L'ombra del crepuscolo

di jioozee
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***



Capitolo 1
*** I ***


Addio, papà
 


La brezza autunnale, che entrava dai finestrini dell'auto abbassati, mi accarezzava le guance e mi scompigliava i capelli. Lì fuori si poteva scorgere il cielo blu, senza ombra di nuvole, limpido come uno specchio. Il sole splendeva ma sapevo che da lì a un paio di giorni sarebbe sparito del tutto dietro le nuvole invernali. Forse. Probabilmente, quella sarebbe stata l’ultima volta che lo avrei visto.
Nella penisola di Olympia, nello stato di Washington, nascosta per bene una cappa di nuvole, pioggia e umidità, esisteva una piccola cittadina di nome Forks. Fu in quella città che mia madre abbandonò me e mio padre, ma questa è un'altra storia.
Lì stavo andando in paradiso, una decisione che avevo preso volontariamente e con immenso piacere. Detestavo l'Illinois e il caldo.
Amavo Forks in tutta la sua tranquillità e monotonia. Amavo le nuvole e il freddo che la imprigionavano, facendola sembrare una piccola zona del Minnesota tempestata dalla pioggia.
“Nita” ripeté mio padre ancora una volta, forse la centesima, mentre mi accingevo ad imbarcarmi.
“Sei sicura di volerci andare?” disse fissandomi con i suoi occhi enormi. Proprio in quel momento fui presa dal panico. Come potevo lasciarlo solo, impulsivo com'era?
Ma forse per lui sarebbe stato più facile. Non avrebbe avuto più tra i piedi la persona che gli ricordava il suo amore perduto. Eppure c'era ancora quella piccola parte di me, quella molto testarda che si ostinava a voler rimanere con lui.
“Ci voglio andare” dissi decisa. “Non devi preoccuparti per me”.
Era la pura verità, ma anche se avessi mentito non se ne sarebbe accorto. In questi ultimi anni ero diventata abbastanza brava a nascondere le mie emozioni. Non volevo vederlo soffrire per le mie stupide crisi adolescenziali e quindi mi ero imposta di smettere. Solo il cuscino avrebbe condiviso le mie lacrime amare e piene di dolore.
“Salutami zio Charlie e Bella” Sorrise debolmente.
Forse era meglio andare. Se mi fossi fermata a guardare il suo viso dolce, dalle rughe ben pronunciate, non sarei più riuscita a partire. Il rimorso mi avrebbe tenuta con lui ed io non volevo restare. Non perché non gli volessi bene, al contrario: ero disposta ad andarmene via per il suo bene. Volevo che mio padre si facesse una nuova vita, magari che si trovasse una nuova moglie, su cui poter contare ogni volta. E la mia presenza non lo aiutava molto. Non lo aiutava affatto.
“Certo” sorrisi e appena poggiai il piede sullo scalino mi chiamò. “Se hai bisogna di me chiamami e correrò in tuo aiuto” mi carezzò il braccio. Il nostro piccolo gesto d'affetto.
“Non sarà necessario”.
Mossi qualche passo nella sua direzione e lo abbracciai. Sapevo che la sua promessa richiedeva un enorme sacrificio.
“Ti voglio bene”dissi. Sciolsi l'abbraccio e salii lentamente i gradini per entrare nell'aereo.
Percorsi il minuscolo corridoio in cerca del posto assegnatomi, accanto a quello di una graziosa bimba dal viso rotondo e le guance rosee. I boccoli biondi le si adagiavano sulle spalle e un ciuffo ribelle le copriva uno degli occhi, azzurri come il cielo.
“Ciao piccola, sei sola?”le sorrisi gentilmente, mentre posavo i bagagli negli appositi scompartimenti. La bimba scosse la testa e avvampò.
Mi sedetti e guardai fuori dal piccolo oblò. Mi accorsi che mio padre era ancora lì, con lo sguardo velato di tristezza e di speranza. Forse sperava che cambiassi idea, ma doveva rassegnarsi. Non potevo permettere che soffrisse ancora per colpa mia. Non potevo tirarmi indietro. Dovevo mantenere la promessa che avevo fatto a me stessa.
Mi accorsi che i motori si stavano accendendo dal vibrare delle poltroncine, proprio come quando si è in macchina. Dallo zaino che tenevo alla mia sinistra, estrassi un piccolo i-pad con le mie play list preferite e mi infilai le cuffie blu nelle orecchie.
Per arrivare a Seattle da Los Angeles ci volevano più di quattro ore, forse anche cinque, più una su un piccolo aereo per raggiungere Port Angeles; Forks distava a un'ora di auto da lì. Ad essere sincera, il viaggio in aereo non mi turbava molto ma l'idea di stare seduta ed immobile come una mummia non mi allettava tanto. Per guastarmi la permanenza a Forks, invece, c'era Bella.
Avevo l’impressione di non esserle mai andata a genio, eppure mi conosceva a malapena. La sua abitudine di giudicare le persone prima ancora di averle conosciute mi dava sui nervi. E lei non era il tipo di ragazza che amava la convivenza stretta con altre persone, soprattutto se le riteneva delle presuntuose.
