Notti di noi

di Made of Snow and Dreams
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Scontri ***
Capitolo 3: *** Supposizioni ed indecisioni ***
Capitolo 4: *** Alleanze inaspettate ***
Capitolo 5: *** Barriere infrante ***
Capitolo 6: *** Una nuova pista ***
Capitolo 7: *** Intrusione ***
Capitolo 8: *** Sopravvivere ***
Capitolo 9: *** Impotenza ***
Capitolo 10: *** Il ritorno del Mondo Vero ***
Capitolo 11: *** Can't run. ***
Capitolo 12: *** Frammenti ***
Capitolo 13: *** AVVISO ***
Capitolo 14: *** La Fame - Parte 1 ***
Capitolo 15: *** La Fame - Parte 2 ***
Capitolo 16: *** Intermezzo: Entrata in scena (Prologo) ***
Capitolo 17: *** Intermezzo: Atto Primo ***
Capitolo 18: *** Intermezzo: Conclusioni ***
Capitolo 19: *** 19. Intermezzo: Atto finale ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


Notti di noi






Introduzione


 

‘A quante siamo? ’

‘Con questa, circa quindici. Decisamente troppe per essere giustificate per mezzo di malattie, suicidi, droghe, o chissà che altre cazzate. ’

‘Questo è abbastanza ovvio, Tim. Nessuno ci cascherebbe. Quanto ci scommetti che il tuo amato Toby è andato a riferire tutto a lui ? ’

A quelle ultime parole, l’uomo con indosso la maschera bianca si voltò bruscamente verso il compagno, fulminandolo con lo sguardo. Bastava che il nome del bastardo fosse pronunciato che la rabbia, mista alla frustrazione, tornasse ad incombere su Masky, con risultati non molto piacevoli.
Dio, quanto odiava quel nome! Quello schifoso, dannato nome. Quello del suo rivale. Quello del moccioso con la guancia scarnificata e spolpata, forse, da un potente fendente infertogli con una di quelle due accette.
Lo avrebbe fatto fuori all’istante, se avesse potuto. Gli avrebbe fracassato il cranio fino a ridurlo in una poltiglia sanguinolenta e informe, lo avrebbe decapitato colpendo la giuntura tra il collo e la testa con l’ausilio – ah, ironia della sorte! - delle sue amate lame; avrebbe afferrato il colletto insanguinato della sua felpa lurida di terra e lo avrebbe appeso ad un ramo qualsiasi di un albero qualsiasi, affidando il cadavere ai venti furiosi che scuotevano ogni sera le fronde dei boschi. E avrebbe goduto ogni giorno nello scorgere il corpo straripare di larve di insetti, ormai un ostacolo definitivamente eliminato dalla sua vita.
Il migliore dei trofei, la dimostrazione più abbagliante della sua forza.
‘Non pronunciare il suo nome, Brian! ‘ ringhiò Masky, avvicinandosi di qualche passo per fronteggiare l’altro proxy. ‘Cazzo, sai che lo odio. E inizierò ad odiare anche te se non la pianti con le tue provocazioni, amico mio. ’
Un sospiro paziente e prolungato - intervallato da quella fastidiosa barriera che era la stoffa nera del passamontagna - fu la sola risposta che ottenne Masky. Osservò taciturno Hoodie voltarsi, pronto per far sparire le tracce dell’ennesimo cadavere che entrambi avevano gettato con noncuranza su un cumulo fatto di altrettante braccia e gambe, e lo imitò, anch’egli pronto per adempire allo stesso compito. Tolse il portafoglio dalle tasche di un cappotto anonimo e lo ficcò nelle sue tasche; caricò sulla sua spalla destra il corpo sciupato della donna che doveva essere stata la vittima di qualcos’altro, e seguì svogliatamente Hoodie. Percorsero insieme il sentiero che conduceva alla radura, laddove uno scoppiettante falò aspettava solo di compiere il suo dovere.
 
 
 





La ragazza in gonnella e felpa camminava a passo spedito nel buio, la testa china per nascondere il volto da occhi indiscreti. Entrambe le mani erano nascoste nelle tasche dell’indumento, e si divertiva nel sentirsi graffiare i polpastrelli duri dal bordo seghettato del coltello da cucina.
Sebbene il suo sorriso, inciso per sempre sulla pelle, le fornisse quella sinistra espressione sempre allegra, inquietante e malata allo stesso tempo, Nina era tutt’altro che felice. Com’era possibile che buona parte delle sue vittime, scelte con cura le sere prima, ora si ritrovasse su un letto ospedaliero, pronta per un’accurata autopsia? Chi si stava permettendo di rubarle le prede?
Ma ogni notte doveva essere speciale, e inaugurarne una con un omicidio era il modo migliore per salvare il suo labile buon umore. Quando i suoi occhi incrociarono una casa più grande delle altre, protetta da un mastino addormentato nella cuccia, Nina si fermò.
‘Ma che precauzione intelligente utilizzare un cane da scagliare contro i ladri, come se una carcassa di mastino possa abbaiare per avvertire del pericolo. Che ne dici, Jeff, mettiamo a dormire anche questa bella famigliola? ’ mormorò Nina, immaginando con una nota di piacere che, forse, il suo amato l’avesse udita e fosse d’accordo con lei.
Studiò con più attenzione l’animale da dietro la recinzione. Grosso e pesante, praticamente innocuo. Rise.
 
 





‘Ma vaffanculo! Anche quest’altra mocciosa no! ’
Una scarica di odio indusse la mano sinistra di Jeff a tirare la ciocca di capelli neri più fastidiosamente vicina al suo viso senza averne prima dosato la forza. Quei danneggiati e bruciati fili scuri, trattati con una violenza che non potevano sopportare – era già stata una fortuna che ciocche sporadiche fossero rimaste ancorate per tutto quel tempo alla pelle ustionata del ragazzo -, si staccarono dal cuoio capelluto pieno di cicatrici di vecchia data e si depositarono sul palmo di quella mano crudele. Jeff, ritrovandosi tra le dita i suoi sofficisetosi e assolutamente bellissimi -come il proprietario, pensò con l’ombra di un cupo sorriso negli occhi- capelli, serrò la mascella per calmarsi il più possibile, non volendo infierire ulteriormente sul suo corpo perfetto.
Riportò le sue iridi sul cadavere della bambina che lui aveva adocchiato qualche giorno prima e su cui aveva fantasticato a lungo: affondare il coltello nelle morbide e calde viscere per produrre un primo concerto di strilla, strapparle qualche brano di carne dalle cosce per farla sgolare, sfondarle le corde vocali e tagliarle la lingua per zittirla definitivamente. Lasciarle sgocciolare sangue per bearsi di quel meraviglioso tripudio di colori, e, infine, restituirla ai legittimi genitori.
Era una notte che lui aveva pianificato a lungo, ma i frammenti di quel sogno ora si trovavano sparpagliati attorno a lui. Un massacro di tale portata non poteva essere giustificabile in altri modi, se non con l’ipotesi che il paese ospitasse un altro killer, un assassino più efferato di lui a terrorizzare gli abitanti del luogo. Inaccettabile.
 ‘No… no, no, no, cazzo. No! ‘ soffiò Jeff, strizzando dolorosamente le palpebre mentre il suo sguardo viaggiava da un corpo straziato ad un altro, senza sosta. ‘Non ti permetterò di prendermi un minuto di più per il culo, chiunque tu sia! ’ disse lui iracondo, sfidando il cielo nero con i suoi occhi iniettati di sangue. ‘Mi hai sentito, bastardo? Ovunque tu sia, ti troverò. E ti farò pentire di essere nato! ’ giurò il ragazzo, e, lasciando che il cappuccio bianco della sua felpa gli ricadesse morbidamente sul capo, si avviò verso il percorso tortuoso che conduceva alla foresta. Strinse con forza il manico del suo pugnale: quella era una promessa che andava mantenuta.
 
 
 
 
 


Di certo non era la stessa cosa.
Non era solo questione di gusto, era anche questione di… piacere. In effetti, poteva mai esserci godimento più intenso, se non nell’affondare la mano infreddolita in un corpo caldo e accogliente?
Trasformare un semplice ammasso di cellule adibite ad un futile ed insignificante scopo in un pasto sublime per il suo palato. Il sentirsi deliziato da quel suono così familiare, spugnoso, sanguigno, provocato dai suoi denti che affondano inesorabili come macigni nella carne, lentamente, in un primo assaggio. E la sua gola cantava, sì, cantava sempre nell’essere scaldata dal primo fiotto di sangue raggrumato e scuro, denso; il segnale che l’organo vivo era stato lacerato e squarciato dalle sue piccole zanne.
Sentire ogni istinto placato e il proprio corpo saziato dal pasto e colmo di una rinnovata forza era una delle sensazioni più rinvigorenti che potesse mai provare dopo ogni vagabondaggio. Dopo aver provato a riafferrare tra mani inumane quel poco che potesse esserci rimasto di umano in lui, dopo tutto quello che gli era accaduto.
Ma i furti alle librerie e ai negozi di videogiochi e di elettronica non valevano nulla se confrontati allo sforzo che gli spremeva le viscere quando, al predestinato del giorno, svelava il suo vero volto. La delusione gli attanagliava lo stomaco quando un coro di urla ricambiava il suo coraggio e le sue speranze; una delusione che, puntualmente, sfociava in una familiare rabbia che si impossessava di lui per lenire il dolore che sentiva al cuore – sempre che ne avesse ancora uno - per essere stato rifiutato così barbaricamente dalla società. Un’offesa che poteva lavare con quel solo, mortale, gesto di vendetta: irrigidire le dita della mano sinistra per improvvisare una vanga letale, e spingere quelle stesse dita fredde e rigide contro la schiena del malcapitato. E la ricompensa giungeva sempre se oltrepassava le barriere di tendini e muscoli e ossa, aspettando che qualcosa di pulsante e viscido bloccasse l’avanzata.
Jack abbozzava sempre un sorriso nell’allargare le dita della mano per afferrare saldamente quell’organo, strattonandolo verso l’esterno per liberarlo dai filamenti che lo tenevano ancorato al resto del corpo. Lo estraeva con la massima delicatezza e una calma serafica, e lo stringeva solo per godersi un’altra volta il calore che tanto gli ricordava quello emanato dal suo stesso corpo quand’era ancora vivo.
Poi rivolgeva sempre un’ultima e indifferente occhiata al corpo della vittima, quasi sempre con la schiena irrigidita dal dolore provato e arcuata, forse, a causa di qualche vertebra da lui sbriciolata per sbaglio; osservava i lineamenti impressi nei volti sofferenti e schiacciati contro il pavimento, si beffeggiava degli occhi spalancati e terrorizzati, del respiro affannoso e appesantito dalla morte imminente. Cos’altro si meritavano, gli umani, se non quella punizione?
 
Jack sbuffò amaramente da sotto la maschera, storcendo le labbra in una smorfia di disgusto mentre la sua mano rovistava tra le carni fredde e maleodoranti di quella carcassa di bambino.
Non poteva mangiare nient’altro, e in tempi di carestia ci si doveva accontentare. Tanto, sempre di reni si trattava.
Ma non era lieto di assaporare il gusto eccessivamente ferroso di quel sangue tagliente e viscoso, raggrumato e in putrefazione, e non era sollevato nello stringere tra le mani e tra i denti quella poltiglia amorfa e nerastra.
Era il terzo cadavere che gli intralciava il cammino in due giorni. Gli altri due, che lui aveva adocchiato senza molta attenzione, appartenevano a una donna di mezz’età e ad un bambino di circa sette anni, che era stato gettato tra le sue braccia inerti per pietà. O almeno così aveva ipotizzato Jack.
Eppure, il bigliettino stracciato e ancora luccicante, dorato, non lasciava dubbi sulla successiva pista da seguire. L'aveva trovato incastrato tra le vertebre della schiena infantile, riposto con una cura che ostentava il ridicolo e che denotava un insano divertimento nel trucidare le vittime con rispetto raffazzonato. Di certo, colui o coloro che erano stati gli artefici di quello scempio non temevano di essere scoperti dalla polizia.
Adocchiò il frammento, sforzando la vista. Era intriso di sangue, ma la scritta era ancora leggibile.
 




 
‘Vengano pure, signori e signore e bambini e bambine, al Freaky Circus!

Non perdetevi lo spettacolo di questa sera!

Vi aspettiamo alle 18:00 in punto!’
 
 
 
 
 
 













Angolo Autrice

Innanzitutto vorrei chiedere scusa se qualche descrizione è risultata particolarmente violenta per qualcuno e se le scene erano troppo cruente; erano necessarie per creare (sempre se ci sia riuscita!) quell’atmosfera molto più cupa del normale che mi ero prefissata in testa per questo piccolo progettino, che prevede la comparsa (Snow, niente spoiler…) di alcuni miei Oc. Forse avete già intuito, ma vabbè…
Anyway, se i personaggi di Masky e Hoodie vi sono risultati Ooc, chiedo scusa anche per questo. Il fatto è che, per quanto mi diverta anche immaginarli come due poveretti che mangiano la cheesecake sempre ad ogni ora del giorno (per non citare lo strafamoso ‘Hey, Masky!’), penso che la versione più creepy e più attinente a loro sia questa: Masky diventato violento e litigioso pure con Hoodie (le pillole, tesorino, e smettila di essere in competizione con Toby!), e Hoodie più calmo e controllato. Anche se sempre proxy è!
In definitiva, spero vi sia piaciuta questa prima parte. Al prossimo capitolo! ^^
 
Made of Snow and Dreams.
  

 

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Capitolo 2
*** Scontri ***



Notti di noi







Scontri

 



Anche Laughing Jack sentiva che qualcosa non quadrava. Anche se era un’entità soprannaturale, i suoi sensi erano strettamente legati al mondo degli umani; le sue percezioni erano in grado di mutare in base all’atmosfera che respirava, e l’atmosfera che lo condizionava variava con l’umore generale di quegli esseri in continua proliferazione. Quello che gli abitanti del pianeta solevano chiamare ‘sesto senso’ e che lui aveva sviluppato con il tempo e la pazienza.
In particolare, il fatto che il numero dei bambini di quella cittadina - che era divenuta la giostra momentanea - si fosse dimezzato improvvisamente, non gli lasciava presagire nulla di buono.
Inclinò leggermente il capo all’indietro, arricciando le labbra in una risata intrisa di nervosismo, e scartò un lecca-lecca dai colori vivaci per divorarlo in solitudine. Studiò il locale in cui si trovava: una piccola veranda contornata da rampicanti secchi che si aggrovigliavano sui muri, sulle ringhiere arrugginite. Erano persino giunti a strisciare sul pavimento, formando un tappeto di foglie scricchiolanti.

La tana perfetta per i topi, constatò Laughing Jack. Adocchiò distrattamente uno dei tanti ratti che sfrecciavano come missili sulle grondaie di quella catapecchia. La casa doveva esserne infestata: ovunque si girasse, il suo udito poteva captare il raschiare delle loro unghie sul legno, il loro continuo rosicchiare le muffe, il loro perenne zampettare nelle tubature idrauliche in disuso da anni. Quando uno di quei grandi roditori gli sfiorò la caviglia con il suo pelo arruffato, Laughing scattò. Afferrò il topo con poca delicatezza, stringendo gli artigli sul ventre per impedirgli la fuga, e avvicinò la mano al viso. Scrutò il muso incrostato di polvere come se non avesse mai visto un ratto in vita sua; l’animale si dibatteva furiosamente, le zampette posteriori sporgevano dal suo pugno allentato e sussultavano a intervalli più o meno regolari per sfuggire alla sua morsa. Se avesse pressato maggiormente le sue dita sulla pancia gonfia del topo, avrebbe percepito il frenetico battito del suo cuore impaurito.

‘Che strano animaletto sei… ‘ mormorò il clown con voce cantilenante. Sorrideva mentre il suo volto sporgeva a meno di un soffio dalla testa del ratto, tanto che se avesse voluto infilzare il suo cranio con la punta del suo naso gli sarebbe bastato inclinare il collo di pochi centimetri. ‘La più miserabile delle creature su questo mondo. Vivi nelle case degli altri e ti moltiplichi nell’ombra. Rubi il cibo dalle cucine, porti malattie. ‘
Gli squittii del topo si fecero più sottili e terribili mentre lui serrava la presa, soffocandolo lentamente, pressando gli organi interni. I suoi occhietti neri erano più vivaci che mai. Si dimenava, serrava i denti, torceva vanamente il collo per tentare di morsicarlo.
‘E come lotti per liberarti! ‘ rise Laughing Jack. Allentò la presa per qualche secondo e poi strinse più forte, scimmiottando il battito del cuore dell’animale sempre più sofferente. ‘Ma immagino che chiunque lo farebbe al posto tuo. Giusto? Nessuno vuole morire con la schiena spezzata. ‘ Le sue dita si flessero un’altra volta, palpitarono.

Nelle orecchie del clown risuonarono quelle che immaginò essere delle urla disperate e acute. La sua vista si annebbiò. ‘Com’è vero che nessuno sceglierebbe di condurre una vita al di fuori dagli schemi. Quale potrebbe essere il tuo motto? ‘ chiese, sovrappensiero. Gli occhi lacrimosi di anonimi bambini si sovrapposero gli uni con gli altri, offuscandogli la vista come una fitta nebbia. ‘Forse… forse la collaborazione con i tuoi amici della colonia. Aiutarsi a vicenda. Potrebbe essere buon precetto, in effetti. Ma che prezzo sei disposto a pagare per giurare la tua fedeltà? ‘
Attese una risposta che non arrivò mai. Si limitava ad guadare il topo senza nemmeno vederlo, incastonando il suo sguardo nella fitta rete di vene che si intrecciavano nelle zampe del roditore.
‘La morte sarebbe la pena più dura e il costo più generoso. ‘ continuò in tono colloquiale. La sua mano libera sfiorò pericolosamente gli arti anteriori dell’animale, e, in una frazione di secondo, glieli strappò. Il suono dei nervi che si laceravano fu sovrastato dagli squittii esasperati, e il sangue picchiettò sul pavimento in legno. Il topo agitò forsennatamente i moncherini sanguinanti e le zampe posteriori nel suo ultimo tentativo di salvarsi la vita. L’intensità di quei versi fu graffiante come un gesso che viene fatto stridere su una lavagna.

‘E tu sei disposto a pagare per salvare i tuoi amichetti, vero? ‘ gracchiò Laughing Jack. Un rivoletto di sangue gli colò sulle falangi delle dita e glieli solleticò. ‘Sono sicuro che lo sei. Sei un bravo ratto, dopo tutto. ‘ Quella calda stimolazione convinse il clown a schiacciare la sua piccola vittima. Gli artigli perforarono la pelliccia grigia e permisero alle dita di scomparire nel corpo del ratto fino alle nocche, attratte dalla viscosità dei fluidi interni. Si udì lo scricchiolio delle ossa frantumate quando le viscere pulsanti si riversarono sul palmo del clown, che continuava ad osservare la scena con un’espressione vacua e, allo stesso tempo, incredula.
‘Ora fai il tuo dovere e diventa cibo per i tuoi compagni. ‘ Gettò il cadavere straziato sul pavimento e lo ricoprì con una montagnetta di caramelle colorate, come per celarlo alla vista altrui. Ebbe un attacco di risa quando si accorse che un filamento insanguinato gli si era appiccicato sulle unghie, e, chinato il capo, lo raccolse con la lingua e lo ingoiò.

Era una notte stranamente silenziosa. A parte il brusio dovuto alla presenza degli insetti nel legno marcio e nelle pareti marce, non c’erano rumori in lontananza. Era come se in quell’anfratto di mondo dimenticato dalla civiltà, il tempo si fosse fermato.

‘E pensare che ero voluto venire qui per fiutare la presenza dei mocciosi! ‘ lamentò il clown, digrignando i denti.
Sbuffò nel rammentare l’istinto che lo aveva condotto in quella casa abbandonata che ricordava, per la sua struttura, l’abitazione del suo carnefice e della sua prima vittima: era entrato nella speranza di trovarvi una bella famigliola con un bambino solo e triste, bisognoso di amicizie speciali; magari un bambino con i capelli biondi, sui sette anni e mezzo, con i genitori dallo schiaffo facile e perennemente pronti a urlarsi contro. Un bambino con cui cantare a squarciagola Pop Goes The Weasel, con cui giocare ai pirati o con i giocattoli animati, un bambino da cui mai separarsi, un bambino che non lo avrebbe mai segregato in una scatola - quella scatola - per anni e anni. Un bambino per cui essere creati.

Isaac…

Mentre valutava l’opzione di abbandonarsi dolcemente agli unici ricordi lindi e lucenti di gioiosa sanità che la sua mente aveva diligentemente conservato, un tonfo, che risuonò in tutte le pareti di quella casa, lo fece trasalire. Quando si voltò con nonchalance per controllare cosa si fosse sfracellato in terra, vide che delle tegole, staccatesi dal tetto intriso di acqua, si erano schiantate sul pavimento.

Un sorriso divertito scoprì le zanne del pagliaccio monocromatico, che sfociò in un vero e proprio scroscio di risate quando intravide la figura di una bambina appostata sulla sommità delle scale che conducevano al piano superiore. La sua pelle era stata martoriata in più punti diversi con quello che sembrava essere stato un martello di piccole dimensioni. Il cranio le era stato fracassato in prossimità della tempia, cicatrizzata in un grumo di sangue rappreso, e lividi di varia natura erano ben visibili sulle sue braccia e, in particolare, sulle cosce. Delle gocce di sangue continuavano a lasciare degli aloni più scuri sul vestitino rosa, laddove l’imene squarciato continuava a spruzzare le lacrime del suo abuso. La bambina sorrideva a Laughing Jack come se fosse l’azione più naturale del mondo, contraendo così tanto le guance da mostrare le gengive. Il clown la fissò di rimando, ostinandosi a mantenere il sorriso impresso sui suoi tratti, interdetto ma risoluto. Entrò e una zaffata di odori disgustosi lo investì, il puzzo dei corpi in putrefazione.

‘Vuoi giocare con me? ’ chiese la bambina. La sua voce si propagò in tutte le stanze della casa come se lei si trovasse contemporaneamente in ognuna di esse.

‘Se per giocare intendi rincorrerti per tutta la casa, aprire a metà il tuo bel corpicino per decorare le pareti di questo… ‘ Fece una pausa, aprendo teatralmente le braccia per guardarsi intorno con aria scherzosamente meravigliata. ‘… amabile luogo con le tue interiora, e poi riempirti di canditi e caramelle… ma certo, bambina mia! ’ disse il clown, battendo il piede destro sul primo scalino, in un muto invito a scappare e iniziare i giochi.

Il sorriso della bambina vacillò per un istante e gli occhi verdi si incupirono. Sembrò ispirare l’aria per acquistare qualche secondo in più per riprendersi dallo stupore, e strinse al petto il suo orsacchiotto di peluche, affondando il naso nel pelo sintetico per tranquillizzarsi con l’odore rassicurante dell’imbottitura. Scosse piano la testa, fissando il clown con dichiarata curiosità.
‘Allora no. Non voglio giocare a quel genere di giochi. L’ho già fatto tempo fa con mio zio, e non mi è piaciuto per niente. ’ sussurrò con voce argentina, squillante come una campanella. ‘Fa piuttosto male. ‘
Il ghigno di Laughing Jack si espanse ancora di più mentre lui tastava il gradino successivo con il piede sinistro per incuterle ansia, lasciando che gli artigli affilati della mano destra graffiassero leggermente il corrimano. Voleva che la mocciosa riconoscesse la sua superiorità, pretendeva il rispetto che la sua creatività gli conferiva! Era ad un passo da dichiarare lo scacco matto alla sua piccola sfidante.

‘Ma davvero? ‘ ghignò. ‘ Motivo in più per fare amicizia con un vero amico come me! Da quanto tempo sei qui da sola? ’
La bambina indietreggiò di un passo, cingendo ancora più strettamente il suo peluche come se potesse animarsi da un momento all’altro per difenderla da quell’attacco non previsto. Il clown aveva deciso di giocare d’anticipo, e la sua tattica stava funzionando. ‘Io sono qui da sempre. ‘ rispose lei, scrollando le spalle. ‘Vivo qui da quando ne ho memoria. ‘

‘Davvero? ‘ ribatté Laughing Jack con falso interesse. Un altro passo in avanti. ‘E vivi da sola, per caso? O per caso hai anche dei fratelli, delle sorelle? ‘
‘No. Sono sola e basta. ‘

‘Ma è impossibile che tu abbia vissuto in questa casa senza nessuno! Chiunque crollerebbe… ‘

E tu ne sai qualcosa, vero, Isaac? Mio defunto migliore amico per la vita e per la pelle. Soprattutto per la pelle, quella che io ti ho tolto…
‘Effettivamente ho notato che prima venivano delle persone qui… ‘
…in cambio del risarcimento che hai elargito al tuo migliore amico, giunto a te solo per renderti felice. Vent’anni, Isaac. Vent’anni. Vent’anni chiuso e dimenticato nella mia scatola, una scatola in cui non posso più entrare a causa tua.
‘… ma ora non viene più nessuno. Tutti spariti! Anche la foresta è deserta, hai visto? ‘

Laughing Jack aggrottò la fronte e permise alla sua testa di ricadere mollemente di lato, in una grottesca imitazione di una bambola di pezza. Dalla sua bocca aperta sgorgò un rigagnolo di saliva che gli sporcò il mento. Sally seguì il tragitto del rivolo con aperto disgusto, imitando l’occhiata sdegnosa che una nobildonna rivolge ad un umile contadino. Captò un leggero brusio provenire dall’esterno della casa, uno sfregare di incisivi misto al ronzio delle mosche. Lanciò un’occhiata interrogativa a Laughing Jack.
‘Oh, è solo un piccolo topo che ho involontariamente fatto fuori. La tua casa ne è infestata, a proposito. ‘ disse il clown. ‘Dovresti fare qualcosa. Una disinfestazione. ‘
Il viso di Sally s’illuminò. ‘Ma io non voglio che muoiano. Sono gli amici più fedeli che ho, i topi. Mi tengono compagnia. ‘
‘Ti tengono compagnia. ‘ ripeté Laughing Jack, ora a metà strada nel suo proposito di fronteggiare la bambina per sfogare le sue voglie represse. ‘Ti tengono compagnia perché da te non arriva più nessun amico. E io credo di sapere il motivo. ‘ Si fermò in una drammatica pausa. Percepì lo sconcerto della mocciosa crescere in lei, mentre quest’ultima sporgeva il collo come se stesse per sapere il più oscuro dei segreti. ‘La causa di tutto questo, mia dolce bambina sconosciuta, è che i bambini là fuori stanno morendo come mosche. E sospetto che tu, in particolare, sia la responsabile della mia fame. I bambini… ‘ disse Laughing Jack, e incatenò le sue iridi splendenti di una nuova luce, più sadica della precedente e traboccante di rabbia, in quelle verdi e confuse di Sally. ‘… li stai ammazzando tu, vero? ‘

Istintivamente Sally indietreggiò ancora. La presenza del clown monocromatico era opprimente e soffocante, e le veniva naturale provare un intenso disagio quando lui le si avvicinava. I suoi capelli crespi gli ricadevano sugli occhi, ombreggiandoli, e una campanella d’allarme iniziò a trillare nella sua testa. Sospettava che dietro quel ghigno tiratissimo si celasse una furia a stento controllabile, e quando notò delle sfumature rossastre sui suoi artigli, il sospetto divenne una certezza.
‘No! ‘ si affrettò ad esclamare. ‘ Come potrei rubarti le prede se anch’io sono a secco di compagnia? ‘
‘Allora spiegami! ‘ sbottò Laughing Jack, alzando il tono della voce gradualmente, ‘Com’è possibile che metà di quei microbi si sia volatilizzata nel nulla? Se non sei tu, chi li sta facendo fuori? ’
Sally sospirò lievemente, come per comunicargli che era un cruccio anche per lei.
‘Non lo so, signor clown. Però pensaci: io e te siamo messi male. Io ho bisogno di riprendere i miei giochi, e tu le tue… attività. Siamo abitudinari in queste cose, tu e io. ‘
‘E questo cosa dovrebbe comportare? ‘ sibilò Laughing Jack, spazientito.
‘Comporta che anche ‘i vertici’ dovrebbero risentire di questa mancanza. Tu che dici? ‘
‘Chi? Cosa? Quali vertici? ‘
‘Dovresti sapere meglio di me di chi sto parlando. L’Uomo Alto, ad esempio. O quel ragazzo con le guance tagliate. O la donna con la maschera e la parrucca nera. ‘
‘Mi stai suggerendo di andare a cercare quei buffoni per interrogarli? ‘ esclamò Laughing Jack. ‘E chi mi garantisce che non sia tutta una tua tattica per farmi perdere tempo? ‘
‘Nessuno, infatti. ‘ rispose Sally con serenità. ‘Solo la mia parola. ‘
‘Ah! Con le tue parole posso addobbare le interiora dei bambini, mocciosa! ‘
‘Beh, la scelta è sempre tua. ‘ ridacchiò lei. Spiò il viso sconvolto del clown, il cui respiro era diventato affannoso per il nervosismo che quella scelta gli stava innestando. ‘Al massimo posso proporti un accordo. Se io ho ragione e c’è qualcosa sotto, qualcosa di molto più grande, mi lasci stare. In caso contrario… ‘
‘In caso contrario torno qui e rado al suolo questo cubicolo. Con tutte le conseguenze che ricadrebbero su di te.‘ completò Laughing Jack. I suoi lineamenti tornarono a distendersi in un largo e giocoso sorriso di vittoria.
‘Affare fatto. ‘
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Jane the Killer camminava a passo spedito, affidando i lunghi capelli sintetici al vento calmo della sera. Da quando aveva parlato con quello spettro più umano di quanto sembrasse all’apparenza, la infastidiva un bizzarro malessere che le aveva colpito la testa: una specie di forte ronzio le trapanava i timpani, divenendo talmente assordante da riempirle il cervello.

Era certa che non fosse opera di Puppeteer: da quando ci aveva parlato la prima volta, mesi fa, lui le aveva confidato che non le avrebbe mai fatto del male e non le avrebbe torto nessun osso di nessun’articolazione per trasformarla in uno dei suoi burattini di carne. E lei gli aveva creduto.
Le aveva anche promesso che non le avrebbe messo alle calcagna Zachary, il suo proxy, e che sarebbe stato lieto di poter discutere con lei. Di quelle semplici frasi, pronunciate con tanta sincerità, Jane non avrebbe potuto sospettare mai.
D’altronde, come avrebbe potuto dubitare mai di quella schiettezza, se ora quella serie infiniti di bisbigli, sussurri e brusii che udiva costantemente nelle sue orecchie, erano provocati dalla presenza di quella creatura che minacciava il territorio del suo amico?

Non aveva mai visto un essere più alto di lui: doveva superare abbondantemente i due metri, indossava una sorta di smoking - o almeno quello che la ragazza credeva essere uno smoking, visto che la presenza di Ticci Toby le impediva la visuale - nero, dalla sua schiena avevano origine diversi tentacoli del medesimo colore, e non possedeva i tratti somatici. Puppeteer era davanti a lui, con le dita contratte - le ricordarono tanto gli artigli di un rapace - e le corde dorate guizzanti, ed era coadiuvato dal proxy che Jane non aveva mai avuto occasione di vedere: Zachary.
Ciò che restava del ragazzino che aveva provato a fuggire dall’onnipresente spettro era uno scheletro vivente, che sfiorava con decisione il tasto d’accensione della sua arma - un trapano-, in un muto ammonimento per il suo rivale, Toby, che rispondeva facendo dondolare impercettibilmente una delle sue accette sulla gola dell’avversario.

‘Mossa scorretta attaccare il mio territorio. A cosa devo questa visita? ’

La voce cavernosa e assolutamente innaturale rispose a quella di Puppeteer, intrisa di talmente tante interferenze che sembrava provenisse dalla radio che ascoltava ogni giorno con suo padre in macchina, in un passato dai contorni fiabeschi e sfumati nel dolore di un lutto insostenibile da superare.

‘Stai rubando le mie vittime, ne sono certo. Ecco il motivo della mia venuta qui. ’

‘Le tue vittime non le tocca nessuno. Di sicuro non sono io quello che spreca il suo tempo cacciando nel tuo territorio per danneggiare la tua reputazione degna di una leggenda metropolitana. Ti sminuisci, così. ‘

Jane trattenne il fiato a quell’affermazione azzardata e audace, e usò la mano sinistra per spingere la propria maschera sul suo volto deturpato nella speranza di imprigionare qualsiasi gemito di sorpresa nell’oscurità della sua protezione cartacea. Si accucciò dietro un ammasso di cespugli, e allungò il collo per spiare la scena con più attenzione possibile.
Vi fu un attimo di assoluta immobilità da parte dei due nemici, poi la creatura parlò.

‘Non credo che possa piacerti essere appeso ad un albero con le tue stesse corde, Puppeteer. E non credo che gioiresti nel vedere i pezzi della testa della tua proxy, Emra, sparpagliati per il bosco.’

‘Emra…’ sussurrò Puppeteer. Il tono con cui pronunciò il nome della sua amata e odiata proxy fu simile a quello usato da un fedele che prega il suo Dio personale per la propria incolumità. ‘L’ hai attaccata? ‘ sibilò poi, assottigliando le palpebre in segno di sfida.

Jane scorse gli occhi dorati dello spettro arrossarsi ai bordi ed emanare un’intesa luce arancione, calda e luminosa. Un brutto segno.

‘Tu non sei niente. ‘ seguitò a dire la creatura immensa. ‘Non hai alcun potere se vieni paragonato a me. Ringrazia che ti ho permesso di vivere fino a questo giorno, anche se la tua presenza in questa dimensione è del tutto superflua. ’

Quella voce, nonostante le minacce, era pacata e risonante nel silenzio teso della foresta, abbastanza da cullare i battiti forsennati del cuore di Jane, che non voleva saperne di rallentare. Ma era tanta la paura di essere scoperta e ancor di più di essere uccisa prima di aver compiuto il suo dovere. E temeva, temeva per l’esistenza del suo nuovo amico Puppeteer, la cui forza eguagliava pericolosamente quella della creatura sconosciuta.

‘Sarebbe soddisfacente impedirti di pronunciare qui e ora una sola e ultims parola, per poi sbarazzarmi di entrambi i tuoi proxy. Ma, stando così le cose, sarebbe anche più divertente costringerti ad assistere all’agonia della tua preziosa bambolina, non trovi? ’

‘Non avrai osato catturarla…’

‘No. Non ho intenzione di avvicinarmi a lei, e non lo farò se mi tornerai indietro i bambini. Devi averli presi necessariamente tu, perché nessun altro killer osa avvicinarsi a me e ai miei… collaboratori. ’

‘Non sono così disperato da richiedere addirittura delle vittime a un avversario. Al contrario tuo, la gente a cui indirizzare le mie preziose attenzioni non mi manca visto che faccio loro un favore, aiutandole a scegliere la via giusta per la salvezza. ’ rise lo spettro ironicamente, persistendo nel suo fluttuare davanti alla creatura.

La tensione era palpabile, e uno scontro imminente. Jane stava per scattare fuori dal suo nascondiglio improvvisato, quando una musica che non aveva mai sentito in vita sua la fece desistere dal suo proposito.
 



A penny for a cotton ball
A penny for a needle
That’s the way the money is spent
Pop goes the weasel!




‘Ma che combinazione! Passavamo di qui e vi abbiamo incontrati… dire che vi stavamo anche cercando. Anche voi con lo stesso problemuccio? ’

I volti di tutti e cinque i presenti si voltarono, chi con stupore e meraviglia e chi con indifferenza, a quella voce stridula e a quella risatina dolce e bambinesca. Puppeteer aggrottò la fronte alla vista della bambina a cui era tanto legato e a cui voleva un bene quasi fraterno, mentre Jane studiò con diffidenza e timore la figura del clown monocromatico, focalizzando la sua attenzione sui denti acuminati come quelli di uno squalo.
La ragazza ebbe l’impressione che la creatura senza volto conoscesse la piccola accompagnatrice del pagliaccio, perché non rispose al suo nemico e, addirittura, avanzò di un passo verso quella strana accoppiata.

‘ Abbiamo anche noi lo stesso guaio.’ mormorò Sally.
 
 
 
 
 
 
 
 





Angolo Autrice

Scusate il ritardo per la pubblicazione, ma ho avuto diversi problemi con il computer.
Anyway, passiamo alla storia: come potete vedere, chiunque sia questo nemico invisibile sta creando un bel po’ di problemi alle nostre creepy, tanto che c’è voluto l’intervento del nostro amatissimo Laughing Jack e Sally per scongiurare uno scontro… che non avrebbe lasciato proprio incolumi i nostri beniamini.
Chiudendo l’angolo della scrittrice, al prossimo capitolo! (Che spero di pubblicare quanto prima…)
 

Made of Snow and Dreams.

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Capitolo 3
*** Supposizioni ed indecisioni ***


Notti di noi





Supposizioni ed indecisioni





‘Freaky Circus. Freaky Circus… Freaky Circus. ‘
A giudicare dal nome, non si trattava dei nomi ricorrenti che Eyeless Jack leggeva di rado nei giornali abbandonati; era molto più probabile che qualcosa di molto più grande macerasse sotto terra, nel buio. Qualcosa che lui non era sicuro di voler scoprire, nonostante i rischi che corresse.
‘Freaky Circus… no, l’ultimo circo non aveva questo nome. No, proprio no. ‘ mugugnò tra sé e sé, rigirando il foglietto stracciato tra le mani. Era sollevato dal fatto che, almeno, non si trattasse dei soliti adolescenti che strappavano vene e arterie davanti ai suoi occhi, mentre li spiava incuriosito. Ne aveva adocchiati una decina, chi più conosciuto e chi meno, ma tutti possedevano una caratteristica che li rendeva, nel loro modus operandi, uguali agli altri: gli occhi stralunati e folli, colmi di freddezza mentre rovesciavano cassi toraciche per estrarne il contenuto. E non era un bello spettacolo, con tutto quello spreco.

Era uno strana visione, veder giocare dei serial killer con quei corpi morti o semicoscienti. Sembrava giocassero con delle bambole animate, pronte per essere spogliate, scucite, aperte. Una volta che le urla si affievolivano fino ad esaurirsi del tutto, in genere gli aggressori si allontanavano: muscoli rigidi, schiene violacee come dei lividi giganti e interiora riverse venivano lasciati agli animali o, se arrivava tempestivamente, alla polizia. In quei casi la scelta di battere in ritirata era più che giustificata, anche se spesso Eyeless Jack permetteva alle ombre di avvolgerlo per spiare le loro mosse. Era il metodo più veloce e semplice per rientrare nella società in cui una volta era appartenuto. Prima che…
Chernobog!
No! Non pensare…
Chernobog! Vieni, grande Signore Chernobog!
‘Ho detto di non pensare. Non voglio pensare a quando… a quando ero un po’ più umano di così. ‘ digrignò i denti il cannibale. Strizzò le palpebre tra loro, un rivoletto colò sulla superficie liscia e scivolosa della maschera.

Era frustrante non poter scappare da quel coro di voci fin troppo nitide e crudeli. Gli ricordavano sempre, in ogni attimo della giornata, che lui era cambiato. Una trasformazione irreversibile e dannatamente dolorosa, lui lo sapeva bene. Lo percepiva, il cucchiaio a scavargli nelle orbite, a scollegargli i nervi dei bulbi oculari per impedirgli di vedere, la sua vista che s’indeboliva sempre più, fino a spegnersi completamente. Come una vecchia televisione senza alcun collegamento.
E la sentiva ancora, quella mano intrusa. I polpastrelli che lisciavano le orbite vuote e sanguinanti, raggrinzite, desiderosi di riempirle con quel fango bollente che gli aveva fatto lanciare alte strida al cielo. Un dolore micidiale. Aveva creduto – sperato – di morire. E, in un certo senso, era accaduto proprio quello.

‘Un vero peccato. ‘ sussurrò Eyeless Jack, con l’accenno di un sorriso amaro. ‘E dire che non ero neppure niente male, prima. Tutti invidiosi, quelli. ‘ Accennò una risata, trattenne l’impulso di sfogare il suo risentimento sul primo essere vivente che era intenzionato a scovare. Strinse i pugni, i muscoli delle braccia guizzarono.
Non gli piaceva ricordare il suo aspetto precedente, quando la sua mente ingenua da adolescente non avrebbe mai potuto elaborare un futuro così irreale ed inaspettato. A quell’età le sue uniche aspirazioni riguardavano la sfera scolastica – come uscire incolume dalle lezioni di matematica, ad esempio – e quella sentimentale, come farsi la ragazza più bella e prorompente dell’istituto. E giocare ai videogiochi, una passione che, malgrado il cambiamento radicale, gli era rimasta inculcata dentro.

Per questo aveva deciso di osservare intimorito - ma anche eccitato – quel rituale anomalo a cui aveva avuto la fortuna - o la sfortuna? - di assistere. Di certo non poteva prevedere il resto: le sue orecchie dilatate per sfuggire dal dolore lacerante, concentrato su quell’assurda litania; il sangue copioso a scorrergli sul viso e sul collo; una presenza sconosciuta che era ancora in grado di percepire a penetrare con prepotenza nel suo corpo, a invadere le sue cellule entrando dalle cavità rosse, a radicarsi in ogni fibra del suo essere, a reclamare quel corpo ospite come proprio.
Un parassita.
La cosa che quei ragazzini evocavano senza sosta durante il loro assurdo rito,

Chernobog!
Vieni, grande Signore Chernobog!
Vieni! Vieni! Vieni! Vieni!
Vieni! Vieni! Vieni! Vieni!


era sempre con lui. Non lo abbandonava mai. Viveva in lui, si nutriva spasmodicamente dei suoi impulsi vitali, della sua umanità. Lo derideva, la sua sanguisuga. Viveva grazie a lui, in un involucro adatto a contenerlo per intero. Viveva grazie a lui, ma era stato qualche secondo dopo che Eyeless Jack aveva compreso – quelle sghignazzate ad azzittire qualsiasi altro suono – di essere sempre stato lui l’elemento simbiotico più fragile della coppia. I suoi sensi, ad eccezione della vista, erano quadruplicati. La sua sensibilità si era acutizzata, gli stimoli esterni erano eccitanti per le sue membra gelide. Forza, velocità ed equilibrio era aumentate esponenzialmente, battevano il secondo.

In cambio la ‘cosa’ aveva piena libertà di artigliargli la pelle interna, facendolo contorcere dal dolore se disubbidiva ai suoi ordini; biascicava viscidamente nelle sue orecchie la sua Fame, che lui doveva soddisfare divorando come una bestia affamata i reni di qualche povero malcapitato: sputava per terra i grumi di sangue in eccesso e lasciava masticate le parti più molli e acide dell’organo, rendendo il gesto simile a quello che i ragazzi usano compiere per gettare un chewing gum per terra. Si illudeva sempre di star sputando con soddisfazione una gomma da masticare, in un vano tentativo di rinnegare la realtà e sentirsi ancora Jack l’umano, non il nuovo Jack. Non Jack il cannibale. Non Eyeless Jack, il soprannome che era stato affibbiato dagli amanti del genere horror, quelli che si intrattenevano fino a tardi ad ascoltare il notiziario nero e i film con fantasmi – che ora non temeva più; sapeva di essere diventato estremamente potente.

Nella tasca destra della sua felpa teneva custoditi il bisturi che usava regolarmente, quando non aveva a disposizione molto tempo da impiegare nello sporcarsi le mani facendo il lavoro in prima persona, e il bigliettino che aveva trovato recentemente. Nella sinistra, invece, le sue dita carezzavano con dedizione e una cura che ostentava l’amorevolezza di un genitore, la custodia di un videogioco. Uno dei tanti che aveva arraffato di notte, nei negozi di elettronica.

Non gli interessava molto il genere, il nome, la copertina o la trama offerta dal suo nuovo passatempo; l’importante era che riuscisse a distoglierlo dai suoi pensieri cupi e possibilmente dal suo sempre presente istinto di scavare nei corpi altrui per divorare. Gli piaceva pensare, con un sorriso tirato e vagamente derisorio, che quando giocava a quegli effimeri svaghi anche il parassita accanto a lui - ma anche dietro, davanti, dentro di lui - si acquietasse e ridesse delle battute registrate su un pezzo di plastica. Il modo migliore per acquietare i suoi sensi di colpa e tornare, per una volta, umano.
 
 
 



Nina adorava le grandi metropoli. Erano i luoghi perfetti per acquattarsi nell’ombra come un gatto, attaccare da dietro l’angolo nei quartieri malfamati, spiare da dietro le finestre le famiglie benestanti. Le piaceva seguire gli adolescenti in piena crisi ormonale, le madri infagottate nelle loro tutine da passeggio, i padri con la cartella da lavoro in mano. Immergersi in quell’ambiente a tratti malsano e a tratti salubre era sempre affascinante e Nina stessa era conscia di trarne dei benefici.
Ma anche le foreste potevano fungere da gradevoli luoghi di ritrovo mentale. Le matasse di rami secchi a trattenere l’umidità fungevano da cortina contro i raggi del sole che i suoi occhi non potevano più sopportare. S’immergeva nella solitudine e osservava il paesaggio distrattamente. Per lo più pensava, ricordava.

La riempiva di orgoglio la sacra mansione ricevuta direttamente dal suo idolo. Era bastato uno sguardo e il testimone era passato a lei. Lo aveva letto in quegli occhi azzurrini, stralunati, malinconici, prima che Jeff si scuotesse e la fissasse con sadica soddisfazione. Occhi che dicevano senza parole: ‘ Sei come una neonata, ora impara a camminare da sola. ‘ E lei ci aveva provato.
Uno dei primi trionfi che era riuscita ad ottenere era giunto mentre osservava con stupore il sangue di quel ragazzo che aveva avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. L’aveva fissata terrorizzato, facendo schizzare le pupille da Nina al bambino mutilato che reggeva tra le braccia. Lei aveva sostenuto quello sguardo incredulo con pietà e tenerezza, e quando le mani del ragazzo, arraffanti per terra, aveva cessato di contorcersi, la rivelazione le era piombata addosso.
Si era accorta della somiglianza cromatica del sangue con il fuoco. Non a caso Jeff si era servito del combustibile per appiccarglielo addosso; lei si era semplicemente seduta, lasciando che capelli, pelle e abiti s’impregnassero di candeggina, e aveva atteso. Il fuoco era stato breve e temporaneo, la definizione stessa di transitorietà. Nato all’improvviso, le era danzato famelico come le fauci di una belva mentre la stoffa crepitava e soffi di fumo le avvolgevano gli occhi, bruciandole la vista. Si era appannato tutto, vedeva e sentiva come se fosse stata intrappolata da dietro una cortina di vetro. I pensieri le erano corsi confusi, veloci, disordinati, in una lei spaventata dalla vicinanza della morte. Quando l’avevano ritrovata, il fuoco aveva consumato la sua pelle annerita e increspata. Nessuna distruzione, se non momentanea. Purificazione.

Una sensazione strana, ma si era sempre sentita in dovere di ringraziare Jeff onorandolo con la sua morbosa ossessione. In pagamento della salvezza.
Scorrazzare in città comprendeva il vantaggio di poter arraffare i giornali locali per seguire le orme di Jeffrey Alan Woods, ma era tremendamente complicato saper anticipare le sue mosse per lei che voleva essere la sua allieva, la sua mano, la sua collaboratrice. Avevano definito Jeff come uno psicopatico instabile, deducibile proprio per l’imprevedibilità dei suoi attacchi – Attenzione: al fine di proteggere la Vostra incolumità, Vi invitiamo a seguire le seguenti norme di sicurezza. Inserire un allarme nella Vostra casa, accompagnare gli spostamenti con un veicolo mobile, collaborare con la Polizia.
Lei ci aveva riso sopra.
Instabile. Imprevedibile. Lo era anche lei, a modo suo. Si sforzava di reggere il confronto per farsi notare. Aveva anche preparato un copione da recitare in presenza di Jeff, con il cuore in gola per l’emozione, letteralmente. “Sono stata brava, Jeff? Mi sono comportata bene? Sono stata all’altezza dei tuoi insegnamenti? Avevi ragione, hai sempre avuto ragione. Voglio stare con te, la tua ombra al tuo fianco. Sei il mio maestro, il mio tutore, la mia ispirazione. Posso, Jeff? Posso? “ Un misto perfetto di adulazione e verità. Il minimo indispensabile per stuzzicare l’ego di Jeffrey Woods. L’avrebbe fissata dall’alto, non avrebbe proferito parola. Curiosità, soddisfazione, divertimento, interesse. “Ti prego, Jeff, ti prego. No lasciarmi da sola. Sono diventata più forte, ma mai quanto te. Posso, Jeff? Posso, posso? “
Nei suoi sogni più intimi lui acconsentiva. Una sgradevolissima sensazione le sussurrava all’orecchio che l’unica cosa che avrebbe ottenuto sarebbe stata una coltellata dritta al petto. Cassa toracica sfondata. No, il gioco doveva ricominciare. Nei suoi sogni, Nina resettava.

Nei suoi risvegli, le guance umide la distraevano dallo sfrigolare che si accaniva nel suo petto. Non era abituata al rifiuto, lei che voleva tutto e lo otteneva. Una ragazzina viziata ossessionata dal suo giocattolo.  Se Jeff si dimostrava testardo, lei avrebbe contrattaccato. La prima pagina di tutti i quotidiani parlavano di lei. L’attenzione solo su di sé. Altro combustibile da gettare nell’incendio della sua frustrazione. Nessuna risposta dal suo meraviglioso idolo.

Eccetto per quel fenomeno illogico anche per lei.
Un centinaio di vittime ritrovate ammucchiate le une sulle altre, come le api di un alveare avvelenato. Sventrate, dilaniate, spezzate. Voci di corridoio riferivano particolari ancor più scabrosi: organi sgranocchiati da qualcosa che la Scientifica aveva ipotizzato fosse l’operato di un cane randagio, attirato dall’odore; lembi di pelle completamente tirati via dal derma, ritrovati addossati ai volti delle vittime per simulare delle candide lenzuola; crani sfondati da un oggetto metallico di peso notevole, possibilmente rovente – e ciò spiegava il motivo delle bruciature trovate sulla fronte ustionata di una giovane donna. Il medico legale, a quanto si diceva, aveva fissato per dieci minuti buoni quella testa, esterrefatto, poiché in tutta la sua carriera non aveva mai notato i quattro semi delle carte stampate a fuoco su un corpo.
Insomma, l’allarme ‘serial killer’ aveva scatenato il panico generale nelle città limitrofe, tanto che Nina era stata costretta a spingersi verso i confini per non rischiare di essere rintracciata. Lo spostamento improvviso aveva aggravato notevolmente il suo umore e per i susseguenti tre giorni aveva girovagato come una trottola per la foresta più vicina, rimuginando su quanto aveva udito, macerando per il fastidio. Al quarto giorno si era calmata. Piena di buoni propositi, aveva riposto il coltello nella tasca della felpa e aveva riflettuto a lungo, godendo della brezza che le scuoteva i capelli. Era giunta a due conclusioni principali: la prima comprendeva la possibilità che si trattasse di qualche omicidio compiuto con una frequenza più elevata del normale – che si tratti del mio adorato Jeff? aveva pensato con un sorriso spontaneo, visualizzando l’immagine del ragazzo intento a squartare il ventre di un bambino senza volto. In quel frangente, la gente terrorizzata poteva aver contribuito ad ingigantire la vicenda senza alcun controllo da parte delle autorità – Perché tutti sono solo dei gran vigliacchi! – competenti, e se l’ipotesi prima o poi si fosse rivelata fondata avrebbe punito tutti senza pietà per il suo spreco di energia.

La seconda ipotesi era la meno preferita da Nina. Parecchio improbabile ma non impossibile, uno sterminio di tal fatta poteva davvero essere stato attuato da più artefici. Una prospettiva orribile. Presa dal panico si era ripromessa di contattare Jeff, ovunque si trovasse, per chiedere il suo aiuto nel cacciarli via dal loro territorio. Ne avrebbe approfittato anche per sputargli addosso quella rischiosa quanto maldestra dichiarazione.
E poi c’era l’ultima alternativa lasciata incompleta. Sogghignò, incassandosi nelle spalle mentre rallentava il ritmo delle sue ampie falcate. Come previsto. Non appena i suoi piedi posarono sul tappeto di foglie secche, il suono leggero di passi s’arrestò in quel medesimo istante, come se fosse stato sincronizzato con la sua andatura. Il ghigno sul viso di Nina s’allargò impercettibilmente, la pelle lucida si tese, le guance sporsero fino ad apparire due piccoli cumuli di ovatta. Le pupille ruotarono in tutto il globo oculare come gli occhi di un rettile – Un altro merito di Jeff! ricordò raggiante. Tra le tante capacità che aveva scoperto possedere in quel suo nuovo involucro, la visuale allargata era certamente da annoverare.

Le cellule sopravvissute delle sue palpebre erano talmente poche e rade che non le intralciavano la vista. Le era rimasto solo un velo sottilissimo di pelle a coprire l’occhio per mantenerlo umido, ma era talmente sottile da essere praticamente trasparente: in parole povere, il suo raggio visivo era molto più ampio del normale. Scoprire l’eventuale pedinamento era diventato un gioco da ragazzi.
Sbuffando, di scatto si voltò.
 
 
 
 

‘Chi seiiiii? Vieni fuoriiii! ‘
Eyeless Jack rimase interdetto e ancor più ammutolito quando quella voce intestina e stridula risuonò gracchiando davanti a lui, simile ad un prematuro canto funebre.
‘Vieni fuoriiiiiiiiiiii! ‘ cantilenò nuovamente la voce.
Il cannibale non indietreggiò. Si limitò a sporgere il capo incappucciato fino a scorgere la sagoma della figura dai tratti apparentemente normali. Studiava ogni singolo scatto e guizzo con indifferenza e scientifico distacco, attento ad ogni minimo particolare, e gli sfuggì una risatina soffocata quando la ragazza si girò su se stessa con la velocità di un cobra. La preda si stava innervosendo.

Ad Eyeless Jack non interessava minimamente la sua identità, oltre al fatto che un angolo remoto della sua mente ricordava quel volto deturpato che aveva intravisto con scarso interesse nei telegiornali. Aveva bisogno anche lui di risposte per il putiferio che si stava scatenando nelle città, che metteva a repentaglio la sua sicurezza. Quella caricatura di ragazza poteva fare al caso suo.
 ‘Vieni fuori! ‘ ripeté la voce con tono più aspro e perentorio. Attese una risposta che non arrivò. ‘Allora? Devo tirarti fuori io? Non ti piacerebbe, credo. Ma alla fine la scelta è tua. ’
Eyeless Jack sentì il fruscio dei suoi piedi sull’erba avvicinarsi sempre più. Si preparò allo scatto, ritirandosi nell’ombra quanto più poteva, e aspettò il momento buono. Quando il viso della ragazza uscì allo scoperto, con espressione confusa e infastidita e intimorita, azzannò il terreno con le dita per prepararsi allo slancio finale.
‘Ti conviene iniziare a correre…’ continuò lei, brandendo in mano un coltello che era grande tre volte il suo bisturi. Quell’arma sarebbe stata l’unico ostacolo alla sua vittoria, ma con un colpo ben indirizzato con la giusta dosa di forza sarebbe riuscito a farle perdere la presa.
‘Stai calma, non voglio combattere. ’ mormorò con voce suadente e pacata, evitando di ridacchiare nell’assistere alle reazioni di Nina, ora angosciata e disorientata. Era impossibile riuscire a vederlo. ‘Ti ho seguita perché ho bisogno di sapere delle cose. Le mie vittime le hanno ritrovate morte, e non sono stato certo io ad ucciderle. Tu c’entri qualcosa? ’
Nina, se avesse potuto, avrebbe strabuzzato gli occhi, ringhiando a quell’affermazione, concedendosi una bassa risatina gutturale. Non riusciva a scorgere il suo interlocutore lì, in mezzo all’ombra, eppure quella voce profonda - troppo profonda per essere umana - le giungeva alle orecchie come sussurrata da una manciata di centimetri di distanza. Era terribile possedere la consapevolezza di essere sotto scacco da tutte le direzioni possibili. Si voltò nuovamente, allarmata, e fece un giro su se stessa. Adocchiò ed esaminò tutti i possibili anfratti in cui poteva celarsi la creatura, e un brivido di puro timore – No, non posso avere paura proprio ora! Jeff non me lo perdonerebbe mai… - le attraversò l’intera colonna vertebrale quando appurò di essere veramente sola.

Jack rise apertamente nel pascersi nella paura che aleggiava sul volto della ragazza. Una paura che la rendeva debole come le sue vittime, lei che aveva avuto l’ardire di sfidarlo, lei e la sua spavalderia fasulla. Lei, che aveva mostrato tanta baldanza sfidando lui, Eyeless Jack, lei che si annichiliva come un cagnolino timido ed impaurito. Era davvero difficile resistere all’istinto di afferrarle il polso destro e torcerlo per farle perdere la presa sul manico dell’arma, rifilarle un potente calcio negli stinchi per piegarla in ginocchio e punirla per la sua audacia, rendendola un pasto soddisfacente alla sua Fame. Eppure lui doveva, doveva sapere…


‘Sono più vicino di quanto sembri, sappilo. ‘ E diamine, se lo sono! sghignazzò mentalmente pur mantenendo quel tono pacifico e neutrale, distaccato. ‘Ma, ti ripeto, non voglio farti nulla…per ora. Te ne farò se non risponderai subito alle mie domande. ’
A quelle parole Nina deglutì. Cercò di ricomporsi per recuperare la dignità rimasta, e replicò, stizzita ‘ Non ho nulla da dire al riguardo. Fottiti, io non so nulla. Non ti sto fregando le prede! ’
‘Ovvio che non sei tu a farlo, si vede. Sei troppo debole e codarda per poter mai tentare l’impresa. Chiunque sia, di certo non è al tuo livello…’ sussurrò con voce argentina Jack, incrociando le braccia al petto. Dai fori che lasciavano intravedere le cavità oculari, gli occhi sembrarono brillare di eccitazione improvvisa.
Nina ringhiò e l’altro giurò di aver intravisto una scarica di odio sfavillare nei suoi occhi folli, tanto che per un secondo temette che fosse in procinto di balzargli addosso e combattere alla cieca, facendo a pezzi arbusti e ramoscelli. Nonostante la vittoria di certo non sarebbe stata a suo favore.
‘Buffa affermazione. Specie se sostenuta da chi non possiede nemmeno il coraggio di farsi vedere. ’  Si contenne, contro tutte le previsioni. Ignorò l’ennesima risata che quello strano essere emetteva. Nascose entrambe le mani e il coltello nelle tasche della sua felpa, digrignò i denti e indurì la mandibola, come per ammonirlo di non provocarla oltre.
Ennesimo affronto!
Per un attimo Eyeless Jack prese in considerazione l’idea di togliersi la maschera di fronte a lei come soleva il piano, per rivelarle le orbite grondanti del liquido nero e viscoso che lui stesso non era ancora riuscito a identificare, la pelle grigio fumo e i denti affilati simili a piccole zanne.

