La leggenda di Aldric l'intrepido di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
LA
LEGGENDA DI ALDRIC L’INTREPIDO
Capitolo
1
Il
principe Wieland sembrava avere ricevuto in dono dalla sorte ogni
fortuna: era bello, valoroso, di nobili natali ed erede al trono di
uno dei più ricchi e prosperi feudi del Nord, il Regno di Theoburg,
sito ai confini delle pianure di Konorian.
Eppure
da qualche tempo egli era così triste che neppure l'ombra di un
sorriso aleggiava sul suo volto pallido.
Un
tempo era amante delle feste e dei divertimenti, non c'era caccia a
cui non partecipasse o torneo che non lo vedesse tra i vincitori, ora
invece era diventato raro vederlo in compagnia di qualcuno. Più
spesso galoppava in solitudine per i boschi in sella al suo fido
destriero, oppure trascorreva lunghe ore chiuso nella sua camera,
rifuggendo feste e divertimenti.
Il
Re suo padre, Sire Warmund il Generoso, e sua madre la Regina
Hytwinna avevano consultato innumerevoli saggi e studiosi, ma il
giovane principe sembrava inconsolabile e il suo struggimento si
faceva di giorno in giorno più profondo e straziante.
Il
motivo di tanta pena era peraltro ben noto: la sua promessa sposa,
una fanciulla di ineguagliabile grazia e bellezza che portava il nome
di Lady Amilda, era stata rapita dal Signore dei Morti, che
invaghitosi di lei l'aveva ghermita e condotta seco al Palazzo
dell'Eterno Dolore.
Nessuno
era mai tornato da quel luogo infausto, quindi a tutti coloro che
l'avevano amata era stato detto di rassegnarsi al fatto che ella
fosse perduta per sempre.
Una
delle poche cose che ormai erano in grado di distrarre il principe
Wieland dalle sue disgrazie era vestirsi come un popolano e girare
per le vie della città confondendosi con la gente comune. Per quanto
la sua statura e il suo portamento fossero senza dubbio quelli di un
nobile, tenendosi un po' curvo e con un cappuccio sul volto che gli
nascondeva i lineamenti riusciva facilmente a passeggiare per le
strade senza destare sospetti nella popolazione.
Da
quando Lady Amilda non era più al suo fianco, infatti, la corte coi
suoi marmi e i suoi ori gli appariva soffocante come un sarcofago.
Tutto gli ricordava lei: nelle aiuole dei giardini c'erano i fiori
che ella preferiva, e che lui aveva fatto giungere appositamente dai
Parchi Splendenti di Erwayn; la ninfa che versava acqua dal centro
della fontana era stata scolpita a sua immagine; in un angolo del
salone giaceva ancora la sua arpa d'argento, che nessuno aveva avuto
il coraggio di toccare.
In
città almeno non doveva sopportare lo sguardo compassionevole dei
dignitari di corte, né doveva fingere una tranquillità che non
provava per evitare che sua madre si preoccupasse eccessivamente.
C'era
una taverna che gli piaceva, proprio dietro il mercato. Si chiamava
Al Drago Fiammeggiante, nell'insegna ormai sbiadita dagli anni si
poteva ancora distinguere l'immagine di un animale alato che emetteva
fuoco dalle fauci spalancate.
A
dispetto del nome, era un posto tranquillo e Wieland amava sedersi in
un angolo e restare semplicemente lì a contemplare il viavai degli
avventori.
Un
mercante si rallegrava per aver concluso un buon affare, mentre
magari un altro inveiva contro un terzo che gli aveva venduto per
buono un cavallo in realtà privo di valore. In un angolo ci potevano
essere viaggiatori che narravano di paesi lontani suscitando la
meraviglia degli astanti, oppure conduttori di carovane che da lungi
avevano portato spezie e stoffe pregiate e ora si riposavano dopo il
lungo percorso.
Normalmente
il principe Wieland se ne andava sul fare della sera per rientrare al
palazzo, ma una volta si trattenne presso la taverna fino a notte
fonda. Fuori stava piovendo forte e il giovane non aveva avuto voglia
di lasciare il piacevole tepore della stanza per affrontare gli
scrosci gelidi e un vento così impetuoso da strappare di dosso i
mantelli.
Stava
sonnecchiando in un angolo tranquillo quando un soffio d'aria fredda
attirò la sua attenzione. Si girò verso la porta e vide entrare un
vecchio dalla lunga barba bianca e dal portamento solenne, carico
d'anni, ma anche colmo di saggezza e dignità. Si avvide che portava
le vesti dei Maghi Veggenti di Rhias e ne fu stupito, perché era
assai raro incontrare uno di quei sapienti fuori dalle mura del
Monastero di Denon-Lor, detto anche Tempio della Pietra Parlante.
Essi
abbandonavano il Recinto Sacro unicamente quando ricevevano un
Presagio che il Consiglio dei Nove Illuminati riteneva appropriato
rivelare all’esterno. Interi regni, si narrava, erano stati salvati
da Maghi Veggenti che avevano comunicato nel momento e nel luogo
opportuno le loro percezioni mistiche.
Il
vecchio entrò nella sala riscaldata con soddisfazione. Appoggiò il
mantello fradicio e si avvicinò al camino, verso il quale tese le
mani ossute.
Gli
astanti avevano a loro volta riconosciuto i paramenti del nuovo
arrivato e gli si fecero rispettosamente intorno. L'anziano sacerdote
pronunciò parole di benedizione, accettò una coppa di vino che gli
veniva porta dall'oste, quindi si guardò intorno come alla ricerca
di un tavolo al quale sedersi.
Wieland
notò che volgeva lo sguardo nella sua direzione ed accennò ad un
gesto di deferenza nei suoi confronti.
Il
vecchio si mosse allora verso di lui. “Salute a te, giovane
signore,” lo apostrofò. “Con una notte del genere, capisco
l'apprensione di Dama Hytwinna che non ti vede rientrare. Ma stanne
certo, il temporale durerà ancora poco e presto potrai correre a
rassicurarla.”
Il
principe non fu ovviamente stupito del fatto che l'altro l'avesse
così facilmente riconosciuto. “Certo un cappuccio e un mantello
non possono ingannare un Mago Veggente,” rispose con un sorriso,
poi si alzò rispettosamente e gli porse la sedia vuota accanto alla
propria. Quando l’anziano sapiente si fu seduto, gli chiese: “Cosa
ti porta qui a Theoburg, Venerabile?”
“In
verità sono qui principalmente per te, giovane Wieland. Il consiglio
dei Nove Illuminati ritiene che tu debba venire a conoscenza di una
divinazione che ti riguarda.”
“Esiste
una divinazione su di me?” chiese il ragazzo stupito. Aveva sempre
pensato che i Maghi Veggenti si occupassero solo di grandi eroi e
antichi regni.
“Ne
esistono molte, ma non sono qui per dirti che compirai grandi gesta o
che regnerai a lungo donando pace e giustizia al tuo popolo.”
“Vuoi
dire... che tutto questo non mi accadrà?” gli occhi dorati del
giovane furono attraversati da un bagliore di apprensione.
“Questo
non posso rivelartelo,” rispose il vecchio con un sorriso paziente,
“sono cose che dovrai scoprire da solo.” Bevve un sorso di vino e
proseguì: “Quello che sono incaricato di riferirti è che Lady
Amilda può tornare dal Palazzo dell'Eterno Dolore.”
Il
ragazzo rimase per qualche secondo ammutolito dalla sorpresa, poi,
stentando a contenere la propria gioia, chiese: “Può tornare? E
quando? Quando tornerà da noi?”
Il
sorriso del Mago assunse una nota di paterna benevolenza. “Non
correre troppo, mio giovane amico,” gli rispose, “dovrai recarti
tu stesso al Palazzo dell'Eterno Dolore a reclamare la tua promessa
sposa. Dopo il lungo viaggio e le prove che ti saranno poste dinnanzi
riavrai la fanciulla, ma ti avverto che il prezzo da pagare sarà
molto alto.”
“Che
significa molto alto?” chiese dubbioso il principe.
“Perderai
la persona che ami di più.”
Wieland
rimase perplesso. La persona che amava di più era senza alcun dubbio
Lady Amilda. Come poteva essere che venisse riconquistata e persa
allo stesso tempo?
Il
suo volto assunse comunque un'espressione risoluta. “Non importa”
disse con decisione “riavrò Lady Amilda a qualsiasi costo.”
“Sai
quello che dovrai pagare.”
“Pagherà
un prezzo più elevato chi cercherà di fermarmi.”
Il
Veggente non disse nulla. Chi conosce tutte le cose che sono state,
sono e saranno deve essere estremamente cauto nel parlare. Si limitò
a finire la propria coppa di vino, quindi si volse nuovamente verso
il principe Wieland, che nonostante tutto appariva esaltato dalla
notizia appena ricevuta.
“Ti
prego, vieni a palazzo, il Re mio padre deve sentire queste cose!”
esclamò infatti il giovane. “Ti darà grandi doni, sarai
alloggiato con tutti gli onori e potrai restare fino a che lo
riterrai opportuno.”
L'altro
scosse la testa. “No, Wieland, questa missione è compiuta. Il
Consiglio dei Nove riteneva che tu dovessi essere informato. Tu e non
altri. Ho fatto quel che mi era stato chiesto, ora sta a te decidere
che uso fare di ciò che ti ho detto, mentre io andrò a compiere la
seconda missione che il Consiglio mi ha affidato.”
Si
alzò lentamente in piedi e si guardò intorno alla ricerca del
mantello.
“Venerabile,
non andartene così presto,” lo pregò il principe, “resta almeno
a narrarmi qualcosa dell’impresa che dovrò compiere.”
“Non
mi è concesso. Ci sono cose del proprio futuro che è bene conoscere
e altre che devono rimanere sconosciute.”
“Ma
tu sai cosa accadrà?” insisté Wieland sempre più accorato “Lo
sai, vero?”
“Sì,
lo so.”
“Allora
dimmi solo se riavrò Lady Amilda.” Il principe lo stava
letteralmente implorando. “Dimmi se potrò riabbracciarla.”
Il
Mago lo fissò a lungo dall’alto della sua imponente statura,
infine gravemente disse: “Sì, la riavrai.”