Mentre contemplavo le nuvole, che assomigliavano a dei grossi batuffoli di ovatta, mi chiesi come Bella avrebbe reagito al mio arrivo a Forks
E se avesse preso male la novità? Cosa avrei fatto a quel punto? Avrei ceduto per tornare alla mia vecchia e dolorosa vita oppure le avrei tenuto testa rimanendo lì?
Mille domande mi frullavano per la mente, ma le risposte erano ridotte a zero. Ero in balia di una corrente che non faceva altro che confondermi. Ero una zattera alla deriva.
La voce del capitano mi distrasse dal vortice che si era creato nella mia mente e ci avvisò che da un momento all'altro l’aereo sarebbe atterrato
Il velivolo iniziò a planare verso il basso ed il mio stomaco ebbe un sussulto. Avevo paura di guardarmi allo specchio per controllare il mio aspetto, ma intuivo già di aver assunto un colorito verdastro.
Strinsi forte i braccioli delle poltrone e chiusi gli occhi. Presa da un attacco di panico speravo con tutta me stessa che l’aereo non precipitasse e – avevo visto troppi film catastrofici con aerei che precipitavano o esplodevano – quando riaprii gli occhi, tutto era tornato come prima. I passeggeri si alzarono dai loro posti per prendere i loro bagagli.
Respira, respira, ripetevo a me stessa. Mi concessi un secondo per recuperare il mio colorito naturale. Poi, pensando che il peggio fosse passato, mi alzai in piedi. Brutta mossa.
La testa iniziò a girare vorticosamente e le gambe cedettero facendomi ricadere sulla poltroncina. Avrei dovuto aspettare ancora un po', ma non volevo trattenermi lì dentro un minuto di più. Puzzava di…vomito. Qualcuno, al contrario di me, non era riuscito a trattenersi.
Mi tappai il naso con una mano cercando di distrarmi e solo in quel momento mi accorsi che l’aereo era semi vuoto. Eravamo rimasti soltanto io e un’allegra famigliola, che stava scaricando i bagagli. Due piccoli bambini si ricorrevano l'un l'altro, sotto lo sguardo truce delle hostess.
Quanto avrei voluto fare una bella vacanza insieme ai miei genitori.
Ridere, scherzare, fare foto e dopo andare a mangiare un bel gelato...peccato che non sarebbe mai successo.
Scossi la testa per ricacciare quei pensieri nell'angolo più buio della mia mente. Non appena mi fui ripresa dall'attacco di nausea, afferrai i miei tre bagagli a mano e mi diressi verso l’uscita, al di là della quale mi aspettava un nuovo inizio. Un inizio che forse mi avrebbe cambiato la vita.
Avevo sempre desiderato vivere a Forks, ed ora ero proprio lì, con le gambe tremolanti e lo stomaco sottosopra - non solo per colpa dell'aereo.
Mille emozioni presero il sopravvento: gioia e felicità da una parte, timore e paura dall’altra. La paura di non essere accettata per la persona che ero, il timore di essere di nuovo allontanata da tutto e da tutti, come in passato.
Percepii una leggera fitta al petto. Il ricordo era ancora vivido. Le giornate passate con la sola compagnia di un I-pad, interi pomeriggi trascorsi in casa, fra le quattro mura della mia camera e allontanata dagli altri ingiustamente per qualcosa di stupido. Costretta a rimanere ai margini, aspettando con ansia il momento in cui mi sarei fatta valere una volta per tutte. Un momento che pensavo non sarebbe mai arrivato, ma che ora riuscivo quasi a toccare.
Sbattei le palpebre, per liberarmi da quei pensieri e dai ricordi e mi buttai a capofitto tra le persone, urtandole involontariamente.
Lanciavo sguardi di scuse ovunque, stavo combinando una vera strage: chi cadeva, chi veniva trascinato via, chi invece doveva recuperare il proprio bagaglio che rimaneva impigliato tra le mie cose. Non aveva tanta importanza, io ero nata apposta per creare scompiglio.
Quando davanti ai miei occhi si materializzarono le porte dell'edificio mi fermai, ansimando per la 'leggera' corsa. Volevo ricompormi prima di uscire, ero in uno stato pietoso.
In quel momento mi sentii divisa in due: una parte voleva immediatamente uscire da lì, mentre l'altra aveva paura. Per fortuna il coraggio ebbe la meglio.
Stavo correndo contro un nuovo futuro.
Stavo avendo la meglio, ma sapevo che prima o poi il destino mi avrebbe riservato un tiro mancino. Era sempre stato così, perché adesso doveva essere diverso? Ma io ero pronta a lottare, sempre. E se per caso fossi inciampata lungo il cammino, mi sarei rialzata con le mie forze.
Nita Swan era tornata, più carica che mai, e stavolta niente l'avrebbe fermata.