‘Non penso saresti in grado di sopportare la mia vista. Ad ogni modo, non è questo il punto: dimmi cos’hai sentito a proposito degli omicidi. Sai, rispondere a una domanda è facile. O non sai fare nemmeno questo? ’
Nina non rispose. Si limitò a ridacchiare lievemente e ad incrociare le braccia, mentre si dondolava pigramente sul rigido ginocchio destro. Annuì distrattamente come se avesse appena risposto ad una domanda mai pronunciata, e sorrise.
Jack iniziò a fremere per l’irritazione che quella situazione gli stava creando. Si umettò le labbra senza controllarsi, come quando annusava nell’aria l’odore ferroso del sangue di un innocente passante.

Decise di passare alle maniere forti.
Con uno scatto ben congeniato, balzò come un felino su Nina, che ebbe appena il tempo di tastare la sua felpa alla ricerca del coltello. Il suo cuore perse un paio di battiti per la sorpresa. Si trattenne dall’urlare per lo spavento.
Eyeless Jack le afferrò i capelli crespi e fragili, tirandoli per non lasciarla scappare, e la scaraventò sul terreno umido. Le calciò con il ginocchio lo stomaco per poi lasciarla boccheggiante, piegata in due, a premersi il ventre con entrambe le mani. Nina gemeva per il dolore e lottava per respirare profondamente. Doveva riprendere fiato e trovare le energie necessarie per contrattaccare, ma il dolore pulsante le aveva momentaneamente annebbiato i pensieri. Ringhiò come un lupo quando il suo assalitore prese a girarle attorno come un grosso predatore, e trattenne il fiato quando questi intrufolò la mano destra nella tasca della felpa, fulmineo. Quando Eyeless Jack estrasse il suo bisturi alla luce della luna cosicché lei potesse scorgerlo nitidamente, lo fece roteare pericolosamente vicino alla gola dell’altra, mentre fendeva l’aria con un sibilo.

Nina ingoiò un fastidioso groppo alla gola e lo fissò con aria di sfida, sebbene la sua testa le stesse urlando di scappare via da quel posto e da quella creatura umanoide il prima possibile e alla massima velocità. Non voleva ritrovarsi agonizzante, con la gola tagliata.
La punta affilata del bisturi graffiava minacciosamente la pelle vicino il suo orecchio sinistro e, proprio quando sentì la pressione crescere e qualcosa di caldo e lento colarle fino macchiarle i capelli neri, la sua determinazione si sciolse in una manciate di parole sconnesse.
Sibilò, guardando in cagnesco la figura svettante sopra di lei. ‘So… ‘ tossì, ‘so solo che… i corpi sono stati ritrovati trovati con lacerazioni di varia natura. Più assassini. Ma… ma non so altro. Giuro. ’

Attimi di assoluto silenzio, scanditi dal respiro regolare della creatura accanto a lei, tesissima ma risoluta, conscia di aver detto tutta la verità che sapeva. Respirò piano per evitare di graffiarsi contro il bordo affilato del bisturi. Il petto le si abbassava e alzava impercettibilmente.
Poi, con una lentezza estenuante, la compressione esercitata sulla sua giugulare andò scemando, e, con un sospiro di sollievo, puntellandosi sui talloni e sui gomiti, Nina si rimise in piedi cautamente, non osando sperimentare la velocità della sua corsa. Troppo rischioso.
Fissava astiosamente il viso della creatura, nascosto dalla maschera blu.
 Bene, qual è la tua mossa finale?
Eyeless Jack, senza rivolgerle un’occhiata di più, le diede le spalle e sparì nella foresta, lasciandola sola e con mille dubbi nella mente, mentre lo osservava allontanarsi in rapide falcate.
Sospirò.
 
 
 
 
 
 
 
 


Angolo Autrice
Innanzitutto chiedo tremila volte (tremila? Ma che dico? Diecimila e infinite volte!) perdono per il mega ritardo che sono riuscita (coffcoff- come sempre –coffcoff) ad accumulare. Il punto è che essere siciliana e soprattutto abitando in Sicilia in piena estate, con 40 e passa gradi, ci si scioglie. Nel mio caso, ci siamo sciolti in due: io e il mio fidato computer, che ha smesso di funzionare.
Comunque, ecco il nuovo capitolo: Nina e Jackino-ino-ino si sono acchiappati e Jack ha una pista in più da seguire. Duecento vittime? Ma quanti sono questi nemici?!
E’ quello che si starà chiedendo lui e la povera Nina in questo momento.
Ora, sperando che il mio Pc non mi abbandoni un’altra volta, ci risentiamo al prossimo capitolo!
P.S. Il fatto che il nostro cannibale preferito giochi ai videogiochi… ehm… non voglio fare spoiler. Ma servirà per come andrà la storia in seguito, quindi non l’ho messo a random! ;)
Detto questo, alla prossima e spero vi stia piacendo l’intreccio!


Made of Snow and Dreams.
 



 

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Capitolo 4
*** Alleanze inaspettate ***


Notti di noi






Alleanze inaspettate
 




L’opprimeva. L’opprimeva e basta. L’energia con cui l’Uomo Alto la stava avvolgendo la schiacciava gradualmente, senza pietà, mozzandole il respiro. Aveva disobbedito agli ordini imposti per una buona ragione – sperava che il clown accantonasse il suo risentimento nei suoi confronti per sostenere la sua causa -, ma le sue passate esperienze personali non facevano che ricordarle quanto fosse complicato intavolare una conversazione pacifica con l’Uomo Alto.
Lui, che si ostinava a fissarla con i suoi occhi inesistenti. Era arrabbiato, lo percepiva, e lei era sempre più debole per mancanza di energia. Il dialogo era la sua unica arma di distrazione.
‘Non sei contento, vero? ‘ chiese in un fievole sussurro. Abbassò il capo, lasciando che i capelli le ricadessero sugli occhi per nasconderla da quello sguardo inquisitore e disagiante. Imitò la postura di un animale sottomesso al proprio padrone in un primo e maldestro tentativo di stemperare quell’aggressività ingiustificata.
‘Dovrei? ‘ lo sentì rispondere con collera malcelata. ‘Ti avevo detto di non uscire mai dal buco che ti avevo affidato, Sally. Il tuo posto è quello. ‘
Sospirò pesantemente, si armò di coraggio per controbattere. I capelli ondeggiarono attorno al suo viso, alcune ciocche si attaccarono ai grumi di sangue sulle tempie. Lanciò un’occhiata impaurita e al tempo stesso accusatoria a Laughing Jack, pregandolo mentalmente di assisterla. Il clown ricambiò il suo sguardo implorante con indifferenza, e si accinse a scartare una caramella.
Perfetto. Perfetto! Sola, Vide con indignazione il pagliaccio dedicarle persino un sorriso di circostanza, e digrignò i denti per l’umiliazione. Come sempre.
‘Io… ‘ balbettò, mentre cercava i termini più appropriati per comunicargli il suo problema. ‘Io… Beh, sono stata costretta ad uscire. Nella casa… ‘ alzò gli occhi e finalmente fronteggiò il volto marmoreo dell’Uomo Alto, inghiottendo un fastidioso groppo alla gola. ‘… non viene più nessuno. Mi sto indebolendo, e in fretta. ‘ La luce che brillava nei suoi occhi verdi si affievolì.
‘Sei uscita dalla casa. Ti stai indebolendo anche in questo momento. ‘ replicò l’Uomo Alto. Era perfettamente immobile, rigido nella sua altezza minacciosa. Da dietro la stoffa liscia e serica dell’elegante completo nero, i rami degli alberi – o ciò che lei supponeva fossero i rami degli alberi – si torsero su loro stessi, fluttuarono a tempo di un ritmo lento e sconosciuto fino a volgere le punte affilate verso di lei.
Sally strabuzzò gli occhi, colma di timore. Indietreggiò impercettibilmente di un passo mentre occhieggiava – Non devo guardare, non devo guardare, non devo guardare! – il fogliame che danzava senza che soffiasse un solo filo di vento. S’incassò nelle spalle, si fece piccola. ‘Avevo bisogno di comunicartelo. Non uscirò mai più, lo prometto. ‘ mormorò con voce fioca, debole, inaudibile all’orecchio umano.

Ma l’Uomo Alto permeava in quell’assurdo processo. Ipotizzò persino che provasse una sorta di sadico piacere nel ferirla pubblicamente. ‘Fai bene. ‘ asserì, con voce dura e grave. ‘In caso contrario, le conseguenze per te saranno letali. ‘
Sally annuì, in religioso silenzio. L’energia che pareva volerla assorbire palpitò.
‘E noi non vogliamo creare dei martiri, giusto? ‘ s’intromise Laughing Jack. Il cambio di voce fu talmente repentino che la bambina dapprima s’irrigidì, le meningi che martellavano per lo sforzo di aver sostenuto quella sfuriata immeritata. Quando l’intensità dei colpi iniziò a dissiparsi, la voce risuonò stridula e gracchiante, a suo modo sgradevolmente melodica, terribilmente differente da quella dell’Uomo Alto. Metabolizzò il significato dell’affermazione lentamente, permettendo alla frustrazione d’impossessarsi di lei passo dopo passo. Il suo volto schiarì di una luce torva e sinistra, colma di tutte le occasioni in cui, a causa della sua fragilità, era stata costretta a seppellire il suo parere per preservare la sua incolumità. Ma in quel momento la necessità di rinfacciare premeva, premeva, premeva…
‘Possiamo concludere la questione in fretta, signori? ‘ insistette nuovamente Laughing Jack con disinvoltura, senza curarsi dell’espressione bieca e minacciosa di Sally. ‘Poi vi lasceremo in pace, voi due. ‘ indicò l’Operatore e Puppeteer, e un improvviso ghigno di eccitazione fiorì sul suo volto. ‘E potrete trucidarvi quanto vi pare e piace. Dite solo se la ragazzina è colpevole di averci sottratto i mocciosi o no. ‘

Puppeteer aveva assistito alla scena chiuso nel suo mutismo. Aveva osservato la bambina oggetto di accuse e minacce, e una naturale comprensione lo aveva pervaso di solidarietà e tenerezza verso di lei. Accennò un graduale avvicinamento per non spaventarla ulteriormente – non gli era sfuggito il costante brillare dei suoi occhi verdi. Aveva capito al volo. – e permise ai filamenti dorati, ancorati ai suoi polpastrelli, di dirigersi verso la sua protetta.
 Contemplò i denti da squalo del pagliaccio monocromatico con tenue disprezzo, per poi rivolgere tutta la sua attenzione al suo nemico principale. Snocciolò i termini adatti da utilizzare con cura maniacale, deciso ad evitare un peggioramento della situazione e scongiurare lo scontro – reso comunque inutile e impraticabile dalla venuta di Sally e del clown – venturo. ‘Su, non prendetevela con questa bambina. Avrà disubbidito, certo, ma le minacce sono esagerate. Ed è alquanto improbabile che sia stata lei, una creatura di natura remissiva e plagiabile, ad aver commesso un crimine di tal portata nei nostri confronti. ‘

Silenzio. Sally squadrò il suo difensore con autentica sorpresa e sul viso le si dipinse un debole sorriso di riconoscenza. Le iridi si placarono e accolsero la dolcezza dello sguardo caldo e dorato di Puppeteer. L’Uomo Alto tacque per un istante che sembrò eterno. La tensione era palpabile.
Jane trattenne il fiato e, istintivamente, coprì la fenditura della maschera, laddove si trovava la bocca, con la mano. Le reazioni della Creatura in smoking erano sempre imprevedibili.
 
 


Strinse la sciarpa in un nodo così stretto da impedirgli la respirazione. Non gli importava se doveva sforzarsi per deglutire la saliva o se le vie respiratorie reclamavano l’ossigeno… lui doveva stringere sempre, altrimenti sarebbe caduto a pezzi.
Ecco il motivo del nodo scorsoio. Ecco il motivo del lungo cappotto pieno di stringhe, cinture e cerniere allacciate tra loro in una fitta ragnatela, degli stivali alti fino alle ginocchia, della camicia stirata per poter far scivolare i lembi inferiori nell’incavo tra il bordo dei pantaloni e la sua pelle. Il suo intero corpo soffriva le cicatrici di vecchia data – amava considerarle i suoi segni preferiti di vittoria – e i polsi, i piedi, il collo e il ventre piatto erano segnati dagli aloni rossastri e da tanti, tanti lividi. Non che gli dispiacesse più di tanto, il sacrificio della sua bellezza quando lui non era mai stato un estimatore dell’estetica moderna; anzi, non gli importava decisamente niente. Erano anni che non si specchiava per controllare la sua figura. Quelle erano le regolarità superate.
Non ricordava nemmeno dove avesse pescato gli abiti. Di sicuro non a casa sua, l’unica casa che avesse mai avuto, eppure… ma no, no. Certi eventi accadono per essere dimenticati.

Nelle sue passeggiate vedeva spesso le coppiette degli innamorati scambiarsi le promesse di amore eterno, i giuramenti scritti, persino i catenacci senza una chiave adatta ad aprirli – ogni volta che li contemplava silenziosamente, badando di non farsi scoprire, era costretto a sopprimere la tentazione di gettarlo a terra, il catenaccio, e calpestarlo con la violenza necessaria per far scattare il meccanismo. Il trionfo, quello vero, l’avrebbe ottenuto solo quando avrebbe consegnato con soddisfazione i frammenti metallici nella mano del fidanzato attonito, urlandogli in faccia che il loro amore eterno sarebbe terminato in seguito ad un tradimento, ad un bacio proibito da ubriachi, per una scopata con l’amante, per i problemi che il matrimonio avrebbe loro riservato. Solo allora voltava le spalle e si dileguava nel nulla, colto da un’ondata di stanchezza improvvisa.

Osservava stranito gli amici ridere a crepapelle fino a gettare il capo all’indietro, mostrando i colli bianchi e venosi, bere le birre in compagnia dell’altro, le donne a confidarsi i problemi di cuore con le confidenti più intime. S’innervosiva sempre, ma ciò che aveva realizzato consisteva nello scambio frequente di piccoli pensierini, come le collane dai ciondoli a metà per sigillare il legame, dei libri, dei vestiti.

Già, i vestiti. Aveva avuto la prova che gli amici si prestavano gli indumenti per le occasioni importanti, o, addirittura, se li regalavano. Lui non ricordava dove o chi gli avesse consegnato i suoi; di conseguenza un amico doveva necessariamente averlo. Ma dove, dove cercare se il mondo era così esteso?
Si crucciava sempre nel domandarsi se la Voce potesse essere considerata, a tutti gli effetti, un’amica o meno. Non aveva un nome ma gli parlava sempre, di continuo, persino mentre dormiva. Si congratulava con lui se commetteva una ‘buona azione’, come diceva lei, ma quando non la soddisfaceva in qualcosa, che fosse un gesto o anche un semplicissimo pensiero, ecco che imbestialiva in sproloqui di insulti, anche degradanti. Poi si scusava – succedeva di rado, negli intervalli di tempo tra la catena di offese gratuite e gli appellativi affettuosi, ed era un momento bizzarro: gli ansimava pesantemente nelle orecchie, come se l’amica fosse improvvisamente esausta… o come se il suo corpo fosse appena esploso in un soddisfacente orgasmo. Strano. Ma rimaneva attonito quando si scrollava di dosso il cappotto e scopriva che il suo petto affannava e tremolava, stordito dal piacere, e lui stesso boccheggiava alla ricerca d’aria, e i boxer erano umidicci, al loro interno. – per il puro gusto di ricominciare il ciclo.

Perché gli amici regalano piacere gratuito. Come un confortante abbraccio di una madre, o il bacio appassionato di una moglie. Come un complimento indirizzato da un padre esigente, o gli occhi sereni e placidi di un avo su una fotografia. Come gli sguardi infuocati e bramosi dei fratelli.

Ehy, Liu… ci sei, Liu? Pausa finita!
 
 



Laughing Jack rise, inaspettatamente, senza preavviso, senza ragione. Guadagnò l’attenzione generale sghignazzando come una iena, passando la lunghissima lingua sui denti, senza lacerarla. Piegò la schiena di novanta gradi all’indietro, descrisse un arco perfetto senza che piegasse le ginocchia e abbassasse il bacino per aiutarsi nella contorsione. Sally si allontanò, preferendo accostarsi a Puppeteer. Persino i due proxy Ticci Toby e Zachary si scambiarono un’occhiata eloquente per indire un breve tregua, e puntarono il clown con sdegno.

‘Tre creature leggendarie, e nessuno si era accorto di avere uno spettatore – eccetto me? ‘ schernì Laughing Jack, asciugando il mento da un rivolo di saliva che gli era sgocciolato addosso. ‘Orsù, meglio presentarci per le dovute conoscenze, che dite? ‘
Il cuore di Jane mancò un battito, NO! e riprese a pompare con più irruenza di prima.
‘Chi sei? Fatti avanti! ‘ sentì dire da dietro gli alberi che la nascondevano.
Cazzo. Oh, cazzo. E ora che faccio, che faccio?!
Si accorse di avere paura. Quella sensazione primordiale che le impediva di tentare l’impossibile, un salto nel vuoto visivo e morale. L’emozione ancestrale per eccellenza, che le insegnava quanto la proteggesse la rete della razionalità. Si tastò il polso: il ritmo era aumentato ancora in modi sorprendenti, tanto che le risultò arduo contare i battiti. Aveva la gola secca e il volto infuocato dall’imbarazzo e dal terrore, e l’indecisione contribuiva al suo nervosismo.
Rifletti, Jane: se non ti mostri e tenti la fuga, ti acciufferanno lo stesso come una lepre al laccio. E’ innegabile. Ma se mostri coraggio ed esponi la tua teoria, può darsi…
‘Allora? Dobbiamo venire a prenderti? ‘proruppe in un’esclamazione infastidita Laughing Jack.
… può darsi che ti ascoltino e ti diano anche retta. Tenta, Jane. Prova!
Scandagliò il mare di erba e il tetto stellato sotto cui aveva dormito, vissuto e pianto per tanti anni. Accarezzò i fili d’erba come se fosse l’ultima volta che potesse toccarli e salutò il cielo con amore nostalgico.
E sia.
‘D’accordo, l’hai voluto tu. Ora –‘.
‘Non ce n’è bisogno. Eccomi. Sono Jane Arkensaw. ‘
 
 
Sicuramente non sarebbe mai riuscita ad evitare la ramanzina che Puppeteer le avrebbe rifilato da lì a poco. Ma era comunque divertente passare gli occhi da un volto all’altro, da un corpo all’altro con tanta libertà, per lei che era comunque umana.
Anche le uniche creature vive avevano perso ogni traccia di umanità. Seppelliti sotto strati di stoffa protettiva, maschere e cappucci, sembravano possedere un’armatura corazzata. Soltanto Puppetter e la povera bambina al suo fianco avevano conservato qualche traccia di vitalità; l’oro colato dello spettro splendeva fiero e colmo d’apprensione fraterna e amichevole, seppur annerita dalla sua nuova condizione. Sul profilo dell’altra ombra troneggiava il dolore di un’innocenza frantumata e disperata. Buffo, quanto la sofferenza colpisse quei tenui riflessi delle due creature vive e splendenti che erano state una volta. Buffo, a quanto ammontasse il prezzo dei sentimenti.
Sorrise, un sorriso dolce e amaro. Sorrise a Puppeteer, il suo amico, come se potesse indirizzargli silenziosamente le sue scuse. Anche se doveva accontentarsi di un sorriso sintetico.

Poi si riscosse. Allontanò la naturale propensione alla fuga e, anticipando qualsiasi altro tentativo da parte loro di interrogarla, squillò sicura: ‘Risparmiamo i convenevoli, okay? Probabilmente alcuni di voi avranno sentito parlare di me come “Jane the Killer”, suppongo. ‘
Puppeteer annuì lievemente, accennò un sorriso rassicurante. Il calore che il suo corpo emanava la cullò, la rasserenò.
Devo ricordarmi di ringraziarlo, una volta che avrò terminato con tutta questa storia.
‘Mi hanno definita come la nemica naturale di Jeffrey Woods, altrimenti soprannominato Jeff the Killer. ‘ continuò Jane, imperterrita. La sua mano destra, con il braccio torto all’indietro, verso la schiena, stringeva il manico del suo coltello con difficoltà, a causa del sudore crescente che le imperlava i palmi. Resisti vecchia mia, stai andando alla grande! Li stai stendendo uno ad uno, non vedi? Ed era vero. L’attenzione generale era tutta puntata su di lei; slanciandosi in un attacco ben nascosto, aveva programmato la sua difesa ad ogni puntualizzazione esterna. ‘Ed hanno ragione. Lo odio con tutta me stessa. Lo odio perché lo conosco; posso prevedere le sue azioni, anche se non sono mai riuscita ad acciuffarlo per eliminarlo definitivamente. Prima vi ho ascoltati accennare della catena di omicidi senza movente. Sono più che certa che sia lui, Jeff the Killer, il responsabile. ‘
‘Il ragazzo con il sorriso…’ mormorò la Creatura vestita di nero languidamente, come se dovesse sforzarsi di focalizzare il soggetto dell’intero discorso, sebbene per lui non comportasse difficoltà ricordarsi chi fosse il celebre Jeffrey Woods. L’aveva intravisto svariate volte nel suo spazio personale, infrangendo tutte le regole, mentre incideva le guance di svariate persone con sadico divertimento, ridendo senza controllo, come se stesse intagliando dei blocchi di cuoio.
Alle volte la sua risata era talmente acuta e incontenibile, violenta e dirompente, che la pelle delicata che collegava le labbra delle ferite facciali si lacerava per gli scatti incontrollati della mandibola. Rivoletti di sangue colavano sul mento e schizzavano sulle guance, ma lui non si fermava. Non si era mai fermato.

Jeffrey Woods. Un effimero nome per una carcassa delirante e putrefatta, eppure pericolosa quanto un mastino rabbioso. I primi tempi, quando lo aveva scovato nel suo territorio e lui si trovava nella critica fascia adolescenziale dell’età compresa tra gli 11 e i 14 anni, era talmente euforico e insolente per la sua condizione di assoluto edonismo, da aver sfidato più e più volte Tim e Toby.
Li batteva sul tempo per il puro gusto di spiarli nel momento esaltante in cui trovavano dei cadaveri già gocciolanti; stracciava i segnali d’avvertimento e, se si dimostrava particolarmente fortunato, osava sottrarre un’ascia dall’armamentario di Toby o le pillole di Masky quando questi li abbandonavano nel bosco, convinti che nessuno potesse rubarli.
E poi la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: sgozzare un bambino destinato all’Operatore in persona. Quella volta Jeff the Killer aveva tirato fin troppo la corda. L’odio tra i due si era fatto più acceso che mai.
‘Però mi sembra troppo affrettato imputare a Jeff tutte le colpe… ‘ trillò Sally, confusa e stordita. Eppure rifletteva.
‘No, no. Può essere, invece. Ha razziato da me, il ragazzo con il viso bruciato. Può essere, può essere. ‘ ribatté l’Operatore mentre frugava tra le immagini di Jeff, che si susseguivano in un nastro dalla lunghezza infinita. Lui e la sua psiche traballante, lui e i suoi deliri sul suo allievo prediletto, il suo pupillo.
Soddisfatta del risultato che stava fruttando ai suoi occhi, Jane rincarò la dose. ‘Ho la sicurezza. E’ lui l’unico, vero colpevole. E’ il mio quanto vostro nemico. Premesso questo, sottolineo che non ha alcun senso bisticciare come degli scolaretti all’asilo. ‘ Attenta, non spingere la loro pazienza troppo oltre, attenta alle parole, attenta a come ti muovi, attenta… ‘Un’alleanza sarebbe la cosa più logica da attuare, ora e subito. Stiamo perdendo tempo prezioso. ’

‘U- Un’alleanza p-per sco-scovare il r-r-ragazzino e-e uc-ucciderlo? ’ chiese incredulo Toby, senza distogliere lo sguardo dalle orbite nere di Zachary, ancora silente, paralizzato nella sua posizione di difesa e attacco coordinati.
‘Sì. ‘ rispose perentoria. ‘ E vi dirò di più: potenti come siete, la ricerca non dovrebbe risultare particolarmente gravosa e duratura. Vale la pena tentare, non credete?‘
Quando quell’assurda proposta sembrò incontrare l’approvazione di Puppeteer e l’appoggio della  Creatura con lo smoking, Jane esultò.
 
 


L’odore di sangue pulsante e vivo e viscoso gli inebriava le narici, risvegliando i sensi assopiti dall’astinenza di cibo decente.
Non sapeva dove potesse condurre il percorso che aveva deciso di seguire, eppure vari indizi gli avevano fatto presagire che la zona era abitata – motivo in più per seguire quella strada: sui tronchi degli alberi aveva staccato dei foglietti sulla cui superficie vi era stato calcato più e più volte uno strano simbolo - un cerchio con una grande ‘x’ a segnarlo. L’erba era impregnata da svariate goccioline vermiglie, un forte odore di bruciato aleggiava nell’atmosfera.
Un odore che non poteva ingannare il suo Olfatto sviluppato. Ad attenuare quella puzza tanto forte quanto acre, c’era il profumo inconfondibile del delicato e fresco sangue umano. La sua Vista, sebbene fosse l’unico senso svantaggiato e decisamente poco sviluppato rispetto agli altri quattro, gli aveva comunque permesso di intravedere due sagome girovagare attorno a quello che l’Udito aveva identificato come un grande falò.
Il tanfo di bruciaticcio diventava ad ogni passo sempre più forte mentre la puzza di carne bruciata gli sottraeva con prepotenza il piacere di sentire la fragranza profusa nell’aria che lui tanto apprezzava. Le sue mani iniziarono a formicolare, la sua testa a pulsare e la sua salivazione aumentò esponenzialmente.

Come sempre, il parassita si era risvegliato, pretendendo il suo pasto giornaliero.
Erano due maschi le vittime che continuavano, imperterrite ed ignare di chi ci fosse a osservarli, ad affidare i cadaveri alle fiamme. Quello più alto tra i due indossava un passamontagna nero e una felpa gialla; le sue movenze erano lente e calme, soppesate e controllate, contrariamente a quelle ben più brusche e scattanti del compagno con la maschera bianca e nera.
 Sono perfetti. Semplicemente perfetti. Due giovani maschi aitanti e floridi con dei corpi sani e funzionanti. Li voglio. Li voglio ora.
Erano giorni che non divorava fino alla sazietà completa ed appagante che un rene vivo e non incancrenito gli procurava. Sarebbe anche stata una vera soddisfazione combattere contro l’uomo mascherato che, in apparenza, tra i due era il più litigioso.
Ma quel dannato biglietto…

‘No.’ sussurrò Eyeless Jack, continuando a fissare i due proxy da lontano. ‘Non ora. Dopo. E se sapessero? ’
Cosa dovrebbero sapere? Ah, non ora, Jack. Non ora. Non è questo il tempo delle meditazioni dell’ultimo secondo. Fallo e basta. Il resto… dopo.
‘Sai che colui che necessita di nutrirsi di tessuti vivi sei tu? Io posso accontentarmi di un rene morto, ma… tu? Non hai niente, niente con cui ricattarmi. ‘
Risatina.
Ma davvero? Io non avrei niente con cui ricattarti? Non spazientirmi, Jack. Obbedisci e basta. Vuoi che ti ricordi cosa è successo quando hai avuto la brillante idea di sperimentare la tua – la tua, solo ed esclusivamente tua! – resistenza ad una totale e invasiva carestia?
Fallo, Jack. Altrimenti…

No… no! Non quello…
Sai cosa ti succede.
 

  
A Hoodie bastò solamente sfiorare con una punta d’allarme la nuca del compagno per ricevere la sua totale attenzione.

‘Masky, abbiamo visite. ‘
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice
Se devo essere sincera, questo capitolo non mi piace per niente. Lo odio. Mi fa schifo. Ma purtroppo era necessario per come si svolge la trama, e inoltre, dato che l’aggiornamento lo faccio una volta a settimana, ho pensato fosse meglio pubblicare qualcosa che non pubblicare nulla.
Comunque: la nostra (quanto la odio…) Jane ha proposto qualcosa che metterà i bastoni tra le ruote a Jeff. Sally, zio Slendy, i proxy, Pup (amore mio!!!) e Laughing Jack sono tutti contro di lui, come se Jane non fosse abbastanza. Aiaiaiai…
Altra cosa: ho voluto dare questa connotazione a Sally perché il prototipo di bambinella innocente che non parla MAI, dico MAI, di ciò che l’ha uccisa, non mi convince per niente. E per quanto riguarda Liu…la sua creepy non mi piace neanche molto. E non potete capire quanto abbia odiato quella Mary Sue di Susan mentre la rileggevo.
Quindi, spero che la versione di Liu vi piaccia.
Spero che vi sia piaciuto e…nulla, vi lascio qui.
Alla prossima!


Made of Snow and Dreams.


 

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Capitolo 5
*** Barriere infrante ***


Barriere infrante
 
 
 
 
 
 



Era svelto come una lepre, l’umano con la maschera.
Ma, a quanto aveva capito Eyeless Jack, era anche estremamente orgoglioso e facilmente irascibile; talmente tanto che aveva liquidato il suo compagno con il passamontagna con uno schiocco ben udibile e brusco del polso, per ammonirlo che non avrebbe tollerato alcuna sua intrusione in quella che, sembrava, si apprestava ad essere una lotta tra lui e l’essere con la maschera blu.

Meglio così, non credi? Una battaglia rende le cose ancora più appetibili ed eccitanti… li voglio. Li voglio!

‘Presto li avrai, non dubitare. ’ sibilò il cannibale, non perdendosi neanche il minimo scatto del corpo del rivale di fronte a lui, leggermente incurvato in avanti, che stringeva così saldamente la sbarra di metallo da aver fatto sbiancare le nocche di ciascuna mano.
La maschera sembrava essere divenuta improvvisamente troppo stretta, soffocante. La saliva aveva iniziato ad inondare il palato, preparatosi a gustare l’organo che la bocca avrebbe accolto tra non molto tempo - Jack ne era sicuro -, e i suoi sensi si erano amplificati due volte di più. La stanchezza, che aveva attanagliato la sua mente bisognosa del riposo dopo l’incontro con quella ragazzetta dalle guance scavate, si era dissipata, cedendo il posto ad una fame atroce e consumante e ad una scarica di adrenalina quasi insostenibile.

Ah, quel giovane uomo sarebbe stato un pasto praticamente perfetto!

‘Beh? Cosa aspetti, che tua madre ti faccia l’invito? A te la prima mossa. ’ sentì dire Eyeless Jack da sotto quella maschera bianca. Era una voce aggressiva e feroce, acuta, il tipo di tonalità che le sue orecchie mal sopportavano. Irritante e assordante.

‘Come desideri. ’

In un lampo il cannibale si gettò contro l’avversario, riuscendo quasi a sfiorare la stoffa serica dei suoi jeans consunti, prima che una fitta di dolore gli annebbiasse la vista e lo facesse retrocedere, dolorante e intento a massaggiarsi la nuca con la mano sinistra. L’altro ridacchiava sommessamente, felice di averlo colpito, dondolandosi leggermente in avanti con le ginocchia per parare e infliggere meglio i colpi che sarebbero certamente arrivati in seguito.

‘Fa male, non è vero? Lo so, lo so, lo so. Non saresti mai dovuto venire qui, tu e la schifosa melma che ti cola dal tuo schifoso muso. ’

Il verso che gli sfuggì dalle labbra di Jack assomigliava più a un ringhio che a un gemito di dolore; eppure, sebbene la voce gli avesse ordinato di rizzare la schiena immediatamente – e lui aveva obbedito senza indugiare oltre – per intimidire il nemico, quest’ultimo gli si era avvicinato pericolosamente sotto lo sguardo attento del compagno che, muto spettatore, osservava la scena senza fiatare, pur sfiorando di tanto in tanto il grilletto della pistola, pronto a correre in aiuto dell’amico in caso di necessità.
I suoi passi erano pesanti ma veloci, scattanti. Possedeva il triplo della forza posseduta dalla ragazzina deturpata, un’energia che derivava da una furia cieca e mal controllata.
Eyeless Jack capì che era giunto il momento di impugnare il manico del bisturi: la sua mano destra si intrufolò rapidamente nella tasca della felpa, fino a riconoscere il metallo – ora lucido, dato che il cannibale si era premurato di leccare le gocce di sangue che erano uscite dai graffi sulla gola della ragazza-, e fu quando la piccola arma fu visibile anche agli occhi dell’uomo, che questo scoppiò a ridere.

‘Cosa abbiamo qui? Oh, che arma insignificante, un bisturi! Cosa credi di poter fare con una cosetta del genere? ’

Jack sogghignò, rendendo la sua voce penetrante e cavernosa.

‘Ora lo vedi, cosa intendo fare…’

Con uno scatto ancor più veloce del precedente, Eyeless Jack puntò a bloccare il braccio sinistro del nemico: glielo afferrò con fermezza, senza adoperare tutta la sua forza corporea, e glielo strinse talmente tanto che l’altro, con un suono simile a un singulto, lasciò cadere la sbarra a terra.
Da sotto la maschera blu, il ghigno di Jack si allargò a dismisura per il trionfo ottenuto. Approfittando del vantaggio, calò il bisturi sulla spalla dell’uomo con decisione, e non si fermò fino a quando tutta la lametta fu affondata nelle carni dell’altro, che emise un ringhio di dolore.

‘Bastardo… tu e la tua maschera farete una brutta fine…’ sibilò con astio, con la vista offuscata dalle fitte di dolore provenienti dalla zona colpita.

‘Ma come? Non sei felice di poter combattere con me? ’ rise Jack, badando di mantenere salda la presa su entrambe le braccia. ‘Eppure prima mi sembravi così risoluto…sembravi forte. Che delusione. ’

A quelle parole seguì un istante di assoluto silenzio, scandito dai risolini derisori del cannibale e dai respiri pesanti e instabili dell’altro. Un istante in cui i due si fissarono negli occhi, per quanto le rispettive maschere potessero permetterlo. Un istante che fu spezzato bruscamente da Masky, che artigliò la gola di Jack e gliela graffiò con ferocia, per costringerlo a mollare la presa.
Un bruciore fastidioso fece digrignare i denti a Jack, e la sua rabbia aumentò a dismisura quando qualcosa di viscoso e freddo gli colò dai graffi: quando si carezzò il collo con due dita, constatò che era la stessa roba che gli fuoriusciva in continuazione dalle sue orbite oculari.
Masky riprese la sbarra con la destra, assottigliando gli occhi per l’intrusione del bisturi nella sua spalla. Azzardò a lanciare un’occhiata a Hoodie, che, silente, continuava ad osservare l’intera scena senza espressione, a braccia conserte. Eppure lui era certo per chi stesse facendo il tifo l’amico, nella sua tranquillità quasi serafica: quella stessa calma che lo contraddistingueva da tutti gli altri proxy gli permise di recuperare un po’ di lucidità e controllo, che gli servì a strappare via il bisturi e a scaraventarlo per terra.
Doveva dimostrare a lui e a Hoodie - e a Mr. Rogers, il codardo! - che il posto d’onore a fianco di Slenderman gli apparteneva e gli era sempre appartenuto, nonostante l’intrusione di quell’inutile vigliacco balbettante. Doveva riguadagnarsi la stima di Hoodie. Doveva vincere lo scontro e cacciare quella creatura dal loro territorio, impedendogli di proferire parola.

Per Jack, invece, era una vendetta.
Il fatto che il lezzo di carne umana bruciata fosse così forte, lo aveva indotto a convincersi che i responsabili di tutto fossero loro. La pira di corpi, ammassati senza un ordine ben preciso, accanto al falò, per lui erano già una prova sufficiente: erano loro che gli stavano trucidando le vittime!
Oh, e magari il bigliettino trovato era solo un metodo per depistare i sospetti. Magari lo avevano messo loro nella schiena di quel viso anonimo insanguinato.
Bene, la sua ricerca era finita!

Quando Masky lo attaccò, sollevando la sbarra con entrambe le braccia, Jack scivolò verso destra, eccitato dal sentore che la ferita inferta all’altro continuava ad emanare, e, scostando di poco la maschera - il tanto che bastava per scoprire la bocca -, azzannò il medesimo squarcio.
Una scarica di dolore dieci volte più intensa della precedente paralizzò il proxy, rendendolo inabile nello sferrare un contrattacco; il sangue zampillò dai lembi di pelle aperti e maciullati dalle zanne del cannibale dietro di lui che, intanto, avendo sentito quel sapore tanto bramato, aveva socchiuso le palpebre per il piacere improvviso.
Sentendo il compagno gridare in quel modo, Hoodie si riscosse e puntò la pistola contro quella creatura, ma quando si avvicinò al suo obbiettivo per assicurarsi di non ferire Masky in nessun modo, quest’ultimo gli rivolse uno sguardo intriso di furore e odio: era sicuro che il suo vero volto fosse pallido per lo sforzo e per il sangue perso - che gli imbrattava la giacca lentamente -, ed era altrettanto sicuro che stesse boccheggiando disperatamente per incamerare aria e resistere a quel dolore. Eppure, continuava ostinatamente a non volergli permettere di aiutarlo.
Le braccia di Jack avvolsero entrambi gli arti di Masky e, impiegando stavolta tutta la sua forza, torse quello sinistro.
Masky spalancò entrambi gli occhi e gridò quando l’osso si fratturò, e, in un ultimo tentativo di scrollarsi di dosso il nemico, si girò di scatto, battendo la schiena più e più volte contro il tronco dell’albero più vicino.
I colpi di certo non erano molto forti, visto che le sue energie andavano ad esaurirsi velocemente, eppure bastarono a far perdere la presa del cannibale sulla sua schiena e sulla sua spalla sanguinolenta, facendolo cadere per terra.
Sforzandosi ulteriormente, Masky si abbassò per riafferrare la sua arma e, velocissimo, colpì Eyeless Jack una, due, tre volte, con tutta la forza che aveva.
E fu un attimo. Quando l’estremità della sbarra infierì per la quarta volta il collo e il viso di Jack, si udì uno scricchiolio, seguito da un ringhio: la maschera blu si era rotta nella parte inferiore, mostrando la pelle grigia - segnata con due striature nere da una sostanza indefinibile - e dei denti acuminati e rossastri per il sangue da poco gustato.
Le mani di Jack si arrampicarono come ragni sul collo e poi sul viso per metà scoperto. Le labbra si torsero in una smorfia di stupore e rabbia e, quando la sostanza nera colò anche sul collo e sulla felpa, Masky rimase talmente attonito da non riuscire a infliggere dei colpi ulteriori.
Jack non ci credeva, non voleva crederci: quel bastardo gli aveva davvero rovinato la maschera cosicché il suo volto fosse visibile a chiunque lo avesse visto? Come… come aveva osato! Come… poteva essere rimessa apposto? Come

Vuoi aspettare davvero un secondo di più? Sei davvero così patetico da non riuscire a battere un umano? E tutte le persone che hai ucciso fino ad ora, eh, cosa penserebbero se vedessero il tuo volto vero? Eh? Cosa urlerebbero, cosa griderebbero, dove scapperebbero? Sei un mostro! Non sei umano!

Chernobog!

Hai avuto pietà per questo umano, ed ecco il risultato. Ora tutti scapperanno da te. Sei destinato a morire! Sei destinato a diventare l’oggetto preferito degli esperimenti per gli scienziati! Sei destinato a restare solo, senza neanche un amico, per colpa del tuo aspetto ributtante!

Vieni, grande Signore Chernobog!

Se non avessi avuto pietà verso di lui, ora non ti ritroveresti con la maschera rotta. Guardalo, guarda come ti sta fissando! Sei un mostro. Lo sta vedendo fin troppo chiaramente. Ti disprezza. Ti vuole uccidere. E tu vuoi permetterglielo? Tu, proprio tu? Se lo eliminassi, avresti un’occasione in più per provare a farti almeno un amico umano, uno che non ti giudichi. Guardalo, guardalo! E’ disgustato!

Chernobog, vieni! Vieni! Vieni! Grande Signore Chernobog! Vieni!

Sei più debole, non trovi? Sei già un mostro, e sei pure debole. Non credi sia giunto il momento

Masky si ritrovò sbattuto a terra e con Jack sulla sua schiena, mentre irrigidiva le dita di entrambe le mani e le puntava all’altezza dei suoi reni, incurante dei gemiti di paura e di sofferenza dell’altro, che continuava a dimenarsi senza successo.

di fargliela pagare, per quello che ti ha fatto? Non credi sia giunto il momento di

‘No, fermo! ’

di tirargli fuori i reni, e divorarli? Diverresti sicuramente più forte, e potresti ricominciare da zero. Senza nessuno a vederti, ad additarti, a giudicarti, ad accusarti.

Hoodie agguantò i capelli di Jack con violenza, come se li volesse strappare, e puntò la canna della sua pistola contro la sua tempia.
Eyeless Jack si fermò.

‘Lascialo stare. O ti trasformo il cervello in poltiglia. ’

Hoodie era pronto a sparare, non si sarebbe fatto problemi. Aveva permesso a Masky di sfruttare l’occasione per incollare i pezzi del suo stupido orgoglio, aveva resistito all’istinto di correre ad aiutarlo quando ne aveva l’occasione, ma non avrebbe permesso all’amico di scegliere una fine così insensata per sputare fuori la sua frustrazione.
Non gli avrebbe permesso di lasciarlo solo, con Toby e il loro capo.
Non gli avrebbe permesso di abbandonarlo.
 
Lo vedi? Lo vedi? Hai sprecato tempo. Sei inutile! Sei inutile anche per quello che sei! Non servi a nulla, non vali nulla! E ora, che intenzioni hai? Vuoi farti uccidere, eh? Sai il male che ti farà uno di quei proiettili conficcati nel cranio? Eh? Eh?
Scappa via. Corri. Salvati. Ho bisogno di te, sei il mio servo. Sei il mio ospite. Sei il mio involucro. Ora alzati e corri.


E fu ciò che Eyeless Jack fece.
 
 
 
 
 
 
 
Avevano scoperto l’esistenza di quel piccolo casolare abbandonato tempo prima, quando lui non aveva dato loro alcuna mansione da svolgere. Camminavano senza una meta ben precisa, osservando le fronde degli alberi altissimi, finché quel paesaggio infinito non era stato interrotto da un cumulo di mattoni, qualche sbarra in legno e qualche tegola a fungere da soffitto.
Era un valido rifugio contro il freddo invernale, ma i due proxy lo utilizzavano per conservare gli oggetti trovati addosso alle vittime: portafogli, banconote, spiccioli, anelli, collane, giubbotti ancora utilizzabili, bende e tanto altro; inoltre il luogo era perfetto per riposarsi senza essere disturbati, soli con i propri pensieri.
Entrambi i proxy erano accovacciati contro una delle pareti. Masky era riverso sul pavimento, con la schiena e la nuca appoggiati su un logoro materasso trovato chissà dove, e Hoody era rannicchiato al suo fianco, intento a bendargli la spalla e a immobilizzargli l’arto rotto.

‘Ma che bravo, Brian. Bendami pure il braccio, così quando Slenderman mi vede impossibilitato a compiere il mio dovere, mi uccide all’istante. ’

Brian gli rispose con uno sbuffo, osservandogli finalmente il volto scoperto. Erano rare le occasioni in cui entrambi potevano togliersi la maschera e il passamontagna e potevano trovare conforto anche nel semplice contatto con gli occhi, senza alcun impedimento.
Ed era piacevole vedere il volto di Tim stanco, arresosi alla semplice evidenza dei fatti. Era umano, aveva un limite, e sforzarsi di superarli nel modo che faceva lui era solo folle, insensato. O almeno così la vedeva lui, che continuava imperterrito a fasciare la spalla, il braccio e parte del busto del compagno con delicatezza.

‘Non ti preoccupare per lui. Tratta bene Toby quando sta male, lo lascia in pace quando non può muoversi, e vedrai che farà lo stesso con te. Ci parlerò io. ’

‘Dovrei ringraziarti, mammina? ’ sbuffò Tim, con una nota di divertimento e arrendevolezza negli occhi e un sorrisetto ad addolcirgli i tratti.

Brian sorrise di rimando. ‘Sì, dovresti. Come dovresti evitare di parlare più del dovuto con Slenderman, evitare di provocare Toby e me, evitare di cacciarti in guai seri come è successo oggi con quella creatura. Hai preso le pillole, piuttosto? ’

Tim socchiuse le palpebre e annuì, guardando un punto indefinito del soffitto in assoluto silenzio, cercando di godersi il momento.
Una volta terminato il lavoro, Brian si adagiò contro lo stesso materasso su cui riposava il compagno e chiuse gli occhi, provando piacere nel percepire i respiri - ora calmi, rilassati, profondi - di Tim sul collo, e rilassandosi in uno dei loro rari momenti di serenità.

In quel momento non erano più Masky e Hoodie.

Erano solo Tim e Brian.
 
 
 
 
 
 
 
 


Ce l’ho fattaaaaaaaa!!!!!!!
Orsù dunque: al nostro povero Jack è andata male stavolta, e solo per l’intervento disperato di Hoodie, che copre le spalle al suo boy in ogni.maledetta.occasione.  E fa anche bene!            
E’ andata di lusso - relativamente - anche al nostro povero Tim, che ha avuto la geniale idea di sfidare chi? Ma Eyeless Jack, che ha la forza di un demone! E che ha avuto la genialata di far arrabbiare!
E non sapete quanto mi sia dovuta trattenere nello scrivere l’ultima scena, così coffcoff- intima- coffcoff tra i nostri proxietti adorabili. Ma poi mi sono detta: ‘Ma no, Snow, quelle scene verranno più avanti! Intanto, friendzone a palate, che dici? ’
Quindi ecco qui.
Scusate se non ho avuto il tempo di rispondere alle vostre recensioni, provvederò subito!
Spero che la storia vi stia intrigando (e vi garantisco che E. J. sarà… leggermente furioso nel prossimo capitolo, causa maschera distrutta e incontro con… mmm. Lo dico o non lo dico? Anzi! Indovinate voi! Ha un olfatto molto sviluppato visto che la sua vista è scarsa - o al meno così l’ho interpretato io -, quindi, dato che gli umani hanno di regola un odore… a voi le conclusioni in merito.) e ci vediamo al prossimo capitolo!
Alla prossima!
 

Made of Snow and Dreams.
 

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Capitolo 6
*** Una nuova pista ***


Una nuova pista
 
 
 
 

Avvertenze: in questo capitolo qualcuno di nostra conoscenza farà un abbondante uso di parolacce, e le userà per offendere qualcun altro toccando tasti e argomenti che magari potrebbero urtare la vostra sensibilità. Siete stati avvertiti.
 
 
 
 
 




Un urlo squarciò il silenzio.
Passi frettolosi ma pesanti, ansiti intervallati da grida di furore, odio e disperazione.
Eyeless Jack fissava ostinatamente con astio il cielo notturno senza il familiare cappuccio ad ombreggiargli la fronte, senza la maschera a nascondergli il volto.
Era una sensazione liberatoria che lo faceva sentire più leggero, come se la sua schiena per anni avesse dovuto reggere un fardello troppo pesante da sostenere: il sollievo di poter voltare il volto a destra e a sinistra, sentendo l’aria schiaffeggiargli la pelle, era una sensazione che aveva dimenticato, costretta ad essere accantonata dai lacci troppo stretti della maschera blu.
Quella stessa cortina giaceva sui entrambi i palmi delle sue mani, con la parte inferiore quasi completamente distrutta. Il colpo ricevuto da quel bastardo - che non meritava niente - era stato sufficientemente forte da ridurla in frammenti e schegge taglienti, alcune delle quali macchiate di nero. E questo lui non poteva sopportarlo!
Lui, che aveva sempre riposto tutte le sue speranze di poter avvicinare, una volta tanto, un ragazzo con l’intento di farselo amico, nella maschera. Lui, che aveva sempre contato di poter celare la propria figura nell’anonimato, confondendosi con l’oscurità amica il più possibile

(Lui, che per i primi tempi di forzata ‘convivenza’ aveva odiato il buio che era calato sui suoi occhi, e che si era sforzato di accettare solo con il tempo; solo allora, pensando di averlo piegato alla propria volontà e di averlo reso docile e remissivo come un cagnolino, il parassita si era degnato di restituirgli una piccola parte della sua facoltà di vedere.)

per non destare sospetti sulla sua natura, per non voler spaventare nessuno più dello stretto necessario.

Lui, che aveva permesso alla sua vita e a se stesso di divenire dipendente da quella protezione di plastica.

Lui, che poteva solo affidare alla notte quasi terminata le sue grida di dolore e frustrazione.

‘La mia maschera… quel bastardo mi ha rotto la maschera! ’ seguitava a ripetere come in un’assurda litania, come se godesse dell’orrore che provava nel non riuscire a staccare le sue orbite oculari da quei frantumi colorati, come se rivivere quel momento e sentire quello scricchiolio potesse donargli la forza necessaria per dimenticare i lividi e i dolori corporei che quella lotta gli aveva procurato.

‘Mi ha rotto la maschera… mi ha rotto la maschera… mi ha rotto la maschera…’

E si fermò nuovamente nel bel mezzo della foresta, rivolgendo il viso al cielo che iniziava a decolorarsi e ruggendo senza curarsi dell’eventualità di poter essere sentito. Sputò fuori tutta la sua prostrazione, il suo avvilimento e la sua delusione e il suo sentirsi un emerito idiota, sebbene possedesse una potenza che nessuno poteva eguagliare.
Una potenza che non lo avrebbe mai reso lontanamente simile a quello che era una volta.

‘Perché? Perché proprio a me? ’ sussurrò disperato, stringendo i pugni e sentendo le schegge graffiargli i polpastrelli. ‘Perché, nonostante tutti i miei tentativi, nessuno si accorge che questa vita non è ciò che desidero? ’

Deviò lentamente verso destra, come se si sentisse improvvisamente fiacco, e appoggiò la schiena contro il tronco nodoso di una quercia. Socchiuse le palpebre.

‘Perché nessuno capisce che l’unica cosa che voglio è un amico? Qualcuno che possa insegnarmi a ricordare come ci si sente ad essere umano, a scherzare e a ridere, incuranti dei pericoli del mondo e sentendosi invincibili perché non si è più soli… Ma nessuno capisce. ’

Mai, come in quel momento, il peso della solitudine sembrava tanto opprimente; mai, come in quel momento, la voglia di afferrare l’oggetto dei suoi sogni sembrava tanto irrefrenabile; mai, come in quel momento, il riaprire le palpebre e affrontare la dura realtà dei fatti lo aveva gettato nello sconforto più assoluto.

‘Nessuno capisce perché tutti giudicano. Tutti lì, pronti ad alzare il dito e ad incriminarti per colpe non tue: divorare organi e dissetarsi con il sangue che li impregna, è forse la vita che avevo scelto per me? Uccidere i bambini, le donne e gli uomini per pura fame e non per divertimento, non è una ragione adeguata per giustificare le mie azioni? E… oh, sbaglio o sono stati sempre loro a costringermi a una tortura del genere con quel maledetto rituale? ’

Risentimento, nostalgia; vendetta, rancore e indignazione per quel peccato mai punito.
Un errore vivente che aveva preso le sue spoglie, e che lui aveva avuto l’obbligo di incarnare.

‘Non ho mai chiesto nulla. Non ho mai detto nulla. A chi dovrei porgere le mie scuse se non c’è nessuno pronto ad accettarle? E perché dovrei chiedere perdono e comprensione se la causa di tutto è stata solo il loro credo deviante? ’

Strinse più forte i pugni fino a sentire quello scricchiolio divenire più forte, fino a ferirsi le dita per sentirle bruciare. Eppure, quel bruciore fastidioso placò quel turbine di emozioni violente con la linfa a scorrergli sulla pelle; il suo tono di voce si abbassò ancora di più, finché diventò un inaudibile sibilo confuso dal confortante canto delle fronte degli alberi, mosse dalla brezza.

‘E perché devo condannare me stesso in questa vita, nell’eterno castigo di non essere accettato dagli stessi colpevoli, se sono innocente? Se l’appagamento che riesco a cogliere è il risultato dei miei pasti, allora così sia. Se è l’unico piacere che quest’esistenza mi offre, allora adempirò al mio dovere. Senza riguardi per nessuno. Senza permettere che nessuno intralci il mio cammino. Senza che ci siano sopravvissuti. ‘

A quell’ultima frase, Eyeless Jack accennò un debole sorriso di rassegnazione: forse neanche la maschera infranta era un fatto così negativo, dopo tutto: se il destino di tutti sarebbe stato morire proprio a causa del suo essere superiore, allora perché sprecare il proprio tempo nel risparmiar loro la paura di vedere il suo viso?

Nessuno meritava nulla.

Tu non meriti il paradiso… nessuno di voi lo merita…

Nessuno si sarebbe salvato. Li avrebbe uccisi nei modi più brutali; avrebbe scatenato la fantasia, avrebbe lasciato che il parassita ingoiasse gli ultimi brandelli di umanità che gli restavano, avrebbe spento la mente. Basta con i videogiochi, basta con i tentati, amichevoli approcci. Basta.

Tu non meriti il paradiso… nessuno di voi lo merita…

Quando il cannibale si alzò, sforzandosi di gustare quello che definiva ‘un riscatto ’, non era il solo a ridere.
 
 
 
 
Sally esultò quando lo intravide tra gli alberi.
Poteva contare il numero di volte che aveva avuto l’occasione di scorgerne i tratti sulle dita della mano, ma, essendo diventata qualcos’altro rispetto al fragile ammasso di carne e sangue che era prima, quei nitidi fotogrammi - che aveva avuto cura di imprimersi nella testa per memorizzare l’aspetto del killer – ora le comparivano davanti agli occhi, annullando ogni traccia di dubbio.
La figura del ragazzo era rimasta invariata: a testa bassa, camminava con un’andatura lenta, languida e allo stesso tempo ciondolante, con i restanti capelli bruciati a nascondere le profonde lacerazioni; teneva le mani accuratamente celate nelle tasche della felpa bianca, e la bambina immaginò con un leggero ghigno che stesse in realtà tenendo il coltello.
Ah, che gioia avrebbe provato nel dimostrare agli altri che era stata la prima a scovarlo! Lei, un debolissimo spirito, abbastanza forte da aver catturato il famoso Jeff the Killer, talmente celebre per la sua abilità nel disperdere le proprie tracce da aver dato del filo da torcere perfino all’uomo alto!
Chissà, magari dimostrando di cosa era capace, gli altri l’avrebbero lasciata in pace e avrebbero smesso di trattarla sempre con un’inferiorità tale da farla sentire come perennemente stretta tra le braccia soffocanti dello zio Johnny. Magari le avrebbero riservato una riserva più grande per i suoi giochi con gli amici che la venivano a trovare e che finivano per giocare con lei per sempre! Magari le sue forze col tempo sarebbero accresciute talmente tanto che, un giorno, sarebbe stata in grado di fronteggiare anche l’uomo con i tentacoli sulla schiena, o magari il pagliaccio bianco e nero!
Immaginare tutte quelle possibilità la fece ridacchiare e le fece illuminare gli occhi verdi, in quel momento simili a dei fari; quel suono così squillante e acuto, misto a quel bagliore verdastro che aveva illuminato per qualche secondo lo spazio attorno a lei, fece voltare Jeff. No, non era proprio cambiato il brutto muso del ragazzo. Anzi, sembrava essere addirittura peggiorato: la zona di pelle che attorniava le due cicatrici rosse, lucide e viscide come le squame di un serpente, era arrossata. Probabilmente si era riaperto le ferite da poco, facendo sfociare ulteriore sangue a quello già versato prima.
 

Era solo un bene che avesse trovato degli alleati che la coadiuvassero nella sua eterna caccia. Il suo animo -  inquieto da anni - si era leggermente tranquillizzato alla prospettiva di poter ottenere l’ambito trofeo su cui poter sfogare le sue vendette, e di certo il piano non avrebbe fallito con l’aiuto di quelle entità così potenti.
Perfino l’impeto che generalmente trasmetteva alla sua andatura si era attenuato, e il fruscio morbido dei suoi piedi, immersi nelle foglie secche del bosco, aveva contribuito a quella sensazione così magica e distensiva; si era perfino concessa qualche secondo in più per ammirare le sfumature rosate dell’aurora nascente, quel colore meraviglioso che avrebbe voluto contemplare senza quei colori così tetri a intristirle l’animo: il candore immacolato e così perfetto, troppo perfetto, della maschera, a contrastare con la malinconica finezza dell’abito nero e della parrucca. Un’eccellenza, nella sua immagine, talmente studiata da averla resa simile a un’inquietante bambola ad altezza d’uomo, una macchina umana con un solo scopo nella vita.
 




