Sarà il nostro segreto

di Princess of Dark
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Lista capitoli:
Capitolo -1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Condizioni necessarie ***
Capitolo 3: *** Una firma per cambiare la storia ***
Capitolo 4: *** Un matrimonio per finta ***
Capitolo 5: *** Primo giorno di convivenza ***
Capitolo 6: *** La strada è ancora lunga ***
Capitolo 7: *** La coppia perfetta ***
Capitolo 8: *** Ballo in maschera ***
Capitolo 9: *** Minacce ***
Capitolo 10: *** Un tipo sospetto ***
Capitolo 11: *** Ritorno a casa ***
Capitolo 12: *** Prova a conoscermi ***
Capitolo 13: *** Previsioni di bufera ***
Capitolo 14: *** Per un bicchiere di troppo ***
Capitolo 15: *** Piccole incomprensioni ***
Capitolo 16: *** Prime paure ***
Capitolo 17: *** Un incontro ravvicinato ***
Capitolo 18: *** La verità viene sempre a galla ***
Capitolo 19: *** Tutti i nodi vengono al pettine ***
Capitolo 20: *** Il nostro essere è il nostro passato ***
Capitolo 21: *** Ricomincio da noi ***
Capitolo 22: *** Are you happy? ***
Capitolo 23: *** Moglie in pericolo! ***



Capitolo -1
*** Prologo ***


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La maniglia cigolante mi fece distogliere lo sguardo dal libro che stavo leggendo e restai immobile a fissare la figura che aveva appena fatto capolino.
«Che ci fai qui?», feci sorpresa chiudendo di scatto il libro quando mi accorsi che era Alexander. Lui ignorò la mia domanda e richiuse con calma la porta della libreria, avanzando poi verso di me.
«Disturbo?», chiese con aria innocente, infilandosi le mani in tasca.
«No, no», farfugliai scuotendo freneticamente il capo.
«Avevo voglia di passare del tempo con te…», sorrise furbamente.
Mi fu accanto e mi strappò delicatamente il libro dalle mani, afferrandole poi per tirarmi su in piedi. Allacciò saldamente le mani dietro la schiena e il mio seno aderì al suo petto solido costringendomi a trattenere il fiato. «Tu di cosa hai voglia, Sara?», mi sussurrò all’orecchio.
Il respiro mi morì in gola e ne uscì solo un debole gemito; sentivo il cuore martellarmi in petto senza sosta, il suo profumo mi stava dando già alla testa e il calore della sua pelle era una sensazione troppo bella per rinunciarvi.
«Che… stai facendo?», arrossii, avvertendo le sue mani infilarsi sotto la gonna e accarezzarmi la gamba. Alexander spesso mi sfiorava di proposito ma non l’aveva mai fatto così spudoratamente: faceva sempre in modo che si trattasse di una coincidenza e non lasciava mai che vedessi quanto mi desiderava.
Eccome se mi sentivo desiderata: in quel momento credevo di leggere i sentimenti giusti nei suoi occhi.
Ero come una bambola di pezza tra le sue mani: poteva fare quello che voleva, gliel’avrei concesso.
Mi spinse fino a farmi sbattere bruscamente contro gli scaffali della libreria, schiacciando il mio corpo col suo. Sentii il suo fiato corto nelle orecchie prima che iniziasse ad accarezzarmi il collo con le labbra.
Il mio sguardo preoccupato andò alla porta, da dove avevo sentito provenire dei rumori.
«Alex», mugolai con un filo di voce, affondando con le mani nei suoi capelli biondi mentre mi sollevava di più la gonna per arrivare all’elastico delle mie mutandine. «Se ci scoprono…»
«Ssh», m’interruppe, posando un dito sulle mie labbra. Incrociai i suoi occhi vivaci e maliziosi e decisi che ne valeva la pena di avere paura, di provare il timore di essere scoperta.
Cavolo, per lui valeva la pena di parecchie cose!
«Nostro padre ci manderebbe via», mormorai titubante, osservando come gli angoli della bocca si curvassero in un sorriso.
«Non lo scoprirà mai e noi non lo diremo mai a nessuno», mi promise, circondandomi nuovamente con le sue braccia e poggiando la fronte contro la mia. «Sarà il nostro segreto», aggiunse in un soffio prima che le sue labbra si potessero posare per la prima vera volta sulle mie.
Stavo baciando mio fratello. Anche solo pensarlo mi faceva sentire uno schifo non m’importava: per Alexander avrei fatto di tutto, per quelle labbra mi sarebbe andato bene anche l’inferno.






Angolo autrice: salve a tutte/i! Non starò qui ad annoiarvi ma ci tengo molto a instaurare un bel rapporto con i lettori quindi vi dovete sorbire questi angolini(che potrete tranquillamente ignorare xD)
Prima che mi si gridi contro di essere immorale vi anticipo che Sara e Alexander sono fratellastri e non hanno nessun legame di sangue, anche se lei lo chiama "fratello"... Di solito i miei capitoli non sono mai così brevi (anzi...!!) ma questo è il prologo e non me la sento di anticiparvi ancora nulla :)
Mi farebbe piacere ricevere vostri pareri, un bacio!!

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Capitolo 2
*** Condizioni necessarie ***


Un momento di attenzione! (?) 
Non so per quale motivo ma quando si clicca sulla storia inizia dal primo capitolo... in realtà c'è un prologo ancora prima di questo che state visualizzando, quindi leggete prima quello!! 