 







Angolo autrice:
Salve, spero che questo primo capitolo sia abbastanza da
aver stuzzicato la vostra curiosità.
Se vi è piaciuto. lasciate un parere cosicché possa postare i capitoli seguenti.
Si. ne ho già scritti un paio lol.
Un abbraccio.
Jioozee.
 

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Capitolo 2
*** II ***


Incubi misteriosi
 



Spalancai le porte di uscita dell’aeroporto e mi ritrovai sotto una pioggerellina fastidiosa che mi bagnava i capelli, ormai crespi per l’umidità. In quel momento ne avrei fatto volentieri a meno, ma la carezza gelida della goccioline di pioggia sul viso mi tranquillizzava.
Con un respiro profondo, riempii i polmoni di quell'aria così pulita. Quel posto non aveva minimamente a che fare con la trafficata Chicago. Niente lampioni accecanti, niente rumori assordanti, come clacson o urla di ragazzi festaioli nel bel mezzo della notte che interrompono un bel sogno.
C'era solo una sana tranquillità.
Alzai il cappuccio del giacchetto sulla testa e trascinai sotto la pioggerellina le mie valige: anche se contenevano ben poco, pesavano un accidente. Con gli occhi iniziai a perlustrare il parcheggio dell'aeroporto, in cerca di quella persona che mi avrebbe dovuto portare a casa. La casa che avrei dovuto condividere con Bella e Charlie. Scrollai la testa cacciando via quel pensiero. Era meglio non farci troppo caso, anche se era un’impresa difficile.
Nita, non fare la schizzinosa, dovresti essere grata che ti abbiano dato il consenso per stare da loro mi rimproverò la piccola vocina della mia coscienza, che fino a un momento prima era stata nascosta in un angolo buio della mia mente.
Ci mancava solo lei.
Non bastava la nebbiolina che mi stava circondando e che mi impediva di vedere davanti a me, no certo che no!
Dovevo anche sbattere contro qualcosa... qualcosa di davvero morbido.
Lentamente alzai lo sguardo imbarazzato su quel qualcuno, mentre le mie guance si tingevano di un lieve rossore.
Una figura bassina mi stava squadrando da capo a piedi incerto se parlarmi o meno.
“Nita?”, domandò poco convinto
Non mi aveva riconosciuta.
Avrei dovuto offendermi, e anche tanto, dato che non ricordava la faccia della sua nipotina acquisita, ma in quel momento non mi importava, perché mi sentivo la ragazza più felice del mondo.
“Sì, sono io”.
Sorrisi e nel scrutarlo rimasi sorpresa dal suo abbigliamento: indossava la divisa da poliziotto. Mio padre mi aveva accennato qualcosa a riguardo, ma avevo scollegato il cervello a 'Potrai andare a Forks'.
Charlie lavorava nel distretto di polizia di Forks, per le persone di quella piccola cittadina era l'Ispettore Capo Swan, la sicurezza in persona, il punto di riferimento per chiunque.
Fece una piccola smorfia ed io inclinai la testa su un lato per cercare di decifrarla: era un sorriso, forse un po' distorto, ma lo era.
Dopo quella specie di saluto, nessuno proferì più parola. Caricammo i bagagli nel cofano dell’abitacolo, dopodiché, con un gesto del capo, Charlie mi invitò a salire sulla vettura.
Da quel che ricordavo, non era mai stato un tipo molto loquace, forse non amava i discorsi che superavano più di dieci parole o chissà. Era quello il tratto che Bella aveva ereditato dal padre: l’essere timida e introversa.
Chissà con chi avrei parlato quando sarebbe arrivato uno dei miei momenti no, pensai accomodandomi sul sedile di pelle nero, che odorava di pino selvatico grazie al deodorante per auto. Chiusi lo sportello e allacciai la cintura - non era mia abitudine farlo, ma adesso ero con Charlie ed era meglio non deludere uno zio poliziotto.
Charlie avviò il motore che iniziò a fare le fusa.
Schiacciai il viso contro il finestrino freddo come una lastra di ghiaccio e guardai le immagini che sfrecciavano così veloci da provocarmi un leggero giramento di testa.
Il tempo a Port Angeles non era quello a cui ero abituata. Si riuscivano a scorgere le nuvole, batuffoli bianchi che man mano si ricongiungevano fino a diventare un unico ammasso grigiastro che non permetteva ai piccoli raggi di sole di filtrare e rendeva la città estremamente buia e cupa.
“Com'è stato il viaggio?”, tirò in ballo Charlie. A giudicare dalla sua espressione, quella era stata la prima cosa che gli era passata per la testa, ma apprezzavo comunque il suo tentativo di fare conversazione. Almeno per quella volta.
Sapevo che una volta arrivati a casa, non avrei avuto più modo di parlargli, se non nei week-end. Sempre se non avessi avuto altro da fare.
“Bene..” dissi, mentre mi stropicciavo gli occhi e sbadigliavo. Ero davvero stanca, credo che se avessi chiusi gli occhi, sarei crollata da un momento all'altro.
Lui non proferì più parola, fece soltanto delle piccole osservazioni sul tempo. Anche lui era contro le nuvole.
Missione impossibile da portare a termine: trovare qualcuno che amasse, anche solo un po', Forks.
Con tutto quel silenzio, la stanchezza ebbe il sopravvento. Le palpebre si erano fatte così pesanti da non riuscire a tenerle aperte.
Per un secondo chiusi gli occhi, ma poi quel secondo si trasformò in minuti, ore...
 
**
 
Buio. Silenzio.
Ero sola. Completamente sola. La cosa non avrebbe dovuto spaventarmi, lo ero sempre stata, ma si trattava di una solitudine diversa da quella che avevo provato sulla mia stessa pelle.
Ovunque mi girassi, trovavo solo il nulla. Il mio cervello stava elaborando qualcosa, quando all’improvviso si formò un’enorme scritta... Corri!
Le gambe involontariamente iniziarono a correre attraverso il nulla, facendosi spazio nell’oscurità. Ovunque andassi, però, non c'era niente: solo una pozza nera che si espandeva a macchia d'olio e che mi stava imprigionando.
Urlavo, e urlavo ancora, ma nessuno veniva in mio aiuto, mai nessuno lo aveva fatto.
Ero sola.
Fui presa dal panico e le uniche speranze che avevo si spensero come una fiaccola sotto la pioggia.
“Nita...”
Un roco sussurro invocava il mio nome. Una voce femminile e cristallina mi chiamava. Cercai di seguire la voce fino al punto in cui si trovava, ma non c'era un bel niente. Solo dei singhiozzi riecheggiavano nelle mie orecchie.
“Perché piangi?” gridai, cercando di farmi sentire.
Niente. Non rispondeva.
“Ti prego, dimmi perché piangi”la pregai. Niente. Perché diavolo non rispondeva?
Quando la voce emise un urlo rotto dal pianto io sobbalzai. Non capivo che stava succedendo.
“Ti scongiuro, lasciala a me!”.
Altri singhiozzi
“Ti prego, lei non è...”
Tutto si spense.