‘Che cazzo…’

 Lo sguardo di Sally si rabbuiò quanto vide la scintilla del pericolo in quegli occhi chiari; conscia di non star correndo alcun pericolo di essere trafitta o ferita da quell’arma letale, accennò ad avanzare di un passo.

‘Ciao, Jeff. Immagino che non ti ricorderai di me, vero? Sono Sally, la b…’

‘Certo che mi ricordo. Quale schifoso essere potrebbe scordarsi di una mocciosa brutta come te? ’ disse Jeff, squadrandola dall’alto in basso con aria di sdegno, modificando il suo usuale tono aggressivo per renderlo annoiato e beffardo nei confronti dello spirito.
Quelle parole non piacquero a Sally. Perché tutti dovevano ricordarle, in un modo o nell’altro, che doveva pagare per essere piccola e non possedere la forza necessaria per difendersi?
Strinse la presa delle manine livide sulla pelliccia sintetica dell’orsacchiotto, cercando di trattenersi dall’irresistibile istinto di attaccare l’altro senza rifletterci due volte.

‘Esatto, sono io. Sai perché sono qui? ’

‘Sentiamo. Anche se sarai venuta per chiedermi di darti il biberon, giusto, microbo? ’

‘Smettila. Nel caso che non te ne fossi accorto, e ne sono certa perché sei troppo stupido, ci sono alcuni miei amici che ti vogliono morto. ’

Anche se i tagli sulle guance di Jeff erano stati fatti apposta per far assomigliare la bocca a un grande ghigno, Sally fu sicura che Jeff stesse ridacchiando lo stesso, reputandosi più forte di lei. Ah, ma lui non sapeva, non poteva sapere…

‘E sentiamo, chi cazzo sono questi tuoi amici? No, non dirmelo! Sono sicuramente altri cazzo di peluche. Ma chi credi di impaurire, che sei talmente debole che ti hanno anche ammazzata? ’

Gli occhi della bambina si sgranarono e i denti digrignarono tra loro.
Un gelo improvviso avvolse il corpo del killer, che però ignorò quel brusco cambiamento di temperatura senza darsi troppe spiegazioni, mentre continuava a deridere il fantasma di fronte a lui. No, non aveva paura di un insetto così insignificante come lei, visto che era riuscito a scontrarsi con esseri molto più forti come lo stronzo con lo smoking.

‘E ti dirò di più! Forse ti sarai voluta fare uccidere… sei stata violentata, hai detto. Che puttanella che sei! Hai lasciato che tuo zio te lo infilasse dentro senza problemi, e sei morta come dovrebbero crepare tutte le donne. Quindi sei debole, oltre che essere puttana! ’


Eppure c’era una strana risonanza che accompagnava il suo cammino; erano dei leggeri tonfi, come se qualcuno stesse correndo pestando i piedi e scaricando sul terreno tutto il peso del proprio corpo.
Quando la sensazione di essere osservata la congelò sul posto, si girò fulmineamente. Tuttavia, con sua grande delusione – e un po’ di sollievo - constatò che non c’era nessuno a trapassarle il corpo da parte a parte con la sola vista.
'Calmati, è solo la tua immaginazione! 'sussurrò lievemente, tornando sui suoi passi.




Si muoveva ad una velocità impressionante, e i suoi scatti erano talmente fulminei che non solo sembrava non toccasse la terra con i piedi, ma che fluttuasse anche. Il freddo si era fatto più intenso, ed era uno di quei climi che l’inverno portava con sé: il gelo più freddo, quello che fa perdere all’epidermide ogni sensibilità e la rovina facendola screpolare e lasciandola a chiazze violacee; quel gelo che intirizzisce i muscoli e penetra fino alle ossa, quello che sfonda ogni sistema difensivo, quello tipico dei cadaveri lasciati abbandonati da tempo al loro destino.
Combattere normalmente in quelle condizioni era già difficile, ma dover subire un attacco non solo fisico ma psicologico, era mille volte peggio: ritrovarsi per terra, con quella mano cadaverica ad artigliare il suo bellissimo viso, ad essere costretto a fissare la bocca deformata della bambina mostruosa da una smorfia di disgusto e sforzo… un corpo che lo inchiodava a terra, come se fosse diventato dieci volte più pesante del normale, un corpo che trasudava scie infinite di sangue da pori invisibili e da ferite mai cicatrizzabili.
Le orecchie gli fischiavano come mai era successo in presenza del damerino senza faccia, la testa aveva iniziato a girargli e a fargli male, come se fosse stata posizionata sotto un torchio e compressa per mezzo di una leva. Era come se un paio di mani gli stessero comprimendo il cervello, fino a volerlo distruggere sotto il peso di quella forza. E aveva freddo, aveva così dannatamente freddo…


Quando si girò una seconda volta per controllarsi le spalle e notare che era realmente sola, pensò che probabilmente era affaticata e avrebbe dovuto riposarsi da qualche parte per poi riprendere la caccia dopo. Stava per esaminare l’ultimo albero su cui si era appoggiata per cercare un posto comodo, quando qualcosa si gettò sulla sua schiena con un vigore e una violenza tali da farla cadere per terra.


Troppo, era semplicemente troppo!
Un turbinio troppo violento, un accavallarsi totalmente illogico di pensieri, sensazioni e immagini. Era difficile oltrepassarli, forse fin troppo: tutte quelle sferzate di follia parevano bloccarle la strada per formare una muraglia difensiva e invalicabile. Ed erano innumerevoli le sverzate di vento che la accoltellavano, mentre cercava di avanzare a passo chino per placare quella volontà così incrollabile come quel muro e quegli impulsi provocati da quei ricordi indelebili: vide Jeff in età adolescenziale con un altro ragazzo che gli assomigliava, un ragazzo con i capelli scuri come l’ebano e gli occhi verdi; vide un gruppo di tre bulletti far del male a quello che sarebbe divenuto il serial killer più famoso dell’epoca, vide macchie color cremisi e udì urla di paura e gemiti di dolore senza alcun intervallo.

E, mentre Sally raddoppiava i suoi sforzi di sottomettere Jeff, quest’ultimo strinse i denti per impedirglielo.
 
 
 
 
 
 
Oddio, troppe cose da dire…
Ma partiamo per ordine! Innanzitutto, spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Seconda cosa… volevo avvertire chi mi segue che la seconda parte (sì, questo doveva essere un unico episodio con il successivo, ma siccome sarebbe venuto troppo lungo ho deciso di tagliarlo) probabilmente sarà pubblicata un po’ in ritardo: questo perché tra pochissimi giorni parto e quindi non avrei il tempo materiale per aggiungerla. Ma non sarà un ritardo lunghissimo, garantito! ;)
Poi, la cosa più importante. Per il monologo di E.J, alla fine della sua battuta ho sottolineato più e più volte la frase e i verbi ‘meritare’, ‘nessuno di voi merita’, ecc… e la cosa è fatta apposta! Se vi ricordate, è l’ultima cosa che dice Jacky nella sua Creepypasta delle origini, e ho trovato che fosse uno dei punti chiave della sua condizione emozionale; lui considera l’intera umanità colpevole di averlo creato come figlio di Chernobog, e quindi si sente in diritto di ammazzare chi vuole. Come dargli torto?
Poi poi poi… divario tra Jeffry e Sally: spero che quella frase non sia stata troppo azzardata, ma ho pensato che Jeff non si sarebbe fato scrupoli a dirla in faccia a una bambina violentata. Successivamente Sally cosa diavolo fa? La possessione, essendo lei un fantasma, penso possa essere considerata una delle sue capacità, ma ho pensato anche che il nostro caro amico sia folle abbastanza da metterle i bastoni tra le ruote. Vai Jeff(?) e vai Sally(?) !
Okay, detto questo vi lascio al prossimo capitolo. Spero che questo vi sia piaciuto e…niente, alla prossima!
 
Made of Snow and Dreams.
 

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Capitolo 7
*** Intrusione ***


Intrusione
 
 
 
 
 
 



L’attrito tra le due forze era semplicemente troppo da sostenere.
Era schiacciante e intriso di sadica soddisfazione anche lo sguardo di ciascuno dei due; ognuno perseverava nello sfidare con gli occhi il rivale: Jeff fissava solo le iridi lattiginose di Sally, lasciando che quella mano intrusa e ostile penetrasse nella sua testa e rovistasse tra ciò che lui le permetteva di scorgere.

Occhi azzurri stralunati in quelli verdi e vitrei.

L’una che attendeva solo di assalire l’altro; quest’ultimo che denigrava la sua forza pur avvertendone gli effetti.
 Jeff non si lasciava sottomettere, era ovvio, ma d’altronde Sally stessa era sicura che, anche volendo, sfondare ogni muro difensivo di quella mente delirante sarebbe stato praticamente impossibile: quel vortice che le impediva la visuale non era solo uno scontro continuo di ricordi e suoni, registrati in frazioni di secondi in ogni momento del giorno per essere rivissuti contemporaneamente, senza dare tregua al ragazzo. No. Erano anche sbalzi di umore provocati da quegli spezzoni immortali di memorie che perpetuavano a generare quella furia cieca che caratterizzava quella psiche che, ormai, sembrava sfaldarsi da sola per il puro gusto di ricomporsi senza un rigore logico.
Era rabbia, era rancore, era risentimento, era disperazione, era la paura di risentire lo sfrigolio della pelle che si ustionava mentre il corpo giaceva sul pavimento a contorcersi e ad ululare come un animale, sotto lo sguardo morente ma soddisfatto e impaurito di un altro ragazzetto che stentava a tenere le palpebre aperte, arrossate dalla candeggina che bruciava anche le altre ferite da colluttazione che i due si erano inflitti in quel maledetto giorno.

Occhi azzurri indifferenti in quelli verdi e crudeli.

Era goduria, era piacere, era il benessere che le sue dita ghermivano con ferocia e avidità nell’affondare il coltello nella gola del malcapitato di turno, in pagamento dei suoi spasmi di strazio continui che tutti gli avevano inflitto nel non avergli creduto in quel dannato giorno, quando degli occhi smeraldini e lucidi avevano salutato quelli azzurri del fratello mentre un agente di polizia li divideva, condannando i due alla tortura più grande: la lontananza.

Occhi azzurri improvvisamente fiammeggianti in quelli verdi incuriositi.

Era il sentore di bruciato, un olezzo dolciastro che Jeff annusava nell’aria da sempre: l’odore che la sua mente si era premurata di conservare come premio delle sue fatiche, quando finalmente aveva capito che la sua vita era e doveva essere stretta solo dalle sue mani; l’odore che aveva svegliato una madre ansiosa e l’aveva congelata sul posto, ad assistere al disfacimento del corpo del figlio.

Occhi azzurri estasiati in quelli verdi indifferenti.

Era euforia e brama di potere e ulteriore estasi nell’incidersi nella testa gli strilli e i singulti soffocati dei suoi genitori, che boccheggiavano asfissiati dal loro stesso sangue: inondava loro le gole e le narici, straripava dagli squarci sui ventri e sui petti; un sangue che i due cercavano o di rimandare giù o di espellere sbuffando e tossendo. Ma Jeff non aveva dato loro il tempo di liberare le vie respiratorie, continuando a sfasciare le costole e spappolando gli organi interni, divertendosi ad acquistare un ritmo e una velocità sempre maggiori mentre rideva, piangeva, gemeva, logorava quegli ammassi di carne.

Occhi azzurri ridenti in quelli verdi inespressivi.

E poi era solo un respiro affannoso e attento nell’imprimersi quell’innocente immagine per qualche secondo, carezzandola con ciò che un tempo avrebbe definito riconoscenza e un affetto smisurato.

Occhi azzurri improvvisamente ermetici e sofferenti, a volerla estraniare da quella scena, sotto quelli verdi e assottigliati, a voler forzare la sua presenza in quella stanza. La pressione tra le forze si era fatta improvvisamente più forte che mai.

Camminando con delicatezza sul pavimento, fissando indeciso - per la prima in quella giornata, che segnava la sua morte e la sua rinascita allo stesso tempo - il volto rilassato del fratello.
Bloccando i suoi passi meccanici per concedersi un momento di più per ponderare la decisione da prendere.
Abbassando il viso in preda allo sconforto, perché rivelatasi una guerra più difficoltosa del previsto.
Ricordando ogni sfumatura della voce del fratello, e rialzando trionfante lo sguardo perché finalmente sa cosa fare e ogni cosa torna ad avere un filo logico, necessario per giustificarsi con se stesso. A sforzarsi di abbozzare un sorriso senza molto successo, perché la pelle che ha rigato si è intorpidita in certi punti e in altri pare mandare scariche di elettrizzante dolore al corpo.
Era sollievo nel poter balzare addosso al fratello, a volerlo punire per averlo indotto nella confusione –  perché le cose ora andavano secondo il loro giusto corso, e l’indecisione che aveva attanagliato Jeff nel decidere della sorte di Liu era da punire su Liu stesso, la causa prima di quella scarica di rimorso –  e a volerlo risparmiare dal destino dei loro genitori, godendosi gli occhi appannati dal sonno e poi spalancati dal terrore, godendo delle molle del letto che cigolavano sotto il peso dei due, il primo a voler compiere il suo dovere, il secondo a volersi salvare la vita.
Alla fine lo aveva lasciato agonizzante sul letto stesso, né vivo né morto. Gli aveva carezzato i capelli color ebano, impiastricciati di rosso, e gli aveva mormorato contro l’orecchio sinistro un: ‘Ci rivedremo, Liu…’, prima di voltarsi e sparire nel buio di quella notte.
Era un misto di tante cose che Sally non riuscì a comprimere: troppa intensa la volontà del suo ospite, troppa la sua follia. Troppo il disordine. Troppa la disperazione.
Poi qualcosa si ruppe; era tutto troppo più grande di lei, che non era abbastanza forte da poter prendere possesso di Jeff; quest’ultimo stringeva la mandibola e aizzava tutta la sua rabbia e la violenza contro Sally per scacciarla.
Alla fine lei cedette.
Fu come se quel continuo sfregare tra le due volontà di sottomettere e di resistere avesse generato un’esplosione, e da quell’eccesso di energia i due fossero stati sbalzati indietro.
Fu costretta a ritrarre la mano repentinamente, come se fosse ancora fatta di materia e si fosse scottata, e si accasciò sull’erba, esausta.
Quanto a Jeff, ricadde sul terriccio umido per riprendere fiato. Gli occhi gli bruciavano terribilmente – lo stesso bruciore che aveva sentito quando si era ustionato le palpebre per far cadere gli strati di epidermide sul pavimento - e la testa gli vorticava senza sosta, le orecchie ronzavano e il freddo era calato sul suo corpo come una cappa. Ansimò, poi rise, ancora disteso per terra a scrutare l’alba nascente senza realmente guardarla.

‘Non… Ah, lo vedi anche tu che non puoi fare nulla contro di me! ‘ tentò di formulare, mentre si sforzava di non gemere di fastidio per quel continuo pulsare del suo cranio.

‘La tua forza… non te ne fai nulla! ’

Sally rimase accovacciata lì dove si trovava. I capelli le erano ricaduti sul viso abbassato, creando una sorta di tenda che non permetteva a nessuno di guardarlo. Teneva entrambe le mani chiuse a pugno, talmente strette da aver fatto uscire dei piccoli fiotti di sangue dalle nocche eternamente sbucciate. Fissava senza espressione gli occhietti neri del suo peluche, abbandonato sul suo grembo. Le parole di Jeff le giunsero smorzate dal leggero vento che soffiava ad ogni alba, ovattate ma abbastanza udibili affinché una rinnovata scarica di odio e avvilimento la riscuotesse dal suo torpore misto alla stanchezza - che aveva invaso le sue membra dopo che aveva impiegato ogni sua minima energia nel poter riuscire nei suoi intenti.
Aveva fallito, come sempre. Aveva avuto la rara opportunità di poter catturare il nemico con le sue sole forze, e aveva fallito perché la sua debolezza era palese; non sarebbe mai riuscita a guadagnarsi il rispetto né tantomeno il timore delle creature con cui doveva convivere la foresta, a cominciare dall’Uomo Alto. Non sarebbe mai riuscita ad avere un territorio più grande in cui vivere serenamente, non sarebbe mai riuscita ad avere il privilegio di poter attirare lei le persone adatte a giocare, mai! Avrebbe dipeso sempre dallo Slenderman, avrebbe dovuto sempre sorbirsi le sue minacce e avrebbe dovuto sentirsi una bambina indifesa in eterno, in eterno soffocata da tutte quelle regole che le strozzavano la libertà di agire.
Una sensazione che le avrebbe fatto vivere in eterno l’essere stretta tra le braccia dello zio Johnny.
Aveva fallito per colpa di Jeff.
Aveva permesso che la sua vita potesse dipendere solo da lui e dalla riuscita del piano, e questo lei non poteva reggerlo.
Un’altra fitta di frustrazione e intolleranza sfavillò negli occhi verdi, e l’ultima cosa che Jeff vide, prima che lo spirito gli indirizzasse contro il suo stesso coltello per trapassargli da parte e parte il braccio per non farlo fuggire, fu il suo sorriso stampato sulle labbra spaccate.
Urlò.
 
 
 
 
 
 

‘Ah! ‘
L’urto fu sufficientemente violento da farle sbattere il mento sensibile e bruciato sul bordo affilato della maschera bianca e farle perdere la presa sul coltello, che si depositò sulle foglie secche del bosco ad alcuni metri di distanza da lei.
Sgranò gli occhi per la sorpresa e girò il volto di scatto, non badando al suo collo, che scricchiolò per quello scatto repentino. Quando focalizzò bene la cosa che le era balzata addosso, non credette ai suoi occhi, sebbene avesse già visto talmente tante creature al di fuori del normale che ormai pensava di aver visto tutto. Eppure, quello che aveva creduto essere un gatto selvatico o, al massimo, un cane randagio, era in realtà un ragazzo con una maschera per metà rotta che permetteva di intravedere la parte inferiore del viso, con la pelle grigia e macchiata di nero.
Mugolò per il disgusto quando percepì quel nero imbrattarle il vestito: anche attraverso la stoffa dell’abito, Jane riuscì distintamente a constatarne la viscosità e il calore, come se fosse qualcosa di vivo. Inoltre era pesante e umido, e la consistenza ricordava molto quella della colla.

‘Lasciami! ‘ soffiò, e, senza pensarci due volte, cercò di strisciare in avanti per riprendersi la lama; tuttavia, quel mostro che incombeva su di lei era così pesante da prosciugarle ogni forza e mozzarle il respiro, e a nulla servì puntellarsi con i gomiti per sfuggire a quella morsa; si affannò, divincolò le membra come un’anguilla per fargli perdere l’equilibrio, artigliò l’erba davanti a sé per guadagnare terreno, fece forza con la schiena e le gambe per darsi lo slancio necessario; eppure, quella creatura resisteva a ogni suo tentativo di liberarsi, e sembrava anzi che a ogni mossa raddoppiasse il suo peso, pur rimanendo del tutto immobile.
Poi si mosse.
Con quella che Jane identificò come impazienza e fretta, torse il busto verso destra per estrarre un piccolo bisturi. Se lo rigirò tra le mani per qualche secondo come se fosse la prima volta che ne maneggiasse uno, poi le squadrò la schiena dalle fessure intagliate nella maschera - che la ragazza suppose corrispondessero agli occhi.
Jane non aveva idea di cosa avesse intenzione di fare la creatura, e ad ogni secondo che passava si sentiva sempre più impotente e sfinita.
Non poteva finire tutto così, non poteva! Non aveva senso, non dopo tutto quello che lei aveva patito nel corso degli anni e non dopo tutti i piani che si era prefissata e che avrebbe attuato nel giorno in cui avrebbe avuto Jeff alla sua mercé, completamente esposto e completamente vulnerabile.
Aveva sognato di appiccare il fuoco addosso a lui per l’ultima volta e di fargli rivivere ogni singolo momento della sua disperazione, agitando il flacone di candeggina per ricordargli l’odore e rimembrargli il viso del suo aggressore; aveva anche pensato di colpirlo ripetutamente fino a stordirlo, per poi seppellirlo vivo in piena lucidità accanto alla tomba del fratello Liu, giusto per affondare il dito nell’unico punto debole che Jane, era sicura, penalizzava Jeff.
O magari avrebbe fatto entrambe le cose, trasformando le sue urla di dolore in musica alle sue orecchie… O magari -

‘Ah! ‘

Con orrore, la punta affilata del bisturi venne conficcata con forza proprio in mezzo alle sue scapole, oltrepassando la barriera protettiva dell’abito. Jane sgranò gli occhi e gemette di dolore, calciò l’aria dietro di lei e strappò i ciuffi di erba che i suoi palmi stringevano.
La pelle lacerata bruciava tremendamente, e la ragazza tremò di disgusto verso se stessa quando provò piacere nel sangue copioso e caldo che leniva quel dolore, desiderando che ne colasse altro per non sentire più nulla.
Il bisturi non si fermò, inesorabile: la mano che lo stringeva lo fece scivolare verso il basso, senza badare alla pelle che si squarciava come la stoffa debole di un pupazzo scucito, pronto ad essere riempito di paglia; i calci di Jane si moltiplicarono e raddoppiarono di potenza, le mani annasparono sul terreno, la vista si affievolì: fu come se un mantello nero e pieno di stelle le fosse calato davanti agli occhi, impedendole di reagire a quella tortura. Si sentiva impotente e debole ogni secondo che passava, si sentiva alla stessa stregua di un animale destinato ad essere macellato.

‘Ahhh! No… no, fermati, ti prego! ’ supplicò lei, ma la maschera tamponò quella richiesta disperata. Sembrava quasi che si fosse incollata sul suo viso e sulle sue labbra.

La creatura ignorò volutamente quelle parole: Jane percepiva il suo sguardo critico e affamato, a metà tra l’ingordigia di un predatore e la maniacale precisione di un chirurgo, trapassarle la schiena. Il bisturi continuò la sua discesa, continuò a cercare, strappare, martoriare e disegnare sulla schiena quella linea scarlatta che aveva inizio dalle scapole e sembrava avere una destinazione ben precisa.

‘Fermati. Per favore, non uccidermi. Non oggi! ’

No, non poteva finire così! Il suo sogno di tutta una vita non poteva sfumare in una manciata di secondi per colpa di quella cosa!

‘Mi hai sentita? Qualunque cosa tu sia, se devi uccidere, ammazza qualcun altro. Ma non - ah! - non me! ’

Quando il bisturi si fermò, Jane sospirò di sollievo, sebbene il suo cuore pompasse il sangue a una velocità tale che temette potesse esplodere da un momento all’altro.
Poi accadde.
La mano sfilò la lametta dalla sua pelle senza nessun riguardo, e per alcuni istanti - in cui la giovane killer credette di essere stata ascoltata – non accadde nulla; tuttavia, quando qualcosa di viscido e dieci, venti volte più ingombrante di quell’arma penetrò nella ferita, urlò a pieni polmoni.
Il dolore di prima non era niente se paragonato a quello che stava patendo in quel momento: si sentiva come fatta a brandelli, smembrata senza pietà, recisa.
Urlò e urlò, scalciò come un’indemoniata, boccheggiò, inclinò il viso verso il cielo alla disperata ricerca d’aria. L’intruso che la stava torturando era enorme e crudele, mentre carezzava con sadica soddisfazione un tendine – Jane sussultò quando si accorse di quel tocco indesiderato e violento, forse più inumano e truculento di tutti, e quando sentì il gusto salato delle lacrime sulla punta della sua lingua, tremò - e asportava un filamento scarlatto che ostacolava la sua ascesa in quelle morbide viscere; quelle dita frugavano, giocavano ed esploravano nella parte inferiore della sua schiena, scendendo sempre più in profondità. Jane credette di morire.
E proprio in un battito di ciglia, prima che Eyeless Jack potesse sfiorare il suo obbiettivo pulsante, con lo stomaco divorato dai crampi della fame, e che Jane chiudesse gli occhi in segno di resa, l’urlo di Jeff salvò la vita della ragazza.
 
 
 
 
 

Quando quel grido inumano, più simile a un latrato che a uno strillo acuto, risuonò in tutto il bosco, Laughing Jack rise.
‘Oh oh oh… sembra che ora qualcuno stia passando un brutto momentino… andiamo a goderci un po’ la scena! ’ gracchiò, lanciando un’occhiatina a Puppeteer dietro di lui, invitandolo a seguirlo.
 
 
 
 





Spazietto autrice…
Innanzitutto volevo avvertirvi che sono tornata dalle vacanze (è questa la causa del ritardo nella pubblicazione) e che da oggi in poi aggiornerò regolarmente come prima… più o meno.
Seconda cosa: Eyeless Jack che non si ferma e non si risparmia nel far soffrire Jane mi ha fatto sudare, perché sembrava davvero che non volesse farsi scrivere! E confesso che, da brava sadica, avrei voluto che il nostro amorevole cannibale non si fermasse.
Spero vi sia piaciuto il capitolo, alla prossima!
 
Made of Snow and Dreams.

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Capitolo 8
*** Sopravvivere ***


Sopravvivere
 
 
 
 
 
 

Un suono acuto, sereno e sano in quella pozza appiccicaticcia che le aveva colorato i capelli sintetici, il collo e le mani. Un suono felice quanto rigenerante e festivo: la gloria delle campane in lontananza.



Chissà, magari in qualche paesino vicino i galli si sono già svegliati e hanno iniziato a cantare per dare il benvenuto all’aurora nascente; magari qualche lavoratore mattiniero, qualche studente pendolare, qualche contadino ha udito il cinguettio degli uccelli e ha deciso di affrontare il freddo mattutino per avviarsi alla ricerca della metropoli meno lontana. E dev’essere normale, deve andare così affinché la follia non contagi nessuno!
No, no, no. Jeff è impazzito abitando in stretto contatto con quella civiltà tanto amata dalle persone normali, quindi il pericolo è costantemente in agguato.
Magari si cela sorridente dietro l’ennesimo e conosciutissimo vicolo buio, sotto le spoglie di un ragazzo innocuo e introverso, talmente disgustato dalla nuova cittadina in cui i genitori lo avevano catapultato per mere ragioni lavorative, da cercare il contatto – spalla contro spalla - con il fratello più grande. Magari si cela dietro un altro ragazzo decisamente più audace… anzi, no. Quella non è stata audacia. Era cattiveria allo stato puro. Chissà, magari anche i bulli sono pazzi, o magari sono loro i veri pazzi da eliminare, che inducono il loro morbo a strisciare silenzioso sulle schiene delle vittime, a sussurrargli seducentemente di reagire rifiutando per qualche momento – solo uno, poi passa tutto! - tutti quegli innocenti, ipocriti valori che la società inculca nella testa, per difendersi. E che dire di tutta quella libidine che il trasgredire provoca?
Combattere a mani nude, il tentennare per un briciolo di secondo perché ci si sente in colpa e insicuri di quella disobbedienza – ah, noi poveri figli della Madre società - per poi essere definitivamente convinti dal pericolo stesso. O forse da qualche pugno improvviso sul volto.
E’ il trasgredire alle regole che riduce allo stato animalesco, un gioco di sguardi accessi di fuoco e di rabbia e di attacchi e difese mal preparate. Perché è tutto per la prima e unica volta, si crede. Si crede, perché poi tutto torna, il morbo lascia dei brividi di piacere troppo potenti per essere ignorati e soppressi. Quindi, tutta colpa dei bulli e di Jeff, perché è un misto dei due.
Jeffrey Woods, che si è lasciato sedurre per tante volte dal demone e ci si è pure abbandonato tra le braccia, indifeso come un neonato a quelle avances troppo allettanti da non poter essere prese in considerazione. Jeffrey Woods, che è diventato quello che è: un demone egli stesso, un mostro.
Un concentrato di tutte le paure, un errore della natura, un’anomalia della realtà, che funziona e deve funzionare puntualmente come le lancette di un orologio. Il tempo scandisce tutto.
Il tempo che tace, il tempo che ha taciuto quando Jeff piombò in quel maledetto vicinato in quel maledetto giorno.
Il tempo che ha taciuto quando ho assistito a quello scontro fatidico e più violento di quanto mi aspettassi – quanto è forte il richiamo anche nelle menti dei comuni tredicenni? -, quando io, che osservavo tutto affacciata alla finestra, pregavo che fosse solo una comune rissa come se ne vedono in giro, una che viene presto archiviata e poi dimenticata. Il tempo che ha taciuto quando Jeff mi tese quella trappola, o, per meglio dire, mi invitò ad abbassarmi al suo stesso stato pugnalandomi dritta al cuore, costringendomi a guardare i visi dei miei cari deturpati. Così tanto deturpati… stentavo a riconoscerli.
Il tempo che ha smesso di esistere da quando sono fuggita dall’ospedale in cui tutti mi lanciavano delle fugaci occhiate pietose, ferendomi con i loro volti tristi e i loro tentativi di rallegrarmi il morale, magari blaterando – Dio, quanto li ho odiati! - sulle mie aspettative future di vita. Il tempo che ha smesso di esistere quando sono morta sepolta sotto quella maschera immacolata e perfetta, seppellita sotto quell’abito, nero come la mia anima.
Quando sono morta come persona, e come lapide ho preferito disegnare la perfezione meccanica e incolore di Jane the Killer. Così mi hanno chiamata.
Un solo scopo, che ho eletto come unica e personale Regola: il riportare tutto indietro. Riavviare le lancette e tornare quella di un tempo.

Eliminare il morbo, eliminare Jeff.

Magari le lapidi con i nomi incisi dei miei genitori sarebbero magicamente sparite e io magicamente risanata, di nuovo al sicuro tra le braccia di mio padre e le carezze rassicuranti di mia madre, ad intrufolare le dita tra i miei capelli – veri, quelli castani e veri di un tempo - per districare i nodi. Avrebbe gonfiato le guance per trattenere un risatina sentendo i miei mugugni di protesta. E papà mi avrebbe stretta ancora più forte, depositando un tenero e leggero bacio sulla mia fronte normale.
Sì, godere di quell’intimo quadretto familiare è il mio più caro desiderio al mondo; avere di nuovo una casa e ballare a ritmo sfrenato dei Pink Floyd, accoccolarmi come un gatto su un cuscino accanto al caminetto, imbronciandomi nell’udire la voce di mia madre dirmi, in lontananza, di allontanarmi dal fuoco perché rischio di farmi male.
Voglio tornare a scuola e riprendermi i miei sogni da teenager. Voglio fare tutte quelle cose che non ho potuto più fare e che non posso più fare per via del mio aspetto, della fama che non volutamente mi sono creata, della missione che ho da compiere. Voglio fare tutte queste cose e cancellare gli anni trascorsi in mezzo ai boschi, sdraiata su un cumulo di foglie secche per ripararmi dal freddo, a sussultare per ogni fruscio sospetto nello sperare che si tratti di Jeff, per poi costringere le mie gambe a camminare. Assaporo l’amaro in bocca ogni volta, scoprendo che era solo un falso allarme. Una lepre, un ramo spezzato.
Eppure, sebbene il mio cuore e la mia mente stiano smaniando di poter avere Jeff tra le mani e di poter gioire del suo sguardo famelico e aggressivo di un lupo in trappola, so anche che… in realtà non voglio.

E se tutto non tornasse a posto come prima? Una volta ucciso Jeff, a cosa sarei destinata io?

Chissà, paradossalmente è proprio Jeff che mi spinge ad aggrapparmi alla lucidità mentale e a resistere all’urgenza di impazzire, resistere a un probabile mondo paradisiaco nonché immaginario, nonché fuorviante. Illusioni su illusioni.
Chissà, forse paradossalmente non voglio trovare Jeff. Supplico la sua dannata abilità che possiede nel fuggire e nel non farsi mai vedere da me, perché so che, in caso contrario, non esiterei a balzargli addosso.
Desidero trovarlo e scappo da me stessa per non volerlo incontrare più, alla fine dei conti: indecisa in eterno, proprio come una bambina che non sa quale sia la soluzione migliore e vorrebbe avere uno spiraglio di luce a cui aggrapparsi.
Una bambina.
Si torna indietro essendo bambini.
Che in realtà il tempo abbia continuato a scorrere all’indietro senza che io ne fossi a conoscenza?
Posso tornare a casa, allora?
 



Jane continuava a pensare e a formulare tutte quelle riflessioni, sforzandosi di creare una voce che esprimesse ad alta voce tutte quelle elucubrazioni per un solo motivo: distrarsi.
Distrarsi da quel timido calore che proveniva da sotto di sé, un calore la cui origine non era certamente il terriccio su cui era collassata e che iniziava a scaldarsi alle prime luci dell’alba. Un calore che non le permetteva di riprendere fiato e di chiudere gli occhi per un istante, un calore che le faceva agitare un fastidioso quanto temuto campanello d’allarme: quando chinò la testa e azzardò ad abbassare lo sguardo fino a terra, il rosso le falciò gli ultimi bricioli di autocontrollo che le erano rimasti e le accecò entrambi gli occhi per qualche istante.
Storse le labbra in un moto di repulsione all’odore metallico che emanava la sua ferita e che sembrava aver impregnato anche l’abito stracciato; le sembrava così impossibile, così surreale essere stata attaccata e quasi uccisa nel giro di pochissimi secondi!
Da che camminava serena e tranquillamente immersa nei suoi pensieri, impegnata a trovare quel minimo di conforto che necessitava la sua anima nel chiarore roseo dell’aurora, a ritrovarsi agonizzante e terrorizzata nel constatare che le sue forze erano ormai agli sgoccioli. Goccia dopo goccia, il sangue continuava a sgorgare dalla ferita eruttante – che Jane ipotizzò si trovasse più o meno a metà della schiena – e a nutrire quella pozzanghera che si allargava sotto di lei, appiccicandosi alla pelle delle braccia e del collo come per urlare di trovare al più presto un riparo, altrimenti sarebbe certamente morta dissanguata. Una fine che, per i suoi canoni, era disdicevole nonché immeritata.
I suoi movimenti divennero frenetici e la riscossero dal suo torpore, indotto dal senso di progressivo indebolimento, quando affondò le unghie nell’incavo ruvido tra il bordo della maschera e la sua pelle: i piccoli buchetti situati appena sotto il naso non bastavano più per far passare l’aria, e quella barriera bianca, a causa dell’impatto precedente e del sudore che l’epidermide del suo viso aveva emesso per la paura provata, le si era quasi incollata addosso. Quando intrufolò le punte delle dita nella fessura minuscola, temette che, togliendosi bruscamente la maschera, a quest’ultima sarebbe rimasta attaccata la pelle bruciata e incartapecorita, provocandole ulteriore dolore. Allora sì che sarebbe morta.
Ma fu comunque nauseabondo il suono che l’atto apportò. Era lo stesso rumore che si udiva quando si strappava la carta velina da una superficie liscia e piana, e Jane temette di essersi scuoiata da sola. Bruciava, tutto bruciava e tutto pulsava, ma ciò non le impedì di socchiudere gli occhi in un fievole sospiro di sollievo quando l’aria frizzantina le confortò il viso, risultando piacevole come un balsamo. Ammortizzava l’aggressione del fresco sulle piaghe purulente della pelle corrosa e sensibile, leniva con docili carezze il presentimento della ragazza di essere sull’orlo del panico. Temeva di essere vista da un intruso, o, peggio, di essere assalita da quella cosa, eppure anche in quel frangente tutto quell’accavallarsi di ragionamenti nella sua testa la spingevano a considerare la possibilità di salvarsi la vita cercando un rifugio e un aiuto esterno, anche di un contadino.
Quando fece leva con gli avambracci per provare a camminare, gattonando pur di non perdere ulteriore sangue nella paura che le labbra della ferita si allargassero, gemette disgustata nel sentire quanto fosse impregnata di liquido la stoffa dell’abito - che dapprima ciondolava pigramente verso il terreno - che le si era incollata all’addome, facendole sentire la viscosità e la consistenza appiccicosa, ripugnante. Era talmente viscido che Jane lo paragonò all’avere addosso delle lumache striscianti, che sporcavano lo stomaco e il petto tracciando degli argentei sentieri di bava. Dovette storcere la bocca e trattenere un conato di vomito.
Nonostante fosse molto più invitante aspettare che qualcuno la trovasse, sperando che la ferita si cicatrizzasse da sola nel giro di qualche ora, Jane continuò ad andare carponi senza avere una meta precisa, senza sapere da che parte andare per vedere anche da lontano un rifugio.
Sforzandosi di ispirare l’aria senza trattenerla, decise di seguire il suono di quelle campane festose e il canto dei galli senza osare guardarsi indietro.
 
 


Esultò silenziosamente quando intravide un capannone, completamente costruito in legno, a pochi metri da lei.
Era esausta: aveva strisciato per quella che le era parsa un’eternità, con il cuore che pompava ad un ritmo elevatissimo mentre l’emorragia – o almeno così preferiva credere – accennava ad un timido arresto, sebbene si sentisse lo stesso prosciugata e indebolita come se le fosse venuta la febbre.
Ma quella struttura non poteva essere un miraggio, ne era sicura! La sorte non poteva essersi accanita così crudelmente contro di lei, mostrandole quella che sembrava un capannone degli attrezzi e una stalla, con il pavimento pieno di schegge di legno e ricoperto di paglia, con un materasso lacero e sudicio appoggiato contro una mensola su cui era stato accuratamente riposato un trapano.  La paglia, illuminata dal cielo rosato, appariva incredibilmente soffice e pareva invitarla a sedercisi sopra, a sdraiarsi in un rifugio sicuro e caldo. Era tutto troppo bello per essere vero, quasi surreale, e sebbene Jane ricordasse vagamente che a casa sua – prima che Jeff gliela distruggesse, quella confortevole casa – vi erano molte più comodità rispetto alla ruvida e secca morbidezza del fieno, in quel momento quel letto giallino le appariva confortevole come una reggia.
Abituata ad arrangiarsi e a patire il freddo raggomitolata dentro un albero cavo – sempre se riusciva a trovarlo, e se aveva la fortuna doveva pur sempre fare i conti con i ragni e le formiche che le si infilavano brulicanti tra le gambe e nei capelli – si permise di sbuffare, imprimendosi sulle labbra quasi inesistenti un leggero sorriso, e, facendo attenzione a perlustrare la pianura circostante e quasi spoglia di alberi per avere la sicurezza di essere realmente sola, fece leva con i gomiti e le ginocchia graffiate per accelerare il suo passo.
Ad ogni centimetro che riusciva a conquistare rideva, rideva di gioia e di quell’inesprimibile e disperata felicità che dimostra un bambino nel ritrovare un genitore: non le importava se la maschera – i cui lacci erano legati con un nodo stretto al suo polso sinistro – strusciava sull’erba, rischiando di macchiarsi di verde o di inumidirsi con le prime gocce di rugiada, no.
Quando guadagnò terreno e fu abbastanza vicina da afferrare una manciata di culmi, stritolandoli tra le mani, crollò stremata su un cumulo di paglia più profondo degli altri. Si addormentò profondamente.
 
 
 



Puppeteer, durante tutto il tragitto, si era ripromesso di studiare Jeff con attenzione, dato che la fama del ragazzo perennemente sorridente aveva destato in lui una profonda curiosità e il desiderio di poter comprendere il mistero della sua psiche.
Mentre seguiva Laughing Jack per il bosco, evitando accuratamente di diminuire le distanze con il clown – riflettendoci, Puppeteer stesso non sapeva la ragione precisa della sua riluttanza al contatto fisico ed emotivo con quell’entità: sapeva solo che non gli piaceva, e per quanto il pagliaccio potesse sembrare sempre pronto a schernire gli altri o a sghignazzare come una iena, come gli aveva confidato una volta Sally, era tutt’altro che un ingenuo o uno stolto. Anzi, erano proprio quel ghigno e quelle braccia fuori misura a dargli l’impressione che fosse solamente in attesa di ghermire un bambino per poi stritolarlo, spezzandogli tutte le vertebre ad una ad una. –, si concesse di ricordare quei pochi e brevi momenti in cui aveva colto l’occasione di parlare con Jeff.
Aveva provato a domare quel carattere furioso con la calma che lo contraddistingueva, sperando che fosse incline alla comunicazione come Jane, sebbene non avesse osato pronunciare il suo nome sapendo i trascorsi tra i due; gli aveva assicurato con fermezza e freddezza che lo avrebbe lasciato andare senza torcergli un solo capello, e che, una volta uscito dal suo spazio personale, non avrebbe proferito parola con nessuno del loro incontro. La risposta del ragazzo era stata univoca: gli aveva riso in faccia, provando a pugnalarlo con il suo coltello – senza riuscirci, poiché l’essere uno spettro implicava, come abilità principale, il poter apparire e scomparire a piacimento – e lo aveva anche riempito di insulti, minacciandolo di trucidargli i proxy se lo avesse rincontrato di nuovo.
Si concesse di abbozzare un sorriso triste e intriso di pietà; dal suo punto di vista, Jeff era solo da compatire nella sua convinzione di poter fare tutto e di essere invincibile. Nella sua follia, era pur sempre un ragazzo che aveva da poco superato l’adolescenza, e, come tutti i ragazzi che si affacciano al mondo per la prima volta credendosi indistruttibili e di poter fare qualunque cosa, lui faceva lo stesso nei suoi deliri di onnipotenza.
Anche se, in quel momento, la sguardo di Jeff davanti a sé faceva paura.
Sorrideva, sghignazzava nonostante gli squarci sulle guance, eppure a Puppeteer sembrò che, in quel riso, Jeff ringhiasse minacciosamente. Ciò che restava delle palpebre inferiori strizzava gli occhi lattei rendendoli due fessure sottili, pronti a ingurgitare il timore e la diffidenza dei tre, aspettando un passo falso per scatenarsi in tutta la furia possibile. Una furia che attendeva solo di uscire fuori, mantenuta sopita con cautela e con divertimento.
Il braccio di Jeff era bloccato dal suo stesso coltello, che lo trapassava fino ad affondare nel terreno sottostante. Da quella ferita zampillava poco sangue, come se il ragazzo ne possedesse a stento tanto quanto la sua ragione, ma bastava a tenerlo quieto – in apparenza -, sdraiato di fronte a loro.
Laughing Jack si era fermato alla destra di Puppeteer, e lui stesso poteva sentire il fruscio pesante dei suoi passi. Era sicuro che il clown stesse fissando di rimando Jeff con la stessa intensità, attendendo pazientemente di poterlo aggredire ma accontentandosi di schernirlo da dove si trovava, mostrandogli le zanne affilate per provocarne una reazione. Alla destra di Puppeteer c’era Sally.
Quest’ultima non rivolse un solo sguardo a Puppeteer, ostinandosi a fissare Jeff con aria di trionfo e di sfida, con la soddisfazione di poter guardare per la prima volta qualcuno dall’alto in basso. I suoi occhi verdi non erano i soliti, e quella creatura dall’aura così tremolante e così instabile non era la dolce e mite bambina che lo spettro conosceva; era diversa, era malevola, era feroce, era aggressiva.
Lo spirito fissò la testolina castana con apprensione e preoccupazione, e, sentendo l’atmosfera così immobile, stagnante, quasi isolata dal normale corso degli eventi, provò a smuovere le acque allungando il braccio sinistro verso quella zazzera di capelli castani, carezzandoli con la punta delle dita con timore.

‘Non toccarmi. ’ sibilò Sally, rialzando di scatto il viso per incontrare il suo, e Puppeteer ritirò la mano, intimorito da quegli occhi lampeggianti e da quell’ostilità palese, soffiata nella voce.

Sì, decisamente c’era qualcosa che non andava.

‘Sally…’ provò ad acquietarla lo spettro, provando a sfiorandole con più dolcezza le ciocche ondulate. ‘Sally, che ti prende? ’

Non ottenne risposta: la bambina non lo degnò nemmeno di uno sguardo, mentre fissava con sadismo e vendetta Jeff, con un sorrisetto a incurvarle le labbra. Era rigida, pareva tenere i muscoli contratti come se stesse raccogliendo tutte le sue energie per sferrare un attacco contro il ragazzo, un attacco non più psicologico.

‘Cosa non capisci? Devi stare zitto, e non devi toccarmi. Cosa non capisci di questa semplice frase? ’

Puppeteer l’accontentò, ritraendo la mano. Sentirsi rispondere così era una sensazione simile allo sgomento e allo smarrimento, come quando un genitore non ha la più pallida idea di come comportarsi con il figlioletto ribelle per frenarne l’impeto; il solo risultato era che, alla fine – e lo spettro sapeva bene come andava a finire in quelle famiglie problematiche, visto che erano i climi più tesi ad attirarlo -  il primo sceglie il silenzio come ultima risorsa e rinuncia a portare avanti la sua causa, mentre il secondo inizia ad approfittarsi di quella mancanza di iniziativa.
Ed era proprio la sgradevole sensazione di non saper più cosa fare né cosa dire a tormentargli la mente e a costringerlo a studiare bene la direzione dello sguardo di Sally, talmente immobile da sembrare incantata a fissare il manico nerissimo e lucido del coltello con cui aveva bloccato Jeff. Uno sguardo tra l’innocente e il furbo, che il giovane killer ricambiava senza immaginare – che ingenuo, povero Jeffrey! si ritrovò a pensare Puppeteer assottigliando le labbra – cosa in realtà stesse frullando nell’immaginario della sua avversaria.
Una battaglia esclusiva, che prevedeva come unici e soli contendenti Jeff e Sally, non permettendo a nessuno di intromettersi. Neanche a lui, che aveva cercato di essere presente ma mai ossessivo nei confronti di quella bambina che, con la sua sola presenza, gli dava la speranza di vedere i lati positivi e giocosi di quell’esistenza che lui mal tollerava.
E, per un istante, si sentì geloso.
 
 
 
La voce di Sally, stranamente modulata in modo da somigliare a quella più profonda di una donna, ruppe il silenzio.

‘Sento dei passi, sta arrivando qualcuno. ’

‘Ma quanto sei intelligente! ’ la canzonò Jeff di rimando, lasciando che la sua mano destra scivolasse sugli steli d’erba sotto di lui, schiacciandoli. ‘Li sento anch’io. ’concluse, umettandosi le labbra e roteando le iridi cristalline.

‘Certo…’ disse Sally con tono allegro, gaio, come se stesse ridendo per una battuta. ‘Ma sono sicura che non è chi vorresti veder arrivare. Vero, Jeff?  ’

‘Cosa intendi dire, microbo? ’ l’apostrofò il ragazzo, assottigliando gli occhi e indurendo il timbro vocale.

‘Intendo dire che non vedrai mai gli occhi che vorresti vedere, né abbraccerai mai l’unico corpo che vorresti abbracciare. Hai ucciso Liu, è morto per colpa tua. Non lo sai? ’

A quelle parole qualcosa cambiò. Jeff perse tutta la baldanza che lo aveva incoraggiato a sostenere quel conflitto, e la sua faccia sembrò deformarsi come se fosse posseduto da un demone. Puppeteer indietreggiò.

‘Come osi pronunciare il suo nome, schifosa e inutile puttana! ‘ ringhiò Jeff, incurvando la schiena in avanti e fulminando l’altra con lo sguardo, come se volesse incenerirla.

‘Eh, ma lo sai anche tu. Ho toccato un tasto che non dovevo toccare, un argomento troppo spinoso che ti fa soffrire? Dopo tutti questi anni…’

‘Zitta e impara a rispettare i più forti, bastardella! ’

‘Dicevo, dopo tutti questi anni pensi ancora al tuo fratellino, e sei così debole che pensi di essere forte insultando tutti. Sai che mi fai ridere? ’

‘E tu sei talmente stupida da non capire di dover stare zitta. Tappati quella fogna di bocca, che non fa altro che sanguinare! Hai masticato un topo morto, o ti sei infilata in bocca il cazzo di tuo zio? ’

Laughing Jack rise con voce stridula, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Jeff.

‘Smettila, clown. ’ sussurrò Puppeteer.

‘Ma è così divertente! ’ rispose Laughing Jack, squadrando il suo interlocutore e interrompendo senza neanche volerlo lo scontro verbale tra Jeff e Sally, che si limitarono a trasmettersi il proprio odio con gli occhi. ‘Così divertente…’ mormorò poi di scatto, trovando il bagliore argenteo che emanavano gli occhi di Puppeteer particolarmente degno di attenzione. ‘Talmente divertente che dovresti farti gli affari tuoi, se non vuoi ritrovare i pezzi dei tuoi Emra e Zachary per tutto il bosco. Ahhh, Slenderman aveva ragione…’

E stavolta fu Laughing Jack a indietreggiare, conscio di avere l’attenzione generale tutta puntata su di lui, e, in particolare, di essersi attirato l’ostilità di Puppeteer addosso. Era eccitante sentirsi trapassare la schiena e il petto da tutti quegli sguardi, tra l’incuriosito e l’irato, e quando una corda sottilissima e dorata gli strattonò il braccio sinistro, inarcò la schiena all’indietro come se dovesse fare un ponte, e ululò. Puppeteer lo guardava disgustato.

‘Uhhh, ecco un altro meraviglioso spettacolino, fanciulli cari! In pagamento del vostro, volete vedere Laughing Jack che si fa manovrare come un pupazzetto? Peccato che non ci sia Emra, lei sì che si fa comandare a bacchetta dal burattinaio qui presente! ‘

Laughing Jack tirò fuori da un taschino una caramella con la cartina di un brillante arancione acceso, e la offrì a Sally con il braccio libero, sotto lo sguardo stranito di Jeff e quello freddo di Puppeteer.

‘Hai un’altra possibilità, mia cara bambina. Vuoi la caramella? ’ gracchiò il pagliaccio.

Sally scosse piano la testa, allontanandosi dal clown di qualche passo, allentando la presa sul peluche e lasciandolo molleggiare ai suoi piedi.

‘No? Nemmeno io. Ma se dovessi scegliere tra il mangiare la caramella e il farti riempire di caramelle, cosa sceglieresti? ‘

Un’altra corda si avventò sulla sua gamba, strattonandola in avanti. Laughing Jack per poco non perse l’equilibrio, e rivolse un’occhiata sprezzante a Puppeteer.

‘Stai delirando, e non ti rendi conto delle assurdità che vai cianciando. ’ sussurrò Puppeteer, lasciando che dall’altra sua mano, quella sinistra, scaturissero altre tre corde dorate. Queste si strinsero sull’altro braccio di Laughing Jack, e lo spettro impiegò un po’ più forza per attirarlo a sé.

‘No, ti sbagli. So benissimo di cosa sto parlando. ’ replicò il clown con noncuranza.

‘Non mi sembra. Ad ogni modo, credo che dovrò riservarti lo stesso trattamento che riservo ai miei bellissimi burattini. Prendila pure come un’azione pietosa, un’eutanasia. Ti sto facendo solo un favore. ’

‘Ahahahah! Un favore, dici? Ma non otterrai nulla così. Piuttosto, se proprio vuoi renderti utile, perché non uccidi la mocciosa qui presente e il ragazzetto scarnificato, visto che ci stanno derubando dei bambini a cui dovremmo tanto dedicare le nostre attenzioni? ’

‘Io non ho fatto niente! ‘ sbottò Sally da dietro Puppeteer, sgranando gli occhi e indurendo la mandibola. ‘Quante volte devo ripeterlo? Se non esco mai dal territorio che l’Uomo Alto mi ha donato, come avrei potuto giocare con i vostri bambini? ’

Puppeteer strinse ancora le corde attorno alle braccia del clown, socchiudendo gli occhi per poter percepire le ossa più fragili, i punti più molli su cui fare pressione, come faceva sempre con suoi bambini e con i genitori che si opponevano a quel destino. Ringhiò piano quando non percepì niente, come se il corpo del clown fosse riempito da sola aria – o da caramelle, immaginò con confusione -  e non possedesse né sangue né ossa. Laughing Jack si accorse silenziosamente di quel repentino cambio d’espressione, e lo intercettò rivolgendogli un ghigno sottile e appena definito, come per chiedergli sarcasticamente se fosse deluso da quella scoperta.

‘E inoltre, se proprio devo ricordarvelo, ’ continuò imperterrita Sally, abbassando il capo verso il terreno come se si sentisse improvvisamente colpevole, ‘il motivo per cui tutti siamo qui, o quasi tutti, è perché siamo d’accordo nel credere che…’

Fece una pausa, rivolgendo di nuovo lo sguardo a Jeff, trionfante mentre lo indicava come l’unico colpevole di tutta quella situazione.

‘…che sia stato questo coso disgustoso e deforme ad aver assassinato tutte quelle povere persone. Dico male? Non era questo l’argomento della nostra discussione, tre ore fa? ’

‘Cosa?! Io? ’ sibilò Jeff, mugugnando per un’improvvisa fitta al braccio, che continuava a perdere sangue e ad arrossargli la felpa bianca, e per una curiosa sensazione: un fievole ronzio che aveva appena iniziato ad attaccargli le orecchie e il cervello, simile al suono delle interferenze che si sentivano alla radio o alla televisione.
Puppeteer inclinò il viso verso sinistra, cercando gli occhi della bambina con scoraggiamento. La luce che le filtrava dalla sua bocca e dai bulbi oculari si era affievolita, divenendo di un pallido giallo sfumato. ‘Supposizioni, Sally. Non abbiamo alcuna certezza, tutto quello che sappiamo ce l’ha riferito la ragazza. ’

‘Supposizioni? Quella ragazza è una tua amica! ’ replicò la bambina.

Il ronzio divenne più intenso nella testa del ragazzo, tanto che si massaggiò lievemente i capelli e le tempie con la mano destra. Non stava ascoltando più quello scambio di battute che poteva rivelarsi interessante visto ciò che si diceva di lui, ma c’era qualcosa di indefinibile che sembrava aver bloccato il suo cervello proprio per impedirglielo. E non era una sensazione sconosciuta: sentiva di averla provata tempo fa, in un’occasione ben precisa. Forse quando…

‘Sì, ma può essersi sbagliata! ’ disse Puppeteer, alzando appena il tono della voce giusto per non risultare aggressivo nei confronti della bambina. Allentò le corde che trattenevano Laughing Jack per permettergli di allontanarsi, e poi si voltò verso Jeff, rivolgendogli un’occhiata di avvertimento.

‘Comunque, ora basta litigare tra di noi. E’ controproducente. E poi, Lui sta arrivando. ’

Il ronzio nella testa di Jeff aumentò ancora di intensità, come se un trapano gli stesse perforando il cervello senza sosta. Quando il fastidio si tramutò in dolore, gemette.
 
 
 
 



Buonasera a tutti!
Scusate il ritardo (ancora!) ma anche stavolta questo capitolo non voleva farsi scrivere. Non so, credo dipenda tutto dal sottofondo musicale che metto quando digito… o.o
Comunque, ecco qui. Spero che vi siano piaciute le mie interpretazioni di L.J, Pup, Sally e Jeff, sebbene il meglio del nostro ragazzone debba ancora arrivare… ma penso che possa già dire alcune cose.
Innanzitutto Laughing Jack: per come lo vedo io, a differenza del nostro ben più equilibrato burattinaio, il nostro clown delira. Esattamente! E’ lucido nella sua follia, visto che è una delle creepy più sanguinose e violente del fandom, ma essendo la sua sanità gravemente compromessa come quella di Jeff (che è tutto dire, perché ne ha poco e niente!) lui alterna momenti in cui ghigna ed è lucido ed è crudele, a momenti in cui… non sa nemmeno chi è. Almeno io l’ho immaginato così, ma dato che prevedo questa fanfiction come la più lunga che abbia mai scritto, ho intenzione di introdurre altri personaggi (per il momento due) più avanti, oltre ai miei Oc che devono ancora farsi scoprire, che modificheranno un po’ le cose. ;)
Poi passiamo a Puppeteer: oltre ad essere sempre più MAGNIFICO (Snow, non parlare di Hetalia) nella sua lucidità (vi assicuro che sono andata a studiare ogni singola fan art della sua creatrice e ogni singola nota per darmi un’idea dei suoi ragionamenti) ha un rapporto fraterno verso Sally, è incuriosito da Jeff (l’ha scritto sempre la sua autrice) ma resta il punto interrogativo verso Laughing Jack, e per questo mi inventerò io tutto di sana pianta.
Turno di Sally: immagino che vi stiate chiedendo cosa diavolo le sia preso. Ebbene, dato che penso abbiate capito che non credo sia tutta ‘sta bambina pucciosa e tenera verso le altre creepy, ho pensato alla relazione ‘energetica’ tra lei e il burattinaio. Ma niente spoiler, lo capirete più avanti!
Jeff: lui è sempre più folle e ostile verso Sally, cosa che è ultra-ricambiata a dovere. Dalla sua ottica malata, la bambina se l’è cercata con suo zio, quindi merita di pagare in eterno per quello che è successo. Ma anche Jeffrino ha un punto debole, che Sally è riuscita ad individuare sfruguliando nei ricordi: Liu. E io prevedo guai…
Quanto a Jane, ho poco da dire. Si è salvata, certo, ma ho aggiunto quella sua lunga riflessione per un motivo ben preciso, oltre che per approfondire la sua psiche. In parole povere, ci sarà un collegamento con uno dei personaggi che ho intenzione di inserire se tutto andrà bene, e lascio a voi l’indovinello!
Per il resto, spero vi sia piaciuta anche questa parte, e scusatemi ancora se non ho risposto alle vostre stupende recensioni  :’(((( non ho avuto tempo!
Beh, alla prossima!
 

Made of Snow and Dreams.

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Capitolo 9
*** Impotenza ***


Impotenza
 
 
 
 
 


Ce l’hai fatta una volta, puoi farlo anche ora. Quel ronzio, isolalo. Come hai fatto con quella puttanella, ricrea la difesa. I ricordi… sì, ora tocca alle voci. Devi riuscire ad estrometterle, sennò non capirai più un cazzo, vecchio mio. Ecco. Sta già diminuendo, vedi?

Il trapano smise di funzionare.
 
 
 


Le pelle si accapponò a quella vista, i muscoli delle braccia smisero di funzionare per qualche secondo, afflosciandosi inerti contro i fianchi: l’espressione furiosa e intrisa di odio che illuminava gli occhi azzurri del ragazzo lo intimidiva, sebbene fosse bloccato da quel coltello che era stato fatto sprofondare nella carne del suo braccio.