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Era da un quarto d’ora che fissavo dinanzi a me l’abitazione dei Wilson, con il capo reclinato all’indietro per guardare interamente l’enorme edificio. Non riuscivo a muovere un solo muscolo mentre percorrevo con lo sguardo le venature marmoree delle colonne che sorreggevano il timpano dinanzi alla porta d’ingresso, seguite da altrettante colonnine che andavano a formare un piccolo porticato di lato che ospitava delle poltroncine di pelle, posando lo sguardo sulle grandi finestre scure dalle quali era impossibile riuscire a vedere qualcosa.
Dietro di me il cancello automatico si era già chiuso e avevo percorso un viale ai lati del prato perfettamente curato, fino ad arrivare davanti alle poche scalinate che portavano alla porta principale.
La casa, circondata dall’immenso verde e dagli alberi, sembrava immersa in un universo parallelo, in una completa armonia e tranquillità che erano sfuggite ai miei ricordi.
Erano cinque anni che non tornavo qui, eppure la casa sembrava aver perso quella nota di vivacità che regnava un tempo, diventando un pezzo estraneo alla vita stessa di chi abitava nelle sue mura.
Dopotutto, la sua serenità sembrava non essere stata corrosa minimamente dal lutto al suo interno, il motivo per cui mi avevano strappata dalla mia vita a New York.
Forse dovevo l’intera vita al mio padrino, conservavo per lui un incondizionato senso di gratitudine per essere stato l’unico uomo capace di rendere mia madre una donna felice e per avermi trattato come se fossi sua figlia. Era grazie a lui se non vivevo una vita miserevole, se avevo sempre avuto tutto ciò di cui avevo bisogno, i vestiti alla moda, il medico privato quando mi ammalavo, il giocattolo nuovo quando iniziava a essere pubblicizzato, un posto dignitoso in una delle agenzie pubblicitarie più importanti del mondo.
Eppure non riuscivo a trovare il coraggio di entrare in quella casa.
Avevo già pianto a sufficienza quando avevo ricevuto la notizia della sua morte e non mi ero presentata al funerale per evitare che tutta quella cattiva gente di cui si era circondato mi accusasse per averlo abbandonato, per essere andata via di casa e averlo fatto ammalare di tristezza.
Ma soprattutto non volevo entrare in quella casa perché l’avevo giurato a me stessa quando cinque anni fa andai via, quando mi promisi che nulla di quel posto avrebbe mai più potuto farmi del male, quando scappai via da lui.
Il motivo per cui non volevo entrare aveva un nome: Alexander Wilson, il mio fratellastro.
«Signorina Wilson, cosa ci fa lì impalata davanti alla porta?». Una voce familiare mi fece sobbalzare, distraendomi dai pensieri che si andavano a diramare sempre di più, convincendomi ad andare via prima che potesse essere troppo tardi. Cioè adesso.
«Agatha!», esclamai sorpresa, quando mi voltai e vidi una donna magrolina sulla cinquantina che indossava un’uniforme nera e mi guardava con i suoi occhi vispi e il volto sempre sorridente, stringendo tra le mani un vaso colmo di fiori colorati. La abbracciai forte, avvertendo il profumo del suo shampoo alla camomilla che non aveva mai smesso di usare.
Agatha l’avevo sempre ricordata come mia migliore amica. Lei non era soltanto la domestica che si prendeva cura della casa, ma era anche colei che, dopo la morte di mia madre, si era presa cura di me quando mio padre aveva deciso di adottarmi e tenermi con sé. Agatha, assieme a mio padre, erano le uniche persone di cui mi ero sempre fidata incondizionatamente.
Un tempo c’era stato anche Alexander, ma era durato poco, prima che potessi scoprire la sua vera natura… e per fortuna non sono stata così sciocca da non accorgermene.
«Diventa sempre più bella, Sara. La sua mancanza è stata quasi palpabile», sorrise la donna, tirando un sospiro e portando una ciocca dei miei capelli castani dietro l’orecchio.
«Quante volte devo dirti di darmi del tu? E mi sei mancata anche tu», sorrisi malinconica, indietreggiando per farle spazio mentre saliva le scalinate e apriva la porta d’ingresso. La guardai esitante, allungando il collo per sbirciare all’interno.
«Non vuoi proprio entrare, eh?», disse quando si voltò.
Avanti, Sara, hai passato una settimana intera a riflettere sulla tua decisione. Salii controvoglia le scale, incrociando lo sguardo di Agatha che aspettava pazientemente che mi decidessi a entrare. Giusto il tempo di firmare tutti i documenti e potrò andare via.
L’interno della casa mi fece tutto un altro effetto: se dall’esterno avevo avuto la sensazione che la casa levitasse su una nuvoletta di serenità ora ero quasi sicura che l’aria fosse densa di malinconia, trascuratezza, di quel lutto che avevo vissuto a chilometri di distanza. Era un’atmosfera pesante, la sentivo quasi schiacciarmi.
Non era stato toccato nulla, era esattamente come la ricordavo: un’area circolare piena di gingilli, palme nane, statue e ritratti, ornata di poltrone e mobilia dal gusto antico, costantemente illuminata dalle grandi finestre che Agatha teneva socchiuse.
Regnava un silenzio disumano, disturbato soltanto dal ticchettio del grande orologio a pendolo appeso alla parete. Segnava anche un’ora dietro, o forse era sempre stato rotto, ma ricordavo che piaceva parecchio a papà.
«Andiamo?». Agatha richiamò la mia attenzione e quando annuii aveva già lasciato l’ingresso per inoltrarsi nei corridoi, con la convinzione che la stessi seguendo.
Mi lasciai alle spalle la stanza per seguirla con passi incerti e le gambe tremanti che minacciavano di smettere di funzionare da un momento all’altro.
Ero in casa da due minuti e mi sentivo già soffocare da quel grosso macigno che si era messo sullo stomaco. C’era troppo silenzio, troppo buio, troppa tristezza ed io avevo impiegato tanto tempo per poterla finalmente dimenticare. Forse ho sbagliato a tornare qui.
«Non c’è nessuno in casa?», chiesi esitante, alzando leggermente la voce affinché la donna mi sentisse. Una parte di me lo sperava davvero, avrei preferito che la casa fosse stata abbandonata e dimenticata dai miei fratellastri, che avessero già progettato di venderla o che addirittura avessero già firmato un contratto che la rendeva proprietà di qualcun altro.
«Certo che no, ti stanno aspettando nel salotto», mi rispose in tutta naturalezza, fermandosi poi dinanzi alla porta socchiusa. A confermare le sue parole c’era il leggero chiacchiericcio che arrivava fino alle mie orecchie e avvertii subito un’altra fitta allo stomaco.
Non mi andava di rivedere la sua faccia, non mi andava di tornare a discutere con tutti loro.
Agatha sembrava ignorare i miei stati d’animo, anche se dal suo modo di guardarmi sembrava provare pietà nei miei confronti, e aprì la porta, facendomi cenno di aspettare.
«La signorina Wilson è arrivata», annunciò.
«Sara è qui?!». Mi arrivò all’orecchio un’altra voce familiare e due secondi dopo fece capolino dalla porta un ragazzo alto che a primo impatto non riconobbi.
«Non ci credo!», esclamò ridendo, poggiandomi le mani sulle spalle. Tutto a un tratto mi vidi scorrere davanti agli occhi immagini della mia infanzia passata con lui e lo guardai sorpresa, chiedendomi com’era possibile che quel ragazzino amorfo fosse passato dall’essere un bruco a una meravigliosa farfalla.
«Ehi, Jeremy non… non ricordavo fossi così alto», mormorai impacciata, prima che potessi emettere un gemito quando mi portò bruscamente la testa al petto per stringermi in un abbraccio soffocante.
L’ultima volta che avevo visto Jeremy aveva tredici anni, portava l’apparecchio, aveva l’acne giovanile ed era più basso di me. Ora invece mi ritrovavo stretta tra braccia muscolose da un ragazzo alto una decina di centimetri più di me, dai capelli castani elegantemente pettinati all’indietro e un sorriso buffo che andava ad allargarsi sempre di più.
«Sono felice di rivederti, sorellona», fece entusiasta e i suoi occhi azzurri brillarono dalla gioia.
Jeremy era il più piccolo della famiglia, nato dal secondo matrimonio di papà assieme a Darren, ed era sempre stato quello più “coccolato”.  Più piccolo di me di tre anni, era in certo senso il preferito della mamma, anche perché era l’unico che aveva accettato fin dall’inizio che venissimo a vivere con loro e ci considerava la sua vera e propria famiglia. Aveva avuto anche un debole per me, ma probabilmente era perché stava diventando grande anche lui e aveva confuso l’affetto con l’amore: non ci avevo mai dato molto peso, anche perché erano anni che non mettevamo in mezzo questo discorso.
Sì, ogni tanto ci sentivamo, Jeremy mi chiamava per il compleanno, il Natale, pasqua e per ogni volta che gli serviva un consiglio su una ragazza o semplicemente su cosa preparare per il pranzo e rivederlo mi aveva messo di buon umore.
Forse sarei riuscita a sopravvivere alla vista di Alexander e Darren.
«Dobbiamo aspettare ancora molto?!». Una voce non tanto gradevole quanto quella di Jeremy mi fece irrigidire di colpo, ricordandomi perché ero lì. Era la voce di Alexander, l’avrei riconosciuta tra mille.
Jeremy sbuffò e mi fece cenno con capo di entrare in stanza.
Si tratta soltanto di un’ora, al massimo due, poi sarò di nuovo su un aereo verso casa. Non morirò per un’ora, no?
Misi piede nel salotto e avvertii subito su di me gli occhi di diverse persone. Seduto alla scrivania c’era un uomo dai capelli brizzolati e l’espressione calma, intento a scrutarmi da dietro i suoi occhiali da vista mentre estraeva dalla valigetta una cartellina di cartone. In piedi e appoggiato con la schiena contro la finestra in fondo alla stanza c’era Alexander.
Indossava un completo azzurrino sopra una camicia bianca, teneva le braccia incrociate in un gesto di diffidenza e aveva le spalle rigide. Alexander era il fratello maggiore, figlio della prima moglie di nostro padre, ed era l’unico ad avere i capelli biondi in famiglia. Sebbene tutti i figli avessero ereditato gli occhi azzurri di papà, i suoi non esprimevano altro che rigidezza, razionalità e compostezza, come se fossero del nero più buio e tenebroso.  Un tempo quegli occhi erano stati i più dolci del mondo, avevano saputo incatenarmi a lui fino a farmi cadere miseramente ai suoi piedi.
E fu così che mi ritrovai nuovamente a rivivere la storia di cinque anni fa, di quelle notti passate sveglia, divorata dai dubbi, rimorsi e sensi di colpa, di quei momenti in cui l’avevo amato e odiato più di me stessa contemporaneamente… mi faceva ancora male, mi davano ancora alla nausea tutte quelle strane sensazioni.
«Possiamo iniziare, no?», borbottò seccato, senza reagire minimamente alla mia vista.
Dentro di me, in una manciata di secondi, erano avvenute migliaia di reazioni e lui non si era scomposto minimamente, guardandomi con indifferenza e quasi disprezzo prima di staccare lo sguardo.
E pensare che avevo anche sperato che fosse cambiato: che scema!
«Ma Darren non è ancora arrivato», replicò Jeremy contrariato.
«C’è o non c’è non fa alcuna differenza. Stiamo parlando di Darren», gli fece notare Alexander con tono sarcastico, staccandosi dalla parete per avanzare qualche passo, infilandosi le mani nelle tasche.
«Perché mi avete chiamata, di preciso?», dissi infine, senza riuscire a staccare gli occhi dalla figura slanciata di Alexander.
Lui non era cambiato. Quando l’avevo lasciato era esattamente come adesso, ma forse senza quel velo di autorità che ora si sentiva in diritto di esercitare perché papà non c’era più ed era il più grande.
«Se fosse stato per me, saresti potuta rimanere benissimo a New York», replicò prontamente lui, «ma il paparino ti ha inserita nel testamento», aggiunse facendo un cenno col capo al foglio che l’uomo stringeva.
«Sono l’avvocato di vostro padre, Marshall McCall, l’abbiamo convocata perché potessimo leggere finalmente il testamento di vostro padre», mi spiegò brevemente l’uomo.
«Oh, okay», mormorai sorpresa. Jeremy tirò un sospiro rumoroso, affondando nella poltroncina di pelle. M’invitò con lo sguardo a sedermi accanto a lui ma io rimasi dov’ero, al centro della stanza e abbastanza distante da Alexander per evitare qualsiasi voglia compulsiva di prenderlo a pugni. Il signor McCall si schiarì la voce.
«Io, Albert Wilson, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali…»
«Non possiamo saltare questa parte straziante e passare al sodo?», lo interruppe Jeremy in tono lamentoso. Alexander gli lanciò un’occhiata fulminea e lui alzò subito le mani in aria in segno di arresa. «Ok, ok, continuate pure», disse arrendevole.
«Come ben sapete vostro padre ha diviso la sua eredità, ma ha imposto delle clausole»
«Spiegati meglio», borbottò Alexander, aggrottando la fronte e visibilmente interessato.
«Ai miei figli, Darren e Jeremy, lascio il venticinque per cento dei miei beni nella speranza che sappiano farli fruttare. A mio figlio maggiore, Alexander, lascio la gestione dell’intera impresa familiare con la sicurezza che saprà ricavare da essa enormi profitti. Il restante cinquanta per cento va alla mia adorata Sara-»
«Che pazzo», interruppe Alexander con una risata isterica, «ha lasciato metà dei suoi soldi a lei».
Le sue parole mi sfuggirono completamente, perché ero rimasta a bocca aperta e con gli occhi sgranati quando l’avvocato aveva detto che mi spettava metà dell’intero patrimonio dei Wilson. Com’era possibile che mi avesse lasciato una percentuale così alta, pur non essendo neanche lontanamente sua figlia?!
«Che incantesimo gli hai fatto?», mi chiese Jeremy allibito, fissandomi dal basso della sua poltrona.
«Deve esserci un errore… è impossibile che mi abbia lasciato il cinquanta per cento», risi nervosa, scuotendo il capo.
«Non fingerti sorpresa. Hai leccato il culo a mio padre per anni, solo per arrivare a questo giorno», borbottò Alexander indifferente.
«Come ti permetti?», ringhiai, fulminandolo con lo sguardo.
«Non è così?», mi punzecchiò, accorciando la distanza tra di noi per guardarmi in segno di sfida.
«Aspettate! Non ho finito», ci interruppe l’uomo, alzando leggermente la voce. «Vi avevo parlato di alcune condizioni», aggiunse. Lanciai ad Alexander un’ultima occhiata assassina prima di dargli le spalle e guardare l’uomo.
«Quali condizioni?», gli chiesi.
«Sicura di volerlo sapere?», rise Alexander, guardandomi con aria spavalda.
«Conosci già il testamento?»
«Ovviamente». Distolsi lo sguardo da lui per tornare nuovamente sull’avvocato, annuendo per farlo proseguire.
«Il restante cinquanta per cento va alla mia adorata Sara, ma c’è una condizione: Alexander e Sara potranno ricevere la loro parte a patto che si sposino e convivano per almeno un anno. Se dovesse esserci un rifiuto da una delle due parti, l’azienda di famiglia andrà a Darren e sarò lieto di offrire il denaro in beneficenza all’orfanotrofio di Bloom’s Street»
«Cosa?!», squittii, battendo le mani sulla scrivania e facendo saltare l’uomo dalla sedia per lo spavento.
«Non è possibile!», urlò Jeremy, scattando in piedi come una molla.
«C-così è scritto», farfugliò l’avvocato, sistemandosi gli occhiali mentre si allontanava leggermente aderendo con la schiena contro lo schienale.
«Originale nostro padre, non trovi?», ridacchiò, sedendosi sul bordo della scrivania accanto a me.
Sentii il sangue ribollirmi nelle vene e salirmi tutto su al cervello. Una parte di me urlava che era impossibile, che si erano organizzati per farmi uno scherzo idiota, che mio padre non poteva fare sul serio perché sapeva dell’ostilità tra me e Alexander. Un’altra parte però tentava di darsi spiegazioni, ipotizzava che proprio questa nostra ostilità non gli era mai piaciuta e che forse aveva imposto il matrimonio per unirci, per renderci come la famiglia che aveva sempre desiderato.
«Non può aver chiesto questo…», ringhiai insistente, guardando dritto negli occhi l’uomo come se fosse colpa sua se mi trovavo in questo disastro.
«Sei sulla buona strada, sanguisuga, come tua madre: ti fai sposare da un Wilson per poter mettere le mani sull’intera eredità e mandare in rovina la famiglia… quindi se pensi di manipolarmi per un anno a tuo piacimento, mi spiace ma non sono interessato», fece schietto, passandosi una mano trai suoi setosi capelli biondi. Stavolta gli mollo davvero un pugno. O magari anche due.
«Stai tranquillo, non toccherò neanche con un dito l’eredità perché non ti sposerei neanche morta», replicai testarda, serrando gli occhi in segno di sfida.
«Sicura? Scommetto che sotto sotto aspettavi solo un’occasione per farmi tuo», sussurrò malizioso, allungando due dita per sfiorarmi la mascella e alzarmi il mento per costringermi ad alzare lo sguardo e incrociare il suo.
«Ripeto: non ti sposerei neanche morta», insistetti. Gli afferrai il polso e lui lasciò che glielo spostassi. «Non m’interessano i soldi. Toglietemi dal registro di famiglia, per favore», dissi con tono sprezzante, sistemando la giacca con l’intenzione di andare via.
«Mi piacerebbe molto»
«Signorina, se non accetta di sposare Alexander perderà il cinquanta per cento dell’eredità… sono tanti soldi», ci tenne a precisare il signor McCall, strabuzzando gli occhi, forse perché conosceva la cifra e gli sembrava assurdo che potessi rinunciare per un capriccio.
«Chi sposa chi? Cosa mi sono perso?!». Ci voltammo tutti contemporaneamente per vedere da chi provenisse la voce e vedemmo Darren entrare spavaldamente in stanza.
Perfetto! Ci mancava solo lui.
Gettò un giubbino di pelle sulla poltrona accanto a Jeremy e si specchiò nella vetrina della cristalliera tentando di sistemarsi quei ciuffi sconvolti di capelli neri. Era un po’ la pecora nera della casa, l’unico ad avere una chioma così scura. Spesso Alexander blaterava che non era neanche figlio naturale di papà, che probabilmente era stato adottato. E forse era l’unica spiegazione razionale per motivare la sua diversità da Alexander e Jeremy.
«Cosa ci fai tu qui?», fece Alexander seccato, alzando gli occhi al cielo.
«Nostra sorella torna dopo tutti questi anni a casa e non le do il benvenuto?», sorrise sadico, puntando i suoi occhi neri su di me.
«Ciao, Darren», sussurrai a disagio mentre si avvicinava e mi afferrava per stringermi forte a sé. «Bentornata», mi sussurrò all’orecchio e mi accarezzò la schiena provocando un brivido lungo la spina dorsale.
«Sono… felice di rivederti», mormorai con un sorriso forzato. In realtà Darren mi aveva sempre messa un po’ in soggezione: era un tipo strano, misterioso, e mi dava l’impressione di uno psicopatico serial killer che amava affascinare le vittime con i suoi bei sorrisi. Fin dai miei primi ricordi di lui, della mia vita in questa casa, cercavo sempre di stargli alla larga: non avevo mai capito a che gioco giocasse quando tentava di sedurmi continuamente, quando mi accarezzava al posto sbagliato, quando non si curava del fatto che fossi sotto la doccia e iniziava a radersi costringendomi ad aspettare che finisse mentre ero avvolta nella tendina plastificata per coprirmi.
«Cos’è questa storia del matrimonio?», chiese interessato, aggrottando le sopracciglia mentre scrutava uno a uno i presenti nella stanza.
«Nulla che possa interessarti», tagliò corto Alexander.
«Sì, infatti, perché non sposo proprio nessuno», precisai, guardando sbieco il ragazzo.
«Papà nel testamento ha stabilito che per ereditare il denaro devono sposarsi», tagliò corto Jeremy disgustato.
«Ah, è questo allora… lo sapevo»
«Avevi già letto il testamento?», sussurrò Alexander furioso, guardandolo come se volesse incenerirlo.
Darren in tutta tranquillità andò a sedersi sul bracciolo della poltrona dove era seduto di nuovo Jeremy e sorrise furbamente.
«No, ma sapevo che l’avrebbe scritto…», accennò vago.
«E come diavolo-»
«Lascialo perdere, sta mentendo», m’interruppe Alexander, snobbandolo. Darren si limitò a sorridere, come se si stesse gustando la migliore delle opere teatrali.
«Quindi, Sara, non vuoi sposare Alex…», accennò vagamente il ragazzo.
«Certo che no», sbottai con una risatina nervosa.
«Perfetto! Allora niente matrimonio e festeggiamenti: se rifiuti di sposarlo, il diritto di ereditarietà passa a me», sorrise soddisfatto, facendo spallucce. Jeremy gli piantò una gomitata nel fianco mentre Alexander s’irrigidì di colpo ed io rimasi immobile a fissare il suo profilo.
Darren è un’irresponsabile, questo lo sanno anche le pietre. Lasciare nelle sue mani la direzione dell’intera Wilson Group significava far entrare sul serio la famiglia in crisi: mio padre aveva trascorso l’intera vita per rendere il Wilson Group quello che era oggi, ne era fiero, faceva continui progetti, e aveva pianificato di lasciare tutto ad Alexander perché era quello con il senso degli affari, quello responsabile, quello intelligente e brillante, quello persuasivo che lo faceva contrattare con le più importanti multinazionali europee e straniere. Alexander era davvero fiero del rispetto che suo padre nutriva nei suoi confronti e privarlo di questo sarebbe stato troppo.
Per quanto odi Alexander non posso permettere che accada questo… non posso permettere che tutti i sacrifici che papà ha fatto vadano in fumo.
«Infatti è per questo che Sara diventerà mia moglie», fece Alexander calcolatore. Alzai un sopracciglio.
«Come, scusa?»
«Solo un anno. Dopodiché chiederemo il divorzio e andrai dove vuoi. Preparati per il matrimonio, dolcezza», rise divertito della mia espressione sconvolta.
«Ma di cosa diamine parli?! Non voglio sposarti!»
«Non possiamo mandare migliaia di impiegati per strada… lo sappiamo entrambi che Darren non porterà a nulla di buono per l’agenzia: perché pensi che papà l’abbia affidata a me?», fece serio.
«Ehy, questo non è leale! Stai ricattando Sara perché ti ha rifiutato! Non è da te, fratello… non lo sai che il matrimonio richiede un consenso reciproco?»
«Sì, infatti Sara acconsentirà», replicò testardo Alexander, fronteggiandolo.
«Ne sei sicuro?», sussurrò il fratellastro, alzando un sopracciglio.
«Scommettiamo?», fece l’altro in tutta risposta.
«Scusate!», urlai, portandomi le mani ai fianchi, «la smettete di parlare come se non fossi presente?!», continuai isterica.
«Ascoltami, Sara…»
«Non m’interessa cos’hai da dirmi, Alexander»
«E’ per il bene di entrambi», precisò, fissandomi nella speranza che accettassi. Lo guardai esitante: che voleva dire per il bene di entrambi? A lui interessava soltanto ereditare l’impresa e non lasciare tutto nelle mani di Darren.
«Io… devo pensarci», farfugliai nervosa, dandogli le spalle per lasciare la stanza.
Richiusi la porta alle mie spalle e solo allora potei tirare un sospiro di sollievo.  Sì, certo, chiamiamolo “sollievo”…!
«Sara, immaginavo volessi restare per cui ti ho preparato una stanza»
«Grazie Agatha», mugolai mentre m’incamminavo verso quella che un tempo era stata la mia stanza. Mi tolsi il cappotto, lanciandolo sulla sedia, e mi fiondai sul letto affondando il viso nel cuscino.
Tutto questo era una pazzia, speravo ancora di potermi svegliare da quest’incubo. L’idea di sposare Alexander non riuscivo nemmeno a concepirla: era già abbastanza strano sposare uno che ero sempre stata costretta a chiamare “fratello”, figuriamoci poi se quel qualcuno è la persona che mi ha spezzato il cuore e cui ho giurato di farla pagare!
Alexander era completamente diverso da me e insieme eravamo del tutto sbagliati.
Eravamo come due colori bellissimi che insieme stonano.
Alexander ed io avevamo in comune solo una cosa: il cognome.



