Le mille e una avventure di Ace e Marco

di Akemichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'arte imita la vita ***
Capitolo 2: *** Dietro la maschera ***
Capitolo 3: *** Il segreto ***
Capitolo 4: *** La maledizione ***
Capitolo 5: *** Eterno bambino ***
Capitolo 6: *** Bellezza ***
Capitolo 7: *** Il regalo ***
Capitolo 8: *** Riposo ***
Capitolo 9: *** Il cacciatore di taglie ***
Capitolo 10: *** Il genio ***



Capitolo 1
*** L'arte imita la vita ***


L'arte imita la vita
 

C'era una volta il meraviglioso regno di Blanco, un luogo paradisiaco con vegetazione rigogliosa e pieno di laghi e laghetti che lo rendevano uno dei territori più belli e ricchi dell'intero mondo. Il re del regno di Blanco era un uomo buono e giusto, oltre che uno dei maghi più potenti che fosse mai stato visto sulla terra. La popolazione lo adorava, perché trattava chiunque come se fosse un suo figlio ed era sempre il primo a intervenire se accadeva qualcosa nel suo regno, che fosse un attacco esterno o un fenomeno naturale o solo un conflitto in famiglia.
Il re del regno di Blanco era famoso anche per la forza dei suoi quindici cavalieri. Questi uomini erano con il re da quando erano bambini ed erano cresciuti con lui e lo chiamavano padre. Gli erano fedelissimi e ciascuno di loro aveva la forza di cento uomini. Tra di loro c'erano razze e esseri diversi: maghi, elfi, golem. Tutti vivevano in armonia, occupandosi ciascuno del regno secondo le proprie qualità e capacità.
I cavalieri erano rispettati dai sudditi per la loro benevolenza e temuti oltre i confini per la loro forza.
Questo però non significava che nessuno provasse a sfidarli o che il regno non fosse mai attaccato. Soprattutto la Repubblica, il paese che si trovava oltre le montagne che a est facevano da confine, aveva da sempre il desiderio di conquistare il Regno di Blanco e impossessarsi dei suoi tesori e dei suoi pozzi d'acqua. Fino a quel momento, però, i cavalieri erano stati capaci di respingere ogni attacco.
Un giorno d'estate al castello del re arrivò uno dei soldati a comunicare un altro attacco. Erano cose che capitavano di tanto in tanto e i cavalieri erano sempre pronti a intervenire, ma questo episodio era differente. Non si trattava di un esercito, né di un gruppo di banditi.
«È una persona sola» comunicò il soldato. «Ma possiede un potere elementare, quello del fuoco.»
I poteri elementari erano molto rari al mondo, perché derivavano dalle quattro creature più potenti del mondo: draghi, troll, ondine e ninfe. I maghi potevano solo imitare i loro poteri, mentre essere un elementare forniva loro la possibilità di essere quell'elemento. Erano creature molto forti e temute, perché leggendarie. La maggior parte di loro si era estinta quando la Repubblica aveva unito sotto la sua bandiera la maggior parte dei regni della terra, creando l'alleanza dei Sette Regni. Avevano dato loro la caccia e li avevano sterminati, nonostante la resistenza del Regno Dorato, che era capitanato da Rogo il Drago Rosso.
Il fatto che un elementare del fuoco stesse attaccando il loro regno attirò l'attenzione di tutti i cavalieri e del Re di Blanco, che un tempo aveva avuto l'occasione di scontrarsi con Rogo e sapeva bene quanto pericoloso potesse essere quel potere.
«Padre, permettimi di andare a sconfiggere questo nemico» si offrì il Primo Cavaliere del Regno, il cui nome era Omar, un mago guaritore.
«Vai pure, figlio mio» rispose il re. «Ma non ucciderlo. Portalo da me.»
Omar annuì. Prese il suo cavallo, un unicorno azzurro che correva come il vento, e raggiunse i confini del regno, dove l'elementare del fuoco era stato visto per l'ultima volta. E, in mezzo a una radura che era stata trasformata in una piazza di cenere ancora calda, trovò l'elementare del fuoco che dormiva, la testa appoggiata sul suo stesso braccio, il corpo circondato dalle ossa degli animali che aveva ucciso e che aveva mangiato.
Quando sentì lo zoccolo dell'unicorno che si avvicinava a lui, però, si svegliò e si alzò in piedi, in posizione di attacco. Omar tirò le briglie, in modo che l'unicorno si fermasse con un'impennata e un nitrito alto, quindi scese e fece due passi in avanti verso l'elementare del fuoco, che non era altro che un ragazzo appena maggiorenne.
«Sei tu il Re di Blanco?» domandò con rabbia, mentre continuava a scrutare il cavaliere, le mani già avvolte dalle fiamme.
«No. Io sono il Primo Cavaliere del Regno, Omar.»
«Allora non mi interessi» rispose l'elementare del fuoco. «Sono qui per uccidere il re, non ho tempo da perdere con te.»
«Ti manda la Repubblica?»
L'elementare del fuoco sbuffò. «Non ho niente a che fare con loro. Sono qui per me stesso e nessun altro.»
«Qual è il tuo nome? Io mi sono presentato, sarebbe cortese da parte tua ricambiare» aggiunse Omar, perché l'altro esitava.
«Sono Lacey. Lacey da Lisboa.»
«Molto bene, Lacey da Lisboa» disse Omar, mentre estraeva la sua spada dal fodero. «Non puoi certo affrontare il Re se prima non sei alla mia altezza.»
Se si guardava la scena dall'esterno, l'imparità della situazione era evidente.
Lacey, pur possedendo un potere elementare, non era altri che un ragazzino. Non aveva scarpe, per cui i suoi piedi nudi affondavano nella cenere che lui stesso aveva creato. Addosso aveva solo una camicia color panna troppo larga per lui, dato che gli arrivava ben oltre la cintura, e un paio di pantaloni che invece erano troppo corti e a malapena superavano il ginocchio. I capelli neri erano lunghi e spettinati.
Omar indossava un vestito nero, ornato sul busto e sulle maniche da decorazioni geometriche e floreali cucite con fili d'argento. Una camicia di seta spuntava appena dal collo del vestito. Ai piedi calzava alti stivali di cuoio, così come di cuoio erano i guanti che gli proteggevano le mani. Completava il quadro un mantello rosso scuro, stretto sul collo da una spilla argentata, che si agitava attorno a lui, così come i suoi lunghi capelli dorati e lisci. Anche la sua spada affilata aveva intarsi in argento e oro.
Il paragone tra Lacey e il Primo Cavaliere del Regno di Blanco era impietoso.
 
«Ma insomma!» sbottò Ace.
«Che cosa c'è?» Satch guardò verso la sua direzione, un'espressione innocente sul viso.
«Stai esagerando» gli disse. «Va bene, ero ridotto male ma avevo anche combattuto cinque giorni con Jinbe. E il miei pantaloni sono corti apposta. Non c'è niente che non vada nel mio stile.»
«Ace, tesoro, questa è la storia di Lacey, mica la tua» rispose Satch. E poi sorrise divertito.
«Sì, vabbé, vallo a raccontare a qualcun altro.»
«Lasciatelo dire, hai manie di protagonismo» proseguì Satch. «Ora dirai anche che Omar è Marco. Come se lui avesse davvero i capelli strafighi del cavaliere della storia. Insomma, guardalo.»
Marco, che fino a quel momento aveva solo ascoltato la storia e la discussione con aria annoiata, inarcò appena un sopracciglio. «Scusami?»
«In ogni caso, i bambini vogliono sapere come finisce lo scontro fra Lacey e Omar, non sono interessati a te, vero?»
«Vero!» rispose il coro di bambini seduti di fronte a loro, i visi tondi e gli occhi grandi rivolti verso Satch, in attesa che continuasse il racconto.
Ace sbuffò. Era fin troppo ovvio da dove Satch avesse preso ispirazione per raccontare la sua storiella, per quanto potesse negare. E anche se quei bambini di certo non potevano comprendere da dove arrivasse, non era bello vedere la sua vita spiattellata in quella maniera.
Si stava quasi pentendo di aver accettato quell'incarico. Ma, in quanto nuovo eletto Comandante della ciurma di Barbabianca, Ace sentiva ancora maggiormente il peso della responsabilità nei confronti dei compagni, degli alleati e dei territori. Così era stato il primo ad offrirsi per occuparsi dei figli degli abitanti dell'isola in cui erano sbarcati, mentre questi ultimi, con il Babbo e altri Comandanti si occupavano di controllare lo stato della zona e delle provviste.
Dopotutto, si era detto, aveva fatto da baby-sitter per anni a Rufy ed era convinto che fosse impossibile che quei bambini fossero terribili anche solo la metà di lui. Se la poteva cavare. Certo non immaginava che Satch fosse così incuriosito dal suo offrirsi volontario da unirsi a lui per controllare personalmente e di certo nemmeno che finisse a raccontare la storia della sua vita sotto forma di favola.
Scoccò un'occhiata a Marco: lui aveva avuto il compito di sorvegliare la nave con la sua Divisione, quindi aveva finito per rimanere in loro compagnia con i bambini, che a quanto pare lo adoravano. Si chiese che cosa ne pensasse lui dell'intero racconto, ma Marco si limitò a sorridere appena.
«Credo che a Lacey non andrà poi così male.»
 
Il potere del fuoco era temibile, ma non poteva nulla contro la forza del Primo Cavaliere, la cui magia gli permetteva di rigenerarsi da qualsiasi ferita. La sua spada fendeva e separava in  due le fiamme che venivano lanciate nella sua direzione e, di contro, apriva ampi tagli sulla pelle di Lacey.
Lo scontro non durò a lungo, ma, come il Re gli aveva ordinato, Omar non uccise il suo avversario, lo trascinò in catene al cospetto del suo sovrano. Lacey era troppo ferito per poter ancora usare il suo fuoco, ciò nonostante gli altri Cavalieri si disposero attorno al Re per assicurarsi che non potesse nuocergli.
Omar spiegò per sommi capi quello che era successo durante il combattimento e il Re si limitò ad ascoltare senza dire nulla, accennando solo con il capo di tanto in tanto. Poi concentrò la sua attenzione su Lacey, che nonostante le numerose ferite non aveva smesso un attimo di agitarsi nelle catene che lo tenevano imprigionato.
«Sono in molti quelli che hanno provato a uccidermi nel corso degli anni, Lacey da Lisboa» affermò, alla fine, dopo aver riportato lo sguardo su di lui. «C'è chi ci ha provato per denaro, chi per potere, chi per vendetta. Tu a che cosa miri?»
«Sono fatti miei!» ribatté Lacey. Una fiammata si sprigionò dalle sue mani e in un attimo le catene diventarono metallo liquido che scivolò sul pavimento.
I Cavalieri si spinsero in avanti mentre Lacey scattava, ma prima che potessero intervenire il Re aveva lanciato una delle sue magie: Lacey fu bloccato a terra da una potente scossa di gravità, che lo tenne fermo e gli schiacciò i muscoli e gli scricchiolò le ossa. Quando l'incantesimo cessò, il Re sapeva che non si sarebbe più potuto muovere.
Questo non impedì a Lacey di provarci ancora, spingendo con le mani e con le ginocchia per rimettersi in piedi. Era ferito, sconfitto e arrabbiato, ma nel suo sguardo c'era ancora una scintilla di volontà che non erano riusciti a spegnere.
Il Re scoppiò a ridere. «Nessuno dei miei avversari si è spinto così lontano pur di uccidermi» commentò. «Per cui te ne darò la possibilità.»
I Cavalieri voltarono lo sguardo verso di lui, gli occhi spalancati per la sorpresa. Il Re non prestò loro alcuna attenzione, sempre focalizzato su Lacey, che aveva smesso di muoversi e ora pareva in qualche modo ascoltare quello che gli diceva.
«Cento tentativi, questo sarà il tuo limite» proseguì il Re. «Se al centesimo non ci sarai riuscito, dovrai unirti a me.»
Lacey rimase con la bocca e gli occhi spalancati dalla sorpresa. «Mi stai prendendo in giro?» abbaiò.
«No» scosse la testa il Re. «Puoi non accettare e in questo caso dovrò ucciderti subito. Oppure puoi accettare e continuare a provare a uccidermi, sempre se ci riuscirai, ovviamente.»
«Non mi unirò mai a te» affermò Lacey. «Se non riuscirò a ucciderti morirò provandoci.»
 
«Mmmmm.»
Satch si interruppe e lanciò ad Ace un'occhiata annoiata. «Che cosa c'è, ora?»
«Non mi ricordo che le cose siano andate proprio così...»
«Ancora? Non è la tua storia, te l'ho già detto.»
Ace alzò appena le sopracciglia, come a indicare che poteva dire quello che voleva, tanto non gli avrebbe creduto.
«In realtà sono d'accordo» convenne Marco. Era seduto un attimo più indietro rispetto ai due compagni e sorrideva appena. «Io ricordo che un certo Cavaliere si mise in mezzo e finì quasi bruciato per essere stato troppo amichevole.»
«Non è affatto vero» ribatté Satch. «Stavo solo cercando di essere gentile.»
«Oh, ma io stavo parlando della storia di Lacey e del regno di Blanco. Tu cosa c'entri?» rispose Marco, con finta noncuranza.
Ace scoppiò a ridere, soprattutto guardando il viso seccato di Satch per essere appena stato preso in contropiede.
«Ecco, appunto, torniamo a raccontare la storia di Lacey» disse Satch, giusto per riportare la conversazione su un binario corretto.
«Sono d'accordo» convenne Ace, con un sorrisetto furbo.
 
Il Re aveva rispettato la parola data. Dopo aver concesso a Lacey le cure necessarie per riprendersi dal suo scontro con il Primo Cavaliere, gli aveva lasciato ampio spazio di movimento all'interno del castello. Lacey poteva muoversi liberamente, senza che nessuno dei soldati, nemmeno i Cavalieri, cercasse di fermarlo. Aveva inoltre libero accesso alla dispensa, all'infermeria e al deposito di armi, a cui attingeva quotidianamente.
Aveva già capito che il suo fuoco, per quanto pericoloso, non era sufficiente ad abbattere il Re. Allora le stava provando tutte, dalle spade ai cannoni, agli agguati notturni al veleno. Nulla sembrava scalfire quell'uomo enorme che lo trattava come fosse una semplice, fastidiosa mosca.
L'umore di Lacey peggiorava di tentativo in tentativo, mentre la sua rabbia cresceva.
Ma mentre le cento possibilità che gli erano state date per portare a termine il suo obbiettivo diminuivano, c'era qualcosa che aumentava dentro di lui ed era la stima e l'ammirazione che provava per il Re e per i suoi quindici Cavalieri. Non era qualcosa che gli faceva piacere ammettere, nemmeno a se stesso. D'altronde, però, i motivi per cui voleva ucciderlo non avevano nulla a che fare con la persona che era.
Il Re era buono e giusto e amato da tutti. I suoi Cavalieri avevano imparato da lui e Lacey poteva vedere l'energia che mettevano nei loro compiti quotidiani, soprattutto nei confronti dei sudditi. Ammirava le loro capacità di combattimento, che erano molto variegate, e il modo con cui le coniugavano con la normale amministrazione del regno.
Più di tutti, Lacey guardava con ammirazione al Primo Cavaliere Omar. Una volta sbollita la rabbia e la delusione per la sconfitta in combattimento, era tornato a guardare indietro quello che era successo e non aveva potuto negare a se stesso che Omar aveva delle abilità notevoli e una capacità di leggere la situazione da cui si poteva solo imparare.
Di tanto in tanto, di nascosto, Lacey lo osservava mentre lavorava: adorava il suo modo di rivolgersi alle persone, sempre gentile, con un'empatia che lui non riusciva ad avere allo stesso modo. Non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno dei suoi compagni Cavalieri, ma allo stesso tempo si faceva carico di tutto quello che poteva e li aiutava in ogni situazione. Era una persona abile, affidabile e gentile. In situazioni normali, Lacey avrebbe voluto conoscerlo meglio.
E l'empatia di Omar si manifestò anche nei suoi confronti. Lacey aveva appena fallito il suo novantanovesimo tentativo e, paradossalmente, i Cavalieri stavano festeggiando. Ancora un'ultima occasione e, come da accordi, Lacey avrebbe dovuto unirsi a loro. Per motivi che lui non sapeva ancora spiegarsi lo trovavano simpatico e volevano che rimanesse nel regno.
Però, per quanto Lacey li ammirasse, dentro di lui c'era ancora indecisione e delusione e tristezza. Così, incapace di ascoltare quelle risate allegre e quei festeggiamenti, si era ritirato in un'ala più nascosta del castello, seduto per terra con le spalle appoggiate al muso e seduto per terra.
Aveva fame, ma non sarebbe andato verso la dispensa o la sala da pranzo finché la festa non sarebbe finita. Fu Omar, perciò, a portargli una tazza di minestra fumante. Non gli disse nulla, semplicemente la appoggiò a terra al suo fianco, affinché mangiasse.
«Grazie» mormorò Lacey, ma non fece un movimento per raggiungere la ciotola.
Allora Omar parlò. «Non fare il centesimo tentativo.»
«Perché?» si stupì Lacey.
«Il nostro sovrano non ti ha proposto questa sfida per vincerla, ma per darti il tempo di decidere per conto tuo» gli spiegò Omar. «Devi essere tu a voler unirti a noi prima di esserne costretto. Devi essere libero di farlo.»
E Lacey capì la possibilità che gli era stata data e decise di coglierla. Finché non avrebbe attentato una centesima volta alla vita del Re, avrebbe potuto rimanere con loro per sempre.
Quando Ace terminò di parlare, il suo sguardo non era già più concentrato sui bambini, ma su Marco, con le labbra appena increspate da un sorriso e gli occhi che brillavano. Marco ricambiava lo sguardo, ma non il sorriso e una sottile ruga gli era comparsa sulla fronte.
«Non mi ricordo che siano andate proprio così, le cose» commentò Satch.
«Ancora?» disse Ace. «Ma non avevamo detto che la storia non aveva alcuna attinenza con la realtà?»
Satch sbuffò. «Sì, mi dà solo fastidio che sei intervenuto nella mia storia.»
«Perché? Volevi far morire Lacey? O volevi che sconfiggesse il re?»
«Ma certo che no! Però stava per entrare in scena il magnifico Quarto Cavaliere che avrebbe risolto tutto!»
«Sicuro...» lo prese in giro Ace. «Secondo me volevi solo descrivere il suo vestito.»
Prima che Satch potesse ribattere, si sentì confusione in fondo alla strada: Barbabianca e i comandanti che erano con lui stavano ritornando dal loro giro d'ispezione, accompagnati dagli abitanti dell'isola. I bambini individuarono subito i loro genitori e, per un attimo dimentichi della storia che stava venendo loro raccontata, corsero verso di loro a farsi abbracciare.
«Tutto bene?» domandò Barbabianca, visibilmente divertito, ai tre comandanti, che annuirono.
«Sì, stavano raccontando la favola di un cavaliere» lo informò uno dei bambini.
«Che voleva uccidere il re ma non ci riesce» aggiunse un altro.
«Questa l'ho già sentita...» commentò Vista, con un sorrisetto, e Ace alzò gli occhi al cielo, con la speranza che anche a lui non venisse in mente di rielaborare la storia a modo suo.
«Satch, visto che hai fatto il furbo per tutta la giornata, adesso abbiamo bisogno di te per sistemare le provviste» gli fece presente Jaws.
«Sì, sì, lo so.»
«E la storia?» domandò un altro dei bambini.
«Domani finisco di raccontarvela.»
«Guarda che domani dobbiamo rimetterci a navigare» gli fece presente Marco.
«Oh. Vero.» Satch sembrava quasi deluso. «Be', Lacey accetta di diventare un Cavaliere del Re e lui e Omar si sposano e vissero tutti felici e contenti» disse in fretta, a una serie di bambini nient'affatto convinti che la storia si fosse risolta così facilmente benché, nella realtà, i fatti si fossero svolti in maniera molto simile.
«Quella del matrimonio te la potevi risparmiare» commentò Ace, una volta che furono tornati a bordo della Moby Dick, lontani da orecchie indiscrete.
«E perché?» rispose Satch in tono canzonatorio. «È la mia storia, la posso far finire come mi pare e piace. Mica ha a che fare con voi due piccioncini.» E, per evitare che Ace potesse replicare, si incamminò a passo più svelto nel corridoio, in direzione della dispensa, a rispettare quello che Jaws gli aveva detto sulle provviste.
Ace sospirò e poi si voltò a guardare Marco, per vedere se anche lui era rimasto in qualche modo imbarazzato dal modo in cui Satch aveva concluso il racconto ai bambini. Marco era serio come al suo solito.
«Non avresti dovuto dire quelle cose» disse, alla fine.
«Di cosa stai parlando?» si stupì Ace.
«Intendo il modo in cui hai fatto parlare Lacey di Omar» gli spiegò allora Marco. «In realtà parlavi di te stesso e del modo in cui mi vedi, vero?»
Ace avrebbe potuto ribattere allo stesso modo di Satch, con tutto il discorso che era una storia inventata, ma il tono di voce con cui Marco gli stava parlando era troppo serio perché gli venisse voglia di scherzare.
Quindi disse: «E perché no? L'ho detto appunto perché è vero.»
Marco sospirò e lo superò nel corridoio. «Lo sai che sono innamorato di te?»
«S-sì.» Ace avvampò. Per lui, che di tanto in tanto aveva ancora difficoltà a credere di poter piacere alle persone, era difficile accettare che Marco potesse ammettere così candidamente qualcosa come l'essere innamorato di lui. Era una cosa che Ace non aveva ancora pronunciato ad alta voce, benché dentro di sé ne fosse consapevole, perché aveva difficoltà a renderlo reale.
«Ho sempre pensato che una relazione fra due persone funziona perché è un rapporto alla pari» continuò allora Marco. «E non mi piace avere l'impressione che mi ha dato il racconto.»
«Che tipo di impressione?»
«Di venerazione.»
Ace si fermò un po' a riflettere sulla questione. «Io non ti venero» disse infine. «Però è vero che ammiro molte cose di te. E... mi piaci» sussurrò infine, «proprio perché apprezzo queste cose. È così sbagliato?»
«No, non è sbagliato.» Marco si voltò verso di lui e sorrise dolcemente. «Ma, forse perché sono così tanto più grande di te, ho sempre paura che da parte tua ci sia del senso di inferiorità nei miei confronti. E non è una bella sensazione.»
«Non è così» assicurò Ace. Non stava mentendo, non del tutto. Il suo senso di inadeguatezza lo colpiva di tanto in tanto, ma era qualcosa che riguardava ogni singolo rapporto, non era concentrato su quello con Marco perché era speciale. E se stava bene in sua compagnia era perché si sentiva a suo agio, cosa che non sarebbe riuscito a fare se si fosse sentito in qualche modo inferiore a Marco. E Marco gli aveva appena aperto il suo cuore dimostrando di avere delle insicurezze.
«Va bene. Scusa se ti ho messo in imbarazzo prendendo troppo seriamente una favola.»
«Non importa» scosse la testa Ace. «E comunque un po' è vero che ho ancora tante cose da imparare.» E sorrise malizioso.
«Oh, davvero? E cosa?»
«Be', ad esempio non mi hai ancora fatto stare sopra.» E si allungò verso di lui per baciarlo.
«E dovrai imparare ancora parecchio prima di farlo, ragazzino» replicò Marco, mentre poggiava le mani sui suoi fianchi per stringerlo a sé.
«Possiamo iniziare la lezione anche subito» ribatté Ace.
E così raggiunsero la cabina di Marco continuando a baciarsi e a rimanere appiccicati ed Ace dimenticò completamente l'intera storia di Lacey, di Omar e di come avrebbe potuto concludersi veramente il racconto se non fossero stati interrotti.
 