**
 
Spalancai gli occhi impaurita e con il cuore a mille, in più la mia fronte pulsava. Solo allora mi resi conti di essermi addormentata con la testa appoggiata allo sportello e con la mia solita sfortuna, Charlie aveva preso una buca causandomi un piccolo bernoccolo.
Sospirai, abbandonandomi giù, lungo il sedile, mentre continuavo a ripetermi mentalmente che era solo un incubo. Solo uno stupido e indecifrabile incubo.
Ma se era solo uno stupido incubo, perché quella voce mi suonava così familiare?
Perché una parte di me, la più piccola e la più insignificante, continuava a dirmi di conoscere quel roco sussurro? Perché più cercavo di ricordare, più la mia memoria si offuscava?
Una leggera fitta alla fronte mi mi distrasse da quei pensieri.
Ci avrei pensato più tardi, era meglio godersi il panorama. Panorama, poi!
Non che mi dispiacesse quella vista, anzi il contrario, ma ogni cosa era ricoperta di uno strato di verde: gli alberi, i tronchi e forse persino le case. Se fossero cresciute le piante all'interno delle abitazioni, beh, quello si che sarebbe stato il colmo.
E mentre mi perdevo nelle mie osservazioni del paesaggio, ebbi la netta sensazione che mancasse qualcosa, che mancasse qualcuno.
Infatti, qualcuno mancava: Bella non c'era.




Angolo autrice:
Eco il capitolo numeroII
spero vi piaccia!

Volevo ringraziare la mia prima recensitrice(?)
penso possa chiamarsi cosi: DeAnna!
Comunque chissaà uu