Angolo dell'autrice:
So che è un argomento scritto in tutte le salse ma spero che riusciate ad apprezzare questa mia versione della storia ^^
Per quanto riguarda questo capitolo, è un po' noiosetto ma erano necessarie spiegazioni e descrizioni e immagino anche che abbiate capito che le frasi in corsivo sono pensieri diretti della protagonista.
Per adesso può sembrarvi ancora molto confuso, ma con il tempo scoprirete man mano tutti i lati dei personaggi!
Mi scuso per eventuali errori, spero di ricevere vostri pareri, un bacione!

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Capitolo 3
*** Una firma per cambiare la storia ***


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Lo ricordavo come se fosse ieri quel giorno di tanti anni fa, quando fui accolta per la prima volta in questa casa…

Seduta sul bordo del letto della nuova camera, fissavo rapita i cerchi concentrici dipinti sul soffitto, facendo penzolare le gambe avanti e dietro, mentre mi arrivava all’orecchio la voce della domestica che ordinava al giardiniere di prendere il resto delle nostre valige.
Ero rimasta semplicemente a bocca aperta da tutto il lusso e lo sfarzo di quella casa così bella, ero felicissima di poter vivere finalmente anch’io in una vera e propria casa assieme al mio amato padrino.
Attraverso la finestra distinsi un’area circolare protetta da vetrate trasparenti e piante rampicanti e incuriosita decisi di vedere di cosa si trattasse: era una serra, piena di fiori e piane di ogni tipo, di libri di biologia e attrezzi da giardinaggio, di gabbie di canarini e barattoli di farfalle che svolazzavano energicamente al loro interno.
Con il viso spiaccicato contro il barattolo, guardai meravigliata le ali della farfalla dalle fantasie più strane e variopinte.
«Bella, vero?». Una voce mi fece sobbalzare e per poco il barattolo non cadde a terra andando in mille pezzi. Mi voltai e vidi un ragazzino alto e mingherlino venirmi incontro tutto sorridente.
«I-io non volevo…», accennai imbarazzata.
«Non preoccuparti, a papà non da fastidio», rispose reclinando il capo a destra e riservandomi un’occhiata innocente con i suoi immensi occhi azzurri.
«Queste sono tutte sue?»
«La mia preferita è proprio quella», sorrise puntando un dito contro la farfalla che stavo osservando.
«Sì, è proprio bella», mormorai affascinata, guardando l’insetto. «Poverina però»
«Perché dici così?»
«Una farfalla così bella che è costretta a restare chiusa qui dentro…», osservai dispiaciuta e lui tirò un sospiro, accennando una risatina divertita.
«Dici che dovrei liberarla?»
«Sì!»
«Perché? Finirebbe in un’altra gabbia… tanto vale che resti qui», fece spallucce, infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni chiari. Lo guardai con circospezione.
«Chi ti dice che sarà di nuovo catturata?», replicai accigliandomi.
«Uscendo da questa gabbia andrà incontro a un’altra, solo un po’ più grande… una gabbia che ci contiene tutti», sussurrò enigmatico, alzando il capo per volgere lo sguardo al cielo limpido.
«Non capisco», borbottai.
«Neanche noi siamo liberi fino in fondo, anche se crediamo di esserlo. Siamo tutti rinchiusi in una gabbia trasparente che dosa l’aria che respiriamo e quando decide che ne abbiamo avuto abbastanza ci priva di essa. E moriamo», continuò a spiegare, ma facevo fatica a stargli dietro e non riuscivo a comprendere il senso di quelle parole. «Lascia stare», aggiunse dopo con un sorriso, sistemandosi la giacca.
«Io sono Sara», mi presentai, allungando la mano.
«Alexander… benvenuta in famiglia», mi fece l’occhiolino e voltò le spalle per andare via. «Ah, se vuoi, puoi liberare quella farfalla».


Tutta quella cordialità mi aveva affascinata e Alexander sembrava il mio principe azzurro in ogni aspetto. Era gentile, galante, usava belle parole, si complimentava di continuo con me… non potevo mai immaginare che stesse indossando solo una maschera e recitando un copione, che in realtà stesse architettando un diabolico piano per convincermi ad abbandonare la casa.
Per tutto il tempo mi corteggiò, mi trattò da principessa ma mi rese contemporaneamente sua schiava: pendevo letteralmente dalle sue labbra e non badavo neanche minimamente alle attenzioni che mi riservavano Darren e Jeremy.
Tutta quella stima che nutrivo nei suoi confronti, quell’ammirazione segreta che mi rendeva la sua fan numero uno, si era trasformata rapidamente in amore e presto iniziai a passare le notti sveglie, sperando che arrivasse presto la mattina per poterlo rincontrare. E, cavolo, quanto ero stata felice quando aveva finto di ricambiare i miei sentimenti!