Nonostante la sconfitta subita dal Re, le capacità di Lacey come combattente erano fuori discussione. Non si trattava solamente dei suoi poteri elementari del fuoco, ma anche delle sue capacità fisiche che aveva continuato ad affinare anche quando si era unito ai soldati del regno.
Essendo abituato a vivere da solo così a lungo, aveva l'abitudine di andare spesso in missione senza scorta, senza nemmeno aspettare che gli venisse ordinato. Però sentiva molto il peso dell'onore del Re di Blanco e di quello che comportava, per cui le prede che catturava e i nemici che sconfiggeva non erano per orgoglio personale, ma per dimostrarsi all'altezza della persona che aveva iniziato a stimare con tutto se stesso.
Era solo una questione di tempo prima che gli venisse chiesto di diventare il Sedicesimo Cavaliere e, quando la proposta arrivò, nessuno ne fu sorpreso, tranne Lacey. Una parte di lui non si sentiva ancora pronto, data l'esperienza che contraddistingueva gli altri, ma erano tutti d'accordo nel sostenere che, al contrario, fosse un'ottima decisione. Il Quarto Cavaliere l'aveva canzonato sul fatto che, finalmente, si sarebbe messo qualcosa di decente addosso invece dei soliti stracci e dei piedi nudi, ma non era l'armatura scintillante o la spada o un paio di stivali a cui Lacey ambiva.
Era il pensiero di poter ancora portare sulle spalle l'orgoglio del nome del Re di Blanco.
Il giorno della nomina a cavaliere Lacey era euforico. Non si sentiva così bene da anni. L'ombra nera che lo aveva spinto a combattere e a cercare di uccidere il sovrano si era momentaneamente allontanata dal suo pensiero e ora la sua mente era unicamente concentrata sull'essere a un passo dal sedersi alla tavola dei Cavalieri.
Balzò giù dalla sua branda al primo mattino, quando tutti gli altri soldati della caserma ancora dormivano, e fece una passeggiata nel parco del castello, lasciando che il sole gli baciasse la pelle.
Alla cerimonia, oltre ai Cavalieri, sarebbero stati presenti anche i signori dei feudi del regno di Blanco. Lacey aveva imparato a conoscerli tutti durante le sue missioni in solitaria e molti l'avevano sempre trattato da amico. Qualsiasi imbarazzo avrebbe potuto provare a essere scrutato da così tanti occhi era mitigato al pensiero che sarebbero stati tutti volti di persone a cui teneva.
Così accolse con un sorriso il vedere, in lontananza, la figura di Squad, il signore del Decimo Feudo, che era seduto in un angolo del parco reale a lucidare la sua lunga spada.
Poiché Lacey non sarebbe stato un cavaliere ancora per qualche ora, si presentò davanti a lui facendo un profondo inchino.
«Mio signore, le porgo i miei omaggi.»
Squad alzò la testa e sorrise. «Lacey, ragazzo mio! Vieni, siediti qui al mio fianco.»
Lacey obbedì e, in modi decisamente meno formali, si accomodò sulla panca, lasciando le gambe libere di ondeggiare in avanti.
«Oggi è il gran giorno. Come ti senti?»
«Bene» ammise Lacey. «Davvero bene.»
«Sai, devo confessarti che la prima volta che mi hanno parlato di te ero un po' scettico» confessò Squad. «Gli elementari del fuoco mi riportano alla mente Rogo il Drago Rosso. Probabilmente ne hai sentito parlare.»
Lacey si irrigidì, mentre annuiva, ma Squad non se ne accorse, perché proseguì: «È stato lui a distruggere quello che una volta era il mio regno, prima che il sovrano di Blanco mi accogliesse come suo vassallo. Non ho un bel rapporto con il fuoco e con i draghi, come puoi immaginare.» Si voltò verso di lui e gli pose una mano sulla spalla. «Ma il nostro sovrano non accoglierebbe mai presso di noi qualcuno legato al Drago Rosso, per rispetto a tutti noi. E sono felice di essere tuo amico.»
«Grazie...» riuscì a mormorare a malapena Lacey, la bocca che gli era diventata secca e il cuore che gli batteva così forte da sentirlo rimbombare nelle orecchie, con la paura che l'altro cogliesse la sua inquietudine.
La realtà, che Lacey non era ancora riuscito a confessare a nessuno, era che suo padre altri non era che il famigerato Rogo, il drago che aveva combattuto i Sette Regni. Ne era uscito sconfitto, ma portando con sé dei segreti che, una volta rivelati, avrebbero potuto sconvolgere il mondo intero. E quei segreti giacevano da qualche parte per la terra, per gli avventurieri che erano disposti a tentare.
A Lacey, carne della sua carne, quei segreti non interessavano. Quando era già il ricercato più pericoloso e sapeva di stare per morire, aveva preso con sé un'umana e ne aveva fatto la sua compagna. Poi era morto, lasciandola con suo figlio in grembo, un mezzo drago elementare del fuoco che l'aveva uccisa venendo alla luce.
Lacey non si poteva perdonare per essere stato la causa della morte di sua madre, ma ancora meno poteva perdonare suo padre, che, ben sapendo che per lei non ci sarebbe stata salvezza, l'aveva abbandonata al suo destino, lasciando solo anche lui. E così aveva vissuto per anni, sopravvivendo con quello che trovava e con la certezza che, se il mondo avesse scoperto chi era realmente, la sua vita sarebbe finita. Non aveva colpe, se non quella di avere Rogo per padre.
Cercare di uccidere il re di Blanco, eterno rivale del Drago Rosso, era stato un suo tentativo di scrollarsi una volta per tutti il nome di suo padre. Avrebbe potuto tornare nella Repubblica con la schiena diritta, perché le persone non avrebbero guardato più a lui come all'elementare del fuoco che poteva avere qualche collegamento con i draghi.
Ora non gli interessava più, perché aveva trovato un posto dove preferiva stare e che era il suo orgoglio più di quanto potessero esserlo le persone che abitavano nei Sette Regni, ma le parole di Squad lo avevano riportato alla realtà. Se il re o i Cavalieri avessero scoperto chi era in realtà, l'avrebbero cacciato.
Ma Lacey li rispettava troppo per accettare la nomina senza confessare la verità.
Così, una volta che Squad ebbe lasciato il parco per tornare dai suoi uomini che erano venuti a prenderli, Lacey si recò alle scuderie. Omar gli aveva concesso di poter usare il suo unicorno blu, che si era ormai affezionato a lui. Così lo sellò e gli saltò in groppa, allontanandosi verso le montagne che aveva scalato la prima volta per entrare nel regno.
Simili distanze sarebbero state impossibili da percorrere per un cavallo normale, ma un unicorno aveva una velocità superiore, per cui Lacey sapeva che avrebbe potuto essere sulla cima e ritornare in tempo per prepararsi alla cerimonia.
Solo, aveva bisogno di un attimo di tempo per pensare a come dire al re la verità. Era probabile che, alla fine del giorno, non si sarebbe tenuta nessuna cerimonia. Gli dispiaceva solo per tutti i signori feudali che si erano dovuti muovere dalle loro terre per nulla.
Aveva legato l'unicorno a un albero e si era accomodato a sonnecchiare sotto un albero, come era solito fare quando era un viandante, per riprendere coraggio, quando sentì dei movimenti di fronte a pochi passi da lui. Le montagne erano il luogo ideale per entrare indisturbati nel regno, dato che erano troppo lontane da qualunque centro abitato e troppo vaste per essere sorvegliate. Lui stesso aveva usato uno dei tanti sentieri presenti per passare.
Così fu certo che potesse essere qualche intruso e, con cautela, si mosse verso la fonte del rumore. Se si fosse trattato di nemici li avrebbe fermati prima ancora che potessero entrare nel regno.
E nemici erano senza dubbio, lo dicevano le casacche che indossavano con l'insegna della Repubblica, ma non erano i soliti pazzi che decidevano di darsi all'avventura. Lacey conosceva abbastanza i Sette Regni per riconoscere il loro rango come soldati scelti. E gli unicorni che ciascuno dei cinque che componeva il gruppetto teneva per la briglia lo dimostrava, dato che erano animali rari consegnati solo ai cavallerizzi più esperti.
Benché creature magiche, gli unicorni restavano sempre cavalli, quindi Lacey si limitò a far danzare il suo fuoco sotto forma di piccole luci scintillanti, quando bastava a terrorizzarli. Gli unicorni si imbizzarrirono e si impennarono, facendo perdere ai cavalieri la presa sulle briglie. Non appena si fu diffuso il caos e i cavalieri furono troppo occupati a cercare di calmare i propri destrieri, Lacey uscì dal suo nascondiglio, pronto ad attaccare il primo soldati che gli si parò davanti.
Come aveva immaginato, non erano persone normali e le armature che indossavano sembravano essere immuni al suo fuoco. Fortunatamente Lacey aveva dalla sua ben altre armi che il suo elemento, quindi riuscì ad avere la meglio in poco tempo del suo avversario. Ma quando tornò a rivolgersi ai quattro mancanti, questi dimostrarono di non aver affatto voglia di combattere, perché gli gettarono contro tutto il contenuto dei loro bagagli.
Lacey si limitò a tramutare tutto il suo corpo in fuoco, in modo che gli oggetti che gli venivano lanciati non potessero ferirli, ma una delle reti metalliche lanciate nella sua direzione lo colpì nonostante le fiamme e Lacey si ritrovò preso nelle sue maglie. Mentre cercava di divincolarsi, due dei cavalieri lo atterrarono e bloccarono alcune delle maglie della rete per terra, in modo che questa lo bloccasse completamente contro il terreno.
Lacey illuminò ancora di fuoco il suo corpo, per fare in modo che il metallo si sciogliesse, ma la rete brillò di colore rosso e una scossa gli attraversò il corpo. Lacey urlò per il dolore e per la sorpresa e il suo corpo, come reazione involontaria, si spense.
«Funziona... Funziona!» C'era sollievo nella voce di uno dei soldati.
Lacey cercava di divincolarsi dalla rete senza usare il suo fuoco, ma ormai era saldamente bloccato e in qualche modo le forze gli erano state rubate. Allora, con un'occhiata aggressiva, si voltò verso il capo del gruppo, che ora troneggiava sopra di lui.
«Avevamo intenzione di raggiungere la capitale e catturarti prima della cerimonia» commentò lui. «Ti ringrazio per avermi risparmiato un viaggio inutile.» Accennò ai suoi uomini. «Recuperate gli unicorni, dobbiamo tornare a Repubblica il più in fretta possibile.»
Lacey finse di non capire perché stessero cercando proprio lui e tentò nuovamente di accendere il suo fuoco, ma la reazione fu identica a quella del primo tentativo. In qualche modo, le catene erano state forgiate con una magia che impediva al suo potere elementare di funzionare.
«È tutto inutile, quindi puoi anche smettere di provarci» gli disse il capo. «Finalmente potremo porre fine alla dinastia dei draghi con l'uccisione dell'ultimo, il figlio di Rogo il Drago Rosso.»
E le paure più profonde di Lacey tornarono alla luce. Non voleva morire, ma sapeva che ormai era inevitabile. Anche se la notizia della sua cattura fosse arrivata al regno di Blanco, sarebbe stata accompagnata dalla verità sulla sua identità. E nessuno sarebbe mai venuto per lui, a quel punto.
 
Ace si svegliò di scatto. Non era sudato, perché era fatto di fuoco, ma il cuore gli stava battendo così forte che lo aveva svegliato. Oltre all'incubo. Accidenti a Satch e alla sua stupida storia che aveva riportato alla mente cose che non voleva ricordare.
Al di fuori del sogno erano paure stupide, perché Ace aveva già confessato al Babbo e ai suoi compagni la vera identità di suo padre e non solo loro non l'avevano cacciato, ma gli avevano assicurato che non importava affatto. Ciò non toglieva che certe paure erano dure a morire nonostante tutto e il ripensare al passato le aveva riportate indietro sotto forma di sogni su strane favolette.
Accanto a sé, Marco dormiva, voltato di lato con la testa seminascosta dal cucino e le braccia piegate sotto di lui. La prima tentazione di Ace fu quella di accoccolarsi accanto a lui, ma il sogno era così radicato dentro di lui che sentiva di aver bisogno di prendere un po' d'aria. Così scostò il lenzuolo dal corpo.
«Che cosa c'è?»
Marco aveva aperto appena gli occhi, ma non si era mosso dalla sua posizione.
«Nulla. Vado solo a pisciare.»
«Tu non ti svegli mai per andare in bagno» fece presente Marco.
Ace sapeva che, ormai che era sveglio, lo sarebbe rimasto finché non fosse tornato. Per cui si sdraiò di nuovo accanto a sé. «Ho fatto un brutto sogno» ammise.
Marco allungò le braccia e lo strinse a sé, la schiena che premeva sul suo petto. «Cos'hai sognato?»
«È una cosa stupida» disse Ace.
«Raccontamela lo stesso.»
E così Ace gli spiegò per filo e per segno il sogno, quasi rammaricandosi di come gli fosse rimasto così vivido nonostante tutto. Di solito non ricordava mai bene quello che sognava la notte.
«Lo sai che a noi non importa chi sia suo padre» commentò Marco, alla fine della storia. Il tono era dolce, ma serio.
«Lo so, lo so!» Ma non era così facile.
Marco sospirò. «Allora, perché non finiamo la storia di Lacey?» gli propose.
«Vorresti continuare a inventarti una favola?» si stupì Ace.
«E perché no? Tanto adesso nessuno di noi due riuscirà più a dormire.»
 
Lo avevano ammanettato con lo stesso metallo che impediva ai suoi poteri di funzionare. Cerchi di metallo gli stringevano i polsi, costringendo a tenerli uniti dietro la schiena, mentre una sottile catena che partiva dal loro punto di congiunzione era stata avvolta in maniera disordinata lungo tutto il suo torso, in modo che anche le braccia fossero immobili al suo fianco. La catena proseguiva poi al termine di un'alta colonna che era stata eretta al centro della piazza di Repubblica, di modo che Lacey fosse appeso dondolante, le gambe sospese, alla vista di tutti.
I saggi di Repubblica volevano ucciderlo, ma questo non impediva loro di volerne fare un esempio per tutti. I sudditi dei Sette Regni dovevano sapere che a nessuno era permesso sfuggire al controllo della Repubblica e che tutti i colpevoli sarebbero stati puniti. Così avevano preparato quella specie di patibolo improvvisato e, mentre invitavano tutti alla sua esecuzione, l'avevano lasciato alla vista, come un trofeo.
Lacey poteva benissimo vedere l'odio e la paura che gli abitanti della città gli stavano scoccando, ma non gli importava. L'unica cosa a cui pensava era il re di Blanco e i suoi quindici Cavalieri, che forse avevano avuto la notizia e stavano tirando un sospiro di sollievo al pensiero di aver evitato di prendere fra le loro fila il figlio di Rogo. Lacey strinse le palpebre per proteggersi dal sole e per non piangere: poteva accettare l'odio di tutti, ma non quello del sovrano che ammirava tanto.
Li riaprì solo quando sentì lo squillo delle trombe. L'esercito si era radunato, perfettamente schierato, davanti alla colonna a cui era appeso, così come la banda che suonava festosa la sua morte e al Generale Supremo dell'esercito che comandava la parata. I sudditi erano ai lati, pronti ad assistere con un misto di paura e aspettativa.
«Oggi è un grande giorno» annunciò il Generalissimo. «Con la morte di Lacey da Lisboa porremmo fine all'ultimo discendente della stirpe dei draghi, nonché figlio del terribile Rogo il Drago Rosso!»
«Non credo proprio!» si sentì una voce gridare dietro di lui. L'unicorno azzurro atterrò delicatamente prima sulla cima della colonna e poi proprio in mezzo alla folla, che si allontanò in maniera disordinata. La colonna venne tagliata in tanti cerchi sottili e la catena che teneva Lacey legata alla sua sommità rotta. Il corpo di Lacey cadde a peso morto verso il terreno, ma Omar saltò in tempo per prenderlo al volo e se lo strinse al petto.
L'estremità della catena ondeggiò nell'aria illuminata di rosso, mentre spargeva gli ultimi residui della magia che l'aveva forgiata. Omar atterrò delicatamente proprio davanti all'intero esercito schierato, il mantello rosso che si avvolgeva attorno al suo vestito nero come una veste di sangue, un ginocchio a terra e l'altra gamba piegata. Omar guardò di fronte a sé, deciso, mentre con il braccio sinistro continuava a stringere Lacey contro il suo petto e con la mano destra teneva la spada in orizzontale davanti a sé, a proteggerli entrambi.
 
«Mah» commentò Ace.
«Che c'è? Non ti convince?» Marco appariva quasi mortificato. «Ti ho salvato. Voglio dire, Omar ha salvato Lacey.»
«Sì ed è stato un sacco romantico, stile cavaliere» confermò Ace. «Ma non hai detto che in una coppia è importante la parità? Non credo che Lacey dovrebbe stare lì a farsi salvare e basta.»
Marco sorrise. «Si accettano suggerimenti, allora.»
 
Omar era stato molto coraggioso a correre a Repubblica per salvare Lacey dall'esecuzione, ma era stato anche incredibilmente stupido. Un Cavaliere da solo, per quanto provenisse dal regno di Blanco, non aveva possibilità di vittoria contro un intero esercito schierato di Repubblica. E nonostante i suoi poteri guaritori, aveva di fronte anche i tre maghi più potenti dei Sette Regni, che con la loro magia erano in grado di ferirlo e contemporaneamente di impedire che si rigenerasse.
Il Generalissimo lo sapeva, per cui come prima cosa aveva ordinato agli uomini di uccidere l'unicorno azzurro, così che non potessero scappare. Omar aveva cercato di impedirlo, ma allo stesso modo doveva evitare attacchi verso di lui e verso Lacey, che era ancora prigioniero delle catene.
Per cui a Omar, che continuava a tenere stretto a sé Lacey, non restò che gettarsi direttamente contro l'esercito, nella speranza che quell'attacco a sorpresa potesse servire a disperderli per un attimo, il tempo necessario per recuperare almeno un cavallo normale che gli permettesse di scappare.
Ma aveva contro i tre maghi: il primo sbarrò lui la strada con un muro di magma, il secondo gli bloccò le gambe con il ghiaccio e il terzo lo colpì con i suoi fasci di luce. Omar fu costretto a lasciare a terra Lacey, che atterrò in malo modo al suo fianco, in modo che non venisse colpito, e poi cadde carponi sputando sangue.
«Uccidetelo!» gridò il Generalissimo. «Uccidetelo così che si possa continuare con l'esecuzione!»
Per un attimo, Omar pensò davvero che fosse finita e chiese perdono al suo sovrano, ma poi il mondo attorno a sé si riempì di fuoco. Il calore era intenso che allontanò tutti da lui prima che potessero colpirlo ancora e la luce così accecante che Omar rimase immobile con gli occhi chiusi. Si coprì anche le orecchie con le mani per non sentire le grida.
Quando il calore passò, si arrischiò ad aprirli un attimo. La piazza, no, l'intera città era ridotta a un cumulo di macerie fumanti. Il terreno, un tempo marmo purissimo e bianco, era ora nero come la notte e cosparso di corpi di cui era rimasto solo una sagoma scura. Sopra di lui troneggiava un drago, il lungo collo piegato verso di lui e le ali spalancate dietro la schiena. Per un attimo, Omar tastò il terreno per cercare la sua spada, che gli era caduta durante lo scontro precedente, ma il drago non si mosse. Si limitò a far uscire il fuoco dalle sue squame, fino a esserne completamente avvolto.
Quando queste si estinsero, non c'era più l'enorme rettile davanti a Omar, ma Lacey libero dalle catene, con la sua solita camicia color panna che si agitava per effetto del calore creato dall'incendio che lui stesso aveva provocato.
«Ora sai tutta la verità su di me» affermò Lacey.
Non aveva ereditato da sua madre che il suo aspetto da umano, ma dentro era sempre stato un drago come suo padre.
Omar si alzò e sì aggiustò il mantello e i pantaloni, mentre i suoi poteri rigenerativi gli permettevano di recuperare qualche energia e di rimarginare le ferite che il mago della luce gli aveva procurato.
«Il mio unicorno azzurro è stato ucciso» disse. «Ti dispiace darmi tu un passaggio? Quelle ali non sono solo per bellezza, vero?»
Lacey spalancò gli occhi.
«Dai, che forse siamo ancora in tempo per la cerimonia.»
 
Marco scoppiò a ridere. «Caspita, questa favola ha smesso di essere per bambini da un bel po'!»
«Dici che ho esagerato?» domandò Ace, un po' dubbioso. In effetti, da come aveva raccontato pareva che Lacey avesse compiuto una strage. Ma in fondo il se stesso bambino non era molto differente e non era strano che avesse posto qualcosa di lui nel racconto.
«No, no, mi è piaciuto tanto» lo rassicurò immediatamente Marco, prima di sorridergli. «Così sei un drago, eh?»
«I draghi sono fighi.»
«Ti senti un po' meglio, adesso?»
«Guarda che la storia non è mica finita» lo ammonì Ace, con sguardo severo.
«E che cosa manca?» si stupì Marco.
«Il limone!» esclamò Ace, incredulo del fatto che non avesse capito. «Questi due devono limonare! Tanto l'abbiamo già vietata ai bambini, no?»
 
«E, da ora e per sempre, Lacey da Lisboa, io ti nomino Cavaliere del Regno di Blanco.»
Il re alzò la spada sopra di lui e poi la abbassò lentamente fino a toccargli la spalla. La folla attorno scoppiò in un fragoroso applauso e Lacey non trattenne né il sorriso né le lacrime che gli stavano scendendo dalle guance. Quando il re tolse la spada si alzò e poi fece un ulteriore inchino di ringraziamento, prima di voltarsi a guardare i suoi compagni e i suoi amici che lo avevano accolto nuovamente e che ora stavano festeggiando con lui la sua nomina.
Il suo sguardo si spostò poi sulla fila dei Cavalieri ai lati del Re, fino a indugiare su Omar, che quindi fece un passo avanti verso di lui.
«Congratulazioni per la tua nomina» gli disse. «E bentornato a casa.»
«E baciatevi, maledizione!» gridò il Quarto Cavaliere, tra il seccato e il divertito.
E Lacey non si trattenne: si gettò fra le braccia di Omar e premette le labbra contro le sue. E, questa volta, vissero davvero tutti felici e contenti.
 
«Hai ragione, questo è decisamente un finale più appropriato» approvò Marco. «Ma ti dirò, io preferisco la realtà.» E si voltò a baciarlo davvero.