Tutto è possibileh

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Capitolo 3
*** III ***


Il ragazzo di La Push
 


Per alleviare il dolore inizia a massaggiare il bernoccolo che era appena apparso sulla mia fronte e che aveva cominciato a pulsare. Charlie in quel momento era troppo occupato a fissare la strada, attento a non superare il limite di velocità, per accorgersi delle mie smorfie di dolore e del botto causato dalla mia testa contro il finestrino.
Non potevo credere che Bella non fosse venuta. Mi pareva una reazione troppo esagerata, neanche fosse stata una bambina di due anni che litiga con la sua migliore amica per un lecca lecca. Vero che in passato abbiamo avuto degli alti e bassi, ma non mi sembrava una buona ragione.
“Uhm, s-siamo quasi arrivati?” chiesi sbadigliando.
Le mie gambe erano completamente addormentate, non ne potevo più di stare seduta. E poi, a dirla tutta, quell'auto era così piccola da non poter fare neanche un movimento senza sbattere il ginocchio sotto il cruscotto.
“Ma come si regola quest'affare?” chiesi, dando degli scossoni al sedile, che sembrava non voler cedere di un millimetro.
“Siamo quasi arrivati” Charlie mi rivolse uno sguardo di rimprovero per quello che stavo combinando al sedile della sua amata auto. “A destra in basso, dovrebbe esserci una leva”
“Oh, grazie” Credo che questa potrebbe essere definita una figura del cavolo, no?
Tirai la leva e il sedile si inclinò all'indietro. Solo in quel momento mi accorsi che avevamo appena superato il cartello con su scritto 'Benvenuti a Forks'.
Be', l'avrei capito comunque anche dagli alberi che si diradavano lasciando spazio all'asfalto e ai primi – e unici – piccoli negozi. Le insegne luminose dei locali lampeggiavano al ritmo della musica che proveniva dal loro interno, mentre – probabilmente – alcune persone facevano sempre le solite osservazioni sul tempo.
Dopo esserci scambiati quelle poche – pochissime, direi – parole, né io né Charlie osammo più parlare, anche perché non avevamo più niente da dirci.
Quando finalmente parcheggiò nel vialetto fangoso e pieno di ghiaia, proprio accanto alla casa, il sole – stranamente – si trovava alto nel cielo e illuminava tutto con i suoi raggi.
Aprii lo sportello della vettura e saltai giù dal sedile, allungando le braccia per stiracchiarmi.
Tutte le parti del mio corpo erano addormentate e forse un'ottantenne sarebbe stata più in forma della sottoscritta.
Mentre Charlie scaricava quei pochi bagagli che mi ero portata dietro, feci un piccolo giro intorno alla casa. Detto fra noi, il giardino era davvero poco curato: foglie e rami secchi ovunque, che si impigliavano fra le stringhe delle scarpe; cespugli incolti, che avevano proprio bisogno di una potatina.
Quel luogo necessitava assolutamente di un tocco femminile. Il più presto possibile.
La casa, invece, mi sembrava un po' troppo piccola per tre persone, soprattutto per due teenager bisognose del loro spazio e di privacy e forse questo avrebbe potuto essere un piccolo problemino.
Chissà, forse mi sarebbe toccato dormire sul divano o, peggio, con Charlie.
Intanto Charlie aveva trasportato le valige sino alla porta e decisi di aiutarlo a portarle dentro. Meglio non mostrare subito la ragazza pigra e scansafatiche che ero in realtà.
Afferrai due valige e, salite le scale insieme a Charlie, mi ritrovai all'inizio di un corridoio.
Alla mia sinistra si trovava una stanza, ma capii subito che non era la mia perché la superammo senza degnarla di uno sguardo, mentre in fondo alle scale c'era un piccolo bagno che avrei dovuto condividere con Charlie e Bella. Chissà se questa cosa avrebbe dato fastidio a loro. A me no di certo: a casa avevo sempre condiviso il bagno con mio padre, perciò ero abituata.
Intanto osservavo curiosa la carta da parati e le foto di famiglia appese alle pareti, Charlie si fermò davanti a una porta, piuttosto distanziata dalle altre.
La stanza non era molto grande. Le pareti erano state dipinte di un bel verde smeraldo: ricordava il verde del bosco, sul quale si affacciava una finestra rotonda, ornata da tendine turchesi. A ridosso di una parete vi era il letto, avvolto da un piumone lilla, ed affianco ad esso vi era un comodino con sopra un'abatjour.
Sulla destra si trovava un armadio a due ante, sulla sinistra una scrivania, entrambi color corteccia.
Era tutto così stranamente accogliente! Certo, non ero quello a cui ero abituata, ma andava bene lo stesso. Cercai di cogliere più particolari possibili di quella stanza, come piccole crepe o ornamenti che erano sparsi tra una parete e l'altra, e non mi accorsi che Charlie si era dileguato. Già, Charlie non era il tipo di persona che si immischiava negli affari altrui e questo era un sollievo.
Disfai le valige e riposi gli abiti nell'armadio impiegando più tempo del previsto, infatti mi accorsi che l'orologio a pendolo segnava le cinque passate. Le ore erano volate, forse erano state trascinate via dalla pioggia che in quel momento scendeva giù a catinelle.
Mi sedetti sul letto a fissare il paesaggio dalla finestra rotonda, mentre il ticchettio della pioggia mi teneva compagnia, fino a che qualcuno si schiarì la voce per attirare la mia attenzione. Mi voltai verso la porta, dove sulla soglia si trovava un Charlie abbastanza imbarazzato.
“Nita, ti dispiacerebbe farmi un piccolo favore?” farfugliò impacciato distogliendo lo sguardo.
“Dimmi pure”, accennai un sorriso.
“Non è che potresti fare un salto giù a La Push?”, disse in un sussurro.
Gli rivolsi uno sguardo incuriosito e stupito. Che diavolo era La Push? Una marca di caramelle? Ma poi, domanda più importante: perché avrei dovuto andare lì?
Charlie mi spiegò perché avrei dovuto scendere giù alla mezza luna, dato che lì avrei dovuto ritirare il regalo di arrivo per Bella e... momento.
Avrei dovuto camminare per una ventina di chilometri, sotto la pioggia per uno stupido regalo di benvenuto? Si era bevuto il cervello?
Non potevo neanche rifiutare di farlo, avrei dovuto ingoiare il rospo questa volta.
Annuii distrattamente a tutto quello che in quel momento stava dicendo: sta attenta alle auto, non parlare agli sconosciuti eccetera eccetera. Cavolo, sapevo benissimo badare a me stessa!
Vero, a volte parlavo con una piccola voce che era situata in un angolo della mia mente, ma era una cosa del tutto normale... credo.
Così presi il mio mini ombrello viola a pallini bianchi e mi incamminai, cercando di evitare le pozzanghere nelle quali sarei potuta anche annegare.
Quando intravidi da lontano la casa descritta da Charlie, velocizzai il passo. Se qualcuno mi avesse vista – cosa improbabile, dato che diluviava e di anime vive, in giro, non se ne vedevano – mi avrebbero dato della matta e quindi, dopo essere inciampata un paio di volte ed essermi macchiata di fango il mio paio di jeans preferito, mi riuscii a riparare sotto il portico di quella piccola casa rossastra.