«Sarà il nostro segreto…».

La porta bussò ancora una volta ed io sobbalzai spaventata, guardandomi intorno: la camera era diventata scura e fuori il sole era calato già da un pezzo. Ero stanca dopo il viaggio da New York ma non avrei mai immaginato che mi sarei addormentata tranquillamente in una situazione così drastica.
Pensando a cosa, poi?
Mi tornò in mente l’immagine di Alexander che mi spingeva contro la parete della libreria, che mi sussurrava all’orecchio “sarà il nostro segreto” e trasalii. Perché cavolo dovevo sognare proprio quello?!
La porta bussò di nuovo.
«A-avanti!», urlai, mettendomi a sedere. La chioma scura di Darren fece capolino.
«Sei viva?», mi chiese preoccupato, entrando e richiudendosi la porta alle spalle.
«Credo di sì»
«Non ti ho sentita più uscire, temevo ti fossi buttata giù dalla finestra per darti alla fuga», fece ironico, indicando con un cenno la finestra dietro di me. Risi amaramente, portando le ginocchia al petto.
«Cambierebbe le cose?»
«Potrei aiutarti a cambiarle», sussurrò enigmatico, venendosi a sedere accanto a me. Mi tirai leggermente indietro per assicurarmi che i nostri corpi non venissero a contatto e lo guardai spaesata.
«Per qualche strano motivo non mi fido», feci sarcastica.
«Al tuo posto, mi fiderei»
«Avanti, sentiamo», sospirai accondiscende, tirando un sospiro. Volse lo sguardo verso la valigia che mi avevano portato in camera e che non avevo ancora disfatto. Forse perché speravo che non servisse a nulla e che domani sarei tornata a casa.
«Non hai ancora disfatto le valige?», mi chiese contrariato, allungando una mano per aprirla.
«Speravo che non ce ne sarebbe stato bisogno… ehi!», esclamai quando lui iniziò a tirare fuori le mie camice, allungando una mano per richiudere la valigia.
«Dovresti, perché il tuo soggiorno qui sarà abbastanza lungo», mi rispose divertito, dandomi le spalle per impedirmi di fermarlo. Estrasse con due dita le mie mutandine bianche e le fece girare con un dito come fosse un pallone da basket. «Mmh queste sono decisamente fuori moda», commentò divertito.
«Mettile via!», ringhiai rossa in volto, saltandogli letteralmente addosso per strappargli di mano la mia biancheria. Con un tonfo richiusi tutto nella valigia e la spinsi sotto il letto con un piede, voltandomi verso di lui per fulminarlo con lo sguardo.
Darren si passò una mano trai suoi capelli neri scompigliati e fece scioccare la lingua, poggiandosi sui gomiti e guardandomi dal basso.
«So che non ti va a genio di sposare Alexander… potresti prenderti comunque la tua parte se diventi mia»
«Che stai blaterando?», risi. Lui parve convinto e si girò prendendomi le mani con insistenza.
«Se non sposi Alexander perdi i tuoi soldi ma io ricevo la Wilson Group, che è anche meglio: è una vera e propria miniera d’oro. Sposa me, diventa mia moglie, e sarai ricca»
«Sei ubriaco, Darren?», sbottai indignata, sfilando le mie mani dalle sue.
«Faccio sul serio, cucciolo di Bambi», sussurrò. Rabbrividii alle sue parole e come un flashback rivissi quel momento in cui caddi e mi ferii e Darren mi medicò dicendo che ero debole e ingenua come un cucciolo. Da allora mi chiamava di continuo “cucciolo di Bambi” e più mi arrabbiavo più lo ripeteva. Avvertii le guance andare a fuoco.
«N-non chiamarmi così»
«Ma ti ho sempre chiamata così», ribatté con finta innocenza, sollevandomi il mento con due dita.
«E infatti non mi è mai piaciuto», replicai infastidita.
«Allora? Ti va di diventare mia moglie? Non devi fare granché, solo soddisfare i miei bisogni», sussurrò malizioso, avvicinandosi pericolosamente a me con il viso. Mi bloccò i polsi, costringendomi a sdraiarmi completamente sul letto e avvertii il calore del suo respiro su di me. Non provai nemmeno a liberarmi, le esperienze passate mi dicevano che Darren era molto più forte di me e sarebbe stato inutile opporre resistenza. E anche se l’avessi voluto, il mio cervello era momentaneamente a farsi una vacanza.
«Soddisfare i tuoi bisogni?», ripetei imbarazzata.
«Mmh mmh», mugolò, chinandosi su di me. Trattenni il fiato quando immerse il viso trai miei capelli ed iniziò ad annusarli profondamente.
«Non sono il tuo animaletto», replicai rigida come una mazza da biliardo.
«Certo che no, sei il mio cucciolo di Bambi», sorrise malizioso, sfiorandomi il braccio mentre mi solleticava il collo strusciandoci contro la punta del naso.
Darren stava semplicemente approfittando di questo momento di difficoltà per trovare un nuovo passatempo: era chiaro che voleva che diventassi il suo giocattolo. Mi chiesi quando si sarebbe stancato e ne avrebbe cercato un altro se all’improvviso diventassi accondiscende e facessi tutto quello che passava per la sua testa.
«Sognatelo», ringhiai alzandomi di scatto per sfuggirgli. Darren semplicemente lasciò che mi liberassi e che scappassi via da lui. Dopotutto, gli era sempre piaciuto darmela vinta per qualsiasi cosa.
«Ah, tra un po’ mi pregherai di salvarti…», ridacchiò prima che gli chiudessi la porta in faccia. Percorsi velocemente i corridoi nel timore che Darren potesse uscire e provare ancora a convincermi di sposarlo.
Ma cosa prende a tutti?! Sposare i miei fratellastri… sarebbe come buttarsi da sola la zappa sui piedi.
Come potevo sposare Alexander, l’uomo che mi aveva spezzato il cuore e che nutriva nei miei confronti un odio e rancore represso?
E come potevo invece diventare moglie di Darren, l’uomo più perverso di questo mondo, che mi faceva salire l’ansia e mi metteva in agitazione anche solo con uno sguardo?
No, non potevo sopravvivere per un anno ai loro capricci. Se ci fosse stato Jeremy al loro posto… avrei accettato subito. Passare un anno con lui sarebbe stato fantastico, ci volevamo un bene immenso.
Ma Alexander…
«Sara!». Mi voltai e vidi Agatha venirmi incontro con un sorriso forzato e l’espressione ansiosa in volto. «Tutto ok? Ho visto Darren uscire dalla tua camera e hai l’aria preoccupata». Le sue mani mi accarezzarono una guancia e mi sistemarono i capelli dietro l’orecchio.
«Sì, sì, non è per Darren», sospirai.
«Per il testamento, vero?». E anche stavolta Agatha aveva centrato in pieno la questione. Sentii le lacrime riempirmi gli occhi e un nodo alla gola che m’impediva di respirare. Le presi di scatto le mani, stringendole forte.
«Tu lo sai che Alexander mi odia! E lo sapeva benissimo anche nostro padre. Perché ci ha messo davanti a questa scelta?!», feci tutto d’un fiato. Agatha era l’unica persona che avrebbe potuto comprendermi, l’unica che conosceva fino in fondo Albert Wilson: chi meglio di lei poteva darmi spiegazioni?
«Sara, tesoro mio, non essere arrabbiata con tuo padre. Lui sapeva sempre qual era la cosa più giusta da fare… se ha voluto così deve esserci un motivo», sussurrò sorridendomi speranzosa.
«Non vedo motivo per cui io debba subire le angherie di Alexander per un anno», feci disgustata.
«Il suo disprezzo nei tuoi confronti è simile a quello che nutri tu per lui. Forse se impari a volergli bene ricambierà anche lui-»
«No», tagliai corto prima che potesse finire con qualcosa di carino nei confronti di Alexander. «Non ricambierà. Ed io lo odio troppo per potergli voler bene», aggiunsi.
Era già passato il tempo in cui speravo di essere ricambiata con la stessa moneta, in cui gli riservavo mille attenzioni fiduciosa di riceverne almeno la metà.
Era passato quel tempo in cui non volevo chiedermi perché Alexander tutto d’un tratto fosse diventato così freddo, quel tempo in cui addirittura lo giustificavo per le volte che mi trattava male.
E ricordavo come se fosse ieri le parole di mia madre, di quella donna così saggia, dell’unica persona che con uno sguardo leggeva tutti i miei pensieri: “Mai aggrapparsi a una persona come a un’ancora: l’ancora trascina giù e affoga.”
Ed io, nel mare di Alexander, ero già annegata troppe volte.
«Tuo padre ci ha sperato davvero…», sospirò Agatha pensierosa.
«Ed è per questo che accetterò: sarò sua moglie per un anno solo per la Wilson Group, solo per papà»
«Ti sei sempre sacrificata per gli altri, Sara, sei da apprezzare e imitare», sorrise lei con lo sguardo ammirante.
«Glielo devo. Gli sono debitrice per averci salvate dal nostro disastro e reso la nostra vita migliore», ricambiai decisa, voltandomi poi per entrare lentamente nello studio.
Mi aspettavo di trovare ancora il signor McCall ma evidentemente era andato via. Alexander invece era in piedi davanti alla finestra con il volto verso la luce che filtrava da essa e mi dava le spalle, tenendo tra le mani tremanti un foglio che stava leggendo.
Non si era accorto di me e per un attimo pensai di lasciarlo di nuovo solo.
Alexander sembra perso nei suoi pensieri. Sono ore che mi tormento come se fossi la martire della situazione ma probabilmente, anche se lui non vuole darlo a vedere, si sente esattamente come me.
Alexander è disgustato da me e invece è costretto a sposarmi perché anche lui, proprio come me, vuole farlo per nostro padre.