Anche se era stato reso innocuo dalle corde dorate – che si torcevano sulle sue gambe e sull’unico braccio sano rimasto come le spire di un serpente –, Jeff era ancora temibile: sbuffava come un cavallo imbizzarrito, digrignava i denti come un mastino che si prepara a combattere, ruggiva come una tigre pronta a spiccare il balzo sulla preda. Toby, impietrito davanti a lui e intento a studialo silenziosamente, ebbe un sussulto: sfasciare quella maschera di rancore sarebbe stato come uccidere un animale in trappola, mentre si dibatte nella speranza di trovare una via di uscita; come distruggere il motore di una macchina diabolica che, sebbene sappia di essere agli sgoccioli della sua energia vitale, continua a distruggere tutto ciò che la circonda per ritornare a splendere gloriosa, più crudele e violenta di prima; come uccidere un moribondo, che di morire non ne ha alcuna voglia.

Ma era altrettanto terribile rimanere immobile come una statua di fronte a quello scempio di essere umano, costretto a sopportare e a sostenere quello sguardo velenoso che pareva aver scelto come unica vittima lui e solo lui. Come se fosse stato lui ad aver indetto la sua morte, come se fosse lui il responsabile di quell’omicidio premeditato, come se fosse lui il suo assassino.

Percepiva distintamente l’aura gelida che gli pizzicava la schiena, la stessa che gli faceva venire la pelle d’oca scuotendola in tanti piccoli brividi, come ogni volta in cui il suo padrone arrivava. Il tempo necessario per controllare che tutto il lavoro fosse stato svolto con la stessa impeccabilità di sempre e la stessa attenzione nel cancellare ogni traccia del crimine compiuto. Ed era fastidioso, anzi, era schiacciante quell’ammasso di voci sussurranti e confuse che l’arrivo di Lui aveva apportato: avevano ripreso, come se fosse stato loro ordinato, a tormentargli le orecchie, complici di quel repentino calo della temperatura la cui causa era la presenza strabordante di sangue della bambina dietro di lui.

 Trovarsi proprio lì, con le accette saldamente impugnate e divenute bruscamente pesanti come macigni, lo faceva sentire a disagio, tanto che desiderò tornare nel boschetto che conosceva a memoria; in quel frangente preferiva la compagnia discreta e rispettosa di Hoodie e persino quella di Masky, il bastardo invidioso per eccellenza.

‘Proprio non potevi scegliere un servitore migliore, Senzafaccia! O fai talmente schifo tu a dare degli ordini che non riesci manco a farti rispettare, o sono così bello che gli si è fottuto il cervello a forza di guardarmi. ’starnazzò Jeff, boccheggiando per trattenere i gemiti di dolore che quel ronzio nella testa gli stava causando, sebbene si stesse allontanando poco a poco.

‘C-c-come si vede c-che non… non ti vedi allo sp-specchio da tanto. Mi s-sa-salgono i conati s-solo a guardarti. ’

Jeff lo fissò ansimando per dei secondi che gli parvero eterni. Poi, con una lentezza estenuante e ben calcolata, piegò il collo all’indietro fino ad esplodere in una fragorosa risata. Toby inarcò il sopracciglio destro, senza capire. ‘N-n-n-non… non… non sai nemmeno parlare! Ah! ’ disse Jeff sorridendo, lasciando che la sua lingua sgusciasse a destra e a sinistra e sulle paratie della sua bocca per imitare il balbettio del proxy. ‘S-s-sei-sei pat-patetico. Un d-dottore? Vatti a curare quella testa fottuta che ti ritrovi, bastardo handicappato! ’

Prima che Toby lo incenerisse con lo sguardo e gli rifilasse un calcio sufficientemente potente da mandarlo a terra, dolorante e con il setto nasale spaccato, corredato di un’accettata abbastanza feroce da sfasciargli il cranio e ridurre in poltiglia il cervello, Puppeteer gli bloccò il braccio sinistro, che rimase sospeso a mezz’aria, ed entrambe le gambe. Lo Slenderman si voltò verso di lui, con aria minacciosa, e indicò il proxy con l’indice artigliato.

‘Come ti permetti di interferire con il mio aiutante? Slegalo e allontanati da lui. Sparisci, spettro. ‘

La sua voce era tonante e profonda, lenta e calma, cullante. Sally si arrischiò a rivolgergli un’occhiatina curiosa, non azzardandosi a proferire parola, prima di focalizzare la sua attenzione sul Burattinaio: quest’ultimo, il cui corpo era abbastanza grande e massiccio da nasconderla dalla vista dell’Uomo Alto, fronteggiava il suo nemico assumendo lo stesso portamento altero e distaccato, sebbene la sua voce rivelasse una nota di nervosismo.

‘Lo libero se gli ordinerai di non fare niente a Jeff. Siamo in quattro, non vedi? E Jane sta tardando ad arrivare. ‘

A sentir pronunciare quel nome, Jeff sgranò gli occhi e si paralizzò, come se fosse stato colpito da una scossa elettrica. Si rizzò a sedere, rigido come un tronco d’albero, e allungò il collo per incontrare gli occhi dorati di Puppeteer, come se volesse cercar conferma del suo sospetto, o della sua certezza.

‘Jane? Quale Jane? Di chi stai parlando? ’

‘Mi chiedo se le sia successo qualc-‘

‘Prestami attenzione, cazzo! Di chi state parlando tutti? ‘

Quando lo spettro si voltò, regalandogli un’occhiata indifferente che fece ringhiare Jeff, disse: ‘ Non lo sai? Sto parlando di colei che si fa chiamare Jane the Killer. La tua amichetta di giochi. La tua nemica. Jane Arkensaw. ‘

Conoscendo i precedenti dei due e il rapporto che condividevano, il Burattinaio si aspettava una vera e propria sfuriata cosmica, accompagnata come minimo da una valanga di insulti e bestemmie. Ma, con lo stupore generale, l’altro ridacchiò pacificamente, flettendo il collo in preda ad un tic nervoso, distogliendo lo sguardo dal suo interlocutore per posarlo con gentilezza sull’erba attorno a lui. ‘E ti pareva, chi poteva essere altrimenti… che strano. Era da un po’ che non si faceva vedere in giro. ‘ disse, riducendo gradualmente il suo tono di voce rabbioso e squillante in un tenue e quasi tenero mormorio.

Puppeteer sbuffò, voltando il viso per cercare i suoi occhi, imitando lo stessa sfumatura severa e distante che un giudice adotterebbe nel giudicare un condannato. ‘Beh, se non l’hai davvero vista allora la sciocchezza che hai commesso, e mi riferisco al bruciarti le palpebre, ti ha reso cieco. Sapessi quante volte è venuta da me… ‘

E di nuovo: era incredibile. C’erano tante, tantissime, troppe cose che, a quanto pare, lui non sapeva. Era vero, aveva perduto le tracce della ragazzina ingrata dopo che le aveva inviato, incitato dai sensi di colpa e dal senso di premura nel poter rimediare al danno causato, il pacco contenente la maschera, la parrucca - che aveva accuratamente scelto immaginandosi il figurino finale, frugando tra le chincaglierie di un negozietto a cui, poi, aveva dato fuoco - e il vestito nero che aveva eletto come ‘il più elegante’. Si voltò nuovamente, stavolta con un impeto tale che le ossa del suo collo protestarono per quel rude movimento e schioccarono – un suono che l’udito fine di Sally catturò, un suono che lei conosceva fin troppo bene e che le fece storcere le labbra in un moto di repulsione, mentre cercava di schermarsi la mente dalla valanga di ricordi dolorosi; pezzetti di immagini provenienti dagli angoli più remoti del proprio cervello, che lei aveva creduto ben nascosti e chiusi a chiave -  , e  lasciò che le sue iridi riflettessero tutto il disprezzo che il suo animo nutriva per la ragazza in questione. ‘Venuta da te? Ah, ma davvero? E cosa ti ha detto, quella bastarda? ‘

‘A me, quando eravamo da soli-‘

‘Da soli? Ohh, che carini i nostri piccioncini adorati! Perché non le hai regalato un mazzo di fiori, già che c’eri? ‘ lo schernì Jeff.

I bordi degli occhi di Puppeteer si arrossarono. Una tenue e calda sfumatura arancione, che eccitò il dorato dando l’illusione che, dietro le orbite, vi fosse un fuoco appena nato. Ma la sua voce rimase ferma, controllata. ‘Di certo non le avrei fatto del male. Molto intelligente, molto criptica nelle sue elucubrazioni. Una brava conversatrice, ecco quello che ho guadagnato nell’aver resistito all’istinto di renderla un burattino nelle mie mani. ‘

‘Ma che dolce il nostro Burattinaio qui presente. O forse dovrei dire Burattino? Mi fai ridere. ‘

‘Anche lui ti fa ridere? Dici le stesse cose un po’ troppo spesso, Jeff. Sei ripetitivo. ‘ sussurrò Sally con una voce talmente ben modulata da apparire soffice e tenera, da essere a malapena udibile. La bambina non accennò neanche lontanamente a scrutare il ragazzo per burlarsi delle sue reazioni – che lei giudicava prevedibili -, accontentandosi di farsi trafiggere da un roco: ‘Chiudi il becco, sgualdrina! ‘, la cui provenienza era certamente ovvia.

Stava per controbattere all’ennesima offesa con un’altra frecciatina sottile, tanto per sottolineare il fatto che, tra i due, ora era proprio lui ad essere indifeso come un uccellino in trappola, ma la mano gelida di Puppeteer, poggiata sulla sua spalla per donarle una lieve carezza, la indusse a lasciar perdere le sue intenzioni. Quel tocco era buono, capace di trasmettere protezione e affetto, eppure Sally si scostò biascicando qualcosa tra le labbra, badando bene di non farsi sentire da nessuno. Puppeteer sospirò, e aggiunse: ‘ Comunque sia, ciò che ti deve interessare, Jeff, è il seguente: pare che il responsabile di tutti gli omicidi che coinvolgono questa e le zone limitrofe sia tu. ‘

Jeff scrollò il capo, assumendo un’aria annoiata e, al tempo stesso, sospettosa. ‘Aspetta, aspetta. Prima di tutto, io non uccido. Non l’ho mai fatto. Io mando le persone a dormire, è diverso. Seconda cosa: faccio questo da tanto tempo, e nessuno mi ha mai rimproverato nulla. Perché ora salta improvvisamente fuori che il terribile Jeffrey Woods sia da biasimare per le sue azioni, quando voi fate altrettanto? Sentiamo! ‘

‘Un conto è fare ciò che devi fare con due o tre persone, Jeff. Un altro è sterminare un intero villaggio. ‘

‘Un intero… Cosa cazzo vai blaterando? ‘

‘Hai sentito. Hai una vaga idea delle conseguenze che si stanno riversando su tutti noi? Mancano-‘

‘Mancano i bambini! I miei bambini! ‘ si intromise Laughing Jack, diminuendo le distanze tra le palpebre fino a trasformare gli occhi in due sottili fessure bianche. ‘I mocciosi a cui devo estendere la mia preziosa amicizia per scacciare via la loro solitudine, li ritrovo già cadaveri. ‘

‘Soprattutto preziosa, la tua fottuta amicizia. Vero, pagliaccio? ‘ sussurrò Jeff sarcasticamente.

‘E i miei bambini. Come per Laughing Jack, anche io sto trovando il bosco e le strade disseminate di corpi in putrefazione. ‘ aggiunse Slenderman.

‘E non vi è mai saltato in mente che possiate essere voi i responsabili? Insomma, quanti cazzo siamo ad abitare questi boschi? Tre, quattro, cinque? ’ sputò Jeff con aria disgustata e afflitta. Il suo sguardo indagatorio scandagliò Toby - che, davanti a lui, era in preda ad un tic nervoso all’occhio destro e al braccio sinistro; l’arto e le palpebre tremavano così vistosamente e senza controllo che il ragazzo, vedendosi fissare dal killer, si affrettò a piegare il gomito per celare il braccio dietro la schiena e a indossare gli occhialetti aranciati con l’altro arto – con aria derisoria, passando, dopo un interminabile attimo, sullo Slenderman. Poi arrivò a Puppeteer, su cui placidamente si posò. ‘Tanto per informarvi, contando la mia presenza qui arriviamo a quota sei. E contando tutti i miserabili scarafaggi che vi servono, chissà a quanto ammonta il numero! ‘

‘I miei proxy non attaccano. Semmai sono io che mi sposto per donare un trapasso più agiato alle persone, ma certamente non potrei mai giungere a un tale livello. Stiamo parlando di decine e decine, per non dire un centinaio, di persone massacrate e poi lasciate riverse in pasto ai vermi nei boschi. ‘ disse Puppeteer. Mentre pronunciava quelle parole con fare rassicurante, si concesse di roteare le iridi per spiare le reazioni delle creature che sostenevano la causa comune, accertandosi dei loro stati d’animo.

Quando Sally si accorse di quell’improvviso bisogno di conferme, alzò il mento per incrociare gli occhi dello spettro, e, pensando che fosse il momento giusto per discolparsi da qualsiasi sospetto, si affrettò ad aggiungere: ‘Anche per è così. Sebbene qualcuno non mi voglia credere…’ si interruppe, alludendo a Laughing Jack, il quale le rispose con l’ennesimo ghigno della nottata, ‘…vi assicuro che non potrei giocare fuori dalla casa che mi è stata affidata. Sapete già il motivo, ve l’ho spiegato: mi sentirei male se mi allontanassi. E già questa distanza dalla mia casa è abbastanza, più di questo non posso sopportare. ‘

‘E poi, tu uccidi… ’

‘Gioco. ‘

‘Sì, scusa. Giochi solo con altri bambini, mi sembra. ’

‘Esatto. ‘

‘Bene: tralasciando il fatto che la maggior parte delle vittime trovate erano bambini, tutti gli altri erano adulti. Quindi, resa dei conti: Laughing Jack non può essere il colpevole come non può essere stata Sally; io e i miei proxy neanche, quindi restano solo… ‘

‘I miei bambini obbediscono a me, l’hanno sempre fatto. Non si sono mai spinti oltre le riserve, né l’ho mai fatto io. E poi, le mie preferenze coincidono con quelle del clown accanto a me. ‘ disse Slenderman.

Jeff sbuffò, inclinando il collo in avanti affinché i capelli neri, ricadendo sulle gote, creassero una sfilacciata tenda di paglia corvina che lo riparasse dalle accuse lanciategli dagli altri. Accuse che non avevano un vero e proprio fondamento, ne era sicuro! Quelle erano solo coincidenze, una catena di ingiustificabili equivoci o, forse, una serie di macchinazioni perpetrate ai suoi danni; che il risultato finale andasse a buon fine con la sua morte o l’esilio – come se fossi un cane! Pensò il ragazzo, solleticando la punta della lingua con i denti -, alla fine, non importava poi molto: sapeva già con chi prendersela. Quella ragazzina, quella fottuta ragazzina l’avrebbe pagata molto cara…

‘E quindi, in definitiva, io sarei il coglioncello da punire. Dico giusto? ‘ sibilò Jeff.

Eddai, forse… se dai uno strattone con la spalla, il coltello dovrebbe schizzare via come l’arteria della donna che hai visitato settimane fa… inizia… sì, la spalla! Piano piano, scivola via… stringi i denti per il bruciore, cazzo! Forza, vecchio mio! Sei troppo bello per crepare sotto i colpi di quei miserabili.

In effetti, era quasi divertente il continuo guizzare dei muscoli della sua schiena. Il sentirli rispondere agli ordini del suo cervello gli dava una sensazione di tale ebbrezza, di potere assoluto, che credette vivamente di farcela. D’altronde, cos’altro aveva da perdere, ormai?

Su, co
raggio. La mano. Devo muoverla. Ignora il sangue che la ricopre e ordina alle tue dita di tamburellare sull’erba.

E lo fecero. Dapprima fu una banale contrazione dell’indice e del pollice e del medio, poi fu il turno dell’anulare e del mignolo. La mano era terribilmente bianca, pallida e allo stesso tempo viva, sebbene il sangue si fosse incrostato nei ruvidi incavi delle pieghe, laddove le cicatrici del fuoco aumentavano di profondità e lunghezza. Era viscoso, una specie di collante giunto a rendergli più difficile del previsto il suo lavoro, ma a quel punto Jeff era solo felice di constatare che la lama non aveva intaccato del tutto l’arteria principale e l’intricato fascio di nervi. Qualcosa rispondeva ancora ai comandi.

Bravo. La mano è fatta. Ora, la parte più difficile. Mettici l’impegno! Quei bastardi si avvicinano, attento!

Era vero. Sebbene il proxy fosse rimasto al suo posto, come se una forza misteriosa lo stesse trattenendo o, anzi, lo avesse congelato – ah, come ha ubbidito il Burattino dei miei stivali al Senzafaccia! pensò Jeff con disdegno -, Laughing Jack si era avvicinato di un passo insieme a Sally. Puppeteer si limitava a captare e a studiare quei piccoli movimenti della mano di Jeff, che non gli erano di certo sfuggiti.

‘Temo proprio di sì. Anche se…’ Il Burattinaio controllò ancora tra le fronde degli alberi e scrutò oltre i cespugli in lontananza, ‘Vedo che Jane tarda ad arrivare. Pazienza. Ahhh, ma avresti dovuto sentire come le tremolava la voce nell’implorarci di essere lei a concederti il respiro finale! ‘

La solita stronza.

‘Non avevo dubbi in proposito! ‘ farfugliò Jeff, incassandosi nelle spalle per celare il più possibile gli sforzi che l’intera parte sinistra del suo corpo stava producendo per ridare energia al braccio trafitto. ‘E ora, come intendete farmi fuori? Se ci riuscirete, si intende. ‘ Si umettò le labbra. ‘ E soprattutto, chi avrà l’onore di farmi fuori? Farete a turno? ‘

‘Effettivamente quest’ultima non è una cattiva idea! ‘ squittì Sally, ridacchiando. Si sfregò le mani lentamente, sfiorando l’attaccatura delle unghie di entrambe le mani.

‘E allora, se dobbiamo fare a turno, ritengo che il bersaglio possa risultare più duraturo da assaporare se il primo colpo viene inferto dal più debole di noi. ‘ disse Slenderman. ‘Toby, a te l’onore. ’

‘C-co-con p-piacere. ‘

Quando il proxy ubbidì all’ordine e si avvicinò, finalmente libero da quella cappa di forza che lo aveva tenuto ancorato per terra, alzò il braccio destro per sollevare l’accetta.

Jeff ringhiò quando la superficie lucida e metallica dell’arma rifletté i suoi occhi spaesati, e ululò quando la piccola scure si abbatté sibilando sulla sua gamba destra, appena sopra il ginocchio. Il dolore esplose come un gigantesco fulmine in tutto il suo corpo, sconquassandogli la testa, diramandosi per tutti i nervi e per tutti i capillari dallo squarcio eruttante. Urlò e urlò con una disperazione tale

(Il fuoco! Oddio, Jeffrey, correte! L’estintore, non c’è qualcosa per spegnere il fuoco? Corri, maledizione! Nostro figlio sta bruciando vivo!)

che le cicatrici che gli percorrevano le guance si dilatarono al massimo, rendendo la mascella di Jeff simile a quella di uno squalo. Toby sorrise a quella vista, godette della patina lucida che ricopriva la cornea di quegli occhi odiosi rendendo la vista offuscata – un’immagine che lui conosceva molto bene – e strizzò entrambi gli occhi quando un violento getto di sangue rosso scuro sprizzò fuori dalla ferita, imbrattandogli la visiera e la maschera protettiva.

Un sinistro cigolio accecò le orecchie di Jeff e superò di intensità persino i suoi strilli, quando Toby disincagliò l’accetta dal suo osso.

L’odore ferroso del sangue si propagò a velocità inaudita in tutto il bosco.
 
 
 
 
Correva. Non sapeva dove stesse andando, dato che le sue gambe si muovevano con un ardore tale da fare invidia ad un atleta, ma allo stesso tempo ammise che non gli importava nulla. Erano i suoi sensi e il suo istinto a guidarlo, come sempre.

Ed era semplicemente straziante, sì: atroce era stato il suo distacco forzato da quel corpo morbido e caldo, coperto dalla morbidezza del tessuto setoso dell’abito nero. Era stato sublime poterlo sfiorare con estrema gentilezza, concedendosi un piccolo dono fatto di piacevoli brividi ai suoi polpastrelli callosi, ma non era stata la parte migliore. Il suo trionfo massimo l’aveva ottenuto immergendo il palmo della mano in quella rete di cellule connettive, tutte intente a scambiarsi le informazioni impazzite alla velocità della luce, sovraccaricandosi e poi tacendo mentre la sua mano spezzava crudelmente quel garbuglio con la sua venuta, massacrando i tendini fini. E dire che c’era arrivato! Le sue dita avevano formicolato pregustando quella tanto desiderata barriera, l’ostacolo pulsante destinato a diventare il cibo del parassita!

Anche la sua lingua aveva premuto contro la muraglia delle minuscole zanne per poter uscire e avvolgere, in un caldo velo di saliva, il rene. Ma poi il suo olfatto aveva percepito ben altro, un odore molto più dolce e paradisiaco, pungente. E, senza neanche capire il perché della sua decisione, l’obbiettivo dai capelli neri era stato abbandonato.

Non che avesse una grande importanza, ormai; si era allontanato troppo dalla sua precedente posizione, e l’unica certezza che lo tranquillizzava era sapere di starsi avvicinando a quell’odore.

Ma c’era qualcosa che non andava: la foresta era sempre meno fitta a ogni falcata, i rami erano sempre più radi e spogli, e, addirittura, in lontananza si poteva benissimo scorgere il biancore di alcuni fogli di carta inchiodati ai rami degli alberi. E poi c’era freddo, un freddo di cui non riusciva a individuare la provenienza, un freddo che pareva scalfire la pelle e penetrare nelle ossa, invadendo l’intero organismo.

Poi un urlo. No, uno strillo. Un lamento particolare, uno di quelli che lacera la gola e si perde tra gli alberi, inghiottito dalla foresta. Una gola maschile, giovane e inadatta a gridare, tanto che quel latrato si affievoliva per poi riprendere di scatto, in un’allegra sinfonia di alti e bassi. Eyeless Jack rallentò.
 
 
 
 
 









Perdonate il ritardo, ma eccomi qui con il nuovo capitolo!
Volevo ringraziare Troki_98 e Kiky2003 per la loro partecipazione. Vi ringrazio tantissimo, le vostre recensioni sono stupende e mi rendono orgogliosa! *-*
Ah, una comunicazione: ho intenzione di riscrivere il capitolo ‘Alleanza’, dato che non mi era riuscito molto bene. I dialoghi non sono il mio forte, specie se a parlare sono delle personalità così diverse tra loro, ma mi sto esercitando. Altra cosa: il motivo del mio rallentamento è dovuto al fatto che sto disegnando delle scene della storia, ovviamente colorandole. Avevo intenzione di postarle, una volta terminate, sotto ogni capitolo, ma boh. Conoscendomi, rimarrà solo un progetto  :’(((
Spero che vi sia piaciuta anche questa parte, alla prossima!
 

Made of Snow and Dreams.

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Capitolo 10
*** Il ritorno del Mondo Vero ***


Il ritorno del Mondo Vero
 
 
 
 
 
 


La luce divenne aggressiva, tagliente come dei minuscoli frammenti di vetro; avrebbe lacerato le palpebre raggrinzite e penetrato in quei veli di pelle per distruggere le cornee delicate, ma l’elegante pizzo nero che copriva le fessure per gli occhi della maschera impedì la sua avanzata, proteggendo quel viso stanco e dormiente, custodendolo nella penombra tanta bramata da Jane.
Ma i raggi del sole non si arresero, crudeli. Il pagliaio, che la ragazza aveva scelto come alcova, fu presto invaso dalla luce del mattino, da quel riflesso pallido che si limita ad accarezzare le membra e a destare dolcemente i viventi per avvertirli che la notte è terminata.
Il corpo di Jane era dunque ben visibile in quella distesa gialla e pungente di paglia, più simile a una macchiolina nera che a una persona addormentata, sebbene le gambe fossero sprofondate nel foraggio, trovando conforto in quel tiepido calore: ciò che non lasciava presagire alcun dubbio, però, sulla natura di quel corpo, era quel riverbero rossastro che aveva colorato buona parte dei culmi su cui il corpo era adagiato.





Era una casa larga, arieggiata, spaziosa. I pilastri che sorreggevano i muri erano quasi impossibili da individuare rispetto al resto della costruzione, tanto erano logorati e sudici; solo un occhio piuttosto esperto avrebbe saputo indovinare il colore originario - un accecante bianco che, a detta di Carly Repsen, ravvivava il grigio perla dell’abitazione -, ma sarebbe risultata ugualmente un’impresa piuttosto ardua. Non che risultasse più semplice, per un estraneo abituato allo sfarzo e alle tappezzerie floreali e ai vestiti profumati e lindi e freschi di bucato, la semplice azione di superare l’ostacolo fatto di cactus e orchidee, che nel corso degli anni avevano avuto tutto il tempo necessario per aggrovigliarsi lungo il cancello.
Di certo sarebbe stato ancora più difficile non storcere il naso di fronte alle condizioni precarie in cui la casa navigava, e ancor più complicato sarebbe stato trattenere un conato entrando direttamente in casa; il puzzo stagnante sembrava aver piantato le sue radici direttamente nelle fondamenta, per poi espandersi in tutte le stanze come una pianta velenosa.

La casa era larga, arieggiata e spaziosa. Forse fin troppo per Argot, la cui unica occupazione al momento era contare le piccole crepe che puntellavano quello che, un tempo, era stato il tavolinetto per il caffè. Era un bambino mite, amante del silenzio e della quiete, e poco incline a lamentarsi per l’odore di muffa e umido che gli impregnava la salopette. Sospirò annoiato, e lanciò uno sguardo alla finestra per controllare l’ora. Il cielo si era rischiarato nel giro di due ore scarse, e, con sua grande delizia, le nuvole avevano mantenuto quella tonalità grigio perla che lui tanto apprezzava.

Accavallò la gamba sinistra sulla destra, adagiata su un cuscino del divano, quando un raggio di sole penetrò nelle tende rosso scuro, riscaldandogli fastidiosamente un lembo di pelle nuda. Non gli piaceva il sole, in special modo quello pungente e asfissiante che imperversava nelle ore di punta, e gonfiò le guance quando realizzò che l’ora di prendere il bus scolastico si stava pericolosamente avvicinando.

Argot Kelley non era un bambino come tutti gli altri. Il suo pallore malaticcio e i suoi occhi grigi erano oggetto di occhiatine preoccupate da parte delle maestre, e i suoi capelli neri risaltavano in un mondo fatto di gioiose testoline bionde. Che poi la sua filosofia di vita – per quanto un bambino di nove anni potesse averne elaborata una personale – andasse a braccetto con i precetti religiosi, quella era un’altra storia.

Aveva perso la madre in un passato imprecisato, lontano ma vicino nella sua memoria. Il cancro aveva deciso di divorarle il cervello proprio nel periodo più felice dei suoi primi quattro anni di vita, ed Argot era sufficientemente cresciuto da essersi impresso a fuoco i minimi dettagli di quel lutto. La pelle infossata, le labbra violacee e i capelli radi non lo avevano impressionato più di quanto facesse l’ago annegato nel braccio di Carly Repsen, per quanto l’insieme incutesse un senso di oppressione notevole. L’odore dolciastro e nauseabondo dei medicinali era impercettibile per lui, e neanche il chiarore inespressivo e distante delle pareti lo poteva distrarre dall’intento di tenere i suoi occhi inchiodati in quelli della madre morente. Erano grigi, grigi come i suoi, ma incolori: non sofferenti, non impauriti, non disperati – e sua madre non era il tipo di donna che piangeva nelle avversità. Erano limpidi ma vuoti, vi era riflesso tutto e niente. Era lo sguardo di un condannato a morte a cui non importa niente né della morte né della vita. Era lo sguardo di un morente abbastanza abile da aver battuto sul tempo la morte stessa, che ha scelto di auto sopprimersi dopo una lunga e distaccata riflessione sul proprio destino.
Argot aveva scelto proprio quel momento per abbandonarsi alle lacrime, confortato dalla dolcezza ruvida delle mani del padre e da quella estranea delle infermiere. Tutti avevano puntato la chioma corvina con comprensione e tenerezza, sussurrando parole di pietà verso il bambinello che, di lacrime, ne avrebbe certamente versate ancora. Tuttavia, contro le previsioni generali, durante il funerale le guance di Argot erano rimaste asciutte. Non aveva più lacrime da versare per un cadavere sotterrato, quando aveva implorato Dio in quell’ospedale tra i singhiozzi, osservando la vera morte della sua mamma. Quegli occhi irrorati da cellule impazzite e tenuti in vita da fiumi di medicinali, ma già morti di loro.

Piuttosto, tutto ciò che rammentava di quella cerimonia triste era stata l’indifferenza con cui aveva affrontato le parole di conforto che i parenti, gli amici e l’intera famiglia della morta andavano a dispensare.

Il sospiro di sollievo che aveva rilasciato quando si era sbottonato la camicia inamidata gli aveva fatto guadagnare un sospiro irritato da parte del padre, che, con gli occhi arrossati e gonfi, si guardava intorno in preda a uno stato di totale e confusa disperazione.
Il silenzio che era calato sulla casa era stato una benedizione per il primo e una maledizione per il secondo, ma Argot era troppo impegnato a cambiare l’oggetto delle sue letture che i passi di suo padre non venivano neppure registrati dalle sue orecchie; croci dorate, piccoli crocifissi fatti di perline rosse e conchiglie erano diventati il nuovo paesaggio per i suoi occhi, e al posto dei lunghi elenchi di malattie bovine erano subentrati i sermoni latini e le preghiere elementari. Quando la religione diventò parte integrante della sua routine, le cose andarono anche peggio.

Argot era nato con la fortuna di essere il figlio del proprietario di quella che, una volta, era stata una fattoria ben avviata. A tre anni aveva esultato di una gioia incontenibile quando i suoi genitori gli avevano comunicato, con un pizzico di soddisfazione, che i soldi racimulati nel corso del tempo erano abbastanza da potersi permettere l’acquisto di alcuni capi di bestiame – lo stesso Argot ricordava piuttosto vagamente quando suo padre gli aveva raccontato, tra le tante vicende familiari, di quando suo padre aveva abbandonato l’attività e venduto gli animali. Volendo seguire quelle orme, suo figlio aveva deciso di addentrarsi in quel nuovo universo che era l’allevamento, e Argot non poteva essere più che d’accordo.

Avevano deciso di modificare drasticamente la struttura della casa originaria, che, nonostante fosse già grande a sufficienza anche per la loro famiglia -  che si era allargata con la nascita del loro primogenito -, conteneva alcune stanze completamente vuote, e, nel loro specifico caso, un intero piano disabitato: quello inferiore, scelto per il giaciglio degli animali venturi.
Il fatto che suo padre fosse un veterinario instillò ad Argot l’idea di poter seguire la medesima carriera, ma quando, due settimane dopo, decine e decine di agnelli e mucche popolarono gli scompartimenti a loro destinati, quell’idea mutò in una vera e propria ispirazione.

Erano stati gli anni d’oro per lui e la sua famiglia; Argot, per non farsi trovare impreparato, aveva anche comprato al mercato un libro illustrato per bambini in cui venivano elencate le malattie principali che affliggevano i ruminanti, ma suo padre glielo aveva sottratto affettuosamente per sostituirlo con un libro specialistico. Inutile dire che il bambino ne era rimasto incantato, ma tutti quei paroloni così tremendamente complessi da pronunciare – solo qualche settimana dopo scoprì che si trattava del famigerato latino – gli fecero perdere ogni voglia di leggere le pagine.

Quando Carly morì, gli animali iniziarono a deperire. Quel libro sulla medicina veterinaria trovò la sua morte in un polveroso scaffale della biblioteca, consumato dalle tarme. Le mucche e gli agnelli si ammalarono di uno strano morbo, qualcosa che suo padre nominò ‘Paratubercolosi bovina’, ma l’uomo era così impegnato a lasciare fiori e lettere sulla tomba della moglie da aver perso l’interesse nel curare le bestie.

Argot assistette a tutto: i muggiti di dolore erano i suoni che infestavano la stalla, l’odore della diarrea e del vomito erano così pungenti che ben presto Argot dovette accertarsi di avere in mano una boccetta di profumo per poter entrare. Il dimagrimento generale non gli faceva molta impressione: non era niente in confronto al manichino che era diventata la sua mamma in quell’ultimo giorno. I corpi che si accasciavano a terra, sulla paglia, erano flebili immagini contorte, a cui lui non prestava più attenzione. La morte non lo inquietava più, sua madre aveva passata di peggio. I libri di religione gli stavano insegnando tante cose, tra cui il non temere il decadimento fisico, visto la salvezza dell’anima immortale. Quindi perché preoccuparsi?
Tutti sarebbero andati in Paradiso.

Sospirò quando gli ingranaggi dell’orologio a cucù – o meglio, quello che un tempo era stato un orologio a cucù – scricchiolarono, troppo arrugginiti per poter compiere il loro dovere. Argot si alzò stancamente, traballando per il sonno, e, adocchiando subito lo zaino precedentemente preparato, si avviò verso la scalinata che conduceva al pian terreno.




La bambina grugnò, arricciando le labbra e stuzzicando le unghie dai bordi frastagliati con i denti. Si annoiava, come in tutti i pomeriggi in cui la maestra assegnava pochi compiti e lei si ritrovava libera da qualsiasi impegno prima dell’amatissima ora di cena. Di certo non aiutava il fatto che suo padre paresse un bambolotto di gigantesche dimensioni, una presenza buffa e bizzarra mentre leggeva attentamente il giornale, sprofondato sulla poltrona. Doveva essere davvero assorto nella lettura, poiché ignorava l’irritante voce della conduttrice di un programma di televendite che lei, però, udiva eccome.

La bambina non aveva voglia di giocare con le Barbie o di vedere le cassette in una delle rare volte che suo padre era presente a casa, visto i suoi sfiancanti turni di lavoro; quindi si alzò, fingendo di guardare con interesse una delle tante calamite che adornavano il frigorifero – una calamita a forma di sedia a sdraio, che i suoi genitori avevano acquistato in una dei loro viaggio a Virgin Island. Ah, quanto si erano divertiti tutti e tre! – mentre squadrava, invece, il profilo paterno per qualche secondo. Quando si riempì sufficientemente gli occhi e la mente di quei tratti aquilini, si avventò verso di lui urlando: ‘Caricaaa! ‘ a pieni polmoni. L’uomo non ebbe il tempo materiale per voltarsi per contrastare quell’impeto, poiché lei gli saltò in grembo e gli strappò dalle mani il giornale, gettandolo per terra.

‘Cos… miseriaccia, figlia mia, stai un po’ attenta! ‘ esclamò suo padre, colto alla sprovvista, mentre cercava di riacciuffare la pagina ultima che aveva attirato la sua attenzione.

‘Alla buon’ora! ‘ cinguettò invece la bambina, battendo i palmi delle mani sulle ginocchia. ‘Papà, possiamo uscire oggi? Mi annoio, mi porti al parco? ‘

‘Ehhh, ma lo sai anche tu che non possiamo andare al parco che ti piace tanto stasera. La strada è tanta, e poi… vieni, guarda tu stessa: il cielo si è fatto buio, ormai. ’ mugugnò l’uomo, indicando con un gesto stanco la finestra.

‘Ma papà! Me lo avevi promesso, mi avevi detto che ci sarei potuta andare! Uff… sei cattivo. Sei un cattivo papà, lo sai? ‘ concluse la bambina, sporgendo il labbro inferiore mentre sceglieva quale poltrona fosse la più comoda per poter spiare il genitore da sotto la frangetta castana.

‘Eh, sì… ‘ sorrise l’uomo, chiudendo il giornale. ‘Talmente cattivo che ora ti mangio! Arrivo, sta arrivando l’orco cattivo! ‘

E poi fu tutto uno scosciare di risate e risate, che attirò Charlotte, la madre della piccola. Suo marito che inseguiva la figlia con le braccia slanciate in avanti come una mummia era uno spettacolo di grande gioia per lei; vedere quel demonietto di una peste sgattaiolare a destra e a manca, saltare sui cuscini che aveva accuratamente deposto sul divano per poi rifugiarsi tra le gambe del tavolo con gli occhi brillanti di adrenalina e i capelli scomposti, era il premio più soddisfacente per ripagare il suo corpo, affaticato dalle ore lavorative.
Eppure, nonostante la confusione fosse la padrona che regnava nella loro casa, in quei momenti non si arrabbiava mai. Si limitava a godersi la scena dalla cucina, appoggiando la schiena al piano cottura e squittendo, quando un Lego finiva per rovesciarsi e rotolare sul pavimento, un poco convinto: ’ Piano, voi due! A distruggere la casa siete proprio bravi, eh? Jane, guarda che poi devi rimettere a posto la scatola dei-‘

‘Sì, sì. Mamma, proteggimi da lui, mi insegue! ‘ fu l’inevitabile risposta che giungeva da sotto una sedia.

‘Oh sì, mia bella signora. Ma prego, protegga pure sua figlia, ma tanto l’orco arriva sempre! ‘ disse poi l’uomo affannosamente, allargando le braccia e inclinando la schiena per imitare l’inchino di un cameriere.

La donna ridacchiò, schiaffeggiandogli l’avambraccio destro. ‘Che scemo…’

Un ciuffetto di capelli fece capolino da sotto la tovaglia. ‘Ma la volete finire, voi due? Bleah! Mi sta salendo la glicemia! ‘

Charlotte ridacchiò.  ‘Okay, okay. Abbiamo finito. A proposito di glicemia, sai con cosa potresti fartela venire? ‘

La bambina si sporse, dimenticandosi del suo rifugio improvvisato, scuotendo la testa e fissando con occhi sgranati la madre con la stessa intensità di chi si aspetta di venire a conoscenza di un importante segreto. ‘No. Con cosa? ‘

‘Fossi in te, correrei subito in camera tua. Forse, e dico forse, troverai qualcosa da qualche parte. Qualcosa che ti piacerà. ‘

Gli occhietti vispi si illuminarono in un grande sorriso. ‘Cosa mi hai portato? Una bambola? Un vestito nuovo? O forse è un cagnolino? ‘

‘Vai e lo scoprirai. Ti dico solo che è qualcosa di molto dolce. E ora fila via, mostriciattola! ‘ disse l’uomo, rivolgendo alla moglie uno sguardo gioioso e furbo, tipico di chi la sa lunga.

La bambina obbedì. Avendo riconosciuto nell’aria il frizzante odore delle sorprese gradite, corse verso la sua camera, ignorano il frastuono che i suoi talloni producevano sbattendo sul pavimento freddo. Aveva le guance rosate per la corsa e l’affanno, e quando la voce stanca ma divertita della madre l’accompagnò per il corridoio per indurla a un rallentamento, l’adrenalina che palpitava in tutte le sue membra conobbe un picco. La porta della stanza venne aperta con ben poca delicatezza e sbatté contro la parete opposta quando la bambina entrò con la stessa irruenza di un terremoto.

Affannata e con il petto che tamburellava, ispezionò la stanzetta minuscola e colorata come se fosse la prima volta. Il letto con le federe azzurro cielo era liscio e ordinato come sempre; il piccolo mobiletto utilizzato come porta - videocassette era stato pulito e sgrassata da poco – l’odore fresco del detergente impestava l’aria e aveva invaso le narici della bambina, e di questo non poteva che esserne più lieta; i fumetti era stati riposti nella cesta dei giocattoli di plastica, sommersi da dinosauri variopinti e volumi scolastici; le tende erano semi- trasparenti, e non celavano nulla allo sguardo.

‘Ma dove sono questi dolci? Ho fame! ‘ borbottò lei, stringendo le dita delle mani in due pugnetti. Si voltò, e stava per tornare nel soggiorno quando un sacchetto color verde smeraldo intercettò i suoi occhi delusi, ravvivandoli di emozione. Era pieno di caramelle e cioccolatini di tanti gusti diversi, e solo a vedere le cartine che li coprivano veniva voglia di assaggiarli. Quando la bambina addentò il primo cioccolato l’idea di dividerli con i genitori le piacque, e camminò lentamente nel corridoio.

‘Mamma, papà! Li ho trovati, dovete mangiarli anche voi! ‘ mugugnò non appena si trovò vicina alla cucina. Il fatto che un silenzio innaturale echeggiasse in tutta la casa non la preoccupò, ma, quando si affacciò per rimproverar loro di non averle risposto, spalancò la bocca per urlare.

Il soggiorno era cosparso di sangue, come se qualcuno avesse giocato con le fragole e le avesse spiaccicate contro le pareti e il pavimento. Riverse al suolo, le carcasse orribilmente tumefatte dei suoi genitori.

Lo shock si mescolò al disgusto, ma la bambina continuò a fissare, incredula, i due cadaveri familiari. La mano si schiuse quasi dolcemente senza che lei se ne rendesse conto, e lasciò cadere il sacchetto con i dolci. Quando cadde sulle mattonelle produsse un allegro tintinnio che scivolò nelle orecchie della bimba, per poi dissolversi. Gli occhi le si sgranarono fino a diventare enormi, come quelli di un bambolotto. La bocca si aprì per urlare, ma uscì solo un suono strozzato. I piedi si mossero da soli.

La bambina indietreggiò quando i suoi occhi appannati misero a fuoco la sagoma di una donna sbucar fuori da dietro il divano come un mostro per distruggerla, e il suo istinto strillò di fuggire via per chiamare aiuto, ma tutto il suo corpo non voleva più rispondere ai comandi del suo cervello. Non appena le sue scapole sporgenti sbatterono contro la superficie liscia dello schermo della televisione, sussultò, tenendo ancora lo sguardo fisso sulla donna. Questa si fece strada tra la pelle del divano e i cuscini come se non avesse una consistenza e fosse fatta di aria, e il modo in cui camminava, facendo strusciare le ginocchia tra loro, provocò repulsione nella bambina.

‘Come sei carina, bimba. ‘ disse la donna. La sua voce rancida colpì la bambina come una coltellata. ‘Sono proprio felice di vedere che sei sveglia. ‘
A mano a mano che la distanza tra lei e la donna diminuiva, la bambina ebbe modo di notarne i tratti: un velo di capelli neri le ricadeva sulle spalle magre come una ragnatela, e l’intero corpo era coperto da un lungo abito nero che le ricordava quello di una macabra sposa. Il viso era solo una maschera bianca sorridente e felice. In una delle sue mani guantate, un coltello.

La lucidità della lama da macellaio la riscosse dal suo torpore, e la bambina si strinse nelle spalle e tastò la televisione dietro di lei, pensando di spingerla verso la donna. Il peso di quel grande blocco solido l’avrebbe sicuramente schiacciata come un ragno.

Ma qualcosa doveva per forza essere stato trapelato dal viso della bimba, perché una risatina divertita sgorgò fuori da una fessura incastonata nella maschera della donna. Quel suono strano, arrugginito, spaventò ancora di più la bambina. ‘Vuoi schiacciarmi con la televisione? Pessima idea, bimba mia. ‘ disse la donna, compiendo un altro passo in avanti. ‘Un pensiero davvero brutto. Molto, molto brutto. E, se posso darti un consiglio, ‘ continuò, e la mano che non reggeva il coltello si sollevò per indicare la televisione, ‘fossi in te mi allontanerei da lì. Se ti cade addosso moriresti sul colpo, forse. O forse rimarresti schiacciata sul pavimento come un insetto, e avresti tutti gli organi spappolati. E le ossa frantumate. E gemeresti come un maiale in agonia. ‘

La bambina staccò le mani dalla televisione bruscamente, come se si fosse scottata. Gli occhi iniziarono a bruciare, e divennero anche più grandi. Sembrava che il suo viso fosse diventato tutt’uno con quegli occhi. La donna rise, ancora, ma senza malizia né cattiveria. ‘Come sono grandi i tuoi occhi, bimba. Grandi e scuri. Ma smetti di piangere, non mi piacciono i bambini che piangono. Non vorrai ritrovarti con uno dei tuoi bellissimi occhi che cola sulla tua guancia, vero? ‘

La bambina annuì, e puntò le sue pupille sul viso della donna come se volesse farle cosa gradita, donandole una visione completa delle sue iridi. Arricciò il naso e deglutì rumorosamente per ricacciare indietro il pianto che voleva dedicare ai suoi genitori e al suo dolore. La donna annuì, come se avesse capito. ‘Brava la mia bimba. Ora sì che mi piaci. I tuoi occhi lucidi, le tue guance rosate… le tua manine… ‘ disse, ma la sua voce sfumò come una sottile nebbia. La bambina ebbe l’impressione che, da dietro quella maschera, un paio di occhi affamati la stessero fissando, scrutando il suo corpo per divorarlo. Si sentì immediatamente a disagio, confusa, ed ebbe voglia di stringere le braccia al petto per fermare l’avanzata di quello sguardo nero, ma ebbe paura. Si limitò a irrigidire i muscoli della schiena e a incassarsi nel petto in una blanda difesa. La donna notò quel cambio di stato, e si avvicinò ancora. ‘Ora che ti guardo bene, assomigli a tua madre. Sì. Un gran bel corpo, bei capelli. Pelle morbida. ‘

Si voltò di scatto, e chinò la testa verso quel grumo rosato che era stata la testa di sua madre. La sua schiena era posizionata di fronte allo scempio, quindi impedì la visuale alla bambina, che non seppe se esserne sollevata o rattristata. La testa era semplicemente vuota, non c’erano pensieri né paure. Tutto il suo corpo non esisteva più, si era dissolto, e il battito distante del suo cuore era l’unica cosa che le faceva capire di essere ancora viva.
Ma quando la donna allungò il braccio sinistro per cogliere qualcosa dal corpo di sua madre – il vestito era così aderente alla sua schiena che lasciò intravedere la colonna vertebrale che si piegava come un fuscello - la bambina ebbe un sussulto di rabbia, e quando il suono della carta che si straccia le riempì le orecchie, ingoiò un groppo di lacrime. Voleva urlare a quel mostro di smetterla, di andarsene dalla sua casa e di lasciare stare i suoi genitori, che sicuramente erano ancora vivi, ma quando il mostro si voltò per lanciarle, trionfante, la testa della mamma come se fosse un pallone da football, strillò.

 ‘Forse era troppo morbida. Avresti dovuto vedere con quanta facilità le ho tranciato le vene e le arterie! Sai, parevano fatte di burro… ti confesso che ho avuto voglia di assaggiarle. ‘

Una matassa di capelli castani colpì le caviglie della bambina, che balzò all’indietro per l’orrore mentre la sua bocca era spalancata e intenta a liberare le urla che avrebbe voluto lasciar scappare già da molto tempo. ‘Non ti piace? Oh, suvvia, non essere scortese. Stai insultando tua madre e tuo padre quando non guardi le loro graziose faccine. ‘ disse il mostro in tono annoiato e infastidito quando la bambina urtò il vaso di fiori posto dietro di lei, che cadde sul pavimento con un tonfo, rompendosi in tanti frammenti.

Una piccola scheggia precipitò ai piedi della donna, che la osservò immobile per qualche secondo come se fosse materia da ricerca universitaria. Quando rialzò il viso verso la bambina, il volto che era nascosto dietro la maschera era contratto in una smorfia di rabbia. Se l’avesse tolta, la bambina avrebbe visto qualcosa più simile al muso di un cane pronto ad attaccare che a dei lineamenti umani.

‘Troia, troia schifosa! Non è educato gridare agli amici, lo sai! ‘ ringhiò lei. Scattò con la stessa velocità di un mastino in avanti, rischiando di graffiarsi i talloni e le gambe con i cocci taglienti del vaso, ma riuscì ad afferrare il suo obbiettivo sconvolto e disperato. Strinse la presa sulle braccia della bambina, che scalciava e si dimenava come un’anguilla, e la percosse, facendole sbattere la testa sui bordi dei frammenti in ceramica per punirla. ‘Schifosa, schifosa! Cattiva, cattiva Jane che mi disobbedisci! ‘ urlò la donna, volendo sommergere i singhiozzi e le grida di dolore della sua preda con i toni più alti che riusciva a raggiungere. ‘ Ti ho detto di non piangere, lurida put- Ah! ‘

E si interruppe boccheggiando, quando realizzò di essere stata trafitta da una scheggia sul ventre. Jane, quella lurida, l’aveva ferita a tradimento!
Il dolore esplose in mille scintille prima che il suo braccio potesse restituirle il colpo, magari squarciandole il cranio con quella stessa scheggia colorata fino a farle uscire il cervello. L’avrebbe pestato più e più volte, spargendolo su tutto il corpo della piccola bastarda, e poi avrebbe distrutto direttamente il cadavere, magari infilando il suo stesso coltello nella cavità vaginale per aprire il tutto in due. L’avrebbe lavorato come fa un macellaio con un pollo o un maiale, e poi avrebbe dato fuoco all’intera casa.

Ma ora niente di tutto quello che aveva progettato si sarebbe potuto attuare con il più sublime dei piaceri, perché la bastarda le aveva precluso quella possibilità. Gemette di dolore, sibilano un insulto che Jane non poté captare, troppo intenta a guardare il suo corpo che si trasformava in una decina di secondi, allungandosi verso l’alto come un palo della luce. Acquistava centimetri su centimetri in frazioni di secondo, ascoltava lo scricchiolio delle sue ossa che si affusolavano come filamenti per poter seguire quel ritmo, e quando il suo corpo fu solo quello di Jane the Killer e non quello di Jane Arkensaw, tutto si disintegrò.
 


Le palpebre scattarono così velocemente che chiunque, da fuori, avrebbe paragonato quel movimento a quello del meccanismo interno inserito nei bambolotti, i cui occhi si rivoltano all’indietro se messi in posizione supina. Il cinguettio degli uccelli e il suono rassicurante della brezza vennero spezzati da un fievole singhiozzo, che, nonostante si disperdesse all’esterno, rimbombò come un tamburo nella testa e nell’orgoglio di Jane. Quando ne seguì un secondo dopo pochi secondi, e poi un altro e un altro ancora, si coprì la bocca umida con entrambe le mani. Ma le lacrime non arrestarono la loro avanzata, e ben presto l’interò edificio fu saturo di quel pianto disperato che implorava solo di farla finita.










Non era difficile. L’ultima volta che aveva avuto l’occasione di notare suo padre che sceglieva minuziosamente quale chiave scegliere risaliva a due giorni fa. Aveva detto ad Argot, con voce stanca e atona, che doveva partire per un piccolo viaggio di lavoro che sarebbe durato sicuramente meno di tre giorni, e che la gestione della casa passava per quell’intervallo di tempo a lui. Argot aveva annuito, sforzandosi di non volgere lo sguardo sulle tubature incrostate e sugli scarafaggi che puntualmente costruivano il nido dentro di esse, e gli aveva promesso che si sarebbe comportato bene. Inoltre aveva già imparato a memoria la strada che conduceva alla città, e come arrivare alla fermata dell’autobus.
Sarebbero stati giorni uguali agli altri.

Il mazzo comprendeva una grande varietà di chiavi: almeno due per il cancello, cinque per ogni stanza del piano superiore, tre per quello inferiore, una sola per la scalinata che collegava i due ambienti. Argot non ricordava quale spazio aprisse ciascuna chiave, ma sapeva riconoscere quella che sbloccava il catenaccio che manteneva serrata la porta per le scale: era più piccola delle altre, più sottile, con un filo di ruggine a macchiarne i bordi.
L’immagine di un certo bambino che scende le scale ripidissime, di pietra e sdrucciolevoli, non gli piacque. Aveva paura del buio, specie negli spazi ristretti, ed era riluttante a scendere verso il casolare-stalla, anche se doveva per forza passare per quella via se doveva andare a scuola.

Certo, potrei anche non andarci per oggi… pensò Argot con un sorriso lieve. Ma la consapevolezza che una scelta così avventata avrebbe apportata delle gravi conseguenze, tra cui un asprissimo rimprovero da parte di suo padre per un’assenza compiuta per un banale motivo – E poi, cosa potrei dirgli in mia difesa? Cosa? Che non ho voluto scendere perché avevo paura? – gli fece scuotere la testa. Il piccolo barlume di spensieratezza che aveva brillato negli occhi grigi svanì, e il suo viso tornò ad essere quello grave e serioso di sempre.

Afferrò lo zaino con ben poca delicatezza, portandoselo alle spalle; attraversò la cucina, le camere da letto -  badò bene di fissare la porta davanti a sé come se ne andasse della sua vita quando oltrepassò la camera da letto di sua madre, rigorosamente chiusa a chiave come una reliquia – e la serra. Quando la porta che lo separava dalle scale e dal piano inferiore gli parò il cammino, sospirò, e quando la chiave compì l’ultimo giro nella serratura, ignorò un brivido freddo che gli aveva attraversato la schiena per addentrarsi nell’oscurità.

Rischiò varie volte di inciampare e scivolare. La brina mattutina aveva reso le pietre viscide, e più volte fu costretto ad artigliare il muro per scongiurare una brutta caduta. Ed erano strani i suoni dei suoi passi, dovette ammettere presto: non era la classica vibrazione sorda prodotta da un passo compiuto sul cemento, e non era neanche il sibilo languido che produceva un piede sull’erba bagnata. Era come se ci fosse un altro rumore a coprirlo, qualcosa di indefinibile. Curioso, Argot si fermò, e sporse il collo per ascoltare meglio.

Poi udì finalmente quel qualcosa: era un inconfondibile singhiozzo femminile, disperato e soffuso di dolcezza.

Un singhiozzo? Un momento, questo vuol dire che non sono solo! pensò confusamente Argot, e un’ondata di ulteriore paura lo fece retrocedere di un passo.

Aspetta, aspetta. Non fare niente di stupido. Se scivolo posso anche morire, anche papà me l’ha detto. Mi potrei spezzare il collo. Però… se qualcuno sta male… quanti passi sono?

Quattro scalini. La luce del sole a invaderli.

Intanto fila via dal buio.







Si rizzò con il busto, piantando i palmi delle mani sul pavimento polveroso. Non ebbe il tempo di passarsi il pollice sulla guancia per asciugare quella lacrima, né di voltare la testa a destra e a sinistra per controllare di essere realmente sola: i suoi occhi inquadrarono subito la figura di un bambino gracile e immobile di fronte a lei, che la fissava con un misto di disappunto e autentico stupore.

Jane ebbe solo il tempo di imprecare nella sua mente un solo: ‘Dannazione! ‘, prima che il suo braccio sinistro scattasse in avanti per afferrare la sua maschera e schiaffarla sul viso repentinamente. L’unica cosa che intendeva fare era fuggire via da quel posto e da quel bambino, sperando che tutto sarebbe stato interpretato come un sogno dal piccolo, il sogno di un fugace incontro. Ma, quando diede un colpetto di reni per tirarsi su, una fitta di dolore la fece gemere, costringendola a sdraiarsi sulla paglia; le sue gambe avevano perso gran parte della sensibilità, come se fossero state anestetizzate, e le sue braccia erano indolenzite. Mandò giù un groppo alla gola per la frustrazione di essere incapace di muoversi.

Le sembrò che le labbra di quel bambino fin troppo magro si torcessero a formare una ‘o’ di sorpresa, e che sussurrassero senza emettere suono un: ‘Cosa? ‘. Ma quando sbatté le palpebre e scosse il capo per accertarsi di quell’effettivo battere sul suo cranio, si rese conto che il bambino aveva mantenuto la bocca impietrita, a delineare una rigida e sottile linea. Jane deglutì.

Fu Argot che decise di scrollarsi di dosso lo sbigottimento iniziale, ma i suoi buoni propositi di dimostrarsi fermo e forte nel difendere la sua casa fallirono miseramente quando cercò di parlare. ‘Chi sei tu? ‘ provò a formulare, ma nessun suono gli uscì dalle labbra. Jane rimase immobile mentre lo fissava annichilita, con il cuore che batteva impazzito e la testa che le pulsava. Il sangue che veniva pompato alla velocità della luce le riscaldava le membra, e sarebbe pure stato pure rilassante se non fosse affluito alle guance, stimolandone la sudorazione. Jane indurì le mascella, immaginando con un leggero sbuffo il fastidio che avrebbe provato e il tempo che avrebbe impiegato a staccare la superficie liscia delle piaghe del viso, su cui la pelle era aderita, mentre i suoi occhi non lasciavano la presa sul bambino di fronte a lei.

‘Io… ‘ si sforzò di pronunciare in una tonalità che non lasciasse trapelare la sua confusione, ‘Io… Io posso spiegare! ‘ concluse, farfugliando. Una fitta più acuta delle altre le gravò la testa, e istintivamente serrò con i denti la punta della lingua in una morsa per non spaventare ulteriormente il bambino, di cui poteva percepire lo sguardo pungente trapassarle il corpo da parte a parte, con un mugolio di dolore. Tuttavia il nervosismo era tanto e troppo da tollerare, e Jane non si accorse di aver tamburellano i polpastrelli della mano destra in un tic convulsivo.

Gli occhi luminosi e criptici di Argot focalizzarono subito quel continuo movimento della mano di Jane, e il bambino parve innervosirsi. Non aveva mai visto una reazione simile dovuta all’ansia, ma per non aggravare ulteriormente le cose si limitò a indietreggiare di un piccolo passo e a pigolare: ‘Chi sei tu? Che ci fai qui? ’

La voce di Jane tremolò. Lei stessa temette di essere sul punto di scoppiare in lacrime un’altra volta. ‘Nessuno, giuro. Nessuno. Ascolta, ora me ne vado e tu non i vedrai mai più. Va bene? Nessuno. Nessuno! ‘ disse.