Le foglie secche ricoprivano tutte le assi di legno del tetto e sulla facciata, vi erano soltanto due finestre, attraverso le quali, però, non si riusciva a scorgere nulla: sul vetro, infatti, si era formata una patina di condensa che proteggeva l'interno da sguardi indiscreti.
Battei più volte le nocche sul legno della porta, sperando che qualcuno mi venisse ad aprire e che mi invitasse a bere una cioccolata calda.
Davvero, ragazza! Tu hai dei seri problemi se speri che qualcuno ti inviti a prendere una cioccolata calda Sbottò la vocina nella mia testa, ma per questa volta preferii sorvolare.
La porta si aprì scricchiolando, lasciando il posto ad un ragazzo. E che ragazzo!
Pelle scura, quasi bronzea, liscia e levigata, con degli zigomi ben pronunciati e sporgenti, anche se furono i suoi capelli a saltarmi subito agli occhi: erano neri e lucidi, raccolti in una piccola coda.
La cosa era alquanto bizzarra per un ragazzo, almeno dalle mie parti.
Ma non m'importava, anche perché non appena vidi i suoi occhi dimenticai tutto il resto: erano profondi come un pozzo senza fondo, neri come una notte senza stelle.
“Ehm, posso aiutarti?” mi chiese e così, per la prima volta, ascoltai il suono della sua voce, roca e piacevole.
“Sì, be', sono Nita, mi ha mandata Charlie. Credo che tu debba consegnarmi qualcosa” Abbassai gli occhi, imbarazzata. Avrei voluto rimanere lì a fissarlo ancora un po', ma mi avrebbe certamente presa per una maniaca o qualcosa di simile.
“Oh giusto! Vieni, da questa parte” mi sorrise. Se prima avevo considerato i suoi occhi uno spettacolo mozzafiato, era solo perché non avevo ancora visto il suo sorriso. Un sorriso così magnifico e abbagliante, che avrebbe messo allegria a chiunque fosse stato triste; un sorriso che avrebbe potuto illuminarti nel buio.
Mi fece fare il giro della casa per andare sul retro, dove si trovava un piccolo garage. Gli attrezzi erano sparsi ovunque e un enorme telo copriva un veicolo. Il ragazzo ne prese un lembo e lo strattonò, scoprendo il pick-up destinato a Bella . Da annotare: mai farsi regalare un auto da Charlie.
Quel coso si sarebbe messo in moto? Avevo qualche dubbio. Di certo, però, se avesse fatto un incidente, ne sarebbe uscito illeso e conoscendo la goffaggine di Bella, quel rottame l'avrebbe protetta.
“Eccoci qui. Be', devi schiacciare due volte la frizione, ma per il resto va benissimo”. Diede un leggero pugno alla carrozzeria e mi lanciò le chiavi.
Le afferrai al volo, cercando di non fare qualche figuraccia - mio solito - ed entrai nell'abitacolo a forma di bulbo, che odorava di pino selvatico e tabacco.
“Spero che tu abbia la patente” ed anche se il suo tono era serio, dal suo viso traspariva l'ombra di un sorriso.
“Certo, come se tu ce l'avessi” risposi sarcastica “Comunque, non dire a Charlie che non ho la patente, non vorrai mica che gli venga un infarto sapendo che la sua nipotina infrange la legge a quest'età”. Sul viso del ragazzo apparve un sorriso piccolo, ma abbastanza grande da farmi perdere il fiato.
“Di a Charlie che io e mio padre verremo a fare un salto. Non è più nella pelle di vedere quanto sia cresciuta la piccola di Charlie” ed io annuii.
Lo salutai con un gesto della mano che lui ricambiò, e partii verso casa Swan.
Il veicolo faceva un baccano infernale, ma la cosa che mi infastidiva di più era la sua insostenibile lentezza. Andando a piedi sarei stata più veloce, probabilmente.
Dopo un estenuante tragitto a cinquanta all'ora, parcheggiai nel vialetto e mi adagiai nel cassone del pick-up in attesa che arrivassero. Ogni tanto gettavo lo sguardo al mio orologio da polso sperando che il tempo scorresse in fretta. Solo dopo mezz'ora vidi un auto parcheggiare parallelamente al marciapiede: da essa ne uscì il ragazzo dal nome sconosciuto ed aiutò a fare lo stesso ad un uomo dai simili tratti. Notai dopo che era in carrozzella. Lo stomaco mi si contorse leggermente, di fronte quella scena.
“Ehi, cosa ci fai ancora qui?” domandò il ragazzo, il quale non aveva impiegato davvero nulla ad approcciarsi.
“Sai com'è, qui fuori fa bel tempo perché non rimanerci” disse scherzosamente balzando giù dal cassone e avvicinandosi ai due. Da quella distanza poteva scorgere molto meglio le somiglianze. Entrambi avevano capelli discretamente lunghi e lucidi, occhi caldi e pelle liscia.
“Comunque io sono Jacob, lui invece è Bill Black, mio padre” disse il ragazzo, finalmente con un nome: Jacob, Jacob Black. Si, suonava veramente bene.
“So anche presentarmi da solo, sai?” lo rimbeccò Bill, provocando uno sbuffo divertito da parte del ragazzo.
“Piacere di conoscerla, signor Black. Io sono Nita Swan” sorrisi timidamente allungando la mano che strinse con una presa forte e calda.
“Puoi chiamarmi Billy” e mentre stavo per aprir bocca il rumore di pneumatici sui ciottoli ci distrassero da ciò che stavamo facendo.
Gli sportelli si aprirono e da uno dei due vidi spuntare Bella.
Wow, me l'immaginavo diversa, cambiata, ed invece era rimasta uguale a come la ricordavo: era molto più bassa di me; i capelli castani arruffati dal vento e dall'umidità le incorniciavano il viso pallido, che sembrava fatto di porcellana.
Mi guardò un attimo perplessa, sussurrando qualcosa al padre, qualcosa che non riuscii a captare, afferrò una valigia e venne nella mia direzione. Mi fece un cenno come saluto, per poi dedicarsi al suo nuovo pick-up, Jacob e Billy
E così, mentre Charlie intratteneva una conversazione con l'uomo e Bella testava il suo nuovo mezzo, di mia iniziativa portai le sue le valige al piano di sopra.
Una volta fatto mi sedetti sul divano, a riflettere su cosa mi aspettava il giorno dopo: nuova scuola, nuovi amici - diciamo amici e basta, dato che nella vecchia scuola non ne avevo neanche uno - e nuovi insegnati. In quell'istituto sarei stata la notizia del momento, una novità. Ma avrei dovuto farmene una ragione, in fondo non sarei stata l'unica. C'era Bella con me, non che mi fosse di grande aiuto, però era meglio questo che essere sole in balia di adolescenti.
Verso le otto, andai in cucina per apparecchiare la tavola e trovai Charlie intento a cucinare. Intorno a noi c'era solo un silenzio imbarazzante, rotto dallo scoppiettare dell'olio nella padella.
“Bells, a tavola!” gridò Charlie dal piano di sotto, e il trambusto che Bella fece nel scendere le scale fu ineguagliabile.
Tutti e tre ci sedemmo a tavola. Charlie e Bella sembravano decisi a non spiccicare parola, così toccò a me prendere l'iniziativa.
“Allora, Bella, com'è andato il viaggio?”. Anche se avevo cercato di sembrare naturale, la mia voce aveva tremato un po'.
“Bene, grazie” e quelle furono le sue ultime parole. Ok, non sarei mai riuscita a comprenderla.
Quando Charlie ebbe finito di mangiare, andò a parcheggiarsi di fronte la tv e Bella ed io, invece, rimanemmo lì per sparecchiare la tavola e lavare i piatti. Se mio padre mi avesse vista si sarebbe sicuramente commosso.
Poco più tardi, mi asciugai le mani con uno strofinaccio, mi rintanai nella mia camera e indossai il mio comodissimo pigiama di lana.
Non ebbi neanche il tempo di appoggiare la testa sul cuscino, che caddi in un sonno profondo.