“Oh,
grazie, Venerabile!”
Ma
il vecchio era già scomparso nella notte.
Come
il mago aveva predetto, quando Wieland si affacciò all’esterno il
temporale era finito e una pallida luna brillava nel cielo reso terso
dalle recenti piogge.
Normalmente
dopo aver trascorso la giornata in giro per la città sotto mentite
spoglie, il principe tornava al palazzo muovendosi con cautela, in
modo che il suo travestimento non fosse scoperto. Questa volta,
invece, ansioso di riferire quanto aveva appena saputo, corse a
perdifiato, incurante della sorpresa che suscitava nei suoi sudditi,
i quali rimanevano a dir poco stupefatti nel vedere il figlio del
loro sovrano passare a tutta velocità con indosso gli umili abiti di
un uomo del popolo.
Del
resto, non gli importava più mantenere intatta la sua copertura:
presto avrebbe riavuto la sua amata e avrebbe finalmente passeggiato
assieme a lei per le vie di Theoburg, preceduto dagli araldi e da
paggi che avrebbero sparso petali di rosa affinché Lady Amilda non
fosse obbligata a posare i delicati piedi sul nudo selciato.
Giunse
al palazzo come un turbine, attraversò di corsa il cortile, entrò
nell’ampio ingresso dal pavimento di marmo e percorse lo scalone
d’onore facendo i gradini a quattro a quattro. Infine si arrestò
ansimante di fronte alla sala del trono, che però era chiusa.
Fece
un gesto di saluto alle guardie che lo fissavano sbigottite e sorrise
fra sé: la notizia l’aveva messo in un tale stato di gioiosa
eccitazione che non aveva pensato all’ora tarda: sicuramente Sire
Warmund stava dormendo.
Per
un attimo prese in considerazione l’idea di svegliarlo, ma vi
rinunciò subito. Non voleva che suo padre fosse di cattivo umore
quando gli avrebbe annunciato che il suo unico figlio si accingeva a
partire per il Palazzo dell’Eterno Dolore, dove avrebbe sfidato il
Signore dei Morti in persona per riconquistare la libertà di Lady
Amilda.
Il
Re suo padre lo ricevette il mattino dopo. Wieland si inginocchiò al
suo cospetto e gli narrò per filo e per segno quanto gli aveva
spiegato il Mago Veggente la sera prima, quindi solennemente disse:
“Dammi la tua benedizione, padre, perché intendo partire oggi
stesso per la Valle dei Lamenti.”
A
quelle parole la Regina Hytwinna, che era assisa al fianco del
consorte, impallidì. “Figlio, hai forse perduto il senno? Nessuno
è mai tornato da quell'orrenda valle!” esclamò.
“Ebbene,
io sarò il primo a farlo, madre. Il Veggente mi ha detto che così è
scritto.”
Intervenne
a questo punto Re Warmund, che gravemente disse: “Dimentichi che un
principe ha dei doveri verso il suo popolo, prima ancora che verso se
stesso. Che farà la gente di Theoburg se l'unico erede al trono
perirà nell'impresa disperata di strappare la sua promessa sposa al
Signore dei Morti?”
“Potrei
cadere da cavallo in ogni momento, padre, o essere colpito da
malattia. Oppure ancora potrei essere ucciso da un sicario.”
Il
Re lo fissò poco convinto. “Un conto è accettare quel che ci
riserva la sorte, figlio, ben altra questione è andare
dissennatamente in cerca della morte.” rispose austero.
“Non
andrò incontro alla morte, padre, perché il Veggente mi ha detto
che riuscirò nella mia impresa!” replicò Wieland impetuosamente.
Non
parlò di quello che il vecchio aveva detto a proposito del prezzo
che avrebbe dovuto pagare per riavere Lady Amilda. Da una parte gli
pareva che non fosse un’argomentazione adatta a convincere il
riluttante genitore ad impartirgli la benedizione, dall’altra
l’idea gli comunicava un’inquietante sensazione di disagio e
preferiva non rimuginarci troppo su.
Infine,
tanto disse e tanto fece che Re Warmund si convinse a lasciarlo
andare. “Ad una condizione, però,” disse il sovrano con tono che
non ammetteva repliche.
“Quale
sarebbe?”
“Che
un valente guerriero ti accompagni.”
Wieland
avvampò. “Dubiti forse delle mie capacità nel combattimento?”
chiese piccato.
“Così
è deciso,” fu la categorica risposta del Re. “Sarà il capitano
delle guardie ad accompagnarti.”
“Aldric
figlio di Hardwin?”
“Così
è deciso,” ripeté Re Warmund. La sua espressione accigliata fece
chiaramente capire al figlio che non sarebbe stato saggio insistere
sull’argomento.
Wieland
si inchinò e uscì dalla sala del trono.
Una
volta che si trovò nell’ampio corridoio, il principe ripensò alle
parole del padre.
Conosceva
molto bene Aldric. Egli era figlio del precedente capitano delle
guardie, Hardwin. Avevano passato un’infanzia spensierata a giocare
insieme, poi si erano persi di vista. Lui era stato affidato a
maestri e precettori, che con pazienza gli avevano insegnato tutto
ciò che gli sarebbe servito come futuro sovrano di Theoburg, mentre
Aldric aveva seguito la dura Via dell’Acciaio ed era diventato un
valente guerriero, generoso ed impavido. Quando il padre era perito
nella battaglia di Hayda egli, ancora molto giovane, ne aveva preso
il posto, rivelandosi ben presto abile e capace almeno quanto lui.
Sembrava
del resto che Aunus Padre degli Dei gli avesse donato con la più
grande abbondanza tutte le virtù che rendevano grande un guerriero:
egli era alto, muscoloso, forte come un orso e al tempo stesso agile
come una lontra. La Madre Celeste Aranna gli aveva instillato senno e
discernimento, così che egli possedeva una naturale autorità ed i
suoi uomini lo amavano e lo rispettavano.
Wieland
dovette ammettere a se stesso che attraversare le selvagge distese di
Morvynnet con lui al fianco sarebbe stato senza dubbio meno
sgradevole che farlo in solitudine.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Capitolo
2
Nonostante
la sua impazienza, il principe poté lasciare Theoburg solo dopo un
paio di giorni.
Partirono
lui e Aldric sul fare dell’alba, in sella a due robusti destrieri,
portando seco un candido palafreno per Lady Amilda e un ulteriore
cavallo carico del necessario per il viaggio.
Il
cammino che li aspettava infatti era lungo e difficile: usciti dalle
fertili pianure di Konorian, avrebbero dovuto attraversare il
Cadwald, una foresta impenetrabile e infestata di belve, quindi
avrebbero dovuto valicare i Monti Vjelen sfidando le nevi del Passo
di War-Lye, anche detto degli Eserciti Perduti. Se fossero riusciti
nella difficile impresa sarebbero giunti nella desolazione del
Morvynnet, oltre la quale, così narravano le saghe, era situata la
Valle dei Lamenti.
Non
avrebbero trovato nulla lungo la strada, se non ciò che recavano
seco. I pochi villaggi disseminati in quelle vuote plaghe, infatti,
erano abitati da gente infida e malvagia, che raramente dava aiuto ai
forestieri, e in ogni caso mai senza un lauto compenso.
Ma
ciò non importava al principe Wieland. Egli aveva una sola cosa in
mente: che avrebbe riavuto Lady Amilda. Anche i pericoli e le
privazioni gli sembravano poco più di fastidi, ora che stava andando
a riprendere la sua amata.
Il
tragitto attraverso le pianure di Konorian fu piuttosto tranquillo.
La gente lì non era ostile, anzi molti riconoscevano il principe
Wieland e gli rendevano omaggio, augurandogli pace e prosperità.
Il
luogo inoltre era quanto mai piacevole: vi erano basse colline,
pianure leggermente ondulate e immensi campi sui quali le messi
cominciavano a maturare. Di tanto in tanto si incontravano mandrie di
animali al pascolo e ordinate masserie, a volte isolate e a volte
riunite in piccoli borghi.
All'orizzonte
vi era la minacciosa linea scura del Cadwald, ma in quel paesaggio
agreste e tranquillo quasi non si notava.
Man
mano che si avvicinavano al bosco, però, i due si accorgevano che le
masserie diventavano sempre più rare, mentre aumentava il numero dei
campi lasciati a maggese. Animali al pascolo non se ne vedevano più.
Ad
un certo punto scomparvero dal cielo anche i canti degli uccelli.
Dappertutto regnava un gran silenzio, nel quale gli zoccoli dei
cavalli risuonavano come magli da fucina.
Wieland
si guardò intorno a disagio.
“È
la vicinanza del Cadwald, principe,” disse Aldric, accarezzando il
proprio destriero, che scartava nervoso con le orecchie appiattite
all’indietro.
“Ci
sei mai stato?”
“Sì,
altezza. È un luogo arcano e pericoloso.” Il capitano delle
guardie lo disse con tono di banale constatazione. Nel frattempo era
riuscito a tranquillizzare la propria cavalcatura e aveva ripreso la
marcia.
L'altro
scrutò nuovamente l'inquietante linea scura. Ormai vi si
distinguevano chiaramente le sagome di alberi solenni, dalla chioma
imponente. Notò che non si udiva uno stormire di fronde: la foresta
sembrava in silenziosa attesa.
Senza
neppure aspettare di giungere in vicinanza delle prime piante, Aldric
scrutò il cielo e disse: “Sarà meglio accamparci qui, altezza.”
“Perché?
Il sole è ancora alto.”
Wieland
era impaziente di avanzare, ogni minuto che lo separava dalla sua
amata gli sembrava lungo come un'eternità e fermarsi quando c'erano
ancora due ore di luce gli pareva un inutile spreco di tempo.
“Non
è consigliabile farsi sorprendere dal buio all'interno del Cadwald,
altezza.” rispose Aldric pazientemente.
“Non
c'è una locanda nella quale fermarsi?”
“Nel
Cadwald, altezza?” Il capitano delle guardie non poté evitare di
fissarlo stupito. “No, lì ci sono solo lupi... o peggio.”
“Cosa
ci può essere di peggio dei lupi? Orsi?”
