso. Era come se il desiderio, seppellito nel profondo di me stessa, riemergesse sotto il fremito del contatto impetuoso con Abraham. Ad un certo punto, le mie mani, bramose di oltre, scivolarono da sole al di sotto della sua maglietta, ansiose di percepire il tremore dei suoi muscoli sotto i miei palmi. Fu lui, poi, a ribaltare le sorti: sempre con le labbra impegnate sulle mie, insinuò le mani lungo la mia schiena e risalì fino al reggiseno, cercando un mio consenso. Quando gli feci un rapido cenno affermativo, sganciò l’indumento e lo lasciò cadere a terra. Ricominciò a tormentarmi le labbra con le sue, più assiduamente, oltre.
Non so quanto durò quel bacio; né in quale momento iniziammo ad essere più delicati e ritmici; né quando, con me in braccio, lui si era spostato fino alla sua camera da letto; so soltanto che ad un certo punto ci eravamo tolti ogni indumento superfluo con spontaneità e naturalezza ed eravamo annegati nel tessuto accogliente delle lenzuola candide, sprofondando nei nostri corpi che anelavano il piacere di quel calore, di quel sole, del sigillo delle nostre pelli che si fondevano l’una con l’altra, sempre più oltre...
Quella notte gli incubi scomparvero per sempre.
 
 
Risvegliarsi fra le braccia di un ragazzo era incredibilmente piacevole, ma lo era ancor di più trovare i suoi occhi inchiodati sui miei, come se il suo segreto fosse contemplarmi di nascosto. Non sapevo come agire, se augurargli il buongiorno oppure attendere che fosse lui a parlare, ma non ce ne fu bisogno. Le sue labbra furono subito sulle mie, leggere, come se avesse paura di infrangermi o come se volesse stuzzicare l’ardore della mia brama. Sotto le lenzuola, pensai, siamo nudi, reduci di una notte trascorsa ad appartenerci. Abraham mi lambì i seni con le labbra, ed il mio anelito bruciò. Oltre.
Un raggio di sole filtrò dalla finestra della sua stanza e picchiettò gentilmente sulla pelle nuda di Bram, facendola rilucere di microscopici diamanti. Lo fissai e mi domandai come dovessi apparirgli: forse una meretrice, che era passata sul suo letto dopo una chiacchierata di poche ore. Una donna di facili costumi. L’idea stessa mi fece contrarre le narici: avevo ripudiato la mia vita aristocratica perché le donne erano schiave ed al contempo ingannatrici. Prostitute che si vendevano al miglior offerente, con l’obiettivo di diventare ricche e celebri. Avevo sempre ritenuto che non fosse il destino adatto a me ma dopo la sera prima non ne fui più tanto sicura. Mi ero venduta perfino io, forse, desiderando così intensamente Abraham dopo aver letto righe della sua storia?
«“Ti odio e ti amo. Per quale motivo io lo faccia, forse ti chiederai. Non lo so, ma sento che accade, e mi tormento.”.» recitò Abraham, con incontestabile solennità, sempre perduto in me e nelle mie malie.
Catullo, sirme 85. Avevo nostalgia dei libri: la base in Arizona ne era piena. Romanzi straboccanti di parole soffuse ed eleganti, romanzi pieni di purezza e onestà, romanzi illusionistici fatti di carta indistruttibile. Le parole non potevano essere distrutte, d’altro canto.
«Se proprio devo essere la tua Musa, fa’ almeno di comporre qualcosa di stupendo in mio onore. Puoi anche celebrare le mie doti carnali in quel caso, fa’ pure.»
Abraham replicò: «Sono lieto che tu me ne conceda il permesso, cara Darcy, perché lo farò.»
Le nostre risate, fuse come i nostri corpi poco prima, riecheggiarono come aloni dorati nella stanza, illuminandola. Per una volta tanto, mi sentii di appartenere ad una Causa. Quella dei miei genitori era la salvaguardia del pianeta; la mia era un ragazzo di nome Abraham Taylor, che in una notte mi aveva salvato, a modo suo.
Allora non sapevo che quello sarebbe stato il primo e ultimo risveglio insieme.

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Capitolo 3
*** Fiamme del Paradiso ***


La ladra di sogni
 
*
 
[Atto III]
 

testo
 


Fiamme del Paradiso
 
 
Nick sul forum/Nick su EFP: MaryScrivistorie [forum], Mary_la scrivistorie [EFP];
Titolo della storia: La ladra di sogni {Capitolo: Atto III ‒ Fiamme del Paradiso};
Attrezzo/Arma: Balestra;
Originale/Fandom: Originale;
Personaggi: Mackenzie Darcy, Abraham Taylor, Alexander Hershey, Annette Rockefeller, Catherine Blair, Christopher Rockefeller;
Genere: Soprannaturale, Drammatico, Introspettivo;
Rating: Arancione;
Tipo di Coppia: Het;
Note /Avvertimenti: Tematiche delicate, Lime;
Lunghezza: 6991 parole, 12 pagine;
Breve introduzione: In un futuro minacciato dagli zombie, Mackenzie Darcy è la flebile eco di un’umanità destinata al massacro. Rampolla di una prestigiosa famiglia appartenente all’Élite, è in fuga dall’imminente apocalisse e dai demoni che infestano i suoi sogni. Approderà nelle Ebridi e si addestrerà al fine di vincere la guerra che l’ha privata di ogni cosa.
E, alla fine, scoprirà l’identità della misteriosa «ladra di sogni» che sembra perseguitarla durante il giorno e la notte.
Dall’Atto III: «La Guerra. Arriva in un millisecondo e lascia il segno del suo passaggio come se fosse l’ombra del Diavolo che reclama cenere e sangue, dovunque vada.»
Questa storia partecipa al contest Apocalisse: Vivere o Morire [Multifandom & Originali] indetto da ManuFury sul forum di EFP.
Note: Dopo una terribile assenza sul sito, eccomi, stavolta con unOriginale. La storia è nata inizialmente come autobiografia di Alec Hershey, tuttavia la digressione su Mackenzie Darcy mi ha affascinata e ho iniziato a sviluppare la scaletta su di lei in una trama che mi ha portata, dopo mille revisioni, a questo risultato. Ringrazio lIspirazione che mi ha accompagnata in questo viaggio e che mi ha portata a superare di molto il limite di parole sancito dalla giudiciA. Il nome della storia è basato da quello di “Storia di una ladra di libri” di Zusak, sebbene le trame siano quasi contrapposte. L’Apocalisse, il tema di sottofondo su cui si fonda la fic, ricopre un ruolo portante: è il pilastro della Guerra e dei suoi effetti collaterali.
I nomi dei capitoli – basati sull’immagine ricorrente delle fiamme – indicano un passaggio da Inferno a Paradiso, in stile Divina Commedia. La storia è stata infatti concepita dalla mia mente malata come un racconto di formazione, di “purificazione” intellettiva e spirituale.
[!Spoiler] Mackenzie Darcy, torturata dai suoi incubi, ha bisogno di essere perdonata per gli errori che ha commesso.
La scena finale, ricca di controversie e contraddizioni, è stata in realtà lo sfogo interiore che mi è uscito di getto. Mackenzie, che ha sempre in fondo creduto nelle proprie possibilità, ha bisogno di credere che qualcun altro si impegni per concludere la Guerra: si tratta del Destino, nel quale lei, come Lila, ripone la sua fede.
Le canzoni che mi hanno ispirato sono state Bad Dream di Ruelle, Seven Devils di Florence & The Machine, The Phoenix dei Fall Out Boy e la cover di RAIGN, Knockin’ On Heaven’s Door, che sin dai tempi di The 100 mi ha commosso.
Non vogliatemene, nemmeno io ho fiducia nelle potenzialità di questa storia tuttavia Mackenzie e la sua ladra di sogni mi reclamavano. Io ho scritto. La storia esigeva che io la scrivessi. Non so quale possa apparire l’esito: spero almeno mediocre.
Le recensioni sono sempre gradite. Se passate alla lettura, magari lasciatemela e sarò felice come una Pasqua.
A presto,
Mary