Angolo autrice:
Ringrazio vivamente le mie recensitrici. Non 
pensavo minimamente che avesse potuto riscontrare 
questo discreto successo!
Avviso che cercherò di attenermi il più possibile alla versione originale.
Non inventerò o cambierò quasi nulla dell'accaduto, nulla almeno che non
comprenda Nita.
Man mano che andremo avanti vi darò anche delle citazioni, presenti veramente nel libro
che rendono tutto più veritiero possibile.
Ps: mia sorella mi ha rotto il caricabatterie del pc, non so quando riuscirò a postare ma state certe che lo farò!
Un abbraccio.
Jioozee.

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Capitolo 4
*** IV ***


Forks High School


Il giorno successivo, mi svegliai in ottima forma. Il ticchettio della pioggia e il fruscio incessante del vento mi avevano cullato tutta la notte conciliandomi il sonno, e non mi avevano lasciato neanche per un minuto. Al contrario di Bella, la quale non aveva fatto altro che rigirarsi nel letto senza sosta.
Un raggio di sole cercava di entrare attraverso la tendina e decisi di dargli una mano ad illuminare la stanza. Mi tolsi di dosso il piccolo piumone che mi avvolgeva, m'infilai le pantofole e andai alla finestra. Appena spalancate le ante – una mia abitudine a cui non potevo rinunciare – venni investita da una ventata di aria gelida e così le richiusi immediatamente.
Giusto, qui niente venticello caldo di prima mattina.
Mi stiracchiai e lanciai un'occhiata alla sveglia. Le lancette segnavano le sette e mezza e ciò significava che ero in ritardo pazzesco. Presi un paio di jeans, una felpa e corsi in bagno, per mia fortuna libero. In una manciata di minuti fui pronta per uscire, afferrai lo zaino e uscii di casa senza neanche aver fatto colazione. Né il pick-up di Bella, né l'auto della polizia erano parcheggiati nel vialetto, perciò mi sarebbe toccato fare una bella camminata.
Peggio di così..
E dopo aver pensato le ultime parole famose, che mai avrei dovuto pensare o pronunciare, una piccola gocciolina mi bagnò il naso.
Dovevo sbrigarmi, al più presto.
Iniziai a correre, lasciandomi guidare dai cancelli, mentre altre gocce cadevano giù copiose. Mi fermai nel bel mezzo del parcheggio della scuola ansimando e cercai di ricompormi meglio che potevo.
Nella tasca anteriore dei jeans trovai un elastico, così mi legai i capelli in una coda di cavallo e poi mi guardai intorno.
A primo impatto non pareva una scuola. Lo avevo capito solo grazie al cartello che indicava “Forks High School”.
Assomigliava più a una serie di case tutte uguali, costruite con mattoni di un rosso sbiadito. Mi chiesi dove fosse l'atmosfera tipica dei luoghi pubblici: le recinzioni, i metal detector e tutte quelle cose lì.
La mia attenzione fu catturata dal primo edificio: sopra la porta d'ingresso vi era un cartello con su scritto ' Segreteria '. Percorsi un piccolo sentiero di ciottoli fra due siepi scure e appena fui davanti alla porta l'aprii, affrettandomi ad entrare.
Dentro c'erano più caldo e luce di quanto avessi immaginato. L'ufficio non era molto grande: una piccola area con sedie imbottite faceva da sala d'attesa; la stanza era poi divisa in due da un lungo bancone pieno zeppo di cestini metallici, a loro volta stracolmi di volantini. Il pavimento era in legno, decorato con diverse tonalità di arancione, mentre le pareti erano tappezzate da avvisi. In ogni angolo dell'ufficio c'erano piante, messe in grossi contenitori di plastica, come se fuori non ce ne fossero abbastanza.
Dietro al bancone si scorgevano tre scrivanie, una delle quali era occupata da una donna occhialuta con i capelli rossi..
“Posso esserti utile?” mi domandò cordialmente.
Lentamente mi avvicinai alla scrivania, mentre sul mio viso si era stampato un sorrisetto da ebete.
“Sono Nita Swan” la informai e vidi i suoi occhi accendersi. Era stata informata del mio arrivo... come tutti, probabilmente.
“Certo” disse e cominciò a rovistare in una pila di documenti che giaceva sulla scrivania, finché non estrasse quel che stava cercando.
“Ecco qui, questo è l'orario, questa invece è la piantina della scuola”. Mi mostrò le aule delle mie lezioni, il percorso migliore per raggiungerle ed infine mi diede un foglio da far controfirmare ai professori.
Quando uscii dalla segreteria, l'aria fredda m'investii in pieno viso. Avevo una gran voglia di tornare dentro e starmene lì, seduta su una sedia comoda, a poltrire come solo io sapevo fare. Purtroppo non potevo.
Tornata al parcheggio notai che altri studenti incominciavano ad arrivare. Presi la mappa dalla borsa e cercai di memorizzarla. Non mi andava di girare con quell'affare in mano, avrei sicuramente attirato troppa attenzione. La ficcai nello zaino che tenevo in spalla e feci un respiro profondissimo.
Da quello che avevo letto sul foglio degli orari, come prima lezione avevo inglese.
Calai sulla testa il cappuccio del mio giubbotto grigio a tinta unita e mi diressi vero la mensa. Da lì, l'edificio numero tre sarebbe stato abbastanza semplice da individuare. Sulla facciata est era stato dipinto un grosso numero nero su sfondo bianco.
Più mi avvicinavo alla porta, più sentivo il mio respiro diventare pesante e affannoso. Cercai di calmarlo e, seguendo tre impermeabili unisex, varcai l'entrata.
Con mio stupore,notai che una delle tre ragazze era Bella. Sperai vivamente che Charlie non mi avesse iscritto ai suoi stessi corsi, con i suoi stessi orari.
Mi tolsi il giubbotto e, imitando le due ragazze e Bella, lo appesi ad una lunga fila di ganci. La prima delle due aveva i capelli biondo platino e la pelle color porcellana, l'altra era ugualmente pallida ma aveva capelli castano chiaro.
Lì, in quella classe, ero l'unica ad avere la pelle bronzea: mi sentii parecchio a disagio.