“Non
sono orsi, altezza.”
“Di
che stai parlando?”
“Le
creature del bosco.”
“E
cosa sono?”
“Non
saprei.”
Wieland
lo fissò stupito. “Come sarebbe a dire che non lo sai? Non le hai
viste quando ci sei stato?”
“Sì,
altezza, ma non saprei dire cosa sono.”
Così
parlando, i due erano arrivati agli arbusti del sottobosco, che
spuntavano fra i tronchi secolari là dove la luce del sole riusciva
ancora a penetrare le fitte chiome degli alberi più alti.
Tutti
gli animali si innervosirono e cominciarono a scartare nitrendo. Il
candido corsiero destinato a Lady Amilda fece addirittura una mezza
impennata e sarebbe fuggito via se Wieland non l'avesse tenuto
saldamente per le redini.
“E
adesso cos'hanno?” chiese il principe faticando per ricondurre
all'obbedienza le recalcitranti bestie.
“Sentono
l'aria malvagia del bosco, altezza. Gli animali percepiscono queste
cose meglio di noi.”
Wieland
lo fissò severo. “Non avrai paura, voglio sperare.”
“Se
ho paura è per voi, altezza,” fu la pacata risposta.
“Beh,
ti dimostrerò che essa è fuori luogo!” esclamò piccato il
principe, spronando risolutamente il proprio cavallo.
All’interno
del Cadwald l’aria era immobile e aveva un vago sentore di muffa e
putrefazione. Vi regnava una spenta luce grigiastra e una pesante
bruma strisciava sul terreno attutendo il rumore degli zoccoli.
“Che
strano posto,” commentò Wieland guardandosi intorno.
Il
sentiero procedeva in una sorta di navata il cui soffitto, altissimo,
era costituito dai rami degli alberi. Ai lati del percorso c’erano
solo tronchi a perdita d’occhio, scuri e velati di nebbia.
Per
un po’ avanzarono in silenzio. La luce si faceva sempre più fioca
e di pari passo cresceva nei due un penoso senso d’oppressione.
Aldric allentò la spada nel fodero.
Il
principe, dal canto suo, cominciava a capire che forse avrebbe fatto
meglio a dar retta al più esperto capitano della guardia. Si stava
approssimando la notte, e con essa la necessità di accamparsi. Ma
dove avrebbero potuto riposare, in un luogo dove ogni sasso e ogni
foglia sembravano letteralmente sprigionare malvagità?
“Come
fanno normalmente i viandanti ad attraversare il Cadwald?” chiese
sforzandosi di usare un tono indifferente.
“Se
possono lo aggirano, altezza, ma se come noi sono obbligati a
passarvi attraverso, ebbene aspettano l’alba per entrarvi e non si
fermano fino a che non sono giunti dall’altra parte, pregando che
ciò accada prima del tramonto.”
“Perché,
cosa succede al tramonto?”
“Arrivano
quelli.”
“Ebbene,
se si avvicinano troppo assaggeranno il filo delle nostre spade.”
Concluse Wieland risoluto.
Aldric
non disse nulla. Continuò ad avanzare attento, scrutando i dintorni
che nebbia e crepuscolo rendevano sempre più indistinti.
D’un
tratto echeggiò un richiamo. Era una specie di ululato, ma
chiaramente non proveniva dalla gola di un lupo. Era più roco, più
modulato. Più umano,
in un certo senso. Sembrava contenesse parole in qualche lingua
antica e sconosciuta.
“Sono
loro,” disse Aldric, “presto ci saranno addosso.”
Smontò
dal proprio cavallo e prese dal bagaglio due torce. Le accese con
gesti rapidi ed esperti, poi ne porse una al principe.
“Hanno
paura della luce, altezza. Non lasciate andare questa fiaccola per
nessun motivo.”
L’ululato
si ripeté, più vicino. Altri risposero. I cavalli nitrirono
spaventati.
Aldric
si voltò verso il principe. “È meglio che stiamo vicini,
altezza.”
L’altro
non se lo fece ripetere. Tutt’intorno era una cacofonia di
richiami. Non c’erano solo i lugubri ululati che avevano udito
all’inizio, ma anche ansiti, ringhi e strani suoni gorgoglianti. Vi
era un diffuso tramestio di foglie smosse.
E
finalmente Wieland ne vide uno: difficile dire se fosse bipede o
quadrupede. Era più grosso di un uomo, coperto di ispida pelliccia
grigiastra. Della testa non colse altro che un confuso baluginare di
occhi e zanne.
Avrebbe
voluto snudare la spada, ma con una mano era impegnato a reggere la
fiaccola, con l’altra stringeva le redini del cavallo, che
sgroppava impazzito di terrore. Le due bestie che avevano al seguito,
il corsiero bianco e il cavallo con la soma, rampavano e scalciavano
in una frenesia di panico.
“Non
fermatevi, altezza,” raccomandò Aldric, pacato come suo solito ma
con un’espressione tesa sul volto.
Ai
margini del cerchio di luce comparvero altre di quelle creature, che
però scartavano con mugolii che sembravano di dolore non appena
uscivano dalla protezione delle tenebre.
Avanzarono
in quel modo per un tempo che a Wieland parve interminabile. Egli non
era mai stato pavido, ma quel tragitto nelle tenebre popolate da
mostri con una torcia come unica protezione lo stava rendendo
piuttosto nervoso. Per distrarsi cominciò a pensare a Lady Amilda e
stabilì per prima cosa che nel viaggio di ritorno con lei avrebbero
aggirato il Cadwald.
Al
suo fianco, solido e apparentemente tranquillo, Aldric procedeva in
silenzio, la torcia saldamente stretta in mano.
Improvvisamente
echeggiò alle loro spalle un alto nitrito di dolore. Wieland si
voltò bruscamente e vide che il corsiero bianco, che era rimasto più
indietro e parzialmente fuori del cerchio di luce, aveva uno di
quegli esseri sulla groppa, che si stava apprestando a dilaniarlo con
artigli che parevano lame.
La
bestia scalciò come impazzita, ma subito una seconda sagoma scura le
fu addosso e altre si stavano avvicinando avide.
Senza
pensarci due volte, Wieland smontò da cavallo, estrasse la spada e
si precipitò ad attaccare i mostri.
Quello
che seguì fu solo un turbinio confuso di bagliori d’acciaio,
schizzi di sangue e corpi che cadevano a terra, il tutto reso ancora
più indistinto dalla luce incerta e rossastra della torcia.
L’aria
era piena dei versi gorgoglianti di quei mostri e dei nitriti
disperati del cavallo. Per quanto Wieland lottasse strenuamente per
proteggerlo, per una creatura che uccideva altre due ne arrivavano,
rese pazze di bramosia dall’odore del sangue fresco. Il principe
notò con raccapriccio che quegli esseri famelici divoravano
addirittura i loro compagni che lui aveva abbattuto a fendenti.
Ad
un tratto Wieland si sentì afferrare da dietro. Cercò di girarsi
convinto che fosse uno di quei mostri, ma era Aldric, che con forza
sovrumana lo stava issando sul proprio cavallo.
In
un attimo il principe si ritrovò di traverso sulla sella, mentre il
capitano delle guardie spronava il destriero lanciandolo al galoppo
sfrenato.
“Aspetta,
i cavalli!” esclamò angosciato Wieland. Non potevano lasciarli
indietro. Come avrebbero proseguito il viaggio senza i loro fedeli
animali?
“Non
c’è tempo, altezza,” fu la secca risposta, “possiamo solo
sperare che gli altri due ci seguano mentre quelli finiscono di
mangiarsi il bianco.”
La
corsa fu lunga e spaventosa. Per un tempo che a Wieland parve
interminabile galopparono sullo stretto sentiero. La luce incerta
della torcia mostrava solo file di tronchi tra i quali si intravedeva
di tanto in tanto la sagoma tozza di uno di quegli esseri.
Quando
già il principe stava per convincersi che inseguiti fino allo
sfinimento non avrebbero avuto via di scampo, la folle galoppata li
portò in una radura disseminata di arbusti secchi. Immediatamente
Alrdric appiccò fuoco ad uno di essi, che avvampò crepitando.
I
mostri fuggirono via con lugubri ululati di dolore.
I
due smontarono da cavallo ansimanti. Per prima cosa diedero fuoco ad
altri arbusti, in modo da creare una specie di barriera protettiva,
poi valutarono l’ammontare dei danni: il cavallo per Lady Amilda
era scomparso, quello con la soma era illeso, anche se il carico era
stato parzialmente rovinato. Il destriero di Wieland, un cavallo da
battaglia addestrato, era sopravvissuto coraggiosamente ad un assalto
di quelle creature, ma aveva segni di graffi sul collo e su una
spalla. I suoi zoccoli erano coperti di sangue scuro.
Anche
Aldric sanguinava. Aveva segni sul collo, sul volto, sulle cosce e su
ogni altra parte che non era coperta dalla cotta di maglia. Doveva
essersi battuto furiosamente per riuscire ad arrivare così vicino al
principe da poterlo issare sul suo cavallo.
“Stai
bene?” gli chiese Wieland preoccupato.
“Sì,
altezza.”
L’altro
gli si avvicinò. “Fammi vedere queste ferite, credo sarà
necessario fasciarle.”
“Non
direi, altezza. Sono solo graffi superficiali.”
Ma
Wieland non se ne diede per inteso. Avanzò di un altro passo e fece
per scostargli il colletto della veste. “Qui, per esempio, hai un
taglio profondo,” disse.
L’altro
si ritrasse bruscamente. “Non è niente di grave, altezza. Posso
fare da solo,” rispose con voce fattasi improvvisamente dura. Gli
voltò le spalle.
Wieland
rimase stupito, ma attribuì i modi ruvidi del capitano alla tensione
accumulata nella precipitosa fuga.
Buttò
qualche ramo sui fuochi, controllò i finimenti del proprio cavallo,
infine disse: “Aldric, ti posso fare una domanda?”
“Certamente,
altezza.”
“Perché
ti ostini a chiamarmi così?”
“Perché
voi siete il principe, altezza. Questo è il titolo che vi spetta.”