 
 
 
 
La Guerra. Arriva in un millisecondo e lascia il segno del suo passaggio come se fosse l’ombra del Diavolo che reclama cenere e sangue, dovunque vada. Dovunque scelga di rubare i sogni.
 
Non avvertii distintamente il momento in cui cominciò: ero là, a consumare allegramente una dignitosa colazione, in compagnia di Alec che mi stava facendo notare che sembravo più adulta e più serena quella mattina ‒ chissà perché ‒ ; un lampo di luce incandescente e vertiginosa che mi aveva dato alla testa e fatto cadere per terra; e loro erano là. Mentre la mia mente annebbiata era ancora offuscata da frantumi casuali di tenebra, riconobbi in mezzo a quelle creature amorfe una figura umana e femminile di aspetto inequivocabile, che aleggiava sopra i corpi svenuti con un cenno di evidente compiacimento. «Potete ammazzare chi volete, ma questa qui lasciatela a me
Era il mio demone, venuto a prendermi per regalarmi una morte lenta e dolorosa. Annette Rockefeller. A dispetto dell’opinione comune, non me ne stupii più di tanto: me lo aspettavo. Chissà dov’era il suo scagnozzo Chris. Forse a rifornire gli zombie di armi. L’inquietudine che mi sopraffece non fu neanche tanto orribile, in confronto al terrore vero e proprio della Guerra che era sopraggiunta.
Aprii gli occhi, sebbene mi roteassero ripetutamente donandomi frammenti confusionari di luce e incubi, e notai che anche Cate Blair aveva gli occhi spalancati e il fiato corto. Sembrava tuttavia molto più lucida di me, mentre tentava di restare immobile e di nascondere le lacrime di terrore che già le rigavano gli zigomi. Rannicchiata di lato a terra, mi lanciò uno sguardo di implorazione ‒ forse per errore ‒ ed io rammentai che Alec mi aveva raccontato della sua repulsione per la guerra. Devo portarla via da qui.
Con lo sguardo, cercai a tentoni la figura di Abraham tra quelle costrette sul pavimento. Non ce n’era traccia. Era forse già morto? Era fuggito? Un moto di speranza m’invase mentre ero distesa sul pavimento della mensa. Se era mio destino bruciare tra le fiamme dell’Inferno, volevo assicurarmi che il mio amante di una notte vivesse una vita felice, per quanto potesse esserlo.
Ad un certo punto, il volto da bambola di Annette Rockefeller luccicò sopra il mio corpo. La sua espressione mi ghiacciò il sangue nelle vene: famelica, come il leone in procinto di avventarsi sull’agnello. «Ti ho trovato, Darcy. Sei mia, ora.»
Sei mia. Le dita di Abraham che mi perlustravano gentilmente il corpo, oltre i confini del concepibile, e che si appropriavano di ciò che non avevano ancora assaporato.
Sei mia. Gli occhi inchiodati sui miei, mentre i nostri corpi allacciati danzavano di passione sulle lenzuola accartocciate, arresi dinnanzi a ciò che eravamo. Insieme.
Sei mia. Le sue parole sussurrate contro la pelle, contro i capelli, contro le labbra, che risuonavano come un giuramento di duplice suggello e come il richiamo di un sogno.
Annette Rockefeller si chinò accanto al mio corpo inerte a causa della recente esplosione e  proseguì imperterrita: «Piccola Mackenzie, impara: fuggire non è mai una soluzione. È soltanto una dimostrazione di codardia, e tu ne detieni il pieno titolo. I tuoi genitori, almeno, sono morti combattendo.»
Sta farneticando. Mi balenarono in mente i volti di mia madre e mio padre, così vicini e simili al mio. Il sorriso radioso e disarmante di mia madre quando la si elogiava; le rughe di preoccupazione e vecchiaia sulla fronte di mio padre; i loro sguardi complici; le loro risate combinate. No, non potevano essere morti. Mi rifiutai di crederci. Sopravvivi. Fai in modo che lottino per noi.  
Mi concentrai su quelle parole, e d’istinto assestai un calcio in pieno viso ad Annette, che crollò come un sacco di grano. Mi alzai di scatto e porsi la mano a Cate, che l’afferrò senza pensarci.
Mi osservai intorno, ansiosa di trovare Abraham. La stanza si era però svuotata, nel frattempo. Probabilmente gli zombie erano fuori a intrattenere i militari ‒ pardon, a mangiarseli. I corpi distesi per terra erano per la maggior parte squartati o solcati da ferite profonde e gravi, come quello di Henriette Churchill, che era paralizzata in una posa raccapricciante. La guardai con tristezza, rammentando l’aiuto che mi aveva dato con gli incubi. Riposa in pace, Church.
Cate mi spronò: «Muoviamoci, Darcy!».
Ero equipaggiata bene: ognuno si portava sempre dietro le armi, per le emergenze. E questa lo era. Mi sfilai due coltelli dallo zaino e li porsi a Cate, che li sondò con espressione interdetta. Sfoderai anche la balestra e sospirai, cercando di espellere tutto il nervosismo che mi attanagliava le membra: ero pronta. La mensa aveva due finestre, una delle quali dava su un ramo dell’acero di Alec. Afferrai Cate per il polso nonostante le sue proteste e, raggiunto il davanzale, saltai, trascinandola con me. Fu molto più breve del previsto: il ramo distava pochi metri. Cate barcollò leggermente, ma la tenni stretta al mio corpo. Dovevo mantenerla viva, per Alec.
Dalla cima del ramo, sondai il campo di battaglia. Non avevo mai assistito ad una vera battaglia, e rimasi stupefatta dalla vista dei nemici schierati in “legioni”.