Portai il modulo al professore, un uomo alto e calvo, che secondo la targhetta di chiamava Mr Mason, il quale firmò e senza perdersi in presentazioni inutili mi fece sedere nella penultima fila, proprio accanto alla finestra.
In quel momento tutta la mia agitazione si dissolse nel nulla. Mi piaceva guardare fuori, mentre ero in classe con il chiacchiericcio continuo dei professori come sottofondo.
Poco dopo, però, provai la strana sensazione di essere fissata e quando alzai lo sguardo, mi ritrovai puntati addosso diversi occhi indiscreti. Parecchi occhi indiscreti.
Più lusingata che imbarazzata, abbassai lo sguardo sulla lista delle letture. Erano letture davvero semplici, che per di più avevo già studiato. Benissimo, non avrei dovuto sgobbare come una matta.
Quando il suono squillante della campanella si propagò nell'aria, un ragazzo, forse il più coraggioso, si avvicinò al mio banco.
“Nita Swan?”
Alzai lo sguardo su di lui per guardarlo meglio. Era abbastanza alto, con due splendidi occhi azzurri - quelli che io avevo sempre desiderato - mentre i capelli biondo cenere erano raccolti in punte ordinate.
“Si” annuii, mentre le sue sottili labbra si distendevano in un sorriso.
“Io sono Mike, Mike Newton” Sorrise. “Dov'è la tua prossima lezione?”
Dovetti controllare nello zaino.
“Uhm, al numero quattro, con Mr Varner” dissi, mentre sistemavo le mie cose al loro posto.
“Che fortuna! Io devo andare al cinque, se vuoi possiamo andarci insieme” ed io senza obbiettare accettai. Così non avrei dovuto girare con la cartina della scuola sotto il naso.
Mi stupii di come Mike fosse così... sfacciatamente amichevole, ma a me piaceva. Non in quel senso, be' avete capito di cosa sto parlando, no? Era abbastanza simpatico: magari avrei potuto passare con lui il tempo alla mensa e le pause tra una lezione e l'altra.
“Com'è il tempo a Chicago?” mi domandò all'improvviso, dopo che ebbe finito di blaterare di qualche cosa di cui io non avevo afferrato neanche una parola.
“Piuttosto assolato”. Solo il pensiero mi costrinse a sventolare la mano come se fossi stata sotto il sole cocente di agosto.
“So come ti senti, anche a me ripugna Forks. Sai, ho vissuto in California fino all'età di dieci anni” mi sorrise.
Ma che?!
“Guarda, hai preso un granchio. Io amo Forks” risi.
Lui mi guardò in un modo strano, come se avessi parlato in aramaico. Sicuramente ai suoi occhi apparivo una pazza o,peggio, un aliena.
A giudicare dall'espressione che aveva assunto il suo viso, sì, non vi erano dubbi.
Non potevo essere l'unica a cui piaceva quella terra abbandonata da Dio, tormentata da raffiche di vento e da piogge incessanti che rispondeva al nome di Forks, vero?
“Be', allora ci vediamo in mensa” Mike mi salutò con un leggero cenno della mano, svoltando verso il lato opposto.
Prima di entrare in classe presi dei respiri profondi, poggiai la mano sulla maniglia e poi aprii la porta.
I disegni criptici disegnati sulla lavagna mi fecero intuire che quella era la classe degli orrori: odiavo la trigonometria, odiavo tutte quelle forme e tutti quei numeri. Eravamo sicuri che quella fosse una materia e non un linguaggio del tutto sconosciuto all'essere umano, che solo le grandi menti potevano decifrare? Ero decisamente negata per la geometria, figuriamoci per questa.
Comunque, come al solito ero arrivata in ritardo, infatti Mr Varner aveva già cominciato la lezione.
“Grazie per essersi unita alla lezione all'ultimo minuto, signorina...?” “
Swan, Nita Swan”, conclusi per lui.
Il professore annuì, con un gesto della mano mi invitò a sedermi all'ultimo banco e poi ricominciò a parlare di qualcosa a cui non prestai minimamente attenzione.
Per tutto il tempo, non feci altro che guardare dalla finestra lo scrosciare della pioggia contro i vetri un po' graffiati e le enormi chiome degli alberi, che ondeggiavano sinuose, scosse dal vento.
Quando il suono della campanella mi distrasse dal mio far niente - ecco il perché delle sospensioni nella scuola precedente - raccolsi le mie cose e mi diressi con grande gioia verso la mensa.
Mike come un adorabile cagnolino mi aveva aspettava fuori.
Mi invitò a seder al suo tavolo, dove vi erano altri ragazzi. Il primo era Eric: probabilmente aveva un problema cutaneo; i suoi capelli sembravano una macchia d'olio.
Sembrava il classico tipo che ti riempie di mille attenzioni.
Presi posto accanto a una ragazza, il cui viso pallido era incorniciato da capelli castano chiaro. Si chiamava Angela e se ne stava in disparte senza parlare molto. A quanto pareva esistevano persone ancora più timide di Bella.
Di fronte a me, era seduta Jessica intenta a sgranocchiare una mela. Era molto più bassa di me, perfino più bassa del metro e sessantacinque di Bella, ma aveva dei capelli ricci che compensavano tutta la differenza in altezza. Blaterava senza sosta, ma Bella non sembrava ascoltarla.
Vi era poi un altro paio di ragazzi di cui però dimenticai subito i nomi.
“Chi è?” chiese Jessica, con una vocina fastidiosamente squillante.
Stavo per rispondere, ma Mike mi precedette. “Un nuovo acquisto dalla scuola di Chicago, nonché cugina di Bella”.

Non poteva chiudere quella sua boccaccia?
Gli lanciai un'occhiata assassina che lo ammutolì per un istante.
“Benvenuta a bordo!” ridacchiò Jessica, seguita da un sorriso timido di Angela.
Dopo quasi dieci minuti di chiacchiere e di domande sul perché fossi lì a Forks, mi estraniai dal gruppo. Non mi andava di sorbirmi le loro chiacchiere per tutto il tempo.
Stavo giocherellando con la linguetta della lattina di soda, quando mi accorsi che Bella aveva gli occhi incollati su qualcosa.
O meglio qualcuno.
Sollevai lo sguardo e rimasi, per un lunghissimo istante, a bocca aperta.






Angolo autrice:
mi dispiace avervi dovuto far attendere ma finalmente il pc è
rinato, ma tra poco anche le poverelle come me vanno in vacanza!
Buone vacanze a tutte :3

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