Argot era spaventato, e per ragioni comprensibili. D’altronde, sarebbe stato impossibile non notare l’inquietante maschera che celava il viso della giovane donna, e la sua fronte si increspò quando gli sorse naturale paragonarla a una di quelle creature che comparivano nei film horror che sceglieva di gustare nelle noiose serate estive.

 ‘Sai che questa è casa mia, vero? ‘ chiese, dopo un attimo di esitazione. Sbirciò la matassa di lucidi capelli neri che strisciavano sulle mattonelle, e per una frazione di secondo si soffermò sulla loro innaturale lucentezza, studiando poi il sorriso nero che s’inarcava sul biancore della maschera. C’era tanto, tanto nero a nascondere il corpo di quella donna, troppo. Il nero dei capelli a macchiare il pavimento come una grande pozzanghera d’inchiostro. La macabra espressione fissata dal sorriso e dalle lunette a creare degli occhi felici, per celare chissà quale sanguinosa tragedia. Il nero dell’abito a fasciare la pelle come un velo mortuario. Argot rabbrividì.

‘Sì… certo. ‘ mormorò stentatamente Jane, inghiottendo ogni gemito di frustrazione e rabbia. ‘Scusa, è che non sapevo… ‘ disse interrompendosi, prendendo fiato con la bocca e chiudendo gli occhi per calmarsi, ‘Non sapevo fosse abitata. Ho… avevo visto una casa da lontano, e quindi sono entrata per un riparo. ‘ concluse. E Jane scoprì di aver trattenuto altre lacrime mentre cercava di spiegare pateticamente il motivo di quell’intrusione. Il pensiero la fece gemere d’orrore.

Argot si sforzò di non assecondare il desiderio di scappare dallo stanzone per rifugiarsi nella sua camera, dopo essersi accertato d’aver bloccato la porta con un lucchetto e chiamare la polizia. Non conosceva la ragione di quell’istinto che gli sussurrava di andarsene il prima possibile, lui che aveva sempre cercato di essere disponibile con tutti, eppure ogni singola fibra del suo essere tremava per la paura. E non era un timore passeggero, di quelli che provava nello scorgere un cane randagio in prossimità della strada principale o una vipera a intralciargli il passaggio: era un’emozione molto più densa e intrinseca, più simile al rigetto irrazionale o al rifiuto di qualcosa. ‘Ma ora è mattina… ‘ disse piano, e scandì le parole più del dovuto, facendo silenziosamente innervosire Jane. ‘Scusa se te lo dico, ma penso che dovresti andartene. ‘

La vista di Jane si offuscò a quell’ultima affermazione, e un fiotto di lacrime bagnò la sua pelle compressa dalla maschera. Come poteva spiegare al bambino che non aveva la forza per alzarsi in piedi? Come spiegargli che era ferita e aveva bisogno di riposarsi in un luogo sicuro, e, per la prima volta dopo lunghi mesi, su un letto morbido di paglia calda per riprendersi? Come raccontargli dell’aggressione subìta? Come svelargli la sua vera identità? Come evitare un eventuale arrivo della polizia?  ‘Non riesco nemmeno ad alzarmi. Sto male. ‘ si limitò poi a soffiare con un fil di voce. Vedendo poi la smorfia curiosa e insieme diffidente del bambino, si affrettò ad aggiungere: ‘Un cane mi ha attaccata, e mi ha ferita alla schiena. ‘

A quella notizia, Argot incrinò il sopracciglio destro e addolcì la tensione dei muscoli facciali, assumendo un’espressione neutrale. ‘Davvero? ‘ disse, allungando leggermente il collo per scorgere la ferita nominata dalla sconosciuta. Fece un passo in avanti, calibrandone la lunghezza per non avvicinarsi troppo. ‘Dov’è la tua ferita? Fammela vedere. ‘ 

Quel timido approccio scosse Jane più di quanto sperasse. ‘No! ‘ urlò con voce stridula, e, colta dall’ansia crescente, con l’ausilio dei palmi delle mani e dei muscoli delle braccia, strisciò bruscamente all’indietro.

Quella mossa improvvisa pietrificò Argot sul posto, che la fissò con occhi sgranati per lo stupore; trattenne un conato di disgusto: quella solida massa nera, strusciando contro il pavimento, aveva prodotto un suono simile a un sibilo, ed essendosi mossa con una destrezza notevole gli era parsa più simile ad un serpente che ad una figura umana sofferente. Quando si accorse del paragone, provò vergogna per se stesso, ma l’immagine del corpo filiforme di una biscia agonizzante persistette nella sua mente.

Vedendo il disagio che la sua reazione aveva provocato nel bambino, Jane disse frettolosamente: ‘ No. Non ti avvicinare, ho perso molto sangue e continuo a perderne. E poi è alquanto impressionante, specie per un bambino come te. ‘ La preoccupazione e l’ansia erano palpabili nell’aria ed erano diventati parti integranti degli animi dei due, ma paradossalmente era Jane che temeva di più. Trattenne il respiro mentre aspettava la risposta dell’altro, pregando affinché quell’incontro potesse terminare velocemente e senza danno per nessuno, e intanto si sforzava di acquietare quel groviglio di emozioni che sfuriavano nel suo cuore: tra il rinnovato dolore delle ferite e quello antico che tergiversava nel suo animo, tra la rabbia opprimente per la sua condizione e il desiderio di vendetta, tra la vergogna d’essersi fatta scoprire in una casa già abitata - e per di più da un bambino - e la paura delle conseguenze di quella sua mancanza d’attenzione, c’era un’altra sensazione: l’improvvisa realizzazione – e la conseguente disperazione – di aver appena incontrato non un bambino, bensì quel mondo sano e innocente che lei aveva sempre cercato di evitare.
Quando la sua mente elaborò quel lampo di orrore e i suoi occhi videro il bambino di fronte a lei con occhi diversi, a malapena Jane non rise istericamente e non perse le ultime scintille di lucidità.

Un altro, piccolo raggio di luce fendette il viso di Argot e i suoi occhi divennero più brillanti – permisero a Jane di notarne il colore: le iridi erano plumbee, grigie come i cieli in tempesta, lucide di sogni concreti e limpidi di un’innocenza intatta. Sebbene quel grigiore fosse morbido di dolcezza e di pietà e non duro e metallico come la freddezza crudele, distante e metallica di un coltello, Jane desiderò sprofondare. Si sentiva minuscola, schiacciata e colpevole da quello sguardo estraneo, appartenente ad una dimensione che non era più la sua, accusata. Sporca. Con dolore, percepì quel peso di accuse gravarle addosso come un macigno, e lo accettò come giusto. La sua condanna personale, meritata.

Pianse, per la vergogna. Ma non era un pianto del tutto amaro; vi era mescolato il sollievo di potersi abbandonare finalmente all’accettazione delle sue colpe, come se per anni la sua mente non avesse desiderato altro, e alla stanchezza.

Argot non poté vedere le lacrime fluire né poté scorgere gli occhi arrossati della ragazza, nascosti sotto i veli di pizzo nero. Tuttavia, le sue orecchie captarono un debole singhiozzo levarsi da sotto la maschera e i suoi occhi fotografarono il sussultare del petto di lei. E poi un altro singhiozzo, e un altro, e un altro ancora, e quei lamenti sinceri rimbombarono nelle pareti del casolare come una campana d’argento e nel cuore di Argot, che si ritrovò impotente di fronte a quella situazione per lui difficile da affrontare. Il pianto della sconosciuta doveva per forza simboleggiare sofferenza, e per quanto ne sapeva, di fronte alla sofferenza – lui lo sapeva bene – bisognava affiancare la pietà e la comprensione per dissipare ogni dolore. Desiderando davvero prestare aiuto, si impegnò per scacciare la diffidenza e la paura e si avvicinò di alcuni passi verso la donna, scuotendo la testa.

‘Ehi, non piangere. So che… ‘ provò a formulare, chinandosi di fronte a lei con timore, esaminando le braccia e il viso con un misto di curiosità e sollievo nel poter soddisfare le sue domande. Le sue dita ignorarono i singhiozzi che scuotevano violentemente quel corpo, e sfiorarono con calcolata lentezza la stoffa serica del vestito e la corposità dei capelli finti. I suoi tocchi erano lenti, cauti e rassicuratori, gli stessi che un bambino avrebbe adottato per carezzare la pelliccia di un gatto di cui ha faticosamente conquistato la fiducia, giorno dopo giorno. ‘Se stai così male non ti caccerò via da qui, eh! Anzi, ora chiamo l’ospedale e… ‘

In mezzo ai singhiozzi, una voce si precipitò a frenare la pericolosa intenzione. ‘No. Non… non chiamare nessuno. ‘

Argot sgranò gli occhi, volendo esprimere il suo disappunto. I suoi tocchi si arrestarono per un attimo, poi ripresero, più soffici e delicati di prima. Le sue dita affettuose ma curiose scivolarono sull’incavo del gomito, si intrufolarono tra i capelli per districare dei nodi – Sono così anormale che i miei capelli non possono nemmeno formare dei comunissimi nodi. E io… no, io ho i capelli non li ho più. Quelli non sono nemmeno miei. pensò amaramente Jane, gustando il sapore salato delle calde lacrime – e percorsero il loro cammino lungo la nuca. Quando sentirono la stoffa non più serica ma terribilmente – disgustosamente – umida, si ritrassero, offrendo agli occhi esterrefatti di Argot la vista del sangue.

‘Oddio! ‘ esclamò, e Jane alzò il viso interrogativamente per quel repentino cambio di tono. Quando si accorse del sangue che imperlava le dita del bambino, una serenità che mai avrebbe sognato di provare appiattì ogni volontà di dire o fare qualcosa che avrebbe rassicurato Argot. Non le importava della viscosità che le si era attaccata alla pelle come un secondo rivestimento, e nessun’altra emozione fece capolino nel suo animo mentre assisteva alla maschera grottesca che il viso del bambino aveva impersonato, mentre boccheggiava per riprendersi dallo shock.
Riusciva solo a sentire un piacevole calore propagarsi dal suo cuore alle sue membra, risanare ogni ferita e scacciare via quella cappa di acuto isterismo che aveva minacciato il suo equilibrio da quando quegli occhi plumbei l’avevano focalizzata. Era l’unico calore che sentiva e che il suo corpo voleva sentire da tempo immemore, e Jane intendeva gustarlo fino all’ultima scintilla: era la più soave delle sinfonie, era il più glorioso dei colori, era il più dolce dei balsami per il suo cuore affranto.
Dopo anni, sentiva di potersi riappacificare con se stessa e il mondo che non poteva - e non doveva – accettarla; era come un naufrago che, dopo un eterno viaggio per mari e tempeste senza fine, salpava sulla sua terra per una nuova vita di gioia e affetti mai dimenticati. Non le importava più nulla, si sentì completa e in pace. Si sentì a casa, anche se non aveva più una casa.

‘Oddio! ‘ ripeté Argot sgomento, indietreggiando. ‘Oddio, oddio! ‘ ripeté ancora, e Jane dovette soffocare una risata per l’assurdità della situazione e l’espressione attonita del bambino. ‘Oddio, oddio! ‘ seguitava ad asserire, conscio della profondità dello squarcio che la schiena di Jane presentava.
La consapevolezza della quantità di sangue che era stato perso - e che doveva sicuramente aver scurito la stoffa dell’abito- e di quanto fosse stremato l’organismo della ragazza lo colpì come un fulmine a ciel sereno, riscuotendolo per costringerlo a riflettere su cosa fare. Quando si voltò, dirigendosi verso la scalinata che conduceva al piano superiore, farfugliò: ‘ Resisti, vado a prendere l’acqua, delle garze e dello spirito! Resisti! ‘

Jane annuì distrattamente, immersa in quel benessere dal sapore dorato, e sorrise tra le lacrime.
 
 
 
 
 







P.S. Alcune parole che Jane dice alla piccola Jane sono riferimenti a ciò che dice Jeff nella storia di Jane the Killer: le origini.
Made of Snow and Dreams.

 

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Capitolo 11
*** Can't run. ***


Can't run


 





Come se tutti possano biasimare le sue azioni, o quelle di Toby Rogers, o quelle di Johnny Williams. Tutti a sputare sangue sui giornali e a sforzare le pupille per mettere bene a fuoco le lettere d’inchiostro sui giornali. Quando alla fine…
E’ così ovvio…
…è tutto troppo ovvio.
I loro moralismi, la loro opinione dell’assurdo e totalmente astratto Schema delle Cose. Semmai esista uno Schema delle Cose da seguire a testa bassa, armati di buona volontà e tanta arrendevolezza.
 Eppure… anche se esista, ipotizziamo pure, mio carissimo e assolutamente stuzzicante fratellino Liu. Ipotizziamo. Credi che io lo possa seguire? Credi che io lo voglia seguire?
Piegare la schiena come tanti muli a lavoro non è affatto un compito soddisfacente per Loro. I forti. Un sinonimo di tale banalità non è loro concesso, né lui lo accoglierebbe a braccia aperte e con il petto gonfio e tronfio di un cuore ridente. E invece no!
E invece no…
Qua c’è… sì. C’è qualcosa di più. Ci sono altre leggi da seguire, altre tabelle da compilare, altre sensazioni da scoprire, nuovi mondi da esplorare. Qualcosa che va al di là di quel piangente e minuscolo pezzetto di universo in cui si è costretti a vivere. E crede che pure lui, nel suo letto di rose, ne sia oltremodo cosciente.
Le lenzuola infernali.
Ed è un peccato che lui voglia seppellire quelle conoscenze così preziose quanto pericolose. E’ un peccato che lui voglia accontentarsi di recitare il ruolo del servitore per il resto della sua giovane quanto fragile vita. Liu.
Liu.
Può facilitare credere che esista davvero uno Schema delle Cose? Sì, può facilitare il lavoro al cervellino impazzito che si ritrova il suo imperfetto fratello. Ora come ora farebbe meglio a ordinare ai suoi neuroni febbricitanti di riposare un po’. Basta lavoro, è tempo di ridere.
Punta me, Liu. Come farebbe un bravo cecchino con il fucile con cui bucherellare il cranio del nemico, Liu. Solo, distogli lo sguardo dal mirino, Liu. E aguzza le tue orecchie per udire le mie rivelazioni, Liu. Fratellino. Tempo di imparare, non di morire, Liu.

 ‘Jeff… ‘ geme. Le sue labbra vogliono sputare il mio nome, ma non ne hanno la forza. Forse ha forzato troppo la giuntura della mandibola. Si dispiace. Ma che gli serva da lezione da apprendere, anche in quel momento. Non esistono le sceneggiate in cui può ritirarsi nel suo camerino mentale per sbarrare le porte al suo fratellone. Non sa quante cose si perde, quel povero ingenuo. E lui gliel’ha sempre ripetuto.

Nocivo, nocivo. Te l’ho sempre detto, Liu, è un atteggiamento nocivo quanto irresponsabile. Giusto per citare qualcuno di nostra conoscenza.

‘Shhh… ascolta quello che ti posso donare, Liu. Non sforzarti troppo. E’ stato solo un incidente. Andrà tutto bene. Il bastardo che ti ha aggredito se n’è andato. ‘

E quella gola frantumata si limita ad ingoiare un rivolo di fastidiosa saliva. E’ affascinante quanto istruttivo scorgere il funzionamento del corpo umano. E’ interessante osservarlo da vicino. Anche sfondare la faringe e la laringe a quegli occhi verdi è stato illuminante. Molto meglio di un libro di scienze. Ed è lui il suo libro di scienze, Liu.
Come ti sta fottendo il tuo di cervello, Jeff. Non dovevi dire qualcosa?
Sì, sì. Anche se alla fine è palese il suo insegnamento. Infantile, neanche puerile. Giusto per elargire conferme agli spettatori vogliosi di risultati filosofici e di vitale importanza. E non c’è niente di più scontato e allo stesso tempo didattico nella sua nuova Regola: un ragazzo anonimo figlio di una coppia anonima e residente in una città ancor più anonima viene attaccato dalla gentaglia là fuori per pochi spiccioli. Un classico esempio di banalità. Ma lui comprende la commedia del re in ascesa al trono e sfrutta l’intera tragedia per diventare, finalmente, monarca. In cambio della distruzione della suddetta banalità. Un piano magnifico. Strategicamente perfetto.
Liu, Liu, Liu. Occhi verdi, Liu. Liu, Liu.
Effetto diserbante. Bastava solo acciuffare quei manigoldi, gettarli come mosche nella bocca per masticarli e triturarli. E lui l’ha fatto, solo. Lui era solo. Mentre loro, i mentecatti, erano tre. Una scorretta quanto educativa proporzione.
Le lenzuola infernali, Liu! Osservane il riverbero nell’oscurità, arlecchino! Verde, rosso, nero, blu. Trionfa, Liu, danza con il re!
Un esempio di forza mal contenuta. Un modello da imporre al mondo intero. Un nuovo Dio fulgido di luce e un Cristo a svelare la via della Salvezza.
E Cristo, Liu. Liu.
Dovrebbe ringraziarlo invece di fissarlo con quegli occhi sporgenti da pesce sventrato.
Dovresti ringraziarmi.
E venerarlo. E onorarlo. Quale altra possibilità di azione gli aveva lasciato, d’altronde? Era l’unica, l’unica alternativa che aveva letto nelle sue mani per salvarlo dalla sua condizione di inferiorità. Perché…
Nociva, nociva!
Perché un eroe su cui grava il peso della fragilità non è un eroe. Ecco la chiave del puzzle. Ecco a quale soluzione elementare si giunge dopo aver sbloccato il Grande Schema delle Cose. E non ha bisogno di un corpo perfettamente funzionante o di un carisma eccelso per conquistare gli idioti là fuori. Basta usare il cervello incancrenito dagli esercizi di matematica o dai precetti della lingua per diventare migliore. Per diventare Perfetto.

‘Jeff…’ modula lui, ancora. Una sinfonia di nomi siglati dallo stesso detentore viene intonata da quelle labbra livide, e un concerto di luci gradevolmente soffuse viene diretto da quelle iridi confuse. Mai come in quel momento suo fratello gli è parso così bizzarro. Gli sfugge una risatina bassa mentre fissa quell’insieme di luci multicolore che ricoprono il viso e il corpo del Suo Liu.

Il mio dolce fratellino.

‘Così luminoso… ‘ mormora, piegando la schiena per solleticare l’orecchio sinistro di Liu con i pezzi rimasti delle sue labbra. ‘Così bello…’ continua, ed è costretto a corrucciare tutti i muscoli facciali per contrastare l’ennesima scarica di dolore che i suoi bulbi oculari continuano a generare. ‘Così Liu. Dovrei procurarti uno specchio per farti notare quanto questo letto mi inviti a nozze. Ma non lo farò. ‘ Un altro sorriso. Il quinto, forse. O forse il primo di una lunga serie. Il suo primo, vero sorriso. ‘Certe cose vanno imparate da soli. Tutti cominciamo a camminare cadendo, inciampando e ferendoci. Tutti. Anche noi due. E oggi è il nostro giorno. Ci hanno regalato l’ultima possibilità di rinnegare i nostri vomitevoli respiri per qualcosa di più. ‘

Un singulto, un singhiozzo. La pelle del suo piccolo allievo è assurdamente calda, bollente. L’istinto di poggiarci il palmo della mano è troppo forte. Ed è certo che Liu stia ascoltando, nonostante il dolore fisico ed emotivo. Ma è solo un piccolo prezzo da pagare per ricevere in regalo la recalcitrante verità.

‘E io accetto l’offerta. Ho imboccata la strada giusta, lo so. E vorrei che anche tu lo facessi. Un cucciolo deve sempre seguire le orme del padre. ‘

E mai paragone gli è parso più azzeccato. La sua vista si offusca quando il suo corpo si scosta dal calore che quel corpo e quelle lenzuola continuano ad emanare, per dimostrare che lui è un uomo di parola. Che la coerenza è tutto nella vita. Che l’istinto va represso se si accetta di calarsi nei panni del maestro. Che la forzata lontananza è il primo Insegnamento da dimostrare al suo unico alunno.

Il buio della notte è la coperta perfetta per un eroe del nuovo mondo. E’ la realtà che un paio di occhi ciechi hanno bisogno di focalizzare per potersi riabituare alla luce del sole. E’ tutto ciò di cui lui ha bisogno. E’ tutto ciò di cui ha bisogno quel povero mondo orfano che chiama a gran voce qualcuno che riporti l’ordine. Le selezioni devono cominciare.

La finestra è spalancata come una grande bocca. Si umetta le labbra quando si volta per rimirare quel cielo senza stelle e senza luna.

‘E tu sei la mia prima selezione, Liu. Fratellino. Seguimi quando ti sveglierai dal tuo lungo letargo. Ma per ora, limitati a dormire. ‘
 
 

Jeffrey Alan Woods nell’anno della sua Resurrezione, 12 Agosto 2012.
 
 
 
 
 







E’ pura estasi. Le lenzuola infernali mutano in un letto d’ispidi fili d’erba, e quell’ammasso di carne flaccida cede il posto a quello compatto della gamba fulminata dall’accetta. La ninnananna appena percettibile del suo sangue che fiotta sui suoi jeans è rassicurante come la presenza amica di una benda per otturare quella falda umana. Ma no, il masochismo non fa proprio per lui.

Sorride a quella metafora mentre gonfia i bicipiti per tirarsi indietro, e osserva con sgomento la ferita allargarsi come una bocca quando è solo l’arto
fino al ginocchio a strisciare, lasciando abbandonato il piede. La musica si interrompe.

‘Un bel laghetto… ‘ mormorò Sally, con gli occhi incatenati in quell’acquitrino vermiglio. La sua voce acuta riscosse Jeff, che si ritrovò catapultato con suo dispiacere nel suo corpo, nuovamente padrone dei suoi sensi. Quando i suoi occhi fissarono la cosa che un tempo era stata la sua gamba, vi rimasero incollati per almeno tre minuti. Con il braccio destro proteso nel tentativo di toccarsi la ferita e le labbra semichiuse, gli occhi vacui e lontani, sarebbe apparso come in preda a un attacco di catatonia.

Ma quando quel trapano maledetto, che non accennava minimamente a smettere di perforargli il cranio, si riaccese, si sbloccò. Così, come se le sue funzioni non si fossero mai interrotte. Allentò lo sforzo dei suoi tendini per un istante, sentendoli formicolare, e poi si allungò ancora, la mano bianca intorpidita. Quando i polpastrelli sfiorarono la stoffa strappata e insanguinata dei suoi jeans, si concesse di lasciar ricadere quello stesso braccio sull’erba, sconfitto.

Il trapano tamburellò la sua punta acuminata anche nella testa di Toby. Il proxy si limitò a irrigidire i muscoli del collo in un improvviso crampo, inghiottendo un bolo di saliva. Quando la sua testa schizzò verso sinistra in un tic più violento del solito, mugolò di dolore.
Tempo di obbedire e finire il lavoro.

UCCIDI TOBY UCCIDI TOBY TICCI TOBY MI SENTI TOBY? DEVI UCCIDERE TOBY UCCIDI JEFF FALLO A PEZZI TAGLIALO A META’ SGOZZALO TOBY UCCIDI TICCI TOBY UCCIDI O VIENI UCCISO TOBY TICCI TOBY TICCI TOBY TOBY TOBY TOBY TOBY FALLO O TI UCCIDERO’ IO TOBY TOBY TICCI TOBY SEI IL MIO PROXY TOBY MUORI O UCCIDI TOBY TOBY TOBY TOBY TOBY TOBY TOBY TOBY –

E l’accetta calò inesorabile come una piccola ghigliottina. Si abbatté con una tale forza sulla coscia sinistra di Jeff che il sibilo dell’aria e il rumore metallico del femore colpito superarono di gran lunga il suono della stoffa che si lacerava e quello della sua carne scissa in due. Il viso deformato di Jeff fu spruzzato da un ventaglio di goccioline rosse che resero la sua faccia, agli occhi di Laughing Jack, irresistibilmente divertente. Il clown gettò la testa in avanti come se le sue vertebre cervicali fossero fatte di pezza, e sghignazzò anche più forte quando vide Toby lasciare la presa sull’accetta – incastrata nell’osso quasi del tutto esposto di Jeff – per pulire gli occhialetti da quelle stille fastidiosamente liquide che gli avevano imbrattato le lenti, rendendole appannate. Il concerto di urla sedusse il suo udito a tal punto che decise di inghiottire le strida con il suo cachinno più sgraziato. Il sorriso di Sally si dilatò maggiormente.

‘Sbrigati, Toby. Non farlo morire dissanguato prima del tempo. E non farlo urlare troppo. ‘ disse lo Slenderman a rilento. Quando Sally lo spiò da dietro Puppeteer, quella massa compatta e bianca che era la sua faccia brulicò come se contenesse uno sciame di api. O come se stesse sorridendo.

UCCIDI TOBY AMMAZZALO TOBY FINISCILO TOBY TOBY TOBY TICCI TOBY DISTRUGGILO TARPAGLI IL PIEDE LA GAMBA E LA COSCIA A POCO A POCO TOBY CHE POI STAI MEGLIO TOBY SENNO’ LYRA NON LA VEDI PIU’ TOBY TOBY TOBY –

Ticci Toby afferrò il manico dell’accetta bruscamente, facendo stridere la lama contro l’interno della coscia di Jeff. Piegò il gomito all’indietro per poter infliggere il colpo decisivo, quello che avrebbe reso Jeffrey Woods monco e vulnerabile come un insetto da schiacciare. Ciuffi dei suoi capelli spettinati gli ricaddero sulla fronte e sugli occhi quando obbedì all’ordine impostogli, ma quando una strana creatura sfrecciò davanti ai suoi occhi con la velocità che nessun essere umano possedeva, sgranò gli occhi per frenare in tempo il calo decisivo della lama.
Quell’azione repentina gli causò lo scatenarsi di una crisi di tic, che gli scossero la testa e gli fecero accavallare i nervi facciali, facendolo boccheggiare a scatti inconsulti. Eyeless Jack ebbe tutto il tempo necessario per sollevare il proxy con estrema facilità, come se fosse un tenero bambino, per scaraventarlo nel vuoto senza dosare la sua forza.

Le braccia di Toby si aprirono come le ali di un uccello, scandagliando l’aria alla ricerca di un appiglio con cui aggrapparsi, e lasciarono cadere a terra l’accetta, che atterrò in prossimità di Eyeless Jack. Il cervello del proxy non previde neanche la mancanza della terra sotto i piedi; ciocche scure dei suoi capelli gli oscurarono la visuale e le folate di vento nelle orecchie gli impedirono di udire i suoni correttamente. Per un attimo immaginò di essere un corvo in picchiata, con l’abilità di risollevarsi sotto controllo.
L’impatto violento e inaspettato con il terreno gli mozzò il respiro e gli graffiò il viso, e Toby fu costretto ad annaspare per la mancanza d’aria e a tastarsi la nuca per cercare il legaccio che manteneva la maschera ancorata ed aderente alla parte inferiore del suo viso. Quando lo allentò e la maschera smaltata atterrò dolcemente sugli steli d’erba, gli sembrò di essere tornato a respirare dopo anni di apnea. Chiuse gli occhi per il sollievo. La voce era sparita, lasciando il posto a un silenzio di pace.
Gli occhi di tutti – compresi quelli vitrei e scioccati di Jeff, sempre più stordito ogni secondo che passava – erano puntati con sconcerto su quella Cosa mostruosa il cui volto, paradossalmente, mostrava dei lineamenti puerili e dolci di un ragazzo tranciato nel fiore degli anni.

Un mormorio potente come un grido di rabbia accapponò gli animi generali. ‘Cosa? ‘ sussurrò lo Slenderman senza aver realmente parlato. ‘Cosa? ‘ ripeté, con più intensità. ‘Cosa? ‘ disse, in un mulinello di stupore e rabbia e incredulità.  ‘COSA? ‘ urlò, e l’istinto di nascondersi e tapparsi le orecchie – un impulso che non aveva origine dalla sfera più intima di ciascuno di loro; era esterno, estraneo a loro, indefinibile eppure concreto – si inerpicò nella loro essenza come un serpente velenoso.

Sally e Puppeteer arretrarono, avvicinandosi per unire le loro energie e fissando impauriti lo Slenderman. Laughing Jack si limitò a soffocare il suo sorriso e a sbirciare l’Uomo Senza Faccia con disdegno. Eyeless Jack, invece, piantò i polpacci nel terreno e affilò le sue fibre per raccogliere ogni grammo forza per resistere a quell’attacco che definiva subdolo e debole, ma che – e se ne accorse con sbigottimento qualche secondo dopo – su di lui aveva avuto l’effetto di una doccia gelata: il suo raziocinio aveva recuperato la facoltà d’esprimersi, riesumando la lucidità necessaria per reprimere il richiamo che lo aveva condotto in quel posto e tra quelle creature senza che lui si rendesse conto delle sue azioni.

Dovrei ringraziarlo, pensò sarcasticamente. L’ombra di un sorriso aleggiò sulla porzione del suo volto visibile come una sfida appena lanciata, che Eyeless Jack decise di accettare. Per lui, ora, era tempo di combattere.

‘Ti ringrazio per la tua dimostrazione di forza. La nebbia nella mia testa si è dissipata. ‘ annunciò beffardamente, caricando il tono di voce di freddo sarcasmo. Fissò il Nemico Senza Volto, studiandone l’aspetto come un bravo chirurgo avrebbe fatto con il suo paziente. Estraniò la sua mente e l’Olfatto da quell’aria satura di odori invitanti – da quell’odore che lo aveva fatto impazzire, trascinandolo in quella radura sconosciuta – per non perdere la concentrazione e il senno necessario ad anticipare le mosse di quello che si prospettava essere il suo vero, degno avversario.

Lo Slenderman mantenne la sua compostezza e non si mosse, sebbene Sally avrebbe giurato che il brulicare sotto il tessuto bianco del suo viso si fosse intensificato, come se le api si fossero innervosite; ad Eyeless Jack, invece, sembrò che il Nemico Senza Volto si facesse più alto e più austero attimo dopo attimo: il busto e le gambe magre si allungavano come tronchi di alberi appassiti, fino ad assumere le sembianze di corpi nodosi e cerei, ramificati - Cos’altro potevano essere quei prolungamenti diramati, che si espandevano come ombrosi capillari? -. Ma quando sbatté le palpebre sul vuoto, si rese conto che la Cosa aveva mantenuto la medesima statura di prima.

‘Lui ‘ disse lo Slenderman, additando con un artiglio scheletrico Jeff, ‘è mio. ‘

‘E’ nostro. ‘ bisbigliò Sally, correggendolo. Istintivamente si schiacciò contro Puppeteer. Quando una mano grigia afferrò la sua spalla e la strinse in una morsa protettiva e amorevole, la bambina si sentì immediatamente più debole, e incapace di scacciarla.

Il sorriso di sfida di Eyeless Jack vacillò per il naturale timore che quella voce ridondante incuteva, ma non svanì. ‘Non mi sembra che il ragazzino abbia scritto da qualche parte che è di vostra proprietà. ‘ disse gioviale. Roteò gli occhi per controllare il corpo che Lui aveva eletto come ‘suo’ si trovasse dietro di lui, al sicuro, e quando l’odore inebriante di quel sangue gli invase le narici e il cervello, represse il desiderio di saltargli addosso immediatamente. La preda andava salvata e poi maneggiata a proprio piacimento. ‘E poi, ‘ aggiunse, ‘ è solo un umano come tanti. Perché tutto questo… ‘ si umettò le labbra, scegliendo il termine adatto. ‘… accanimento? ‘

Puppeteer e Sally si scambiarono uno sguardo d’intesa. Il Burattinaio indugiò per qualche secondo sugli occhi luminescenti dello spettro che proteggeva, il tempo necessario per comunicarle la sua preoccupazione sull’incognita che sarebbero stati gli avvenimenti successivi e da lui temuti. Sally invece mantenne fermo il suo sguardo sul profilo di Puppeteer, studiandone i tratti come se fosse la prima volta che avesse l’opportunità di rimirarli. La luce delle sue iridi si affievolì.

Non è possibile. Cosa mi stai facendo, Puppeteer? Cosa mi stai facendo?

‘Potrei chiederti la stessa cosa. ‘ rispose lo Slenderman con apparente calma, come se si stesse sforzando si soppesare ogni termine con cura per evitare una guerra inevitabile. ‘Per citarti: “E’ solo un umano come tanti.” Perché non sparisci da qui e trovi un altro corpo morbido da maneggiare secondo i tuoi gusti? ‘

Eyeless Jack si umettò le labbra, indeciso su quale mossa adottare per impugnare il coltello dal manico. Poi storse le labbra fredde in un sorriso sghembo, facendole sporgere affinché ogni piccola zanna fosse ben visibile. ‘Perché la natura del mio essere mi impone di possedere umani “speciali”. Umani come lui. ‘ disse, rivolgendo un’altra occhiatina a Jeff. ‘Devo avere lui. ‘

‘Questo non è possibile! ‘ esclamò Sally con voce argentina, bloccando la risposta dello Slenderman sul nascere. Quando si accorse che il fulcro dell’attenzione generale si era spostato su di lei, strinse un lembo della sua veste. Arretrò di un passo quando intercettò il sorriso della creatura con la maschera in frantumi, intenta a fissarla con un misto di tenerezza e interesse famelico, e il suo sorriso non era per niente piacevole.

‘Ma davvero? ‘ chiese Eyeless Jack, avvicinandosi a quella bambina sanguinante. Si sforzò di assumere un atteggiamento più aperto verso di lei, piegando la schiena ed esponendo il petto, per quanto anche quella presenza infantile avesse il sapore del pericolo. ‘E perché non è possibile? ‘ cantilenò, diminuendo nuovamente la distanza pur volendone mantenere un certo margine.

Sally schiuse le labbra per rispondere a quella domanda posta con garbo, ma Puppeteer la batté sul tempo. Le dita grigie, ancorate sulla sua magra spalla, divennero dure e laceranti come cinque lamelle di ferro. La bambina inarcò la schiena in avanti per sfuggire a quella presa improvvisamente fattasi troppo violenta
(Zio Johnny, mi fai male! )
e guaì. Un’ondata di astio e risentimento pietrificò il suo volto quando Puppeteer si posizionò davanti a lei, coprendola con la sua stazza massiccia.
‘Perché deve pagare. Perché anche noi necessitiamo di umani speciali, come hai detto tu. ‘ rispose Puppeteer. Le interferenze che caratterizzavano la sua voce produssero una scarica di fastidio e d’irritazione nel corpo di Eyeless Jack. Era un timbro troppo duro, gracchiante, graffiante. Gli feriva l’Udito. Un attacco esterno, che non doveva essere interpretato come tale. ‘Perché ha fatto cose che non doveva fare. Si è spinto troppo oltre. ‘

Lo statico risuonò nel bosco come un inquietante eco per alcuni secondi, in cui Eyeless Jack s’impegnò a ristabilire i valori normali del suo Udito, in cerimonioso silenzio. L’interferenza si stemperò nel vento come una macchia d’inchiostro nell’acqua. Quando l’ultima radiazione si disperse nella foresta, Eyeless Jack domandò: ‘ E quale sarebbe questo fatidico limite oltre il quale si viene puniti? ‘, allargando le braccia per enfatizzare le sue parole che, nella verità, non necessitavano realmente di una risposta. Lui stesso non ne aveva bisogno. Tutto il suo essere urlava di avere quel sangue bollente per cui aveva abbandonato la ragazzina vestita di nero, e l’avrebbe ottenuto, in un modo o nell’altro.

Necessitava solo di tempo e studio. Se la piega avesse preso il risvolto che lui credeva avrebbe assunto, studiare i quattro Nemici lo avrebbe agevolato nella scelta di ogni attacco da infierire su ognuno di loro.
Nessun’altro doveva rubargli il premio. Nessuno. Non quando Lui lo aveva voluto tenere per sé. Doveva essere suo. E lo sarebbe stato.
 
 




Qualcuno sarebbe stato soddisfatto. Abbeverata la loro sete di ira ingiustificata e premeditata, in quel complotto ai suoi danni. Contro di lui. Cinque contro uno. Sei contro uno, se doveva aggiungere nel conteggio il nuovo acquisto dall’epidermide di fumo.
Il berciare nelle fronde e il frinire delle cicale sarebbe stato – forse sì, forse no – un cullante paesaggio per il dipinto della sua vita. Una fine indegna in luogo degno. Forse neanche rispettabile.

Un complotto contro la sua persona. Ironia della sorte – anzi, del Grande Schema delle Cose! - , il destino aveva deciso di manovrarlo a suo piacimento. Aveva calcolato ora, data e luogo del delitto per donare gloria a quei 5 pupazzi del Fato mediante il suo sacrificio. Ed era stato crudele. Non gli aveva neanche assegnato il privilegio finale di poter morire tra le braccia del suo primo e unico allievo.
Liu. Vivo o morto? Sano o malato? Mente sgombera dai ricordi, o ingombrata dai ricordi?
Occhi verdi. Liu. Occhi verdi. Un verde diverso, autentico. Non il verde evidenziatore della puttana-bambina.
Un verde delicato, soave. Un verde che si fonde con l’azzurro delle sue iridi. Ogni sfumatura boschiva si incastra con quella cristallina come un tassello di un puzzle che solo loro due possono completare. Insieme. Come frammenti dispersi di due anime che solo insieme si riconoscono, fondendosi per creare una realtà nuova, migliore. Insieme.
Occhi verdi. Liu. Liu. Liu. Sto morendo, forse.
Liu, dove sei?

 

Jeffrey Alan Woods, ore 04: 35. Data 11 Novembre 2016.
 

 
 


‘Intralciare i piani di noi altri, facendo traballare un equilibrio già precario. ‘ disse lo Slenderman. La sua vista ruotò di novanta gradi nella materia che componeva il suo corpo, sebbene il suo capo fosse rivolto verso la creatura dagli occhi assenti.
L’immagine di Toby, ora appoggiato contro il fusto di un albero e intento a massaggiarsi la nuca e le spalle indolenzite, si accostò a quella del cannibale, rigido e con i muscoli aitanti, guizzanti, preparati allo scontro. Una battaglia che avrebbe solo smorzato la loro superiorità per un premio animale, un trofeo come tanti, un futile criminale. Una colluttazione che non avrebbe mai avuto luogo, perché Toby o chi per lui avrebbe decimato quell’impiccio umano e lo avrebbe liquefatto all’istante.
Bastava solo alimentare lo spirito per coprire i chilometri che li separavano dai suoi servitori e invadere le loro menti, ordinando ai suoi bambini di giungere immediatamente.
 
Ticci Toby non osò concedersi neanche un’imprecazione di avvilimento. Sbarrò gli occhi mentre l’anulare e il mignolo della sua mano destra si contraevano per quel nuovo assalto, strusciando in piccoli spasmi contro la morbidezza della felpa. La schiena e l’osso sacro avevano smesso di dolere per cedere il posto a un piacevole refrigerio, essendo pressati sull’erba boschiva ancora umida e contro la corteccia dell’albero su cui si era poggiato. Sangue non suo fluì sulla sua pelle e sul suo collo, e quando chiazzò l’incavo del cappuccio l’impulso di tornare in scena si fece più impellente che mai.

Non aveva avuto il tempo di scorgere il suo avversario e né gliene era stato concesso per pulire l’affronto pubblico con qualche colpo d’accetta, sempre pubblico. Inoltre non si trattava meramente di onore personale: si trattava di compiacere il suo capo per sottolineare la sua autorità sulle altre entità senza che rimanesse nelle loro sporche bocche terra con cui infangare il territorio e la nomea del suo boss. E, ovviamente, la sua nomea. Da difendere dagli sciacalli come Masky.

TOBY TICCI TOBY RIALZATI TOBY COMBATTI TICCI TOBY FAGLIELA PAGARE TOBY VENDETTA UCCIDI TOBY VENDICA L’AFFRONTO TOBY SEI DEBOLE SEI DEBOLE TICCI TOBY SEI FORTE PUOI UCCIDERE TOBY FALLO FALLO TOBY TOBY FALLO FALLO FALLO UCCIDI FALLO-

‘Fallo a pezzi. Fallo morire. Devo farlo morire. ‘ completò Toby in un roco bisbiglio. Puntellando i talloni sul terreno e aggrappandosi al tronco usato come sostegno, afferrò l’unica accetta che gli era rimasta, sfilandola dal cinturino che gli cingeva le anche, ma quando si voltò per prendere l’altra constatò con sgomento che la compagna si era schiantata ai piedi della creatura melmosa. Vedere che la sua amata arma era vicina al suo avversario, che ci stava pure giocherellando con la punta del piede, gli scatenò un’ondata di rabbia e gelosia improvvisa che gli arrossò entrambe le gote e gli dilatò le pupille, mentre la sua mente accoglieva il trapano in segno di resa.
Serrare le sue dita fino a far sbiancare le nocche di entrambe le mani sull’impugnatura dell’unica accetta che gli era rimasta lo rianimò, e quando i suoi occhi puntarono esclusivamente il nemico, escludendo ogni altro essere nei dintorni, le sue labbra si incresparono in un cupo sorriso di vendetta.
 
 
 


Quanto a voi due, bambini miei. Correte. C’è un compito per voi.
C’è un compito per te, Masky.
 

 
 
 
 






Angolo Autrice
Stavolta ho pubblicato relativamente presto, quindi posso concedermi un bel ‘Brava Snow! ‘ con i fiocchi. Ma orsù con le note per districare la matassa dei rapporti tra i nostri amichetti adorati:

1) Innanzitutto il cambio del tempo verbale. In alcune specifiche parti del capitolo i verbi sono coniugati al presente, in altre c’è il cambio al passato remoto. La scelta non è casuale, visto che nei verbi al presenti l’atmosfera è diversa; d’altronde suppongo che nelle menti e nei ricordi di ognuno di noi il tempo cessi realmente di ticchettare, in special modo in quella di Jeff (e aggiungo: Che ricordi… ), che riesce a trovare spazio a delle riflessioni personali – e mi rifiuto di credere che Jeff the Killer, per quanto folle sia, non si prenda mai del tempo per elaborare le proprie concezioni sulla vita e sulla condizione umana in sé. Se non l’avesse mai fatta non avrebbe ucciso, no? Quale Killer uccide senza ragione, per quanto delirante possa essere? ).

2) Il famoso trapano. Slenderman, come ben sappiamo, è capace di spingere i suoi proxy a compiere qualsiasi azione che gli possa giovare. Per quanto il legame tra lui e Toby sia molto ma molto forte (con tutte le conseguenze che ciò comporta), sussiste comunque un cappio per ciascuno degli altri suoi cuccioli. La differenza è che Hoddie e Masky hanno sempre cercato di reciderlo, senza mai troppo successo, e quindi la loro affinità e la loro capacità di farsi influenzare dallo Slenderman è nettamente più debole. Per non parlare di Masky, che assume le pillole per non perdere del tutto il contatto con la realtà! Almeno in questo, i nostri due proxy si ritrovano in netto vantaggio rispetto a Ticci Toby.

3) Eyeless Jack. Il cannibale, sebbene custodisca Chernobog al suo interno, è comunque un corpo che prima era umano. Questa sua ‘debolezza’ lo rende sensibile agli attacchi di Slenderman ( l’allucinazione che ha avuto, ad esempio… beh, diciamo che era un misto tra un’allucinazione e un attacco vero e proprio!) e ai morsi dei suoi sensi. Non vedendo particolarmente bene, l’udito, il gusto e l’onfatto diventano sensi di rilievo nella sua sopravvivenza, ed è naturale che l’odore del sangue di Jeff (un folle, quindi più appetibile) gli abbia fatto perdere la testa.

4) Per Sally e Puppeteer non posso dire nulla. Il divario che c’è tra loro è di tipo ‘energetico’, ma la questione verrà spiegata più avanti.
 
Ora, con il fatto che ho finalmente scoperto come aggiungere le immagini ( a proposito, notate qualcosa nell'immagine a inizio capitolo? ;) )e le Gif su Efp, posso tranquillamente raggiungere l'Eden (?).

Spero che vi sia piaciuto anche questo episodio, alla prossima!
 

Made of Snow and Dreams.
 
 
 

 

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Capitolo 12
*** Frammenti ***


Notti di noi






Frammenti




Le palpebre di Tim sono adagiate sulle guance rilassate. Non c’è traccia d’affanno sui suoi tratti dormienti – sono rare le volte in cui lo si può definire sereno – e il petto incanala aria lentamente, senza fretta, in pace con se stesso. Qualche ciocca ribelle è adagiata sul volto pallido, e la mano fredda di Brian si affretta a scostarla con infinita tenerezza per evitare di svegliare l’amico – perché perdersi in quei mondi castani sgretolati da interminabili processi sui suoi istinti irreprimibili e i suoi sensi di colpa è doloroso, soprattutto se l’unica reazione alle sue premure è quell’irrigidirsi dei muscoli facciali in un’espressione indecifrabile e arcana come la maschera che sovente copre il suo viso.  Le loro schiene sono riverse sullo stesso materasso che odora di terra umida, fianco a fianco, entrambi silenti. Il capo di Tim poggiato sulla spalla sinistra di Brian, con il naso che affonda nell’incavo umido del collo, la mente persa in labirinti di sogni monitorati da grammi di polverine bianche. Brian approfitta di quell’idillio di pace per poter godere del calore sprigionato dalle membra di Tim, e istintivamente le sue dita carezzano protettivamente la spalla ferita del giovane uomo addormentato accanto a lui in una morsa dal sapore di ritorni gioiosi a casa, di vite trascorse cimentandosi tra lavori normali e uscite notturne tra amici, ubriacature e risate squillanti e decise.

Un lieve contrarsi delle guance è il malinconico sorriso di Brian in risposta a quel panorama irrealizzabile. Quella piccola vena di tristezza ne approfitta per palpitare nel suo petto quando, nel silenzio tombale che regna nel casolare abbandonato, scandito solo dai loro respiri lievi che producono effimeri soffi di condensa destinati ad estinguersi nel gelo, involontariamente i suoi occhi socchiusi sfogliano gli istanti più belli della sua vita precedente.

Un intreccio di progetti mai completati e mai per scelta. Dopo il liceo una pausa di caotiche idee per decidere come sfruttare pienamente i propri sogni, segnata dai vagabondaggi per le strade dell’Alabama. Un adolescente tranquillo e pacato, non aggressivo, in cerca della sua strada verso il mondo, impegnato a testare ogni lavoro, ogni consiglio, ogni vocazione. Poi la decisione per perseguire gli studi all’università, e buffo era stato l’attimo in cui, nel bel mezzo di una lezione che aveva solo saputo ispirargli sospiri annoiati, l’illuminazione che avrebbe distrutto ogni altra tentazione era giunta: la cinematografia. Il suo unico obbiettivo nella vita, lo scopo per cui era stato creato, era essere un attore. La rivelazione era stata così sconvolgente – e un altro sorriso, provocato dalla sincera felicità che il ricordo successivo gli ricorda, nasce nei suoi occhi – che una settimana dopo aveva abbandonato tutto per potersi iscrivere a un corso accelerato di recitazione.

Era stato lì che aveva conosciuto Tim. Allora un ragazzo taciturno – ora tutto meno che quello -, timido e insicuro – ora sfrontato, spericolato, pazzo -, con un universo di paure a gravargli sulle spalle, timori che celava quando era in compagnia – quelle stesse paure che ora lo aggrediscono con violente scariche di rabbia ingiustificata.

Il caso aveva voluto che la sua riservatezza completasse la positività di Brian. Lentamente, come due calamite dalle cariche opposte, i due erano riusciti a limare i reciproci spigoli caratteriali per gettare le basi di un rapporto che – e il corpo di Tim accanto a lui ne era la prova – sarebbe durato tutta una vita. Le confidenze col tempo erano divenute così intime che Brian sapeva dei farmaci che l’amico era costretto ad assumere e del cassetto in cui era solito riporli, sebbene l’argomento non fosse mai stato approfondito più di tanto per non provocare imbarazzo tra i due.

Poi era sopraggiunto l’appello di Alex Kralie. Per quanto il copione contenesse delle battute abbastanza scontate, il progetto Marble Hornets poteva essere l’occasione perfetta per farsi conoscere in giro come attori. E ci aveva creduto davvero Brian, deponendo la propria firma e il proprio indirizzo e-mail sul blocchetto in casa di quel ragazzo che aveva così tanta fretta di definirsi ‘regista’. Aveva alte aspettative, al contrario di Tim. Reticente già di suo ad entrare in quell’appartamento, aveva scelto di azzardare a interpretare alcune battute scritte nel provino per zittire le insistenze dell’amico. Con sua sorpresa, entrambi avevano ottenuto le parti desiderate.

Gli occhi di Brian si ribaltano all’indietro quando tenta di scacciare le settimane successive che avevano finito per segnare entrambe le loro vite. Sente Tim sospirare contro il suo collo e la sua mano sinistra flettersi in avanti, e le sue carezze diventano appena più insistenti. La fronte del proxy dormiente preme sulla sua guancia, ed è piacevolmente calda in quella bolla di gelo in cui entrambi sono adagiati. Un freddo che non accenna a diminuire, anche se dalle finestre sbarrate da delle lastre di legno i suoi occhi possono intravedere delle prime luci bianche a scacciare la condensa che appanna le vetrate.

Un freddo che ha il sapore del pericolo.

Un freddo che li priva di una luce che non potranno mai vedere.

Un freddo che condanna le loro vite, ogni notte della loro misera esistenza.

‘Brian… ‘ biascica Tim, con la voce impastata dal sonno.  Mai in altre occasioni a Brian gli è parso più indifeso e insicuro, con le palpebre appena schiuse per scandagliare la presenza dell’indesiderata luce e il giaccone a coprirgli il petto fasciato dalle garze. 
‘Sì, Tim. ‘ sussurra Brian di rimando, con tono calibrato per non ferirgli l’udito. I suoi polpastrelli affondano nella pelle arrossata con prepotenza, non curandosi delle impronte che lasceranno sull’epidermide, e finalmente stringono: per imporgli la sua presenza, per comunicargli il suo sostegno. Preme, avviluppa quel pezzo di carne viva, e fissa gli occhi di Tim mentre un gemito strozzato gli si soffoca in gola. Ghermire con tanta ferocia l’altro proxy lo appaga ogni suo bisogno, stroncare sul nascere ogni protesta liquida i suoi sorrisi affettuosi e ponderati e soverchia il suo ordine interiore. Si umetta le labbra, e si schiarisce la gola. ‘Sono qui. ‘
‘Lo so, ti sento. ‘ Ed ecco che quelle iridi lo travolgono senza pietà, due mondi lacerati da rimproveri troppo duri e insoddisfazioni umilianti, dettate da minacce millantate di un padre ingiustamente severo nei confronti del figlio imperfetto. Parole e parole e parole, dieci volte più taglienti delle accette di Toby Rogers e dieci volte più inflessibili della sbarra d’acciaio di Tim, abbandonata a pochi metri da loro.  ‘Forse anche troppo. Fai male. ‘

Una voce che ha perso ogni impronta d’aggressività. Persino la sua repulsione al contatto fisico sembra essere stata uccisa.

‘Scusa. ‘

E’ un bizzarro scambio di voci. Gli occhi felini di Tim lo rimproverano, ridendo quell’eccesso di libertà. Osserva con divertimento il sangue affluire sottopelle per arrossare le gote del suo unico e vero amico, si burla della sua audacia. Ma sa che non è colpa del suo Brian. Né è colpa sua. Non è colpa di nessuno se le loro mani hanno bisogno di sfiorare il corpo dell’altro, che sia una mano, il collo o una clavicola: sarebbe penoso privarsi del sollievo di aggrapparsi alla loro reciproca ancora che li mantiene arenati alla loro vecchia vita.

‘Sai che non me ne faccio niente delle tue scuse, Brian. Sono già a posto così. ‘ soffia. Infrange ogni divieto che si è autoimposto sfiorando quella mano violenta con i polpastrelli. Ne carezza il dorso e lo sfrega con il pollice per comunicargli che c’è, che esiste anche lui, che il suo corpo sta assorbendo i sedativi anche se la sua paralisi gli impedisce di muoversi e l’orgoglio di ringraziarlo come merita. ‘Almeno mi hai svegliato. Da solo non ci sarei riuscito, questa merda mi appesantisce le palpebre. ‘

Entrambi gettano un’occhiata al barattolo delle pastiglie. Una presenza microscopica in mezzo alla confusione che regna sovrana, ma oscenamente imponente da rimuovere. Con le sue targhette aranciate è la loro tortura più dolorosa e la loro più grande salvezza, la più pericolosa arma di ricatto nei confronti dell’Operatore. Spicca tra la polvere e la sporcizia accumulatasi negli angoli delle pareti il tubetto pieno a metà. Tim lo guarda con indifferenza, Brian con una punta di angoscia mentre approfitta dell’occasione per riprendere il controllo di sé. Il silenzio minaccia di travolgere tutto con le sue urla di panico e dolore, di minaccia e delirio, di follia e risolutezza, così è proprio Tim che decide di immolare se stesso per contrastare quella minaccia incombente.

‘Però ora mi sento meglio, più riposato. ‘ mormora con l’ombra di un sorriso riconoscente. ‘Quanto ho dormito? ‘
‘Credo tutta la notte. ‘ conferma Brian. Chiude gli occhi per qualche secondo e, quando li riapre, annuisce. I muscoli del collo si ingrossano quando sporge il capo per indicare con il suo profilo il vetro sporco, la loro unica meridiana. ‘Le finestre sono illuminate, guarda. ‘
Tim segue con lo sguardo la direzione indicata e si sofferma sulle incrostazioni nere che ostruiscono la visuale. Sono organiche, troppo variopinte per poter essere dei semplici cumuli di terra. ‘Davvero. ‘ Annuisce, ma le sue iridi guizzano d’apprensione. ‘ Lui ha chiamato? ‘
‘No. Tutto tace. ‘ ridacchia Brian. Fa leva con gli addominali per sollevare il busto, ignorando lo sfregamento dei suoi capelli arruffati sulla parete umida. Inclina il sopracciglio destro quando un sorriso dolce fiorisce sulle sue labbra, e quando le sue dita riescono ad incastrarsi con quelle bollenti di Tim, raccoglie tutte le sue energie per impedire al suo istinto di dettare qualche azione fin troppo avventata. ‘Perché questa domanda? Preferivi portarti avanti con i compiti per riposare più tardi? ‘

Percepisce l’altro scuotere la testa quando appoggia la guancia sui suoi capelli scuri per donargli tutto il calore che riesce a trasmettere.

‘No. Ho chiesto e basta. Nessun perché. ‘

Come se non ti conoscessi a fondo, Tim. Come se io non sappia cosa accadrà da qui a poche ore. Ho letto la durata delle tue pasticche. Le ho provate io stesso.

Maschera tutto con l’ennesimo sorriso. ‘Nessun perché. Ricevuto. ‘ butta giù con arrendevolezza. Allenta le spire che sono i suoi abbracci soffocanti in segno che tocca a Tim, ora, preoccuparsi per l’equilibrio emotivo del compagno.  Una realizzazione senza tasselli da essere recepita, e Brian distrugge ogni impulso di afferrare per i capelli Tim e sbattergli il capo a terra fino a lasciarlo sanguinare dal naso perché Sorridere è maledettamente doloroso anche per me, soprattutto per me!
E di nuovo a nascondere se stesso dietro il suo fidato passamontagna e il cappuccio giallo, tanto per inghiottire i suoi lamenti. Ci penserà la stoffa ad assorbire tutta la sua antica sensibilità come un comodo contenitore, salvando solo il guscio vuoto del proxy più anonimo e sfuggente e misterioso di tutti.

Ora basta, riprenditi. Ti stai sbilanciando troppo.

‘Ma ora basta poltrire qui dentro. Voglio uscire. Vieni con me? ‘
‘Solo se mi aiuti a camminare. E datti una mossa, Brian. Mi si è gelato il culo. E sento che mi si stanno gelando anche le palle. ‘
 
 



‘Voglio sapere che ne pensi. ‘
L’ennesima boccata della serata, e le labbra di Tim pericolosamente vicine al filtro della sigaretta. Il fumo sprizza a tutta velocità dalle sue narici, rendendolo più simile a un toro imbizzarrito che ad un fumatore incallito.
‘A che ti riferisci? ‘
‘A chi mi riferisco. Lo sai. ‘
E ispira, ancora. Le sue mani tremano paurosamente e la sua voce è forzatamente calma. Una vena sospettosa mortifica i suoi lineamenti sereni. ‘Mi riferisco a Kralie. Il nostro regista so-tutto-io, il saputello, o come diavolo lo vuoi chiamare. ‘
‘Cosa dovrei pensare, Tim? E’ nervoso negli ultimi tempi. Avrà i suoi problemi. ‘
‘ Avrà i suoi problemi? No, Brian. E’ un fottuto regista dal cazzo, e i suoi cazzo di complessi mentali sono i problemi che noi dobbiamo sopportare. Per non parlare dei suoi copioni: fanno proprio schifo. ‘
‘Beh… ‘ ride Brian. ‘ L’hai detto: è un regista. Tutti i registi sono nervosi quando gli attori non soddisfano le loro esigenze interpretative. Sebbene Marble Hornets non possa essere definito un film di successo. ‘ Cambio di scena. Un tocco di improvvisazione personale. I denti stridono, le narici si allargano, le pupille si restringono. ‘Ma faremmo entrambi molto meglio a parlare del tuo nervosismo, Tim. ‘
‘Che cazzo stai dicendo? ‘ La sigaretta a terra: un brutto segno.
‘Lo sai. O forse no, neanche te ne accorgi. Ma io sì, ho notato che –
‘Cazzo blateri? ‘
‘Che non sei più lo stesso. Stai cambiando, Tim. In peggio. In questo momento sembri un’altra persona. Ti comporti come Kralie, e perdonami per averlo detto. ‘
Collassa stancamente contro il muro infangato da scritte illeggibili, tanto sono sbiadite. Infila repentinamente le mani nelle tasche dei jeans per riscaldarle, e tossisce piano. L’attacco continua. La sconfitta è certa.
‘Ho visto come reagisci quando Alex ti richiama. Come mi guardi quando conto i pacchetti che consumi ogni giorno. O quando mi dici che preferisci riposarti a casa, quando mi chiudi la porta in faccia. ‘
‘Ah, scusa tanto se desidero avere un po’ di privacy per questo periodo! Solo per questo merito di avere tutti gli sbirri dell’Alabama alle calcagna, giusto? ‘
‘Ovviamente no! Però… porca puttana Tim, possibile che non capisci a cosa io mi stia riferendo realmente? O forse sei talmente accecato dal tuo orgoglio da non voler riconoscere il cambiamento? ‘

Il pesante sbuffo che preme sul petto di Tim lo accartoccia su stesso come un foglio di carta divorato dalle fiamme di un camino. Si fa piccolo, allaccia i gomiti sulle ginocchia per creare un piano su cui poggiare il capo stanco. E’ l’amara e becera realtà, è un’illusione coniata dalla devozione e dall’affetto; nessuna delle due ha importanza. Non c’è nulla attorno a loro, e le loro mani non racchiudono niente se non l’amicizia per l’altro. Tutto da perdere con poche manciate di superflue parole. Brian addolcisce il tono di voce e annienta la durezza dei suoi occhi approcciando Tim con la sua solita delicatezza.
Fianco a fianco, entrambi silenti.
‘Siamo amici, Tim. Lo sai. Anzi, sei l’unico amico che io possiedo. ‘ comincia, ed ecco che gli mancano le parole in bocca e i sentimenti con cui caricarle.
 