«Hai intenzione di restare a fissarmi ancora per molto?». Trasalii, incrociando il suo sguardo attraverso il riflesso del vetro.
«Ero venuta a parlarti», farfugliai nervosa, accennando qualche passo in avanti fino al centro della stanza. Lui piegò tra le mani il foglio, mettendoselo in tasca, e si girò verso di me.
«Hai riflettuto?»
«Sì»
«Bene. Allora dammi la risposta giusta». Sostenni per diversi secondi il suo sguardo gelido e impenetrabile prima di abbassare il capo e racimolare le parole che avevo prima in mente.
«Devo resistere solo un anno…», mormorai con un filo di voce.
«Esatto»
«Ti sposerò, Alexander», dissi d’un fiato prima di poter cambiare idea. La mia voce tremolante e per niente sicura parve echeggiare nella stanza prima di arrivare alle orecchie di Alexander. Lui rimase indifferente, forse perché si aspettava già una risposta del genere. E infatti sulle sue labbra si dipinse solo un sorrisetto compiaciuto.
«Come mi aspettavo», commentò acidamente. Avanzai ancora qualche passo cercando di conservare sempre una certa distanza tra di noi.
«Lo faccio solo perché non voglio che l’azienda fallisca», precisai, osservando il suo sorriso farsi sempre più accentuato e ironico.
«Ah, quindi non perché ti toccherà metà del patrimonio?», mi punzecchiò.
«Vuoi capirlo che non m’interessano i vostri soldi?!»
«Certo, certo…», commentò annoiato perché tante volte gli avevo urlato contro queste parole. Si avvicinò alla scrivania e aprì un cassetto, iniziando a frugarci dentro prima di trovare una cartellina. «Tra le condizioni nostro padre ha voluto anche che organizzassimo una cerimonia ufficiale perché tutti possano credere che ci siamo sposati per amore», fece d’un tratto.
«Perfetto. Dovremmo anche recitare la parte della coppietta felice», feci sarcastica, alzando gli occhi al cielo. Fece il giro del tavolo per venirmi accanto e porgermi il foglio che doveva essere il contratto irrevocabile da firmare. Il suo dito era appoggiato sullo spazio che doveva contenere la mia firma.
«Per un piccolo istante avevo sperato persino che tu rifiutassi, che il tuo odio nei miei confronti fosse sufficiente a farti mollare...». Lessi di sfuggita le condizioni e afferrai la penna, pronta a firmare. «Ma sei una sanguisuga e ci tieni così tanto a mettere le tue luride mani sul patrimonio, a farmi cadere in rovina…», sussurrò sprezzante al mio orecchio, così vicino da farmi avvertire il calore del suo alito.
Non lo stare a sentire. Non lasciare che le sue parole ti facciano male. Lui è cattivo, è superbo, è debole perché è capace di provare un odio così ripugnante.
Alexander nell’ultimo anno, dopo essersi rivelato per quello che era veramente e prima che potessi andare via, aveva continuato a insultare me e mia madre, accusandoci di essere delle sanguisughe che stavano prosciugando papà solo per avere i suoi soldi. Essere considerata un’opportunista mi dava sui nervi.
La mano mi tremò e avvertii le lacrime velarmi gli occhi. Dannazione! Non permetterò che abbia la soddisfazione di vedermi piangere.
«Forse è vero. Forse ti odio così tanto da volerti vedere cadere in rovina», ringhiai rabbiosa.
Avrei sposato Alexander e l’avrei fatto pentire di tutto quello che aveva fatto, di tutti gli insulti e le cattive maniere. Gli avrei fatto capire che i suoi soldi mi facevano schifo, che era lui a farmi schifo. Quant’è vero che mi chiamo Sara Wilson.
Firmai rapidamente e Alexander mi strappò subito la penna dalla mano.
«Il tuo odio mi rende invincibile», fece compiaciuto, facendo scorrere con decisione l’inchiostro sulla carta.
«Va all’inferno»
«Credo di esserci già», borbottò squadrandomi sprezzante, lanciando sgarbatamente la penna sulla scrivania prima di lasciarmi sola nella stanza.
Guardai china sulla scrivania il contratto: accanto alla mia firma ora c’era anche quella di Alexander il che, in un certo senso, mi rendeva già sua moglie anche se non c’era ancora nessuna cerimonia ufficiale.
La porta si aprì di colpo, facendomi sobbalzare, e Jeremy entrò furioso.
«Dimmi che non fai sul serio!»
«Jeremy», sussurrai sorpresa mentre lui mi prendeva per mano e mi stringeva violentemente.
«Non puoi farlo, Sara, non sposare Alexander. Lui aspetta solo questo, cerca solo un’occasione per farti crollare», sussurrò lui con gli occhi lucidi. La stretta aumentò fino a quando non sentii le ossa quasi stritolarsi e allo stesso modo anche il mio stomaco si strinse in una morsa tenace.
«Ho già firmato il contratto. Siamo disposti entrambi ad accettare solo per il bene della società. Si tratta di puro lavoro», sussurrai intimorita, evitando di guardarlo negli occhi.
«Ma sarai sua moglie!», urlò aumentando la stretta.
«Mi fai male così», sussurrai chinando il capo, stringendo la maglia nel mio pugno libero. Sentii una lacrima scendere giù per la guancia e non riuscii a trattenermi. Mi sentivo così in colpa, mi dispiaceva così tanto per Jeremy. E mi sentivo anche così stanca, pur essendo passata soltanto mezza giornata.  Non voglio che lui si preoccupi per me, ha già subito abbastanza per colpa mia: sempre lì ad aiutarmi, a difendermi, a scontrarsi con i suoi fratelli anche se è più piccolo di me.
«Scusami», mormorò lui mortificato, lasciando la presa e guardandomi spiazzato per la mia reazione involontaria. «Non volevo farti male, non piangere ti prego»
«Non sto piangendo», borbottai senza trovare il coraggio di alzare lo sguardo e incrociare i suoi occhi così trasparenti e sinceri. Le sue braccia mi circondarono per abbracciarmi. «Credimi, mi costa tantissimo sposarlo, ma sai cosa succede se rifiuto…»
«La Wilson Group fallirà tra le mani di Darren», concluse con un sospiro. «Ok… però promettimi che se dovesse fare lo stronzo con te, mi chiamerai subito. Io per te ci sarò sempre, Sara», mi disse con decisione. Sorrisi, staccandomi da lui per ringraziarlo con lo sguardo.
«Alexander è sempre stronzo», gli feci notare sarcastica prima che potessimo ridere malinconicamente.
«La smettete di parlare di me? Iniziano a fischiarmi fastidiosamente le orecchie!», urlò Alexander dall’altra stanza.




Angolo dell'autrice: scusate se mi sono assentata in questi giorni ma ho avuto parecchi impegni con la scuola... ora però sono tornata alla carica!! xD
Nonostante qualche flashback, ancora non si sa precisamente perché Alexander e Sara si odiano così tanto: principalmente è perché Alexander crede che Sara voglia soltanto mettere le mani sui soldi e lei invece ha annunciato più volte che Alexander le ha spezzato il cuore... non si preoccupate se è ancora un po' confuso, lo faccio intenzionalmente ^^'
Avete anche avuto modo di conoscere un po' meglio Darren, anche se resta ancora una figura un po' avvolta nel mistero xD E infine.. beh, l'abbiamo visto tutti che il contratto è stato firmato. Ma davvero questo matrimonio riuscirà a tenersi?

 

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Capitolo 4
*** Un matrimonio per finta ***


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«A quando il grande evento?», chiese Darren divertito, poggiato con la schiena contro la parete mentre si accendeva una sigaretta. Alexander, nel passargli davanti, gliela strappò da bocca e la gettò nel posacenere, spiaccicandola con stizza.
«Dov’è che dobbiamo firmare ancora?», fece poi rivolto al signor McCall che era venuto a trovarci nella mattinata per avere informazioni sulla nostra decisione.
«Ci sono alcune formalità da rispettare», farfugliò l’uomo, iniziando a parlottare con Alexander.
«Perché? Vuoi fare la damigella d’onore?», sbottai ironica rivolta ancora a Darren, lanciandogli un’occhiataccia.
«Per carità!», esclamò, alzando le mani in segno di arresa, «voglio godermi lo spettacolo in prima fila»
«Domani va bene?», ci interruppe Alexander. Mi voltai di scatto verso di lui e lo osservai chino con le mani sulla scrivania accanto all’avvocato, con il capo sollevato per guardarmi e un ciuffo di capelli biondi che ci oscurava una parte del viso.
«D-domani?», ripetei terrorizzata, avvertendo una morsa stringermi lo stomaco.
Questo è quello che la mia migliore amica avrebbe chiamato opportunamente panico.
«Più presto ci sposiamo, più presto passerà l’anno», tagliò corto Alexander, firmando un foglio. Agatha entrò quatta quatta per servirci un caffè e Alexander la scrutò diversi istanti. «Agatha, ci pensi tu a organizzare? Basta mandare un invito alla famiglia e gli amici di papà, gli indirizzi sono tutti sul registro nel suo studio»
«Li devo invitare tutti?»
«Quanti ne sono? Duecento?»
«Trecento e passa, signore»
«Va benissimo», annuì indaffarato, facendomi cenno di avvicinarmi per firmare. Stavo firmando da sola la mia condanna a morte.
«Benissimo», ripetei sarcastica tra me e me.
«Già... in realtà non poteva andare peggio», commentò guardandomi con disprezzo.