 

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Capitolo 2
*** Dietro la maschera ***


Dietro la Maschera
 

Marco si guardò intorno. Guardò al pavimento liscio in marmo bianco e nero, alle tende rosse broccate d’oro, ai muri finemente dipinti e intarsiati. Guardò agli uomini con i loro completi impeccabili e alle donne con le loro ampie gonne lunghe e le loro pettinature complesse. Guardò al suo vestito, ai suoi pantaloni corti al polpaccio e alle scarpe col tacchetto e il decolté. Guardò alla lunga giacca con i bordi d’argento e alla stretta camicia chiusa da fin troppi bottoni. Guardò al foulard che gli stringeva al collo e alla spilla blu che gli impediva di toglierlo. Guardò al suo bicchiere di cristallo pieno di vino.
Poi si appoggiò alla colonna e sospirò, chiedendosi come avesse fatto a finire lì.
In realtà, il come lo sapeva benissimo, ma ciò non gli impediva di sentirsi in ogni caso fuori luogo. Eppure non aveva potuto evitarlo, perché la regina di Ostereich era stata così gentile da ospitarlo nel suo palazzo durante il suo esilio e il minimo che Marco poteva fare per lei era presentarsi alle feste che organizzava. E vestirsi come lei gli suggeriva, giusto per confondersi tra la folla.
Esilio, così l’aveva chiamato. Per quanto continuasse a ripetere che il Babbo l’aveva fatto per il suo bene, dentro di lui c’era davvero un sentimento di abbandono come non ne provava da anni.
E la colpa era tutta sua.
Prese un sorso di vino, mentre la mente gli andava inevitabilmente all’ultimo incontro con il Babbo.
«Figliolo» gli aveva detto. «La situazione non può continuare così.»
E Marco doveva dargli ragione, se per situazione si intendeva lui che si chiudeva in bagno a masturbarsi sussurrando fra le labbra il nome di Ace. O lui che rischiava di avere un’erezione ogni volta che Ace gli si appiccicava in qualche modo, ignaro di quello che rischiava di scatenare. In ogni caso, non si poteva continuare così.
«E non è solo un problema riguardo all’età» aveva continuato il Babbo, anche se era chiaro che il retso dipendeva da quello. «Ace ha impiegato del tempo ad accettare di essere parte della nostra famiglia e non intendo rischiare che possa in qualche modo non sentirsi a suo agio. E dovrebbe essere compito di tutti, qui, fare in modo che i nuovi fratelli si sentano a casa. Soprattutto il tuo.»
Marco si era sentito un po’ morire dentro. Lui e gli altri Comandanti erano stati i primi membri della ciurma, perciò erano anni che accoglievano nuovi compagni e si occupavano di loro. Marco aveva sempre fatto tutto quello che era in suo potere per proteggerli e non riusciva a credere di aver rischiato di incasinare così tanto le cose con la persona che forse aveva più bisogno di lui.
«Credo che dovresti lasciare la Moby Dick per un po’.»
Lo stomaco gli si contraeva ancora a quelle parole e Marco lasciò il bicchiere di vino sul primo tavolo disponibile.
«Non si tratta di una punizione» si era affrettato ad aggiungere il Babbo, e Marco gli credeva. «Ti conosco fin troppo bene per sapere che dev’essere una cosa seria. Per questo credo sia meglio per te prenderti un attimo di pausa.»
Marco gli aveva dato di nuovo ragione, anche se avrebbe sperato in altro. E l’uomo che aveva di fronte era suo padre, non solo il suo capitano. Gli avrebbe obbedito anche perché sapeva che parlava per il suo stesso bene.
Così era partito, con la scusa che l’isola di Ostereich fosse vittima di attacchi da parte di altri pirati e necessitasse della sua protezione per qualche tempo. In realtà era il posto più tranquillo del mondo. E più noioso del mondo, ma Marco era intrappolato in quel posto e in quei vestiti eleganti finché la sua cotta per Ace non gli fosse del tutto passata.
Cosa che non era ancora successa, dato che continuava a pensarci tutte le notti e a volte gli pareva di vederlo passare accanto o ne riconosceva i tratti nelle persone che vedeva attorno a sé, come quel ragazzo che si era appena alzato dal tavolo e si era pulito la bocca con il dorso della mano, lasciando macchie sul guanto bianco…
«No…»
Ma stavolta non era un’illusione. Nonostante la maschera bianca che gli copriva parte del volto, le lentiggini sul viso erano sufficienti a riconoscerlo, per quante volte Marco le aveva fissate da distante e contate. Quel vestito bianco elegante non gli si addiceva per nulla, nascondeva la sua muscolatura. Ma gli occhi, quelli erano gli stessi anche dietro la maschera.
Cosa ci facesse a quella festa, Marco non poteva dirlo. Anche se era abitudine di Ace andarsene in giro per conto suo, Marco era certo che il Babbo e i suoi fratelli si sarebbero premurati di tenerlo distante da Ostereich. Dovevano stare separati finché a Marco non fosse passata, era quello lo scopo di tutto.
E Marco avrebbe dovuto rispettare la decisione di suo padre e fingere di non averlo nemmeno visto o riconosciuto. Andarsene da lì.
Invece, forte della maschera che gli copriva il volto, si avvicinò a lui e tossì appena, per attirare la sua attenzione. Una volta che Ace si fu voltato appena verso di lui, Marco gli prese la mano con la sua e, chinandosi appena, se la portò alle labbra per baciarla. Dato che era protetta dal guanto, non gli sfiorò la pelle, ma riuscì comunque ad avvertirne il calore.
Ace arrossì, le guance spruzzate di lentiggini divennero color porpora, per cui Marco non poté trattenere un sorriso divertito, perché era molto raro vederlo imbarazzato. Ma c’era anche altro nel suo sguardo e nel modo in cui piegò le labbra verso il basso.
In un attimo, aveva scostato la mano, si era voltato e si era incamminato verso la scalinata che portava nel giardino esterno. Marco gli fissò la schiena, maledicendosi e contemporaneamente obbligandosi a dar ragione al Babbo per quello che era successo, ma infine lo seguì.
Ace si doveva essere accorto della sua presenza, ma continuò a camminare fino a raggiungere una zona isolata. Il buio della notte senza luna rendeva quasi impossibile vederne i lineamenti, ma il suo volto era comunque riconoscibile, soprattutto quando si tolse la maschera.
«Perché?» domandò solo, una volta che Marco fu di fronte a lui.
«Che cosa?»
«Perché di tutta quella sceneggiata là dentro.» Ace accennò con il capo alla villa che si erano lasciati alle spalle.
«Era una festa noiosa e avevo solo voglia di conoscere qualcuno di nuovo…»
«Piantala con le cazzate, Marco.»
«Allora mi avevi riconosciuto.»
«Se vuoi renderti irriconoscibile, la prossima volta nascondi quel cesto di ananas che hai per capelli.»
C’era una nota divertita in quel commento e quella cosa, paradossalmente, sollevò Marco. Se riuscivano ancora a scherzare sulla sua pettinatura forse non aveva rovinato tutto.
«Hai ragione» confermò, con un sorriso. «Ti chiedo scusa, non volevo metterti davvero in imbarazzo» continuò. «Era solo uno scherzo.»
«Quindi non ci stavi davvero provando?»
Il tono era così deluso che per un attimo Marco non riuscì a registrare per bene che cosa gli stava chiedendo.
«No, certo che no…»
Ace sbuffò. «Guarda che lo so perché sei qui. Satch ti ha beccato a masturbarti in bagno mentre chiamavi il mio nome.»
Questa volta Marco rimase davvero senza parole. «Te l’hanno detto…?» Certo, era improbabile che Ace non chiedesse il motivo della sua assenza, ma Marco era convinto che avrebbero trovato una scusa, non che gli spiattellassero in faccia l’amara verità, come se essersi innamorato di uno con vent’anni di meno non fosse abbastanza grave. Anche se sì, forse capiva perché l’avevano fatto, almeno Ace gli sarebbe stato alla larga da quel momento in poi.
Ma Ace era lì, di fronte a lui.
«Ovvio che no.» Ace sbuffò di nuovo. «Hanno cercato tutti i modi di far finta di niente, ma cavoli, son stati peggio di Rufy in certi momenti.»
«Ma quindi…»
«Quindi per fortuna ho degli amici che mi possono dare una mano. Come i miei compagni dei pirati di Picche o Oars e Squardo. Satch ha spiattellato tutto a Squardo e lui me l’ha detto subito. E poi abbiamo cercato di capire dove ti fossi cacciato.» Ace fece un passo avanti e lo guardò dritto negli occhi. «Te lo chiedo di nuovo: non ci stavi provando con me, vero?»
Marco deglutì e fece un passo indietro. Era troppo vicino. Poi annuì e ammise: «dopo quello che hai scoperto, credo che la risposta sia ovvia.»
Ace scosse la testa. «Io ti chiedo perché lo stavi facendo adesso. Hai fatto finta di niente per settimane che… Okay, non sono esattamente la persona più esperta di questo mondo in queste cose, ma Dio, non sono nemmeno così sottile da pensare che uno con un minimo di buon senso non se ne fosse accorto e…»
Piano piano, Marco riuscì a capire quello che Ace intendeva. Aveva sempre pensato di essersi sbagliato, di ingigantire le cose perché una parte di lui ci sperava. No, Ace non gli aveva sfiorato la gamba apposta, si stava solo allungando in avanti per prendere del cibo. No, Ace non abbracciava solo lui, era un tipo da abbracci e basta. No, no, no…
Deglutì ancora. «L’ho fatto adesso perché credevo non mi avresti riconosciuto.»
«Che cosa vuoi dire?»
«Il Babbo ha ragione, Ace. Non può funzionare» affermò Marco. «Siamo parte della stessa famiglia, tu ne fai parte da poco e io ho il dovere di proteggerti e aiutarti, non di complicarti la vita. Oltre al fatto che hai vent’anni meno di me» puntualizzò, dato che non era una cosa trascurabile. «Ma dato che indossavamo entrambi la maschera… Mi sono illuso che potessimo scordarci chi eravamo, almeno per una notte.»
Ace non aveva staccato gli occhi da lui nemmeno per un istante, ma le sopracciglia erano scese sempre di più a dargli un’espressione imbronciata. «Sei solo un codardo» affermò.
«Cosa?»
«Non me ne faccio niente della tua protezione!» sbottò Ace. «Ho passato anni a occuparmi del mio fratellino, e prima ancora c’ero solo io, ma credi che non sappia occuparmi di me stesso?» gli domandò, ma non gli lasciò nemmeno il tempo di rispondere. «Tu ti stai nascondendo dietro un dito, dietro quello che il Babbo e gli altri credono che sia giusto, dietro la mia età, ma io non sono un bambino. Ero un cazzo di capitano con un’intera ciurma che dipendeva da me!»
«Questo lo so, ma…»
«Quindi sei tu che la devi piantare di trattarmi come un bambino e di decidere per me. Solo io posso decidere per me stesso. Non dovrebbe essere questo il punto di essere un pirata? Essere libero di decidere il cavolo che mi pare?»
Prese un respiro profondo, perché la disamina gli aveva tolto il fiato, poi allungò le mani in avanti e, dopo aver afferrato Marco per la nuca, lo trascinò vicino a se e lo baciò. Prima gli aveva impedito di parlare, ora gli stava impedendo di respirare, ma a Marco non importava. Sentire quelle labbra contro le sue era come essersi tolto un peso dallo stomaco.
Non gli ci volle molto perché le sue mani passarono a stringergli la schiena, mentre ricambiava il bacio. E non ebbe nessun rimorso mentre quei vestiti eleganti che non facevano per loro venissero pian piano tolti. Il desiderio di poterlo toccare, ammirare, baciare, sentirlo ansimare sotto di lui era diventato così forte che realizzarlo gli diede più piacere di quanto ne avesse mai provato.
E quando vide il sorriso che Ace gli stava rivolgendo, ancora nudo sdraiato sopra di lui, Marco pensò che se era stato un errore, di sicuro era il migliore che avesse mai commesso.
«Mi dispiace.»
Ace ridacchiò. «Per cosa?»
«Per aver incasinato le cose» spiegò allora Marco. «Hai ragione tu, non avrei dovuto decidere per te. Avrei dovuto essere onesto, così anche gli altri non si sarebbero preoccupati. E nemmeno il Babbo, forse, sapendo che le cose andavano diversamente.»
«Possiamo dirglielo adesso.»
C’era forse una nota di esitazione nella voce di Ace, ma Marco annuì. Entrambi avevano disubbidito agli ordini del Babbo e benché Marco immaginasse che non se la sarebbe presa se avesse saputo che la situazione era sotto controllo e che erano felici, voleva farglielo sapere il prima possibile.
Gli dispiaceva solo andarsene senza salutare la regina, ma fu un sollievo poter indossare di nuovo i propri abiti e tornare a volare nel cielo senza più formalità e costrizioni. E quando vide la Moby Dick in lontananza, si rese conto di quanto davvero la sua famiglia gli fosse mancata.
Anche se gli avevano messo i bastoni fra le ruote per la sua cotta, l’avevano fatto pensando a quello che fosse giusto per loro, e in ogni caso erano persone a cui Marco non poteva rinunciare.
Il ponte era deserto, dato che era ancora notte inoltrata, ma il Babbo era ancora seduto sulla sua grande sedia a bere sakè, approfittando dell’assenza delle infermiere. Marco atterrò di fronte a lui: con un balzo Ace scese dalla sua schiena e, non appena ebbe ritrasformato le ali in braccia, gli strinse la mano e fissò il Babbo.
Marco lo notò subito: non era uno sguardo non sfida, non come lo guardava le prime volte quando ancora stava cercando di ucciderlo. Era lo sguardo di un figlio che sapeva di aver disubbidito al genitore ma che allo stesso tempo, non essendo pentito, cercava la sua approvazione. In quello sguardo Marco si ritrovava appieno, perché se il Babbo gli avesse negato il permesso, entrambi sapevano che sarebbe finita.
Nessuno di loro poteva rinunciare a quella famiglia, nemmeno per l’altro.
Ma Barbabianca, dopo averli fissati a lungo, si limitò a bere un altro sorso del suo sakè.
«Bentornati a casa.»

***

Akemichan parla senza coerenza:
Non sono sicura che si capisca a quale storia è ispirata questa shot, purtroppo... XD In ogni caso, io in genere credo che sia il Babbo sia gli altri non avrebbero problemi per quanto riguarda la storia tra Ace e Marco, ma tempo fa mi è capitato di discutere con una persona che vede questa coppia come "creepy" e "unhealty" e devo dire che ho ancora difficoltà a capire per la precisione le sue parole, ma mi ha fatto venire in mente l'idea per questa storia, tentando un Barbabianca che invece è poco convinto di tutta questa storia.
Vi chiedo scusa per eventuali errori, non ho avuto il tempo di leggerla come si deve ._.

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Capitolo 3
*** Il segreto ***


Il segreto

Il clima era talmente afoso che il ponte si asciugava in un istante appena passatovi sopra lo straccio, cosa che rendeva il loro lavoro più semplice e rapido. Ace alzò la testa e appoggiò la scopa contro il parapetto, per stiracchiarsi.
La sua attenzione fu attratta dai suoi compagni di lavoro, che avevano momentaneamente interrotto la pulizia del ponte per osservare una scena in lontananza, ridacchiando. Ace si affiancò a loro solo per vedere la fine della discussione fra Marco e Satch, confronti che scatenavano sempre grande ilarità a bordo della ciurma.
«E va bene, lo faccio, uccellaccio della malora!» sbottò Satch, prima di tornare sotto coperta a passi ampi e rapidi. Marco scosse appena la testa prima di seguirlo e nessuno dei due parve essersi accorto di avere pubblico.
«Mi chiedo se sia mai capitato che il Comandante Satch vincesse uno scontro del genere» commentò uno dei pirati.
«Non credo proprio!» replicò un altro, ridendo.
«Io invece mi chiedo perché Satch insulti Marco chiamandolo uccello» intervenne Ace. «C'è un doppio senso che non colgo, qui?»
I suoi compagni si voltarono verso di lui, sbattendo leggermente le palpebre come se avesse fatto una domanda bizzarra.
«Ah, è vero» commentò poi uno di loro. «Tu non hai ancora visto la trasformazione del Comandante Marco.»
Ace inarcò un sopracciglio. «Che trasformazione?»
«Be', avendo lo Zoan della fenice, è ovviamente in grado di trasformarsi in una fenice.»
«È anche una bella forma per uno Zoan, anche se non la mostra spesso.»
«Ma io pensavo avesse un Paramisha.» Ace era perplesso. «Non è un frutto che gli permette di rigenerarsi?»
I pirati annuirono. «Perché è uno Zoan mitologico. Sono frutti ancora più rari dei Rogia, quindi possono avere una gamma di poteri più ampia.»
«Non lo sapevo...» mormorò Ace. «Perché Marco non me l'hai mai detto?»
«Probabilmente non ci ha pensato. Non è uno che va in giro a parlare del suo frutto.»
Tuttavia, quella spiegazione non convinceva Ace. Lui e Marco avevano smesso di essere semplici compagni da qualche tempo, per cui era convinto che non esistessero segreti fra di loro, considerando che Ace si era sforzato di rivelargli la verità su suo padre. Certo, una trasformazione dovuta a un frutto del diavolo non era questo gran segreto, ma ora che ne era a conoscenza voleva vederla. Tra l'altro le fiamme di Marco erano così belle che di sicuro lo sarebbe stata anche la sua trasformazione.
Così, senza tanti giri di parole, glielo chiese la sera stessa, nella sua cabina che era ormai diventata la cabina di entrambi.
«Mi fai vedere la tua trasformazione?»
Marco lo guardò perplesso. «Cos'è questa novità?»
«Be', ho scoperto solo oggi che hai uno Zoan» spiegò Ace, alzando leggermente le spalle. «E sono curioso di vederla.»
«No.»
«Perché no?»
«Non è davvero niente di speciale.»
«Ma io voglio vederla!» Così come voleva vedere ogni aspetto di lui. Jaws non aveva mai fatto segreto del suo frutto e Ace non riusciva a capire per quale motivo Marco fosse così riservato.
«E la vedrai quando sarà il momento, la uso qualche volta in battaglia» rispose Marco, tranquillo. «Ora dormi, che oggi è stata una giornata dura.»
Ace mise il broncio, perché quello era il classico modo di Marco di chiudere le discussioni che non gli piaceva fare, in un paternalistico modo che faceva venire ad Ace più voglia di continuare e di ricordargli che non era suo figlio.
Per questo non riuscì a togliersi dalla testa la trasformazione e il desiderio di vederla. Marco parlava bene di battaglie, ma tralasciando il fatto che non ne affrontavano molte Marco aveva più l'abitudine di restare nelle retrovie e lasciare i suoi uomini sfogarsi. Avrebbero potuto passare mesi prima di riuscire a vedere Marco combattere seriamente, e ancora di più prima che fosse costretto a usare la forma da fenice.
Ace non aveva intenzione di aspettare.
Così, la mattina dopo, tornò al tavolo della seconda divisione supplicandoli di aiutarlo a trovare un modo per costringere Marco a trasformarsi. I pirati non erano molto entusiasti della richiesta, un po' perché avevano imparato che Marco non era uno con cui si poteva scherzare senza conseguenze e un po' perché non comprendevano come mai Ace si fosse fissato, ma dall'altra parte non volevano negargli il loro aiuto.
«Be', il modo più semplice è quello di farlo cadere in acqua.» Alla fine Teach prese la decisione per tutti, anche se si meritò occhiate perplesse da parte degli altri. «No, è sicuro, perché potrebbe solo trasformare le braccia e volare, ma se siamo abbastanza rapidi dovremo farcela.»
E quindi passarono l'intera colazione a elaborare un piano abbastanza efficace per prendere di sorpresa uno come Marco. Era un piano che coinvolgeva Ace, che doveva portare Marco, con una scusa, sul ponte di poppa, troppo vicino al parapetto in modo che bastasse una spintarella per farlo crollare. Coinvolgeva un'esplosione dal piano inferiore, che doveva essere abbastanza controllata da non coinvolgere anche Ace e mirata da distruggere il parapetto. Coinvolgeva del caos sulla postazione di vedetta dell'albero maestro, in modo che Marco fosse abbastanza distratto dalla situazione da non accorgersi del resto. E coinvolgeva un Teach lanciato a grande velocità da impattare contro Marco quello che bastava a spingerlo fuori bordo.
E nonostante da fuori sembrasse una cosa completamente folle, e chiaramente lo era, funzionò. Ace si era gettato a terra sia per evitare l'esplosione sia l'arrivo di Teach, ma balzò immediatamente in piedi per verificare la situazione, anche perché, se Marco non avesse fatto in tempo a trasformarsi avevano già pronti i soccorsi per recuperarlo prima che affogasse.
Invece eccolo lì, in tutta la sua gloria. Nonostante la preoccupazione iniziale di Teach, Marco si era trasformato interamente in un enorme uccello, il corpo completamente ricoperto dalle piume che erano in realtà fiamme blu e dorate che brillavano più della luce del sole, quasi accecandolo. Ace non riuscì a staccare gli occhi da lui nemmeno quando atterrò sul parapetto, assumendo nuovamente la sua forma umana.
Anche Marco lo stava guardando, ma non aveva la stessa espressione di ammirazione. Sotto quella serietà, si nascondeva della rabbia e lo sapevano tutti nella seconda divisione, anche Ace che si limitò ad alzare le spalle e a fare un piccolo sorriso apologetico.
«Con me. Adesso.»
Marco non aspettò nemmeno la risposta, ma iniziò a camminare verso l'entrata del sottocoperta senza prestare la minima attenzione a Teach o agli altri della seconda divisione. Ace scoccò invece loro un'occhiata, la cui risposta fu semplicemente un'alzata di spalle, dato che oltre quello che avevano fatto non potevano aiutarlo. Quindi Ace annuì e seguì Marco sottocoperta, fino alla sua cabina.
«Lo volevi proprio vedere così tanto vero?» commentò Marco. Era in piedi al centro della stanza, la schiena voltata verso di lui.
«E perché tu invece volevi nascondermelo?» ribatté Ace. «È una trasformazione bellissima.»
Marco sospirò. All'inizio non aggiunse nulla, si limitò a fare due passi in avanti e a sedersi sul bordo del letto, quindi fece cenno con la mano ad Ace di sedersi accanto a lui. Solo quando Ace lo ebbe raggiunto, parlò.
«C'è stato un periodo della mia vita passata che ho passato in un circo» spiegò. «E non è stato volontario. Ero un prigioniero e loro sfruttavano la mia forma di fenice e la mia capacità di rigenerarmi come spettacolo per guadagnare dei soldi.»
Ace spalancò gli occhi. Non ne aveva idea.
«Alla fine sono riuscito a scappare proprio grazie ai miei poteri, ma quella sensazione non mi ha mai abbandonato» continuò Marco. «Lo so che non l'hai fatto apposta, ma a volte, quando vengo guardato trasformato in fenice, ho l'impressione di tornare a essere quello che ero in quel circo. Un oggetto.»
«Non è così!» Ace sapeva che non sarebbe riuscito a spiegare a parole quanto si sentiva in colpa per quello che era successo, ora che sapeva la storia dietro la reticenza di Marco. «Okay, sì, penso che la tua trasformazione sia splendida, ma non avevo intenzione... Mi dispiace tanto...»
«Lo so che tu non sei come loro» annuì Marco. «Però avresti potuto rispettare la mia decisione di non mostrartela. È questo il problema.»
«Mi dispiace» mormorò Ace. «Solo che... Non lo so, volevo vedere tutto di te e... Pensavo che non fossi abbastanza importante da saperlo...» La voce divenne sempre più bassa fino a interrompersi.
Allora Marco si alzò e iniziò a spogliarsi, appoggiando delicatamente i vestiti in un angolo del letto.
«Che stai facendo?» esclamò Ace.
«Avrei potuto parlarti prima del mio passato, è vero» disse Marco. «Ma la realtà è che non m'importa. Questo sono io adesso, Ace. Hai già visto tutto di me.» E mentre parlava si posò una mano al centro del petto nudo, indicando specificatamente il tatuaggio rosso di Barbabianca che spiccava sulla pelle.
Allora Ace si alzò e anche lui si spogliò, anche se il suo modo di mettere i vestiti era decisamente più disordinato di quello di Marco. E solo quando furono l'uno di fronte all'altro, nudi, Ace parlò di nuovo.
«Mi dispiace» disse. «Avrei dovuto rispettare il tuo desiderio. È solo che...» Deglutì. Non riusciva ancora a esprimere a parole i suoi sentimenti.
Marco annuì, poi tornò a sedersi sul letto e fece cenno ad Ace di sedersi fra le sue gambe aperte. Gli circondò il dorso con le braccia e lo trascinò a sdraiarsi sul materasso, sopra di lui.
«Chiudi gli occhi.»
Ace obbedì e si rilassò, usando come cuscino quel corpo muscoloso che sentiva pulsare contro di sé, la testa reclinata appena da un lato. Avvertì le braccia di Marco muoversi appena e, nonostante le palpebre serrate, avvertì la luce delle fiamme blu che lo circondava.
Marco allungò la testa verso il suo orecchio, sorrise e sussurrò: «Ti senti meglio, adesso?»
Ed Ace si azzardò ad aprire gli occhi e ammirare le due ali che lo circondavano sui due lati, come a proteggerlo in una forma di uovo fiammeggiante. E si sentì in colpa perché nonostante fosse stato lui a mancare di rispetto per primo, era Marco quello che stava cercando di controllarlo.
Così, incapace di parlare, si limitò ad annuire vigorosamente e a lasciare che Marco lo abbracciasse interamente con le sue ali.