“Aldric,
giocavamo insieme da piccoli, da ragazzini ci scrivevamo lettere,
quando io ero rimasto a Theoburg mentre tu eri andato a Ermyn Goter
per seguire la Via dell’Acciaio. Eravamo amici.
Lo ricordi questo?”
“Sì,
certo che lo ricordo.”
“Non
lo siamo più?”
“Darei
la vita per voi, principe.”
“Non
chiedo tanto. Basta che ricominci a chiamarmi per nome come facevi
una volta.”
Tra
i due ci fu un lungo silenzio, rotto solo dal crepitare dei fuochi e
dai mugolii delle creature che si aggiravano intorno colme di rabbia
impotente.
Infine
Aldric disse: “Farò io il primo turno di guardia. Tu sdraiati qui
e riposa.”
L’altro
lo fissò negli occhi brevemente, poi annuì. Stese per terra la sua
coperta e vi si adagiò con un sospiro di soddisfazione. “Grazie
Aldric,” disse in un soffio.
“Dormi.”
Prima
di chiudere gli occhi, Wieland ebbe la fugace visione del capitano
delle guardie ritto in piedi accanto a uno dei fuochi. Con la spada
al fianco e una torcia stretta in pugno, i capelli dorati che
riflettevano i bagliori rossastri delle fiamme, gli parve come un
arcangelo guerriero a guardia di un sacro tempio.
Albeggiava
quando Aldric scosse gentilmente Wieland per svegliarlo.
Il
principe si guardò intorno ancora un po’ stranito, quasi stentando
a riconoscere la radura, ora che la vedeva alla luce. Benché
l’ambiente fosse quanto mai sinistro e inquietante, vi regnava di
nuovo il silenzio perfetto del giorno prima. Non c’era in giro la
minima traccia delle misteriose creature della notte, tanto che se
non fosse stato per le ferite di Aldric e per la mancanza del cavallo
bianco, avrebbe anche potuto pensare di essersi sognato ogni cosa.
“Ma…
mi hai lasciato dormire tutta la notte?” chiese perplesso.
“Avevi
bisogno di riposare.”
“Ma
anche tu ne avevi bisogno, Aldric,” obiettò l’altro rialzandosi
in piedi. Notò che i cavalli erano già sellati e pronti per la
partenza.
“Io
sono abituato.”
Ripresero
la marcia.
L’alba
era passata da un po’ e ormai doveva essere giorno fatto, ma
all’interno del Cadwald vi era comunque una crepuscolare luce
grigiastra. Le ormai familiari teorie di tronchi scuri si perdevano
nella foschia ammantate di un silenzio ostile.
Appesantiti
da quella cappa di oppressione, neppure i due giovani parlavano.
Senza scambiarsi pareri in merito, erano partiti di buon passo con
tutte le intenzioni di uscire da quel maledetto bosco il prima
possibile, e procedevano affiancati sul sentiero, tirandosi dietro il
cavallo superstite, con tutte le provviste che erano riusciti a
salvare.
“Un
peccato che abbiamo perso il cavallo di Lady Amilda” buttò lì
Wieland dopo un po’. Pronunciare quella semplice frase gli costò
fatica, come se il fiato uscisse con difficoltà in quell’ambiente
saturo di malvagità.
Pensava
che Aldric l’avrebbe rimproverato per la sua leggerezza, in fondo
era stato per causa sua che erano finiti nel Cadwald di notte, invece
il capitano senza neppure voltarsi gli rispose: “Non importa.”
Wieland
avrebbe voluto proseguire la conversazione, forse parlare avrebbe
stemperato un po’ quell’atmosfera opprimente, ma Aldric si era
chiuso in un mutismo cupo e sembrava assorto nei suoi pensieri.
Pensieri
che peraltro non dovevano essere molto piacevoli, a giudicare dalla
sua espressione.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Capitolo
3
Finalmente
giunsero al confine est del Cadwald. Pian piano gli alberi si fecero
più radi e ricomparve il basso sottobosco. In fondo al sentiero la
luce sembrava già più calda e dorata.
Le
cavalcature aumentarono spontaneamente il passo e i due si guardarono
bene dal trattenerle, ansiosi com’erano di allontanarsi da quella
spettrale foresta.
Una
volta fuori, essi si trovarono in una sterminata brughiera,
disseminata qua e là di chiazze di neve. Non c’erano alberi e
l’aria era fredda e pungente. All’orizzonte si stagliava la
barriera frastagliata e ammantata di ghiacci eterni dei Monti Vjelen.
Uno
stretto sentiero, un camminamento appena visibile nella vegetazione
che copriva la pianura, si snodava seguendo le naturali ondulazioni
del terreno verso la catena montuosa.
Aldric
ne seguì il percorso con lo sguardo schermandosi con la mano dai
raggi del sole calante. “È quello che porta al Passo degli
Eserciti Perduti,” disse con sicurezza. “Proseguiremo un’altra
ora e poi ci accamperemo.”
Wieland
annuì senza fare commenti. Dopo l’ultima esperienza, non aveva
intenzione di contraddire Aldric un’altra volta.
Ripresero
la marcia. Per quanto fredda, l’aria era tersa e limpida.
Paragonata all’atmosfera venefica del Cadwald, quella brezza
ghiacciata risultava quasi piacevole.
Dopo
un po’ che procedevano, Wieland si voltò verso Aldric, che portava
evidenti segni dei combattimenti contro le creature del Cadwald.
“Stasera cureremo quelle ferite,” gli disse con un tono che
voleva essere severo.
L’altro
sorrise. “Basterà lavarle con un po’ di neve.”
“Con
la neve?” ripeté stupito il principe. Sapeva combattere, aveva
avuto i migliori maestri di scherma dell’Elbeinn, aveva sempre
partecipato con entusiasmo ai tornei, ma quando si faceva male in
duello c’era immancabilmente un abile guaritore con erbe e
unguenti, pronto a pulire la ferita, a cospargerla di pomate
medicamentose e fasciarla con candidi lini.
Aldric
sorrise. “Tu non sei mai stato in guerra, vero?”
L’altro
chinò la testa vagamente confuso. “No,” ammise.
“Beh,
scoprirai che le ferite superficiali si lavano molto bene con la
neve,” rispose Aldric, poi adocchiò un avvallamento del terreno e
aggiunse: “per stasera ci accampiamo qui.”
Wieland
smontò da cavallo senza aggiungere altro. Non era mai stato in
guerra, non era mai uscito dai confini del Konorian e poteva dirsi
fortunato che suo padre l’avesse obbligato ad accettare di essere
accompagnato dal capitano delle guardie, altrimenti sarebbe stato già
morto.
Cercò
di distogliere la mente dalle proprie mancanze rivolgendo il pensiero
a Lady Amilda. Rimpianse di non essersi portato il piccolo ritratto
della fanciulla che un miniatore gli aveva realizzato all’interno
di una conchiglia. L’aveva nascosto per non essere più obbligato a
vedere il volto di lei, ma ora che stava andando a riprenderla
l’avrebbe contemplato volentieri.
Frattanto
Aldric aveva acceso il fuoco e messo finalmente a cuocere un pasto,
poi si era sfilato la cotta di maglia con un grugnito di
soddisfazione.
Wieland
aveva notato che poi si era girato bruscamente e si era tolto dal
collo qualcosa che lui non aveva fatto in tempo a vedere, quindi si
era diretto alla più vicina chiazza di neve, scegliendo una zona
dove essa era ancora relativamente pulita.
Incurante
del freddo, si era frizionato con quella, insistendo con particolare
attenzione sulle ferite. Poi era tornato indietro scuotendosi come un
cane, giusto in tempo per ritirare dal fuoco quello che aveva
cucinato.
Aldric
rimescolò con cura il contenuto della pentola, poi disse: “Wieland,
vieni a mangiare qualcosa.”
Il
principe si riscosse, si alzò e andò a sedersi accanto al capitano,
che nel frattempo aveva preparato due piatti colmi di una pietanza
che somigliava a uno stufato e aveva un buon odore.
Affamati
ed esausti, per un po’ mangiarono in silenzio. Nel frattempo era
calata la notte e il cielo era come un velluto nero tempestato di
gemme. Il fuoco crepitava allegramente riscaldandoli ed
illuminandoli.
Gli
occhi d’oro antico di Wieland sembravano brillare di una loro luce
interna di pietra preziosa, mentre quelli azzurri di Aldric erano
diventati chiari e trasparenti come fonti d’acqua tersa.
“Sapessi
quanto desidero rivederla,” sospirò il principe dopo un lungo
silenzio.
“Lady
Amilda?”
“Il
mio fiore delicato, sì. È la più soave fanciulla del mondo. Io non
chiedo altro che di riaverla tra le mie braccia,” sospirò Wieland.
Poi si voltò verso Aldric e gli chiese: “E tu hai una ragazza che
ti aspetta a Theoburg?”
“Io?
No di certo.”
L’altro
parve stupito. “No? E perché mai?”
“I
miei compiti non mi lascerebbero il tempo di occuparmi di una donna.”
“Tuo
padre l’ha avuta una moglie, altrimenti tu non saresti qui,”
obiettò il principe, “e comunque l’amore di una fanciulla è la
cosa più bella che un uomo possa desiderare.”
Aldric
si voltò lentamente fino a fissarlo in viso, poi con voce
stranamente dura rispose: “Non sono d’accordo.” Prima che il
principe potesse replicare si alzò dicendo che doveva andare a
controllare i cavalli. Scomparve nel buio.
Tornò
quasi subito. Buttò una bracciata di legna sul fuoco, stese a terra
le coperte e cominciò a sistemare alcune cose per il giorno dopo.
“Ora
devi dormire però,” gli disse Wieland dopo averlo osservato per un
po’, ricordando che la notte prima non aveva chiuso occhio.
Aldric
parve ponderare la cosa. Probabilmente capiva di avere bisogno di
sonno ma al tempo stesso non si fidava totalmente delle capacità del
principe. “Sì, devo dormire,” ammise infine, adagiandosi
pesantemente sulla coperta. In effetti si sentiva esausto. Nonostante
le rassicurazioni che aveva fornito a Wieland, le ferite gli facevano
male e tutto il suo corpo invocava a gran voce un po’ di riposo. Si
tirò addosso il mantello e immediatamente si addormentò.