Gli zombie erano molto differenti da come me li ero sempre immaginati: erano mutanti bipedi e di fattezze quasi umane, ma con caratteristiche spettrali e amorfe. Piuttosto che avere una carnagione verdognola, avevano una pelle uniforme che consisteva in squame e grinze lattee. I loro toraci erano incredibilmente scheletrici: l’epidermide somigliava ad un sottile tessuto eburneo che doveva appena coprire l’esile ossatura. Avevano corpi pallidi e smilzi ricoperti di quelle che parevano profonde ed intricate rune circolari, che percorrevano le loro braccia e le loro gambe come se fossero bracciali d’oro adornati di ghirigori. La cosa più mostruosa del loro aspetto erano tuttavia i volti: la pelle era talmente tirata da lasciar intravedere ogni singolo capillare e, all’altezza degli zigomi, le ossa sporgevano e fuoriuscivano dalla carne smunta, che si plasmava attorno come se fosse liquida. Gli occhi, consistenti in iridi cangianti che brillavano di rosso e di blu come un caleidoscopio, erano solcati da livide e cineree occhiaie e da lacrime di sangue raggrumato. Le loro labbra, purpuree come se fossero state imbevute nel sangue, erano strette in smorfie severe e fremevano, come se anelassero costantemente il sapore della carne umana.
Si muovevano, attorniati dalle tenebre, mediante scatti disumani e veloci. Era come se, ad ogni loro passo, fossero inghiottiti dalle ombre più fitte che li trasportavano avanti, proiettandoli sul campo di battaglia. Il bianco sulle loro squame si fondeva allora con l’oscurità del Male. Erano demoni infernali senz’anima, fieri eredi del Diavolo, che si cibavano di quelle degli umani, disgiungendole dai corpi terreni.
La maggior parte degli ibridi combatteva a mani nude, servendosi degli artigli d’avorio affilati come lame che laceravano in modo spaventosamente semplice protezioni e pelle dei soldati. Altri ibridi invece utilizzavano delle specie di spade ricurve, costituite di un materiale metallico liquido somigliante al mercurio, che si adattavano ai desideri di chi le impugnava. Probabilmente erano l’ultima innovazione ideata a Washington DC prima che gli zombie la distruggessero e occupassero.
I soldati combattevano strenuamente, menando fendenti con le spade e sparando a più non posso con le armi da fuoco. I più fortunati riuscivano a colpire gli zombie, che si polverizzavano in cenere scura. Tuttavia, erano principalmente gli zombie a prevalere sui soldati: parecchi furono aggrediti mortalmente dai loro artigli affilati; altri dalle zanne appuntite che affondavano nella carne come rasoi; altri ancora colpiti dalle loro bizzarre spade da samurai. Da lontano, la scena era confusa e ininterrotta: potevo distinguere soltanto le polveri ed il sangue che formavano disegni astratti sulle pietre del piazzale. Gli zombie, circondati da aure di oscurità, brancolavano alla disperata ricerca di putrefazione e morte, cogliendola al volo non appena si presentava loro l’occasione. I nostri compagni lottavano attingendo ad ogni traccia di coraggio e forza che possedevano tuttavia i più, colti da moti di panico e di rassegnazione, cedevano alle tenebre, mescolandosi con esse e disintegrandosi fisicamente in brandelli purpurei. Fiumi di sangue scorrevano per terra, collegandosi tra loro e giacendo in dense pozze che riflettevano l’immagine degli incubi incarnati che avevano assillato le nostre notti per anni.
Fissai la scena atterrita. In mezzo a quel caos, c’era Abraham, che stava probabilmente per morire: non riuscivo a scovarlo tra la folla di guerrieri, però. Cate accanto a me emise rantoli soffocati, indicando con le dita tremanti un punto a destra dello scenario. 
Alec. Era braccato da ben due zombie, che utilizzavano i loro artigli per graffiarlo e tentare di affettarlo a metà. Lui rispondeva roteando con una rapidità quasi sovrumana la sua affidabile spada che mirava a scalfire la viscida e smunta carne delle creature.
«Non lasciarlo morire, ti prego.», mi supplicò Cate, tenendo gli occhi piantati su di lui.
L’ambiziosa autrice di libri si era per caso invaghita dello spadaccino che la sognava ad occhi aperti? Se non fossi stata in battaglia, sarei rimasta piuttosto compiaciuta dalla sua reazione. Tutto ciò che però la mia mente riuscì a metabolizzare in quel momento fu che uno dei miei pochi amici era in pericolo. Estrassi una freccia senza indugio e la scoccai. Centro.
Alec si voltò e sorrise con malizia, probabilmente consapevole di avere un angelo custode tra gli alberi. Saltai goffamente dal ramo ed esortai Catherine a seguire il mio esempio. Sebbene l’esitazione iniziale, Cate ce la fece e insieme raggiungemmo Alec, che nel frattempo aveva ucciso l’altro zombie.
Appena ci vide arrivare, Alec ci elargì un ampio sorriso che, se avesse potuto, avrebbe rischiarato i raggi solari. «Siete vive entrambe.»
La sua voce trasudava un tale sollievo che mi fu impossibile non accorrere ad abbracciarlo. Lui mantenne lo sguardo inchiodato su Cate, che cominciò a sentirsi a disagio, credo, data la colorazione rosea sulle sue guance.
«Dov’è Abraham?», chiesi impulsivamente, senza riflettere sulle conseguenze di quella domanda.
Alec mi fissò, perplesso. «Lui ed i più esperti sono andati a prendere la dinamite.»
Chiaro. Chi, se non lui, sarebbe stato idoneo ad un compito del genere? Dinamite. Volevano farli esplodere? Evidentemente. Magari avrebbe persino funzionato.
Gli zombie notarono il nostro gruppetto in disparte, e ci raggiunsero in un istante, con i risi malefici e voraci. Alec si lanciò senza indugio su uno dei tre, prendendolo a stoccate in ogni angolo che riusciva a raggiungere. Rubai uno dei coltelli a Cate in fretta e furia e mi avventai su uno degli altri, menando fendenti mirati al suo cuore di mostro. Lui schivò il colpo e cercò di far leva sugli artigli per tagliarmi a fette, tuttavia fui più rapida e riuscii a ferirlo al ventre mentre s’innalzava per contrattaccare. Si piegò un attimo, tentando di risanare il taglio che non appariva per nulla lieve, e con un colpo ben assestato gli trapassai il petto scarno. Diedi un’occhiata a Cate: sebbene incerta sulle proprie mosse, se la stava cavando ad evitare gli attacchi del suo zombie. Con un paio di coltellate mie e sue, il mostro era andato. Caput.