Il giorno dopo…

Qualcuno bussò alla porta e Agatha fece capolino sorridendomi.
«Buongiorno, Sara. Posso entrare?»
«Certo», annuii, facendole cenno di entrare in camera mentre mi ricomponevo sul letto.
«Come stai? Ti sei rinchiusa in stanza per tutto il tempo…», mi chiese preoccupata, venendomi vicino con una grossa scatola tra le mani che catturò la mia attenzione.
Mi portai le ginocchia al petto, tirando un sospiro profondo, ancora assonnata. In realtà con il pensiero che stavo per sposarmi non ero riuscita a chiudere occhio.
«Avevo solo bisogno di riflettere… ma cos’è quella?»
«Lo manda il signorino Alexander», si limitò a dire, poggiandolo sul letto accanto a me. «Chiamami se hai bisogno di qualcosa», aggiunse in un sussurro prima di andare via.
Restai a fissare la grossa scatola panna senza muovermi di un millimetro, fissandola come se fosse qualcosa di pericoloso. Un po’ come il cerbiatto che guarda la canna del fucile del cacciatore… Mi venne in mente Darren e scossi subito il capo per scacciare il pensiero. No, niente cerbiatti!
Il contenuto della scatola potevo già immaginarlo e una parte di me mi suggeriva di nasconderla e fingere di non saperne nulla. Ma invece la aprii e, come mi aspettavo, tra la carta sottile era avvolto un lungo abito da sposa. Era un bellissimo abito merlettato, portava dei corallini sul corpetto e una gonna vaporosa fatta di fiori ricamati. E’ bellissimo… impossibile che l’abbia scelto lui.
L’idea che avrei dovuto indossarlo per sposare Alexander mi fece venire una fitta allo stomaco per l’agitazione. Era un pensiero così inverosimile che ancora mi sembrava un brutto sogno: non riuscivo a pensarlo come qualcosa di reale, non riuscivo a credere che davvero avevo firmato per essere sua moglie.
Mi specchiai attraverso il riflesso della finestra: mai e poi mai avrei immaginato di sposarmi così presto. Ma soprattutto, io che ero un’estrema romantica, non avrei mai immaginato di sposare qualcuno contro la mia volontà, solo per affari.
Era quindi questo il matrimonio della mia vita? Niente proposta con l’anello, niente migliore amica che mi consigliava il vestito, niente sposo con cui avrei voluto condividere il resto dei miei giorni?
Una lacrima bagnò il vestito e lo indossai nervosamente. Sì, era questo, dovevo sposarmi così.
Andai in cucina per prendere un bicchiere d’acqua e osservai Alexander seduto sulla poltrona che sfogliava un giornale mentre il caffè si raffreddava sul tavolino. A piccoli passi gli passai davanti senza rivolgergli la parola e mi versai un po’ di acqua dalla bottiglia nella speranza che la gola non fosse più così secca e amara.
«Stai andando in chiesa?», mi chiese Alexander e quando mi voltai mi accorsi che mi stava scrutando attentamente da sopra i fogli.
«Sì... tu non vieni?», borbottai, osservandolo ancora con la vestaglia e le pantofole.
«Ti raggiungerò dopo…», farfugliò indifferente, sorseggiando il caffè. Rimasi immobile a fissarlo. Per qualche strano motivo io ero stata costretta ad alzarmi alle sei e lui invece era comodamente seduto in poltrona a leggere il giornale!
«Hai scelto tu l’abito?», gli chiesi all’improvviso e lui si limitò a voltare pagina del giornale.
«Ti pare che mi metto a perdere tempo con queste stronzate?». Per qualche strano motivo ci rimasi un po’ male. Sapevo che Alexander non si sarebbe messo di certo a scegliere il bouquet ma quando Agatha mi aveva detto che la scatola mi era stata mandata da lui avevo provato una certa meraviglia, ero stata quasi costretta a ricredermi. E invece doveva aver incaricato una delle domestiche di comprarmi un vestito qualsiasi. Cosa ti aspettavi, Sara? Stiamo parlando di Alexander! E cosa sarebbe cambiato poi se il vestito l’avesse scelto lui? .«Che ci fai ancora lì? Sbrigati!», aggiunse irritato facendomi un cenno con la mano.
«Sì, sì, non c’è bisogno che me lo dici!», esclamai infastidita, alzandomi con fatica la gonna dell’abito. «Era proprio necessario indossare questo ridicolo abito?!»
«Tutte le donne si sposano così»
«Il nostro matrimonio è diverso», replicai corrucciata.
«Deve sembrare uguale agli altri, agli occhi degli invitati», tagliò corto guardandomi intensamente negli occhi. Tirai un sospiro e abbassai il capo, lasciando la cucina per tornare in camera e indossare il velo.
Certo, tra le condizioni del contratto che avevamo firmato, nostro padre voleva che gli altri credessero che fosse tutto reale, che il nostro matrimonio fosse frutto del nostro amore, ma non sapevo proprio come fare a fingere di amare Alex. Papà avrebbe dovuto chiedermi tutto, tranne questo.
«Quant’è caruccia la mia cognatina!», esclamò Darren ridacchiando, non appena mi incrociò nel corridoio.
«Grazie», tagliai corto, scostandomi per cercare di sorpassarlo e raggiungere la mia camera.
«Ehi, non devi essere di cattivo umore»
«Oh, non lo sono fidati, è solo un po’ di stress. Levati di torno prima che possa iniziare a sfogarmi su di te», sorrisi con finta gentilezza. Provai ad avanzare ma trovai nuovamente la resistenza del suo petto liscio.
«Mmh, torturami pure tesoro», sussurrò malizioso. Il mio cuore perse un battito e le guance diventarono rosse di botto.
«Farò tardi alla funzione», replicai deviando il suo sguardo. Lui mi prese un braccio.
«Puoi venire con me?»
«Non è il momento giusto»
«Dai, te lo sto chiedendo con gentilezza… non farmi essere rude», sorrise maligno.
«D-devo andare», farfugliai imbarazzata, avvertendo il sangue ribollirmi letteralmente nelle vene. Lui si scostò e tirai un sospiro di sollievo quando mossi il primo passo.
Sentii però le sue mani afferrarmi la vita e sollevarmi di peso fino a trascinarmi dentro la mia camera.
«Ehi!», urlai, osservandolo sorpresa quando chiuse a chiave la porta. «Cosa stai facendo?»
«Chiudo a chiave», fece con naturalezza, infilandosi la chiave in tasca. I suoi occhi azzurri brillarono di una scintilla quasi diabolica. Cosa diavolo vuole fare adesso?!
«Farò tardi al matrimonio, Alexander mi ammazza!»
«Di quale matrimonio stai parlando?», sussurrò lui e mi parve spaesato. Ammutolii di colpo, guardandolo sorpresa. Okay, mi stava confondendo…
«Quello mio… e di Alex», farfugliai incerta.
«Non c’è nessun matrimonio, è stato cancellato!», esclamò ridendo, prima di accennare un passo verso di me.
«Che vuol dire?!»
«La sposa è scomparsa… a quanto pare non voleva sposarsi. Povero Alex, abbandonato sull’altare», sospirò con una finta espressione delusa e triste, scuotendo il capo.
«Smettila di scherzare e lasciami andare!»
«Non sto scherzando, tesoro. Credi davvero che io lasci che vi sposiate?», rise amaramente accarezzandomi poi la guancia con il dorso della mano. Mi scostai da lui.
«Ma…»
«Se vi sposate perdo tutto! E poi la sposa è scomparsa… il matrimonio non si può fare»
«Ah sì? E cosa farai dopo che tutti mi daranno per “scomparsa”? Mi fai a pezzettini?», feci sarcastica, incrociando indispettita le braccia al petto. Lui aggrottò la fronte e storse il naso.
«Mmh… potrei tenerti richiusa nella mia stanza per tutto il resto della vita… come mia schiava, ad esempio». La sua espressione divertita mi dava qualche speranza che stesse solo scherzando, ma conoscendo Darren sapevo che non era così, sapevo che se avessi accettato avrebbe fatto davvero quello che diceva. È completamente pazzo.
«Sei molto divertente Darren, davvero, ora però apri questa cazzo di porta», sbottai, correndo verso la porta. Lui mi afferrò al volo, impedendomi di compiere un altro passo, e mi fece prendere una storta. Se non fosse che mi aveva circondato con le sue braccia sarei caduta col muso a terra. Mi spiaccicò contro la porta, abbracciandomi da dietro e sentii la pressione del suo petto contro la schiena.
«Mi piace la tua aria da ribelle… dovrò insegnarti a obbedire», farfugliò come se fosse sovrappensiero, ed io sussultai, avvertendo il suo fiato sul collo. Cercai di liberare ma il piede mi faceva male e mugolai dal dolore, forzando invano la maniglia in ottone.
«Lasciami andare», mugolai.
«Non posso», sussurrò lui, sfiorandomi la nuca con le labbra. «Non dovresti neanche indossare l’abito bianco, lo sai?», aggiunse. Tentai di liberarmi ma a ogni mio gesto lui aumentava la stretta e mi costringeva a restarmene obbediente tra le sue braccia, costretta a lasciare che mi baciasse la spalla.
«Perché?»
«Il bianco è simbolo di purezza, tu ti sei fatta già sverginare da Alexander tempo fa», mi sussurrò all’orecchio. Il battito del mio cuore accelerò di colpo e sentii le guance diventare nuovamente rosse. Iniziava a fare veramente caldo qui dentro.
«T-tu che ne sai?», balbettai nervosa.
Nessuno sapeva dell’episodio in biblioteca: avevamo promesso di non aprire bocca, Alexander mi aveva sussurrato all’orecchio che sarebbe stato per sempre il nostro segreto… come diavolo faceva a saperlo Darren?!
«Sei come un libro aperto per me, non ci provare a nascondermi una cosa del genere», rise, allungando una mano per palparmi il sedere.
«Non toccarmi o mi metto a urlare!». Nello stesso tempo in cui lo dicevo, non mi accorsi che stavo già urlando.
«Sara, sei tu?». Una voce ci colse di sorpresa, facendoci sobbalzare.
«Alex!», urlai, prima che Darren potesse tapparmi bruscamente la bocca con la sua grossa mano, soffocandomi. Mi costrinse a voltarmi e mi fece adagiare delicatamente alla parete, portandosi un dito alla bocca per mimarmi di fare silenzio.
«Sei qui dentro?», chiese Alexander da fuori e il mio sguardo scivolò sotto la porta dove si intravedeva l’ombra dei suoi piedi. Darren mi lasciò libera la bocca, facendomi cenno di rispondere un sì.
«Sì», feci insicura.
«Stai facendo tardi, vieni fuori!», lo sentii dire spazientito.
«Non… posso…», mugolai cauta, osservando Darren disorientata come a volergli chiedere cosa dovessi fare.
«E’ un ordine, Sara», urlò lui. Feci per allungare la mano verso la porta ma Darren mi afferrò nuovamente per il polso con violenza.
«Mi fai male!», lo ammonii sottovoce, guardandolo in cagnesco.
«Chi c’è con te?», mi chiese subito Alexander dall’altra parte.
«Che cavolo», sbuffò Darren, alzando gli occhi al cielo.
«Nasconditi», sussurrai e lui si guardò attorno per cercare un nascondiglio adatto. Gli indicai il letto e lui mi guardò in malo modo.
«Aspetta!», urlai poi rivolta ad Alexander mentre stavo già spingendo Darren a nascondersi sotto il letto.
«Okay, spostati, sto per aprire la porta!».
Alexander era sempre stato un mix tra pacatezza e tranquillità ma improvvisamente era diventato irritabile come un fumatore senza accendino: sfondò la porta con un solo brusco colpo e mi trovò ancora spiaccicata alla parete con lo sguardo disorientato da topolino in trappola.
Si era vestito anche lui, indossando uno smoking nero che lo rendeva veramente sexy. Avrei potuto odiare Alexander in tutte le mie vite e reincarnazioni ma non avrei mai potuto negare che fosse incredibilmente bello.
«Stai avendo ripensamenti?», borbottò incrociando le braccia al petto. Forse era nervoso perché aveva paura che lo lasciassi di punto in bianco.
«Per chi mi hai preso?!»
«E allora muoviti», si affrettò a dire, voltandosi per lasciare la stanza. Mossi un passo ma mi uscì dalle labbra un grugnito, accasciandomi sul letto accanto alla parete. Il piede mi faceva un male cane e non riuscivo a poggiarlo a terra. «Cosa c’è ora?»
«Ho preso una storta, non riesco a camminare», mugolai facendo una smorfia di dolore. Alexander alzò gli occhi al cielo e mi guardò come se volesse uccidermi, poi mi venne vicino e si chinò su di me, prendendomi tra le sue braccia come se fossi una piuma.
«Che stai facendo?!», urlai dimenandomi per scappare via ma lui mi tenne saldamente, stringendomi al suo petto.
«Non ho intenzione di far saltare il matrimonio, Sara. Ti porterò in chiesa anche a costo di andare a piedi con te sulle spalle», fece deciso, avviandosi verso la porta. Il profumo inebriante del suo dopobarba non mi lasciò altra scelta che starmene lì tra le sue braccia forti. Alzai il capo per guardare i lineamenti del suo mento e le mascelle leggermente sporgenti. Sentii il cuore andare talmente forte da farmi venire la nausea e un’improvvisa voglia di andare via, chiudermi in camera e piangere sul cuscino. Farmi toccare di nuovo da Alexander, essere così stretta a lui, mi faceva strano, era una sensazione che non mi piaceva più come una volta, era come un fastidioso solletico, un insetto che ti camminava addosso. Avrei volentieri evitato questa situazione di puro imbarazzo.
«Forse posso camminare da sola», mugolai a disagio ma lui m’ignorò, rivolgendo uno sguardo verso il letto dove avevo fatto nascondere Darren.
«Ah, Darren, Sara diventerà mia moglie quindi lasciala in pace… per un anno», aggiunse presuntuosamente, prima di uscire dalla stanza e portarmi in auto. Non c’era bisogno di pensare molto per capire che stava solo proteggendo la sua eredità: se Darren fosse riuscito a farmi cambiare idea, a farmi chiedere il divorzio prima della fine dell’anno… veniva meno la prima condizione imposta da papà, il che andava evitato.
Mi portò con sé fino all’auto e si mise accanto a me. Jeremy, sul sediolino anteriore, mi guardò sorridendomi.
«Sei bellissima», mi fece ed io sorrisi imbarazzata. Furono i momenti più lunghi della mia vita.
Stavo per sposare l’uomo che un tempo avevo amato… eppure non riuscivo a esserne felice.
L’auto ci fermò davanti alla chiesa e Alexander, dopo essere sceso per primo, si voltò indietro per guardarmi.
«Ce la fai a camminare?», mi chiese ed io annuii fingendomi convinta, cercando di evitare di fare strane facce quando misi il piede a terra. «Ti porto io», aggiunse, accorgendosi che non andava così bene come volevo mostrare.
«No», tagliai corto, allontanando le sue mani con un braccio. «E’ troppo imbarazzante, ce la faccio»
«Come vuoi», si limitò a dire, entrando in chiesa. Di certo non mi avrebbe pregato, si stava solo sforzando di essere gentile (e chissà perché poi!) quando invece non gli fregava niente di me. Non mi aveva chiesto come stavo, dopotutto, perché avrebbe dovuto cercare di far star bene il mio piede?
Jeremy, che mi avrebbe dovuto accompagnare all’altare, mi porse il braccio galantemente dopo che ebbi sistemato dinanzi agli occhi il velo.
«Sei sicura, Sara? Sei ancora in tempo per…»
«So quello che faccio», tagliai corto con decisione, «andiamo?». Lui annuì e mi baciò la fronte in segno di conforto, lasciando poi che mi aggrappassi letteralmente al suo braccio per salire i pochi gradini che portavano all’entrata, stringendo i denti per il dolore.
La marcia nuziale partì in sottofondo e trecento paia di occhi furono subito su noi due. Guardai fissa dinanzi a me Alexander che, con l’espressione seria e le mani intrecciate in avanti, se ne stava immobile ad aspettarmi. Non ebbi il coraggio di incrociare lo sguardo di nessun invitato, con la paura che solo guardandomi negli occhi avrebbero capito che non era quello che volevo. In un certo senso mi sentivo protetta dal velo sottile che creava una barriera tra me, fragile e insicura, e il mondo al quale avrei dovuto fingermi forte.
Jeremy mi sorrise flebilmente e lasciò la mia presa per affidarmi ad Alexander, il quale mi tolse il velo e mi baciò con freddezza la fronte. Fece cenno al sacerdote il quale, schiaritosi la voce, iniziò a parlare.
«Cari fratelli, siamo qui riuniti in questo Santo giorno per festeggiare il matrimonio di questi giovani innamorati: Alexander e Sara», annunciò sorridendo prima di iniziare a elogiare il sentimento dell’amore ed io mi trattenni dal emettere un sospiro. Ascoltammo distrattamente le parole di quell’uomo che in realtà non importavano a nessuno dei due e quando venne il momento di pronunciare le “parole magiche”, il sì risoluto di Alexander fu seguito dal mio sì insicuro e timoroso.
«Lo sposo può baciare la sposa», fece il sacerdote sorridente. Sbiancai di colpo e Alexander, dal modo in cui sorrideva, se n’era accorto.  Lo guardai titubante, scuotendo impercettibilmente il capo, pregandolo telepaticamente di non farlo.
«Non credere che non mi faccia ribrezzo baciare una sanguisuga come te. Ma dobbiamo farlo», mi fece notare, facendo cenno dietro di noi. Dopotutto, trecento invitati alle nostre spalle si aspettavano che ci baciassimo appassionatamente, felici di essere legati per sempre.
Ignorai le sue parole cariche di odio e chiusi gli occhi rassegnata, in attesa che Alexander mi baciasse. E sentii subito la morbidezza delle sue labbra accarezzare le mie, fu come tornare indietro nel tempo a quella volta in biblioteca, in giardino, in camera mia, quei baci rubati di notte, quelli che mi aveva chiesto quando aveva la febbre, quelli che gli avevo sempre concesso. E l’idea di star baciando l’uomo che aveva distrutto tutto questo mi faceva venir voglia di spaccare tutto.
Anche le labbra di Alexander erano tese, si limitavano a toccare le mie senza baciarmi veramente. Anche lui si stava sentendo costretto, anche lui non voleva veramente quel bacio… tanto da lontano nessuno poteva sapere se fosse vero o meno.
«Vi dichiaro marito e moglie», esordì l’uomo quando Alexander si staccò da me e lo guardò negli occhi. Si sollevò un applauso e quando ci voltammo abbozzai un sorriso falso dinanzi agli invitati, sperando che finisse tutto in fretta. Percorremmo lentamente la navata, sotto gli occhi compiaciuti di chi sussurrava un “che bella coppia!” o un sospettoso “com’è possibile che si siano sposati?!”.
Ora ero per tutti la signora Wilson, moglie di Alexander Wilson il quindici marzo duemilaquattordici.
Tra un anno esatto riavrò la mia libertà.
 