 
‘Sorridi raramente, tu. E’ un peccato, sai? Hai anche una risata contagiosa. Scommetto che se provassi a ridere più spesso, pure io riderei di più.  ‘
‘Come posso ridere se non ho un motivo per farlo? ‘
‘Ma ce l’hai, invece! Il tuo difetto maggiore è la cecità; non osservi attentamente ciò che ti circonda. ‘
‘D’accordo, d’accordo. Fammi provare, così misuri quanti gradi esatti mi mancano. Ora ti descrivo ciò che vedo su quell’altura: un gruppo di case, un piccolo boschetto, tre vigneti. Ci ho azzeccato? ‘
‘No. Obbiettivo troppo lontano. Ti voglio dare un indizio: cosa vedi accanto a te? ‘
‘Un ragazzone biondo con una parlantina infinita e una testa così enigmatica da fare concorrenza al cubo di Rubik? ‘
‘Avanti, Tim, concentrati! Ti arrendi? ‘
‘Forse è meglio. Preferisco una resa pacifica a mente sgombra che una sconfitta a mente fumante. Sì, mi arrendo. ’
‘Bene. Ecco la soluzione all’arcano: hai un amico per la vita. Era semplice, no? Ora ridi, per favore, visto che ti ho prestato una ragione più che valida. Così riderò anch’io, e insieme a te. ‘

Quei filamenti appena nati che correvano tra loro si cementificarono, mentre la scintilla della loro intesa iniziava a riscaldarsi.
 




Era vero: quando Tim rideva, si incupiva o s’intristiva contagiava Brian. Era divenuto un dato di fatto. Nel giro di poche settimane i due erano stati additati come ‘gli inseparabili’ di tutto il corso. Tim era l’ombra di Brian e Brian era l’ombra di Tim, e nient'altro aveva importanza.
 

‘Per questo voglio che tu ti confidi con me come hai sempre fatto. Non cambierà nulla in me, ti assicuro. Se qualcosa ti ha turbato in questi giorni – e mi riferisco alle tue… insomma, hai capito! – dimmelo, così tutto si risolverà. ‘
‘Come la fai facile tu. ‘ mugugna Tim dalla barriera che è quell’intreccio di arti. E’ spossato, esausto. Una campanella d’allarme suona a morto nella testa di Brian. ‘Il fatto è… beh, questa volta è alquanto diverso, Brian. Molto diverso. ‘
‘Ma diverso in cosa? ‘ protesta. I suoi occhi si sgranano, colmi di domande pullulanti nella sua necessità di sapere. ‘Cosa lo diversifica da ciò che hai condiviso con me in tutto questo tempo? Non ridicolizzarti da solo, Tim. E’ una caduta di stile bella e buona. Devo ricordarti di tutti i segreti che mi hai confidato, delle tue misteriosissime pillole, delle tue cartelle cliniche… ‘
‘Ti ripeto che questo è diverso! ‘ sbotta Tim. Le gote arrossate per la rabbia, gli occhi lampeggianti, le labbra rossissime. Raramente Brian lo ha visto perdere il suo proverbiale contegno, e la sorpresa giunge assolutamente imprevista anche per lui; striscia contro il muro, allontanandosi di pochi centimetri da colui che rischia di diventare una bomba ad orologeria. Imprime nella sua memoria il marchio indelebile di quell’esplosione inaspettata con un misto di soddisfazione e timore, preparandosi all’eruzione finale che lo annienterà, ne è certo.
‘E’ diverso, cazzo! Non capisci che non posso dirtelo? Non capisci da solo che è qualcosa tanto, troppo più grande di me? Che mi spavento solo a pensarci? Che mi fa scappare con la coda tra le gambe perché mi fa capire che non ho alcun controllo sulla mia vita e soprattutto su me stesso? ‘
 
 

‘Fa impressione, cazzo. Lo ammetto. ‘ asserisce tranquillo Tim. Ispira l’aria rinnovata della vitalità di un nuovo giorno con forza, come se volesse imprigionarla nei suoi polmoni in un’unica sorsata. Il sole gli riscalda la giacca inumidita e il viso senza cipigli, provocandogli piccole scosse di piacevoli brividi. ‘Abbiamo dormito – Ho dormito! – per tutto questo tempo. Record. Paradossalmente l’attacco di quella cosa ci ha procurato del bene. '
Brian gode dei raggi che gli illuminano i capelli biondi con espressione serafica, serena, sebbene l’inquietudine non sia mai completamente sopita. Si accontenta di essere l’ombra di Tim, posto dietro di lui per difenderlo da ogni eventuale attacco. Ad occhi chiusi annuisce, scuotendo il cappuccio della sua felpa contro il suo collo. ‘Già. Ti ha fatto stancare. Ho temuto per te, stupido idiota. Poteva ammazzarti. ‘
‘Completa pure la frase. E’ un messaggio subliminale per spingermi a ringraziarti? Oh, magari stavi per descrivere lo stato del mio ipotetico cadavere nel caso in cui io avessi perso lo scontro senza te come spettatore. Ammettilo! '

La voce è pacata. L’incentivo giusto affinché Brian approvi quell’ipotesi accompagnandola nel suo discorso. ‘Stiamo diventando perspicaci, vedo! ‘ sorride, un sorriso vero, fiorito insieme alla tregua momentanea istauratasi tra i due. ‘Comunque non sfuggi alla mia predica: sei il solito avventato. Che ti costava studiare la creatura che avevi davanti senza provocarla? Era già agitata di suo. ‘
‘E le mie risposte alle tue prediche sono, per tua sfortuna, monotone. E’ l’istinto che mi ha comandato, Brian. Non ho ragionato a dovere. ‘ confessa Tim di slancio. Quanto può influire l’armonia del momento perfetto nel posto perfetto sull’animo umano? Ma Brian è troppo sbalordito da quella dichiarazione per poterci riflettere doverosamente. Sa già che non ha bisogno di pararsi di fronte a Tim per confermare al suo cervello che sì, l’orgoglioso Tim ha detto proprio così!, e nemmeno gli converrebbe; l’altro lo giudicherebbe uno sciocco, iniziandosi ad innervosire. Un’interruzione che Brian non accetterebbe neppure, visto che quei momenti idilliaci sono quanto di più prezioso lui custodisca come risarcimento per tutte le sue fatiche nel badare al suo Tim.

Così si limita ad inghiottire ogni spiffero di felicità, accontentandosi di lasciar trapelare una neutra conferma. ‘Almeno lo ammetti ora, l’importante è questo. Non hai idea di quanti grattacapi ti toglieresti di dosso se ti fermassi a riflettere qualche secondo prima di agire, Tim. E sono sincero. ‘
Una lieve brezza scuote i capelli di Tim, facendogli accapponare la pelle che il giaccone, allentato per le fasciature, gli lascia esposte. Il fruscio delle fronde sovrasta ogni altro suono, tanto che Brian teme di non essere riuscito ad afferrare la risposta dell’amico, ma quando un docile e arrendevole: ‘Lo so. ‘ viene lasciato turbinare in quel vento, tutto viene chetato da quell’ elementare e complessa risposta che, alle sue orecchie, ha il sapore del trionfo.
 
 

‘Se qualcuno ti ha minacciato, Tim, devi denunciarlo. ‘ sputa Brian con apprensione. ‘E’ successo qualcosa del genere, vero? Dimmi chi è e io vado a spaccargli la faccia. ‘
‘No. Niente di tutto ciò. ‘ lo liquida Tim con un gesto noncurante della mano destra. ‘Rassegnati, Brian. Sai già tutto della mia vita, ma questo… mi dispiace, ma va oltre le mie capacità. ‘
‘Che tradotto significa cosa, per esattezza? Cosa vuoi dire con ‘va oltre le mie capacità’ ? ‘ esclama, e gli sorge naturale afferrargli la mano per stritolarla, preda di un attacco d’ansia. ‘Tim, non fare cazzate. Non. Commettere. Cazzate. ‘
L’altro ride, istigando Brian a schiaffeggiarlo per punirlo della sua rinnovata cecità, della sua presunzione. Necessita di una punizione per aver calpestato in quel modo gli obblighi che la loro amicizia impone, e di aver macerato le sue certezze.
‘L’unica cazzata che ho intenzione di commettere a breve è prenotare una bella vacanza in un ospedale psichiatrico. Dove mi potranno imbottire di medicine e dove, finalmente, starò in pace con l’universo e me stesso. ‘
‘Già, che genialata. ‘ sibila Brian, con gli occhi affilati da un avvilimento sempre crescente e ad ogni secondo più irreprimibile. ‘E io, io che farei qui, da solo? Idiota. Rimani sempre il solito idiota vittima di se stesso. Un idiota egoista, per giunta! ‘
‘E’ tutto pianificato, ormai. Non puoi farci niente. Rimani nel tuo posto e io rimango nel mio. ‘
‘Un amico sta nello stesso posto in cui si trova l’amico a cui è legato. Accontentati di questa risposta e falla finita con queste stronzate. ‘ Un tarlo a rodergli il cervello. Il sangue ribolle di aspettative tragiche. ‘C’entra qualcosa la droga, Tim? ‘

Un’altra risatina di resa al destino. Tim cela nuovamente il volto tra i palmi delle mani, assumendo le sembianze di una figura drammatica. Dall’impedimento materiale delle sue dita la voce risulta confusa e incupita dallo sciabordio silenzioso del sangue nelle sue vene. ‘No, Brian. Non ci sei vicino neanche un po’. Sai che non potrei neanche assumere quella robaccia se già sono costretto ad assumere le maledette pillole. Avrei degli effetti… indesiderati. Mettiamola così. ‘
‘Okay. ‘ sospira Brian. ‘Almeno la droga è fuori. Un passo avanti. ‘

‘Preferirei la droga rispetto a questo. ‘
 
 




 
C’E’ UN COMPITO PER TE, MASKY. C’E’ UN COMPITO PER TE, HOODIE.
Asfissia.
C’E’ UN COMPITO PER ENTRAMBI.
Il passamontagna.
CORRETE DOVETE VENIREDOVETECORREREPERICOLOPERICOLOSIAMOINATTACCOL’ABBIAMOPRESO-
Il passamontagna. La maschera.
TI STO ASPETTANDO
La pistola. Il masso di cemento.
QUESTA E’
No… Non ancora…
LA PARTE MIGLIORE
Non adesso!
NON E’ ABBASTANZA
Uno sciame di numeri su sfondo nero. Eclissi. Il sole viene oscurato da tanti zero a vorticargli attorno, un attacco multiplo.
TI RICORDI ME?
Il passamontagna. La maschera. Non vuole prenderli, ma deve.
IO NON HO DIMENTICATO.

‘Brian? Stai bene? ‘

La pistola. La sbarra di cemento, il masso e la sbarra e i proiettili e le pillole…
Tossisce, sputa saliva. In bocca sente il familiare sapore del ferro, e si piega in due quando è costretto a vomitare dei coaguli di sangue.
CORRETE.
‘Brian! ‘
Le pillole, Tim, corri a prendere le maledette pillole!
VI STIAMO ASPETTANDO

‘Brian, cazzo! Lo senti, vero? Cosa vuole? ‘


 
EVERYTHING IS NORMAL
 
 

‘Qualcosa mi perseguita, Brian! Qualcosa di indefinibile, di soprannaturale… e cattivo! Lui mi guarda, mi guarda, mi osserva sempre! Quando sono a casa, quando cammino per strada, quando dormo, quando sono con te, lui mi guarda e gioca al gatto e al topo. Non si fa vedere, sparisce appena mi giro, vuole tormentarmi per il suo divertimento, ne sono sicuro. Ecco perché non posso più stare con te. E se lui minaccia me, presto arriverà anche a te.
Credimi, Brian, siamo in pericolo! ‘
 
 
 

'Lui ci ha chiamati. '
 

 
EVERYTHING IS FINE
 
 
 
[totheark]
Ti ho
tro
vato
Per sempre.

 
 
 
 
 
 

Made of Snow and Dreams.
 
 

 

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Capitolo 13
*** AVVISO ***


AVVISO
 





Ho intenzione di terminare la stesura di ‘Notti di noi’. Esattamente.
Il motivo? L’inattività del fandom. Capisco che la mia storia possa non piacere a tanti per lo stile, per l’interpretazione e per l’intreccio, ma negli ultimi tempi non ho ricevuto delle recensioni – critiche e non – utili a capire se gli ingredienti combinati insieme funzionano o no. Non pretendo e non voglio obbligare nessuno, sia chiaro, a recensire un capitolo che non vuole commentare, ma – e questo prendetelo come un piccolo sfogo personale – è frustrante vedere ogni volta che certe storie, magari scritte senza tanto impegno, ricevono 6548085220 recensioni e storie in cui l’autore/autrice si scervella per presentare uno scritto buono e coinvolgente ne ricevono a malapena una. Perdonatemi, non voglio offendere nessuno, ma è abbastanza sgradevole come constatazione.
Per questo voglio dire semplicemente che il capitolo 13 di ‘Notti di noi’, già pronto, non verrà mai pubblicato. E’ inutile. Non ha senso pubblicare per un fandom fantasma.
Quindi, anche se non intendo cancellarla, il succo del discorso è che termino il tutto qui. Ringrazio chi ha seguito o semplicemente letto ogni capitolo della mia storia, e chi l’ha aggiunta tra le sue preferite.
 



Made of Snow and Dreams.

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Capitolo 14
*** La Fame - Parte 1 ***


Notti di noi







La Fame - Parte 1




Data: 11 Novembre 2016
Ora: 04:36

 
 
L’aria tranciata più volte. Uno scontro tra demoni e volontà in guerra.
L’adrenalina pompata a velocità vertiginosa nel corpo di Eyeless Jack. Sembrava che i suoi occhi spruzzassero la sua libido sull’avversario come un serpente schizza il suo veleno sulla preda per intimidirla ed avvelenarla. I movimenti con cui parava ogni attacco di Toby erano così fluidi che, agli occhi annebbiati di Jeff, pareva danzasse al ritmo di una danza mortale con un vincitore che sa già di avere la vittoria in tasca.
Ticci Toby era impreparato a quell’energia impetuosa, a quei fendenti fulminei e talmente violenti che per un soffio non aveva rischiato la scarnificazione dell’altra guancia. Caricava ogni offesa con tutta l’energia dei suoi muscoli, si sbilanciava in avanti per tentare almeno di scalfire il nemico. Ma l’altro era troppo svelto e possedeva un’agilità che non aveva mai riscontrato in nessuno.

Slancio verso destra: Eyeless Jack scivolava come una grossa pantera verso sinistra.

Slancio verso sinistra: Eyeless Jack parava con la destra per beffeggiarsi degli sforzi del proxy.

Attacco frontale: Eyeless Jack si limitava a balzare all’indietro, e i muscoli delle cosce trasparivano sotto la stoffa dei jeans durante il salto.

Jeff s’irrigidì, vedendo che l’ombra della creatura sconosciuta minacciava di seppellirlo a ogni difesa improvvisata, e non gemeva più per il sangue che le sue arterie tranciate continuavano imperterrite a fiottare. Non aveva la forza di lamentarsi.
L’ennesima cozzata tra le due asce risuonò nelle orecchie di entrambi come un ultimatum. L’urto non produsse le scintille che tutti si aspettavano per la sua irruenza perché Toby fu costretto ad arretrare in fretta: la forza posseduta dall’avversario sembrava volesse schiacciarlo, annichilendo ogni suo tentativo di lavare l’oltraggio compiuto da Jeff the Killer come più aggradava alla sua creatività. Toccò a lui divaricare le gambe per agevolare la sua resa, e piegò la schiena di scatto per contrattaccare con un fendente laterale, dritto verso il ventre di Eyeless Jack. Il bordo affilato riuscì ad intaccare di striscio la felpa blu del suo rivale, ma l’indumento, pesante e felpato, non si lacerò come aveva previsto.
Raggiunta una posizione irreversibile e pericolosa, la schiena e la testa di Toby erano totalmente esposte ad Eyeless Jack: contrasse i muscoli dell’addome per prevenire qualsiasi danno che l’accetta del proxy avrebbe potuto procurargli se gli avesse inferto un altro assalto, e si preparò a spezzare la colonna vertebrale di Ticci Toby come il tronco di un albero marcio. Piegò i gomiti con tutto il vigore possibile, raccolse tutta la sua energia e la concentrò nelle sue braccia.

Tuttavia, una frazione di secondo prima che l’accetta si abbattesse come un fulmine sul torso di Toby, uno sparo assolutamente imprevisto salvò il ragazzo da una morte certa. Hoodie e Masky si fecero strada attraverso l’intreccio di rami, foglie e arbusti come due divinità boschive. Entrambi impugnavano le loro armi con furia cieca e un’aggressività che risaltava sui volti di entrambi.
Il proiettile superò la barriera dell’epidermide coriacea per essere seppellito da un intricato intreccio di tendini. Non intaccò l’osso, ma se qualcuno avesse sollevato la manica blu della felpa avrebbe visto un foro rigurgitante una macchia nera come il petrolio. Eyeless Jack, con grande stupore di tutti, sembrò collassare in se stesso. Un gemito gli sfuggì dalle labbra. Un getto di sangue denso e nero si riversò sul terreno, mimetizzandosi con il bruno della terra.

‘No… ‘ sentì farfugliare da dietro. Doveva sicuramente trattarsi della sua preda gravemente ferita. Parteggiava per lui, l’illuso, sperando che stesse combattendo per salvargli la vita per assolverlo da un processo senza prove. ‘No… ‘ gorgogliò Jeff, ma la ‘o’ risultò aspirata da un vortice di saliva in eccesso. La sua lingua schioccò sul palato per stimolare la deglutizione, ma la gola sembrava essersi tappata da sola. ‘Rialzati… no-on permettere che J-Jeffrey Woods muoia-a… ‘

Hai sentito, Jack? Non perdere la tua battaglia per un colpo di pistola. L’agnello sacrificale prega pure per te!

‘Devo ammettere di essere positivamente sorpreso. ‘ disse lo Slenderman in tono colloquiale verso Masky e Hoodie. ‘Non mi aspettavo che sareste arrivati così presto. ‘

Generalmente era Masky colui che ardiva di rispondere ad una provocazione, ma quella volta fu Hoodie, con sconcerto dello Slenderman, che decise di rischiare un aspro ammonimento o, nel peggiore dei casi, una minaccia. Non si voltò per fronteggiare la figura longilinea dell’Operatore. Osservava con occhi freddi e calcolatori la scena che gli si palesava davanti, dando la schiena a Masky. La sua mano sinistra impugnava saldamente la sua fedele pistola. ‘Era una questione d’onore. Non è la prima volta che quella cosa ci attacca. ‘

Né Eyeless Jack né Masky aggiunsero altro per confermare l’affermazione. Entrambi sapevano cosa sarebbe accaduto da lì a pochi minuti dopo, e l’indifferenza del primo si riflesse sui freddi occhi del secondo. Istintivamente quest’ultimo si carezzò il petto, strusciando il palmo sulle bende per rassicurare il battito frenetico del cuore – o per sincerarsi che fosse davvero pronto alla guerra finale. O per rinfrescarsi la memoria e aumentare la sua combattività.

L’Operatore non rispose. Il suo collo brulicante si torse verso Tim e i suoi occhi mancanti fissarono i bendaggi avvolti sulla spalla e sul petto, in silenzio. Poi mormorò in tono solenne e affettuoso: ‘Toby… ‘ E i muscoli facciali di Tim sussultarono, ‘necessiti d’aiuto? ‘

Ticci Toby parve risvegliarsi da un lungo sonno tormentato. I capelli erano arruffati e il suo viso imperlato di sudore e furore, i jeans erano strappati in più punti ed erano sporchi di terra. Ansimava, con le pupille dilatate per la morte che lo aveva quasi colto per il suo attacco avventato ed imprudente. Non lo avrebbe mai ammesso a nessuno e probabilmente nemmeno a se stesso, ma per un attimo aveva avuto Paura. L’immagine del suo corpo fatto a pezzi, in quel secondo di vulnerabilità, si era cristallizzata divenendo pericolosamente vicina e reale. ‘Solo se riesce a disarcionarmi. ‘ mormorò con un tono talmente basso che sia Maky sia Hoodie faticarono a sentire. ‘Per il resto, non tollero interferenze. ‘

‘Paura di farti umiliare di fronte a noi altri? ‘ ribatté Masky, soffocando una risatina. Ignorò l’occhiata ammonitrice che Hoodie gli riservò, ma non aggiunse altro. La preoccupazione che l’Operatore dimostrava verso il suo prediletto era semplicemente troppo da sopportare, e quella era l’occasione perfetta per dimostrare a tutti che in realtà Toby Erin Rogers non ne era degno. Sentì Brian sospirare rumorosamente: Non fare l’idiota, Tim! sembrava volergli comunicare con disdegno.

‘E’ un invito a voler prendere il mio posto per farti ammazzare? ‘ rise Toby senza voltarsi. Mantenne un’intonazione neutrale, seppur affilata dall’irritazione repressa per amor della reputazione che, al contrario dello sciacallo Masky, lui desiderava mantenere limpida. ‘Se è così, accomodati. Sarò felice di assistere al tuo smembramento. Un verme in meno nel mondo. ‘

Davvero un proiettile è capace di fermarti? Sei così fragile da farti rallentare con un giocattolo per bambini?

Eyeless Jack si premette la mano destra sul braccio colpito, tamponò l’emorragia. Indurì la mascella e cercò di ricacciare giù un gemito di dolore.
La voce di Masky risultò stranamente calma e lucida. ‘Lo dici perché hai paura, Tic- Tic-Ticci T-Toby. Mister Rogers. Hai bisogno di un alleato per poter vincere il tuo piccolo scontro, non è così? ‘ schernì, e la sua risata era alterata dai farmaci che gli proteggevano la mente dalle radiazioni emanate dall’Operatore. Era soave, quasi gradevole. ‘L’ho visto. Ti ho visto prima, quando c’è mancato tanto così affinché venissi tagliato a metà. Volevi fare la fine della tua dolce sorellina proprio ora? ‘

Non dirlo, Tim, non dirlo! Non lo provocare toccando quel tasto-

Più passa il tempo, più sangue il nostro amichetto agonizzante perde. Voglio i reni caldi e vivi, mi hai capito?

‘NON OSARE PARLARE DI LEI! ‘

L’ordine guizzò nell’aria come una saetta. L’ira con cui ogni sillaba era intrisa fece rattrappire tutti, compreso Masky. Soltanto l’Operatore si ergeva davanti al ragazzo arso dalla rabbia con tenacia. Era presente e partecipe, era estraneo a quelle zaffate di calore ustionanti di veleno. Toby si voltò, questa volta dimenticando completamente Eyeless Jack che continuava a fronteggiarlo, e gettò da parte il suo buon senso. Tremava: il suo intero corpo era scosso da capo a piedi da un’ondata di collera selvaggia. Le sue palpebre e le sue mani palpitavano, in preda a una serie continua di tic improvvisi e violenti. ‘Nomina a-ancora una vo-volta mia s-s-sorella e ti giuro che t-ti facc-faccio fuori! Ti faccio sa-sal-saltare la testa e darò in p-pasto al cane pi-più merdoso il tuo c-c-cervello ro-rogn-oso! MI HAI S-SENTITO, LURIDA CAROGNA? ‘

Di fronte a quell’odio frenetico scagliato totalmente verso di lui, Masky tacque. Assistette a quella scarica d’indignazione e dolore con espressione diffidente, con le braccia incrociate sul petto. Assottigliò gli occhi e alzò il mento, sicuro che la sua maschera come risposta avrebbe riso al posto suo. Non sarebbe bastata una semplice minaccia a indurlo a moderarsi con le provocazioni. Sarebbe equivalso a una resa. Inaccettabile.

Ora scatta, balza addosso a quel pupazzo! Fallo! I reni, voglio i reni… VOGLIO I RENI, TU HAI FAME!

‘E se parli a-ancora di Lyra, t-t-ti far-farò f-fare un bel salto n-nel vuoto! Capito, b-bastardo presuntuoso? Tu, che ha-hai b-bisog-bisogno di quelle pil-pillole per ra-ragionare, ti co-costringerò a inghiottirle t-tutte, s-schifosa c-canaglia! ‘

Fallo!
‘Io ti… ‘

Eyeless Jack balzò addosso a Ticci Toby. Lo colse all’improvviso, lui che gli dava le spalle incurante del pericolo dietro di lui. Le sue ginocchia piombarono sulle scapole del proxy e lui strinse i palmi sulla gola arrossata, caricando tutto il suo peso. Le dita viscide a strangolarlo e l’urto improvviso mozzarono l’aria al proxy, che stramazzò al suolo sotto lo sguardo dell’Operatore. Gli cadde l’accetta dalle mani, ruzzolò a pochi metri da lui e si conficcò sull’erba.

ORA

Quello fu l’unico segnale di cui necessitarono Masky e Hoodie. Caricarono Eyeless Jack con lo stesso impeto di due grossi e affamati mastini neri. Tim agganciò la sua sbarra di metallo con entrambe le mani, protetto da Brian. Eyeless Jack focalizzò immediatamente i suoi assalitori e mostrò le gengive disidratate e le zanne. Ghignò: il Demone stava ricorrendo a tutta la furia che possedeva per lenire il bruciore del proiettile conficcato nel braccio per scatenare la Fame nel suo corpo, l’Involucro. Era la Fame a guidare le sue azioni; la Fame avrebbe decimato tutti i suoi avversari, ora che la sua potenza era del tutto fuori controllo. Il suo sangue ribollì in un urlo di guerra.

Quando Masky fu alla sua portata, Eyeless Jack schizzò in un turbine di liquido nero e frammenti di plastica blu. Le sue gambe sembrarono mutare nelle zampe acquattate di un lupo selvatico. Afferrò la sbarra in acciaio di Tim con entrambe le mani e gliela strappò con furia cieca, così repentinamente che l’attrito del metallo sulla pelle di Masky lo fece gemere di dolore.
‘Brian, aiutami! ‘ gridò. 
Prima che Eyeless Jack avesse il tempo di infierire sul cranio di Masky con la sua stessa arma, una pioggia di proiettili lo costrinse a retrocedere. Hoodie continuava a sparargli senza sosta, premendo sul grilletto per difendere sia Masky che Toby, ed era impossibile non essere colpiti dalla sua mira precisa. Due proiettili lacerarono la spalla destra di Eyeless Jack, che inghiottì un groppo di calda saliva dal sapore fangoso. Hoodie non si fermò, intrepido: mentre Masky si rialzava e Toby si puntellava con i gomiti e le ginocchia per fare altrettanto, avanzò con destrezza, facendo scudo ad entrambi con il suo corpo. Masky ebbe il tempo di riprendere la sbarra e Toby di allontanarsi dal suo aggressore prima che questi potesse compiere qualche mossa per stordirlo una terza volta.
Quando sfilò l’accetta dal terreno, tutti e tre i proxy si trovavano uno al fianco dell’altro, a formare una muraglia difensiva e, insieme, d’attacco.

Messi da parte l’orgoglio e il rancore che Masky e Toby scaricavano regolarmente sull’altro, ora l’attenzione dei tre aveva come unico fulcro Eyeless Jack. Riverso a terra, ringhiante, con la felpa che presentava diverse macchie nere che andavano ad espandersi lentamente fondendosi con le altre, crescendo a vista d’occhio.
‘Fate attenzione, ‘ s’intromise l’Operatore, parlando con una punta d’orgoglio e fierezza. ‘I cani feriti sono sempre i più pericolosi. ‘
L’umiliazione e la Fame rimbombavano fragorosamente nelle orecchie di Eyeless Jack come un fulmine a ciel sereno. La gola riarsa, secca e rugosa, pregava di avere il suo pasto quotidiano - Il sangue della Preda era sempre più copioso. La spalla e il braccio mandavano scintille generate dai muscoli lacerati; le pallottole incastrate nella carne impedivano la cicatrizzazione immediata. Se avesse usato il bisturi per estrarle, l’umano con il passamontagna gli avrebbe sparato ad entrambe le mani. Era totalmente disarmato, le vie d’uscita bloccate da tre comuni mortali!
‘Che ne facciamo di quest’altro? Lo finiamo? ‘ chiese Hoodie meccanicamente, agitando la canna fumante dell’arma da fuoco per indicare Eyeless Jack.
‘Sì. ‘ rispose l’Operatore. ‘E’ troppo pericoloso. Finchè è in vita, sarà solo un pericolo per tutti noi. E i pericoli vanno eliminati. ‘
‘Sono d’accordo. ‘ esclamò Laughing Jack pacatamente, come se stesse assistendo alla proiezione di un film d’azione. ‘Scommetto che ha pure contribuito alla sparizione dei bambini. ‘

Hai fallito. Hai fallito. Hai fallito. Hai fallito. Hai - Zitto, maledizione! Sparizione? Sparizione dei bambini? Ho sentito bene?

‘Questo non poi saperlo con certezza, però. ‘ mormorò Puppeteer con la medesima tranquillità. ‘Ognuno di noi ha la sua fetta di colpa quando prende per sé un bambino o una bambina. ‘

Una sparizione?

‘Ma qui parliamo di omicidi plurimi compiuti su centinaia di persone contemporaneamente. Il solo pazzo che ha qualche possibilità è Jeff the Killer. La tecnica è sua. Jane me l’ha pure confermato. ‘

Centinaia di persone? Contemporaneamente? Aspetta- Hai fallito, hai fallito! I reni, I RENI! – ZITTO, DANNAZIONE, TACI!

‘Per quanto possa essere attendibile, la ragazza. ‘ mugugnò Laughing Jack con fare annoiato. ‘Ah, ma ora basta così. Forza, voi tre. Fate a pezzi questa… questa cosa e poi occupatevi del nostro caro Jeff. ‘

Dunque - I RENI, I RENI! RIALZATI E COMBATTI, CODARDO! LA MIA CREATURA! – finisce qui. Prima del traguardo è un peccato, vecchio mio. Ma, tutto sommato, va benissimo anche in questo modo.

Con gli occhi annebbiati, Eyeless Jack vide i tre proxy circondarlo per ostruire ogni via di fuga. Hoodie puntò la canna della pistola in mezzo agli occhi del nemico e premette il grilletto. Il meccanismo scattò, ed Eyeless Jack per un attimo fu certo che quello sarebbe stato l’ultimo respiro della sua vita. Tuttavia, con una punta di sollievo – Perché sollievo? Non eri tu quello che desideravi morire? – nessun proiettile fuoriuscì dalla conduttura.
‘Merda! ‘ sibilò Hoodie. ‘Si è scaricato il caricatore. Non ho più munizioni. ‘
‘Tempismo perfetto… ‘ gracchiò Masky beffardamente. Rivolse un’occhiataccia a Toby, lo guardò in cagnesco. ‘E ora, chi di noi due lo finisce? ‘
Toby guardò con aperto disgusto prima Eyeless Jack e poi il suo interlocutore. Rimase ammutolito per qualche secondo, sembrò valutare la situazione nel suo insieme, in quella fitta di rete di relazioni interpersonali e legami di mera collaborazione. Poi, come se gli costasse un’immensa fatica rivolgere la parola a Masky, sputò: ‘ Per questa volta lascio a te la scena, caro attore! Facci vedere la tua destrezza con quella sbarra, avanti! ‘
 

E moriresti per quale scabrosa ragione, idiota? Per un banalissimo equivoco? E il tuo orgoglio personale. Dove l’hai accantonato?
Cosa intendi dire? Ma preferisco morire piuttosto che divorare gli organi degli altri. Lo sai, lo hai sempre saputo.
A cosa mi riferisco? Percorri il tuo cammino all’indietro. La tua piccola scoperta. Non è difficile, avanti!
Il mio cammino all’indietro? Quale cammino? Il nostro tempo inizia da quella maledetta notte! Il nostro tempo scorre da quando…
Da quando i miei allievi scelsero te come mio figlio. Mio figlio. Da quando decisero di trasformare un ordinario umano con una vita condotta nella più deplorevole miseria in un Dio. Tu, Jack, sei un Dio da venerare solo perché custodisci l’essenza di Chernobog. Me stesso. La morte dell’involucro non è un finale degno della Scelta; la tua opinione da corazza impenetrabile è irrilevante nella decisione di chi ti è superiore. Il rifiuto delle detestabili incombenze che il corpo è costretto a sopperire non è tollerabile, Jack.


‘Con piacere, Mister Rogers! Hoodie, amico… l’accendino per completare l’opera. Per non lasciare tracce. ‘
Questo lo dici tu.
Lo afferma Eyeless Jack. Perché è questo ciò che sei. Che tu lo voglia… o meno. E se preferisci che io ti controlli come un pupazzo,
La pelle di Eyeless Jack si tese senza che lui si fosse mosso. I tendini disegnarono un intricato reticolo sotto la cute che iniziava a sfaldarsi come carta pesta. Un gorgoglìo risalì nella sua gola mentre un getto di vomito venne espulso dalla bocca spalancata in una smorfia di dolore improvviso. Colò sul suo mento e sul collo. Era ustionante, sembrava della lava nera. Boccheggiò, come se qualcuno lo stesse strangolando.
O del fango… Quello che…
Ti accontento.
Masky si fermò a fissare lo spettacolo che si palesava ai suoi occhi. Hoodie indietreggiò per il disgusto della scena e Toby digrignò i denti per trattenere un conato. La Creatura Melmosa non smetteva di vomitare, e il suo vomito produceva un tanfo terribile, di carcassa in putrefazione. Il collo turgido e gonfio era arcuato all’indietro.
‘Cosa cazzo gli sta succedendo? ‘ esclamò Tim con stupore. Dall’esterno, la creatura artigliava l’erba e la strappava forsennatamente, come se stesse avendo un attacco di convulsioni. Il petto si alzava e abbassava per la mancanza d’aria. Ansimava pesantemente, i muscoli erano tesi come corde di violino.
Il corpo di Eyeless Jack non riuscì più a contenere quel fango putrido e luminescente.  La pelle dei gomiti e dei polpastrelli si lacerò, permettendo alla melma di straripare. Gridò, senza più trattenersi. Si sentiva squarciato a metà da una forza micidiale. Era sicuro che due mani artigliate stessero lavorando da dentro il suo addome, riducendolo a qualcos’altro. Lui stava cercando di uscire: dilaniava organi, scostava senza troppa delicatezza capillari e vene e arterie, e mai come in un quel momento il suo indesiderato ospite aveva assunto le sembianze e il portamento di una larva. Mai come in quel momento il suo corpo gli era sembrato un ammasso di carne flaccida, un’incubatrice per qualcosa d’indefinibile. Urlò.
‘Sfondagli il cranio ora, Masky! ‘ tentennò Hoodie, continuando ad arretrare. Scosse l’amico, impietrito per lo stupore, restìo a voler completare il suo compito.
Che codardo.
Le urla aumentarono d’intensità, fino ad alterare totalmente il timbro vocale. Si fecero stridule, tipiche di una vecchia megera che urla. Poi cambiarono ancora, si mescolarono al pianto di un bambino. Eyeless Jack ruggì, abbaiò, nitrì. Vomitò un’ultima volta, si accasciò esausto al suolo, senza vita.
‘Ora Masky, ora! ‘

'FERMI. '

Era una voce tonante e ferina. Eyeless Jack balzò a sedere, con i lineamenti distorti da una furia demoniaca. Le sue mani tagliuzzate in più punti diversi sfilarono delicatamente la maschera dal suo viso in fiamme e la gettarono senza alcuna cura nel sottobosco vicino. Un ghigno gli serpeggiava sul volto, la lingua schizzava senza controllo tra i denti. Le orbite vuote avevano smesso di traboccare, ma sembrava che, incastonati in esse, ci fossero due ardenti bulbi oculari che fissavano tutti le creature con un odio represso a fatica.
Sally si rannicchiò dietro Puppeteer, impaurita da quell’essere bestiale. I tre proxy arretrarono fino ad accostarsi all’Operatore come cuccioli impauriti. Laughing Jack non permise alla diffidenza d’impossessarsi dei suoi tratti, ma trattenere il timore reverenziale che quella presenza animalesca e maligna gli costava parecchia fatica. Puppeteer studiò a primo impatto quella trasformazione avvenuta ad una velocità incredibile con interesse distante, ma non disse nulla. Lisciò i capelli di Sally in una carezza d’incoraggiamento.
‘Su, su. Non preoccuparti, Sally. Non può farti niente di male. ‘ le sussurrò languido e protettivo.
Ah, davvero? ‘ l’intercettò l’essere che aveva preso possesso del corpo e dell’animo di Eyeless Jack. Beffardamente, quegli occhi arsero di una malignità scatenata. ‘Meglio appurare se sono così innocuo come ti sembro, Jonathan. ‘
Sally si piegò in due dal dolore mentre la sua figura subiva una mutazione a livello molecolare. Il ricordo di ciò che erano state le sue membra si dilatò, e ad ogni strappo nuove molecole di carne e sangue si mescolavano, si legavano, si addensavano per ricostituire le gambe, il torso, le braccia e la testa di Sally Williams. Puppeteer e Laughing Jack erano stupefatti nell’assistere a quello che entrambi stentavano a definire un miracolo vero e proprio. I rivoletti di sangue rappreso s’incrostarono su una superficie concreta e solida, la pelle avariata tornò a pulsare di nuova vita mentre il dolore della penetrazione non voluta si rinnovava ancora, bruciando tra le gambe fatte di nuovi tessuti vivi e feriti. Sally William era rinata da dove era stata uccisa.
E non ho finito. Per dimostrare al mio pubblico quanto io possa decidere del vostro fragilissimo destino… ‘ disse il Dio, canticchiando sarcasticamente sulla loro patetica esistenza, e il sadico divertimento serpeggiava brillante nelle orbite oculari, fissando Sally con la noia di uno spettatore che ammira il medesimo spettacolo per l’ennesima volta, ‘… ammirate questo piccolo giochetto.
Uno sciame di invisibili coltelli roventi intaccò Sally. La bambina strillò disperata e boccheggiò quando sputò dei fiotti di fluido umano che avevano formato un’ostruzione nella faringe. Gli occhi enormi e lucidissimi si sgranarono e lei stessa si sforzò di tossire sotto lo sguardo atterrito di Puppeteer, pietrificato davanti a lei, ora uno spettro filiforme ai suoi occhi da mortale. Le guance le stavano divenendo violacee. La lingua se li era rivoltata all’indietro.
Soffoca, mia carissima Sally. Soffoca pure. Gioca con i miei aiutanti quando li vedrai, i fratelli di Chernobog! Ti piacerà abbandonarti alle loro spire. Nel posto che i lussuriosi meritano. Che i vigliacchi meritano. E lì sarai alla loro mercè, esposta a loro, senza il tuo adorato pupazzetto e la tua lurida camicia da notte. Non ti serviranno a niente quando ti lascerai fottere da loro, piccola baldracca. E ti fotteranno loro, i miei fratelli, ti fotteranno, ti fotteranno, ti fotteeeraaaanno… ‘ Ormai la sua predizione divenuta una blasfema e oscena litania, alternata da risatine viscide e roche. Il petto di Eyeless Jack palpitava per lo sforzo, per le risa incontrollate. ‘ Oh, ma ce n’è anche per te, caro Jonathan. Parliamo di Emra, che dici? E’ lì con loro, a succhiarglielo fino alla radice, a inghiottire anche i peli! La sua boccuccia… perfetta! Che idiota sei stato quando non ne hai approfittato prima, prima che l’uccidessi!
All’eccitazione stridente dell’essere Puppeteer non riuscì a controbattere. Era semplicemente troppo per lui. Troppo in una volta.
Non troppo. Non è mai troppo, flebile fantasma. Sei solo troppo fragile per sostenere un pizzico di realtà in più. ‘ ribatté il Dio. Un filo di saliva imbrattò il suo volto mentre scandiva crudelmente ogni singola sillaba per imprimerla bene a fuoco nella mente dei suoi bersagli. La lingua di Eyeless Jack sgusciò fulminea tra le labbra secche per qualche secondo, pendula e ruvida come quella di un cane assetato.
Le grida di Sally si levarono in un crescendo di elevata intensità. Il ghigno del Dio s’affievolì; digrignò i denti in una scarica improvvisa di fastidio, e assottigliò le palpebre per scrutare il volto della bambina corporea deformato dalle lacrime. Sbuffò. ‘Odio quando la gente strepita. Quest’ospite ha un udito fin troppo fine… ‘ tamburellò le dita della mano sinistra sull’orecchio ‘… e non voglio rovinare questo regalo. Ora zitta!
Il corpo di Sally cadde riverso per terra. Svenuta, non si accorse che i suoi capelli si stavano sfilacciando e le membra assottigliando. Tornò ad essere lo spirito di se stessa.
 
 
 






Angolo Autrice
Allora. C’è una piccola novità: in parte grazie al sostegno di jumby, che mi ha fatto riflettere, e in parte al mio attaccamento verso ‘Notti di noi ’, ho ri-deciso di continuare e terminare tutto. Per quanto riguarda il capitolo: la possessione ‘totale’ di Jack da parte di Chernobog è il pilastro fondante (mi fa strano pensare che il protagonista della vicenda sta diventando Eyeless Jack… non era nei miei progetti, ma vabbè ^^’) del combattimento e la smolecolarizzazione di Sally è uno dei poteri del Dio Nero. Ci sono citazioni volute dell’Esorcista di William Peter Blatty, per chi è appassionato del genere! ;)
Un augurio da parte mia e delle Creepy di buone feste e al prossimo capitolo!
 

Made of Snow and Dreams.
 


 

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Capitolo 15
*** La Fame - Parte 2 ***


Notti di noi






La Fame - Parte 2

 




Lo spirito bruciava e l’ago le sembrava rovente mentre Argot, con dovizia, affondava la punta nella sua pelle. Pizzicava. I lembi della ferita si avvicinavano, guidati dalle mani inesperte del bambino che spargeva l’alcool sulla schiena di Jane, scostando gli strappi del vestito che si era premurato di lacerare per curarla al meglio.
Jane stringeva i denti per inghiottire qualsiasi gemito per il dolore che, comunque, non era lontanamente paragonabile con quell’incendio che l’aveva resa vulnerabile in meno di pochi minuti. Era più una sorta di fastidioso prurito; ad ogni secondo che passava, nuove cellule rimpiazzavano quelle distrutte e una nuova epidermide s’andava costruendo sotto la pelle, rendendola più resistente e coriacea che mai.
Sarebbe un bene o un male?
Era docile sotto le mani di Argot, mentre ruotava il busto in tutte le angolazioni che potessero permettergli di lavorare con più facilità. E lui annodava, stringeva, cauterizzava come un esperto chirurgo, perdendo il conto del tempo, tamponava il sangue in eccesso e fasciava per bloccare l’emorragia.
Quando finì, l’intera schiena e l’intero torace di Jane the Killer erano avvolti da strati di fasciature. Con un sospiro di orgoglio, Argot sorrise. Azzardò a carezzarle la piega del gomito, conscio del fatto che la sconosciuta, almeno per quel momento, era fuori pericolo.

‘Ehy, ho finito. La tua schiena sta decisamente meglio, sai? ‘ esclamò, tutto soddisfatto. Osservò la ragazza strisciare sul pavimento, ancora intorpidita, e lanciare un’occhiatina guardinga con la coda dell’occhio sulla parte interessata. Mugugnò qualcosa d’indefinibile e mosse le gambe. L’attrito del pavimento duro e ruvido contro la sua pelle le procurò una scossa di brividi che la fecero sobbalzare. Le sue pulsazioni erano deboli, ma pian piano le sentiva rafforzarsi. Il battito del suo cuore rimbombava sulla sua giugulare come dei violenti colpi su un muro, come se un gigante stesse martellando su un gigantesco tamburo il suo pugno ad un ritmo sempre crescente, trascinando ogni cosa, facendola gorgogliare per il piacere sempre crescente; un cuore che si rifiutava di morire.

Chiuse gli occhi, e nel momento stesso in cui scosse la testa in un teso sospiro, quella sinfonia decrebbe, iniziando ad allontanarsi. Le sue orecchie accoglievano il canto degli uccelli, la brezza sempre più calda, il fruscio dell’erba e delle fronde in lontananza, e il sangue tornò a fluire pacifico nelle sue vene mentre quel suono si stabilizzava nel suo petto. Sorrise, da sotto la maschera: era salva, lo era davvero. Era viva. E il dolore che sentiva alla schiena non era niente a confronto con quella meravigliosa consapevolezza, nell’essere al sicuro, nel mondo dei viventi. Quelli veri.

‘Grazie. Sul serio, io… io non so come ringraziarti. ‘ mormorò Jane, riconoscente. Sfiorò con la mano sinistra la maschera sorridente, preda dell’impulso di sfilarsela per mostrare il suo sorriso al suo salvatore, ma poi la lasciò ricadere a terra: lo avrebbe solo impaurito se gli avesse mostrato il suo vero volto.
Argot parve non accorgersi di nulla. Guardò oltre i pilastri che sorreggevano il tetto in legno, poi sorrise contento. ‘Non ne hai bisogno, ‘ squillò, ‘sono felice di averti aiutata. Hai altre ferite, piuttosto? ‘
Già. Hai altre ferite, Jane?
‘No. ‘ scosse la testa Jane. Deglutì, un nuovo pensiero affacciatosi nella mente. ‘No. Dimmi una cosa, piuttosto. I tuoi genitori – tuo padre, tua madre – sono in casa? ‘
Un’ombra calò sugli occhi grigi di Argot. Tacque per qualche istante, abbassò lo sguardo. Morse il labbro inferiore con i denti fino a farlo sbiancare. ‘No, sono solo. Mio padre si trova fuori città per il lavoro. E mia madre… ‘ tentennò, e i gli incisivi affilati attaccarono il labbro con più veemenza. ‘… mia madre è morta. ‘ concluse a bassa voce, come se temesse di svegliare qualcuno.
‘Oh… mi dispiace tanto. ‘ Davvero, ti capisco. Molto bene. ‘Quanto rimarrà fuori tuo padre? Quando torna?
‘Circa tre giorni, forse anche meno. ‘ rispose Argot. Poi i suoi occhi s’incupirono maggiormente, spiarono la maschera alla ricerca di un segno che riuscisse a decifrare il volto che si celava dietro. La bocca si assottigliò, diventando una sottile linea carnosa. Guardò Jane con sospetto rinnovato.
No, non guardarmi così! Merda… non scoprire, non scoprire…
‘Perché me lo chiedi? ‘
Maledizione!
‘Perché… ‘ balbettò Jane - Già, e ora che gli dici, eh? -, in preda all’ansia. Lanciò una fugace occhiata alle sue mani guantate, e i capelli che le ricaddero sulle guance la rassicurarono. Pensa, Jane, pensa! Come posso spiegare a un bambino la mia vera identità? ‘Perché… io… ‘ Diglielo, sputa fuori di essere una criminale con la pelle ustionata, dillo pure al bambino! Fallo, e dimostrerai a te stessa di essere folle tanto quanto Jeff, anzi, più di Jeff!
Uno sciame di idee banali quanto non credibili si affollarono nella mente di Jane. Sentiva il sangue affluire sotto le guance per il forte imbarazzo, e fissò gli steli di paglia disperatamente, come se potessero offrirle la scusa perfetta tempestivamente. Gli occhi torvi e vagamente infastiditi di Argot sulla sua schiena bruciavano, come il suo sguardo accusatorio.

Poi l’illuminazione. Una fievole scusa da somministrare ad un ingenuo bambino. ‘Perché mio padre… ecco… ‘ sussurrò Jane, imitando una voce infranta da dei singhiozzi fasulli, ‘Mio padre mi sta cercando. E’ un criminale evaso dal carcere, ed è stato lui a ridurmi così. Se viene a sapere la mia posizione… ‘ s’interruppe in una pausa drammatica per controllare se l’amo avesse abboccato, e quando gli occhi del bambino si sgranarono, increduli, gioì silenziosamente. ‘… verrà qui per finirmi. E forse ci andrai di mezzo tu. Ecco perché non dovrai dire a nessuno – bada bene, a nessuno! – di me. ‘

‘Nemmeno a mio padre? Sai, lui è uno che sa mantenere i segreti! ‘
‘Nemmeno a lui. Promettilo, ragazzino. Giuralo su… su tua madre. ‘

Colpo basso, Jane. Mossa subdola.

‘Oh… ‘ sibilò Argot di rimando. La piccola mandibola ebbe un’ultima contrazione, e la bocca si distese in un lieve ma sincero sorriso. Le sue iridi si rischiararono alla luce del sole, divenendo quasi bianche. ‘Se giuro sulla mia mamma, allora stai certa che terrò l’acqua in bocca. ‘ concluse solenne.
Scampato pericolo. Brava, vecchia mia!
‘Bravo. ‘ sussurrò la ragazza a bassa voce, biascicando le sillabe. Il suo tono di voce s’impregnò di sincero sollievo a quella promessa, e si concesse di assumere una sfumatura giocosa, quasi felice. ‘Ma lo sai che ancora non ci siamo presentati? Siamo due stupidi! Io sono Jane. Tu sei…? ‘
‘Argot. ‘ rispose il bambino, e il suo sorriso divenne più largo. Socchiuse gli occhi, piegando le ginocchia per abbassarsi al livello della ragazza, e le carezzò i capelli con più libertà, come se avesse appena guadagnato la fiducia di un gatto selvatico. ‘Io mi chiamo Argot. ‘
 
 
 

Era una sensazione stranissima, la più strana che avesse mai provato. Il peso dei capelli sulle spalle si era gradualmente liquefatto, e quei serici fili bruni erano tornati a danzarle attorno, mossi da un vento inesistente. Il sangue si era raffreddato, ma per chissà quale legge della fisica continuava a fiottare lento sulla sua pelle, espulso dalle sue ferite.
Era bizzarro, poi, il fatto che non provasse dolore: la sua pelle era evanescente al suo tatto, gelida, ma in qualche modo esisteva. Nessun verme a divorarle le viscere, a deporre le uova nei suoi intestini, nessuna microscopica larva a contorcersi spasmodicamente dentro il suo corpo morto. Non una traccia di muffa sulle guance paffute, nessun irrigidimento dei suoi arti rilassati.
Il dolore tra le gambe era scomparso; poteva solo percepire di essere stata lacerata all’interno, di aver accolto qualcosa che una bambina della sua età non poteva accogliere. Si sentiva allargata, brutalmente; sventrata. Eppure non sentiva più nulla. Il suo intero corpo aveva perso ogni traccia di sensibilità. Era morta, intrappolata nella sua stessa carne, eppure… eppure qualcosa la tratteneva.
 


Fossi in te non lo farei. ‘ lo interruppe il Dio.
Puppeteer obbedì a quell’esortazione. Allontanò bruscamente la sua mano da Sally, distesa sull’erba, come se si fosse scottata, ancora troppo stordito per poter ribattere. I suoi occhi schizzavano febbricitanti dalla bambina al Dio in un moto disordinato e disperato. Chernobog lo osservava divertito e Eyeless Jack sorrideva trionfante.
La sua lingua nera sgusciò ancora tra le labbra secche e gocce di liquido nero colarono sul mento, infangandolo ulteriormente. Gli occhi infuocati erano ancora più brillanti, sfavillavano come le fiamme di un incendio infernale da cui non si poteva fuggire.  
Che ti succede, hai perso l’uso della lingua? ‘ sghignazzò lui. ‘Oh, ma non ti preoccupare. Non ho fatto niente di male alla tua Sally, proprio niente di male. Davvero. ‘ Uggiolò, roteando le pupille. La sua faccia si fece improvvisamente seria, e il collo di Eyeless Jack ruotò sul suo torso perfettamente immobile, diritto, rigido. Quando il suono delle vertebre spezzate risuonò in quell’anfratto di bosco, Masky indietreggiò, disgustato. Hoodie ne approfittò per cingergli le spalle con il braccio destro. L’insopportabile cigolio si tramutò in un’ululante sghignazzata quando il Dio fissò con occhi predatori Jeff e, dalla nuca livida, i due proxy con furia arguta, schernendoli. ‘Ma che delicato, il nostro Tim Wright! E Brian, poi… che quadretto. Mi divertirei ad avervi come servitori personali!

Laughing Jack osservò divertito l’aria spostarsi, plasmarsi per opera di una forza sconosciuta. Adocchiò distrattamente lo Slenderman mentre i tentacoli di quest’ultimo si agitavano, descrivendo dei piccoli mulinelli nell’atmosfera. L’ira dell’Uomo Alto era palpabile e minacciosa; si estendeva, mutando in un’energia che proteggeva i tre proxy, incuneandosi attorno a loro in un’invisibile barriera.

Accolta la sfida, la testa di Eyeless Jack schioccò un’altra volta, ruotando come una trottola sul busto martoriato. Il contraccolpo dovuto alla frenata con cui il cranio si arrestò, posizionatosi sulla sua asse naturale, lo fece assomigliare ad un bambolotto di plastica. Le orbite vuote gorgogliarono di altra melma e le iridi ferine, simili a quelli di una volpe, studiarono con perverso interesse il loro sfidante. Ticci Toby si costrinse a strizzare le palpebre per interrompere quella fissità impossibile da reggere, ma non retrocesse. Sapeva di essere protetto in quell’energia dura e resistente come il cemento, ma quei fuochi pronti a scavargli dentro, nel suo inconscio, erano semplicemente troppo. Neppure l’opposizione dell’Operatore poteva contrastare il vivacissimo furore di una creatura così potente.

Bene, bene, bene. ‘ cantilenò Chernobog. ‘Così tu, tu ti permetti di proteggerli, i tuoi figli mortali!
‘Hai detto giusto. I miei figli mortali. ‘ rispose lo Slenderman con voce grave e cupa, inflessibile. I tentacoli di allungarono, ramificandosi come tanti serpenti, si attorcigliarono tra di loro.
La tua mancanza di fede è sconcertante. ‘ gracchiò Chernobog, soffocando un riso crudele. Le iridi parvero esplodere di lampi di scaltrezza. ‘Specie se palesata davanti a me. Un tempismo molto mal calcolato, amico mio. ‘ Ghignò nuovamente, beffardo e sinistro, immobile come un manichino. Solo la testa si muoveva a scatti, su un corpo seduto fin troppo compostamente.

Il collo di Slenderman brulicò nervosamente. Rigido, preparato ad una tempestiva difesa, sembrò sputare con ribrezzo: ‘E in cosa dovrei avere fede? ‘
Gli occhi fiammeggianti scintillarono di malizia e persuasione. La mandibola di Eyeless Jack ebbe una contrazione mentre un nuovo e generoso fiotto si spargeva sul collo; i denti acuminati si conficcarono nel suo labbro inferiore, fendendolo senza pietà. ‘In me, mio caro. In me. Solo un idiota, un vero inconcludente idiota, rifiuterebbe la realtà dei fatti. Non deludere le mie aspettative con una caduta di stile di tal fatta. Sarebbe oltremodo… noioso, come spettacolo. E sublime, al tempo stesso! ‘ L’eccitazione ribollì nel viso di Eyeless Jack, torcendo i lineamenti in un nuovo ghigno gioioso.
‘Non ti consegnerò mai i miei servitori. Sono miei, e a me appartengono. ‘
Naturale. ‘ sghignazzò Chernobog, irridendo nuova forza. Eyeless Jack annuì, e la sua lingua pendula sfiorò il labbro tagliuzzato, leccando le bava in eccesso. ‘E di certo io non insisterei ulteriormente. Tra padroni ci s’intende, no? ‘ Le iridi brillarono di aspettativa esultante, e di odio pressato e pronto ad esplodere. ‘O forse è proprio ciò che non dovevi chiedermi, caro amico. ‘ Il tono di voce si arrochì, e il ghignò si tramutò in una smorfia di noia e, insieme, di rabbia. ‘Prevedibile, come sempre. Uno scontro è ciò a cui tutti aspirano. Tutte le mie creature, ‘ rise, ‘ te compreso.

Cosa? Le palpebre di Ticci Toby scattarono, e negli occhi lucidi e attoniti di Masky vi vide riflesso il suo stesso stupore. Hoodie si voltò verso i suoi compagni, squadrandoli entrambi con sospetto. State zitti!, li ammonì mentalmente. Non una parola su quanto si stanno dicendo, chiaro?