Il
principe rimase a fissarlo per un po’, poi allungò timidamente una
mano e gli sistemò meglio il mantello. Era come lo ricordava: forte
e generoso. Ancora una volta ringraziò suo padre, che gli aveva
affiancato un così valido compagno di viaggio.
Il
cammino per raggiungere le pendici dei Monti Vjelen durò cinque
giorni, durante i quali non successe sostanzialmente nulla di
insolito. L’aria si fece più fredda, il terreno divenne più
accidentato, ma a parte questo non ci furono accadimenti degni di
nota.
Il
sesto giorno cominciarono a salire. Per non affaticare inutilmente i
cavalli lungo i ripidi sentieri di montagna, i due procedevano a
piedi conducendo gli animali per le redini.
Giunsero
così ad una zona leggermente più pianeggiante, ammantata di nevi
perenni. Il sentiero era sparito, coperto dalla candida coltre, ma si
vedeva bene in lontananza il Passo di War-Lye, anche detto degli
Eserciti Perduti: era una fenditura verticale che sembrava l’effetto
di un gigantesco colpo d’ascia vibrato direttamente sulla cresta
della montagna.
I
due rimontarono in sella e avanzarono con cautela, ma ben decisi ad
attraversare il Passo più rapidamente possibile. Quella che da lungi
sembrava solo una nuda spaccatura, infatti, era in realtà un
concatenarsi di sentieri tortuosi e complicati. In pieno giorno, con
la luce e senza nebbia era facile seguire quello dritto, che portava
dall’altra parte della cresta, ma in condizioni di scarsa
visibilità c’era il rischio di imboccare un sentiero sbagliato e
di finire inesorabilmente persi in gelidi labirinti di ghiaccio o giù
per spaventosi precipizi.
Interi
eserciti, narrava la leggenda, erano stati inghiottiti dai misteriosi
cunicoli ed erano scomparsi senza lasciare tracce, anche se c’era
chi sosteneva che guardando le ripide pareti di ghiaccio nelle notti
di luna piena fosse facile riconoscere le fisionomie dei guerrieri
che vi erano imprigionati.
“Dobbiamo
stare attenti,” disse Aldric, “qui è facile perdersi.” Le sue
parole echeggiarono nel silenzio rimbalzando sui possenti
contrafforti di roccia, poi il vento sibilò scompigliando le
criniere dei cavalli.
Dall’interno
della ripida gola il cielo appariva come una lontana striscia di
azzurro.
“Dicono
che ci siano gli spiriti,” replicò Wieland guardandosi intorno.
“Nella
mia vita di soldato ho imparato che spesso un colpo di spada è una
minaccia ben più pericolosa di uno spirito,” rispose Aldric con
freddo pragmatismo. Non voleva preoccupare inutilmente il principe,
ma sapeva che spesso suoni misteriosi o strane visioni contribuivano
a far perdere l’orientamento a chi tentava di attraversare il
War-Lye.
“Non
perdere mai di vista la mia schiena,” disse, quindi spronò il
cavallo e procedette verso il passo.
Man
mano che avanzavano il sentiero sembrava disperdersi in decine di
altri percorsi, separati dal primo tramite sottili sepimentazioni di
ghiaccio, semitrasparenti e alte più di un uomo a cavallo. In
parecchi punti la via principale sembrava più stretta e dimessa di
tante altre che invece da essa si dipartivano per andare poi a
perdersi chissà dove nei recessi della montagna.
Mentre
stavano ponderando l’ennesimo bivio si alzò la nebbia.
Successe
in un attimo, i fenomeni meteorologici in montagna sono notoriamente
rapidissimi, e colse i due giovani esattamente a metà del passo.
Aldric
si fermò immediatamente valutando il da farsi. Tornare indietro non
era pensabile, si sarebbero inesorabilmente persi andando incontro a
morte certa. Del resto neppure stare fermi aspettando che la nebbia
si diradasse era consigliabile. Sarebbe potuta durare giorni e non
sarebbero riusciti a rimanere fermi così a lungo in mezzo a quelle
pareti di ghiaccio.
L’unica
possibilità era andare avanti, cercando di ricordare qual era la
direzione che avevano preso all’inizio.
Il
capitano delle guardie cominciò a muoversi lentamente dopo aver
ripetuto a Wieland di non perderlo mai di vista. I setti di ghiaccio
azzurrino emergevano dalla nebbia nitidi e lisci come lame di
coltello. Il vento non entrava nella gola di War-Lye, o se lo faceva
finiva comunque per disperdersi a sua volta nel dedalo di corridoi,
producendo misteriosi lamenti, che contribuivano a creare una
sgradevole sensazione di incertezza.
Stavano
avanzando così da un po’ di tempo, quando Wieland fu certo di aver
udito il pianto di Lady Amilda. Era lei, era inconfondibile.
Nessun’altra voce sarebbe mai potuta essere così aggraziata e
melodiosa anche nel dolore. Tirò le redini e attese, il pianto si
ripeté. Si girò nella direzione dalla quale gli pareva che
provenisse e trattenne a fatica un’esclamazione di stupore: c’era
una figura vestita di bianco accoccolata contro una roccia!
“Amilda!”
chiamò felice, e senza pensarci due volte si mosse in quella
direzione.
Solo
quando fu a pochi metri da quella che credeva una fanciulla si
accorse che si trattava in realtà di un blocco di ghiaccio, che la
nebbia aveva reso indistinto al punto da farlo sembrare una forma
umana. Il vento aveva fatto il resto creando l’illusione del
pianto.
A
questo punto si voltò in preda ad un’improvvisa preoccupazione e
si accorse che non riusciva più a distinguere il sentiero da cui era
arrivato.
Lo
colse una sensazione di sgomento: se fosse perito in quell’orribile
luogo non sarebbe mai riuscito a giungere al Palazzo dell’Eterno
Dolore, e quindi non avrebbe potuto portare a compimento la sua
missione.
Dopo
un tempo che gli parve infinito, udì nel silenzio spettrale un
lontano scalpiccio di zoccoli. “Aldric!” chiamò con quanto fiato
aveva in gola “Aldric, sono qui!” L’invocazione turbò la
quiete secolare del luogo generando migliaia di echi bizzarri.
Si
impose di rimanere fermo. Se Aldric lo stava cercando, muoversi per
andargli incontro avrebbe solo peggiorato le cose. Lo chiamò di
nuovo, sconvolgendo ancora una volta il silenzio con le sue
invocazioni.
Finalmente
il capitano delle guardie emerse dalla nebbia dirigendosi verso di
lui. Era a piedi e teneva in mano il capo di una corda. “L’ho
legata alla sella del cavallo,” spiegò brevemente, “basterà
seguirla e torneremo sul sentiero giusto.”
Il
principe annuì sollevato, sebbene una parte di lui si stesse
augurando che gli spiriti non avessero nel frattempo slacciato la
corda dalla sella, o indotto il destriero di Aldric a spostarsi da
dove lui l’aveva lasciato.
Fortunatamente
non accadde nessuna delle due cose, forse per quel giorno gli spiriti
si erano già divertiti a sufficienza, quindi i due riuscirono a
ritrovare il sentiero e pur con grande fatica attraversarono il Passo
degli Eserciti Perduti.
Quando
giunsero ad affacciarsi sull’altro versante dei Monti Vjelen si
avvidero che era ormai pomeriggio inoltrato. Probabilmente il valico
aveva richiesto più tempo di quanto Aldric avesse previsto, fatto
sta che il sole si stava già avviando alla discesa verso la linea
dell’orizzonte.
Notarono
inoltre che da quella parte della catena montuosa era molto più
freddo. Il cielo era terso come un cristallo, ma soffiava un vento
gelido e impetuoso, che aveva coperto ogni superficie di un argenteo
velo di brina. I cavalli si muovevano incerti, scivolando sul
sentiero ghiacciato.
Aldric
e Wieland smontarono e procedettero a piedi conducendo gli animali
per le redini. Il capitano delle guardie appariva piuttosto serio:
non avrebbero avuto ancora molte ore di luce, ed era vitale trovare
un punto riparato per accamparsi, oppure loro e i cavalli sarebbero
morti di freddo durante la notte.
Il
fiato di uomini e bestie si condensava in dense nuvole di vapore e la
brina stava cominciando a formarsi anche sul pelame dei destrieri.
Dopo
circa un’ora di marcia arrivarono ad una larga spianata di forma
vagamente rotondeggiante, circondata da alti bastioni di roccia.
C’erano buchi nelle pareti circostanti, cosa che faceva pensare
alla presenza di grotte, ma la bianca superficie era inviolata, la
qual cosa suggeriva che le stesse fossero completamente disabitate.
Aldric
ponderò attentamente la situazione: si sarebbero potute usare come
rifugio per la notte?
Avanzò
cautamente attraversando lo spiazzo innevato e raggiunse la più
grande delle aperture, che immetteva in una grotta larga abbastanza
da contenere sia loro che gli animali. All’interno non arrivava il
vento e senza dubbio un fuoco l’avrebbe resa decisamente più
confortevole di una notte trascorsa all’aria aperta. Tornò
indietro per chiamare Wieland, ma quando fu a metà dello spiazzo udì
uno schiocco e una sorta di scricchiolio. Immediatamente si
immobilizzò: un lago ghiacciato! Ecco il perché di quella
superficie perfettamente piana.
A
questo punto si accorse con orrore che Wieland aveva cominciato a
correre verso di lui.
“Fermo!”
urlò, “Fermo dove sei, non ti muovere!”
Ma
era troppo tardi: la superficie ghiacciata fu attraversata da un
fremito e si spaccò con lunghi scricchiolii. Seguirono schiocchi e
tonfi, quindi una sorta di scossa tellurica, che minacciò di far
perdere l’equilibrio ai due.
Aldric
fissò angosciato il principe, che in quel momento si trovava
esattamente al centro del lago. “Sdraiati per terra!” gridò,
“non restare in piedi!”
Nel
momento stesso in cui l’altro si piegava in avanti per fare ciò
che gli era stato detto, una grande lastra di ghiaccio si sollevò
proprio sotto i suoi piedi, facendolo finire nell’acqua gelida.