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Capitolo 5
*** Primo giorno di convivenza ***


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«Tanto non ci riesci!», esclamò Alexander ridendo, chinando il capo all’indietro.
«Smettila di prendermi in giro!»; sbottai dandogli una piccola spinta. Barcollò e poggiò gli avambracci sull’erba, fissandomi dal basso.
«Sei tu ad essere un fenomeno da baraccone»
«Vuoi scommettere che ci riesco?», sussurrai in tono di sfida e sul suo volto si dipinse il sorriso di chi la sapeva lunga.
«Se riesci a farlo saltare almeno tre volte, ti sposo». Allungò una mano in attesa di una mia risposta.
«Prepara le fedi», feci dignitosamente, stringendogliela.
Mi alzai dal prato per muovere qualche passo verso il lago e, arrivata sulla sponda, mi voltai verso di lui che con interesse si era messo a sedere e mi fissava curioso. Afferrai un sasso e gli diedi le spalle.
Ero consapevole del fatto che eravamo solo dei ragazzini e che stava scherzando ma al solo pensiero di sposarlo, solo con l’immaginare di vestire di bianco e percorrere la navata di una chiesa per andare da lui, riuscii a fare il lancio migliore del mondo: esattamente tre rimbalzi sull’acqua.
Esultai, iniziando a saltellare come una bambina, voltandomi vittoriosa verso Alexander che mi sorrideva divertito.
«Ok, hai vinto la scommessa», sospirò paziente. Si alzò, si pulì i pantaloni d’erba e mi vene vicino. Si inginocchiò davanti a me e strappò alcuni fili d’erba, iniziando ad intrecciarli a forma ovale.
«Sara Wilson»
«Si?», feci ridendo. Alexander mi prese la mano ed io lo vidi sorridere, con gli occhi che sprizzavano felicità, la pelle accarezzata dal sole del primo pomeriggio. Mi infilò al dito quell’anellino fatto d’erba. «Mi vuoi sposare?». Era tutto un gioco eppure il cuore mi batteva a mille. Ma io gli avrei risposto per tutta la vita allo stesso modo, con o senza scherzo.
«A questo punto dovresti dire qualcosa», aggiunse sottovoce come se mi stesse suggerendo.
«Beh, ci stavo pensando…», feci altezzosa, distogliendo lo sguardo.
«Eh no, signorina!», esclamò lui alzandosi di botto. «Non mi piacciono i no», aggiunse. Cacciai un urlo quando mi sollevò da terra e iniziò a farmi volteggiare, dirigendosi poi verso l’acqua.
«Alex!», urlai allarmata, dimenandomi fino a quando finimmo per cadere sull’erba. Mi trovai distesa sull’erba con il petto di Alexander che mi schiacciava il seno. I suoi ciuffi biondi mi solleticavano la fronte, il suo respiro affannato mi eccitava.
«Un giorno ti sposerò davvero».  Ebbi l’impressioni di non aver mai sentito una promessa più dolce, più vera, più sentita di quella, una di quelle promesse per le quali avrei fatto tutto per assicurarmi che l’avrebbero mantenuta.