 

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Capitolo 4
*** La maledizione ***


La Maledizione

Marco stava tornando verso la Moby Dick. La missione non era stava difficile, ma lunga, per cui sentiva davvero la necessità di essere a casa. Le sue ali si muovevano veloci quanto gli era permesso, la testa con il lungo collo diritta in avanti, per non perdere la rotta, il sole che veniva lasciato alle spalle.
E poi, improvvisamente, il suo corpo fu completamente scosso dal dolore. Ogni singola fibra del suo essere bruciava, i muscoli si contraevano spasmodicamente, bloccandolo del tutto. Le ali non riuscirono più a sorreggerlo e, con la poca lucidità che gli era ancora rimasta, si guardò intorno per spostare la caduta lontano dal mare.
C'era un'isola, non poco lontano da dove stava volando. Strinse i denti, nonostante il dolore che provava, e mosse ancora le ali. Quando fu esattamente sopra la terra, quindi al sicuro da qualsiasi tipo di annegamento, si lasciò andare, ritornando in forma umana. Il suo corpo precipitò di schianto, la schiena che sbatté e ruppe i rami degli alberi della foresta sotto di se, finché non sbatté con forza sul terreno duro.
Le fiamme blu eruppero subito a curare qualsiasi frattura la caduta gli aveva causato, solo che invece di limitare il dolore questi aumentò esponenzialmente. Marco si mise in piedi con fatica, la mano che si teneva a uno dei tronchi. Tutto bruciava nel suo corpo, ma riuscì comunque a fare dei passi tremolanti in avanti.
La foresta non era fitta, per cui riusciva a camminare senza che la vegetazione lo ostacolasse, e allo stesso tempo poteva sorreggersi agli alberi. Sentiva in lontananza lo scroscio di una cascata: era ciò a cui mirava. Ci arrivò quando ormai non riusciva più a tenersi in piedi e si trascinava piuttosto in avanti con le mani, carponi, strusciando le ginocchia.
La cascata non era alta e si immergeva in un lago davvero molto piccolo, ma il rumore scrosciante sarebbe stato sufficiente. Marco, con le ultime energie che gli erano rimaste, si trascinò quanto possibile vicino, scoprendo che tra la cascata e la parete di roccia retrostante c'era abbastanza spazio per nascondersi.
Così si accoccolò dietro, in una fessura della roccia, e si trasformò in fenice, le ali strette attorno al suo corpo come a proteggersi. La cascata nascondeva del tutto la luce delle sue piume infuocate d'azzurro, dato che da fuori appariva solo come il luccichio del sole sull'acqua, e il rumore copriva le sue urla. Marco si lasciò andare al dolore che provava, la bocca aperta a gridare nella speranza che sfogarsi gli avrebbe permesso di sopportare al meglio.
Non seppe dire per quanto tempo rimase nascosto a soffrire, né se era sveglio per tutto il tempo. A volte il dolore era così insopportabile da fargli perdere la lucidità e gli sembrava di essere caduto addormentato, ma allo stesso tempo non riusciva a credere di essersi riposato in alcun modo. La bocca era sempre rimasta aperta, ad urlare, la gola che diventava secca e poi bruciava, di modo da contribuire al resto del dolore.
E poi fu certo di essersi addormentato e di essersi risvegliato, perché il dolore si era affievolito. Ancora in forma di fenice, alzò la testa, che fino a quel momento aveva tenuto chinata all'indietro contro il suo petto, e si guardò attorno, perplesso. Ricordò quello che gli era successo e le terribili fitte che l'avevano costretto a fermarsi il prima possibile.
Non stava ancora bene. Se si muoveva poteva ancora avvertire le fitte a ogni muscolo e, in ogni caso, le ore passate in agonia lo avevano privato di ogni energia. Sarebbe rimasto nascosto finché non fosse stato certo di stare bene
Tuttavia, poteva muoversi abbastanza senza rischiare di rimanere svenuto da qualche parte. Aveva fame e sete, soprattutto sentiva la necessità di dare sollievo alla sua gola arsa dalle sue urla. Così, con prudenza, zampettò fuori dalla cascata. L'erba era umida per la rugiada mattutina e le sue zampe provarono in qualche modo sollievo per quel terreno morbido, dopo essere state appoggiate sulla roccia così a lungo.
Ancora in forma di fenice, si chinò sulla superficie del lago e succhiò con il becco. Subito avvertì il sollievo dell'acqua che scendeva lungo la sua gola, purificandola e rilassandola. Continuò a bere finché non sentì che poteva di nuovo parlare senza avvertire dolore.
Ora che stava di nuovo bene, si prese il tempo per osservare i dintorni, in cerca di qualcosa da mangiare. Erano in una foresta, quindi era indubbio che avrebbe potuto cacciare degli animali selvatici. Avrebbe però dovuto accendere un fuoco, che forse avrebbe attirato l'attenzione, e richiesto troppa energia. Per il momento meglio limitarsi a frutta, se ne avesse trovata.
Da una parte del piccolo lago c'era un breve prato, con rocce e sottili tronchi sparsi, che brillava di verde alla luce del sole per via della rugiada. Poi c'era la parete di roccia da cui si precipitava la cascata, troppo alta per poter essere scalata, poiché Marco non si sentiva ancora in grado di volare. Nell'altra riva, la vegetazione diventava subito più folta, cespugli di felci verdi scuro e altri tronchi dinoccolati. Era in quella direzione che l'acqua scorreva in forma di fiume.
Marco era certo che da quella parte della foresta ci sarebbe stato almeno un albero con frutti commestibili. Prima, però, la sua attenzione fu attratta dall'acqua pura che si estendeva di fronte a lui. Era così pulita che si poteva vedere con facilità il fondo sabbioso e anche i piccoli pesci che vi nuotavano, ma che Marco non era in grado di catturare. Però notò che il livello dell'acqua era abbastanza bassa da poter rimanere in piedi e non essere sommerso.
Marco si lasciò cadere di pancia, con le sue piume a fiamma che tremolavano al contatto con il liquido. Subito fu colto dalla debolezza tipica dei possessori del frutto del diavolo, ma dato che era già debole per il dolore, quasi non ci fece nemmeno caso. Si lasciò guidare dal suo istinto e tornò in forma umana.
Non aveva più i vestiti, li aveva tolti a qualche punto nell'agonia delle ore precedenti, per cui assaporò l'acqua che gli sfiorava la pelle. Non era fredda come aveva immaginato, era chiaro che il sole che illuminava la superficie fino quasi ad accecare i dintorni l'aveva scaldata a sufficienza. Dopo due passi arrivò al centro del lago, con l'acqua che gli arrivava a malapena al sedere, e con movimenti lenti usò le mani come cucchiai per bagnarsi tutto il corpo.
Non si era accorto di quanto aveva sudato, dato che era in forma di fenice, ma lavarsi anche solo con l'acqua schietta gli dava sollievo. Alzò una delle mani per gettare l'acqua nel ciuffo dei capelli biondi, per poi passarvi le dita attraverso, come in una forma rustica di pettine.
Solo allora sentì un rumore alle sue spalle. Il suo Haki dell'Osservazione si attivò subito, cosa che gli permise di individuare cinque presenze sulla riva del lago. Benché non apparissero forti né pericolose, Marco si maledisse per essere stato così imprudente. Provava ancora dolore e il suo corpo era esausto, ma ciò non era una giustificazione.
Si voltò con attenzione, per far sembrare che fosse un movimento involontario. La mano ancora nei capelli e la testa leggermente chinata, scoccò un'occhiata nella direzione da cui sentiva le presenze. Nonostante la folta vegetazione, non potevano nascondersi del tutto, soprattutto data la luce del sole che illuminava ovunque.
Marco tirò un sospiro di sollievo: erano cinque, ma erano ragazzini. Non gli avrebbe dato più di sedici anni. Era curioso che avessero tutti i colori di capelli differenti, come a volersi distinguere l'uno dall'altro: argento, biondo, viola, verde, rosso. Nonostante fossero vestiti, erano bagnati, con gocce d'acqua che colavano loro dalle guance. Forse erano caduti nel fiume che scorreva oltre il lago.
Tutti e cinque lo stavano fissando con gli occhi spalancati, qualcuno anche con la bocca, come quello coi capelli argentati. Marco si chiese se fosse per il fatto che era nudo, o se avessero visto tutta la scena precedente, compresa la sua trasformazione da uccello a umano. Era il caso di scoprirlo.
Non poteva muoversi con la sua solita velocità, per cui era possibile che li avrebbe spaventati prima di raggiungerli, ma passo dopo passo raggiunse la riva davanti ai cespugli dove erano nascosti. Li vide indietreggiare, senza fuggire e senza distogliere gli occhi da lui.
«Yo.»
I ragazzi continuarono a fissarlo con gli occhi spalancati. Nessuno si mosse, nemmeno Marco, che semplicemente attese la loro risposta. Non era lui che spiava gli altri mentre si facevano il bagno.
Poi, alla fine, uno di loro si alzò, quello con i capelli argentati e l'orecchino all'orecchio sinistro.
«Chi sei?»
«Non è bello interrogare gli altri senza essere i primi a presentarsi.»
«Oh, giusto.» Il ragazzo parve preso in contropiede e scoccò un'occhiata anche agli altri, che stavano iniziando ad alzarsi in quel momento. «Mi chiamo Petr e questi sono i membri della mia band, gli Swans.» Allargò la mano per indicarli uno a uno. «Cal, Kov, Kil e Lic.» I quattro erano in piedi e fecero un piccolo cenno con la testa al loro nome, senza togliere gli occhi da Marco.
«Io sono Marco» rispose allora lui. «Una band?» I loro vestiti erano consumati e casuali, andavano da semplici camice bianchi e jeans strappati e borchie ai polsi. Non erano un gruppo omogeneo.
«Be', vorremmo esserlo almeno» Petr ammise, con un leggero sorriso imbarazzato. «Qui la nostra musica non piace e dobbiamo arrangiarci...»
«Com'è possibile che tu ti sia trasformato da uccello in uomo?» Era stato Cal, quello dai capelli biondi, a intervenire, ma dallo sguardo degli altri era chiaro che aveva posto la domanda che tutti si stavano ponendo, incluso Petr, anche se si era fatto trascinare dal discorso sulla band.
«Avete visto tutto?» domandò Marco. Avrebbe preferito di no.
«Sì» confermò Kov. «Pensavamo fossi solo uno strano uccello, ma poi...»
Marco era sul punto di ricordargli dell'esistenza dei Frutti del Diavolo, ma poi si ricordò che stava volando, quando gli erano presi gli spasmi, nel Mare Settentrionale, un posto dove era raro vedere persone con simili poteri. Così sospirò.
«Si tratta di una maledizione» mentì. Be', non del tutto, dato che si parlava di poteri di frutti demoniaci. «Questo è il mio vero aspetto, ma lo posso assumere solo quando sono immerso in acqua. Altrimenti assumo la forma dell'uccello che avete visto.»
«Oh, era molto bello...» sussurrò Kil.
«Una maledizione?» chiese invece Petr. «Chi è stato? Perché?»
«È stato...» Il dolore stava tornando, o per meglio dire la stanchezza che tutte quelle fitte gli avevano procurato. Non riusciva più a stare in piedi, per cui con le ultime energie si allungò sulla riva, trascinando il corpo all'asciutto e, per rispettare la bugia che aveva detto, si trasformò in fenice.
«Che ti succede?» si preoccupò Petr. Tutti si chinarono a fianco a lui e solo Kil si azzardò a sfiorare appena quelle piume fiammeggianti.
«L'uomo che mi ha fatto questo mi sta cercando» disse Marco. «Vuole sapere una cosa da me, ma io non gliela posso dire. Ho volato fino a perdere le energie e adesso non ce la faccio più...» C'era della verità in quello che diceva: voleva solo tornare dietro la cascata, ad accovacciarsi e a dormire finché non fosse tornato in piena forma.
I cinque ragazzi si guardarono fra di loro, gli occhi che passavano fra l'uno e l'altro e il corpo di Marco in forma di uccello, che adesso stava tremando, le fiamme che ondeggiavano al ritmo dei suoi brividi.
«Ti nascondiamo noi!» offrì Petr, di impeto. Subito dopo rivolse lo sguardo ai suoi compagni, perplesso. «Sempre che voi siate d'accordo...» aggiunse.
Kil annuì. «Io sì.»
«Non abbiamo molta scelta» disse Cal. «Non possiamo lasciarlo così.»
«Ma pensiamo bene a come fare» aggiunse Lic.
«Grazie. Grazie davvero.»
La banda degli Swans abitava in una casa cantoniera ai margini del villaggio che si trovava nel centro della foresta. Era un edificio abbandonato, con la vernice rossa ormai sgretolata a terra, la porta che non si chiudeva e i vetri delle finestre rotte. Il primo piano era inagibile, per cui i cinque ragazzi vivevano nelle due stanza al piano terra, dividendo tra la stanza da letto e la stanza dove c'era tutto il resto, dalla cucina alla sala prove.
Tuttavia, il fatto che la casa cantoniera fosse ai margini del villaggio permise ai ragazzi di trasportare Marco all'indietro senza che nessuno se ne accorgesse. E dopo aver passato notti seduto sulla nuda roccia, potersi accovacciare su delle coperte morbide, per quanto strappate e sporche, era più di quanto Marco desiderasse, dopo essere stato colto dai dolori in volo.
 
***
 
Ace fissava perplesso l'edificio diroccato che la vivrecard indicava e si chiedeva per quale assurdo motivo Marco dovesse trovarsi all'indietro e soprattutto non rispondesse alle chiamate sul Lumacofono. Dato che anche lui si trovava nel Mare Settentrionale ovvio che il Babbo e gli altri gli avessero chiesto di controllare, cosa che Ace aveva fatto con piacere. Ciò nonostante la situazione era così strana - Marco non era il tipo da non dare notizie e farli preoccupare - che Ace non sapeva se reagire nel solito modo o tentare un approccio più prudente.
«Scusa.» Kil l'aveva passato in fretta così da urtarlo per sbaglio.
«Ehi, aspetta.» Ace lo afferrò per il braccio, quasi in maniera involontaria. Mise via la vivrecard nella tasca. «Sai chi vive in questo posto?»
Kil teneva lo sguardo basso, sospettoso. «Noi. Io e... gli altri della mia band.»
«Band?»
«Sì, una band musicale.» Il suo tono era sottile, difficile da udire.
«Che figata» commentò Ace, con sincerità. «Posso entrare? Posso vedere?»
A quella domanda, Kil non rispose. Si limitò a paralizzarsi sotto la sua presa e a rimanere fermo, gli occhi bassi e la frangia dei capelli viola che gli copriva metà del volto.
«Lascialo stare!» Petr aveva visto la scena da una delle finestre della casa diroccata e si era precipitato verso di loro, i pugni alzati davanti alla testa.
Ace lo evitò con grazia, ma lasciò la presa su Kil. «Calma, non stavo facendo niente di male.» Alzò le mani per indicare la sua buona fede. «Ho sentito della band e volevo solo dare un'occhiata.»
Petr era caduto a terra per la sua stessa corsa, ma fu rapido ad alzarsi e a mettersi davanti a Kil, con fare protettivo. Kil, di contro, aveva fatto due passi indietro per allontanarsi da Ace.
«No. È tutto privato, alla larga!» E poi Petr fece un cenno a Kil, che annuì e trotterellò via, per scomparire in fretta all'interno della casa diroccata. «Sciò!»
Ace alzò appena gli occhi al cielo. «A dire la verità, sto cercando un mio amico. Si chiama Marco, faccia annoiata, capelli ad ananas...»
Petr deglutì, ma non staccò gli occhi da lui. «Mai visto.»
«Guarda che lo so che è dentro quella casa...»
«Non è vero.»
«Sì, sì...» Ace non rispose, riprese solo la vivrecard che aveva rimesso in tasca. Alzò il palmo: la vivrecard continuò a puntare verso la casa cantoniera. «Marco non è il tipo da ficcarsi nei guai...» mormorò, in tono quasi casuale. «Ma se gli avete fatto del male...» Il tono era freddo.
«Noi?» Petr emise una risatina. «Non sei tu che lo stai cercando? Non sei tu quello che l'hai maledetto perché ti dicesse tutto quello che volevi sapere?»
«Maledetto?» Ace sbatté le palpebre. «Ma di che cosa stai parlando?»
Petr scoccò un'occhiata di traverso alla sua casa, poi tornò a rivolgersi ad Ace. «Sì, fai pure finta di nulla.» Si voltò e fece un passo in avanti, ma Ace fu più rapido a balzare di fronte a lui per bloccargli la strada.
«Senti, mi sa che abbiamo iniziato col piede sbagliato. E poi ero davvero interessato alla vostra band.»
Fece scivolare a terra lo zaino che portava appeso alla spalla, che cadde a terra tintinnando. Si aprì appena, per mostrare le numerose monete d'oro che lo riempivano, il risultato della sua missione. Petr abbassò appena lo sguardo, poi lo scostò.
«Penso che potremo trovare un accordo.» Ace sorrise.
 
***
 
Il dolore era del tutto passato. Rimaneva un senso di stanchezza, che comunque gli rendeva difficile muoversi. Per uno che poteva rigenera qualsiasi problema fisico anche la più piccola forma di debolezza era un problema. Non poteva rimettersi in viaggio finché non fosse stato di nuovo in salute.
Incontrare quei ragazzi era stato un colpo di fortuna. Gli era dispiaciuto mentirgli, ma non aveva avuto altra scelta. Ora aveva un giaciglio comodo dove accoccolarsi nella sua forma di fenice, cosa che aiutava i suoi muscoli a recuperare la forza, e non doveva preoccuparsi di procacciare cibo o acqua.
In qualche modo li avrebbe ricompensati.
Alzò appena la testa, che teneva ripiegata sotto una delle sue ali, quando i cinque ragazzi entrarono nella stanza da letto che condividevano tutti assieme. Petr e Cal erano davanti, gli altri tre due passi dietro di loro. Kil non lo stava guardando.
«Che cosa c'è?»
I suoi sensi non erano più ostacolati dal dolore, per cui percepì il pericolo. Balzò in piedi, le ali larghe, ma il corpo non gli rispondeva come voleva, ancora preso dalla stanchezza dei giorni precedenti.
Petr e Cal gli balzarono addosso in un istante, con lo scopo di bloccarlo con il loro stesso peso. Nonostante fossero dei ragazzini magrolini, Marco non riuscì a toglierseli di dosso. Anche Kov si era avvicinato e gli aveva afferrato il volto per legargli il becco; subito dopo, Petr approfittò della sua distrazione nel cercare di liberarsi da una parte, per stringergli anche gli artigli. Cal non aveva mollato la presa nemmeno per un istante, tenendogli strette le ali, finché Lic non gettò su di lui una rete di corda di yuta.
Ora che i ragazzi si erano tolti di dosso, Marco poteva di nuovo allargare le ali, ma era troppo tardi. Ai quattro angoli tirarono la rete fino a stringerla del tutto attorno a lui. Avrebbe potuto trasformarsi in un uomo, così la rete che aveva assunto la sua forma sarebbe diventata inefficace come i legacci che gli stringevano becco e artigli.
Non lo fece. Non aveva ancora abbastanza forza per combattere o fuggire, per cui si sarebbe tenuto un'arma segreta da parte. Non sapeva cosa volessero fare, quindi non gli restava che scoprirlo prima di elaborare una strategia. Rimase quindi fermo, la testa alzata a guardarli.
«Mi dispiace. Mi dispiace tanto.» Kil aveva gli occhi pieni di lacrime e l'ultima cosa che Marco vide prima che fosse avvolto in una coperta fu Petr che gli poggiava una mano sulla spalla.
«È per una buona causa.»
Marco smise di muoversi e lasciò che lo trasportassero senza fatica. La sua migliore ipotesi era che qualcuno li avesse pagati e, vista la casa dove vivevano, non era strano che avessero accettato. E il sentire che si stavano dirigendo verso una presenza rafforzò la sua idea.
Non era la prima volta che Marco veniva venduto. In un certo senso, aveva esperienza in quel campo. La differenza era che sapeva combattere: non era il braccio destro dell'uomo più forte del mondo per nulla. Ancora qualche giorno e avrebbe ripreso tutta la sua potenza.
Si sentì mettere a terra con più delicatezza di quello che pensava e avvertì chiara la terra e i fili d'erba sotto di lui. La coperta fu rimossa appena dal suo capo e Marco agitò appena il collo e poi guardò in avanti. Spalancò gli occhi.
Ace era di fronte a lui e sorrideva divertito.
«Ecco, come d'accordo» disse Petr. Non stava guardando Marco. «Questo è il lago di cui stavamo parlando, se vuoi provare...» Gli altri erano dietro di lui e gli scoccavano occhiate perplesse.
«No, non è necessario» scosse la testa Ace. Lui, al contrario, non aveva mai staccato gli occhi da Marco, nemmeno un istante. Lo zaino sulla sua spalla scivolò verso il braccio e poi venne allungato verso i cinque ragazzi. «Prendete e andatevene.»
Petr fece un minuscolo passo avanti, quanto bastava per afferrare lo zaino senza avvicinarsi ad Ace. Se lo strinse al petto e poi lo aprì, con gli altri che si affacciavano oltre le sue spalle per guardare quello che c'era all'interno. Petr annuì.
«Non gli farai del male, vero?» Kil alzò per la prima volta gli occhi verso Ace, ma Cal gli pose una mano sulla spalla e lo strascinò indietro.
«Vieni via!»
Marco si era voltato appena a fissarlo e Kil resse lo sguardo per poco, prima di voltarsi e seguire gli altri. Allora Marco tornò su Ace, che non aveva staccato gli occhi da lui nemmeno per un istante, sempre quel sorriso divertito sul volto. Però, man mano che il tempo passava, Ace si faceva sempre più serio, le sopracciglia alzate e il viso perplesso.
«Insomma!» Si chinò davanti a lui e in un istante il suo fuoco passava sopra il corpo di Marco, bruciando ogni singola corda che lo teneva imprigionato. «Che cosa stavi aspettando?»
Marco tornò immediatamente in forma umana, ma Ace, conscio dei suoi poteri, non aveva trattenuto il suo fuoco. Le fiamme blu curatrici eruttarono dal suo corpo: Marco urlò e rimase accasciato al suolo.
«Che cosa ti succede?» Ace era chinato su di lui, un tono preoccupato nella sua voce, la mano poggiata sulla sua schiena.
Marco si voltò di lato, appoggiando la testa sulle sua ginocchia. «Il mio potere rigenerativo ha un limite» gli spiegò. «Io posso guarire, ma continuo a provare dolore. Questo si accumula dentro il mio corpo finché non raggiunge il limite. Nel corso degli anni mi sono allenato a trattenerlo sempre di più, in modo da affrontare anche le battaglie più dure, ma il risultato è che quando raggiungo il limite è sempre peggio.»
Ace gli accarezzò appena la testa. «Che cosa significa?»
«Il dolore accumulato emerge tutto assieme» rispose Marco, con lentezza. «Passo giorni in agonia e altrettanti a riprendere le energie.»
«Per questo hai raccontato quella storiella ai ragazzi?»
«Sì. Mi è dispiaciuto.»
«Non dovresti, visto come ti hanno veduto.» Il tono di Ace era duro.
«Avevano bisogno di soldi. Quanti gliene hai dati?»
«Non è una giustificazione...» borbottò Ace, seccato. Poi alzò le spalle. «Non so, era il bottino che avevo con me.»
«Se lo sono meritati per essersi presi cura di me.»
Ace sbuffò e scostò lo sguardo da lui.
«Sì, lo so, si sono fatti tentare dai tuoi soldi e si sono dimostrati come tutti gli altri, ma comunque-»
«Non è per quello» lo interruppe Ace. Sospirò, piegando appena la testa di lato. Poi parlò: «Il Babbo e gli altri erano preoccupati per te e mi hanno mandato a cercarti.»
«Loro non sanno di questa storia» ammise Marco. «Gliel'ho sempre tenuta nascosta. Non è un bello spettacolo e non volevo preoccuparli...»
«Hai fatto male!» esclamò Ace. «Adesso non riesco a togliermi dalla testa l'immagine di te, qui da solo, dolorante... E se non fossi passato io? E se ti avessero venduto a qualcun altro?»
«Ace, rilassati.» Marco mosse appena la mano per sfiorargli appena la mano. «Sono cose che mi sono già successe. Me la so cavare, non serve che tu ti preoccupi per me.»
«Ma io lo faccio già» replicò Ace. Si chinò appena, in modo che le loro fronti fossero una di fronte all'altra. «Credi che non sia mai stato vicino a Rufy quando stava male e aveva bisogno di me? Non mi spavento facilmente. Sei tu che non ti devi preoccupare per me.»
Marco sentiva il suo fiato accarezzargli la pelle. «Ace...»
«E se quello che c'è fra noi conta qualcosa, be', allora devi permettermi di starti accanto anche in queste situazioni» proseguì lui. «Non devi stare sempre lì a preoccuparti per me e basta. Puoi contare anche su di me.»
«Hai ragione» ammise Marco, alla fine. «Ho sempre lasciato che gli altri si appoggiassero a me, ma devo dire che è bello anche poter contare su qualcuno.» Si voltò appena, la fronte che appoggiava meglio sul suo torso caldo. «Sono molto stanco» disse. «Ti dispiace se ci riposiamo ancora un po'?»
«Certo che no.» E, con un leggero sorriso sul volto, sistemò meglio le gambe in modo che Marco potesse usarle come cuscino, mentre lui gli accarezzava i capelli.