Gli altri zombie rappresentarono una sfida più ardua. Iniziavo ad essere affaticata, e la mia vista ne risentiva: menavo fendenti casuali di qua e di là, dovunque trovassi squame albine, tuttavia non riuscivo più a mettere a fuoco o avere una visuale dettagliata della situazione. Cate diventava un’eco sempre più soffusa in mezzo agli starnazzi e alle urla della battaglia,  che sbiadiva dei suoi colori sino a tornare grigiastra, mentre mi chiamava a gran voce. Stavo sprofondando sotto le grida dei miei vecchi incubi.
I tuoi genitori, almeno, sono morti combattendo. Odiavo Annette? Oh, sì. Desideravo vederla sulla forca. Erano davvero morti, loro? Sapevo che i miei genitori anteponevano la Causa al resto, e si sarebbero sacrificati volentieri per proteggerLa ad ogni costo. Altroché. Era tipico della mia famiglia, il sacrificio: solamente io sembravo incarnare l’eccezione alla regola. Egoista. Le loro facce rotearono, nella mia mente, e le schermaglie delle ombre mi impedirono di recuperarle dall’oblio. Era ormai impossibile, destreggiarmi fra le fiamme che consumavano la mia carne rendendola il nulla: la cosa bella era che presto sarei svanita anche io nell’oblio. Magari li avrei rivisti nell’aldilà, splendenti del valore che non era mai scemato via dalle loro anime.
Morti. Morti. Morti.
La vista, già velata, mi si appannò completamente ed i miei arti si arresero alla sconfitta conclusiva. E così sarebbe andata a finire così. La giovane e pavida rampolla dei Darcy, Mackenzie, annegata nelle tenebre e rassegnata al destino della catastrofe. Osservai la lama di mercurio scendere verso la mia pelle, letale e inesorabile, portando con sé il buio.
Qualcuno, però, s’interpose fra me ed il colpo di grazia, come accadeva sovente nei film. Un impeto di animo mi suggerì il nome del mio salvatore: Abraham Taylor, a cui poco prima avevo donato tutta me stessa e tutti i miei segreti. Abraham. Volevo urlargli tutto il mio amore e la mia gratitudine per avermi recuperato dalle fiamme tutte le volte che mi ero perduta fra esse. Tuttavia, lì davanti non c’era né Bram, né Alec, né Cate.
C’era Dalilah Evers, piuttosto, che aveva una lama avvelenata conficcata nello stomaco. Un fiotto di sangue le uscì dalle labbra, proprio nell’istante in cui il grido esplose nella mia gola. Caddi in ginocchio ed il suo corpo si afflosciò esanime fra le mie braccia.
«Lila.» fu tutto ciò che riuscii a farfugliare mentre con le mani cercavo di estrarle l’arma dal ventre. Lei mi fissò intensamente come se vedesse di più in me, come se vedesse oltre.
«Puoi salvarci, tu.» replicò debolmente, appena prima che i suoi occhi si abbandonassero alla danza delle nubi.
L’urlo mi morì in gola, mentre Dalilah, ormai pallida come la neve, si librava in altri posti, in altri sogni. Una lacrima di shock mi attraversò velocemente il viso e s’infranse sul cadavere della ragazza.
Mi alzai, ormai senza più tenere a freno le emozioni che provavo, e con scatti iracondi feci fuori gli zombie che zoppicavano verso di me e verso il corpo ancora intatto ai miei piedi. Ero posseduta da un ardore tutto nuovo, implacabile e inarrestabili: attinsi ad ogni briciola di coraggio per proteggere il cadavere di Lila dalle oscure profanazioni dei mostri.
I tuoi genitori, almeno, sono morti combattendo. La lama del mio coltello cadde a terra emettendo un suono metallico e sordo.
“La balestra è larma di chi non teme la morte, figlia mia”. Avevo afferrato una balestra per la prima volta alla tenera età di cinque anni, centrando il mio primo bersaglio. 
“Noi Darcy abbiamo laudacia nelle vene”. Mio padre mi aveva insegnato come maneggiarla e come evitare attacchi alle spalle nemici.
“Sii il simbolo della Rivoluzione, una guerriera con la balestra che protegge gli innocenti e condanna i peccatori”. Ero ancora una bambina e lidea di diventare una guerriera mi allettava anziché spaventarmi. Gioivo a quel punto, sfoderando i sorrisi più caldi della mia vita mentre nuovi sogni dorati e limpidi illanguidivano le mie notti dinfanzia. Mio padre mi augurava la buonanotte con tre baci sulla fronte, perle di un pegno daffetto che non sarebbe mai scomparso; mia madre rimboccando amorevolmente le coperte regalandomi sorrisi veri ‒ ormai so distinguerli ‒ e insieme, con le dita intrecciate, lasciavano la mia stanza. La balestra, sulla scrivania, brillava di luce.
Afferrai l’estremità dell’arma e scoccai le frecce in tre direzioni imprecisate. Centro. Sorrisi vittoriosi, mentre riprovavo e vincevo: la bolla del mio mondo di bambina era ancora intatta. Controllai di eventuali avversari alle mie spalle, poi colpii. Di nuovo, e ancora.
Diedi una mano a Alec e Cate, mentre si lanciavano sui loro nemici e li polverizzavano insieme. Una bella coppietta, non cè che dire. I loro movimenti erano sincronizzati, armoniosi e combinati come in una danza da combattimento. Spesso si guardavano con intesa, senza alcuna parola, e si capivano al volo riguardo le mosse da tentare. Complementari. Cate era la parte aggraziata e strategica; Alec quella aggressiva e intuitiva.
Uno degli zombie placcò Cate e cercò di afferrarla per la vita: io e Alec agimmo contemporaneamente, io con una freccia nel ventre e lui con profondi fendenti.
Forse anche io avevo la capacità di proteggere qualcuno, mi dissi. Forse potevo compiere qualche azione buona prima di andarmene; forse potevo riportare dignità anche sul mio nome infangato di viltà. Altre frecce andarono a segno, distruggendo vari mostri.