‘Non sono una tua creatura. ‘ ribatté calmo lo Slenderman. Il vento divenne più forte, agitò le fronde degli alberi attorno a loro, sembrò addensarsi vicino al Dio, una timida ombra di attacco. Le pupille infernali e vivide rotearono con soddisfazione mentre quel primo avvertimento avviluppava l’intero corpo di Eyeless Jack, e rimasero silenti. Attendevano con trepidazione la mossa successiva, per niente intimidite.
‘Tu, piuttosto, cosa sei? Perché sei qui? ‘

Puppeteer sobbalzò quando un selvaggio scroscio di risa incontrollate esplose nella gola di Eyeless Jack. Fu un suono talmente potente che la cappa di energia che proteggeva i tre proxy vibrò per qualche secondo come un fragile vetro. Gli occhi scrutavano con insolenza lo Slenderman, imprimendo un silenzioso monito. Non sfidarmi oltre, sputavano con rancore.

Quando il Dio parlò, la sua voce riecheggiò rabbuiata. ‘Sono ciò da cui tutti voi provenite. Tutti. ‘ Lo sguardo maligno e fiero si posò sui tre proxy, squadrandoli con ciò che Hoodie identificò con Tenerezza e amore? Possibile?!, poi si strascinò su Laughing Jack – le labbra di Eyeless Jack s’incresparono per imitare lo stesso sorriso che fioriva eternamente sulla bocca del clown, e quando il pagliaccio lo fissò con diffidenza e allarme, le iridi brillarono di nuove fiamme di eccitazione e vivacità – e, infine, con disprezzo, su Sally e Puppeteer. Quando la mano sinistra della bambina sussultò, Chernobog riprese: ‘E sono ciò che non dovreste mai sfidare. Abito qui, in questo corpo. Ma la mia influenza marchia tutti voi come bestie da macello.
‘Le tue, immagino. ‘ sussurrò greve Laughing Jack.
Esatto, Laughing Jack. Esattamente. ‘ rispose il Dio trionfante. ‘Le mie bestie da macello. I miei pupazzi. Siete tutti figli miei, in un modo o nell’altro. E questo mi porta a rispondere alla seconda domanda della mia creatura prediletta qui… Jeffrey Woods è la mia vittima sacrificale, oggi.
‘Impossibile! ‘ esclamò Laughing Jack. ‘Lui ha… ‘
Lui è la causa di questa vostra carestia, eccetera eccetera. Conosco già la musica che tira qui. ‘ sibilò Chernobog. I tratti di Eyeless Jack mutarono ancora, la fronte s’increspò in una sottile ruga d’espressione e la bocca si arricciò in una smorfia d’inaspettato disgusto. ‘Ma che direste se io vi dicessi che, in realtà, la pista che voi cani dovreste seguire è ben altra?
‘Ci proponi un’alternativa quando nessuno, qui, conosce l’attendibilità delle tue affermazioni. ‘ ribatté categorico lo Slenderman.
Il Dio gli scoccò un’occhiata di pura furia. I denti aguzzi strisciarono tra di loro, stridettero. ‘Vuoi testare quanto io sia attendibile? Far esplodere in un tripudio di neuroni e pezzi di cartilagine la testolina di uno dei tuoi dolci proxy è abbastanza, per te? Chissà, forse usare Toby Rogers come cavia sarebbe abbastanza esauriente. Proviamo?

Ticci Toby guardò con autentico terrore l’Operatore. Le palpebre sbattevano tra di loro con crescente velocità, in una sequela di tic sempre più violenti. Masky soffocò un sorriso di soddisfazione.
Quant’è semplice impaurire gli umani! ‘ sogghignò il Dio, intercettata la paura che divorava il proxy vivo. ‘Basta sottintendere un pizzico di pericolo per loro ingloriose vite, ed ecco che la loro baldanza… puf! Sparisce di botto!
‘Non c’è bisogno di intromettere gli umani nella nostra disputa. ‘ asserì lo Slenderman. ‘Sono troppo deboli, e indifesi. Nessun… ‘
Nessun gusto, l’hai detto! ‘ ribadì il Dio. ‘Ma fa sempre piacere dimostrare quanto, in realtà, questi minuscoli molluschi siano utili. A me, specialmente. Ed è una soddisfazione assistere allo spettacolo.
‘Quale spettacolo? ‘
Quando perdono la ragione. ‘ Il sorriso si allargò esponenzialmente, mettendo a nudo entrambe le arcate dentali in una sferzata di estasi. ‘Quando consegnano parte del loro potere a Chernobog. Dovresti vedere che meraviglia, quando infilzano i ventri con i loro coltelli credendo di fare un piacere a loro stessi. Quando in realtà sacrificano le loro povere ed innocenti vittime per me, solo per me!
‘Ma qui non tutti sono umani. Lo vedi tu stesso. ‘ sussurrò lo Slenderman con voce ovattata.
Lo vedo, lo vedo. ‘ gracchiò il Dio. Gli occhi sprizzarono lampi di compiacimento. Squadrano tutti, ancora una volta, esaminando ogni infimo particolare. Solo Laughing Jack si permise di addentare una caramella con noncuranza, imprimendo la sua attenzione sullo scartamento del dolce. ‘Alcuni lo erano, un tempo. Parlo della puttanella… ‘ Additò Sally con noia. ‘Del vagabondo solitario… ‘ Puntò l’artiglio su Puppeteer. ‘E di te, amico mio. ‘ Terminò implacabile, attaccando lo Slenderman.
‘Non osare… ‘
Ad ogni modo, ‘ lo interruppe imperiosamente Chernobog, ‘credo convenga finirla con le rivelazioni. Quello che vi ho smosso, chiedete. Se non a me, ai vostri capi. Questo qua sta morendo dissanguato. Mi resta poco tempo.


Era vero. Il cuore di Jeff aveva rallentato le palpitazioni drasticamente; aveva raggiunto un ritmo lento ed ipnotico, soave.
Rimbombava nelle sue orecchie senza che lui se ne accorgesse. I muscoli dell’intero corpo erano rilassati, i tentativi di combattere l’emorragia ormai abbandonati. Il trapano martellava indisturbato il cranio e stormi di sensazioni nuove e sconosciute si affollavano davanti ai suoi occhi vacui, liquidi, annebbiati.
Fissava il cielo azzurro senza nemmeno guardarlo. Un paio di occhi verdi lo tormentavano senza pietà, e Jeff si ritrovò a constatare l’assurdità dell’essere cullato da quelle pupille dilatate che lui conosceva così bene e che avrebbe riconosciuto in ogni occasione.

 
'Jeffrey, resisti! Mamma è qui, stiamo correndo… stiamo correndo all’ospedale, Jeff! La tua povera mano, posso toccarla?'
Erano accusatori.
Liu…
Non ne comprendeva la ragione. Eppure era stato sufficientemente chiaro nella notte dei cambiamenti, no? Che Liu non lo avesse ascoltato, o visto, o…
'Liu, per l’amor del cielo! Non toccare tuo fratello, tanto non può nemmeno risponderti! '
… o compreso. Era ancora vivo, il suo Liu?
Liu…
Sì, necessariamente. Altrimenti non avrebbe visto gli occhi verdi.
Liu…
'Mamma, Jeff mi ha rubato i pastelli! No, Jeff, dai… ora pure il tablet! '
'Addirittura chiami la mamma, Liu? Ah! Sei proprio un bambino, proprio un mocciosetto, un mocciosetto frignone e pure idiota! Fortuna che ci sono io ad insegnarti tutto, cazzo. '
'Jeff! Che linguaggio! '
'Scusa, mamma. E tu non ridere! '
Liu…
Ma stai morendo, Jeff. Perché piangi? Quella è una lacrima? 
Sto piangendo?
Tu, proprio tu che sorridi sempre! Che maestro sei, Jeffrey Woods? E pretendi d’insegnare le tue fottutissime regole a me, a tuo fratello? Dopo ciò che hai fatto? 
Liu…
Aspettavo solo di vederti morire per piangere di gioia. Una cosa giusta l’hai finalmente conclusa, fratello mio. 
Liu…
Quindi sbrigati e lascia il posto ad Homicidal Liu, Jeff. Qua non servi più. Non mi servi più, Jeff! 
Perdonami, Liu…

Una lacrima solitaria gli scivolò sulla guancia.
 



‘Ma io ti ho già detto che Jeffrey Woods è nostro. Non puoi prenderlo! ‘ rimbeccò lo Slenderman. Avanzò di un passo, come se volesse afferrare Jeff per sottrarlo alla Fame del Dio.
Vediamo di rendere le cose un pochino più interessanti, vi va? ‘ incalzò il Dio. La mano sinistra di Eyeless Jack s’infilò lentamente nella tasca della felpa blu. Oggetti sfusi di metallo e plastica tintinnarono tra loro, sotto lo sguardo attento e incuriosito di Laughing Jack e quello circospetto dell’Operatore. Quando la mano estrasse un foglietto dorato, strappato in più punti, la curiosità accalappiò anche i proxy e riscosse parzialmente Puppeteer dallo stordimento, il minimo necessario per fissare il pezzo di carta in questione.

 ‘Questo biglietto, ‘ bisbigliò Chernobog come se stesse confidando il più temibile dei segreti, ‘l’ha trovato il mio ospite qualche giorno fa. Conficcato nella schiena di un bambino morto. Credo che sia ciò di cui tutti hanno bisogno per schiarirsi le idee. Osservate bene la scritta e poi decidete voi. E’ tempo di mettere la parola ‘fine’ a questa recita interminabile. ‘ Porse il biglietto in avanti, attendendo che qualcuno tra i più coraggiosi si facesse avanti per afferrarlo.

La cupola di energia impediva a Ticci Toby, Masky e Hoodie di avvicinarsi. L’Operatore sembrava più che mai deciso ad affiancarli, come un padre protegge i suoi figli. Puppeteer guardava spaesato il Dio, troppo indebolito da quel bolo d’immensa energia per potersi affiancare ulteriormente. Sally, riversa a terra ai piedi dello spettro, non si era nemmeno ripresa del tutto.
Con grande sorpresa di tutti, ad eccezione di Chernobog, fu Laughing Jack a fare la prima mossa. Biascicò un’imprecazione mentre succhiava con più prepotenza la caramella, azzannandola per ammutolire quella scintilla di timore reverenziale che quella presenza potente e terrificante gli accendeva. Il palmo aperto di Eyeless Jack mostrava quella minuscola traccia senza pericolo. Chernobog lo fissava silenzioso, senza staccargli lo sguardo di dosso: solo le pupille lo seguivano, scattando al ritmo dei suoi passi esitanti.

Laughing Jack soffocò un brivido quando i suoi artigli sfiorarono la pelle gelida di Eyeless Jack; si conficcarono nella carta umida e stropicciata per afferrare il più velocemente possibile il biglietto.
Ora il clown passava il cartoncino davanti lo sguardo indagatore generale, soffermandosi a decifrare le loro espressioni facciali, per quanto i volti dell’Uomo Alto e dello spettro dagli occhi dorati potessero permettergli.

Quando lesse la scritta sbiadita ma ancora leggibile, alzò lo sguardo al cielo, confuso. Il suo ghigno s’attenuò. ‘Cosa significa? ‘
Chernobog rise. ‘Significa che avete tutti commesso un clamoroso quanto terribile equivoco! Non è stato l’incompreso e bistrattato Jeff the Killer a mutilare tutti quegl’innocenti. Qualcosa di molto più grande si sta preparando nell’ombra. Vi conviene affrettarvi a rintracciarlo, prima che un altro centinaio di persone svanisca nel nulla.
‘Qualcosa… ‘ mormorò Puppeteer, ‘che tu conosci già, presumo. ‘
Eh, vedo che ricordi come si parla. Sì, io so già tutto, ovviamente. ‘ confermò Chernobog. Annuì, e lanciò occhiate ansiose verso il corpo immerso in pozza di sangue dietro di lui. ‘Ma ora basta con le chiacchiere. Vi ho già fornito le prove necessarie per lasciarmi Jeffrey Woods. Ora, se permettete… ‘ disse, e il corpo di Eyeless Jack si riscosse dalla sua immobilità puntando i talloni a terra e accennando una lenta alzata. Gli occhi ferini scrutavano Jeff con fare predatorio. ‘I suoi reni mi attendono.
‘E invece no. ‘ tuonò lo Slenderman. Sorprese i proxy, sorprese perfino Chernobog, che lo fissò incredulo e sconvolto dall’ira. Chino su Jeff, la mano di Eyeless Jack aveva assunto la forma di una vanga letale: premeva sul ventre del killer, pronta a sfondargli la fragile rete di nervi e ad asportargli gli organi. ‘Non lo farai. ‘
Ma davvero, povero e infausto divoratore di bambini? E chi me lo impedirà? Tu, per caso? ‘ sputò con astio. Un grumo di saliva densa e bollente finì sul terreno. Le dita di Eyeless Jack giocherellarono con il bordo della felpa bianca, scostarono il tessuto fino a scoprire l’intero ventre del ragazzo.
‘Il creatore dev’essere fedele alle sue creature. Lo sai, tra padroni ci s’intende. ‘ disse lo Slenderman. L’epidermide organica si smosse all’altezza della bocca, tratteggiò un sorriso indecifrabile.  ‘Ma qui nessuno si fida e nessuno è sicuro. ‘
Questi sono problemi vostri! ‘ replicò il Dio.
‘Ecco cosa ti propongo. ‘ continuò l’Operatore, ignorando il torrente di insulti e accuse che, era certo, la creatura stava per rilasciare. ‘A meno di trecento metri c’è una fattoria. Ci sono due creature adatte a sfamarti. Una è ferita, l’altra è in perfetta salute. Prendi loro. Il ragazzo non morirà, ce ne occuperemo noi. Intanto che cerchiamo questo… ‘ adocchiò distrattamente il biglietto, rilesse la scritta. ‘circo, sempre se esista. E se si rivelerà essere lui la causa del massacro, te lo consegneremo. ‘

Voci sommesse, dubbiose, come in un confessionale. Chernobog fissò lo Slenderman per qualche istante, riflessivo. Poi, la mano mortale arretrò. Scoppiò in una squillante e gracida risata. ‘Mi stupisci sempre, vecchia volpe! Me lo riconsegnerete vivo e in salute? Mi hai pure dato le indicazioni per il ripiego finale! Ah! ‘ starnazzò. Riprese fiato, sorrise soddisfatto. ‘E sia. Ma un passo falso, e della tua esistenza non si avrà più traccia. E cancellerò dalla faccia della terra i tuoi uomini. Non me ne faccio niente. Eh, vecchia volpe…

Laughing Jack estraniò il suo udito da quel continuo e irrefrenabile cachinno di risate e versi animali. Studiava il foglio dorato con attenzione scientifica, esaminava l’inchiostro con cui ogni era stata scritta l’ora e l’invito.

Poi sbuffò: chi meglio di lui poteva scoprire l’esatta posizione del loro rivale?
 
 
 
 






Angolo Autrice
Innanzitutto mi scuso per non aver pubblicato prima, ma tra le feste, il Natale, il mio compleanno e la Befana, non ho avuto proprio tempo per scrivere e rispondere!

A jumby: sono felicissima che ti stia piacendo la piega che la storia sta assumendo! *-* E sono ancor più emozionata nell’affermare, con orgoglio, che questo è l’ultimo capitolo in cui l’identità del fantomatico assassino rimane ancora svelata. Esattamente. Diciamo che questi primi 14 o 15 capitoli sono funti da ‘prologo’ per la storia (non uccidetemi, vi prego! Eheh) e non vedo l’ora di presentarvi i miei Oc. Non. Sto. Più. Nella. Pelle.
Considerato il lavorone che mi aspetta da oggi in poi (perché sto modificando i capitoli per migliorarli, e sto aggiungendo alcune immagini per rendere l’idea), credo che questa è, a tutti gli effetti, la mia prima e vera long.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, alla prossima! ;)


Made of Snow and Dreams.


 
 

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Capitolo 16
*** Intermezzo: Entrata in scena (Prologo) ***


Notti di noi





Intermezzo: Entrata in scena

Prologo


 


 
Nessuno se l’aspettava. Era accaduto tutto in fretta, troppo in fretta. Due ore, forse anche meno.
Un lunghissimo nastro di contenimento separava l’agente Uris da quella tempesta di urla, lacrime e capelli strappati per la disperazione. Una donna sulla cinquantina, con il viso segnato da qualche ruga d’espressione, mostrava gli occhi inondati di lacrime e il naso paonazzo per il troppo piangere e il troppo soffiare. Padri, fratelli o semplici ciuffi di parenti sparpagliati qua e là nella mischia osservavano ammutoliti, con gli occhi sporgenti per l’orrore – troppo orrore per poter essere lontanamente concepibile – l’ammasso disordinato di cadaveri su cui lavoravano medici legali e un’intera pattuglia di agenti. A rendere vane le imposizioni dei colleghi, che intimavano i curiosi a non oltrepassare il limite, c’erano quei ‘Annie!! Nooo! ‘, ‘Patty, Lucilla! Cosa… p-perché… ‘, ‘Ulrich!!! ‘, nomi invocati - come se i possessori, scavando per liberarsi dal peso opprimenti degli altri corpi sui loro, potessero risorgere tutt’a un tratto per correre sorridenti verso i familiari, magari affermando candidamente: ‘ Vedi, mamma, era tutto uno scherzo! Tutto! E’ riuscito bene, vero? ‘ - in un concerto di grida strazianti e laceranti. L’operazione stava divenendo critica.

‘State indietro, per favore, state indietro oltre la fascia-confine. ‘ disse Stanley Hagarty nel tentativo di contenere la folla. Lo stesso agente Steven Uris fu costretto a schivare le unghiate di una donna infuriata, decisa a gettarsi sul corpo del figlioletto deceduto.
Alla fine Steven avrebbe raccontato nei minimi particolari l’intera vicenda alla moglie incredula. Avrebbe descritto con minuzia le lacerazioni che avevano reso il corpo di Susanne Moore molto più simile a dei tagli di manzo di scarsa qualità; avrebbe delineato il profilo della signora Lucilla, pietrificato anche nella rigidità della morte in un’espressione di autentico orrore, con il braccio teso ad afferrare la figlia – il cui corpo non era stato ancora reperito; avrebbe delineato con la voce tremolante – perché anche i più duri possono cedere, gli avrebbe poi sussurrato sua moglie tra una carezza e l’altra – il cranio di una ragazza non ancora identificata, collassato in un tripudio di frammenti ossei da un oggetto pesante ma sconosciuto; avrebbe ritratto, come un macabro artista, il paesaggio sanguinolento di tutti quei bambini uccisi senza una ragione, maschi e femmine, che nelle ore precedenti al massacro possibilmente erano nelle loro abitazioni, a parlare al telefono con il papà al lavoro o a giocare con la mamma a Monopoli.
Urla da far accapponare la pelle al più efferato dei serial-killer che aveva avuto occasione di conoscere nella sua carriera nel mondo della criminologia. Tantissime vittime e non un testimone. I responsabili si erano volatilizzati nel nulla.

‘C-capisci, Lara? ‘ avrebbe singhiozzato Steven tra le braccia della moglie, e lei non avrebbe detto niente perché in questi casi non c’era proprio niente da dire. ‘Trucidati tutti, tutti! Neanche un minuscolo bambino era v-vivo… ‘ Avrebbe singhiozzato con il volto rigato, ‘li hanno massacrati, manco fossero delle bestie d-da macello! ‘ avrebbe urlato. ‘I bastardi se la sono presa anche con una donna incinta. Una donna incinta, e Dio solo sa come avrei reagito io se quella poveretta fossi stata tu… ‘
Di riflesso avrebbe avvolto le braccia nodose di muscoli sul corpo morbido e sinuoso di Lara. La soffice consistenza setosa della camicia da notte che lei indossava lo avrebbe rinfrancato, il minimo necessario per concedergli un istante di tregua. ‘Il ventre era stato squarciato. Hanno… hanno rimosso il piccoletto dall’interno, e lo hanno smembrato. Così, per divertimento. ‘

In effetti, Steven Uris aveva fissato con sgomento i resti di Patricia Anderson senza poter distogliere lo sguardo da quelle spirali contorte di intestini. Una manina minuscola e ancora rosacea era aggrappata alle interiora della mamma, una mano senza il braccio. Il rimanente arto era stato avvistato cento metri più lontano, vicino alla testa dissociata da dei morsi famelici.
Patricia Anderson. Ma poteva essere sua moglie, quel povero cadavere sventrato. Sua moglie, e quell’insieme di pezzi sparpagliati suo figlio Billy. Assorbendo il confronto, era stato allora che Steven Uris aveva giurato sulla sua famiglia di dare la caccia ‘a questi vermi schifosi, a questi bastardi infami! ‘, e lo aveva urlato con così tanto impeto che Stanley Hagarty in persona aveva dovuto correre da lui per calmarlo con un leggero sedativo.
Nela mattina susseguente al ritrovamento dei cadaveri mutilati, tutte le frontiere della cittadina in lutto erano già state sigillate.
 
 
 


Jarod Moore era stato terribilmente viziato da una madre apprensiva e fin troppo permissiva - nei suoi confronti. Riusciva a trasformare un ‘no’ perentorio in un ‘forse’ con una scenata già congeniata di pianti e urla e minacce e insulti, e quando il ‘forse’ diventava il ‘sì’ che lui tanto agognava, l’isteria generale si trasformava in quelle profusioni di sorrisi e carezze che sua sorella Susanne definiva ‘le più ipocrite dimostrazioni di falsità gratuita che avesse mai visto ’.

Per questo motivo non ci pensò due volte quando sventolò il biglietto dorato e lucente sotto il naso di sua sorella, in un uggioso pomeriggio invernale in cui i compiti erano le ultime cose in lista da completare. Jarod adorava i circhi con i loro funamboli, i mangiatori di fuoco, i maghi, i leoni.
Quando l’aveva riferito con orgoglio alla clown, il suo viso impiastricciato di vernice nera si era contorto in un gigantesco e sinistro sorriso. ‘Ma certo che ti piacciono. E a chi non piace il circo? ‘ gli aveva cantilenato con voce impastata e stridula, simpatica ma sbagliata. Gli aveva pure carezzato la guancia con dolcezza, evidentemente soddisfatta da quella scoperta, e a Jarod era parso che i suoi svelti occhi azzurri sfavillassero di qualcosa, seppelliti da strati e strati di vernice nera. Aveva scoperto i denti – aveva forse sorriso? – ma non poteva esserne sicuro; la croce nera che inglobava i tratti somatici del pagliaccio-donna era così densa da sembrare una gigantesca macchia d’inchiostro.
Ma il biglietto era comunque suo.
‘Butta giù il fondoschiena dal letto, sorella! Andiamo al circo! ‘ gridò all’orecchio della sorella maggiore così forte da farla trasalire. Armata di auricolari e cellulare di ultimissima generazione, Susanne lo squadrò malamente, irritata e stordita.
‘Quale circo? Aspetta Jarod, aspetta un attimo. Per uscire dobbiamo chiedere il permesso alla mamma… ‘ farfugliò mentre tentava di acciuffare il fratellino euforico per il braccio. La carta dorata colpiva immediatamente all’occhio, non c’erano dubbi. Ma Susanne era una sedicenne attenta e responsabile, e non prendeva nessuna decisione senza prima aver consultato il parere di un adulto.
Specie se la responsabilità è mia.
‘Ma quale permesso! ‘ esclamò Jarod. Aveva le guance arrossate per l’eccitazione e la maglietta di Spiderman madida di sudore. Doveva essere rimasto troppo a lungo fuori, nel cortile, quando il sole inizia a tramontare ma picchia sulle schiene nude fino ad arrossarle. ‘E’ solo un circo, e non abbiamo bisogno di un permesso per percorrere il vialetto fino alla radura. Sono solo pochissimi metri a piedi, nessun pericolo. Per favoreeee… ‘
‘Ho detto di no. ‘ sospirò Susanne. Sfilò entrambe le cuffiette dalle orecchie, preparata all’idea di dover spiegare il motivo del broncio del fratellino alla loro madre, quando sarebbe tornata. Un po’ di lacrime, capricci vari e qualche frecciatina qua e là. Il gioco era fatto. Urge un contrattacco immediato per scongiurare la catastrofe. ‘E poi non eri proprio tu quello che piagnucolava quando stavamo guardando “It- Il pagliaccio assassino” in televisione? ‘

Le sopracciglia di Jarod schizzarono verso l’alto per la vergogna. Bam. Colpito e affondato, pensò Susanne con un sottile sorriso. Al mio caro fratellino l’orgoglio è una questione spinosa, ma io so come ribaltare il coltello dalla parte del manico. Si godette la scena: era certa che l’altro si stesse spremendo le meningi per escogitare una scusa plausibile in tempi record.
‘Ehm… Beh, ‘ soffiò dopo qualche secondo il bambino con voce roca, ‘se vado al circo poi la paura mi passerà. E potremo vedere i tuoi adorati film dell’orrore tutte le volte che vuoi. Non una lacrima da parte mia. ‘ promise, soddisfatto della sua difesa.
‘Allettante, ma con me non attacca, Jarod. Riprova un’altra volta. ‘
‘Ma non è giusto! ‘ protestò lui. Puntò i suoi occhi capricciosi e testardi in quelli fermi di Susanne, tentando la carta dell’approccio fisico, afferrando la manica del suo pigiama. ‘Hai sedici anni, sei grande! La mamma torna tra due ore, lo sai! ‘
‘Certo che lo so. ‘ Cominciava ad essere stanca, ma mollare la presa era fuori discussione. Sapeva già di non voler uscire da sola con il peso del dovere sulle spalle. E poi c’erano i compiti, la cena da preparare, una nuova playlist di canzoni pop da ascoltare, le amiche con cui spettegolare sul nuovissimo e fighissimo professore di educazione fisica…  ‘Ed è proprio perché sono grande che decido io. Non si esce, punto e basta. Chiuso. Se vuoi, puoi giocare con il Nintendo o guardare un film. ‘
Afferrò saldamente Jarod per il retro della maglietta, soffocando l’istinto di correre in bagno per lavarla dal sudore che aveva inzuppato la canotta. Ignorò il pianto disperato del fratello e chiuse con un tonfo la porta della sua camera a chiave. Da dietro la sua protezione poteva udire la consueta sfilza di insulti e proteste a cui era abituata e dei pugnetti sbattere ripetutamente contro il muro.
‘Sei una stupida, una cretina, una sorella idiota! Almeno manda un messaggio alla mamma e chiedile se posso andare, voglio sapere cosa ti risponde. Va beneee? ‘
 
 



Prima delle sei e trenta imbruniva. Le nubi si accesero di quel caldo aranciato tipico delle città inquinate e illuminarono l’intero cielo fino a schiarirlo di un tenue violetto.
 Ai confini della radura Chaos si dirigeva con sua grande gioia verso il circo che i suoi compagni avevano già montato. Quando alzò lo sguardo per controllare la sua posizione, fissò per alcuni secondi, estasiata, l’intero tendone che si stagliava fiero e glorioso verso il cielo.
Bellissimo. E lo era davvero, ornato di decine e decine di fasce dorate e scarlatte e nere, come dettava il gusto personale del loro capo.
La scritta ‘Carnival Circus’ troneggiava imperiosa sull’entrata, fissata con dei sottili e consunti nastri rossi. Dietro la struttura, ben nascosti dalle fronte, c’erano i carretti con cui l’intera carovana itinerante viaggiava da una regione all’altra, provvista di cibo, bevande e tutto un intero assortimento di giochi di prestigio con cui far divertire i membri più piccoli della loro organizzazione durante i viaggi più turbolenti e lunghi.

Con ampie e scoordinate falcate Chaos si avviò verso la pesante impalcatura in legno che fungeva da scala provvisoria, scostando bruscamente fronde e rami spinosi. Abbozzò un lieve sorriso quando le sue orecchie iniziarono a captare il brusio proveniente dall’interno del tendone e lo sferragliare degli strumenti in acciaio con cui fissare i tralicci metallici e le carrucole nella parte alta della struttura. La voce morbida ma autoritaria del loro capo rimbombava all’interno della cavea mentre quest’ultimo impartiva ordini ed esternava consigli per le esibizioni ai meno esperti del gruppo. La risatina acuta di Amy annunciò l’arrivo di Chaos quando la ragazza superò i gradini, affacciandosi raggiante per urlacchiare le buone notizie.
‘E’ arrivata Chaos! E’ arrivata Chaos! ‘
Un turbine di stoffa rossa l’accolse, travolgendola come un uragano. Il corpo molle di Amy si inerpicò, supplicandola di prenderla in braccio.
‘Sì, Amy, sono qui. ‘ rise la clown ad Amy, una bambina dal viso spruzzato di lentiggini e incorniciato da due trecce scure, che la fissava adorante. ‘E porto una notiziona! Abbiamo fatto centro, bingo, il punteggio massimo con il minimo! ‘ aggiunse, rivolgendosi verso il giovane uomo che avanzava serafico verso di lei, fissandola con intensità da dietro le lenti a contatto dorate.

Solo una cerchia ristretta lo conosceva bene, e Chaos spesso si vantava di appartenere alla schiera dei favoriti. Il resto aveva potuto farsi solo un’idea piuttosto limitata del loro capo; ispezionavano dubbiosi le iridi perfettamente celate, cercando di decifrare ciò che si nascondeva dietro, e fissavano con timore lo spesso strato di cerone con cui lui si copriva il viso nella maggior parte del giorno. Solo i suoi pazienti e rassicuranti sorrisi di circostanza sembravano comprendere quella diffidenza.
Ma a lei, che aveva avuto la fortuna di penetrare quella barriera di cortese freddezza, Master mostrava volentieri l’eccitazione che a stento teneva a bada durante i preparativi. Le iridi finte si accendevano fino a sembrare due piccoli soli e i lineamenti si deformavano per mostrare i denti perlacei e perfetti.
‘Allora. ‘ mormorò con esaltazione, con voce grave. ‘Com’è andata la vendita? ‘
‘Totale. ‘ confermò Chaos. Inchiodò i suoi occhi in quelli di Master, ricambiando il suo entusiasmo. ‘Venduto tutto. Al massimo saranno rimasti quattro biglietti, ma… niente di più, niente di meno. ‘ ghignò. Percepì Amy sorriderle raggiante, le sopracciglia aggrottate e le braccine ancorate al suo collo, che giocherellavano con il suo papillon.
‘Eccellente. Eccellente, come sempre. ‘ annuì Master con soddisfazione. Socchiuse gli occhi mentre rifletteva e la mascella s’induriva. Quando li riaprì, il suo sguardo era divenuto quello metodico e controllato a cui tutti erano abituati. ‘Dunque ci resta mezz’ora. Considerando Mirror che deve ripassare le mosse e Felix che sta terminando le prove con Gabriel, dovremmo farcela. ‘
‘Puoi dirlo forte! ‘ esclamò Amy. Attirò l’attenzione di Master facendo roteare il suo fratellino Frederich nell’aria con frenesia, lasciando che urtasse gli infissi in legno. Gli occhi lucidi e fissi del bambino continuarono a fissare tutto senza vedere niente, e non un uggiolio di dolore scappò dalle piccole labbra sigillate. Master le sorrise dolcemente, facendola arrossire. ‘Anche quest’altro spettacolo andrà alla grande, grazie a te. Aspettiamo tutti la… ‘ Gli occhi irradiarono malizia e fremettero d’aspettativa. ‘… la tua entrata in scena. ‘
Le labbra di Master s’incresparono di un estatico ghigno. Lanciò una fugace occhiatina alla contorsionista Tina, poi la sua attenzione si concentrò, pieno d’intesa e complicità, sulle due artiste davanti a lui. ‘Anche io attendo il trionfo finale. Io e le mie sorelle. Il giusto tributo per dei meravigliosi numeri gratis. Ma tutto al suo tempo, Amy. Tutto al suo tempo. ‘
 
 
 

Messaggio inviato da: ‘Madre ’. Ricevuto alle ore: 18. 51.

Susanne scorse con un sonoro grugnito di disapprovazione il dito sulla notifica che le aveva fatto trillare il cellulare. Aprì controvoglia il messaggio lasciando ricadere pesantemente la mano che reggeva le auricolari sul materasso, e lesse con noncuranza:

Potete andare. A tuo fratello serve un minimo di svago. Tornerò tra un’oretta, credo, se il traffico si mantiene costante come adesso. Bacio <3

Merda! E ora chi lo contiene, quell’idiota là sotto?
Rumori nel corridoio. Passi che rimbombavano in tutto il secondo piano. Susanne roteò gli occhi per il timore che potesse trattarsi dell’idiota in questione, venuto a spiare i suoi movimenti e le sue conversazioni leggermente spinte con il fidanzato, e soffocò un’imprecazione schiacciando il viso sul cuscino.
No, ti prego, fai che non sia lui… tipregotipregotiprego…
‘Susaaaaanne! ‘ 
Ma vaffanculo.
Eccoli di nuovo, i maledettissimi colpi a picchiare la porta dall’esterno. La tentazione di bloccarla con il suo zaino sovraccarico di libri di latino e biologia era forte, ma il solo pensiero di abbandonare il letto caldo la prosciugava di energie già dal principio.
‘Susaaaaanne! Ho sentito, sai? Ho sentito lo stesso! Ti è arrivato un messaggio dalla mamma? Che dice? ‘
Per un attimo il tempo si bloccò. Cosa rispondergli?
Se mento e rispondo che non era la mamma, probabilmente le telefonerà con il telefono fisso e verrò persino accusata di essere una bugiarda. Tanto va la gatta al lardo…

‘Sì, era lei. ‘ Si decise a confermare, dopo aver ponderato entrambe le opzioni con velocità febbrile. ‘Ha detto che va bene. ‘
‘Evvaiiii!! ‘ sentì gridare da dietro la porta. Si trattava di pura sfortuna, che il suo malaugurato e fastidioso fratellino possedesse una stramaledetta voce da soprano.  ‘Andiamo, andiamo, andiamo! Sbrigati, lo spettacolo inizia tra pochissimo! ‘
Lo ammazzo. Se non la smette lo ammazzo.
‘Sì, ho capito! Intanto tu cambiati la maglietta, che puzza come la morte… e piantala di starnazzare come una gallina, che disturbi l’intero vicinato! ‘
 
Messaggio inviato a: ‘Madre ’. Ricevuto correttamente alle ore: 18. 55
‘Ricevuto, stiamo andando. Tra max 2 ore dovremmo tornare. ‘

 
 



Se a New York, Los Angeles o, addirittura, in qualche sperduta cittadina del New England, si apriva un negozio nuovo, la gente accoglieva la notizia con curiosità morbosa persino nei giorni che precedevano l’apertura. Una fila interminabile di clienti o semplici curiosi che si dimenava come un lungo serpente di fronte all’entrata costituiva la normalità, e il brusio incessante era spesso interrotto da qualche commento acido di una signora disillusa sulle novità che promettevano i cartelli d’ingresso di benvenuto. Se l’evento riguardava una mostra d’arte dell’ultimo pittore sconosciuto, la semplice fila poteva mutare in una folla sorvegliata a vista da qualche pattuglia, con tanto di paparazzi armati di teleobbiettivi.

Ma nelle periferie delle cittadine locali, tagliate fuori dagli eventi mondani più eclatanti, l’arrivo di un circo itinerante poteva destare i picchi di attenzione. Se ne accorse la signora Lucilla in persona, quando, nel mentre di un’intensa seduta di bucato, riuscì a scorgere la vicina Polly Smith cercare freneticamente la chiave che apriva e chiudeva il cancelletto di acciaio che circondava la sua casa.

‘Ehy, Polly! ‘ si affrettò a chiamare, e per un attimo lasciò perdere il lenzuolo bianco che necessitava di una stesura. Si sporse dal balconcino e agitò la mano per farsi individuare con più facilità. Quando il volto abbronzato e sereno della donna ruotò e la mise a fuoco, sorrise. ‘Dove vai di bello oggi? ‘
Lucilla, un’italiana trasferitasi in America anni addietro, era il tipo di persona che, se fortemente convinta della sua teoria, stringeva i denti pur di mantenere fede ai suoi princìpi. Uno di questi consisteva nel non stringere rapporti troppo stretti con i vicini – ‘perché potrebbero approfittarne ’, ripeteva spesso alla figlia – ma di limitarsi ad una cortesia che poteva sfociare nel distacco vero e proprio; di conseguenza non si sarebbe mai permessa di chiedere un’informazione potenzialmente pericolosa per la sua barriera di autocontrollo, ma nel caso di Polly Smith era diverso.

Quando suo marito Charles era morto, la donna era stata, tra tutto il vicinato, l’unica che fosse venuta più volte a casa sua per sincerarsi delle sue condizioni, l’unica che si fosse presa la briga di consolarla nei periodi di ricaduta, l’unica che le comprava degli antidepressivi quando per Lucilla la sola idea di uscire di casa era fuori discussione.  In breve tempo, non appena il periodo buio si era dissipato del tutto, le due erano diventate amiche. Sì, con Polly poteva permettersi di osare di più.
‘ Sto andando allo spettacolo di questo nuovo circo… ‘ rispose Polly, ricambiando il sorriso. Teneva per mano suo figlio Stefan, un bambino pestifero che sua figlia Ludmilla già conosceva. ‘Il modo migliore per staccare un po’. Stefan mi ha tormentata tutto il giorno per poterci andare… ‘
‘Immagino, immagino. ‘ ridacchiò Lucilla. ‘A questo punto sono tentata di portare anche Ludmilla. Le mie due nipoti sono dai loro zii, quindi… ‘
‘Fallo, allora! ‘ esclamò Polly. Il rumore metallico delle chiavi sferragliate anticipò lo scricchiolio del cancello, che sbatté violentemente sui pilastri che lo accantonavano. Lucilla intravide un piccolo pacchetto di caramelle colorate nella borsa della donna e il bagliore del biglietto dorato, stretto nella mano di Stefan. Fissò la consistenza della carta traslucida per qualche secondo, intrappolata in una sorta di trans ipnotico. ‘Andiamoci insieme. Io non ho impegni e tu neanche, giusto? ‘
‘Perspicace, tu! ‘ confermò Lucilla, e istintivamente strinse le dita sulla ringhiera. Lanciò un’occhiatina fugace alla finestra scorrevole da cui s’intravedeva un piccolo studiolo. Pensò alla gioia che avrebbe illuminato il faccino di Ludmilla, una volta che avrebbe saputo la destinazione della loro consueta passeggiata serale. ‘Va bene, mi hai convinta. Mi aspetteresti? Ci metto cinque minuti a preparare Ludmilla. Ti spiace? ‘
‘No, assolutamente. ‘ rispose Polly, scuotendo la testa. ‘Vuol dire che m’intratterrò con la signora Anderson. Viene anche lei, hai saputo? Un evento di massa! ‘ Rise, godendosi l’espressione esterrefatta di Lucilla. La signora Anderson aveva la nomea, in tutto il quartiere, di non uscire mai di casa, se non per annaffiare le sue begonie. Aveva preso la gravidanza un po’ troppo sul serio, a quanto si era mormorato. Se aveva deciso di godersi lo spettacolo, si trattava di un evento davvero memorabile, più unico che raro.

‘Aspetta, aspetta! ‘ farfugliò Lucilla, e le sue iridi schizzarono dalla porta scorrevole a Polly come se la vicina dovesse dileguarsi da un momento all’altro, lasciandola a secco di pettegolezzi. ‘Non ti muovere! Io… io cerco Ludmilla, tu riservami la notizia per dopo, okay? Ludmilla, vieni subito qui! ‘
 
 



Si scoprì che la stradina che sboccava nella radura era completamente invasata già dal principio.
Almeno una cinquantina di bambini schiamazzavano per essere poi rimproverati dai genitori, e qualche furbetto spingeva la calca per cercare l’anfratto che gli avrebbe permesso di saltare un bel po’ di turni. L’aria era satura di gridolini ed esclamazioni di gioia, e l’aroma delle noccioline arrostite e fumanti permeava l’intero spiazzo. In un minuscolo chioschetto, posto a fianco dell’entrata al tendone, l’aceto veniva spruzzato sulle patatine fritte e lo zucchero filato alla fragola e alla ciliegia veniva spinto verso le mani adoranti di qualche Andy e di qualche Julie. La presenza di nastrini colorati era stata triplicata, ma era l’inusuale accostamento dell’oro con il rosso e il nero a catalizzare l’attenzione.

Ad accogliere gli spettatori, un mimo vestito solamente di nero e dal volto soffocato dal cerone fungeva da aiutante per una clown – Ludmilla e Jarod e tutti i bambini riconobbero il cinturino con il fiore decisamente esagerato e l’accostamento assurdo ma tipico di tutti i pagliacci del giallo con il verde, e del rosso con i leggins a strisce bianche e nere verticali.
Il tendone era pronto per l’entrata in scena. Segnò l’inizio della fine.
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice
A jumby: da qui in poi tutte le tue curiosità saranno soddisfatte (non vedo l’ora di sapere che ne pensi dei miei piccoli!! *-*), anche perché un bel po’ di capitoli saranno dedicati ai miei folli per dare spazio alla loro psicologia (per me il tratto fondamentale di un serial-killer; inoltre ogni singolo componente della Carovana ha una storia e una psiche differente, quindi mi attende un bel lavorone!). Per quanto riguarda Jane ed Argot (sono riuscita davvero a fartela piacere? Sono onorata, davvero!), per il momento la tipetta è al sicuro… per ora.
In ogni caso. ALLORA.
Sono ipersuperextramega-emozionata di darvi il benvenuto nell’interludio. Madonna, ancora non ci credo!!!
Sono loro. Il circo. Il Freaky Circus, il Carnival Circus o come lo vogliate chiamare (in quanto cambiano il nome ogni santa volta) è la mia creazione principale, il mio vanto, il mio orgoglio. Un’intera carovana comandata dal mio Cucciolo, dal mio Piccolo, dal mio Amore (perché diamine non esisti nella realtà, maledetto?!), da… Master. E’ un abbreviazione di ‘Master of Playing Cards’, e giustamente qualcuno si starà chiedendo: ‘Snow, ma cosa diamine c’entrano le carte da gioco? ‘
C’entrano. Fidatevi, c’entrano. Lo scoprirete nel prossimo capitolo.
Vi ho introdotto Chaos, una delle componenti principali della Carovana. 25 anni, dislessica. Una Clown senza senso, svitata, folle tanto quanto Laughing Jack. Esteticamente parlando, nemmeno il suo stile ha un senso d’esistere. Se scopro il modo con cui posso caricare delle foto (se tu, caro lettore, lo conosci, ti supplico di scrivermelo!), vi mostrerò direttamente, in prima persona, i disegni che ho fatto dei miei amori.
Vi ho presentato Amy, la ventriloqua. Una bambina che adora Chaos e Master, con un rapporto un po’ contorto con il fratellino Frederich, di cui per il momento non vi dirò niente (c’è la sorpresa).
Vi ho presentato Master. Un giovane uomo di circa 26 anni, con i capelli nerissimi sparati in faccia, il viso pieno di cerone e vernice rossa che gli copre gli occhi, ossessionato dalle carte da gioco come per le 4 sorelle (indovinate perché?). Gestisce lui il circo e l’amministrazione, decide lui gli itinerari da seguire, i numeri da proporre. Con lui si conclude lo spettacolo.
Ci sono molti altri (Felix, Gabriel, il mimo Mirror, i maghi, la contorsionista Tina, i due gemelli, e chi più ne ha più ne metta), ma i principali sono questi tre.
Comunicazione di servizio: non ho aggiornato subito perché, oltre agli impegni scolastici, ho riscritto per intero il capitolo 3 e il 4, ‘Alleanza’, quello che non mi era riuscito molto bene. Vi invito a rileggerli se avete voglia, altrimenti potete tranquillamente saltare, in quanto non ho alterato il succo della vicenda.
P.S. Nei biglietti non c’è segnata l’ora in cui lo spettacolo finisce perché, ovviamente, non c’è una fine. Tutti destinati a morire, tutti!
Spero che l’intermezzo vi abbia intrippato a dovere, alla prossima!
 
Made of Snow and Dreams.

 

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Capitolo 17
*** Intermezzo: Atto Primo ***


 
Notti di noi





Intermezzo: Atto Primo


(Vi consiglio, per rendere meglio l'idea, di ascoltare questa musica durante la lettura: https://www.youtube.com/watch?v=QuhCGTdUJck )



 



‘Cristo, ma quant’è grande? ‘ esclamò Polly non appena lei e Lucilla si guardarono intorno dalle postazioni a loro assegnate.
E lo era davvero, cavea e pista compresa. L’interno era stato così ben organizzato, strutturato e dipinto a nuovo da essere somigliante ad un teatro in miniatura, stravagante e promettente nel suo sfarzo cromatico: il nero che dipingeva il tendone esterno in grandi fasce regolari era stato sostituito dal rosso più sgargiante e pieno e dall’arancione più caldo e intenso; l’oro, che maculava i sedili e la scena, aumentava la sontuosità del bizzarro arredamento mentre delle soffuse luci bianche illuminavano la pista vuota.
Appuntate ai tralicci in legno, v’erano state aggiunte delle maschere veneziane bianche, alcune sorridenti e altre addolorate. A concludere in bellezza l’effetto scenico le insigne del ‘Carnival Circus’ troneggiavano sul palco rialzato, grottesche nella viscosità del porpora con cui erano state tinteggiate, dando l’illusione che la scritta in rilievo fosse in realtà un gigantesco ammasso di carne viva, pulsante, viscida, traslucida.
 Polly si costrinse a sopprimere l’impellente impulso di vomitare seduta stante mentre i suoi occhi non cessavano di esaminare con disgusto quella scritta, in attesa di scoprire la vera natura della materia scarlatta. Alle sue spalle un gran vocio, un flusso serpentino di genitori con i loro figli in attesa di poter prendere posto nella pista: i gridolini di gioia dei bambini si mescolavano alle voci controllate degli adulti, pronti a consegnare i biglietti a quella strana clown e al mimo bicolore al suo fianco. Zaffate di odori contrastanti, il profumo acido e salato delle patatine fritte confuso con l’aroma zuccherato dei lecca-lecca, del cioccolato fuso sulle caramelle, dello zucchero filato nei toni dei colori pastello lasciato volteggiare come un nastro.

Gli spettatori volteggiavano come delle api nello scorgere l’arredamento per poi distribuirsi, una volta contenuto l’entusiasmo, nelle rispettive file a forza di spallate e spintoni, tanto che Lucilla Davis e Polly Smith agguantarono i loro bambini per poi attirarli a sé. File e file di spalle bianche e giocattoli luminosi riempirono gli spazi vuoti mentre il brusio aumentava sempre più, fino a riempire le orecchie e inondare ogni altro rumore.
In pochi minuti la fila trepidante fu smaltita dall’efficienza della clown e del mimo.
Si udì la voce infastidita di un’adolescente lamentarsi per la mancanza d’aria e la risatina acuta di un bambino zittirla. Le luci si attenuarono lentamente per poi spegnersi del tutto, dapprima nei posti adiacenti al palcoscenico e poi lungo le pareti della platea, e quando l’intera cavea fu sommersa dall’oscurità, a rompere il silenzio degli spettatori intervenne lo struscio metallico di una cerniera lampo che sigillò il tendone chiuso. Quando Jarod Moore si voltò per controllare chi fosse ad azionare il meccanismo, nel buio riuscì a notare solo i contorni indistinti della donna-clown. Il silenzio che si era raggiunto sembrava così sacro e infrangibile che nessuno azzardò a troncarlo: l’attenzione era puntata sul palcoscenico vuoto.

Poi accadde: il lungo sipario rosso tremolò e strisciò sul pavimento in legno. Le luci divennero accecanti e degli sbuffi di vapore circondarono l’entrata degli artisti a ritmo della Grande Marche Chromatique. Quando il gas si tramutò in una densa nube grigia, la musica incalzò fino a che divenne una cacofonia di suoni combinati e disordinati. Dalla nuvola rarefatta emerse una figura familiare e imponente: una clown – la stessa clown che aveva distribuito i volantini per le strade e riscosso i biglietti per l’entrata – avanzò nel palcoscenico in una combinazione alternata di passi e salti, e le sue sottili code le frustavano il collo a tempo con la sua andatura. Un fragoroso applauso accolse quel personaggio variopinto e lugubre, e mani di bambini perplessi indicarono il volto dipinto di vernice nera mentre si levavano gridolini eccitati dai posti attigui al palcoscenico.

‘Signoriiii e signoooreee, bambiniii e bambinee! ‘ urlò, sorridendo alla platea. Allargò le braccia e mostrò un cinturino con un enorme fiore rosato, ancorato in vita. ‘Sono lieta di darvi il benvenuto al Carnival Circuuuus! ‘ strascicò. Piroettò su se stessa senza grazia né equilibrio, rischiando di cadere nel suo moto disarmonico, con le guance sempre contratte in un ghigno.
La signora Anderson osservò quella danza sbilenca e goffa in silenzio, sorridendo ai sussurri e i sospiri che la clown inevitabilmente strappava agli spettatori.
‘Ma ora basta con le chiacchiere, vi prego! ‘ Si fermò di colpo, scosse la testa come se fosse stata colpita da un improvviso dispiacere, e aggrottò il viso come se dovesse piangere da un momento all’altro. Tacque per qualche istante, e il brusio attento e curioso accolse la sua mimica. ‘Basta. Tutti fermi, tutti zitti! E sapete perché? ‘ disse con voce rotta da un pianto inesistente. Dalle file centrali si sentì qualcuno rispondere alla domanda, ma repentinamente gli occhi della clown si accesero di un’esplosione adrenalinica. ‘Perché diamo il benvenuto ai nostri artisti! Un applauso, gente! ‘

Un coro di urla concitate rispose a quell’invito e divampò in un trionfo di grida infervorate quando una sequela di acrobati, funamboli e trapezisti apparvero volteggiando come ballerini provetti. La musica cambiò, trasformandosi in una languida melodia trainante e a tratti drammatica, che accompagnava le piroette, i salti mortali, le capriole aeree, gli adagi a mezze punte. Schiamazzi concitati animarono l’atmosfera illusionistica quando dagli architravi vennero delicatamente scese le altalene dondolanti e i tessuti lisci e morbidi. Sotto i fasci di luce azzurra gli artisti afferravano la stoffa con leggiadra e l’avvolgevano ai polsi, si dondolavano sui trapezi come dei bambini giocosi, piegavano la schiena e agitavano le cosce tornite per mostrare al pubblico i corpi arcuati come dei sinuosi serpenti, si lanciavano dai sostegni volanti per essere afferrati con fermezza ma con grazia dai compagni.
‘E’ magico… ‘ sussurrò Susanne senza staccare lo sguardo dai trapezisti. Rabbrividì quando Jarod le toccò il braccio con le sue mani fredde, silenzioso per non perdersi un sola contorsione, ed esultò mentalmente quando si accorse che Sì, finalmente sta zitto e non rompe le scatole con le sue chiacchiere!
Patricia Anderson osservava con attenzione i movimenti di una tra le artiste, una giovane donna con un’attillata tuta verde smeraldo, quando decise di indicarla alla vicina Polly.
‘Polly… la vedi, l’acrobata sulla fune blu? Credo che sia la più brava tra tutti! ‘
Polly studiò il soggetto segnalato con accortezza per qualche minuto. Poi annuì, rivolta a Patricia. ‘E’ vero. ‘ Ammise. ‘Fa delle contorsioni incredibili con la schiena. Immagino gli anni di esercizi che ha dovuto subire, poveretta… Eppure anche l’altra, quella vicina a lei che fa la spaccata sospesa in aria… anche lei è eccezionale, non trovi? ‘
Patricia indirizzò il suo occhio con meticolosità sull’altra acrobata, una ragazza che compiva giravolte e cadute con le caviglie sorrette dalle funi. Non rispose. Per un istante le era sembrato di scorgere una terza gamba a dimenarsi in quel tripudio di stoffa.

Il numero durò una decina di minuti. Tutti gli acrobati scesero dai trapezi con le braccia a tagliare l’aria, somiglianti a degli uccelli variopinti, e atterrarono l’uno sull’altro in una grande piramide umana. Il pubblico applaudì quell’effetto scenico e gli artisti sorrisero al successo ottenuto, accennando dei deboli inchini.
La luce tornò a farsi bianca, accecante. E nuovamente apparve la clown ghignante, – Scommetto che è rimasta acquattata nell’ombra come una pantera per tutta la durata del numero a sorridere, scommise Lucilla con un lieve sbuffo – con quella sua andatura sbilenca. Sorrise soddisfatta in direzione dell’acclamazione e sistemò il microfono in linea con la sua bocca.
‘Signori e signore e bambini e bambine, ‘ annunciò gioiosa, ‘questi sono gli acrobati della nostra Compagnia! Un applauso al capo di questi barvos- brav… ‘ si inceppò, dondolò la testa in un improvviso smarrimento, increspò la fronte per ricordare il termine esatto. ‘Bra-vis-si-mi, sì, ‘ sillabò, ‘bravissimi ed eccezionali funamboli! Tina, fatti avanti!
La donna in tuta smeraldina avanzò di un passo, ponendosi di fronte ai suoi compagni. Le sue iridi scure schizzarono dagli spettatori alla clown e un leggero rossore le riscaldò le gote, come se fosse imbarazzata da tutte quelle attenzioni. Ad un suo cenno la clown si avvicinò ancora; issò il suo braccio destro verso l’alto per far cessare i gridolini di contentezza, i suoi occhi per un attimo si fecero affilati e duri verso il pubblico che non riusciva a tenere a bada la felicità dei bambini più indisciplinati. ‘Ebbene, miei cari spettatori – anzi, miei adorabili bonbon! Siamo in famiglia, no? – vi ho presentato la nostra Titti per un motivo precos- preciso! ‘ si corresse. ‘A lei il prossimo numero, adorabili. Tina, a te la scena! ‘

Abby Marchal si adagiò sui cuscini leopardati che avevano posizionato sulle sedie. Non le interessavano le contorsioni, non le procuravano quell’eccitazione febbrile che i numeri più pericolosi le suscitavano, come ogni qualvolta che un funambolo rischiava la vita camminando su un debole filo. Anche se doveva ammettere che la contorsionista era maledettamente brava: annodava le ginocchia attorno al busto come delle zampe di ragno, gettava all’indietro il capo fino a mostrare il collo contratto dallo sforzo, e infine inarcava la schiena seguendo la direzione della testa, appiattendosi sul pavimento fino a distendere l’intero busto sul legno. Ora si sdipanava con lentezza ed esponeva gli arti liberi e lunghi, ora si rialzava e fletteva la colonna vertebrale fino a chiudersi di scatto – un bambino nei primi posti soffocò un urletto strozzato quando fu sicuro di aver sentito, distintamente, il cigolare di alcune vertebre –per poi poggiare i gomiti per terra e dischiudere entrambe le gambe fino a creare una ‘v’ sempre più larga, talmente innaturale che le ginocchia e il dorso dei piedi toccavano terra. E poi si rialzava ancora, accoglieva i mormorii di stupore, si torceva affinché gli occhi di tutti la guardassero frontalmente ed ergeva la gamba destra in alto, sempre più su, fino a che la sua mano toccava la punta del piede; ed ecco un’altra torsione del busto, stavolta impercettibile, ed ecco che l’arto si piegava nell’incavo tra l’anca e la vita compresse, ed ecco che il ginocchio gemeva per la costrizione innaturale, ed ecco che-

‘Ma che schifo! Come diavolo fa? ‘
‘Diamine, non voglio guardare, non voglio guardare! ‘
‘Sembra quasi disossata per quanto è flessibile! ‘
‘Papà, è troppo brava, voglio il bis! ‘

Ed ecco che dal pavimento una minuscola leva sollevò una pedana incorporata, sufficientemente alta per la donna, che ci salì sopra. Poggiò entrambi i palmi su un piccolo sostegno simile a un manubrio, lo tastò per verificare che fosse abbastanza solido da sorreggerla. Con lo stupore generale, ora allungava il collo per addentare l’estremità del sostegno, permeava in quella posizione per assicurarsi di possedere il controllo degli addominali, ed ecco che-

‘No, non ci credo! ‘ esclamò una bambina dalle lunghe trecce bionde.

-le braccia e le gambe si innalzavano con il solo controllo dei muscoli del torso, talmente in tensione che le vene del collo affiorarono sotto la pelle. Raggiunta la posizione supina aerea, con le mani ancorate ai fianchi per dimostrare che non era sorretta da nessun filo invisibile, uno scroscio di rinnovati applausi segnalò alla contorsionista che il successo completo era stato raggiunto.