 

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Capitolo 5
*** Eterno bambino ***


Eterno bambino

«Non serviva che mi accompagnassi, potevo andare da solo» gli fece presente Ace, voltato appena a guardarlo.
Marco accennò appena un'alzata di spalle. «Avevo voglia di accompagnarti, e poi non vedo Doma da un po' e mi faceva piacere rivederlo.»
«Tanto lo so che lo fai solo per sorvegliarmi» protesta Ace, ma il tono è divertito. «Almeno potresti volare e non fare tutto a me.» Indicò il punto dello striker dove Marco si era appollaiato.
«Potrei, ma non voglio farti mangiare la polvere.»
«Che presuntuoso» replicò Ace e giusto per mettere in evidenza la situazione aumentò la  velocità dello striker giusto per dimostrargli che in una sfida di velocità non sarebbe stato secondo a nessuno.
Non fu un viaggio lungo non solo per quello, comunque, ma anche perché la nave di Doma non era poi così lontana dal posto dove si trovavano. Doma e la sua ciurma li stavano aspettando, perché il loro arrivo fu accolto da un coro di saluti incomprensibili e da qualcuno che lanciò in acqua una corda in modo che Ace potesse legare lo striker alla nave.
«Ciao! Benarrivato» lo accolse Doma con un grosso sorriso, quando Ace atterrò con grazia sul bordo del parapetto.
«Tutto bene?» Ace ricambiò la stretta di mano con forza.
«Benissimo.» Lo sguardo di Doma si mosse su Marco, a cui sorrise, il quale era appena atterrato a fianco di Ace e aveva ritrasformato le sue ali in braccia. «Sei venuto con l'accompagnatore?» ridacchiò quindi.
Ace scoccò a Marco un'occhiata che indicava qualcosa tipo 'visto che non serviva che venissi?' poi però le sue labbra si stiracchiarono in un sorriso malevolo. «Non è il mio accompagnatore, è il mio toy boy.»
«Ah sì?» Marco lo afferrò per il collo e lo bloccò completamente al suo fianco. «Al massimo è il contrario.» Ace si stava agitando per liberarsi e lasciava inutilmente scorrere delle fiammelle sulle sue spalle, ma non molto convinto e si calmò completamente quando Marco gli diede un leggero bacio sulla testa.
Doma li osservò con uno sguardo perplesso, ma Ace non ci fece caso, troppo preso ad osservare il resto della ciurma, che non aveva ancora salutato.
«Visto che hai voluto venire con me, a te toccherà lavorare» fece presente a Marco, con un sorriso, mentre lasciava il parapetto per andare dal resto dei compagni.
Aveva un legame particolare con la ciurma di Doma, perché era stata una delle prime che aveva sconfitto dopo la sua entrata nella ciurma di Barbabianca e la prima che, dopo la battaglia, aveva deciso di diventare un alleato. Per questo motivo non solo Ace si sentiva ancora più responsabile per loro, anche se non era nemmeno un comandante e non aveva alcuna responsabilità, ma era stato più facile fare amicizia con loro che con gli altri alleati che erano con Barbabianca da una vita.
Quando ebbe finito di salutare ogni singola persona e dopo che questi gli ebbero raccontato le ultime novità e le ultime avventure, Ace tornò a voltarsi mai ovviamente Marco e Doma non erano rimasti dove li aveva lasciato. Nessuna sorpresa, Marco prendeva il lavoro molto seriamente e più rigidamente di lui, quindi non sarebbe certo rimasto fermo quando avevano cose da sistemare. E Doma l'avrebbe appoggiato perché ovviamente l'autorità di un comandante era superiore a quella di Ace, anche se il rapporto con lui era più stretto.
Così Ace si diresse nella cambusa e da lì nel sottocoperta dove si trovava l'ufficio di Doma, intenzionato comunque ad affiancare Marco e ad aiutare per quanto possibile. La porta era semichiusa, anche perché non c'erano segreti nella ciurma, ma quando Ace fece per aprirla, sentì pronunciare il suo nome.
«Cioè, lo so che non sono fatti miei, ma ha diciassette anni.»
«Diciotto» lo corresse gentilmente Marco. «Ne aveva diciassette quando tu e gli altri non vi siete fatti problemi a combattere contro di lui. E mi risulta che vi abbia fatto il culo comunque.»
«Oh, questa è la tua scusa?» ribatté Doma.
«Non si tratta di una scusa, ma del mio pensiero.» La calma di Marco era ineccepibile, come al solito. «Tutti tendono a sottovalutarlo, ma Ace non è un ragazzino immaturo.»
«Ma è pur sempre un ragazzino.»
Marco sospirò. «Lo so» ammise infine. «Credi che non lo sappia? Credi che non abbia passato delle notti in bianco a pensarci e a sentirmi male per quello che provavo? Però non posso negarlo, mi sono innamorato di Ace e alla fine mi sono detto che forse sarebbe stato molto peggio respingerlo.»
«Cavoli, un bel casino eh?»
«Abbastanza.»
C'era del calore nel petto di Ace, riguardo a quello che aveva appena sentito. Marco era innamorato di lui. Era qualcosa che Ace continuava a chiedersi, perché se era difficile credere che qualcuno potesse davvero apprezzarlo, era ancora più difficile che qualcuno potesse innamorarsi di lui. E Marco in pratica aveva detto che sì, era innamorato di lui.
Era tutto il resto del discorso che lo convinceva poco. Odiava sentirsi dare del ragazzino e odiava ancora di più quando era Marco a dirlo. Seriamente. Se lo prendeva in giro era una cosa, ma gli avrebbe fatto piacere che lo considerasse un suo pari. E forse era impossibile, considerando che li separavano vent'anni di esperienza. Non importava che Ace fosse stato a sua volta un capitano o un fratello maggiore, in confronto a Marco restava un ragazzino.
Non era una situazione che gli piaceva, ma non ci poteva fare nulla. Poteva tentare di dimostrare che era più maturo per la sue età, ma era difficile quando tutto il resto era contro di lui.
Tornò indietro sul ponte e incontrò qualche altro membro della ciurma, per cui tentò di rimettere su il suo normale sorriso nel salutarli.
«Ehi, Ace, ha voglia di andare a caccia?» gli propose uno dei pirati. «Abbiamo ancora un po' prima della prossima isola e non è detto che riusciamo ad avere abbastanza provviste per te» gli spiegò, ridacchiando.
«Oh, ma che carini, che mandate gli ospiti a procurarsi il cibo» li prese in giro Ace, ma annuì.
Procurarsi del cibo era qualcosa che era abituato a fare e nella Rotta Maggiore era anche facile, perché i mostri marini praticamente uscivano a ogni anfratto e con i suoi poteri li poteva cacciare e contemporaneamente cucinare. Quel giorno non fece differenza nella caccia, ma Ace aveva proprio bisogno di farsi un giro da solo sullo striker e quando tornò indietro alla nave con il suo bottino di carne aveva in mente qualcosa da dire a Marco.
Il discorso che si era preparato gli passò di mente quando notò che la nave di Doma era stata ormeggiata nella piccola insenatura di un'isola verdeggiante. La cosa lo sorprese perché, prima di partire, gli era stato detto che erano lontani dalla loro prossima meta. Però nella Rotta Maggiore non era strano capitare per caso in altre destinazioni. No, ciò che lo preoccupò maggiormente fu non vedere più il Jolly Roger che volteggiava sulla cima dell'albero maestro.
Così salì a bordo con circospezione, il fuoco già acceso nel suo pugno. E poi sbatté le palpebre perplesso. La nave si era riempita di ragazzini. Erano tutti sparsi per la nave, come se non ci fosse nulla di strano. Alcuni si affacciavano dal parapetto, altri erano seduti tranquillamente sopra, ma apparivano completamente a loro agio.
Ace guardò la scena perplesso e fece un passo in avanti, incerto.
«Oh, ma quindi ce n'era un altro.»
Ace si voltò verso la voce che aveva parlato e si trovò di fronte un ragazzino poco più giovane di lui, con i capelli castani e profondi occhi verde mare. Tutto nel suo corpo appariva infantile, dalla giacca rossa tenuta stretta da una cinghia, ai guanti neri con i braccialetti di cuoio, ai googles che teneva trascuratamente storti sulla fronte. Ma c'era anche qualcosa di pericoloso nel modo noncurante con cui teneva la battaglia di liquore appoggiata sulla spalla o nel modo in cui lo guardava sorridendo, che metteva Ace sull'attenti.
«Dov'è la ciurma?»
«Cosa intendi?»
«La ciurma pirata proprietaria di questa nave.»
«Aaah, quindi erano dei pirati» dedusse lui. «In realtà sono ancora tutti qui.» E allungò la mano a indicare il resto della nave.
Ace alzò leggermente il sopracciglio, perplesso, ma poi guardò nella direzione indicata e il suo sguardo si focalizzò su uno dei ragazzini biondi. La maglia a righe bianche e azzurre e il foulard rosso attorno al collo ricordava molto da vicino il vestito del vice di Doma, così come i capelli a punta con la treccia più lunga che gli ricadeva sul petto. L'unica differenza era la giovane età.
Finché Ace non capì e aprì la bocca in un'esclamazione silenziosa.
Il ragazzo con cui aveva parlato prima sorrise. «Ehi, ragazzi, qui c'è un pirata. Dagli al pirata!»
«Che?»
Tutti i ragazzi, che si era ormai capito essere in realtà Doma e la sua ciurma, si gettarono verso di lui in un attimo. Ace rimase quasi sorpreso dal modo rapido in cui si mossero, rispetto alla tranquillità che avevano prima, ma si riscosse subito e la mano si illuminò con il fuoco, com'era sua abitudine quando veniva attaccato. Ma poi si ricordò che quelli che aveva di fronte non erano degli avversari ma dei suoi compagni e si bloccò.
Se non fosse già strano che fossero stati trasformati in ragazzini e bambini, ci si aggiungeva il fatto che non si ricordavano assolutamente di lui, senza considerare che l'idea che fosse un pirata per loro, che erano pirati allo stesso modo, fosse un problema. Ace non aveva del tutto l'intenzione di farsi catturare, ma voleva capire cosa fosse successo e alla fine si trovò stretto nelle reti che gli avevano lanciato.
Non sapeva che Doma avesse con sé dell'agalmatolite marina. Era un metallo molto raro, a malapena ne avevano qualche pezzo sulla Moby Dick, rubato in qualche assalto alle navi della marina. Solo a contatto con quel metallo, che immediatamente gli rubò le forze, Ace iniziò a riprendersi dalla sorpresa che l'aveva colto, ma era troppo tardi. Le reti si strinsero attorno a lui, fissandogli le braccia sui fianchi e le gambe assieme, fino al punto di perdere l'equilibrio.
Ace sbuffò seccato e poi alzò lo sguardo: Doma, o almeno quello che pensava fosse un Doma in versione ragazzino, era sopra di lui e lo guardava soddisfatto.
«Cosa facciamo di lui, Peter?»
Il ragazzo che Ace era convinto fosse responsabile di tutto quel caos era al suo fianco e si batteva la bottiglia di vetro sulla spalla. Lo stava guardando in maniera interessata, riflettendo, prima di sorridere.
«Portiamolo alla base. I pirati hanno bisogno di qualcuno che dia loro una lezione.»
 
***
 
Almeno aveva il tempo di pensare. O, almeno, lo avrebbe avuto se il suo stomaco non stesse brontolando così tanto da disturbare i suoi pensieri. E ovviamente non poteva procurarsi del cibo così immobilizzato com'era, e non poteva liberarsi senza avere prima del cibo. Era una situazione irrisolvibile che lo frustrava oltre misura. E il fatto che i suoi compagni fossero in pericolo, perché nella sua mente l'intera situazione era un problema, così come molte cose nella Rotta Maggiore, aggravava solo le cose.
Così quanto qualcuno aprì la porta per entrare nella stanza dove l'avevano rinchiuso, sperò che almeno gli avessero portato da mangiare. Sarebbe stato un miglioramento della sua situazione. E così era, perché la persona che era appena entrata aveva un piatto di qualcosa di fumante in mano. Ma non era quello che aveva attirato l'attenzione di Ace
La persona che aveva di fronte era Marco. Un Marco giovane, una stima tra i quattordici e i quindici anni. Era senza dubbio lui, con quella capigliatura inconfondibile. Aveva però una fisionomia facciale più dolce, senza alcuna traccia di barba, e anche gli occhi erano più grandi e mostravano chiaramente il loro colore azzurro.
Ace rimase a fissarlo a bocca aperta. Ovvio che anche Marco avesse avuto un periodo della sua vita in cui era giovane, lo sapeva, ma una cosa era esserne vagamente a conoscenza e una cosa vederlo con i propri occhi.
«Che hai da guardare, pirata?» disse Marco. Aveva appoggiato il piatto fumante davanti a lui e le sue parole riportarono Ace alla realtà.
«Marco... Sono io. Sono Ace!»
Marco alzò leggermente un sopracciglio, in una maniera molto simile alla sua solita. «Dovrebbe dirmi qualcosa?»
Ace sospirò: aveva già sospettato che, qualunque maleficio li avessi colti, non li aveva ringiovaniti solo d'età ma anche di memoria. Il perché seguissero Peter era ancora incerto, ma se uno era in grado di manipolare il tempo, non era impossibile che potesse manipolare anche i ricordi.
«Come pensi che possa mangiare, con le mani legate dietro la schiena?» disse allora.
Marco alzò le spalle. «Non sono problemi miei.»
«Dove siamo?» Ace non sapeva bene che cosa fare, solo che non poteva permettere che Marco lasciasse quella stanza. «Chi è Peter? Perché vi fate comandare da lui.»
«Tu fai un sacco di domande.»
Era vero, ma non aveva nulla della situazione sotto controllo. «Puoi farmene anche tu a me.»
«Non ho niente da chiedere a un pirata.»
«Allora continuerò a fartene io» replicò Ace, senza perdersi d'animo. «È stato Peter a chiederti di portarmi da mangiare o è stata una tua idea?»
Bingo. Il Marco vecchio non si sarebbe fatto cogliere impreparato, ma il Marco giovane non aveva ancora la stessa faccia di bronzo, anche se ci stava lavorando. Il pensiero era venuto ad Ace perché, nonostante tutto, Marco non sembrava così ansioso di andarsene.
«Facciamo un accordo» disse allora. «Tu mi liberi e io faccio qualcosa che vuoi. Qualsiasi cosa.»
«Non vedo perché dovrei fidarmi di un pirata.»
«Che cos'hai contro i pirati?»
Marco rimase un attimo incerto. «I pirati sono cattivi. Rapiscono i bambini e li danno in pasto ai coccodrilli.»
Ace sbatté le palpebre e poi scoppiò a ridere. Certo, non poteva negare che i pirati non fossero esattamente dei santi, lui meno di tutti perché rubava sempre dai ristoranti, ma non aveva mai sentito una cosa del genere. Appariva uno sforzo totalmente inutile da parte di chiunque, a parte un sadico, che Ace dubitava una cosa del genere fosse davvero successa nella vita.
«Non ridere! È una cosa seria!» esclamò Marco, ed era incredibile vederlo così emotivo. «I pirati mettono le persone su una passerella e li costringono a camminare finché non cadono in acqua.»
«In pasto ai coccodrilli, ho capito.» Ace trovava davvero difficile non ridere di quella storia. «Non so se l'hai notato, ma non ci sono passerelle sulla mia nave.» Il suo striker era perfetto così com'era, non aveva tempo di rapire bambini.
Marco sembrò davvero perplesso da quella situazione e Ace lo trovò in qualche modo strano, perché era difficile normalmente vincere un confronto verbale con lui.
«Ascolta» mormorò dolcemente. «È vero che non hai motivo di fidarti di me, ma non ho seriamente intenzione di far male a nessuno di voi. Voglio solo ritrovare i miei compagni.»
«Ci siamo solo noi qui.»
Ace alzò le spalle: era proprio quello il problema, ma dubitava che dirglielo avrebbe fatto qualche differenza. «Ti sto chiedendo un favore.»
Rimasero in silenzio per un po', con Marco che continuava a guardarlo sospettoso ma non faceva alcun segno di voler lasciare la stanza. Poi, alla fine, senza dire una parola si avvicinò a lui e si chinò al suo fianco. In una mano aveva il coltello di Ace, quello che gli era stato confiscato prima, e nell'altra un mazzo di chiavi. Non le avrebbe avute con sé se non ci fosse stata da parte sua una prima intenzione di liberarlo. Il cuore di Ace si risollevò un attimo: era un inizio.
«Be'?» sbottò Marco, imbarazzato, notando lo sguardo su di lui. «Non avevi detto che volevi mangiare?»
«Oh, puoi dirlo forte.» E Ace si precipitò sul piatto e lo divorò in un attimo. Per riempirlo ci sarebbe voluto ben più di un piatto di zuppa, ma per il momento avrebbe dovuto accontentarsi.
Poi tornò a concentrare la sua attenzione su Marco, che stava a distanza di qualche metro da lui, il coltello sguainato stretto al petto, pronto a difendersi in caso di necessità. Ad Ace fece tenerezza, perché appariva così giovane e indifeso rispetto al solito.
Fiammelle uscirono dalle sue mani, mentre creava le sue lucciole di fuoco e le faceva volteggiare attorno a Marco. Non poteva sapere se il maleficio gli avesse fatto conservare anche i suoi poteri rigenerativi, per cui si limitò a piccole esplosioni, giusto quanto bastava per fargli perdere l'equilibrio per la sorpresa e la presa sul coltello.
Marco si spaventò, ma fu abbastanza rapido da cercare di lanciarsi per recuperare l'arma, ma Ace fu più rapido e gliela sottrasse. Aveva anche più forza fisica, per cui riuscì a immobilizzarlo prendendolo per un braccio. Però lo lasciò subito, dato che l'unica cosa che davvero lo interessava era recuperare il suo coltello: ci era affezionato.
«Allora, che cosa vuoi?» gli domandò, anche se Marco si era allontanato verso un angolo della stanza ed era chiaramente pentito di averlo liberato. «Avevamo un accordo, no? La cena per un favore» spiegò Ace, di fronte alla sua sorpresa, e ridacchiò ancora della sua espressione.
«Parli sul serio?»
Ace allargò le braccia. Se avesse voluto fargli del male l'avrebbe già fatto, glielo aveva appena dimostrato.
«Vorrei...» mormorò allora Marco, con un tono di voce molto basso. «Vorrei fare un giro sulla tua barca.»
«Ma certo.» Ace sorrise. In qualche modo, si era aspettato una richiesta del genere, o almeno sperava che gli venisse posta. Girare con lo striker era quanto più vicino si arrivasse alla via del pirata, un modo per riportare Marco dalla sua parte.
Seguì Marco fuori dalla stanza, perché non conosceva la zona abbastanza da poter guidare. Marco, al contrario, appariva come se vivesse in quel luogo da sempre e riuscì a portarlo di nuovo verso l'insenatura dove avevano ormeggiato la nave di Doma senza che nessuno degli altri se ne accorgesse.
Ace ebbe comunque il modo di dare un'ulteriore occhiata al villaggio nascosto nella foresta, confermando l'opinione che si era fatto quando l'avevano imprigionato prima. Era un posto dominato da ragazzini, tutto a misura loro. Le case erano costruite sugli alberi, non diversamente da quella che lui e Sabo e Rufy usavano alla loro età, con liane a collegarle fra di loro e dipinte a colori vivaci. Non c'era organizzazione, solo allegra anarchia.
In ogni caso, ora non aveva senso preoccuparsi del perché esistesse un villaggio simile o perché Peter trasformasse la gente in bambini, la cosa principale era occuparsi di Marco, che dopo tutta la preoccupazione che aveva avuto prima ora sembrava quasi felice. Almeno era quella l'impressione che Ace aveva nel vederlo correre così velocemente verso la spiaggia e anche la fretta con cui sciolse la corda che teneva lo striker legato alla nave.
«Fai attenzione a non entrare mai qui dentro» disse Ace, indicando la parte dove il fuoco fungeva da propulsore. «O potresti farti male.»
Marco annuì e si sistemò sulla punta, lo sguardo puntato in avanti. Ace spinse lo striker più al largo e poi si accomodò al suo solito posto, lasciando il fuoco uscire dalle sue gambe. Lo striker prese immediatamente velocità e in poco tempo si furono lasciati l'isola alle spalle, soli nell'immensa vastità dell'oceano.
Una parte di Ace voleva semplicemente tornare verso la Moby Dick, a casa. Il Babbo certo avrebbe saputo come far tornare Marco normale. Ma avevano ancora Doma e i suoi da salvare, quindi dovevano tornare indietro. Si sarebbe solo goduto il momento.
Marco, dopo un attimo di incertezza, si era alzato in piedi e aveva allargato le braccia, lasciando che il vento gli agitasse la maglietta. Ace non poteva guardarlo in viso, dato che gli dava le spalle, ma era sicuro che avesse chiuso gli occhi e stesse sorridendo.
Ad Ace non sarebbe dispiaciuto avvicinarsi a lui e stringerlo a sé, ma non avevano ancora quel tipo di rapporto per cui Marco gliel'avrebbe concesso. E poi era così giovane... Probabilmente non era nemmeno il caso.
E improvvisamente Ace si rese conto che stava ragionando esattamente come Marco. Certo, la differenza che c'era tra il Marco di adesso e Ace era solo di un paio d'anni, ma appariva maggiore perché Marco sembrava perso, bisognoso di una guida e di qualcuno che lo aiutasse a indirizzarsi sulla strada giusta.
Ad Ace non poté non venire in mente quando, sulla Moby Dick, Marco gli aveva portato da mangiare e poi gli aveva spiegato perché chiamassero Barbabianca 'padre'. Chissà se anche lui, in quel momento, aveva visto Ace come una persona che aveva bisogno di una guida e si era sentito imbarazzato dall'idea di provare qualcosa per lui.
Ace si morse appena il labbro. Non poteva negare che i consigli di Marco gli fossero serviti in più occasioni, ma non credeva che i sentimenti che provava per lui dipendessero da questo. Se chiudeva gli occhi e pensava a lui c'erano altre cose che gli venivano in mente sul perché gli piacesse. Però ora capiva molto meglio i pensieri che avevano potuto affollare la mente di Marco prima di riuscire ad accettare quello che stava succedendo fra di loro.
Era qualcosa di cui avrebbero dovuto parlare.
Una volta risolto questo casino, ovviamente.
«Perché seguite tutti Peter?» Si era azzardato a chiederglielo perché la situazione sembrava abbastanza tranquilla.
Marco abbassò le braccia e si voltò verso di lui. «È il capo dell'isola.» Alzò le spalle. «Finché restiamo con lui possiamo essere sempre ragazzini.»
«E tu vuoi rimanere sempre ragazzino?»
Marco non rispose.
«Be', non posso negare che sia bello essere giovani» continuò quindi Ace. Lui stesso lo era, e poi di tanto in tanto apprezzava essere il fratellino minore della ciurma. «Ma penso anche che ci sia un momento in cui si deve diventare adulti. O accettare che anche gli altri lo diventino.» L'ultima aggiunta era qualcosa che quel Marco non poteva capire.
Prima che Marco potesse rispondere, un mostro di mare emerse dalle profondità dell'oceano e Ace balzò in piedi, pronto a difendersi. Bastò un pugno di fuoco per metterlo fuori gioco e cuocerlo contemporaneamente.
«Ne vuoi un pezzo?» domandò, sorridendo in direzione di Marco, che annuì vigorosamente.
Si sedettero sullo striker a mangiare con le mani quella carne saporita che ancora scottava.
«Voi pirati fate questo tutti i giorni?» domandò Marco, dopo essersi pulito la bocca con la manica della maglietta.
«Intendi mangiare carne di mostro marino?» scherzò Ace, che però aveva capito che cosa l'altro volesse davvero dire. Quindi aggiunse: «praticamente sì. L'unica cosa che vogliamo è essere liberi. E non c'è maggiore libertà che navigare in questo mare.» E allargò il braccio a indicare la vastità della distesa blu che avevano attorno.
«Mi piacerebbe diventare un pirata» ammise allora Marco.
«Puoi farlo.»
Marco scosse la testa. «Peter non vorrebbe mai.»
«Allora dovremo convincerlo» affermò Ace. In realtà quello che voleva davvero era che rimettesse tutte le età e le memorie al suo posto: quello avrebbe in ogni caso realizzato il desiderio di Marco, dato che lo era già. «Però, per questo, avrò bisogno del tuo aiuto. E degli altri.»
«Non gli farai del male, vero?»
Ace scosse la testa. «No, ma voglio solo dargli una bella lezione. Non so perché odi i pirati e non m'interessa, ma credo che voi dobbiate essere liberi di decidere che cosa fare.»
Marco annuì lentamente, ma non aggiunse altro, nemmeno se era d'accordo con quello che aveva detto Ace. Così lui mosse lo striker nuovamente verso l'isola da cui erano partiti.
Quando arrivarono all'insenatura, c'era Doma ad aspettarli. I suoi occhi si spalancarono quando vide Ace, per cui Marco spiccò un balzo e atterrò al suo fianco, per rassicurarlo sulla situazione.
«Hai rischiato la vita!» lo aggredì comunque Doma, toccandolo ovunque per assicurarsi che stesse bene.
Ace alzò le spalle e poi indicò lo striker. «Non è che vuoi fare un giro anche tu?» E lo sguardo di Doma gli diede l'esatta idea che il loro spirito da pirata non si era certo assopito per colpa di un maleficio.
 