Cate e Alec esultarono abbracciandosi come se fossero amici intimi anziché conoscersi ufficialmente da poche ore. La Guerra.
Una sagoma brillò in mezzo all’oscurità e, quando la riconobbi, il mio cuore saltò un paio di battiti. Abraham. Corsi senza esitare verso di lui e mi gettai sul suo corpo pieno di polvere e cicatrici che si offriva al mio abbraccio. I suoi occhi catturarono i miei  ‒ non avrebbe dovuto lasciarli mai più ‒ e recepirono il messaggio che urlavano: sei vivo.
Ci fissammo a lungo, senza parlare, mentre la Guerra infuriava e noi eravamo soltanto residui intatti della sua devastazione apocalittica.
I suoi capelli corvini erano un po’ bruciacchiati, aveva un brutto taglio sullo zigomo e il suo volto era madido di sudore e cenere. Passai le dita sul suo volto, bramosa, e gli tolsi lo strato di fuliggine sulla fronte. Non era mai stato così bello come in quel momento, reduce della Guerra, che l’aveva marchiato con le sue fiamme oscure.
Mi afferrò la mano e la strinse delicatamente, cingendola poi con le dita. Lo sguardo non si spostò dal mio di un centimetro. Le sue intenzioni erano ovvie: quello era potenzialmente un addio. I suoi occhi si fusero con i miei per un attimo interminabile e frastornante, poi mi aiutò a rialzarmi e ci annunciò: «La dinamite è pronta. Quando i traditori dell’Élite saranno tutti dentro la casa, la faremo esplodere. Non entrateci. Chiaro?».
Ci fissò ed esitai solo per percepire i suoi occhi su di me, ancora.
I suoi compagni però lo chiamarono e lui, dopo aver distolto i suoi occhi tempestosi e articolato un saluto spezzato, scomparve nella nebbia della battaglia.
Mi voltai verso Alec e Cate, rifiutandomi di considerarlo un addio, e ci accingemmo a proseguire la nostra impresa. Il numero di zombie ancora in vita, che prima appariva stratosferico, era adesso esiguo ‒ anche se maggiore di quello degli umani. Mucchi di cenere sottile adornavano i cadaveri umani che giacevano per terra, testimoniando uno dei presagi irreversibili della guerra: la morte, che abbracciava indiscriminatamente guerrieri appartenenti ad ognuna delle fazioni.
Non riuscivo più ad identificare il cadavere di Lila in mezzo a quella carneficina. Soffocai di nuovo l’urlo che non avevo liberato prima e che era tornato ad assillare le mie tonsille.
Alec mi prese per mano e mi rassicurò, con un sorriso gracile e triste che però mi destò dal mio tormento. Cate ammutolì e osservò la scena in silenzio, con le braccia incrociate: avrei potuto giurare di aver visto una piccola scintilla di gelosia nei suoi occhi glaciali, prima che li piantasse verso l’orizzonte.
«Forse dovremmo muoverci.» mormorò, accarezzando l’elsa del suo pugnale per stringerla poi con prepotenza.
Scambiai un’occhiata con Alec, che era interdetto e pure smarrito nell’ondeggiare soave dei suoi capelli scuri mentre ci voltava le spalle per fronteggiare i nemici.
Accorta del loro ritorno, rimasi indietro, nascondendomi dietro il tronco di un acero. Attesi che i mostri si facessero avanti e attaccassero Cate e Alec ma non accadde.
Successe in un frammento di secondo. Uno zombie comparve da dietro e raggiunse la schiena di Catherine, alzando gli artigli che luccicarono nel buio che lo accompagnava. Un istante dopo, Cate rotolava sul pavimento, Alec era a terra in preda alle convulsioni e lo zombie, abilmente colpito da una delle mie frecce, si era volatilizzato nel nulla.
Mi fu necessario soltanto un attimo per capire cosa fosse accaduto: Alec Hershey aveva sacrificato se stesso per Cate Blair. Gli artigli, ancora conficcati nella carne di Alec, tremolavano alla luce del sole mentre zampilli di sangue fuoriuscivano dalla ferita e violavano le pietre, impregnandole della loro amarezza.
Catherine, ancora buttata a terra, era in preda ai singhiozzi e alle urla nere, mentre l’ennesima speranza di una vita futura si sbriciolava insieme all’animo di Alec.
Quanto a me, ero ancora nel mio rifugio, indenne fuori ma non dentro. Osservavo la scena attentamente e un’altra scheggia di vetro ferì quella sfera densa di ombre che ormai mi rimpiazzava il cuore. Non un respiro, non una lacrima. Niente.
Ormai eravamo soltanto io e la Guerra, in attesa di altre prove da affrontare. Il sorriso di Alec, che era solito illuminare le mie fioche giornate ed orientarle verso l’onore e la giustizia, era svanito diventando una cupa memoria.
Probabilmente la mia mente aveva cominciato a sostituire il cieco dolore per l’assenza di Marguerite con la gioia per la viva presenza di Alec; probabilmente, priva di ognuno dei miei vecchi valori e ridotta ormai ad un’anima smarrita fra le fiamme nere, mi ero appigliata a quel sorriso redentore; probabilmente era stato Alec a mantenermi in vita, regalandomi quel poco di luce necessaria ad andare avanti e a trovare un po’ di bontà nel mondo crudele che entrambi avevamo assaggiato a nostre spese; probabilmente Alec, che splendeva di candore e innocenza, mi aveva sostenuto durante la mia Conversione ed era per questo motivo che mi ero così affezionata a lui.
Fatto stava che lui non c’era più. Dentro di me, echeggiava il silenzio di un santuario dimenticato.
In quell’istante, la Speranza andò in frantumi e l’ombra ricominciò ad impadronirsi di me, poco a poco. Non raggiunsi il cadavere di Alec e non gli riservai alcun saluto: me ne andai, ormai segnata dall’opaca tenebra con cui mi ero confrontata. Lasciai i superstiti lì ad affrontarsi tra di loro per la contesa finale e rientrai nella casa maledetta, impaziente che la mia maledizione svanisse, anch’essa, tra le fiamme nere.
 