“Wieland!”
gridò Aldric angosciato. Lo vide annaspare appesantito da armatura e
abiti di pelliccia. La morsa del gelo gli avrebbe in breve impedito
di respirare, senza contare che se le lastre di ghiaccio si fossero
richiuse su di lui sarebbe stato impossibile tirarlo fuori.
Non
c’era un attimo da perdere: il capitano si tolse il mantello e si
avvicinò strisciando sul ventre fino a raggiungere il principe, che
stava tentando invano di aggrapparsi al bordo di un lastrone con le
mani intorpidite dal gelo. Lo afferrò per la collottola e lo tirò
verso di sé, ma non riusciva ad esercitare la forza che sarebbe
stata necessaria. Il principe rischiava anzi agitandosi di trascinare
sotto anche lui.
“Sta
fermo, Wieland, lasciami fare!” ansimò Aldric senza abbandonare la
presa, ma l’altro spaventato persisteva nei suoi sforzi e sembrava
non udire neppure la voce del capitano.
Le
lastre si agitavano e schioccavano scontrandosi fra di loro con
tremenda forza. Più Wieland si dimenava, più aumentava il moto
dell’acqua, che subito si trasmetteva al ghiaccio rendendolo un
pericolo mortale.
Infine
Aldric si decise. “Perdonami, Wieland, non ho alternative,”
disse, e subito dopo lo colpì con un pugno alla mascella.
Il
giovane perse immediatamente i sensi. L’altro a questo punto fece
appello a tutte le proprie forze e lo estrasse, a peso morto e
grondante d’acqua, dal lago gelido. Si abbandonò poi ansimante
nella neve, troppo esausto per fare qualsiasi cosa, con i muscoli
doloranti e la vista annebbiata per lo sforzo.
Non
si concesse che un attimo: Wieland non aveva certo smesso di essere
in pericolo di vita. Anzi, ora più che mai rischiava di morire
assiderato.
Lo
trascinò nella grotta, poi andò a prendere i cavalli, che dovette
giocoforza condurre lungo il bordo del lago per evitare che anch’essi
finissero nell’acqua. Quando li ebbe portati dentro preparò le
coperte e le mise da una parte, poi tolse rapidamente i vestiti
fradici a Wieland.
Il
giovane principe era inerte, pallido e freddo come il ghiaccio. Non
reagì neppure quando Aldric lo frizionò vigorosamente con un panno
ruvido per riattivargli la circolazione. Il capitano lo fissò
preoccupato: Wieland avrebbe dovuto perlomeno dare qualche segno di
ripresa, il suo pugno non poteva averlo stordito più di tanto.
Con
mosse febbrili accese un fuoco, e quando esso prese ad avvampare
crepitando, sistemò lì vicino una coperta e vi distese il giovane,
mettendogli addosso ogni altro indumento caldo di cui disponeva,
compresa la propria coperta e il proprio mantello di pelliccia.
Il
principe respirava appena, aveva le labbra livide e un’inquietante
alone bluastro gli si stava formando intorno agli occhi. Aldric
conosceva quei sintomi: assideramento. Wieland aveva bisogno di caldo
o sarebbe morto entro poche ore. Già, ma come procurare del caldo in
un mondo fatto di ghiaccio?
Aldric
l’aveva già visto fare. I popoli del nord avevano quell’usanza,
quando qualcuno rischiava di morire di freddo. Si tolse tutti i
vestiti, non meno fradici di quelli del principe, e si infilò sotto
le coperte a sua volta, facendo aderire il proprio corpo a quello di
lui.
Wieland
era gelido, come fosse fatto di ghiaccio a sua volta. Aldric se lo
tirò addosso e lo strinse a sé, sperando che il proprio calore
fosse sufficiente a salvarlo.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Capitolo
4
Lo
svegliò la luce dell’alba, che filtrava ancora fioca all’interno
della grotta. Non aveva fatto la guardia, ma probabilmente in quel
luogo gelido e inospitale essa era la minore delle negligenze.
Il
fuoco era spento da tempo, ma la presenza dei tre cavalli aveva
comunque riscaldato il piccolo ambiente.
Wieland
era ancora contro di lui, il capo appoggiato al suo petto, i capelli
a coprirgli il volto. Lo toccò constatando con sollievo che era
tiepido.
Con
insospettata dolcezza gli scostò le morbide ciocche corvine dal viso
e gli accarezzò una guancia. Gli posò un delicato bacio sulla
fronte. A quel tocco il giovane principe aprì gli occhi. Sulle prime
parve piuttosto stupito di trovarsi nudo e abbracciato al corpo
parimenti nudo del suo capitano delle guardie, poi lentamente gli
tornarono in mente gli ultimi avvenimenti. “Il lago era
ghiacciato…” mormorò, “stavo annegando…”
“Perdonami,
ma saresti morto di freddo se non avessi fatto così.”
“Perdonarti?
Mi hai salvato la vita, Aldric.”
“L’avrei
fatto a prezzo della mia, se fosse stato necessario.”
L’altro
lo fissò colpito, poi appoggiò nuovamente il volto sul suo petto.
Evitando di guardarlo sospirò: “Ma poi chi avrebbe badato a me
fino al Palazzo dell’Eterno Dolore?”
“Sai
badare a te stesso.”
“Non
è vero. Senza di te non sarei nemmeno uscito vivo dal Cadwald. Non
saprei dove accamparmi, come preparare i giacigli per la notte, o
come sellare il cavallo senza fargli venire una fiaccatura sul
garrese.”
“Tu
sei un principe, non ti serve sapere queste cose.”
“Ecco
perché ho bisogno di te.”
La
frase fu seguita da un lungo silenzio, poi Wieland alzò gli occhi
dorati fino a fissarli in quelli celesti di Aldric. “Non
lasciarmi,” mormorò in un soffio.
L’altro
gli prese il volto fra le mani. Lo baciò di nuovo sulla fronte, però
non disse nulla. Il suo sguardo era appassionato ma carico di una
struggente amarezza.
Subito
dopo si sciolse dall’abbraccio e si alzò. “Sarà meglio che ci
prepariamo a partire,” disse con voce dura.
Nei
giorni successivi abbandonarono le nevi eterne dei Monti Vjelen per
addentrarsi nella desolazione del Morvynnet. La regione, quanto mai
selvaggia e inospitale, era essenzialmente una pianura che si perdeva
all’orizzonte, coperta di radi arbusti spinosi e disseminata di
pietre dai bordi taglienti. Ogni tanto vi erano degli avvallamenti,
lunghi e stretti come canali, nei quali si immaginava potessero
passare corsi d’acqua in un’ipotetica stagione delle piogge, ma
che comunque erano secchi e polverosi al pari del resto.
Gli
unici abitanti della zona, per quanto Aldric ne sapeva, erano i
Morvan, un popolo nomade dedito alla caccia e alla pastorizia, ma che
non disdegnava la razzia qualora se ne presentasse l’occasione.
Poiché normalmente attaccavano solo se in superiorità numerica di
almeno venti a uno, era di vitale importanza evitare ogni contatto.
Per
giorni comunque non incontrarono anima viva. Sembrava che neppure gli
animali vivessero nel Morvynnet, gli unici suoni che si udivano erano
il sibilo del vento e qualche raro grido di rapace.
All’inizio
vi era anche qualche sorgente d’acqua, ma procedendo verso la Valle
dei Lamenti esse si erano fatte sempre più rare, e l’acqua al loro
interno sempre più fetida e contaminata.
Nessuno
dei due aveva più fatto allusioni a quello che era successo nella
grotta. Per la verità, non avevano praticamente più parlato. Col
passare dei giorni Aldric si era fatto sempre più cupo e capitava
spesso che cavalcasse qualche lunghezza avanti a Wieland, come per
fargli capire che non desiderava essere interpellato.
Questo
naturalmente dispiaceva al principe per più di una ragione, non
ultima quella che avrebbe voluto sfruttare le conoscenze del capitano
della guardia sulla Valle dei Lamenti. Aveva sentito dire molte cose
su quella morta contrada e nessuna di esse rassicurante.
Si
narrava per esempio che quel luogo maledetto fosse popolato di mostri
che non erano né vivi né morti e che il Palazzo dell’Eterno
Dolore potesse essere trovato solo spargendo il sangue di qualcuno
che fosse nobile e intrepido, ma soprattutto disposto a morire per
amore. La leggenda non specificava però come dovesse essere
utilizzato tale prezioso fluido per trovare la dimora del Signore dei
Morti.
La
verità era che nessuno era mai stato nella Valle dei Lamenti ed era
tornato per raccontare ciò che aveva visto, quindi Wieland non
sapeva neppure se augurarsi di essere sufficientemente nobile e
intrepido per riuscire nell’impresa.
La
Valle dei Lamenti fu infine raggiunta. Aldric e Wieland si fermarono
prima di discendervi, fissandola con sgomento. Per quanto il
Morvynnet fosse desolato e inospitale, esso sembrava un giardino al
paragone del luogo che i due giovani stavano con orrore contemplando.
L’aria era resa opaca da esalazioni fetide e tutt’intorno vi era
uno sterile ribollire di fanghi. Dove era più solido, il terreno era
solo una crosta screpolata e polverosa, nella quale non avrebbe
attecchito neppure la più disperata delle piante.
Erano
ancora fermi sul ciglio della discesa che menava a quella desolata
miseria quando Aldric notò dei movimenti all’orizzonte. Subito li
indicò a Wieland, che li scrutò a sua volta preoccupato.
“Arriva
qualcuno,” disse poi il principe.
“Lo
vedo,” ringhiò l’altro, “e non è una buona cosa.” Valutò
rapidamente il da farsi. Quelli in avvicinamento erano senza dubbio
Morvan, il che significava che entro breve si sarebbero trovati
addosso una torma di guerrieri urlanti armati di archi e lance. Non
che quel popolo fosse composto da combattenti di valore, anzi
tendevano piuttosto alla viltà, ma una sproporzione di venti a uno
aveva comunque il suo peso.
“Abbiamo
un’unica possibilità,” disse infine, “li dobbiamo attaccare
noi per primi e fare più morti possibile, sperando che si spaventino
e preferiscano rinunciare alla cattura di due prede troppo ostiche.”