***
 
Ace non si sentì troppo in colpa per le condizioni di Peter. Era vero che dall'esterno poteva sembrare che avesse manipolato dei ragazzini, ma la realtà era che Peter, per primo, li aveva attaccati trasformandoli in qualcosa che non erano. Era solo rendergli pan per focaccia.
«Direi che la situazione si è ribaltata» commentò. Peter era in piedi di fronte a lui, mani e piedi legati e lo guardava con odio. Solo che rimaneva pur sempre un ragazzino, per cui non riusciva a essere spaventoso tanto quanto voleva. Ace si chiese se anche lui, di fronte a  Barbabianca, non avesse lo stesso aspetto. Be', come aveva imparato lui, avrebbe imparato anche Peter.
«Ragazzi, è ora di partire. Gonfiate le vele!»
Ace sapeva navigare quanto bastava, ma aveva scoperto che, pur senza memoria, le conoscenze di Doma e degli altri erano intatte, a sufficienza da poter essere in grado di manovrare la nave anche da ragazzini. Aveva un piano in mente per dare una bella lezione a Peter, ma per prima cosa voleva allontanarsi il più possibile da quell'isola.
Una volta che la nave ebbe preso il largo, con la prua nella direzione opposta rispetto all'isola, Ace tornò a concentrare la sua attenzione su Peter, che stava continuando ad agitarsi nei legacci che gli stringevano mani e polsi.
«Bravo, complimenti» disse Peter, una vota che ebbe notato che aveva la sua attenzione. «Hai appena rovinato la loro vita.»
«Davvero?» Ace alzò un sopracciglio.
«Sì. Io gli avevo dato una casa e una nuova vita. Una vita migliore.»
«Non so se la vita da eterni ragazzini sia davvero meglio» replicò Ace.
«Sempre meglio di una vita da pirati.»
«Che cosa ti hanno fatto i pirati?»
Peter sbuffò e non disse nulla. Non che Ace non potesse immaginarlo, aveva visto di persona che cosa un pirata poteva fare. Suo padre non era considerato un mostro per nulla.
«Non importa» disse. «So però esattamente cosa farò io a te.» E sorrise. «Ti darò in pasto ai coccodrilli.»
Peter spalancò gli occhi. Ace non era sicuro che fosse perché, come lui, lo trovasse una cosa assurda, o perché ne fosse davvero spaventato. Lo avrebbe scoperto molto presto. Gli si avvicinò e usò il suo stesso cappello per bendarlo, poi se lo caricò in spalla e fece qualche passo, giusto per dargli l'illusione che lo stesse davvero portando su una passerella. Invece lo rimise a terra a qualche passo dalla polena.
«Ti consiglio di fare attenzione, o rischi di cadere in acqua. Prima del tempo, intendo.»
«Non lo stai davvero facendo.»
«Ah, no?»
Ace estrasse il coltello dal fodero e gli liberò i piedi, ma Peter non si mosse e non tentò di scappare, segno che credeva davvero di essere su una passerella sospesa sull'acqua. Quindi Ace puntò la lama contro la sua schiena, abbastanza da fargli sentire quanto era appuntita.
«Cammina.»
Peter fece un passo in avanti, incerto. «Non... Non lo farai...»
«Cammina. I coccodrilli non aspettano.»
Ace gli fece fare cinque o sei passi, prima di avvicinarsi e di togliergli la benda. Il sole che brillava all'orizzonte accecò Peter, che sbatté gli occhi prima di guardare di nuovo davanti a sé, alla sterminata pianura d'acqua che la nave stava fendendo e che si perdeva all'orizzonte.
Peter rimase a guardare la scena con la bocca aperta. Poi si accorse che Ace lo guardava sorridendo e si imbronciò di nuovo.
«Cos'era questa pagliacciata?»
«Se ti avessi voluto morto ti avrei già abbrustolito» replicò Ace, che scioccò le dita per bruciare anche le corde che gli legavano le mani. «Ma i veri pirati preferiscono fare dell'altro. Coccodrilli, figuriamoci.» E ridacchiò fra sé per l'assurdità della cosa.
«Per la cronaca, non ci avevo creduto nemmeno per un attimo» gli fece presente Peter.
«Certo, certo» commentò Ace accondiscendente, mentre si accomodava sul parapetto.
Peter sbuffò, ma non aggiunse nulla. «Non vuoi sapere perché l'ho fatto?»
«No, sinceramente non m'interessa» rispose Ace. «Avrai i tuoi motivi. Io ho i miei per rivolere indietro i miei compagni. Me li ridarai?»
«Ho perso su tutta la linea.» Peter alzò le spalle.
«Avresti potuto trasformare anche me» gli fece presente Ace.
«Questo è stato il mio errore» ammise Peter. «Credevo fossi un ragazzino come noi. Mi sbagliavo.»
«Quanto vorrei che Marco ti sentisse...» mormorò lui fra sé.
Alzò di nuovo lo sguardo su Peter, ma non lo vide più davanti a sé. Per un attimo, si pentì di aver abbassato la guarda, ma quando si voltò, notò che anche l'isola era completamente scomparsa, come se non ci fosse mai stata. Il suo primo pensiero fu quello di correre nel ponte a vedere se gli altri erano tornati normali, ma inciampò in se stesso.
Si rimise in piedi spingendosi sulle mani e notò che improvvisamente i vestiti gli erano diventati larghi. O era lui che si era ridotto.
«Dai, non avrai davvero pensato che non avrei avuto io l'ultima parola, pirata?» La voce divertita di Peter gli risuonò nelle orecchie. «Non preoccuparti, tornerai normale in poco tempo.»
Ace non ci poteva credere. Era questo il ringraziamento per aver cercato di insegnargli qualcosa della vita.
«Ace? Che ti è successo? Tutto bene?»
Marco, il vecchio adulto Marco, ora era al suo fianco e lo osservava perplesso.
«Sì, tutto bene» borbottò Ace rimettendosi in piedi. «Solo una maledizione cretina di un cretino. Non ti ricordi?»
Marco scosse la testa. «Ma pare che tu abbia risolto tutto. O quasi.» E rise appena, meritandosi un'occhiataccia.
«Certo. Non sono un ragazzino.»
Marco sorrise dolcemente. «Lo so già, questo.» E gli tese la mano.
«Ah, sì? Quindi significa che potrò stare sopra, qualche volta?»
«Solo se farai il bravo.»
«E questo non è trattarmi da bambino?»
Avrebbe voluto parlargli seriamente di quello che era successo e di quello che la maledizione gli aveva fatto capire, ma era impossibile riuscirci con quell'aspetto infantile. Dannato Peter. Doveva dire a Marco che lo capiva per tutto.
«Ace» lo chiamò Marco. «Se ti avessi davvero trattato da bambino non ci sarebbe stato nessun noi. Allo stesso modo, però, penso che tu possa capire perché non posso cambiare certi modi di vederti, anche se è stato per poco.»
Ace lo guardò con gli occhi spalancati. «Ma allora ti ricordi che è successo!»
«E se lo dici a qualcuno ti uccido.»
Ma sorrideva e Ace non poté evitare di ricambiare.
 

 

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Capitolo 6
*** Bellezza ***


Bellezza

C'erano molte cose che Ace teneva in considerazione. La forza, prima di tutto. Ma anche la lealtà e l'orgoglio. La compassione. L'educazione. La capacità di cucinare, se vogliamo esagerare con la superficialità.
Una cosa che invece tendeva a non considerare era la bellezza. Per uno cresciuto in una foresta aveva difficoltà a concepire il concetto. C'erano cose per cui diceva 'mi piace', ma raramente 'è bello'. Per cui, ovvio, non era nemmeno in grado di stabilire il punteggio del suo aspetto fisico, né se n'era mai preoccupato.
Prima di conoscere Marco.
Marco lo guardava come nessun altro e non smetteva mai di dirgli quanto fosse bello. E spesso lo faceva in situazioni in cui Ace riteneva fosse impossibile mentire, tipo durante un orgasmo, per cui aveva finito per crederci davvero.
Così non apprezzò particolarmente svegliarsi una mattina con una pustola rossa al lato destro del labbro. Però Marco era lontano dalla Moby Dick per una missione, perciò all'inizio Ace non se ne preoccupò più di tanto, convinto che sparisse in pochi giorni. Ma quando la pustola aumentò di dimensioni e vene accompagnata da un discreto numero di amiche a coprirgli l'arco della bocca e sul mento, decise che era venuto il momento di farsi visitare.
Curie lo guardò con occhio clinico. «Sì, ho già visto questa cosa» commentò alla fine. «È un virus abbastanza diffuso nella Rotta Maggiore.»
«Un virus?» si stupì Ace. «E come l'ho preso?»
«Capita a quelle persone che hanno dei picchi di testosterone inusuali rispetto al solito e poi, subito dopo, un calo improvviso.» Curie l'aveva detto nel modo più professionale possibile, ma Ace arrossì comunque. Non era difficile arrivare alla conclusione che quel picco fosse dovuto alla sua... attività con Marco, attività che Ace non esercitava in maniera così estensiva in precedenza.
«Si può curare?»
Curie annuì. «Sì, ma è una cosa lunga. Ti darò un antibiotico da prendere, ma in realtà serve solo ad accelerare il decorso del virus e a evitare che ti rimangano cicatrici. Per il resto, dovrai aspettare che termini il suo effetto.»
E per decorso della malattia Curie intendeva l'aumento esponenziale del numero delle pustole, che diventavano sempre più grandi, rosse e piene di pus giallo, fino praticamente a fargli diventare la faccia una specie di quadro di Picasso. E anche se Ace non se ne intendeva di bellezza, capiva abbastanza che non aveva la minima intenzione di mostrarsi in giro conciato in quella maniera. Men che meno da Marco.
Così approfittò del fatto che la Moby Dick dovesse rimanere ancorata per riparazioni profonde per scendere a terra e vivere momentaneamente nella foresta, almeno finché la pustole non si fossero dissipate del tutto. Vivere da solo per qualche tempo non gli dispiaceva ed essere in una foresta gli ricordava i tempi della sua infanzia con Rufy e Sabo. Era un ambiente a lui familiare, che per di più gli permetteva di non guardarsi in viso se non voleva.
Ai compagni aveva raccontato che se n'era andato in giro con lo striker, cosa che era una sua abitudine, per cui sapeva che nessuno sarebbe andato a cercarlo. Per altro l'isola offriva molti più divertimenti nella città e nella spiaggia e nessuno dei pirati a bordo aveva interesse a passare per la foresta.
Ace rimase quindi stupito quando avvertì la presenza di qualcuno nella zona. Non era preoccupato, ma con circospezione si avvicinò, camminando a terra e nascondendosi dietro un cespuglio verdeggiante.
E imprecò: la persona nella foresta era Marco!
Pareva essere alla ricerca di qualcosa, per lo meno da come si guardava intorno con gli occhi ridotti a fessura, e per un attimo Ace pensò che sapesse della sua presenza, ma poi lo vide concentrare la sua attenzione su un basso albero vicino al cespuglio dietro il quale era nascosto. Sia il tronco sia i rami erano sottili e flessuosi, per cui Marco riuscì a piegarlo facilmente verso di lui. Prese fra le due dita una delle ampie foglie a forma di cuore e la esaminò con occhio critico, poi sospirò e la lasciò, con l'albero che tornò schioccando al suo posto.
A quanto pare, non era quello che voleva.
«Che cosa cerchi?» Ad Ace sfuggì la domanda, ma continuò a rimanere nascosto nel suo cespuglio.
«Ace?» Marco spalancò gli occhi e si voltò nella direzione da cui proveniva la voce: era chiaro che non aveva la minima idea che fosse nella foresta. Quando non lo vide spuntare, però, non si avvicinò ma rimase fermo sul posto. «Che cosa ci fai lì dietro?»
«Che cosa cerchi?» ripeté invece Ace, il cui cervello stava cercando di elaborare un modo per sfuggire alla situazione in cui si era cacciato.
«Satch vuole un fascio di foglie particolari per una sua ricetta» rispose allora Marco, anche se la voce suonava confusa. «Solo che devono avere una certa consistenza, quindi non è facile.»
Ace aveva passato abbastanza tempo in quella foresta per saper individuare subito dove fosse quella tipologia di albero e dove magari ci fossero anche le foglie della consistenza corretta.
«Se ti do una mano a trovarle, poi tu mi faresti un favore?»
Marco era sempre più confuso. «Certo.»
«Vorrei... passare del tempo con te. Dormire di nuovo con te.»
Ora Marco non era più nemmeno confuso, ma preoccupato. Era chiaro che c'era qualcosa che non andava. «Per questo non hai nemmeno bisogno di aiutarmi.»
Solo allora Ace, dopo un sospiro, si decise ad alzarsi in piedi e ad uscire dal cespuglio che gli faceva da nascondiglio. Nonostante le pastiglie, che avevano ridotto il rossore e il prurito, il suo volto era ancora cosparso di pustole. Guardò Marco, ma a parte per una quasi impercettibile alzata delle palpebre e del labbro superiore, non ebbe particolari reazioni.
«Da quanto tempo ce l'hai?» domandò solo.
«Una settimana e mezzo. Ma sto prendendo le pastiglie che mi ha dato Curie» si affrettò a precisare Ace. «Però capisco se non...»
«Siediti.» Marco indicò una roccia a fianco dell'albero che aveva controllato in precedenza e Ace, benché poco convinto, ubbidì, appoggiandosi proprio sulla punta, le gambe piantate a terra leggermente larghe.
Marco gli si avvicinò, sistemandosi fra loro, e con lentezza gli prese le mani nella sue, lasciando il pollice accarezzargli il dorso delle dita. Ace osservò quei movimenti, ma alzò il viso solo quando Marco appoggiò la fronte contro la sua testa.
«Sono stato fuori per un po' e quando sono tornato...» sussurrò Marco. «Mi sei mancato.»
«Anche tu» ammise Ace. «Solo che non volevo che mi vedessi così. Possiamo chiedere a Curie per quanto durerà questa cosa e...»
«Ace» Marco lo interruppe. Si era leggermente staccato da lui e, con il viso di Ace alzato a guardarlo, solo la punta dei loro nasi si sfiorava. «Sei bellissimo lo stesso.»
«Non è vero. Fa schifo questa roba.»
«Non stavo parlando della bellezza fisica» replicò Marco, con un sorriso dolce. «Perché lo sai che non ti amo solo per quello, vero?»
Ace si sentì avvampare, ma forse erano solo le pustole, e poi deglutì. «È la prima volta che lo dici» mormorò.
«Che non ti amo solo perché sei bello?» si stupì Marco. «Credevo che fosse ovvio!» E stava per lanciarsi in una disamina sul perché, ma Ace lo aveva sentito altre volte, per cui lo bloccò subito.
«No. Intendevo... Che... Mi ami.»
Marco sorrise. «Anche questo pensavo che fosse ovvio.» E poi lo baciò: Ace sentì le labbra che premevano contro le pustole, ma la cosa importante era il calore di Marco, per cui strinse ancora più forte le mani  e ricambiò.
«E se fosse stato contagioso?»
«Non è un problema, il mio frutto mi avrebbe guarito subito.»
«Oh, grazie tante.»
Ma Ace non era davvero offeso, per cui finì per sorridere. La realtà era che credere che Marco potesse amarlo per la sua personalità era ancora più difficile da credere che alla sua bellezza. Ma non era una cosa da chiedere, perché non poteva negare a se stesso che, nonostante le pustole, Marco continuasse a guardarlo come nessun altro.
«Allora, queste foglie?» disse Marco. «Non avevi promesso di darmi una mano a cercarle per Satch?»
«In realtà avevo detto che era in cambio di un favore.»
«Favore accordato, andiamo.»
«Sicuro? Guarda che non so quando passeranno queste cose.»
«Al massimo posso metterti un sacchetto in testa.»
«Molto divertente.»
E, mano nella mano, si addentrarono ancora di più nella foresta.

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Capitolo 7
*** Il regalo ***


Il regalo

Che Ace ricordasse, non aveva mai visto Marco davvero arrabbiato. Certo, a volte guardava a Satch come se volesse ucciderlo, ma era più un divertimento fra loro due che una vera irritazione, per quanto sarebbe stata legittima.
Ma stavolta era arrabbiato e, benché non fosse sua la colpa, Ace si sentiva in dovere di fare qualcosa.
«Non l'hanno fatto apposta» commentò quindi.
«Son troppo dementi pure per quello» ribatté Marco. «Voglio dire, un errore me lo potevo aspettare, ma sono quaranta, cavolo. Quaranta pirati e nessuno di loro è riuscito a custodire una mappa. Quanto bisogna essere stupidi?»
«O forse il loro avversario era troppo furbo» tentò ancora Ace.
«Non avrei mai dovuto permettere loro di usare la grotta, questa è la verità.»
Marco si sedette al suo fianco sul letto ed Ace gli diede un'affettuosa pacca sulla schiena.
«È seccante che ti abbiano rubato quello che avevi messo da parte per il compleanno del Babbo» disse. «Ma non penso che a lui importi. In fondo, di compleanni ne ha avuti in sacco.»
«Sì, lo so.» Marco sospirò. «Ma settant'anni sono una cifra importante e poi... Avevo trovato il regalo ideale, dopo anni! Non è mica facile regalare qualcosa a un uomo che ha già tutto quello che gli serve.»
Ace non commentò: lui personalmente non riteneva che regalare un tesoro al Babbo fosse la scelta migliore, dato che indubbiamente ne metteva da parte abbastanza durante gli arrembaggi, ma Marco lo conosceva certo da più anni e sapeva quello che era meglio.
«E quaranta idioti si fanno fregare la mappa per la grotta da sotto il naso!»
«Be', comunque non è detto che non si possa fare nulla» disse Ace.
«Che intendi?»
«Be', se non sbaglio questa grotta è su un'isola molto grande, no?»
«Se stai pensando a cercarla di nuovo, lascia perdere» lo interruppe subito Marco. «Se fosse stato facile ritrovarla non avrei avuto bisogno della mappa.»
«Sì, sì, me l'hai detto, miraggi, geyser, roba varia.» Ace agitò la mano. «Non era quello che volevo proporre. Dico solo che si tratta di una grotta enorme che contiene un tesoro accumulato da quaranta pirati, no? Una roba immensa. Dubito che qualcuno possa averla trasportata senza che nessuno se ne sia accorto.»
«Ti ascolto.»
«E proprio perché è una grotta difficile da individuare, non è più probabile che sia stato un abitante ad accorgersi che c'erano spesso pirati che passavano da quella zona, piuttosto che uno che passava di là per caso? E se si trattasse di un abitante potrebbe prendere il tesoro un po' alla volta.»
«Sì, ha senso...»
«Per cui basterebbe guardare nell'isola chi si è arricchito di recente improvvisamente per scoprire chi è il colpevole!» concluse Ace esultante.
Marco lo fissò per un istante, sbattendo le palpebre. Poi gli afferrò il viso con le mani e lo baciò.
Ace rise. «E questo per che cos'era?»
«Per avermi sopportato» rispose Marco, con un sorriso. «Ero così arrabbiato con i nostri quaranta alleati che non mi sono reso conto della soluzione più semplice. Grazie per avermi riportato alla realtà.»
«Oh, non preoccuparti, quando vuoi» replicò Ace in tono divertito.
«Ora non te ne approfittare» precisò Marco, ma non era offeso. «Ti va di accompagnarmi, allora? Potrei ancora avere bisogno del tuo aiuto.»
«Certo!»
Ace voleva davvero dargli una mano a riprendere il tesoro per il compleanno del Babbo ed era anche curioso di vederlo in anteprima. Se Marco ci teneva così tanto, non poteva essere un tesoro normale.
E, come aveva previsto, trovare la persona che si era arricchita improvvisamente senza alcun motivo, per quanto lui si giustificasse in giro con un'eredità di un parente proveniente da un'altra isola. Ma era difficile da credere, quando Aladin era un mendicante il giorno prima e il giorno dopo aveva potuto comprarsi la villa più grande della sua città, con una lunga serie di servitori che pagava a peso d'oro. E Ace non aveva dubbi che avessero colto nel segno nell'identificare il loro ladro di mappe.
Marco gli mise una mano sulla spalla. «Ci penso io.» Poi trasformò le sue braccia in ali e scavalcò con un atletico salto le mura della villa e scomparve all'interno. Ace sbuffò nel sentire i rumori del combattimento all'interno, perché una scazzottata non gli sarebbe dispiaciuta, ma era compito di Marco e lo capiva.
Così attese fino al suo ritorno, anche se rimase un attimino deluso nel vedere che era tornato a mani vuote.
«Abbiamo un accordo» gli spiegò, con un sorriso di fronte al suo broncio. «Ci porterà la mappa stasera.»
«E pensi di poterti fidare?»
«È un  buon accordo anche per lui» fece presente Marco. Poi si chinò appena a sussurrargli: «E se non dovesse farlo, se ne pentirà.»
Ace rabbrividì appena: Marco non era solitamente crudele, ma quando si trattava della sua famiglia la sua natura di pirata emergeva in superficie. In realtà, Ace la apprezzava.
«Andiamo a cena, mentre aspettiamo? Ce la facciamo offrire da Aladin.»
«Devi anche chiedermelo?» E non aveva nemmeno bisogno di approfittare della ricchezza (immeritata) di Aladin, dato che non aveva l'abitudine di pagare nei ristoranti.
Così Ace mise da parte le sue preoccupazioni su Aladin e la fiducia che avevano riposto in lui, per concentrarsi sul cibo. Aveva appena finito il suo quindicesimo piatto, quando una donna si avvicinò in maniera circospetta al loro tavolo.
«È Morgiana, la segretaria di Aladin» gli fece presente Marco, appoggiandogli una mano sul braccio per rassicurarlo. Ace continuò a ruminare, ma non staccò gli occhi per un istante dalla donna che passò di fronte al loro tavolo senza dire una parola, ma fece cadere quasi per caso una busta su una delle sedie.
«È quella vera?» domandò, una volta che Marco ebbe aperto la busta per estrarre e osservare la mappa che c'era all'interno.
Marco annuì. «Tranquillo, puoi finire di mangiare, dieci minuti non ci cambiano nulla.»
Ma Ace, dopo aver ingoiato l'ultimo boccone, scosse la testa. Era davvero curioso di vedere il tesoro della grotta e una parte di lui non si fidava abbastanza di Aladin per aspettare.
Così lasciarono il ristorante ed Ace seguì Marco che leggeva la mappa. Non ebbe idea del tempo in cui avevano camminato, ma doveva ammettere che senza una guida non sarebbe mai riuscito a orientarsi, né a trovare quel piccolo buco in mezzo ai geyser da dove era possibile calarsi all'interno per trovare una scalinata in pietra che scendeva quasi fino al centro della terra, o almeno quella era l'idea che diede ad Ace il numero di scalini.
Ma quando finalmente arrivarono in fondo, Ace ammise di essere impressionato. Era una grotta enorme, che si perdeva in lontananza in un oceano di stalattiti e stalagmiti. La luce in qualche modo riusciva a penetrare abbastanza da permettere di vedere dove si mettevano i piedi e a far scintillare le gocce che scendevano dalla roccia.
Ace si prese del tempo per esplorarla, passando in delle porte costruite dalle stalagmiti e apprezzando le diverse decorazioni che apparivano sulle pareti, ma alla fine dovette ammettere la realtà: non c'erano tesori da nessuna parte.
Così tornò indietro a cercare Marco, che si era accomodato su un piccolo promontorio di roccia che dava sul fiume sotterraneo che attraversava la grotta.
«Aladin ci ha fregato» commentò, allargando le braccia. «Non è rimasto più niente del tesoro.»
Marco si voltò verso di lui. «Be', certo, era questo l'accordo» disse. «Lui poteva tenersi tutto, a me interessava solo avere indietro la mappa della grotta. E poi i nostri alleati se lo meritavano, di perdere tutto, considerando che si sono fatti fregare come degli idioti.»
«Ma, scusa, e il regalo per il Babbo?»
«Vieni qui.» Marco gli fece segno di sedersi accanto a lui ed Ace obbedì, appoggiandosi sulla dura roccia, le mani piegate indietro per sostenere la schiena e le gambe piegate in avanti. Marco allungò il braccio per sforargli la schiena, pendendo verso di lui e con il viso voltato a guardarlo. «Dimmi che cosa vedi.»
Ace fissò in avanti e rimase senza fiato: in quel particolare punto della grotta la luce era particolarmente intensa e illuminava il fiume sotterraneo, in una maniera che trasformava la roccia in una foresta immaginaria, con quel verde intenso che creava. In alcuni punti le stalattiti e le stalagmiti si univano l'una con l'altra a trasformarsi in dei veri tronchi.
«È bellissimo...»
Marco sorrise. «Questo è il mio regalo per il Babbo. Hai idea di quanto sia stato difficile trovare qualcosa di nuovo per qualcuno che ha girato tutto il mondo?»
«Io pensavo...»
«Con mille e seicento compagni, pensi davvero che qualcuno di noi riesca a risparmiare qualcosa?» rise Marco. «E poi regalare dei soldi al Babbo sarebbe ridicolo. No, era la grotta che mi interessava, e ho solo permesso agli alleati di usarla come rifugio perché era abbastanza sicuro. Però mai più, e appunto se lo meritano...»
La voce andò scemando quando Ace lo baciò sulla guancia e si avvicinò maggiormente a lui, appiccicandosi al suo petto.
«E questo perché?»
Ace alzò le spalle. «Niente, mi sono solo innamorato un po' più di te, tutto qui.»
«Non è che ti aspetti un regalo così,. adesso, vero? Ci ho messo anni a trovarlo e non ripeterò l'esperienza tanto presto.» Ma sorrise dolcemente e lo strinse maggiormente a sé.