 
Annette Rockefeller non aveva il sorriso di Alec Hershey ma una versione macabra e ripugnante. Mi scatenò repulsione istantanea non appena lo percepii nell’oscurità che le aleggiava intorno. Sembrava una creatura demoniaca, una figlia di Lucifero che brancolava nelle tenebre fiammeggianti. Il fuoco nero, che era una mia pavida illusione, divampava crudelmente intorno a lei, fondendola a sé e separandola perfino dalla più tenue delle luci.
«Chi non muore si rivede, piccola Mackenzie.», sibilò con cattiveria. La sua voce parve una melodia vibrante, sussurrata, di smisurata profondità, come se riecheggiasse dalle più cupe catacombe dell’aldilà.
«È proprio il caso di dirlo.» le risposi, ostentando sicurezza. Una sicurezza che non mi era mai appartenuta e che non lo sarebbe mai stata fino al momento del giudizio.
«Hai combattuto.» mi fece notare, con lo sguardo livido di odio. «Sei stata brava, te lo concedo. Hai adottato una causa e hai continuato a difenderla. Non me lo sarei mai aspettata, da te.»
«Neanche io.»
Furono le parole che elaborai nel cervello e che tuttavia non vennero pronunciate dalle mie labbra. Mi voltai e la vidi, là, una sagoma di oscurità al pari della sorella. Christopher era una proiezione accecata di emozioni avvelenate e di innumerevoli menzogne che aveva abilmente taciuto per buona parte della sua esistenza. Se prima somigliava ad un angelo, adesso si era ridotto all’esatto contrario: non aveva la potenza adeguata per rifulgere di aura demoniaca ed era soltanto un suddito dell’oscurità, seguace di una causa che non gli apparteneva e a cui aveva aderito soltanto per attenuare rimorso e nostalgia. Per allontanarsi definitivamente dalla luce che lo aveva condotto da me.
Constatai disgustata che eravamo simili, in questo: avevamo adottato le cause di qualcun altro e le avevamo combattute per soddisfare le aspettative di chi aveva riposto fiducia in noi.
Christopher non sorrideva: il suo sguardo era sempre quello distante e malinconico di quando ci eravamo congedati. La differenza più rilevante era quella relativa al suo aspetto: se prima custodiva un briciolo di amor proprio, ora era scomparso insieme alla sua dignità. I suoi capelli erano arruffati, sudici e flosci, gli indumenti parecchio trasandati e la sua pelle cadaverica: uno schiavo spettrale delle tenebre.
«Vedi, Mackenzie? Neanche il tuo vecchio e grande amore crede più nelle tue finzioni paradossali.», rise Annette, sprezzante. Sembrava che riversasse su di me tutto il rancore che serbava per il fratellastro che aveva osato disonorarla amando la sua acerrima nemica. Avanzò di un passo verso di me, uscendo dalla sua tremolante ombra e mostrando il volto: una maschera febbricitante di odio e risentimento, guidata ormai dal Male che aveva fatto di lei la sua infernale pedina.
«Non ho avuto bisogno di fingere per portarmi a letto tuo fratello, Annette. Già mi sbavava ai piedi da anni. Se solo tu te ne fossi accorta prima...peccato che tu fossi impegnata nei letti  di politici che non ti hanno mai sostenuto, come una qualsiasi lurida prostituta che non riceve denaro.» le dissi, stringendo i denti e fremendo di un’ira di cui non conoscevo le origini ma che iniziava a corrodermi fatalmente lo stomaco.
Annette s’incupì brevemente, poi scintillò di crudeltà: «Di cosa ti meravigli, piccola Mackenzie? È la storia di ogni nobildonna dell’Élite. Perfino di tua madre, in caso tu te lo chiedessi. Soltanto tu, giovane fanciulla colma di candore e purezza, ti sei salvata dal brutale destino che era in agguato. Ammirevole. Tuttavia nel frattempo ti sei dilettata sulle lenzuola di mio fratello, che non ha mai ceduto alle tue fragili illusioni e che ha continuato ad appoggiare fermamente la famiglia piuttosto che la sgualdrina che gli si offriva così languidamente.»
Christopher non reagì: sul viso, aveva dipinto il ritratto dell’infelicità. Mi incuriosì la faccenda e mi domandai cosa continuasse a tormentarlo dopo tutto questo tempo, ma non ero più nelle facoltà di esigere un responso. Pensai ad Abraham e alle tante risposte che avevo ricevuto in una sola notte, e che non bastavano ‒ eravamo diventati avidi collezionisti dell’oltre e delle sue sconfinate sfumature.
Quando frequentavo Chris, invece, avevo accantonato ogni genere di quesito: eravamo stati due codardi, che avevano preferito rimandare categoricamente il giorno in cui avrebbero dovuto fare i conti con i propri mondi piuttosto che affrontarli o cercare una potenziale soluzione alla moltitudine di problemi.
Abraham. In quell’istante, compresi il motivo per cui mi ero così facilmente donata a lui. Non c’entrava il bisogno carnale e animalesco che mi aveva tanto preoccupata, bensì era stata la mia anima a reclamare la sua. Le parole che avevo detto per sedurlo e per trascinarlo da me erano assurdamente reali: marchiata da diniego e avarizia, la mia anima aveva disperatamente ricercato la sua via di fuga, la redenzione che entrambe avevamo ambito da così tanto tempo. Essa era arrivata ascoltando il racconto di Abraham e la sua storia densa di dolore, un dolore che si era protratto per troppo tempo e che doveva volgere al termine. Per la prima volta nella vita, ero stata mossa dalla compassione che mi aveva portato a riflettere sul suo accaduto e a dargli conforto. La mia esigenza, invece, era stata quella di cercare un portale che mi guidasse altrove: il vicolo cieco e oscuro del mio passato era stato soppiantato da un labirinto ricco di spiragli di luce e di sentieri abbagliati dal sole.
Finalmente, avevo ritrovato il mondo perduto dei sogni.
«Non che tuo fratello fosse così bravo, a letto. Non ci sapeva fare. Dovresti sperimentare tu stessa: hai molta più esperienza di me.»
Questo bastò a farla accendere di rabbia. «Piccola sguattera, come osi? Tu poi, tu che ti sei scopata mio fratello per un anno e oltre!».
Scattò in avanti, con gli occhi fuori dalle orbite e traboccanti di ira, tuttavia Christopher la bloccò. «Ferma, Annette. Non tu. Devo farlo io.», borbottò, con voce roca e laconica.
Chris mi fissò, sempre con i suoi occhi malinconici, e si fece avanti, passo dopo passo. La sua marcia fu lenta, leggiadra e mite, un po’ come lui. Non era turbato da ciò che stava per fare: la vacuità dei suoi occhi spiritati non pareva essersi smossa di un millimetro dal giorno della mia fuga. Quando mi fu abbastanza vicino, sfoderò un pugnale dall’elsa luccicante di rubini e lo accarezzò come aveva fatto Cate prima. Non oserà farlo.