“Non
credi sia meglio andare subito nella Valle dei Lamenti? Secondo me
non oseranno seguirci lì dentro.”
“Vuoi
trovarteli addosso quando uscirai con Lady Amilda al seguito?”
“No,
certo che no,” rispose il principe senza esitazione.
“Allora
tira fuori la spada e seguimi.”
Ora
i Morvan erano più vicini. Erano un’accozzaglia disordinata di
uomini scuri su piccoli cavalli dal pelo ispido. Non sembrava neppure
esserci un capo, davano piuttosto l’impressione di un branco di
belve che si sarebbero azzuffate anche fra di loro una volta
abbattuta la preda, per accaparrarsi i pezzi migliori.
Aldric
spronò il grande destriero da battaglia, che subito balzò in avanti
con un nitrito. Sapeva che Wieland era alle sue spalle, ma sperava di
distanziarlo almeno di qualche lunghezza, in tal modo sarebbe stato
lui il primo ad impegnare i Morvan in combattimento.
Arrivò
sui nemici al galoppo sfrenato, incurante delle frecce, che
rimbalzavano sulla sua cotta di maglia e sulla corazzatura pettorale
del cavallo. Travolse quelli che gli si erano fatti incontro per
fermarlo ed entrò direttamente in mezzo alla torma di cavalieri. Il
primo che osò opporglisi cadde a terra decapitato di netto, un altro
fu abbattuto con un fendente, il terzo perì passato da parte a
parte, ma già l’orda che al suo arrivo si era dispersa urlando si
stava stringendo inesorabile intorno a lui.
Wieland,
che era rimasto più indietro, si era accorto della cosa. Per quanto
possibile cercò di impedirlo, in modo che l’altro avesse comunque
una via aperta per la ritirata.
Si
scatenò una battaglia violentissima. Furiosi per non riuscire a
prevalere su due soli avversari, i Morvan li attaccavano con impeto
suicida, finendo talvolta per essere abbattuti per troppa brama di
colpire i più forti antagonisti.
Come
Aldric aveva previsto, però, dopo un po’ si videro i primi
cavalieri spostarsi ai margini della mischia abbandonando la contesa.
Alcuni addirittura misero gli animali al piccolo galoppo e tornarono
da dove erano venuti, ritenendo evidentemente il valore della preda
sproporzionato allo sforzo effuso per conseguirla.
In
breve non restarono che pochi Morvan a combattere, sfortunatamente i
più forti e i più esperti.
Ve
n’era uno particolarmente robusto. Aveva il volto coperto di
tatuaggi, un segno di valore presso la sua gente, e portava una rozza
lorica di cuoio decorata con punte di freccia e artigli d’animale.
Stringeva in pugno un giavellotto dalla lucida punta di metallo.
Avanzò
al piccolo trotto, Aldric s’accorse con orrore che stava puntando
verso Wieland. Il principe non poteva vederlo, e anche se l’avesse
visto aveva altri due nemici che lo stavano impegnando in
combattimento. Sarebbe stato trafitto.
In
un attimo si liberò dei suoi antagonisti, quindi spronò il cavallo
per raggiungere Wieland. In quello stesso momento il Morvan tirò il
giavellotto. C’era solo una cosa che Aldric potesse fare, e la
fece: si parò davanti al principe.
Lanciata
con forza terribile, l’arma gli penetrò nel petto per almeno
quattro dita, squarciando la cotta di maglia e l’imbottita come
fossero state di carta.
Il
capitano delle guardie riuscì a strapparsi via la lancia e ad
abbattere con un fendente colui che l’aveva colpito, poi continuò
a combattere apparentemente come se niente fosse.
In
breve i due rimasero padroni del campo. I Morvan superstiti avevano
preferito fuggire abbandonando i loro morti sul terreno, e di certo
non sarebbero tornati tanto presto a recuperarli, se mai l’avrebbero
fatto.
Wieland
li seguì brevemente con lo sguardo mentre si allontanavano al
galoppo, poi si voltò soddisfatto verso Aldric. Questi, che aveva
ancora la spada in pugno, fece per riporla, ma mancò il fodero e
l’arma incrostata di sangue cadde a terra.
Mentre
il principe osservava stupito l’insolito fenomeno, il capitano
delle guardie crollò giù da cavallo e rimase al suolo immobile.
“Aldric!”
esclamò Wieland angosciato. Si precipitò accanto a lui e lo fissò
ansioso. Egli giaceva privo di sensi dov’era caduto, aveva il petto
coperto di sangue e il volto mortalmente pallido. Dall’angolo della
bocca un rivolo scarlatto gli scendeva lungo il mento.
“Aldric!”
chiamò ancora, sempre più disperato, “Aldric, non lasciarmi, ti
prego!” Sentì le lacrime scendergli copiose lungo le guance. Era
sgomento all’idea che lui morisse. No, era più che sgomento: era
annientato.
Con
mosse febbrili gli scoprì il petto, mettendo a nudo la ferita
sanguinante. Essa era vicino al cuore, ma per qualche miracolo non
l’aveva ucciso. “Grande Aunus, ti ringrazio,” mormorò. Corse a
prendere la sua scorta di sostanze medicamentose, le applicò sulla
piaga affinché fermassero il sangue, poi le coprì con le bende.
Quando ebbe fatto tutto ciò che poteva dal punto di vista pratico,
giunse le mani ed invocò piangendo il Sommo Edgewen, Padre delle
Battaglie, affinché risparmiasse la vita di Aldric.
Terminata
che ebbe la preghiera, si voltò a guardare il ferito e non poté
trattenere un’esclamazione di stupore. Ecco cos’aveva al collo,
ora lo vedeva bene.
E
ricordò.
Era
l’ultimo giorno che lui e Aldric passavano insieme. L’indomani
infatti l’amico sarebbe partito per Ermyn Goter, dove sarebbe
divenuto un guerriero seguendo la Via dell’Acciaio.
Aldric
aveva un ciondolo al collo, un oggetto particolarmente caro dal quale
non si separava mai. Era una misera medaglietta di metallo, niente di
prezioso, ma aveva il valore inestimabile della conquista. Egli
infatti l’aveva strappata dalle corna di un toro da combattimento
con una prodezza che gli era quasi costata la vita.
In
quell’ultimo giorno insieme se l’era tolto e gliel’aveva
solennemente consegnato. “Tieni questo,” gli aveva detto con
espressione grave, “così ti ricorderai di me.”
Non
potendo fargli dono di un oggetto altrettanto prezioso, lui gli aveva
dato in cambio una catena d’oro con un ciondolo che rappresentava
un cavaliere, dono di suo padre per aver fatto non ricordava neanche
più cosa.
E
comunque da quel giorno non s’era più tolto dal collo il ciondolo
di Aldric, non abbandonandolo neppure nelle occasioni ufficiali, dove
esso aveva fatto bella mostra di sé, sopra i gioielli che per rango
e nascita gli spettava portare.
Poi
era arrivata Lady Amilda. Aveva voluto conoscere la storia di quel
modesto ornamento dal quale il suo promesso sposo non si separava
mai, e saputala aveva decretato che l’oggetto fosse troppo prezioso
per rischiare di perderlo. “Potrebbe slacciarsi,” aveva detto,
“potrebbe cadere senza che tu te ne accorga. Dallo a me, amore mio,
te lo conserverò gelosamente.”
Lui
aveva rifiutato. Quello era un regalo che il suo amico Aldric aveva
fatto a lui.
Voleva essere lui a custodirlo.
Lady
Amilda aveva pianto, come solo lei sapeva fare. “Io lo faccio per
te” aveva detto fra le lacrime “voglio solo che tu sia felice con
me. Restituisci quel brutto ciondolo, dimentica ciò che è stato.
Ora ci sono io, e ti donerò mille ornamenti più belli di quello.”
E
lui aveva ceduto. L’aveva restituito ad Aldric. L’aveva chiamato
mio bravo capitano
mentre lo faceva, e aveva evitato di guardarlo in faccia. Poi non si
erano più parlati. Forse non ce n’era più stata l’occasione. Un
principe non parla col capitano delle guardie, sono cose che
competono al Re.
E
adesso quel ciondolo era lì, al collo di Aldric, infilato in un
laccio di cuoio assieme al ciondolo d’oro a forma di cavaliere.
Aldric
riprese i sensi poco dopo. Aprì gli occhi e vide Wieland chino su di
lui, che lo fissava con espressione preoccupata. “Come stai?”
chiese subito il principe.
“Sarà
meglio che andiamo,” disse il capitano per tutta risposta.
“Ma
sei ferito!”
“Appunto,
non c’è tempo.”
“Che
significa? Non possiamo entrare nella Valle dei Lamenti con te in
queste condizioni. Devi riposare, devi riprenderti.”
“Dobbiamo
andare,” replicò l’altro caparbio, “dammi solo una mano a
salire a cavallo.”
“Ma
Aldric…”
“Non
discutere!”
Wieland
andò a prendere i destrieri senza aggiungere altro. Aiutò Aldric a
montare in sella, quindi si diressero verso la Valle dei Lamenti.
Visto
da vicino, il luogo che si trovarono ad attraversare era al di là di
ogni descrizione: non vi era altro che miasmi venefici, fango
ribollente ed incrostazioni che tingevano la terra screpolata di un
innaturale colore biancastro. Schermata dai fumi, la luce del sole
non giungeva fino al fondo della Valle, che quindi era sempre gravato
di una densa caligine grigiastra. L’aria era piena degli sfiati dei
geyser e del rumore sordo delle bolle di fango che scoppiavano
liberando nuvole di gas velenoso.
Per
quanto poterono, i due avanzarono a cavallo. Poi, quando il terreno
si fece troppo accidentato, essi abbandonarono gli animali e si
mossero faticosamente a piedi.
D’un
tratto emersero dalla nebbia delle forme scure. Sembravano tozzi
pilastri approssimativamente disposti in cerchio. Wieland avanzò
lentamente in quella direzione sostenendo Aldric, che ormai camminava
con fatica appoggiato alla sua spalla.
“Vuoi
riposarti?” gli chiese preoccupato, fissando il suo volto pallido e
teso.