Di nuovo la clown. ‘Bleah, sei troppo snodabile, Titti! Goditi i tuoi ammiratori, ragnetto… e a proposito di snodabilità - Esiste, questo termine? – ne approfitto per introdurvi al prossimo numero in programma, tesorucci! Accogliete Amy e Friedrich! ‘
Il duo era composto da una bambina sui nove anni, con un vestito rosso e due grandi occhi azzurri, e un pupazzo rassomigliante un bambino biondo di neppure un anno di età, avvolto in una tutina celeste. La piccola ventriloqua trascinava la marionetta senza riguardo, reggendola dal collo.
‘La nostra Amy è in compagnia del fratellino minore. Friedrich, saluta pure tu! ‘
‘Certamente, Chaos. Piacere, io sono il pupazzo Friedrich, fidato consigliere di Amy! ’ rispose una voce gutturale e roca, di tonalità bassa. ‘Ditemi, bambini, vi state divertendo? Sì? Allora sentite questa… ‘
 
‘Lo sapevo che i giocattoli parlano, lo dicevo io! ‘ mormorò Jarod, fissando sconcertato la bambina seduta sulla pedana rialzata e la marionetta seduta sulle sue ginocchia, manovrata da fili trasparenti posti dietro la schiena, mossi dalle dita allenate ed esperte di Amy.
Susanne gli scoccò un’occhiataccia d’insofferenza. Scattò in avanti con la velocità di un’anguilla e riuscì a pizzicare la guancia del fratello, per poi ritirarsi fulmineamente. ‘No che non parlano, stupido! E’ una marionetta manovrata, non vedi? In realtà è la ventriloqua che parla al posto del pupazzo. Scemo! ‘
‘Parla lei, che non ha neppure visto “Toy Story”! ‘
‘Volete starvi zitti, voi due? Se volete commentare lo spettacolo, uscite! ‘ rimbeccò una voce burbera alle loro spalle, cogliendoli di sorpresa. Susanne adocchiò nervosamente il fratello un’ultima volta, prima di farfugliare un maldestro e imbarazzato: ‘Mi scusi, da adesso in poi non parleremo più. ‘
Certo che… però, una marionetta costruita e montata a regola d’arte, non c’è che dire… notò la ragazza mentre i riflettori puntavano il pupazzo, permettendo al suo sguardo indagatore di scorrere sulla tutina infantile, contemplare le manine dipinte con talmente tanta dovizia da presentare persino le pieghe definite degli incavi tra le dita, dei segni sui palmi. Ma era sul viso, sul faccino – che stranamente non sorride! – paffuto e ben delineato che il pittore evidentemente aveva applicato le tecniche migliori della sua arte: le labbra sottili erano rugose, le gote lisce e levigate imitavano meravigliosamente quelle di un vero neonato tanto sembravano molli e tenere, e gli occhi… gli occhi…
Non mi piacciono, non mi piacciono per niente, e non sono sicura di volerne conoscere la ragione…
‘Ma smettila! Certe volte sembra che voglia prendermi in giro… ‘
‘Iro, iro, iro! ‘
‘E basta! Tanto sei solo un burattino, sai? ‘
‘Ino, ino, ino! E tu sei solo un cretino! ‘
Gli occhi sono troppo… lucidi, vitrei, troppo perfetti, troppo… troppo veri…
‘Non voglio tornare in valigia! Bambini, vi sembra giusto? ‘
‘No! ‘ fu l’unisona risposta.
E’ così perfetto da sembrare vivo… no, vero... che lo sia davvero?
‘No! ‘ fu l’unisona risposta. Rimbombò nelle sue orecchie e le scrollò di dosso il suo stato di fissità. Non appena si accorse di aver controllato – sorvegliato – il pupazzo si affrettò a cingere le spalle di Jarod con entrambe le braccia, preda dell’istinto imprevisto e di proteggerlo. Si accorse che tutti i peli delle braccia erano rizzati e la pelle era leggermente raggrinzita.
No, non è vivo. Non è vivo, vero, Jarod?
‘Cosa c’è, Susanne? ‘ le chiese all’orecchio Jarod in un lieve sussurro, attento a non disturbare nessuno. Affondò le mani nella zazzera folta dei capelli della sorella, e la squadrò con diffidenza e timore.
A fatica, Susanne lottò per scrollarsi di dosso l’astratta consapevolezza di trovarsi davvero, per la prima volta nella sua vita, nel posto sbagliato al momento sbagliato.
 


‘Eh, vedo che hai fatto di nuovo colpo! Ma bene, ma brava! Ma che dico, colpissimo! ‘ sibilò la clown con occhi predatori e complici alla ventriloqua quando la bambina scomparve dietro le quinte. Era certa che l’avesse sentita.
‘Orsù, amori! ‘ pronunciò solenne, richiamando il pubblico intento a commentare il numero. ‘Ho un annuncio per voi, un megasuperextrabellissimissimo… un bell’annuncio, insomma. Sì, credo che vi piacerà. Volete sapere che abbiamo in serbo per tutti voi? ‘
‘Sì! ‘ rimbeccarono gli spettatori, in special modo i bambini più piccoli.
‘Eh-he, e qua vi volevo! ‘ sghignazzò la clown. Era una suono strano, simile ad un gemito strozzato, come se dovesse faticare per deglutire o per respirare e dovesse, in contemporanea, ridere. Gli occhi brillarono di desiderio e irrequietezza. ‘L’annuncio è che… non ve lo dico. No, non penso che ve lo dirò, perché c’è una sorpresina - ma che dico, una graaaaandissiiiima sorpresa per voi, bambini e genitori! – per tutti voi. E se ve la svelo prima del tempo, che sorpresa sarebbe? ‘ tossicchiò, si schiarì la voce grattata. ‘Ma ora permettetemi di introdurvi all’ultimo numero della serata, prima del trionfo finale che, sono acciderbolina sicura, vi farà strillare tutti di gioia e vi farà ridere, sì, ridere, all’infinito! Adorato pubblico, io sono Chaos la clown e lui è Mirror il mimo! Un applauso alla vostra fedele conduttrice! ‘
 


Patricia scrollò lievemente il polso e adocchiò distrattamente l’orologio da polso. Trasalì quando vide che le lancette segnavano le nove. Polly, notando lo smarrimento e la sorpresa sul volto tirato della donna, mimò un’esclamazione interrogativa con le labbra.
‘Patricia, ti senti bene? ‘ chiese. Azzardò a sfiorarle la spalla con infinita delicatezza.
‘Sì, non preoccuparti… ‘ la liquidò lei, rivolgendole un sorriso appena abbozzato. ‘Ho notato solo che per me si sta facendo decisamente tardi. Sai, il piccoletto scalcia e io mi stanco molto facilmente, di questi tempi. ‘ sussurrò, e indicò il pancione per evitare di sovrastare la musica circense che accompagnava il quadretto comico del mimo che innervosiva paradossalmente la clown stizzita.
‘Oh, capisco. Allora ti accompagno fino a casa, così sono più tranquilla. ‘
‘Ma non ce n’è bisogno, davvero! ‘ protestò Patricia, sgranando gli occhi per dare enfasi alle sue parole. Nonostante l’oscurità a gravare su di loro, Polly notò ugualmente le occhiaie profonde e violacee che solcavano gli occhi stanchi. ‘Sono meno di duecento metri, figurati che deve accadermi giusto giusto mentre attraverso la strada comunale! ‘
‘Appunto, chissà che può accaderti! ‘ scherzò Polly per rincarare l’invito. ‘Dai, niente storie. Lascio Stefan da Lucilla e vado con te. Su, andiamo! ‘
Ogni protesta che Patricia Anderson cercò di rimbeccare contro la testardaggine dell’amica morì ingoiata nella sua stessa gola. Polly Smith, con l’agilità di un gatto nero che gioca a fare l’equilibrista sui tetti in piena notte, schivò il gomitolo di braccia e gambe e poltrone fino ad aprirsi un varco verso l’uscita dal tendone, dopo aver avvertito Lucilla del piano. Entrambe percorsero la breve scalinata in legno che conduceva al drappo dorato e rosso che era stato bloccato con la cerniera e un intricato intreccio di fili di canapa, e, quando decisero comunamente di non perdere troppo tempo a risolvere lo strettissimo nodo, con uno scatto sollevarono il pesante panno per poi lasciarlo ricadere mollemente alle loro spalle.
Il contatto repentino con una folata gelida di vento serale le fece rabbrividire entrambe.
‘Certo che… ah, i miei capelli! La differenza di temperatura è notevole! ‘ articolò Patricia mentre indossava il cappotto in feltro e una zaffata dispettosa le scompigliava le ciocche nere, scuotendole in aria.
‘Puoi ben dirlo! Lì dentro è praticamente un forno in confronto, però non mi lamento. Tutto sommato… ‘ ansimò Polly, ‘si stava bene. Come ti è sembrato lo spettacolo? ‘
‘Bello. ‘ No, non pensare al bambino, alla marionetta, alle legature, a come la bambina stringeva la presa sulla mano e poi sul collo, come a… lacerare il legno… non pensare alla terza gamba, non pensare a quanto mi faccia paura il pagliaccio donna… ‘Organizzato bene. Mi domando quale sia la sorpresa, a questo punto. Quasi mi dispiace lasciare tutto. ‘
Polly ridacchiò. ‘Usciranno fuori i pony e ci faranno salire i bambini, suppongo. Niente di troppo pericoloso. O magari usciranno altri clown e… uff! Sai che anch’io sono un pochino curiosa? ‘
‘Allora rimani, no? Ti chiamerò quando sarò arrivata a casa-‘
Gli occhi di Polly s’indurirono, inflessibili come sempre. ‘Ho detto di no. Spiacente, Patricia, ma su questo sono irremovibile, e lo sai. ‘




Il vento alitava nelle orecchie e assisteva a quell’innocuo scambio di battute, e brezze più violente e fredde scuotevano le banderuole poste come pennacchi sul tendone. Fischiava, urlava, graffiava, smuoveva le sovrastrutture come se volesse demolirle, per offrire a tutta quella povera gente la possibilità di estraniarsi dalla tragedia imminente. C’erano quasi. Lo spettacolo era quasi finito.

Poi una voce aspra e crudele, roca e ferrosa, ruppe il silenzio.
‘Ehy, voi due. Cosa state facendo qui? Tornate subito dentro. ‘ sibilò la voce indubbiamente maschile ma sconosciuta alle due donne, ed entrambe, come due bambine spaventate colte in flagrante nel bel mezzo di una marachella, boccheggiarono per il puro terrore.
 
 
 
 






Angolo Autrice
Chiedo perdono a tutti per il madornale ritardo, ma sono stata operata d’urgenza (nessuno se l’aspettava, e nemmeno la sottoscritta) e siccome ho ripreso la mobilità dopo 2 settimane, ho potuto scrivere il capitolo con attenzione solo oggi. Ah, non avete idea di quanto sia brutto avere l’istinto viscerale di scrivere ma avere entrambe le braccia bloccate per via delle flebo!! >.<
Ma comunque eccomi qui, viva, e durante lo spettacolo le stranezze aumentano sempre più. Polly e Patricia, vi suggerisco di obbedire immediatamente all’ordine, anche se nel prossimo capitolo raggiungerò il trionfo della mia felicità – e la mia conseguente morte, perché non sto più nella pelle e se avessi scritto tutto il pastrocchio in un unico capitolo avrei ottenuto un papiro.
A jumby: se sei in trepidazione con me (Cristo, quanto vorrei spoilerarti tutto!!!!!), corro a prenotarti un posto in prima fila con me… e a proposito di vittime, concordo con te. Va bene mettere in risalto la vicenda di un omicida, ma se la vittima viene posta in secondo o addirittura in terzo piano con due righe sull’accaduto, allora… boh, per me tutto perde di verosimiglianza.
Spero vi sia piaciuto il capitolo, alla prossima (crepi!)!
P.S. Chaos fatica a pronunciare correttamente le parole perchè soffre di afasia, una malattia del linguaggio.

 
Made of Snow and Dreams.
 

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Capitolo 18
*** Intermezzo: Conclusioni ***


Notti di noi





Intermezzo: Conclusioni



 

‘Tornate dentro. ‘ ordinò la voce, e nell’istante in cui il timbro grave e minaccioso tagliò i pochi metri che lo separavano dalle due donne, Polly Smith ebbe un sussulto. Boccheggiò per lo spavento e il petto tremolò sotto la camicia in flanella. Fissava nella sua rigidità ipnotica l’orizzonte spoglio e deserto, dalle dune verdeggianti stagliate sotto un cielo grigio e plumbeo. Tempo per la pioggia: l’aria era pregna di quell’odore dolciastro e delicato che rilasciava il muschio dopo un violento temporale.
Si accorse di aver affondato le unghie nelle spalle di Patricia solo quando un gemito fu soffiato in una spirale di alito caldo verso il suo orecchio. La sua amica le cingeva saldamente i fianchi fino a premere il suo ventre contro il diaframma, e per un attimo Polly si sentì mozzare il respiro, schiacciata da quella massa fibrosa e ingombrante. Patricia, il volto impallidito e gli occhi immensi, scandagliava ogni centimetro di sottile nebbiolina che poteva celare l’origine della voce estranea, cattiva.
‘Avete capito? ‘ ripeté la voce, più affilata e sprezzante che mai. Polly e Patricia, ancorate l’una all’altra come due naufraghi, arretrarono di qualche passo senza distogliere lo sguardo dalla direzione da cui proveniva il monito. Lentamente, con la gola secca, entrambe si avvicinarono al tendone chiuso; ma nessuna delle due volle toccarlo per scostare i drappi che le separavano dall’unico luogo che, paradossalmente, sembrava il più sicuro. ‘Entrate dentro. Carognette. O preferite assistere qui al Gran Finale? ‘
Ride! Formulò in un uragano di parole mescolate Polly, frastornata dalla scoperta orribile e grottesca. Era semplicemente inconcepibile la sola ipotesi che il detentore di quella voce potesse imprimere l’ombra dell’ilarità nelle sue parole, eppure eccolo lì nell’aria e nelle sue orecchie, quel suono rotto e sotterraneo, sommesso e volutamente beffardo: talmente palpabile e presente che ebbe la netta percezione di essere circondata, osservata da un paio di occhi itterici e felini con l’attenzione predatrice e crudele che un macellaio riserva nello sgozzare un vitellino inerme.
No, no, no. Non è possibile che… eppure non può essere tutta un’allucinazione, santo cielo!
‘C-Chi è lei? ‘ balbettò con esitazione Polly, stringendo con fermezza la sue presa sulla schiena di Patricia. ‘Noi dobbiamo… ‘ Coraggio, Polly, vai avanti! ‘Dobbiamo andare a casa, mi dispiace. Ma abbiamo gradito lo spettacolo, e sono più che sicura che il finale sarà degno della vostra bravura. ‘ sorrise, un sorriso forzato. ‘Ma ora si è fatto davvero tardi, e la mia amica, come può vedere, non è in condizione…’
‘Siete forse sorde? Ho detto che dovete entrare dentro il tendone. E non ha alcuna importanza se la tua amica è gravida o no. Obbedite! ‘ replicò la voce interrompendola.
Autoritaria e litigiosa, e Polly detestava coloro che imponevano i loro bisogni e le loro regole sugli altri e su di lei – Vero, papà?

Come suo padre. Un alcolizzato che picchiava la moglie, sua madre, tutte le notti in cui i suoi passi pesanti e trascinati risuonavano del fetore dell’alcool, e non si faceva scrupoli a lasciare lividi violacei anche in sua presenza. Una bambina brava e ubbidiente come Polly si era impegnata a diventare per non irritarlo ulteriormente non avrebbe fiatato sulle percosse ogni notte sempre più violente – e lei era rimasta silente, soffocando le grida di terrore ogni volta che sua madre perdeva l’equilibrio e cadeva sul pavimento, con gli occhi pesti e il naso rotto. Ma da ragazza, dopo che la sua povera, stupida e ingenua mamma era stata ricoverata in ospedale per una costola incrinata di troppo…



Papà, tu sei solo un povero disperato che non sa altro che insultarci, me e la mamma! Chiamerò… no, non ti avvicinare, fermo con il matterello! ... chiamerò la polizia se non ti fermi, povero beone, beone idiota!



‘Lei non è nessuno né per darmi del ‘tu’ né per ordinarci cosa fare, capito? ‘ sibilò con voce consunta, rossa in viso, con il cuore che echeggiava tonante nelle orecchie. La risatina acerba divenne fragorosa, volutamente canzonatoria, con una sfumatura di piacere ancor più esasperante del sarcasmo. La sensazione di essere studiata con altezzosità crebbe d’intensità, fino a mutare in una certezza: gli occhi itterici si erano avvicinati senza preavviso, osservandola deliziati. ‘E se non la smette con il suo comportamento, chiamo la polizia! ‘ squillò, giocandosi l’ultima carta che teneva in serbo, quella che generalmente dissuadeva qualsiasi ladro dai suoi propositi.
La risata evolse. In quel lago di sogghigni graffianti e sardonici la nebbia artificiale sembrò contrarsi in se stessa. Un trucco illusionistico, ma Polly Smith ebbe il tempo necessario per scorgere una figura umana, quella che – sperava, perché era sempre meglio sapere l’esatta posizione di un probabile aggressore – si era occultata fino a quel momento e che, la donna ne possedeva l’assoluta sicurezza, era sempre rimasta pazientemente dietro lo quinte.
La figura era alta e con le spalle ampie. Con la schiena appoggiata a una massiccia trave di legno, da dietro una tenda di serici capelli lisci, neri come il carbone, un paio di occhi, con la cornea giallognola e le iridi scurissime, le scrutavano con inaudita intensità. Un brivido di disagio si diramò per l’intera schiena di Polly.

‘Piaciuto l’effetto scenico? ‘ chiese l’uomo. Le sue spalle ebbero un guizzo e i muscoli del collo si contrassero. Storse la linea sottile che era la sua bocca corrucciata fino a delineare un sorriso criptico – Non propriamente rassicurante, pensò Polly. Indossava una camicia bianca inamidata con delle ampie maniche a sbuffo, stirata a dovere da dei pantaloni bordeaux leggermente aderenti. Quando si muoveva il completo creava delle pieghe ampie e morbide sul suo corpo, rendendolo simile ad un uomo di altri tempi, ma erano quegli occhi, sì, quegli occhi gialli a rovinare l’aspetto completo, ed ora che l’uomo si avvicinava ulteriormente Polly notava la consistenza spugnosa e spenta delle pelle, costellata di piccole croste marroncine, e gli occhi stessi erano stranamente sporgenti come quelli dei pesci, e minuscole vene erano in rilievo sugli zigomi alti e affilati-
E’ un drogato. Lo sguardo è quello dei drogati, o mi sbaglio? C’è qualcosa che stona…
In un batter d’occhio era di fronte a loro. Patricia sembrò ritrovare il minimo di calma per slacciare le braccia dal torso di Polly, ma decise di restare comunque al suo fianco. L’uomo seguì con quelle iridi quasi innaturali i polsi che scivolano sul vestito gonfio, frusciando contro la stoffa tesa, e l’angolo della sua bocca si alzò lievemente quando Patricia incagliò entrambe le braccia attorno al suo ventre per proteggerlo.
‘Non vi farò niente se fate come vi dico, ‘ aggiunse piuttosto soavemente, ‘ma se continuate ad agire di testa vostra, dovrò prendere provvedimenti per conto del mio capo. ‘
‘Quali provvedimenti? Noi vogliamo solo tornare a casa… ‘
‘Non potete. ‘ replicò l’uomo. ‘Dovete tornare dentro. Nessuno tornerà a casa oggi. ‘ aggiunse trionfante. Le cornee si tinsero nuovamente del color ocra, come se ad ogni scoppio di rabbia uno sbuffo di pittura si dissolvesse in due pozze d’acqua cristallina. Due minuscoli capillari trasparirono dallo strato apparentemente fragile dell’epidermide grigiastra, per poi scomparire subito dopo.
Polly e Patricia si scambiarono un’occhiata interrogativa, sgomente. Poi Patricia proruppe: ‘Che significa ‘nessuno tornerà a casa oggi’? ‘
L’uomo scrollò la testa. I capelli neri ricaddero sulla camicia bianca in un tuffo di seta lucida. ‘Significa che il Gran Finale è vicino. ‘ Dal tendone si levarono degli applausi concitati e risuonarono alcune risatine infantili, e lui sorrise, stirando talmente tanto le labbra da sbiancarle. ‘Molto, molto vicino. ‘
Patricia sbuffò esasperata e intontita. Levò gli occhi al cielo in una buffa parodia di un Santo che invoca il cielo per un miracolo al momento giusto. ‘Senta, per quanto io sia sicura che il finale sia davvero meraviglioso e imperdibile, noi dobbiamo assolutamente andare. Mi dispiace, ma…’
‘Allora non ci siamo proprio capiti. ‘ insistette lui. E c’era qualcosa di nuovo nel suo timbro vocale e nella minima facciale che suggerì a Patricia e a Polly di non rispondere, qualcosa di vagamente temibile e oscuro. L’uomo indietreggiò ad ampie falcate, con lo sguardo inchiodato a loro e la bocca contorta in una smorfia di stupore contrito – Stupore? Lui? - come se stesse in realtà squadrando due mostri dalla forma indicibile. ‘E io che speravo foste intelligenti… ‘ sospirò deluso. ‘Ma a quanto pare bisogna ricorrere alle maniere forti per farvi apprendere la lezione. Devil, bello, vieni qua… ‘

Si udì uno scatto metallico, una maniglia arrugginita azionata dopo chissà quanto tempo. L’uomo rivolse alle donne un sorriso pieno di sadismo, illuminato dai suoi occhi opachi ma gioiosi; a Polly gelò il sangue nelle vene.
Il cane con il collare borchiato era gigantesco. Il suo pelo nero era ispido e incrostato di fanghiglia. Il muso appuntito gocciolava dei rivoli di saliva e l’alito pestilenziale aleggiava nell’aria in nuvole di condensa. Ringhiava, e dalle sottili fessure che possedeva al posto degli occhi filtrava un ruggito di collera e aggressività.
Cristo, peserà almeno novanta chili!
‘Vi presento Devil, il nostro Rottweiler. ‘ disse con nonchalance l’uomo, chino a carezzare la pelliccia folta del cane. ‘Come potete vedere, è… piuttosto affamato. E’ da un po’ che sta a secco. ‘
‘Bel modo di trattare gli animali… ‘ sibilò Polly, le orbite incastonate in quelle iniettate di collera dell’animale.
‘Davvero, è un peccato. Bel modo di trattare… ‘  Slegò il guinzaglio dal collare.
Oddio, no! No!
‘… gli animali come voi. ‘
‘NO!!!
 
 
 


Delle strilla laceranti interruppero il sipario comico. Gli spettatori delle ultime file si voltarono di scatto, interdetti, e allungarono il collo verso l’uscita nel tentativo di scrutare ciò che avveniva fuori.
Poi fu il turno delle file centrali, e pochi secondi dopo dei posti attigui alla scena. Chaos e Mirror si scambiarono un’occhiata di complice intesa e scesero dal palcoscenico dai lati opposti con flemma, con un lungo sorriso impresso sui volti.

‘Ma che è successo? ‘
‘E’ accaduto qualcosa alle due signore, sono sicura! ‘
‘Davvero erano uscite? Io non le ho viste, non erano tornate? ‘
‘Ma qualcuno apri il tendone, per carità! Se sono in pericolo, magari qualcuno… ‘

Il sardonico sorriso di soddisfazione della Clown mutò in un enorme ghigno di soddisfazione. Gli occhi le si illuminarono di una luce ardente, effervescente e vogliosa. Le code ondeggiarono, strusciarono sulle spalle coperte dalla corta giacchetta, il corpo che si dondolava avanti e indietro, con il peso che gravava da una gamba all’altra, in un ritmo languido e serrato. Osservò con sereno e placido distacco quella massa brulicante in movimento, un afflusso diretto verso l’apertura del tendone.
Poi fu un attimo. Il secondo indispensabile per occhieggiare Mirror, posizionatosi dietro le quinte, e poi con voce cicalante e stridente strillò: ‘ CHIUDETE IL TENDONE! ‘
Le luci improvvisamente si spensero. Vi fu un attimo d’incredulità da parte degli spettatori, annichiliti di fronte a quella situazione così surreale, fuori dall’ordinario, priva di alcuna logica, che nessuno ebbe la forza di muoversi mentre dall’esterno risuonava un forte gemito cigolante, il suono delle catene che venivano sbattute e poi trascinate con prepotenza sul terreno, e lo schiocco di un catenaccio. Immersi nel buio, persino gli adulti in quel paradossale frangente sembravano dei bambini indifesi in balia del genitore, zittiti con i loro figli stretti tra le loro braccia.
Protetta dall’oscurità, Chaos schioccò le dita. Un fascio di luce bianca, condotto direttamente da un solo riflettore posto al di sopra delle insigne rosse, accese il palcoscenico, ora non più vuoto.
‘Vi è piaciuto lo spettacolo, miei adorabili, piccoli vermi? ‘ articolò la clown con le braccia oscillanti contro i fianchi. ‘Vi sono piaciuti i nostri numeri, miei schifose caramelle marcite? Sì? Ma bene! Ma bravi tutti! ‘ Il tono raschiò, divenne più sibilante, aggressivo. Guardava i volti attoniti di madri e bambini con superiorità, con un rancore represso ed ora esternato, che attendeva solo l’attimo giusto per esplodere come una bomba ad orologeria. ‘Visto che avete gradito, perché non applaudite per l’ultima volta della vostra disgustosa vita i nostri artisti, eh? Forza, applaudet- applaudite, schifosi! Schifosi! ‘
‘La prego, la smetta! ‘ sentenziò una voce decisa e grintosa dal pubblico rappreso come del sangue coagulato – tutti si erano accucciati, chi più e chi meno, l’uno contro l’altro, sperando di raggiungere il più velocemente possibile il centro, ma la preghiera si disperse nell’aria satura di calamità quando, da dietro il sipario, uscirono tutti gli artisti che si erano esibiti: tutti gli acrobati, trapezisti, equilibristi e funamboli, con i loro volti duri e affilati, distanti; la contorsionista formidabile con la schiena più flessibile che Jarod avesse mai notato; alcuni giocolieri, la bambina- ventriloqua con il pupazzo trascinato con fermezza, il mimo.
‘Che sta succedendo, Susanne? ‘ singhiozzò un bambino dal viso umido e pallidissimo, così fragile e impotente che rischiarò nell’ombra come una fragile maschera di cera. Ancorato al corpo tremante della sorella, gli occhi roteavano febbrilmente per il terrore. Ma nessuno applaudì. C’era chi piangeva e chi sussurrava tenere parole di conforto, chi strattonava il proprio figlio verso il centro della muraglia umana e chi era capitolato sotto il peso del trauma, ma nessuno applaudiva.
Susanne deglutì rumorosamente, gli occhi sbarrati, simili a due grottesche biglie. Non riusciva più a muoversi, né le sembrava di respirare ancora. Le membra non rispondevano più agli ordini pronunciati da quei filamenti grigi e contorti che s’inerpicavano lungo la sua spina dorsale, le gambe tremavano senza controllo. Orinò. Ne trasse solo un’indistinta sensazione di calore.
Il cellulare trillò, sepolto dal tessuto della sua camicetta. Ma nessuno rispose mai.
 
 

Il fiato rovente della bestia s’infranse sul ventre di Patricia Anderson, l’interno del tutto esposto alla sua ferocia. Lembi di pelle giacevano maciullati sul terreno, immersi in quel fiumiciattolo la cui fonte era la gola della donna. La parete tendinea era lucida e viscosa, traboccante di spirali contorte di intestini penzolanti come tanti sacchetti sgonfiati. Ad ogni affondo il mastino aumentava la sua voracità, ad ogni morso la sua lingua s’infiltrava in quella massa viva e innocente, spargendo la superficie sottile e delicata con calda saliva. Sorvegliato dallo sguardo vigile e freddo dell’uomo, l’animale smembrò con dovizia l’organo più grande che avesse mai mangiato, una grossa sacca appena rosata e traslucida, stranamente viscida.

Il feto di otto mesi venne straziato senza troppi problemi. Gli arti vennero strappati con degli strattoni in avanti e successivamente masticati. La testa era sufficientemente piccola da entrare nella cavità orale del cane scodinzolante; si udì un leggero Crack!, poi le zanne sfondarono il cranio sottile con una serie di schiocchi liquidi. Ciò che una volta era stato il figlio mai nato di Patricia Anderson era stato ridotto ad un agglomerato di fluidi e poltiglie dai contorti umanoidi, ma non più riconoscibili. Una mosca si posò sulla cornea immobile di Polly Smith.
 
 


Tutti scappavano, tutti erano terrorizzati. Il tendone si era trasformato in una gigantesca bolla di vetro infrangibile, e il ruggito disperato della folla era niente se paragonato allo scrosciare infinito di risate e pigolii proveniente da dietro le quinte.
La prima ad attaccare fu la ventriloqua: la vittima, una bambina alta quanto lei, ebbe solo il tempo di voltare la testa nella direzione di quel soffiare ferino prima che il buio l’accecasse senza rimedio. Il sangue le macchiò le guance e spruzzò sul petto da uccellino dalle orbite oculari svuotate senza ritegno, mentre un dolore sordo e muto le permetteva di udire solo le proprie grida, isolate da quelle esterne. Amy, le iridi azzurre empie e furiose, tentennavano su quelle due masse biancastre e sode, sanguinolente, strizzate lentamente nelle sue mani curiose come fossero due giocattoli di gomma. ‘Hai guardato il mio fratellino e non me. Io volevo la tua attenzione su di me, e tu non hai capito. I tuoi occhi, il tuo pagamento, me li dovevi! ‘ si giustificò lamentosamente.

Una donna urlò. Inciampò sul corpicino del figlio mutilato, che giaceva bocconi e boccheggiante sulle fredda scalinata in pietra. Floscio e disarticolato, l’ombra dell’ecchimosi sulla gola, sulle ginocchia e sui gomiti, la contorsionista gli aveva prima torto i fibrosi legamenti che mantenevano uniti la coscia con il polpaccio, e poi con uno scatto lo aveva strattonato. Le articolazioni erano collassate, il bambino aveva strillato, e lei lo aveva abbandonato sul pavimento; un bambolotto dal petto pulsante, un’offerta al taglierino di Chaos.
La madre era crollata a fianco di quel corpicino, strangolata dal mimo. Mirror regalò un sottile ghigno di trionfo alla contorsionista, un sorriso incoraggiante e famelico, terribilmente somigliante a quello della clown. Poi entrambi sparirono, risucchiati dal vortice di braccia e gambe di una folla ormai fuori controllo.
 
 
La nana Margot caricò il martello con tutta la sua forza. Allungata in avanti, con le ginocchia divaricate tra loro e gli occhi ardenti, colpì un anonimo genitore alle costole. Si udì uno schiocco secco e arido, un tonfo potente e forte che rimbombò in tutto il corpo dell’uomo. Urlò, la mano allacciata a quella del figlio di due anni, e crollò sul pavimento. Fremette. Aveva la schiena inarcata in avanti come un gatto e le pupille allucinate per il dolore. Il bambino pianse, al suo fianco.
Margot gli fu di nuovo sopra; alcune ciocche biondastre erano sfuggite alla stretta crocchia sulla nuca, e ad ogni sobbalzo spruzzavano minuscole goccioline vermiglie. Calò il martello ancora, urlò come se dovesse intimidire l’avversario, e quando colpì il cranio dell’uomo le sembrò di aver affondato il manico in una brodaglia liquida e gelatinosa, fluida. L’altro gemette sommessamente, cercando di schivare ogni schianto, ogni mazzata. Aveva sollevato leggermente la gamba destra quando la nana fece schiantare il martello nella sua testa per l’ultima volta; certa di aver smantellato ogni difesa ossea, il suono di liquidi tonfi le suggerì che era meglio dedicarsi al faccino pallido e piangente al fianco del cadavere. Quindi si avvicinò, la bocca ridotta a una sottilissima fessura diritta, mentre si spalmava gli spruzzi di sangue sulle guance.
 
 
 

Ansimava.
Intercettò gli occhi azzurri, enormi e sgranati, del fratello. Non c’erano domande al loro interno, né risposte. Solo una cupa accettazione che un bambino non avrebbe mai dovuto dimostrare.
Osservò la clown emergere dalle lande desolate dei corpi sparpagliati come una dea maligna e sanguinaria. La vide sorriderle innocentemente.
Quando Chaos le si avvicinò, intonando un tranquillo motivetto, non indietreggiò. Limitandosi ad abbassare il capo, rassegnata, si sforzò d’ignorare la gonna e i leggins macchiati; eppure non riuscì nel suo intento: due grossi lacrimoni le rotolarono violentemente sulle guance. Strizzò gli occhi, Terrorizzata. Posso ammetterlo, ora? sentendo la salda morsa delle braccia di Jarod attorno alla sua vita.
Un fruscio.
Vai, finiscici, se è questo che vuoi. In fretta.
‘Piaciuta la sorpresa? ‘ Un sussurro dolce, languido.
Dio, una psicopatica mi sta parlando! Un’assassina di fronte a me, di fronte a me, di fronte a…
‘ Non è finita qui. ‘
E di questo ne era più che certa. Niente più sorprese, al massimo l’ultimo stallo del loro spettacolo personale. Carne da macello: erano tutto ciò che sono ai loro occhi lincei, predestinati al mattatoio.
‘Cosa vuole fare ancora? ‘ implorò Jarod, e Susanne non ebbe bisogno di schiudere le palpebre per sottintendere le graziose e piccole gocce che fluivano sulle sue guance. Tremante, la sua voce terrorizzata. Soffocò un singhiozzo e sobbalzò quando una stretta al cuore la mortificò, i sensi di colpa a disegnare spirali mentre strizzavano l’organo lacerato. Non doveva passare in quel modo la serata, no, non doveva…
E la mamma? Mamma e la spesa, il traffico, e la torta da cucinare per l’onomastico della zia? No, non posso...
Una donna con la trachea foderata di rosso, quasi luminescente.
Non posso morire, prima voglio toccare e sentire e sentire… No, io voglio vivere, vivere, vivere!
Chiuse gli occhi.
Immaginò di sprofondare nei recessi più remoti della sua mente. Desiderò di rifugiarsi negli archivi del suo cervello, come se stesse giocando a nascondino in una gigantesca e labirintica biblioteca. Lei era lei, solo che non si trovava più lì: i suoi occhi, due fotocamere abbandonate sul luogo del massacro e nonostante tutto ancora registranti, semplicemente obbedivano agli impulsi del cervello e riprendevano assenti l’entrata in scena di un semplice tavolino coperto da una tovaglia nera e un mazzo di carte a coronarne l’aspetto.
Non aprì bocca. Nessun singulto a spezzare la magia. Qualcuno la stava scrollando da dietro, percepiva l’impronta delle dita al di sopra della stoffa. Una mano robusta ma senza dubbio femminile. La gracchiante voce di Chaos.
‘Su, accogliete in scena la ciliegina dello spettacolo! Su, da brava… ‘
Un giovane uomo con i capelli neri e lucidi, adorno di uno dei costumi di scena più ricchi e festosi che avesse mai visto, con gli occhi dolci e il sorriso sincero –
No, voglio tornare in me stessa, seppellitemi in me stessa! No, non voglio guardare, non voglio l’agonia, non… perché le carte? Cosa vuole fare? E cos’è quella cosa che brucia? No, no, no, non toccatemi! NON VOGLIO!
‘Lasciala stare, Chaos! Ha paura, non vedi? Poverina. ‘
- e la sua voce grave, gutturale, ammiccante e melodica…
‘Ma di cosa dovresti avere paura, ora? ‘ chiese l’uomo con un sorriso comprensivo. ‘Ci sono solo delle carte qui sopra. Vedi? Solo delle semplici carte. ‘ Picchiettò la nocca dell’indice guantato sul legno, e quei brevi e concisi colpetti la innervosirono ancor di più. Istintivamente arretrò, ma finì per scontrarsi con un muro – No, non è un muro, è Chaos! Togliti di mezzo, stronza!
‘No, non andare via! ‘ lo sentì rassicurare. ‘Non ti voglio fare del male, sai? Solo un’innocua partita a carte. Sai giocare ai solitari? Su, vieni qui, siediti di fronte a me, facciamo una partita. E un accordo. No, non indietreggiare… Ho detto di no! Chaos, Mirror, prendeteli entrambi. ‘
Quando un paio di mani immensamente forti e rugose l’afferrarono per le spalle, ogni fibra di autocontrollo che Susanne Moore avesse mai posseduto si disintegrò in un istante. Si dimenò, si contorse, scalciò selvaggiamente, ma non urlò, non implorò. Rinnovate lacrime fiottarono dai suoi occhi rossi e gonfi mentre il mimo la conduceva dall’uomo.
E’ la fine. Cristo, questa è davvero la mia fine.
Si sentì sollevare e poggiare sullo sgabello attiguo come se fosse una bambola senza alcuna volontà nelle mani di un bambino annoiato. Lui ora era vicinissimo; il suo fiato s’infrangeva sul mazzo di carte che esponeva e carezzava come il più caro dei trofei. Sorrideva. Sulla sua maschera bianca e circense non v’era traccia apparente di cattiveria.
‘Sei buono? ‘ sentì sussurrare da una voce estranea a lei, roca e infranta da numerosi singhiozzi, disperata. ‘Com’è possibile? ‘
Lui annuì piano. Le iridi la scrutarono con fermezza e severità, squadrandole il viso imporporato e le mani tremanti. Storse il naso e grugnì quando captò l’odore acre e pungente dell’urina provenire dalle pieghe umide della gonna: digrignò i denti in aperto disgusto. ‘Non hai proprio dignità, eh? Vedi di non sporcare il palco, almeno. Ma adesso… ‘ Gli occhi brillarono di gioia malsana. ‘giochiamo. Un solo round. Una sola possibilità di vittoria. E una sola regola. ‘
Le porse il mazzo. Lo divise con fare esperto e sicuro in due piccoli blocchi che adagiò con estrema delicatezza sulla tovaglia nera. Poi, categorico, disse: ‘Se vinci, vivi. Se perdi, muori. ‘
 
 
Temette più di una volta di essere al limite della sua sopportazione, e una crisi isterica era imminente.
Mi sento come una pentola che bolle, ora. Mi costringono all’orlo dell’ebollizione, ma non mi permettono mai di oltrepassare il livello.
Rischiò di far cadere le carte che pinzettava con i polpastrelli sotto gli occhi di quel pazzo criminale. Lui, che aspettava solo…
Lui, che aspetta solo un mio errore. Cazzo, come si giocava al solitario?
Stese le prime dieci carte sul tavolo. Evitò di alzare lo sguardo per incontrare quello paziente e controllato dell’altro, perché in ogni frangente le percepiva, quelle iridi d’oro a raschiare ogni centimetro di orgoglio e dignità dal suo corpo trapassandolo da parte a parte.
Pescò.
Cinque. Di cuori. Non credo sia utile. Devo forse rimetterlo nel mazzo grande?
Allungò cautamente, sperando una conferma, il braccio sudato verso il mucchio. Gemette quando quest’ultimo la bloccò con un pesante schiaffo sulle dita.
‘Troppo facileeee… ‘ sentì cantilenare alle sue spalle dalla clown e qualcuno ridere, una voce infantile.
Arretrò la mano: le dita erano arrossate e pulsavano. Ripose la carta nel mazzo a sua disposizione e pescò nuovamente.
Re di quadri.
Bingo! Rise, istericamente. Sfilò la carta vincente per depositarla davanti a sé, quasi fosse un miraggio.
Ne servono altri tre di questi re, cazzo! O un asso, dammi un asso…
Sei di fiori. Accanto al re.
O una regina, dammi una regina! No, mi servono gli assi, solo quelli. Devo concentrarmi, devo...
Quattro di fiori, un tre di cuori, un jack di picche.
No, no, no! Uno stramaledetto seme, o un re, mi servono loro!
Sette di picche, due di quadri, e…
Il suo cuore mancò un battito. Era riuscita a trovare l’asso di quadri, e ora che lo reggeva in mano le sembrava di aver scovato l’oro.
Sì. Sì, sì, sì! Ho già il due di quadri, vero? Iniziamo a fare scala!
Forse non era impossibile. Forse non era tutto perduto. Forse poteva permettersi il beneficio della speranza. Quando osò rivolgere gli occhi insicuri all’avversario, venne ricambiata con un sardonico sorriso di sfida.
 
 
Era riuscita ad intercettare il seme di cuori e l’asso di picche.
Aveva trovato il due di picche e il tre di quadri e aveva sbuffato quando le sue unghie avevano graffiato un numero infinito di carte marchiate con il fiore. Aveva raggruppato il mazzo in religioso silenzio, per quanto il battito del cuore le rimbombasse e il sangue le scrosciasse nelle orecchie. Attorno al tavolino si erano radunato gli altri mostri, la ventriloqua curiosa e gli acrobati imbrattati di materia celebrale, di cui riuscì ad adocchiare le mani insanguinate – si sforzava di distogliere lo sguardo e s’impose d’ignorare l’odore ripugnante da maiale scuoiato che emettevano, perché sapeva che altrimenti avrebbe ceduto all’istinto di scappare via o di vomitare… e non aveva alcuna intenzione di scoprire la reazione di colui che si era rivelato essere a tutti gli effetti il capo del circo.
Alcuni commentavano interessati le mosse, altri tacevano, altri ancora ridevano. Aveva intercettato il pianto di Jarod poco distante da lei, ma era troppo terrorizzata per poter azzardare e voltarsi.
Pescò. Il mazzo si era ridotto notevolmente, solo un raggrumo di quattro carte disponibili.
Sette di picche: inutilizzabile; ancora l’otto di quadri: inutile, se non aggiungeva il sette alla scala. Bastava che rimanesse una carta inutilizzabile sul tavolino, ed sarebbe stata finita.
Per me e per Jarod.
Due di fiori, cinque di quadri, jack di cuori.
Bingo, il jack! Scala…
Una carta disponibile.  Otto di quadri! Timorosa, lo ripose vicino al sette e chiuse la prima scala. Sussurri sorpresi si levarono dai visi contorti, ma bastò un solo sguardo ammonitore del capo che tutti tacquero come cuccioli ammaestrati con dovizia.
Due carte sul tavolino. La totale e definitiva resa dei conti. Una giusta e una sbagliata. Un cinque e una regina. Una l’avrebbe fatta vivere, l’altra l’avrebbe condannata a morte. Ironia, come il suo destino fosse determinato da una banalissima carta da gioco.
Il terrore la soverchiò. Lasciò che la pervadesse – Tanto che ho da perdere, ormai? – e fu in quel momento che la sua mano si mosse da sola: le falangi si chiusero sui bordi affilati della carta a sinistra e lentamente -
Dio,Dio,Diotipregoseesistisalvamimeemiofratello, Tipregotipregotipregotipregotiprego…
- la voltarono.
Regina di fiori.
 
 
 
Scattò in avanti, fulmineo. Susanne Moore non ebbe nemmeno il tempo di emettere l’ultimo urlo: le labbra si disincagliarono quando si sentì squarciare a metà. Strillò, rovesciò il capo all’indietro, una massa di luci indistinte esplose nei suoi occhi quando un coltello tranciò con furia micidiale e l’impeto di un macellaio le sue pareti addominali per estrarne le interiora: un gomitolo di intestini strabordò sul pavimento, una fila di spirali calde e grigiastre, e fu allora che Jarod Moore abbandonò ogni possibilità di fuga. Si gettò al fianco della sorella senza una parola, arrendevole, e un getto di vomito zampillò dalla sua bocca, mescolandosi alla pozza di sangue in cui Susanne si era accasciata.
Bastò uno sguardo rivolto a Chaos, e la clown capì immediatamente. Afferrato il martello retto da Margot, gli disintegrò le vertebre del collo con un solo e micidiale colpo; le ossa collassarono e intaccarono la pelle sottile, la giugulare si spappolò, recisa dai frammenti coriacei. Jarod Moore collassò sul petto di Susanne senza nemmeno un gemito.
 
 
 
 
 
 
 


Angolo Autrice
Credo che questo sia il capitolo più sanguinolento e splatter che io abbia mai scritto, davvero. A volte mi stupisco di me stessa…
In ogni caso, chiedo perdono a TUTTI per essere sparita! Il motivo? Ho avuto una ricaduta e di conseguenza sono tornata in ospedale. Ora mi sono stabilizzata del tutto (più o meno…).
Ma spero che questo aggiornamento più lungo del solito possa aiutare a perdonare la sottoscritta per l’assenza prolungata; non ho molto da dire a proposito, solo che ho tantissimo lavoro arretrato con questa storia e che di conseguenza devo rimettermi in carreggiata. E ringrazio mille volte jumby per essersi anche preoccupato per me. L’ho apprezzato davvero, sai? ;)
Spero che anche questo vi sia piaciuto, alla prossima!
 
Made of Snow and Dreams.
 

 

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Capitolo 19
*** 19. Intermezzo: Atto finale ***



Notti di noi






Intermezzo: Atto finale

 
 

Se nelle strade di maggior fluenza di veicoli ogni suono era inghiottito dalle grida dei venditori ambulanti e dal frusciare continuo delle pagine smosse dei quotidiani, lo stesso non poteva esser detto per il dipartimento di polizia della Route 45.
'Cosa dice la Scientifica? '
'Quello che già sai: ferite, squarci e abrasioni, stesso modus operandi del simpatico gruppetto di macellai. '
'E' assurdo. E' semplicemente assurdo. Stiamo cercando quei maiali da settimane e ancora un altro buco nell'acqua. Niente impronte, niente Dna, niente capelli... i bastardi sanno bene come darsela a gambe. Vigliacchi. '
'Risparmiaci le prediche, Malton. Ci bastano i titoli sui giornali e il vecchietto di turno, quello che si avvicina sempre all'ufficio. Ci procura già abbastanza grane da solo. '
Reiner Malton, uno dei migliori agenti di polizia il cui valore troneggiava sul colletto della sua uniforme per merito di una spilla in più, accavallò la gambe destra sulla sinistra e sigillò la sua visuale poggiando la fronte sulle mani intrecciate. Sasha Daleen lo adocchiò di soppiatto, dietro gli enormi e fin troppo profondo cerchi scuri che le adornavano gli occhi, e sospirò pesantemente. Le unghie laccate di nero pigolarono sulla tastiera del computer senza digitare alcunchè. Lo schermo s'illuminava di una serie interminabile di dati, nomi, cognomi, numeri. Un gigantesco e osceno ammasso di numeri con una gigantesca e oscena spirale di foto, ognuna di queste vomitata direttamente dagli obitori. Sasha Daleen aveva imparato a riconoscerne la maggior parte: da due settimane a questa parte, infatti, aveva iniziato a sfogliare immagine dopo immagine nel tentativo di cavarne fuori un indizio in più. Tuttavia, i suoi sforzi non avevano prodotto alcun risultato, nonostante le intense sessioni serali e le innumerevoli tazze di caffè in mano.
'Vado a prendere un altro caffè. Copritemi le spalle dal capo inquisitore, d'accordo? '
'Fai pure. ' rispose Beverly Troi, con noncuranza dietro di lei. 'Ma sappi che prima o poi ti sentirai male, Daleen. Troppa caffeina fa male, e arriverai un giorno ad avere il caffè al posto del sangue. '
Sasha le rivolse un debole sorriso. 'Quando entrerai nel reparto dei medici legali ti darò il permesso di portarmi dal tuo dietologo e in una Spa. Ti conviene affrettarti. '
'Contaci. '
Malton schizzò via dalla sedia tanto velocemente da guadagnarsi l'occhiata interrogativa di Stenley Hagarty. Tamburellò le dita sul vetro della finestra che si affacciava sulla strada. Uno sciame di gente ordinaria: madri con i pargoli sul passeggino, uomini d'affari con l'inamidato colletto diafano stretto attorno al collo, studentesse con le gonne un pò troppo corte, anziani ad attraversare la strada con il loro fedele bassotto.
'Tutti innoqui e banali come la fame. ' mormorò tra sè e sè Malton. 'Quindi, tutti probabili assassini. '
'Già, ce li vedo una ragazzina del liceo e un vecchio rattrappito di ottant'anni andare a fare fuori intere famiglie in un solo colpo. ' rise Hagarty, un omone dalla stazza di un armadio a due ante e la voce da baritono. 'In realtà ho notizie freschissime. Montgomery ha finalmente attivato le rotelline. '
'E ha scoperto che...? '
'Che ci sono alcune importanti coincidenze. Iniziamo dalla prima: i luoghi del delitto combaciano sempre. Sono posti sperduti nel nulla, in mezzo ai boschi, o semplici periferie. Ideali per tagliare la gola a un bambino. In una parola, i killer si tengono alla larga dalle grandi città. Da noi. '
'Come quanto accaduto a Foster Rock... ' annuì Beverly. Era una donna piuttosto slanciata, con gli occhi leggermente sgranati e le guance rosate di natura.
Hagarty le regalò un benevolo e generoso sorriso che, se possibile, le fece imporporare le guance ancor di più. 'Tipo Foster Rock, esattamente. Mi sono giunti, inoltre, i risultati delle autopsie. La maggior parte di quelli li sapete già, ma questa è una chicca fatta apposta per noi. ' Sfogliò il mucchio di rapporti cartacei che reggeva in mano per qualche secondo con occhi attenti e vispi, e, quando lo sguardo incrociò un documento riguardante il decesso di un feto di otto mesi, si fermò. 'Avete presente la poveretta che è stata trovata con il ventre squarciato? Quella incinta, insomma? Ebbene, sono stati ritrovate, su di lei e su quello che restava di suo figlio, tracce di saliva e pelo nero. Appartenente ad un cane. Presumibilmente un Rottweiler. '
'Cristo... ' sibilò Beverly, nauseata.
'Già, davvero terribile. Ma c'è una piccola speranza. Montgomery ha intenzione di tornare sull'ultimo luogo del crimine un'altra volta. Ho origliato quello che si mormorava in scientifica, quando sono andato a ritirare i risultati. L'ho sentito lamentarsi del fatto che sarebbe stato costretto a ricercare ogni singolo cittadino nei dintorni che possiede un cane del genere. '

In quel momento Sasha tornò, con un bicchiere di caffè sputato fuori direttamente dalla macchina. Riuscì a registrare le ultime parole pronunciate dal collega e si accasciò sulla sua sedia, vicino alla sua scrivania. Si massaggiò le tempie, aspirando i vapori caldi e bruni della bevanda accanto a lei.
'Ma questo non... non aiuta per niente! Stiamo perdendo, anzi, Montgomery sta perdendo il controllo il tutto. E' uno schifo ultimamente. A questi omicidi sommate quelli compiuti da Jeffrey Woods e il suo seguito. C'erano tutti gli indizi necessari a capire che questa dannata città stava impazzendo, sin da quando suo fratello sparì dall'ospedale e quella ragazza, anzi, quelle due ragazze, affiliate al loro caso, scapparono. Semplicemente troppo. '
'Ti riferisci a quella ragazza... Nina? ' chiese Malton, con gli occhi incollati ancora sulla strada sottostante.
Sasha posò gli occhi su di lui per qualche secondo. 'Esatto. E quell'altra ancora, Jane... Jane Arkensaw, credo si chiami. E questi sono soltanto gli assassini seriali che infestano il distretto! Vi ricordo i casi riportati dal South Carolina, quello dei bambini fatti a pezzi e riempiti di caramelle. Non si è mai scoperto chi fosse il colpevole. '
'A mio parere, ' esordì Beverly, incrociando le braccia al petto e dondolandosi sulla sua sedia girevole, 'si potrebbe trattare anche di qualcosa di più grosso. Sasha ha ragione dicendo che questa città sta impazzendo. Ma c'è anche qualcosa di più. Ultimamente si parla molto in giro di 'turismo della morte', o 'turismo dell'omicidio'. Negli ultimi anni si è registrata un intenso aumento del tasso di immigrazione nella nazione. '
'Stai dicendo che il fenomeno potrebbe essere stato incrememtato dalla pubblicità? '
'Se vuoi chiamare pubblicità la notizia che l'America, a quanto pare, non riesce a trovare i colpevoli di omicidio, allora sì. Quanti malati mentali esistono, lì fuori? Una volta scoperto che in uno Stato l'omicidio è legalizzato o comunque non punito per una ragione o per l'altra, è ovvio che diventi la meta perfetta. Di questo passo la situazione peggiorerà. '
Malton si voltò nella loro direzione. Aveva adottato da mesi un'andatura lenta, controllata, congeniale. D'effetto. Si accostò alla parete senza provocare alcun rumore e fissò pensoso il soffitto.
'Reiner... ? '
'Sto pensando. Ci sono molte proposte che non sono neanche state prese in considerazione dal governo, e questo mi dà da pensare. Ad esempio, per quale motivo la proposta lanciata dal dipartimento 156 fu respinta, all'epoca? '

Suddividere il territorio in ristrette zone d'influenza. Separare le zone dell'abitato da quelle boschive e aumentare il numero di agenti in ognuna. E' come una scacchiera, vedete? Mano a mano che i quadrati interni vengono ripuliti dal lerciume, ecco che noi – i pedoni – avanziamo verso l'esterno. Bisogna solo formare una struttura ad anello in grado di isolare le zone in rosso da quelle libere e pulite, bloccando ogni tentativo di oltrepassare i blocchi di sicurezza. Civili e criminali non ancora rientrarti nelle zone di sicurezza dovranno tenersi al di fuori, purtroppo.

'Era un buon piano. Con la creazione di una fitta rete di comunicazione tra i vari dipartimenti di ciascun Stato ci saremmo garantiti non soltanto la sicurezza del territorio, ma soprattutto la possibilità di stroncare un attacco interno. Se la violenza incoraggia le mine spente ad accendersi, la popolazione delle aree protette dev'essere controllata con attenzione. Molta attenzione. Si era proposto di attuare un piano supplementare adatto a questo scopo, e consisteva nell'applicare una certa dose di pressione psicologica 'passiva'... aumentando, ad esempio, il numero degli spot pubblicitari in cui si sottolinea la punizione divina che aspetta chi compie un reato, per i credenti, o la punizione giudiziaria per chi non crede. Si potrebbe pure informare la popolazione della presenza di centinaia di agenti segreti in incognito. Eppure il governo non ha approvato neanche un aspetto del piano. '
'Noi non siamo nessuno per contrastare il governo, Reiner. ' disse Hagarty, con sguardo serio. I suoi occhi azzurri avevano perso qualsiasi sfumatura giocosa e allegra per cedere il posto a un sottile velo di preoccupazione. 'Non metterti in testa strane idee. Noi facciamo già il nostro meglio, con l'autorità che ci viene elargita. Andare oltre è rischioso, parecchio. ' Lo fissò, grave, la bocca ridotta a una sottile linea di carne. 'E lo sai. '
Reiner Malton ricambiò lo sguardo con una certa aria di sufficienza. Tuttavia, non riuscì a replicare o a contestare quanto affermato dal suo collega. Si limitò a sbuffare rumorosamente.
Era vero. Proprio come accadeva nei centri governativi, anche i muri dei dipartimenti della polizia avevano occhi e orecchie per carpire ogni più intimo segreto e riportarlo ai superiori, con tutte le conseguenze del caso. John Wilson, David Rodriguez e Thomas Taylor erano solo alcuni nomi che comparivano nella lunga lista degli sventurati retrocessi, degradati o espulsi, la cui unica colpa era stata quella di aver detto una parola di troppo.
Beverly si voltò verso di lui, la mascella affilata rigida. 'Promettilo, Reiner. Prometti che non tenterai una delle tue solite follie. Il caso stavolta è parecchio serio. '
'E non tentare di includerci nei tuoi malefici piani! ' aggiunse Sasha ridacchiando, girata verso il monitor del computer e intenta a sorseggiare il suo caffè. 'Tra pochi mesi mi sposo e non ho alcuna intenzione di festeggiare il matrimonio con la mia espulsione. Fammi questo regalo per la mia festa, dai! '
'Tranquilli, tranquilli... ' concluse Malton. Abbozzò un leggero sorriso rivolto a Sasha – giravano voci che lei fosse la sua collega preferita e ciò aveva dato luce a parecchi pettegolezzi – e si voltò nuovamente verso la finestra. 'Non ho intenzione di fare proprio niente. Perlomeno... '

 

 

 

Sotto un cielo che esplode di stelle, un manichino bianco di ragazza ha appena finito di spargere sangue sul marciapiede. Ha la gonnella umida e calda, e rivoli rossi le si incrostano tra le cosce – ma lei è troppo impegnata a leggere il giornale per occuparsene. Ha scelto di sedersi con le gambe incrociate sul corpo del nonno di famiglia che ha scelto di massacrare.
Lo aveva intercettato mentre quest'ultimo sorrideva alle fotografie leggermente ingiallite dei suoi nipoti che reggeva con delicatezza, e adesso, di quegli occhi accesi di tanto amore, rimanevano solo due biglie spente, due occhi di pesce morto che fissa il carnefice che lo ha appena fatto soffocare.

Contro tutte le aspettative, la bambola dannata si ritrova a sopprimere un brivido di pietà. Si odia per il suo sentimento non previsto, e contempla, pensierosa e gentile, l'idea di usare il suo fedele accendino per bruciare il corpo dell'anziano, collassato sul suo stesso sangue antico – tutto per sopprimere quel demone interiore da lei tanto temuto, che indossa la nomea di 'senso di colpa' come un guanto.

Ma le sue elucubrazioni si dissipano nel momento in cui, con la coda dell'occhio, coglie una scritta stampata in prima pagina sul giornale che il vecchio custodiva sulle ginocchia. Le gambe le tremolano per una scarica improvvisa di eccitazione e l'umidore appicicoso che percepisce tra le gambe si amplifica.
 

Nuove vittime ritrovate nelle periferie della città. La plizia assicura assistenza h24 ai cittadini. Si raccomanda a questi ultimi...
 

Timore. E' la prima sensazione che riesce a schedare mentre trotta per le strade buie con il cappuccio della felpa calato sul viso. Pensa a Jeff, sempre a Jeff.
 

...ai cittadini di non perdere la calma e di non intraprendere delle azioni che potrebbero ostacolare le forze dell'ordine. Montgomery Alan rassicura nuovamente la popolazione.
 

Montgomery Alan: un ometto strano, il volto sfigurato da una forma intensa di rosacea, piccolo di statura, con un paio di spessissimi occhiali da vista e le gote contratte in un sorriso rassicurante. Un modo indiretto per trasmettere la mancanza di idee originali da cui partire per le indagini.
Nina ricordava molto bene cosa affermavano i giornali stampati dopo la sua fuga da casa dopo la venuta di Dio, e tra i nomi di coloro che si stavano impegnando a ritrovarla, una volta identificata come 'serial killer', figurava proprio il suo.

Nina era più che certa di non dover temere niente da quell'incapace che era Montgomery Alan, altrimenti non si sarebbe trovata su quel marciapiede a quell'ora, sporca di sangue e di orgasmo. Tuttavia, dubitava di poter pensare lo stesso dei suoi assistenti.

 

'...perlomeno, non ancora. '

 

 

 

 

Angolo Autrice:

Made of Snow and Dreams è tornata, e con lei anche 'Notti di noi '. Spero che non abbiate dimenticato questa storia nonostante la mia assenza, ma se siete nuovi di qui, allora benvenuti!
Spero che questo capitolo di presentazione vi sia piaciuto. Ho intenzione di portare al termine 'Notti di noi ' e questo mi sembra il modo migliore di tornare alla ribalta. Buona lettura!

 

Made of Snow and Dreams.

 
 

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