E, di fatti, Christopher non lo fece: mi guardò, borbottò un labiale «Perdonami, Kenzie» che potrei essermi benissimo immaginata e si piantò la lama nel petto, all’altezza del cuore. Prevedibile. Non mi sortì alcun effetto, se non un vago senso di rammarico: avrei dovuto farlo io e non lui. Chris era morto da tempo: quella era un clone privo di anima che lo aveva solamente rimpiazzato temporaneamente, prima di gettarsi nell’oblio anch’esso. Era inevitabile, quel destino.
Annette fissò il corpo del fratello con autentico disgusto nello sguardo, poi scoppiò a ridere come una pazza. «Un fratellastro bastardo e traditore di cui nessuno sentirà la mancanza: era l’ora che si togliesse di mezzo. Rovinava la propaganda della nostra famiglia: non so se hai avuto il piacere di vedere lo stemma dei Rockefeller, dinastia suprema dell’Élite da oggi. Gli zombie hanno acconsentito a prendersi buona parte del mondo, e a lasciare intatta quella oltre la Barriera. So che avrai intuito che c’è una zona protetta al di fuori dell’Europa: è lì che io e la mia famiglia ci trasferiremo, seguiti dall’Élite, non appena ti avrò fatto fuori.»
Nei suoi occhi brillò una folle luce omicida, che mi convinse a tentare di temporeggiare. Dopotutto, Abraham e gli altri, se non erano morti, stavano preparando la dinamite. Dovevo soltanto intrattenerla mentre loro pianificavano una tattica al fine di far esplodere l’edificio della zona 11.
«Posso avere il piacere di sapere il motivo di codesto rancore nei miei confronti, Annette? Le nostre famiglie sono in guerra da anni, eppure tra i tuoi fratelli sei l’unica ad odiarmi così tanto.»
Lei sfoderò un sorriso risentito: «Sono la primogenita, Darcy. Da me ci si aspetta un comportamento di un certo livello ma sotto molti punti di vista ho fallito. Uno di questi sei tu: piuttosto che escogitare cospirazioni al fine di ucciderti, ti ho lasciato in vita. Ti ho ammirato ‒ e sputacchiò la parola come se avesse ingerito veleno. ‒ e mi ripetevo che forse tu non fossi l’antagonista della mia storia. C’erano questioni molto più serie da affrontare: gli zombie, fuggiti dai laboratori dell’Arizona in cui la NASA li studiava, avevano invaso la Terra e i Rockefeller erano una delle poche famiglie prescelte per chiudere i conflitti una volta per tutte. Lo dissi a mio padre e lui mi rise in faccia, dicendomi: “Bambina, sei proprio sciocca: gli zombie possono anche distruggere il pianeta. L’unico modo per salvarci è prendere in mano le redini dell’Élite. Solo così potremmo proteggere i nostri cari, sebbene tutta la Terra sia invece destinata ad un esito differente.” Non gli credetti subito, ingenua com’ero, ma con l’aumento delle devastazioni mi convinsi che aveva ragione e che era compito mio distruggerti per sempre.»
Pronunciate quelle fatali parole, la voce di Annette tremolò e si spense. Le palpebre dei suoi occhi dapprima incendiati di prepotenza e furia fremettero e per un attimo Annette Rockefeller sembrò tornare umana. L’intervallo durò una manciata di secondi prima che il Male tornasse a possederla e ad ossessionarla con la sua vorace brama.
«Potevamo diventare amiche, Annette.», farfugliai, quasi incapace di credere alla mia stessa frase. Tuttavia, nonostante fossi un’anima frantumata tra odio e amore, dovevo ammettere che avrebbe potuto essere la realtà, in un mondo parallelo. Io e Annette, eccetto che per la fazione scelta, non eravamo poi tanto diverse: avevamo scelto sentieri comuni prima dell’età adulta ed eravamo state costrette entrambe ad adeguarci alla complessa società aristocratica, tessuta strategicamente da cospiratori e usurpatori che attendevano nell’ombra di approfittare delle vulnerabilità degli avversari.
Annette era molto più intrepida e metodica di me in merito alla politica: probabilmente il padre le aveva trasmesso i geni del carisma e della razionalità, che mancavano invece a me.
Lei scoppiò a ridere di gusto come se avessi appena fatto una battuta divertente. «Diamine, se esageri, Mackenzie! Non ho mai espresso il desiderio di avere come amica una subdola troia che mi ha rubato l’onore e si è portata a letto mio fratello allo scopo di manipolarlo. Continuerò a detestarti con tutta me stessa per il resto della mia vita: siamo agli antipodi di una guerra che non avrà vincitori, tuttavia ho una voglia matta di infilzarti la testa con una spada e di assistere alla strage sanguinaria che si scatenerà quando gli zombie scivoleranno sul tuo corpo per divorarlo fino all’ultimo brandello, magari scoprendo il sangue di traditrice che ti scorre nelle vene...»
Invasa dalla sorda e cieca rabbia che mi attanagliava da prima, afferrai la balestra ed incoccai la freccia.
Annette mi fissò come se, una volta tanto, l’avessi sconvolta. Stupefatta, spalancò le iridi di zaffiro e deglutì. Si ricompose in fretta optando per una smorfia indignata. «Dovevo aspettarmelo. Non hai ancora perso le vecchie abitudini, vero? Hai sempre l’ossessione degli attacchi a sorpresa. Non si fa così, sgualdrina.»
La freccia tremava tra le mie mani che la tendevano riversandovi tutti i dubbi e tutta l’angoscia. Avevo già ucciso, e poco fa: perché esitare, allora? Era vero, non avevo mai  ucciso esseri umani, bensì soltanto zombie assetati di sangue. Annette somigliava tuttavia più ad un demone: con i riflessi rosso sangue dei capelli, i denti piccoli e aguzzi ben digrignati, la pelle nivea che rammentava il marmo di una scultura arcaica ed i lineamenti deturpati dal Male che l’aveva assalita. Lei intanto mi contemplava e mi scherniva, ripetendo che non avevo fegato e che ero vigliacca, che lei aveva il coraggio di porre fine alla mia esistenza ed io invece mi corrucciavo perché fingevo di essere una persona innocente ingannando il prossimo. Disse che suo fratello l’aveva delusa, più che per il tradimento, per il cattivo gusto in fatto di ragazze. Disse che la mia viltà sarebbe perita nel rogo insieme a me. Continuò con i suoi perpetui anatemi, assuefatta delle ombre che la attorniavano e che parevano plasmarsi in incubi corporei. Compresi che stavo annegando sempre più nei diabolici tranelli del Male, ed avevo la possibilità di redimermi.
Quella era l’occasione per liberarmi una volta per tutte dai demoni e dalle fiamme nere che infestavano le mie notti. Senza più indugiare, sottrassi la presa e scoccai la freccia dritta verso la sua testa.
 