“No,
andiamo avanti.”
I
pilastri si rivelarono essere statue di pietra nera dalla forma
vagamente umana. Dovevano essere molto antiche, perché la loro
superficie era ruvida e corrosa. In alcuni punti erano talmente
consunte che era rimasto solo un abbozzo dei tratti che un tempo
dovevano averle caratterizzate.
Nello
spiazzo che esse delimitavano vi era un pavimento sempre di pietra
nera coperto di simboli sconosciuti.
Wieland
lo fissò perplesso, chiedendosi in quale direzione si trovasse il
Palazzo dell’Eterno Dolore. Senza un’indicazione avrebbero potuto
trascorrere giorni ad aggirarsi inutilmente in quella caligine
malsana.
Aiutò
Aldric ad appoggiarsi ad una delle statue, poi fece qualche passo lì
intorno alla ricerca di qualche indizio. Ad un trattò percepì una
possente vibrazione sotto i piedi, poi udì un lento raschiare di
pietra su pietra. Si voltò e vide che nel pavimento era comparsa
un’apertura rettangolare. Da lì partivano delle scale che si
perdevano nel buio verso il basso.
“Com’è
possibile?” chiese stupito.
“Non
ne ho idea.” Ripose l’altro esausto.
“Non
importa, credo che il Palazzo sia qui sotto.”
“Allora
non perdiamo tempo.”
“La
tua ferita ha ricominciato a sanguinare.”
“Lo
so.”
La
scala era larga, con ampi gradini di pietra nera, ed era meno buia di
quanto i due si sarebbero aspettati. Vi erano infatti strane
fiammelle verdastre che tremolavano lungo gli scalini muovendosi come
dotate di vita propria. La luce che emettevano era fioca, ma
sufficiente ad illuminare il cammino.
I
due discesero molte rampe, poi si trovarono su una superficie
pianeggiante all’interno di quello che a giudicare dagli echi e
dalla temperatura dell’aria doveva essere un locale ampio e dal
soffitto alto.
Tutt’intorno
a loro vi era un inquietante tramestio denso di sussurri.
“Che
cos’è?” chiese Wieland cercando di penetrare con lo sguardo
l’oscurità picea che li circondava. La sua voce echeggiò come
riverberata da volte gigantesche.
“Sono
i morti. Vengono a vedere chi siamo.”
“Come
fai a saperlo?”
“Guarda
tu stesso.”
Il
principe osservò con attenzione ed in effetti appena i suoi occhi si
furono abituati al buio vide centinaia di piccoli globi che emanavano
una lattiginosa fosforescenza. Essi brillavano nel cavo di orbite
vuote, in volti di cui ormai rimanevano solo le ossa.
“Sarà
meglio muoversi,” disse cercando di evitare quegli sguardi vuoti ma
carichi di avidità e rimpianto.
A
quelle parole i morti sembrarono disporsi in modo da lasciare libero
solo un corridoio, così che Aldric e Wieland si trovarono a muoversi
fra due file di occhi fosforescenti, accompagnati da sussurri e
scricchiolii d’ossa.
Avanzarono
in questo modo per parecchio tempo, sempre scortati dalla torma
silenziosa attraverso freddi saloni dalle immani volte di pietra.
Giunsero
infine ad una stanza più grande delle altre. Essa era anche più
illuminata, perché nugoli di fuochi fatui vagavano senza posa sul
suo pavimento, che era nero e lucido come giaietto.
Al
centro della grande sala vi era un trono, nero al pari del resto e
pesantemente scolpito. Dinnanzi al trono vi erano due splendidi
sarcofagi riccamente ornati: uno era di marmo bianco e sul coperchio
vi era una magnifica scultura che rappresentava una fanciulla
dormiente, l’altro era di pietra grigia e il suo coperchio era
piatto e liscio.
I
due fecero qualche passo nella sala guardandosi intorno perplessi.
Gli scheletri non li seguirono. Diedero loro un’ultima occhiata
dalla soglia poi si dissolsero in una lieve nebbia azzurrina. Calò
un silenzio perfetto, rotto solo dal rumore dei passi del due giovani
e dal respiro di Aldric, che si faceva sempre più ansante e
faticoso.
Wieland
osservò preoccupato il capitano delle guardie. “Come stai?” gli
chiese per l’ennesima volta, passandogli una mano sul viso madido
di sudore.
“Non
preoccuparti.”
“Come
puoi dirmi che non devo preoccuparmi? Guarda in che condizioni sei.
Hai bisogno di cure e riposo.”
“Presto
non avrà più importanza. Aiutami piuttosto ad appoggiarmi lì.”
Indicò il sarcofago grigio.
L’altro
fece quanto gli era stato chiesto e quando fu accanto al sarcofago
bianco si accorse che la fanciulla scolpita altri non era che Lady
Amilda. Soffocò un’esclamazione: pareva impossibile che una statua
di marmo – perché il materiale era
marmo, il più puro ed il più bianco che si fosse mai visto –
potesse riprodurre con quella fedeltà le fattezze di un volto umano:
ogni capello, ogni pelo delle sopracciglia, il turgore delle guance,
la piega morbida delle labbra, tutto sembrava perfetto e vibrante di
vita. Se il tatto non l’avesse rivelata come fredda pietra, la
fanciulla si sarebbe detta addormentata e pronta a risvegliarsi da un
momento all’altro.
“Amilda…”
mormorò rapito.
In
quel momento i due udirono una spettrale risata.
Sul
trono era comparsa una figura completamente ricoperta di un sudario
che emanava una sinistra luminescenza biancastra.
Wieland
si girò fulmineo sfoderando la spada, ma la figura non fece che
ridere nuovamente, con ancora maggiore scherno.
“Chi
sei tu che osi brandire un’arma contro il Signore dei Morti?”
provenne da sotto il sudario.
“Io
sono Wieland di Theoburg e sono qui per reclamare la vita della mia
promessa sposa, Lady Amilda Lethianna di Glensnaeven!”
La
figura ghignò. “Un’anima per un’anima,” proferì
solennemente.
“Che
significa?” chiese Wieland dopo un lungo silenzio.
“Se
tu vuoi che io renda l’anima alla tua diletta, devi darmi la tua.
Un’anima per un’anima.”
Il
principe deglutì. Era quello dunque il significato della profezia?
La persona che amava di più era forse se stesso? Ricordò le parole
di suo padre: un principe ha dei doveri verso la sua gente, prima che
verso di sé. Per chi aveva intrapreso quel viaggio che ora lo stava
portando alla rovina? Non certo per il popolo di Theoburg.
Stava
per rispondere al Signore dei Morti quando Aldric gli si parò
davanti. “Se devi prendere qualcuno, ebbene prendi me!” esclamò
il giovane guerriero.
“Aldric,
ma cosa dici?” chiese il principe angosciato, “la tua ferita
guarirà, non può essere così grave, non puoi sacrificarti al posto
mio!”
Ma
l’altro lo zittì con un gesto. “Ricordi la notte del temporale?
Il giorno dopo tuo padre il Re mi chiese di accompagnarti fino a
qui.”
“Lo
ricordo, sì.”
“Ebbene,
quella notte ricevetti la visita di un Mago Veggente di Rhias. Egli
mi disse che avrei affrontato un viaggio, al termine del quale avrei
dato la vita per salvare la persona che più amo al mondo.”
A
quelle parole Wieland rimase raggelato. “Ma… ma non può essere…”
balbettò incerto. Ecco che tante cose assumevano di colpo
significato.
“È
così, Wieland. Io ti amo, ti ho sempre amato. Avrei voluto rimanere
ancora accanto a te, ma se il mio destino è quello di dare la mia
vita per salvare la tua, ebbene lo accetto di buon grado.”
Il
principe lo abbracciò con impeto. “Aldric, non lasciarmi,”
gemette, mentre le lacrime ricominciavano a sgorgare dai suoi occhi
bagnando il volto dell’altro, “ti prego, resta con me.”
“Non
è possibile. L’hai sentito anche tu, un’anima per un’anima.”
Prese
il volto di Wieland fra le mani, lo baciò prima sulla fronte e poi
gli posò un delicato bacio sulle labbra. “Addio, e sii felice,”
gli sussurrò.
“Wieland!
Wieland!” Era una voce femminile che lo chiamava, la più splendida
e melodiosa che si potesse immaginare.
Il
principe si rialzò faticosamente guardandosi intorno. Doveva essere
svenuto. Era ancora nella grande sala, ma il trono era vuoto. Sul
sarcofago bianco non c’era più la statua.
“Wieland!
Sei sveglio per fortuna!”
Il
giovane alzò gli occhi: c’era Lady Amilda in piedi di fronte a
lui, più bella che mai, con indosso un abito bianco. Sui capelli
biondi e serici aveva una semplice coroncina d’oro. “Sei viva…”
mormorò felice, ma subito dopo gli tornò in mente Aldric. Si girò
e vide che sul sarcofago grigio era comparsa una statua. Era un
magnifico giovane guerriero in armi, il volto dall’espressione
severa ma tranquilla. La statua era così realistica che si sarebbe
detto appena addormentato, pronto in un attimo a balzare in piedi
brandendo la spada che teneva sul petto.
Sulla
pietra c’era qualcosa che brillava debolmente. Wieland lo raccolse:
era il laccio di cuoio con i due ciondoli, il luccichio proveniva dal
cavaliere d’oro.
“Aldric…”
mormorò sfiorando con dita cariche di rimpianto il volto gelido
della statua. Ora gli era tutto chiaro. Perderai
la persona che ami di più.
Il
regno di Re Wieland fu lungo e prospero. Egli compì grandi imprese e
donò pace e giustizia al suo popolo. La sua legittima sposa, la
Regina Amilda, la più soave e leggiadra fra le donne, gli diede
molti eredi, e tutti crebbero sani e forti.
Nonostante
sembrasse benedetto dalla fortuna, però, il Re aveva smarrito il
sorriso. Non lo rallegravano le feste, non andava a caccia. Nulla
sembrava lenire il suo tormento. Solo un menestrello aveva il potere
di allietarlo: era Devel il Bardo. Accompagnandosi con l’arpa, egli
cantava la leggenda di Aldric l’intrepido.
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