 

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Capitolo 8
*** Riposo ***


Riposo

«Dov'è Marco?»
Aveva ripetuto quella domanda così tante volte ormai che gli sembrava fosse diventata una nuova forma di saluto. D'altronde non aveva potuto evitarlo, dato che Marco era scomparso da qualche parte e nessuno pareva intenzionato a dirgli dove si fosse cacciato, nemmeno il Babbo. Magari ti sta preparando una sorpresa, aveva insinuato Satch, al cui Ace aveva riposto che si sarebbero potuti inventare una scusa migliore invece che fare finta di nulla.
No, doveva essere successo qualcosa. Marco non se ne sarebbe andato senza fargli sapere dove e per quanto. Ed Ace non aveva intenzione di cedere di un passo finché non avesse scoperto la verità.
«Non qui» sospirò Curie, che era stata l'ultima vittima della ricerca di Ace. «Ma sta bene, tranquillo.»
«Me lo auguro bene!» ribatté Ace. «Voglio solo sapere dov'è.»
Curie sospirò ancora. «Marco ha ricevuto un sacco di doni, quand'è nato, ma la capacità di capire quando deve prendersi un po' di riposo no. E grazie al suo frutto pensa di poter fare il furbo e non riposarsi mai.»
«E questo cosa ha a che fare con la sua scomparsa?»
«Ogni anno, quindi, gli faccio bere un mio antibiotico che lo costringe a dormire almeno per una settimana intera, in modo da recuperare tutta la stanchezza accumulata» terminò Curie.
Ace sbatté le palpebre. «Scusa?»
«Hai capito benissimo» replicò Curie. «Adesso Marco sta semplicemente dormendo in un posto tranquillo, dove nessuno lo deve disturbare. Soprattutto non tu.»
«Ma lui lo sa? Di questo antibiotico, dico.»
«Be', dopo la prima volta se n'è accordo svegliandosi» spiegò Curie. «Per cui ogni anno dobbiamo trovare un nuovo sistema per fargliela bere senza che se ne accorga. Ci siamo sempre riusciti finora.»
«Ma voi siete pazzi!»
«Lo facciamo per il suo bene. Anche il Babbo è d'accordo.»
Ace non era per nulla convinto. «Non sei un'infermiera, sei una strega. Dov'è Marco?»
Curie si limitò a un sorrisetto di compatimento. «Tornerà fra una settimana e vedrai che avrà di nuovo tutte le energie da dedicarti.»
Capendo che non sarebbe riuscito a cavarle da bocca altre informazioni rispetto a quelle che aveva già ottenuto, lasciò l'infermeria. Questo non significava che avrebbe smesso di cercare Marco: per quanto lui stesso ritenesse che lavorasse troppo, non riteneva corretto costringerlo a forza a riposarsi.
Dopo aver però esplorato tutta la nave da cima a fondo, si arrese che Marco non era stato tenuto a bordo. Ace aveva anche tirato fuori una serie di mappe per cercare di capire dove erano passati, ma rinunciò subito: con Namur e la sua velocità in acqua, Marco avrebbe potuto essere in qualsiasi isola della Rotta Maggiore.
No, si rese conto. Non avrebbe potuto. A quanto gli aveva detto Curie, Marco avrebbe dormito per i prossimi sette giorni. In quelle condizioni sarebbe stato facile vittima di chiunque, per cui non poteva certo riposarsi in  un posto qualsiasi. Anche le isole del loro territorio erano da scartare, perché un rischio di un attacco da parte di altri pirati o della marina era una possibilità. Anche le navi degli alleati non andavano bene: c'era troppa confusione perché Marco potesse riposarsi come si doveva.
E improvvisamente capì qual era l'unica isola possibile. Un'isola dove a nessuno era permesso entrare: Wa. Solo i pirati di Barbabianca erano una fortunata eccezione, al momento.
Sicuro della sua intuizione, Ace balzò sul suo striker e si diresse a Wa. Izou gli aveva insegnato un'insenatura dove poteva parcheggiare senza che i samurai che costituivano la difesa dell'isola lo individuassero e scese a terra, incamminandosi verso il feudo di Oden, che era un vecchio amico del Babbo e degli altri.
E lo trovò seduto sulla veranda della sua casa, ad occuparsi di uno dei suoi bonsai. Non parve minimamente sorpreso di vederlo.
«Namur, quando è passato, mi ha detto che forse saresti arrivato» mormorò dolcemente. «Quello che cerchi è nella dependance.» E accennò con il capo a un piccolo edificio in fondo al vialetto, protetto da alberi di ciliegio.
Ace annuì, in un ringraziamento silenzioso, quindi si diresse nella direzione che gli era stata indicata. L'edificio era completamente chiuso, finestre comprese, a parte un lato dove le serrande avevano le fessure grandi abbastanza da far penetrare la luce all'interno e a permettere ad Ace di guardare all'interno.
La sua ombra si affacciò sulla piccola stanza a tatami: su uno di quelli era sdraiato Marco, di schiena, le braccia adagiate lungo i fianchi e le gambe leggermente divaricate. La testa era appena piegata di lato e il viso, con gli occhi chiusi, sembrava pacifico.
Ace si guardò intorno per vedere dove entrare e individuò la porta. Socchiudendola quando bastava per insinuarsi all'interno, camminò con attenzione per non fare rumore e si accovacciò al fianco di Marco. La sua mano si allungò verso la sua spalla, per scuoterlo e svegliarlo, ma si fermò a mezz'aria.
Quando mai aveva visto Marco dormire così pacificamente? Mai. Persino quando erano nello stesso letto, Ace era quello che si addormentava per primo e si svegliava per ultimo. Anzi, che ricordasse non aveva mai visto Marco dormire. Improvvisamente capì quello che doveva essere passato nella mente dei suoi compagni per elaborare il piano malvagio dell'antibiotico per farlo dormire.
Ace chinò la testa e gli diede un leggero bacio al lato della bocca. Le labbra di Marco di mossero appena.
«...Ace?» mormorò, nel mezzo del sonno.
«Shh.» Ace si sdraiò al suo fianco, appoggiando la testa al suo petto. «Dormi tranquillo, ci sono io qui con te.»

 

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Capitolo 9
*** Il cacciatore di taglie ***


Il cacciatore di taglie

«Red Hood?»
«Sì, la chiamano così, perché se ne va in giro con un cappuccio rosso in testa. Nessuno l'ha mai vista in viso, ma dicono che sia una donna bellissima dai lunghi capelli neri e le grandi labbra rosse.»
«Eh, sì, ma se poi ti vuole inculare!»
«Sì, infatti, pare che di pirati ne abbia già fatti arrestare parecchi...»
«Qual è il suo modo operadus?»
Questa volta a parlare non erano stati i due pirati fra di loro, ma Marco, che si era alzato appositamente dal bancone su cui era seduto per unirsi alla loro conversazione. Non era una cosa che faceva di solito, ma non aveva potuto evitarlo.
A sentirli, la mente gli aveva subito riportato l'immagine della mattina, quando Ace era stato intercettato da una persona che indossava un cappuccio rosso e che gli aveva chiesto, molto gentilmente, di essere accompagnata sulla strada per il villaggio successivo, perché aveva paura di essere aggredita. E Ace, dalla persona gentile che era, si era subito reso disponibile.
Marco ricordava benissimo il suo sorriso mentre lo salutava e gli assicurava che sarebbe tornato al più presto.
I pirati lo guardarono perplessi, sorpresi dall'interruzione, ma poi uno dei due rispose: «Dicono che attiri i pirati nella foresta con una scusa, e poi li attacchi là. Ma sono solo storie...»
«In ogni caso, se vedo una con un cappuccio rosso la evito» commentò l'altro, annuendo.
«Grazie.»
Marco tornò al bancone, per lasciare qualche moneta per pagare la sua birra, e poi lasciò il locale. Camminava con calma, ma dentro di sé non lo era altrettanto. Certo, conosceva la forza di Ace e si fidava di lui, ma ciò non gli impediva di preoccuparsi. Questa Red Hood doveva avere tanta fiducia in sé, se davvero voleva attaccare un pirata di Barbabianca, ma Marco dubitava sarebbe riuscita a sopraffare Ace. Tuttavia... non avrebbe fatto male andare a controllare.
Si incamminò per lo stesso percorso che Ace aveva preso e che, in effetti, passava proprio per una foresta prima di arrivare al villaggio successivo. Marco si guardò attorno, ma non vide da nessuna parte dei segni che potevano indicare uno scontro. E non si incontrava anima viva nella zona.
Alla fine, all'orizzonte comparve una casetta. Marco percepì una presenza all'interno, solo una, e decise di bussare. Se davvero questa Red Hood usava la foresta come luogo di attacco, era possibile che quella fosse una sua base. Oppure, era semplicemente possibile che la persona che vi abitava avesse qualche informazione da dargli.
In ogni caso, anche se non avesse scoperto nulla, valeva la pena perdere cinque minuti per controllare.
Dato che nessuno aveva risposto, abbassò la maniglia solo per scoprire che la porta era aperta. Allora entrò.
«C'è nessuno?»
«Marco?»
«A-Ace...?»
Il ragazzo che era comparso nella stanza da una porta laterale era evidentemente lui, senza dubbio, ma ciò che aveva stupito Marco non era soltanto il trovarlo tranquillamente in quella casa, ma soprattutto il suo abbigliamento. Gli shorts erano stati sostituiti con degli attillati pantaloni di pelle nera, che facevano il paio con la giacca, anche se continuava a indossarla aperta, con il petto nudo sotto.
«Come mai così sorpreso?» gli domandò Ace, sorridendo.
«Hai cambiato stile» commentò Marco.
«Non ti piace?»
«No, non è questo...» Al contrario, doveva ammettere che non era niente male, e forse Ace se ne accorse, per lo meno dal modo in cui lo osservava.
Poi però Ace alzò le spalle. «Nell'altro villaggio c'era un negozio di abiti in offerta e avevo voglia di cambiare un po'.»
«E la pistola?»
«Bella, eh?» Ace la fece girare un po' nella sua mano, prima di rimetterla nella fondina attaccata alla cintura, con un'ultima carezza alla decorazione d'argento.
«Ma non la sai usare.»
«Non uso nemmeno il mio coltello, è solo per bellezza» replicò Ace divertito. «Ma si può sapere che cosa ci fai qui?»
«Potrei chiederti la stessa cosa.» Ora che Marco aveva visto che Ace stava bene, poteva rilassarsi e tornare a essere se stesso. «In ogni caso, ti stavo cercando. Pare ci sia un cacciatore di taglie parecchio forte da queste parti.»
Ace lo guardò condiscendente. «Posso cavarmela.»
«Lo so.»
«In ogni caso non ho visto nessuno» spiegò Ace. «Ho accompagnato la signorina al villaggio e ho fatto un po' di shopping. Poi lei mi ha chiesto se potevo portarle anche una cosa che doveva lasciare in questa casa, per cui eccomi qui.» Aprì il frigo e iniziò a tirare fuori degli ingredienti. «Già che sei qui, possiamo direttamente pranzare invece di tornare indietro. Ho già una fame...» E allo sguardo perplesso che Marco gli stava lanciando, aggiunse: «Tranquillo, ho il permesso della padrona di casa, come ringraziamento per averla accompagnata.»
«No, veramente mi stavo chiedendo se sapessi cucinare.»
Ace gli scoccò un'occhiata annoiata. «Siediti lì, ti stupirò.»
Marco obbedì. E dovette ammettere, rimase affascinato dal modo esperto in cui Ace si muoveva in quella cucina. Aveva sempre avuto la passione di guardare gli uomini cucinare, probabilmente perché ci era abituato dai tempi di Satch, che nel suo campo era bravissimo, ma era ancora meglio se il cuoco che si guardava era una persona già attrattiva di per sé.
«Ed ecco qui.» Ace posizionò due piatti sul tavolo. «Questa è una ricetta che mi ha insegnato Makino parecchi anni fa.»
Ma Marco, nonostante l'odore che proveniva dai piatti, continuava a guardare Ace con la bocca leggermente semiaperta, in adorazione. Allora Ace sorrise appena, malizioso, e si sporse in avanti per baciarlo.
Non appena le loro labbra si toccarono Marco si alzò di scatto e gli prese la testa con le mani, per tenerlo più vicino a sé, mentre continuava a baciarlo. Ace sembrò aspettarselo o comunque non ci mise nemmeno un attimo a ricambiare, le mani sui suoi fianchi e la bocca che cercava spasmodicamente quella dell'altro.
«Dio, Marco, quanto ti amo.»
Un istante dopo, Ace si ritrovò con la schiena a terra e un artiglio di Marco che gli stringeva il collo, bloccandolo e quasi impedendogli di respirare. Anche le braccia si erano trasformate in ali, mentre troneggiava sopra di lui.
«Sai, mi stavo proprio chiedendo il perché di tutte queste differenze» commentò Marco, in maniera quasi casuale. «Se devi ingannare qualcuno, non sarebbe meglio essere il più aderenti possibile alla verità?»
Ace non rispose, ma aveva posto le braccia sulla sua gamba per liberarsi, quindi Marco premette ancora più a fondo, gli artigli che bucavano il pavimento.
«E poi ho capito. Non sei in grado di sapere tutto, di imitare tutto... quindi devi nasconderti in delle differenze plausibili per sperare che uno non si accorga di quelle importanti.»
«Ma che cosa stai dicendo...» esalò Ace, tossendo per la mancanza d'aria.
«Che frutto è? Illusione?» Marco premette ancora più a fondo, senza rischiare di spaccare il collo ma con la certezza di togliere abbastanza fiato, finché finalmente la persona sotto di lui smise di essere Ace e si tramutò in quella Red Hood di cui parlavano i pirati alla locanda, col cappuccio rosso e tutto. Solo allora Marco allentò appena la presa.
Lei tossì, poi lo guardò malevola. «Stavi credendo a tutto, ma non al ti amo? Che razza di relazione avete.»
L'espressione di Marco non cambiò, ma tornò a fare pressione sul suo collo, ancora e ancora, finché non furono anche tutte le altre illusioni a cadere: la casa diventò una catapecchia, il cibo scomparve con il suo buon odore e la bella ragazza dai capelli neri diventò una vecchia rugosa con appena qualche ciuffo bianco.
«Solo perché tu fai importanza a certe cose, non significa che lo facciano tutti.» La lasciò e si voltò. «La prossima volta, tieni ben a mente questo: non puoi imitarci. Perché noi siamo i Pirati di Barbabianca.»
Poi Marco lasciò la casa senza nemmeno voltarsi indietro, senza nemmeno guardare la reazione di lei o il suo sguardo. Non gli importava. Non si sarebbe nemmeno preso la briga di ucciderla, il tempo avrebbe fatto il suo corso da solo.
E tornò nel sentiero e fu lì che incontro Ace, il vero Ace, con i suoi short, il suo coltello e il suo petto nudo.
«Marco?» si stupì lui. «Che ci fai qui?»
«Ero venuto a cercarti» gli disse Marco, sorridendo. «Pare che la tipa che dovevi accompagnare fosse in realtà una cacciatrice di taglie.»
«Davvero? Oh, be', questo spiega tutto.»
«Che cosa?»
«Eravamo a metà del bosco quando è sparita all'improvviso. E io non riuscivo più a trovare la strada per il villaggio.»
«Sì, era il suo frutto del diavolo» annuì Marco. «In ogni caso, ero io il suo vero obiettivo, non tu.»
«Oh.» Ace parve quasi offeso dalla cosa, ma poi si avvicinò e scrutò Marco attentamente. «Tu stai bene?»
Marco annuì. «Sì, non preoccuparti. Torniamo indietro? È ora di pranzo.»
«Sì, ho una fame...»
«Immaginavo.» Marco ridacchiò fra sé. Poi gli prese la mano nella sua. «Lo sai che ti amo, vero?»
Ace si bloccò per un attimo, un lungo secondo di gelo, poi tornò a rilassarsi e si voltò a guardarlo con espressione scettica. «Un sacco di volte. Non è che invecchiando stai perdendo la memoria?»
Marco gli riservò un'occhiata eloquente, per dirgli che gli avrebbe fatto pagare quell'accenno alla sua età, poi sorrise. «Ti dispiace?»
L'espressione di Ace si addolcì e si appoggiò a lui. «No. Per niente.»
E a Marco venne da ridere. Non c'erano davvero più i cacciatori di taglie di una volta, se davvero pensavano di ingannarlo solo perché Ace non aveva il coraggio di dichiararsi. la realtà è che non ne aveva bisogno. Una frase era solo apparenza, ma Ace gli aveva sempre dato molto di più.

 

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Capitolo 10
*** Il genio ***


Il genio


La missione era andata bene, anche se meno vantaggiosa di quello che sperava, considerando che non aveva guadagnato tanto bottino. Ora era sulla strada di casa, per cui chiamò Marco solo per sapere dove si trovavano: la vivrecard di Barbabianca era utile a trovare la direzione, ma non calcolava la distanza.

«Yoi.»

«Ciao!» Le labbra di Ace si piegarono in un sorriso, al sentire la voce di Marco. «Sono di ritorno... dove siete?»

«Sono via dalla nave anche io, c'è stato un attacco a sorpresa e Squardo aveva bisogno di aiuto» rispose Marco. «Quando ho lasciato la Moby, erano nei dintorni di San Sebastian.»

«Oh. Com'è, io torno e tu parti?»

Marco ridacchiò. «Sarò di ritorno prima che tu possa accorgertene.»

«Ci conto.» Gli mancava. Gli mancavano tutti.

Quando chiuse il Lumacofono e lo mise nello zaino, recuperò la pianta della Rotta Maggiore. Era incompleta, perché si trattava di una zona di mare che nessuno aveva mai esplorato per intero, a parte un uomo che Ace non nominava mai, ma bastevole per quanto riguardava i territori di Barbabianca. Con il suo striker, Ace avrebbe raggiunto la nave in tre giorni di viaggio.

Sbuffò e diede una rapida occhiata alle sue provviste: non aveva mai problemi di cibo, perché i mostri che tentavano di mangiarlo finivano presto abbrustoliti nel suo stomaco. Aveva però terminato l'acqua e, anche se poteva usare il suo potere per depurare quella del mare, preferiva riempire le sue borracce prima di partire.

Per cui parcheggiò lo striker meglio sulla spiaggia e, contenitori sulla spalla, si diresse verso l'interno dell'isola per trovare un fiume o un pozzo dove procurarsi l'acqua fresca necessaria. Eppure, più proseguiva più pensava che ci fosse qualcosa di strano.

Subito dietro la spiaggia la vegetazione si trasformava in un folto bosco rigoglioso, con alte piante che nascondevano la luce del sole. I cespugli a terra rendevano difficile il cammino, anche perché non era presente alcuna forma di sentiero. Eppure, non si sentiva alcun rumore a parte quello dei suoi passi, non un uccello che gracchiava nell'aria, né serpenti o lucertole che strusciavano via senza essere visti. E, soprattutto, nessun segno di acqua, il che rendeva l'esistenza di quella foresta sospetta.

Tanto che Ace quasi si spaventò quando arrivò a una radura dove l'erba era più bassa e individuò qualcosa di scuro muoversi vicino a un tronco. Ma si trattava solamente di un anziano che raccoglieva funghi: sulla sua schiena teneva un cesto di vimini ed era chinato a terra a tastare con le mani rugose sotto un cespuglio.

«Buongiorno» lo salutò Ace educatamente, rimanendo a un angolo della radura per non spaventarlo.

L'anziano si voltò e lo guardò sbattendo le palpebre. «Buongiorno a te.»

Si alzò e si avvicinò, così Ace lo osservò per bene. Era molto piccolo, a malapena gli arrivava al ginocchio, con la testa completamente calva a parte per due ciuffi di capelli bianchi appena sotto le orecchie. Il naso era lungo e ovale, le guance piene e rosse, gli occhi piccoli ma penetranti. Aveva l'aspetto simpatico, ma la Rotta Maggiore nascondeva più segreti di quelli che si poteva sospettare.

«Posso chiederle un'informazione?»

«Certo. Prendi un fungo?» L'anziano ne aveva pescato uno di colore rosso brillante dalla sua cesta e lo stava allungando verso di lui.

«No, grazie. Cercavo solo un po' d'acqua per la mia borraccia. C'è un fiume o qualcosa di simile qui vicino?»

«Sicuro.» L'anziano allungò la mano per indicare l'angolo opposto della radura, dove si apriva un stretto sentiero che Ace non aveva notato in precedenza. «Segui quella strada, poi gira al primo incrocio a sinistra. Troverai tutto quello che cerchi.» E, nel pronunciare l'ultima parte del discorso, sorrise.

«Perfetto, grazie.»

Ace seguì la strada che gli era stata indicata e, per qualche metro, si ritrovò ancora nella folta foresta che aveva attraversato fino a quel momento, ma quando prese la svolta a sinistra gli alberi diventarono più radi, i cespugli più colorati spezzando la monotonia del colore verde. E, al termine, si apriva un'altra raduna con un piccolo lago in cui si precipitava una cascata.

Ace non ne aveva sentito il rumore finché non vi era arrivato davanti.

Il lago non aveva sbocchi, per cui Ace sospettò che fosse molto profondo e che l'acqua scorresse sotterranea, perché alla vista era pulita e trasparente. Si chinò a toccarla e ne fece evaporare qualche goccia. Pareva normalissima acqua. Ne testò un sorso e non sentì alcun sapore strano, per cui prese le sue borracce e iniziò a riempirle.

E quando si rialzò dopo aver terminato il lavoro, la cascata era sparita e attorno era tornato il silenzio. Dietro, era stata rivelata una grotta che pareva perdersi in lontananza. Ace era curioso a sufficienza da vedere che cosa ci fosse al suo interno, anche perché non aveva mai sentito di una cascata che smetteva di funzionare da un momento all'altro.

Con una fiammella che usciva dal suo palmo, si fece strada all'interno. La grotta scendeva con una scala, che proseguiva fino ad arrivare a un altro lato sotterraneo. Non c'era spazio per proseguire oltre, soprattutto per un possessore del Frutto del Diavolo come Ace, ma quello che c'era appena al di sotto della superficie dell'acqua aveva attirato la sua attenzione.

Era un tesoro: collane e gioielli in genere, monete antiche, pietre preziose.

Ace si chinò e infilò la mano in acqua per prenderli. Non erano un'illusione, li sentì sotto la sua presa. Allora si tolse lo zaino dalla spalla e lo riempì, per quanto poteva, di tutti i gioielli che riusciva a raggiungere solo allungando il braccio. A differenza di molti uomini, Ace non era avido e, quando notò che avrebbe dovuto immergere una gamba per proseguire con la raccolta, rinunciò.

Si stava rimettendo lo zaino sulla spalla con l'intenzione di tornare all'esterno, quando una luce proveniente dal fondo della grotta attirò la sua attenzione. Sull'altra riva un uomo era apparso e stava avanzando nella sua direzione. Camminava sull'acqua come se fosse una superficie solida.

Ace rimase a fissarlo con la bocca spalancata, incapace di scostare gli occhi da quel corpo muscoloso color ebano, che quella specie di gonnellino viola di raso e quella maglietta tagliata alle spalle dello stesso materiale di certo non potevano nascondere. Sarebbe apparso umano, con i lunghi capelli biondi, gli occhi color del cielo e la bocca rossa e carnosa, ma c'erano molti particolari fuori posto, a partire dalle orecchie a punta per finire con le mani dalle unghie ad artiglio.

Ciò che colpì di più Ace fu però la luce che emanava. Gli ricordava, in parte, il colore azzurro brillante delle fiamme di Marco, ma quelle dell'uomo non erano piume, ma simboli, tatuaggi e linee che risplendevano chiari sulla sua pelle scura. Anche i gioielli che indossava, la collana e i numerosi orecchi, lanciavano quella luce azzurra intorno, che faceva brillare l'intera grotta.