 
Fu l’errore più grosso della mia vita, sfidarLo con tale sfrontatezza. Il Destino non era né un demone come Annette né un messia come Cristo: era un’entità incorporea che dirigeva ininterrottamente le vicissitudini di ogni cosa.
Il Destino non aveva previsto che io uccidessi Annette; e quindi non lo permise. Quella mattina, la freccia maledetta, compiuta un’ampia traiettoria curvilinea accompagnata dagli spiragli dei raggi di sole, si era stagliata sulla parete, al di sopra la testa della ragazza. Senza scalfirla.
Annette, invece di infuriarsi e contrattaccare, aveva riso più forte, continuando con il suo elenco infernale di maledizioni che intendeva scagliarmi immediatamente, in modo che soffrissi adeguatamente prima della morte. Annette era una convinta sostenitrice della meritocrazia, pur intesa in un modo tutto suo.
Io, sconvolta, riflettei attentamente, interrogandomi su quale fosse stato il mio sbaglio in quell’azione impulsiva. Di solito non sbagliavo mai la mira, soprattutto con la balestra. Cosera andato storto?
L’illuminazione, degna di una filosofia approfondita sulla psiche umana, arrivò improvvisa e rivelatrice, mozzandomi il respiro. Escludendo la qualità della mira, c’erano altre ragioni per cui potevo aver fallito. Io non ero il Destino e non avevo alcun diritto di decretare giustizia o meno: solo Lui ne era in grado. Avevo sbagliato a scoccare quella freccia perché Annette non era altro che il mio incubo, il complesso dei demoni che custodivo nel mio inconscio e che non potevo sconfiggere definitivamente. Sarebbe tornata ad infestare le mie notti, nonostante le mie proteste. Li avrebbe assaliti con ogni fiamma cui fosse riuscita ad attingere, lambendoli di terrore e di oscurità. Mi sarei svegliata di soprassalto, da ora in poi, senza le rassicurazioni di Church. E, dedussi, senza il tepore delle carezze di Bram.
Avevo sbagliato a scoccare quella freccia perché il mio cuore era nel frattempo smarrito nel limbo fra amore e odio, senza più trovare i limiti e l’equilibrio di cui si alimentava l’anima: io ero sia bianco che nero, corrosa dal veleno dell’incertezza e dalla maledizione degli incubi. Non ero né Bene né Male bensì una pedina che, come tante altre, si era ritrovata sepolta nei meandri della Guerra senza che ne avessi mai assaporato le sensazioni. Avevo dovuto affidarmi all’istinto per orientarmi in quel campo in cui non ero affatto ferrata, e l’istinto era il vice del Fato.
Puoi salvarci, tu. Lila aveva visto in me la discordia fra i due estremi, che nel loro eterno tormento trovavano un intreccio logico e armonico, tipico della specie umana.
Lila aveva affidato le sorti non alla Bontà, ma al Destino. Si era rivolta a me poiché ero in quel momento tramite di una delle voci dell’oracolo.
Lila aveva riposto la sua fiducia nei piani escogitati dal Fato, come se soltanto quell’Intelligenza potesse rimediare alle sorti apocalittiche in cui era precipitata la Terra.
Tutta l’Apocalisse non era stata altro che l’immensa scacchiera di cui disponeva Lui, che aveva provveduto a porre degli esiti alla Guerra.
Lila si era sacrificata nel nome del Destino, convinta seguace della sua dottrina schematica e ultraterrena. Il mondo è come una spirale che si prolunga in eterno: i suoi rami ellittici non sono altro che le parole e le gesta di noi umani, inevitabilmente connesse fra loro.
Avevo sbagliato a scoccare quella freccia perché i Demoni non sono destinati a morire ma a rinascere nei vividi ricordi dei bambini per spazzar via i sogni dal loro naturale corso come una pioggia autunnale che soppianta la tiepida brezza estiva. Così come avevano assillato le mie notti da bambina, erano Destinati a farlo per il resto della mia vita, fiamme danzanti d’oscurità che ognuno di noi possedeva.
Avevo sbagliato a scoccare quella freccia poiché le fiamme nere, che divampavano sin dal momento della mia nascita, non si sarebbero mai esaurite. Potevo tentare di affrontarle dirimpetto ma avrei perso sempre perché dense di tutto ciò che avevo da temere del mio mondo. Si trattava di incubi plasmati delle mie fobie e di segreti mai confessati, creati dalla mia stessa mente. Era categoricamente impossibile vincere su di essi e spegnerli per sempre.  Il fuoco nero non aveva nulla da temere: sarebbe sopravvissuto in tutti i cuori, in tutte le anime umane.
L’unico modo in cui avrei potuto combatterlo sarebbe stato ostacolarlo per mezzo dell’intercessione del Destino.
La mia volontà, per quanto ardita, non sarebbe mai bastata a determinare da sola una conclusione.
C’era Qualcosa, lassù, che si intrometteva nelle nostre guerre e nelle nostre vite, senza chiedere il permesso. Otteneva il primato divino senza pretenderlo: lo aveva e basta.
Cominciai a crederCi, quando fallii miseramente con quella freccia. Mi accasciai sul pavimento, finalmente devastata di tutto, e urlai reclamando tutta la mia voce, esausta del peso degli incubi che mi schernivano e mi pungevano senza pietà, come mostri silenti incarnati nella realtà. La frustrazione sfociò tutta nel crollo emotivo che mi tolse ogni forza. Ero umana. Ero la viva preda di sogni ed incubi che non sarebbero mai svaniti. Ero preda della Vita.
Annette, intanto, si crogiolava nella sua meschina ed effimera vittoria ‒ l’aver sconfitto me ‒ : la bellezza sensuale che l’aveva sempre caratterizzata era stata del tutto guastata dall’avvento dell’oscurità sul suo corpo e sulla sua anima.
Annegava nel compiacimento di chi è stato graziato da un fato spaventoso mentre io, nel mio poco sconfitta, graffiavo la terra con le unghie e mi arrendevo all’inesorabilità della vita, rivedendo gli spettri animati dei miei genitori, di Alec, di Lila, di Church, di Terence. Morti. Morti.
Abraham. Un’irresistibile eco superstite della Guerra, sogno luminoso sulla cima di una montagna, che sembrava tuttavia irraggiungibile. Hai già assaporato il tuo Paradiso, Mackenzie, non puoi averne ancora.
Il mio corpo, spezzato dagli errori e dalla follia degli incubi, lo voleva. Lo voleva ancora, e oltre. Ambiva sentirsi infallibile, inattaccabile, invincibile. Anelava la sensazione della luce sulla pelle, della virtù che mi carezzava i pori e mi marchiava con le sue fiamme candide e gentili. Desiderava l’amore e tutte le altre cose belle, nonostante non potessi più averle.
La mia ultima preghiera da viva fu per Abraham e per il suo futuro. Mi auguravo che trovasse Sarah ed Eleazar, oltre la Barriera, e che formassero insieme una famiglia. Se la meritava, lui: anche il Destino, nel suo fatale distacco, avrebbe concordato. Doveva farlo.
L’esplosione sopraggiunse d’improvviso, e mi reclamò impetuosamente, strappandomi dal pavimento ed inondandomi di calore, sempre di più, molto più del limite umano. Divenni una sorta di supernova incandescente: i miei pori esplosero e il mio cuore palpitò furiosamente fino alla fine, fino a quanto poté. Dovevo rendermene merito: il mio cuore, a differenza della mia anima, aveva lottato fino alla fine, sfidando apertamente le fiamme nere che lo minacciavano.
I battiti si interruppero quando il calore si affievolì e non fui altro che uno spettro proiettato nella realtà metafisica. Osservai il mio corpo abbandonato sulla Terra, appena prima che le ustioni lo carpissero: capelli color biondo cenere, occhi color lapislazzuli, pelle nivea e labbra carnose. Ne avevo nostalgia: era grazie ad esso che avevo potuto appartenere totalmente ad Abraham. Era grazie ad esso che avevo potuto vivere.
Annette morì nel bel mezzo delle sue risate folli. Una morte indolore: più di ciò che si meritasse.
Mentre viaggiavo con la mente, sbirciai e osservai Abraham, in tenuta da guerriero, che attendeva qualcuno sulla soglia della porta della zona 11. Non sarebbe arrivato nessuno, però.
Fu in quel momento che m’immersi volutamente nelle fiamme ottenebrate, abbracciandole per una volta come se fossero vecchie amiche.
 
 
La Guerra era una ladra di sogni.
Li spiava da lontano, protetta dalla sua corazza di diamante e assuefatta di anime umane, e li rubava alla gente che le andava incontro. Se ne nutriva fin quanto riusciva e li abbandonava , in attesa che qualcun altro li cogliesse di nuovo.
I sogni non svanivano mai.

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