Poi l'uomo parlò.

«Puoi prendere tutto quello che vuoi. Tutti i gioielli che riesci a raccogliere. Oppure, puoi rinunciare a tutto per un solo, unico desiderio.» La sua voce era profonda e la grotta ne rimandava l'eco.

«Che vuoi dire?» Ace inarcò un sopracciglio.

«Quello che ho detto. Preferisci i tesori o avere la possibilità di realizzare un desiderio.»

«Qualunque desiderio?»

«Esattamente.»

Ace piegò la testa di lato. «No, grazie, credo che mi terrò i tesori.» E, dopo un leggero cenno del capo come saluto, salì per le scale per tornare all'esterno.

La terra tremò sotto di lui.

«Come osi. Come hai osato!»

Mentre le pareti della grotta si crepavano, con le gocce che cadevano ovunque, Ace balzò, in modo da raggiungere l'ultimo scalino in un passo solo, poi si gettò all'esterno e rotolò a terra. Era di nuovo nella radura, nel silenzio. Il lago era completamente scomparso, così come la cascata e la grotta. In fretta, Ace aprì una delle borracce, ma l'acqua era ancora presente all'interno, pulita e fresca come quando l'aveva raccolta.

«Mah» commentò fra sé. «Non smetterò mai di stupirmi della follia di questo posto.»

Riprese la strada e tornò nella radura dove aveva incontrato l'anziano. Era sempre al solito posto, a raccogliere funghi. Quando vide Ace arrivare, ridacchiò.

«Era buona l'acqua?»

«Ottima, grazie» rispose Ace, con un'alzata di spalle. «Buona giornata.» Ignorò lo sguardo stupefatto dell'anziano e proseguì il suo cammino verso la spiaggia. Era davvero ora di tornare a casa, dove ciò che gli era capitato sarebbe stato solo un altro racconto per i suoi compagni.

 

***

 

Ace sospirò e si appoggiò maggiormente all'albero maestro dello striker. Era seduto sopra il propulsore, le gambe allungate in avanti e quasi del tutto trasformate in fuoco per dare energia al mezzo. Chiuse gli occhi, per quanto sapesse che era pericoloso farlo. Un colpo di sotto e sarebbe scivolato in acqua e annegato.

Ma si annoiava così tanto...

«Vorrei già essere a casa» commentò, fra sé.

Un secondo dopo, smise di sentire il vento che gli sferzava tra i capelli mentre navigava, e le gocce d'acqua che lo colpivano mentre lo striker fendeva l'oceano in due. Era praticamente fermo, le fiamme che si stavano spandendo ovunque. Smise di produrne e aprì gli occhi di scatto, un attimo prima di essere investito da tre getti d'acqua sparati contro di lui.

«Fermi, fermi!» gridò, parandosi con le mani e tossendo per l'acqua che gli era finita in gola.

«Ace? Che cosa ti è saltato in mente, stavi per incendiare la nave!»

Ora che il fuoco si era spento e che i getti d'acqua erano cessati Ace riuscì a guardarsi attorno e spalancò gli occhi. Si trovava seduto su uno dei ponti superiori della Moby Dick, con attorno a lui i legni bruciati dalle sue stesse fiamme ora estinte. Balzò in piedi e si toccò una guancia bagnata.

«Come sono arrivato qui?»

Fossa, che era davanti a lui assieme a due membri della sua Flotta, tutti e te con ancora la manichetta dell'acqua in mano, lo fissò sbattendo le palpebre. «Se non lo sai tu...»

«No, seriamente» rispose Ace. «Stavo navigando con lo striker, ho solo chiuso gli occhi un attimo e mi sono ritrovato qui.»

«Davvero? Be', non sarebbe nemmeno la cosa più strana successa nella Rotta Maggiore...» Fossa fece cenno ai suoi uomini, che iniziarono a recuperare le manichette. Lui, invece, si avvicinò ad Ace. «È successo qualcosa di particolare?»

«Be', non saprei...» Ace mosse le labbra. «Insomma, ho desiderato essere qui, ed eccomi qui. Ma non può essere così semplice, no?»

«Non saprei. Prova di nuovo a desiderare qualcosa.»

Ace gli scoccò un'occhiataccia. «Figuriamoci...» Poi il suo sguardo corse verso la distesa azzurra che si estendeva oltre il parapetto davanti a lui. «Il mio striker! Chissà dov'è finito adesso!»

«Vedi? Devi provare a desiderare che sia qui» ridacchiò Fossa.

«Certo.» Ace lo guardò di nuovo male. «Vorrei che anche il mio striker tornasse a casa.» E allargò le braccia, un sorriso annoiato sul volto, che si trasformò subito in shock quando lo striker comparve davanti a lui, come apparso da nulla.

«Merda.» Fossa aveva smesso di ridere e ora fissava il mezzo con occhi intenti.

Poi lo striker si piegò di lato e lo zaino di Ace, che era appeso all'albero maestro, scivolò a terra e si aprì. Il tesoro che era stato stipato all'interno uscì tintinnando sul ponte di legno. «Ah. Ora che ci penso in effetti mi è capitata una cosa strana...»

«Credo dovremo parlarne col Babbo» propose Fossa.

Accennò ancora ai suoi uomini, in modo che sistemassero anche lo striker, mentre Ace recuperava il suo zaino con i tesori e il resto del suo bagaglio. Assieme si diressero verso il ponte principale, dove Barbabianca troneggiava e beveva sakè tutto il giorno. Difatti lo trovarono allo stesso posto, impegnato in una discussione con Satch e Izou.

«Scusate il disturbo, ma questa la dovete proprio sentire» annunciò Fossa.

«Ciao, Ace, bentornato! Marco non c'è» fu il modo di Satch di salutarlo.

«Non potete aspettare?» disse invece Izou, la bocca stretta. «Stamo parlando di cose serie, qui.»

«Per quanto organizzare una festa lo sia, questo è più importante» rispose Fossa. Izou sbuffò e guardò Barbabianca, che scosse la testa e sorrise.

«Bentornato, figliolo» disse, ad Ace. «Posso dedurre che ti sia successo qualcosa di particolare durante la missione?»

Ace ricambiò il sorriso e poi annuì. «A dire la verità non sono nemmeno così sicuro di quello che è successo...» E poi, ai tre comandanti e al capitano raccontò tutto, a partire dal suo arrivo nella strana isola senza rumori, fino alla cascata e all'uomo brillante che la abitava e alla sua bizzarra proposta, per arrivare al misterioso teletrasporto che l'aveva riportato a casa.

Una volta terminato il racconto, il silenzio scese sul ponte.

«Fammi capire...» lo spezzò in fretta Satch. «Se desideri una cosa questa si avvera?»

«Non so se è proprio così...»

«Be', prova. Desidera qualcosa!»

«Non lo so... Oh, ok, un piatto di carne da mangiare.» Non successe nulla.

«Forse devi proprio desiderarlo» propose Fossa.

«Di solito, in queste cose ci vuole una formula precisa» aggiunse Izou.

«Okay... Desidero avere un piatto di carne.» E nelle sue mani comparve un piatto piano, di ceramica, con all'interno uno spezzatino di carne immerso nel sugo, bollente, che emanava un ottimo odore. «Non ci credo...» Ace non lo toccò, ma stava sbavando.

«Non ci resta che giungere alla conclusione che Ace possa davvero realizzare i desideri» affermò Barbabianca, il labbro piegato in un sorriso.

«Già, ma perché?» domandò Izou. «Un frutto del diavolo? Quel tipo poteva possederne uno.»

«E perché avrebbe dato quel potere ad Ace?» si chiese Fossa.

Izou allargò le braccia e scosse la testa. «O forse è l'acqua. Hai bevuto l'acqua di quella cascata, Ace?»

«Del lago. Non quello sotterraneo, l'altro. Ho riempito le borracce.»

Un attimo dopo, Satch gli aveva quasi strappato la borraccia dalla spalla e l'aveva bevuta fino all'ultima goccia, il pomo d'Adamo che si muoveva a scatti e rivoli d'acqua che gli scendevano dal mento lungo il collo. «Desidero avere una ragazza con cui passare la serata stasera!» gridò poi. Non accadde nulla. «Mi va bene anche brutta, sono in astinenza da troppo tempo.»

«Evidentemente, nemmeno un potere magico serve con te.» Fossa rise senza alcun ritegno.

«O forse non è l'acqua» ribatté Satch.

Ace gli scoccò un'occhiataccia, poi tornò a guardare Barbabianca. «Tu proprio non ne sai nulla, Babbo?»

«Purtroppo no. Anche dopo cinquant'anni, ci sono cose che la Rotta Maggiore deve ancora rivelarmi» rispose lui. «Ma troveremo una soluzione.»

«Perché? È figa come cosa» disse Satch.

Ace non lo guardò affatto. «Vorrei sapere che cosa mi è successo.» Attese, mentre gli altri lo guardavano, poi scosse la testa. «Niente da fare.»

«Forse puoi desiderare solo cose materiali» propose Izou.

«Vorrei avere tutti i libri che parlano di una cosa del genere» disse allora Ace. «E vorrei avere tutta la mia Flotta qui sul ponte.»

Ponte che un attimo dopo si riempì di pile di libri e di pirati perplessi per essere stati teletrasportati e per quello che stava succedendo. Ace fu costretto a spiegare la situazione anche a loro. «E quindi vorrei che mi deste una mano a cercare in questi libri qualche soluzione, o almeno un motivo. Vi darò una mano anche io.»

Teach rise, anche se nei suoi occhi c'era una luce bizzarra. «Con te, Comandante, non ci si annoia mai.»

Ace fece un passo in avanti per unirsi al suo gruppo, ciascuno dei quali aveva già preso in mano uno dei numerosi libri sparsi sul ponte e l'aveva aperto, quando Izou gli pose una mano sulla spalla per fermarlo.

«Credo che sia importante testare un attimo questo tuo potere» gli disse. «Per capire che cosa puoi fare e cosa no.»

Fossa annuì. «Se fosse senza limiti potrebbe essere pericoloso.»

«Sì, capisco.» Ace scoccò un'ultima occhiata alla sua Flotta e poi tornò dagli altri. «Che cosa pensate esattamente?»

«Be', prima non sei stato in grado di avere la soluzione» disse Izou. «Forse puoi creare solo cose materiali, come spostare oggetti e persone. Non puoi costringere la gente a fare quello che vuoi.»

«Sarebbe preoccupante, nel caso» commentò Satch, ma c'era un tono divertito nella sua voce.

«Tipo che vorrei che Izou smettesse di truccarsi?» chiese Ace.

«Scordatelo, bello.»

«In effetti così non funziona...» Ace ignorò la sua esclamazione. «Ma se desidero che non sia più truccato?»

«Ma ti sei fissato? Ti ho detto di no!» Nonostante la sua protesta, tutto il cosmetico che aveva sul viso scomparve, rossetto e ombretto compresi. «Ti odio.»

Satch rise e poi pianse non appena Izou gli tirò un calcio negli stinchi. Fossa alzò gli occhi al cielo, al sole che brillava sopra le loro teste. «Mi chiedo però fino a che punto possa spingersi...»

«Del tipo che potrei volere anche una tempesta?»

 

***

 

«E questo cosa vorrebbe dire?»

Marco era appena tornato sulla Moby Dick dopo una missione rapida ma noiosa, con l'intenzione di mettersi in pari con il lavoro che aveva dovuto lasciare indietro in attesa che anche Ace tornasse a casa.

Invece aveva trovato la nave in una confusione pazzesca, addirittura con scimmie che saltavano sulla sedia del babbo, fino ad arrivare ad Ace seduto a piedi nudi sul suo letto, le mani legate dietro la schiena con l'agalmatolite marina e un bavaglio sulla bocca. E un'espressione per nulla felice in viso.

«Per qualche ragione che ancora non conosciamo Ace ha acquisito il potere di realizzare qualunque cosa dica» gli spiegò Jaws, seduto alla sua scrivania in veste di guardiano. «Per la nostra sicurezza questa è la soluzione migliore.»

«Seriamente?» disse Marco, entrambe le sopracciglia alzate in un'espressione perplessa.

Jaws annuì. «Stiamo ancora indagando, ma per ora nessuno dei libri che abbiamo consultato ci ha dato la soluzione.»

«A dire la verità mi riferivo al fatto di legarlo così.» Marco allungò le braccia a indicare Ace, che annuì vigorosamente. «Dove l'avete trovato un bavaglio così, poi?» Si riferiva al fatto che si trattava di una fascia di pelle nera che gli copriva tutta la parte inferiore del viso, naso compreso.

«Ce l'aveva Satch in camera. Non ho chiesto.»

«Come ho fatto a non pensarci...» Marco scosse la testa e si stropicciò gli occhi con le dita. «Perché è nella mia cabina?»

«Be', dato che sei il suo ragazzo abbiamo convenuto tutti che fosse una buona idea che te ne occupassi tu. Insomma... Sei l'unico a cui questo... abbigliamento può tornare utile.» Le implicazioni di quella frase erano abbastanza chiare.

«Tutti?» ripeté Marco, gli occhi spalancati. «Persino tu? Persino il Babbo

Jaws scostò lo sguardo da lui per osservare la porta. «Non abbiamo trovato un'altra soluzione da controbattere...»

«Fuori» disse Marco stancamente, agitando una mano di fronte al viso. Jaws si affrettò a lasciare la stanza e a chiudere la porta dietro di lui.

Ace mugolò contro il bavaglio per attirare la sua attenzione, così Marco si sedette accanto a lui con un sospiro. «Bel problema» commentò. «Il buonsenso mi dice che questa situazione è assurda e che dovrei liberarti immediatamente, d'altra parte si tratta di un ordine del Capitano e se nemmeno il Babbo ha pensato a qualcosa di diverso... Mi chiedo che caspita sia successo mentre non c'ero.»

Ace sospirò pesantemente, poi si spostò con l'aiuto delle sue gambe per sistemarsi più vicino a lui, la testa che scivolò sulla sua spalla. Marco passò il braccio dietro la sua schiena e poi gli accarezzò la testa.

«Aspetterò per un po'» affermò. «Se entro un tempo ragionevole non trovano una soluzione ci penserò io.» Ace alzò lo sguardo per guardarlo supplicante. «Lo so, è noioso. Si accettano suggerimenti.»

Ace piegò la testa per pensare e un attimo dopo Marco vide i suoi vestiti scomparire completamente. Rimase nudo sul letto, a guardarsi perplesso per quello che era appena successo. Poi si voltò verso Ace e lo guardò.

«Seriamente? Questa è la tua soluzione?»

Ace alzò le spalle, ma poi spalancò gli occhi. Il suo guardo si spostò verso la porta e, un attimo dopo, si sentì un urlo provenire da fuori. Era di Satch.

«Ace! No.» Marco lo prese per le spalle e lo spinse sul letto, le mani strette nell'agalmatolite che premevano sul materasso. «Sì, vorrei vendicarmi anche io nella tua situazione, ma non è questo il modo.»

Si sentì fuori un altro urlo, seguito da una serie di risate. E poi Izou gridare: «Questa te la faccio pagare, Ace! I miei capelli!»

«Marco!» aggiunse qualcun altro, nella confusione. «Non dovevi liberarlo!»

«Ace...» mormorò ancora Marco, ma Ace aveva quello sguardo che indicava che non si sarebbe fermato finché non avrebbe rimesso le cose a posto. «Okay, adesso capisco meglio cosa intendeva il Babbo» commentò fra sé.

Scivolò con le ginocchia verso il fondo del letto e poi aprì la cintura di Ace quel tanto che bastava ad allargare i pantaloni in modo da poterli far scivolare lungo le gambe fino a sfilarli completamente. Ace lo guardò mentre Marco compiva la stessa mossa con i suoi boxer, gli occhi spalancati e le guance rosse, poi si voltò ancora una volta verso la porta chiusa, le sopracciglia piegate in concertazione.

«No, no» mormorò Marco, mentre gli prendeva il pene nella sua mano. «Concentrati su di me.»

Ace mugolò e agitò le braccia sotto di lui. La testa era ancora voltata verso la porta e si sentì altra confusione all'esterno, per cui Marco aumentò la velocità delle dita sul suo pene, l'erezione che cresceva contro il suo palmo.

«Così va meglio, eh?» commentò Marco, quando Ace aveva finalmente scostato la testa per guardare il soffitto e aveva mosso appena il bacino per mettere in maggior evidenza il suo inguine. Marco spinse leggermente con la mano la coscia di Ace per allargargli le gambe, poi le sue dita scesero verso i glutei, fino a sfiorare l'ano.

«Mmm?» Ace emise un mugolio più forte e alzò la testa per guardarlo.

«Vuoi che mi fermi?»

Ace scosse la testa e tornò ad appoggiarsi al materasso, con un lungo respiro per rilassare il corpo. Marco lo penetrò con un dito, continuando a muovere la mano sul suo pene. Poi mise il secondo e solo allora si mosse al suo interno. Ace sussultò e mugolò, i piedi che si puntellavano sul materasso e le anche che si muovevano per venire incontro ai suoi movimenti.

Marco si sporse in avanti per guardare i suoi occhi lucidi e le sue guance rosse. Gli mancava solo la bocca semiaperta, ma poteva accontentarsi del suo petto che si alzava sempre più in fretta e i mugolii alti nonostante il bavaglio che cercava di attutirli.

«Meglio?» gli chiese, una volta che lo sentì venire nella sua mano. Ace non sembrava aver la forza di rispondergli, stava ancora respirando veloce e muoveva appena il bacino anche se Marco aveva tolto le dita. «Puoi perdonare gli altri, adesso?»

Ace scostò la testa appena verso la porta chiusa, mentre il respiro tornava regolare, poi tornò a fissare Marco, con sguardo pensoso.

«Seriamente?» chiese Marco, dopo aver abbassato lo sguardo sull'erezione che non aveva fino a due secondi prima.

Ace alzò le spalle.

«Ti meriteresti che ti lasciassi così.»

«Mmmgh.» Ace alzò gli occhi e poi allargò ancora le gambe per mettere in luce il suo sedere. Marco scosse la testa e poi tornò a chinarsi sopra di lui. I loro corpi aderirono quando lo penetrò, petto contro petto, e i visi vicini. Mentre si muoveva dentro di lui, Marco gli accarezzò appena i capelli fino ad arrivare all'attaccatura del bavaglio, che sfilò prima di gettarlo all'angolo del letto.

«Marco...»

Marco lo fece tacere subito con un bacio, ed Ace dimenticò quello che voleva dire per ricambiare. le gambe si attorcigliarono ancora sopra quelle di Marco, per stringerlo ancora più a sé. Mosse le braccia, ancora bloccate dall'algamatolite, e allora fu Marco a stringerlo a sé con le mani premute sulle sue spalle.

«Dove vai?» protestò Ace, nel momento in cui Marco si allontanò da lui dopo aver avuto l'orgasmo.

«A prendere le chiavi delle manette» rispose Marco. «Lo so quanto fastidio dà l'agalmatolite.»

Ace annuì e si tirò su a sedere spingendosi con le anche e le gambe, in modo che Marco non avesse problemi ad aprire le manette. «Anzi, no» aggiunse Marco. «Puoi farlo benissimo da solo.» E lo guardò sorridendo.

«Oh. Vero.» E con un'alzata di spalle, le manette scomparvero. Non appena fu libero, rilasciò una fiammata per testare i suoi poteri, poi si volto verso di lui e lo abbracciò stretto.

Marco rise e gli baciò la testa. «Adesso mi faccio una doccia, poi è il tuo turno, poi mi racconti per bene di questa storia.»

Ace annuì e obbedì. E anche se, quando tornò dopo essersi lavato rimase un po' deluso nel vedere che Marco aveva recuperato degli altri vestiti, gli raccontò tutto quello che era successo dopo la chiamata che si erano scambiati, fino alla confusione che era scoppiata sulla Moby Dick, perché era difficile fare attenzione alle parole da pronunciare.

«Capisco» disse Marco, al termine della storia. «Mi pare che la cosa migliore da fare sia ritrovare questo tipo e chiedergli di toglierti il potere.»

«Ma come facciamo a ritrovarlo? Non so che isola fosse, ci ero capitato per caso seguendo la vivrecard.»

Marco si alzò dal letto su cui era seduto ad ascoltare e sorrise. «Vedi, c'è una cosa positiva in tutto questo. Puoi fare quello che vuoi. Non ci sei abituato, quindi non ci fai caso. Difatti non ci hanno pensato nemmeno gli altri.»

«Ah.» Le labbra di Ace si piegarono in un sorriso furbo. «Vorrei che fossimo tutti e due di nuovo alla cascata.»

E, come previsto, il potere li trasportò entrambi nella radura dove Ace aveva preso l'acqua. Rispetto a quando se n'era andato, il laghetto era tornato e così la cascata, ma nonostante Ace si fosse chinato a bere un po' d'acqua, la cascata non smetteva di scorrere e la grotta non compariva.

«Sì, sì» disse Ace, quando Marco aprì la bocca per parlare. «Voglio che la grotta ricompaia.»

E così fu. I due proseguirono all'interno, la luce azzurrina che si vedeva già dall'ingresso. Quando furono sul limitare del lago sotterraneo, videro che l'uomo misterioso incontrato da Ace era già presente, seduto comodamente sull'altra riva con un'espressione annoiata addosso.

«Sei tornato.»

«Per forza» ribatté Ace. «Si può sapere che cosa mi hai fatto? Non importa, toglimelo e basta.»

L'uomo si alzò. «In mille anni, è la prima volta che una persona sceglie due tesori di poco valore sopra un desiderio.»

«E quindi?» domandò Marco, che non era altrettanto impressionato dal suo aspetto mistico.

«Perché? Perché non hai chiesto un desiderio?»

Ace sbatté le palpebre. «Perché non ne ho bisogno» disse, in tono sincero. Il suo sguardo saettò su Marco. «Ho tutto quello di cui ho bisogno e... altre cose non valgono, se non si prendono di persona.»

«Menti» gridò l'uomo. Il brillore sul suo petto divenne praticamente incandescente. «Tutti desiderano qualcosa così tanto da imbrogliare! Tutti perdono di vista le cose una volta avuto il potere! Puoi fare qualsiasi cosa adesso...!»

Il suo discorso fu interrotto da Marco che, trasformato a metà in fenice, lo aveva atterrato a terra con uno dei suoi artigli e ora troneggiava sopra di lui con le ali azzurre spalancate, che non temevano alcun confronto in quanto a fiamme brillanti.

«Mi sono stancato» affermò. «Ora togli questo potere ad Ace, o ti spezzo il collo.»

«È davvero quello che vuoi?» mormorò l'uomo, la gola premuta che gli rendeva difficile parlare.

Ace annuì. «Sì.»

«Alla fine sono riuscito a farti avere un desiderio!»

Ace fu costretto a chiudere gli occhi per la luce azzurra che riempì la grotta. «Marco!» Quando riuscì ad aprirli, erano di nuovo nella radura vuota, lago e cascata scomparsi. Marco era davanti a lui, sano e salvo, ed Ace sospirò.

«Stai bene?» gli chiese Marco.

«Io sì.»

«Ha funzionato?»

Ace sbatté le palpebre. «Vorrei che fossi nudo» disse, ma non successe nulla. Le labbra di Ace si piegarono in una smorfia. «Peccato. Per queste cose era utile.»

Marco sorrise divertito. «Non hai bisogno di un potere simile per questa cosa, basta chiedere.»

«Vero anche questo» convenne Ace, e si appoggiò sul suo petto con la schiena. «Vedi che ho ragione quando dico che non ho bisogno di desideri? Chissà perché per lui contava tanto...»

«Immagino che sia perché da un certo di pista ha ragione» rispose Marco. «Gli uomini desiderano così tanto qualcosa che diventano pazzi per ottenerlo.»

Ace annuì appena.

«Tu invece non hai proprio niente?»

«Be', qualcosa ci sarebbe» ammise Ace, infine. «Vorrei smettere di essere il figlio di Roger. Ma la realtà è che... ho già trovato un altro padre meglio di lui, quindi nemmeno questo importa.»

Marco accennò a un leggero sorriso, ma non disse assolutamente nulla, si limitò a baciarlo sulla nuca. «Torniamo a casa.»

«Sì.» Poi Ace guardò davanti e si rese conto che erano in un'isola chissà dove, senza mezzi di trasporto o nemmeno una mappa che indicasse loro qualche direzione. «Ecco. Adesso sì che quel potere sarebbe tornato utile.»

«Io invece credo che tu abbia ragione» rispose Marco, mentre si trasformava in una felice e gli faceva cenno di salire sulla sua schiena. «I desideri migliori sono quelli che realizziamo da soli.»

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