La promessa l’aveva mantenuta davvero: di Alexander si poteva dire tutto tranne che non fosse di parola.
Era successo veramente. L’anello di fili d’erba si era trasformato in un cerchio d’oro e ora eravamo davanti alla porta della nostra casa. Avrei voluto fare a meno di ricordare quell’episodio al lago ma guardando Alexander non c’era un singolo istante in cui non salissero a galla tutti i ricordi. L’unica soluzione era prendere una bella botta in testa e scordarmi anche il mio nome e non era un granché come piano B.
«Vuoi restare lì fuori tutta la notte?». La sua voce seccata mi fece sussultare e quando alzai il capo per guardarlo lui era già dentro e teneva la porta aperta per farmi entrare.
«Preferirei», mormorai tra me e me anche se sapevo che mi aveva sentita. Mi strappai dal capo quella stupida coroncina di fiorellini bianchi.
«So a cosa stavi pensando», disse freddo, fissandomi così intensamente che ebbi paura che veramente avesse capito cosa stavo ricordando. «Lascia perdere i ricordi», aggiunse. Un tremito mi percorse la schiena, spronandomi a mettere piede in casa.
«No, non lo sai». La porta si richiuse alle mie spalle.
All’interno la casa era già ben arredata: un tavolino di legno davanti alla cristalliera con i liquori, una libreria piena di libri, mensole e scaffali pieni di gingilli, quadri di paesaggi appesi alle pareti. Avanzai fino a quello che doveva essere il soggiorno, superando un grosso divano e specchiandomi nel riflesso di un grosso specchio, fino a fermarmi di fronte al comò: c’erano dei mozzoni di sigarette nel posacenere.
«Qualcuno è già venuto qui prima?», chiesi curiosa. Sapevo che Alexander era nella stanza, l’avevo visto attraverso lo specchio sfilarsi la giacca e appoggiarla distrattamente sul divano spaparanzandosi su di esso.
«Ogni tanto ci sono stato io»
«Non sapevo fumassi»
«Infatti non fumo», tagliò corto senza rivolgermi lo sguardo.
«Ci sono dei mozzoni di sigaretta qui», gli feci notare, indicando il posacenere pieno con aria scettica. Lui sbuffò e si alzò dal divano controvoglia, venendomi incontro a grandi passi.
«Ti danno fastidio?», fece apparentemente calmo, afferrando il posacenere. Scomparve dietro l’angolo per poi ritornare in stanza e rimettere a posto il posacenere svuotato. Aveva appena eliminato le tracce di qualcosa: perché non voleva dirmi che fumava? Cosa mi importava? Anzi, sarei stata solo più felice perché gli avrebbero accorciato la vita!
Vidi attraverso lo specchio che aveva chiuso gli occhi e si stava massaggiando le tempio: aveva l’aria sconfitta, come se fosse appena tornato da una guerra.
«Ti fa male la testa? Dovrebbero pur esserci delle aspirine da qualche parte…», accennai, iniziando a guardarmi attorno.
«Sara», mi ammonì lui ed io mi fermai all’istante. Aprì lentamente gli occhi e mi incatenò lì con i suoi gelidi occhi azzurri. «Non ci provare, Non credere di poter giocare a fare la perfetta mogliettina»
«Ma io cercavo solo di essere…»
«Gentile?», mi strappò le parole da bocca, alzando un sopracciglio con scetticismo. «Perché vuoi esserlo con me? E anzi, se proprio ti senti in vena di gentilezze, stai zitta, magari il mal di testa mi passa». Si alzò e mi passò accanto, ignorandomi e lasciandomi da sola in mezzo al salotto. Avevo un enorme peso sullo stomaco, un magone in gola che mi soffocava e gli occhi bruciavano perché mi sforzavo di non piangere.
Dopo cinque anni non mi ero ancora preparata per tutto questo, non ero ancora pronta per essere trattata di nuovo così. Pensare alle sue labbra che sputavano fuori quelle parole cariche d’odio, ai suoi occhi che mi guardavano come se fossi un mostro… era troppo per me. Dovevo essere forte e resistere, pensare che lo stavo facendo solo per ringraziare la papà ed evitare che la sua società finisse nelle mani sbagliate, ero sicura che col tempo le sue parole non mi avrebbero fatto più alcun effetto.
E dovevo anche smettere all’istante di essere gentile. Attraversai la stanza e sentii uno scroscio d’acqua provenire dalla stanza di fronte. Il mio telefono squillò e ancora con l’immagine di Alexander sotto la doccia risposi, avanzando lungo il corridoio buio col cellulare in mano.
«Pronto?»
«Sara? Tutto ok?». Sentire una voce familiare mi fece tirare un sospiro di sollievo e mi sentii improvvisamente meglio, un po’ come quando sei sott’acqua e ritorno a galla boccheggiando per riempirti avidamente i polmoni d’ossigeno.
«Jeremy! Sì, sto bene, grazie»
«Sembri scossa… ne sei sicura?»
«Sono solo stanca… sai, questa giornata non era nei miei piani», risi amaramente e dall’altra parte sentii solo silenzio.
«Vuoi prendermi per il culo? Sono preoccupato per te, Sara, non voglio che quel coglione di mio fratello ti tratti male». Jeremy mi capiva al volo, era sempre stato l’unico in grado di comprendere quando il mio sorriso era sincero e quando lo usavo solo per copertura. Quando finì di parlare io ero già scoppiata in lacrime. Mi sedetti sul bordo del letto e iniziai a singhiozzare.
«Non ce la farò mai, Jer, è impossibile… dovevi vedere il suo sguardo di disprezzo… non voglio ricordare il passato»
«Lo so, piccola, lo so», sospirò lui dall’altro lato. «Domani mattina ti vengo a prendere, ok?». Annuii d’istinto, anche se lui non poteva vedermi e accarezzarmi il capo come faceva sempre.
«Grazie»
«A domani tesoro». Staccai la chiamata e tirai su col naso, asciugandomi le lacrime con il dorso della mano. Mi guardai attorno: il letto era grande, fiancheggiato da due comodini di legno su uno dei quali c’era un libro letto a metà. Sulla parete, dietro al letto, c’era un enorme dipinto di un bosco mentre davanti padroneggiava un imponente armadio.
Alexander, mentre si asciugava i capelli con l’asciugamano che aveva sulle spalle, entrò in stanza e parve sorpreso di trovarmi lì. Distolsi subito lo sguardo con imbarazzo, cercando di non far cadere di nuovo l’occhio sul suo corpo mentre si iniziava a diffondere per tutta la stanza l’odore del suo bagnoschiuma.
«Il bagno è in fondo, se devi fare una doccia»
«Lo so», mi limitai a rispondere, uscendo dalla stanza. Aveva detto che non dovevo comportarmi gentilmente perché lui non lo faceva con me e io avevo tanta voglia di rispettare questa sua decisione.
Mi chiusi a chiave, sfilai il vestito e mi sentii subito più leggera, come se mi fossi liberata da una seconda pelle, e mi infilai sotto la doccia. Lasciai che l’acqua calda mi scrollasse di dosso tutte le preoccupazioni, i timori, i brutti ricordi, che mi scivolasse velocemente, esattamente come sarebbero dovuti scivolare via i restanti 364 giorni. Alexander non era più quello di una volta e dovevo semplicemente accettarlo.
Aprii la bottiglia di bagnoschiuma e soltanto quando iniziai ad insaponarmi mi accorsi che stavo usando quello di Alexander: sentire quell’odore e accostarlo alla sua figura nuda mi mandava letteralmente fuori di testa. Ma no, dovevo accettare anche che quel corpo non era più mio.
Uscii di fretta dalla doccia, mi asciugai e mi coprii, tornando in camera. Alexander era sul letto, si copriva gli occhi con un braccio e aveva le labbra leggermente curvate verso il basso come suo solito quando dormiva. Aveva una camicia sbottonata e dei pantaloni blu di un pigiama che gli andava troppo grande.
«Sembra divertente fissare la gente che dorme», commentò senza smuoversi di un millimetro ad esclusione della bocca. Sussultai, facendo un passo indietro.
«No! Volevo solo chiederti… dove devo dormire?», feci imbarazzata, guardandomi attorno. Lui si scostò come a farmi più spazio e tornò nella stessa posizione di prima.
«Qui?!», squittii sgranando gli occhi allarmata.
«Vedi altri letti?»
«Non penserai che io possa dormire con te!»
«Siamo sposati, mi sembra il minimo», farfugliò.
«C’era scritto nel contratto che dobbiamo dormire assieme?!», obbiettai.
«No»
«E allora?!»
«Ho mal di testa, non urlare»
«Me ne sbatto del tuo mal di testa», borbottai irritata. «Scordati che dormo nel tuo stesso letto. Vado a dormire sul divano, tanto nessuno può vedere quello che facciamo in casa», sbottai caparbia, afferrando il cuscino accanto al suo.
«Pensaci…». Si tirò su improvvisamente, mettendosi a sedere e mi fissò stringere il cuscino al petto come se fosse un grande tesoro. «Il contratto è nato per volontà di nostro padre: nessuno può vedere, tranne lui lassù, l’unica persona che vuole vederci insieme per chissà quale stupido motivo», intervenne prontamente, mettendosi a sedere mentre io avevo già aperto la porta della stanza. «Per chi credi che l’abbia fatto? Papà vuole questo, noi dobbiamo accontentarlo», aggiunse.
«L’hai fatto per la società», precisai acida.
«Sbaglio o guadagnerai una bella somma anche tu?». Lo guardai alzare un sopracciglio scettico mentre mi rivolgeva un’altra volta il suo sguardo sprezzante.
«Ficcati in quella testa di cazzo che i soldi non mi interessano». Feci per andarmene: il divano sarebbe stato più che perfetto.
«Chiudi quella porta e torna qui»
«Non sei nessuno per darmi ordini»
«Sono tuo marito». Scoppiai a ridere.
«Oh, benvenuto nel Medioevo!», lo presi in giro. Lui si alzò spazientito e la sua faccia incazzata fece anche piuttosto paura. Si avvicinò e con una mano chiuse di botto la porta.
«Stammi a sentire…», sussurrò minaccioso, intrappolandomi tra le sue mani che aveva appoggiato sulla porta accanto alle mie orecchie. Mi tornò subito sotto il naso il profumo del suo bagnoschiuma e i suoi occhi erano così vicini ai miei da non poterne guardare le pupille. «Stiamo già facendo il conto alla rovescia per il divorzio, quindi cerchiamo di trascorrere il più serenamente possibile questi giorni. Niente lagne, niente borbottii, niente urla, niente domande sui posaceneri pieni», ordinò, guardandomi fisso negli occhi per cercare una risposta. Non emisi fiato fino a quando lui non si staccò da me soddisfatto del mio silenzio. Si abbottonò la camicia, scostò le lenzuola e si mise a dormire.
In realtà ero totalmente d’accordo con lui sul fatto di convivere serenamente: farmi il sangue amaro per lui era l’ultima delle mie intenzioni. Per questo accettai di condividere il suo letto.  
Ovviamente non mi aspettavo di riuscire a dormire con Alexander accanto a me che dormiva profondamente. Pensai che sarebbe stata la notte più lunga della mia vita. Il pensiero di avere Alexander accanto mi metteva una strana agitazione e ogni volta che lo sentivo muoversi o tirare un respiro profondo sobbalzavo, facendomi qualche centimetro più in là. Mi aveva fatto venire in mente quando mi addormentavo tra le sue braccia e non volevo essere in nessun altro posto e mi chiesi come avevo fatto a sentirmi così a casa con lui, che ora mi sembrava tutto tranne la mia casa.
Avevo dormito poche volte con Alexander, sempre con il timore che i nostri genitori ci scoprissero. Con lui era tutto un continuo “Basta: non lo vedi che è tutto sbagliato?”.



 Non sono sparita! xD 
Vi chiedo scusa per essere stata assente per tutto questo tempo, all'inizio era un problema temporaneo del computer ma avendo staccato la spina non trovavo più ispirazione per scrivere... ma non ho abbandonato Sara nelle grinfie di Alexander e Darren! E anzi, ora sono più carica di prima!
Spero che come capitolo di "inizio" dopo la mia piccola crisi non sia uscito un disastro!!
un bacione

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Capitolo 6
*** La strada è ancora lunga ***


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«Poi ad un tratto passa un camion e la mette sotto!»
«Ma dai! Che roba ti vedi?», esclamai, gettando il capo all’indietro mentre ridevo dell’espressione delusa di Jeremy.
«Non ho pianto per Titanic ma ti giuro che ho consumato uno scatolo intero di fazzoletti per quel film!», riprese lui.
«Ma come siamo diventati sensibili», lo presi in giro, allungando una mano per afferrare il mio cocktail. Iniziai a giocherellare con la cannuccia, facendola girare attorno alla mia lingua prima di bere un sorso. Passare del tempo con Jeremy era quasi terapeutico, soprattutto dopo la giornataccia di ieri: gli ero davvero grata per aver preso un taxi e avermi trascinato via dalla mia prigione.
«Ah, a casa è arrivata una cosa indirizzata a te», fece all’improvviso, porgendomi una busta bianca che aveva cacciato dalla tasca un po’ stropicciata. Lessi il mittente e mi sfuggì un gemito di sorpresa.
«Questa è della mia azienda. Devono aver provveduto al trasferimento», squittii entusiasta aprendo la lettera. Ed era proprio così, avevo ricevuto la conferma da New York che sarei restata nella sede qui per un anno.
«New York ti manca, vero?», sussurrò Jer con un sorriso dolce sul volto, percorrendo il contorno del bicchiere con il polpastrello. Feci spallucce.
«La sento come casa mia, mi ha accolta dopo essere andata via di qui»
«Papà lo diceva sempre… qui non ti sei mai sentita completamente a tuo agio. Voleva fare qualcosa in più per te»
«Non è così. Mi avete reso parte della famiglia e sono stata bene ma… sai cos’è successo… con Alexander…»
«Già», mugolò lui e un’ombra attraversò i suoi occhi vivaci. Chinò il capo e si guardò le mani, io fissai fuori due bambini che attraversavano la strada con la loro mamma. Calò un silenzio imbarazzante, angoscioso, carico di brutti ricordi. Entrambi eravamo pentiti di aver tirato fuori quell’argomento.
«Qualche giorno prima di lasciarci, papà ha litigato con Alex», accennò sottovoce. Mi voltai di scatto per incrociare i suoi occhi tristi. Mi stavo egoisticamente preoccupando di me stessa da quando ero arrivata, senza pensare al fatto che Jeremy aveva visto morire suo padre davanti agli occhi mentre io ero rimasta a piangere lontana a New York.
«Un litigio?»
«Credo proprio che sapesse di voi due. Dava la colpa ad Alexander se eri andata via…»
«Impossibile», risi nervosa, «Alexander ed io siamo stati prudenti». Lui emise un grugnito e bevve l’ultimo sorso.
«Ogni tanto passa a casa, Gloria impazzirà senza di te», cambiò discorso, alzandosi dal tavolino dopo aver lasciato delle banconote sul tavolo. «E pure Darren», aggiunse.
«Ah-ah, sei simpatico», feci lamentosa mentre procedevamo a ritroso lungo la strada, mettendomi sotto il suo braccio. «Come va con Camille? Mi avevi raccontato che stavate uscendo…»
«Un altro buco nell’acqua. Mi sa che ci vorrà ancora molto prima di trovare quella giusta»
«Io non l’ho ancora trovato e sono sposata, pensa un po’», feci ironica e scoppiammo a ridere.
«Alex è tanto male?», la buttò lì, rimangiandosi tutto dopo essere stato fulminato dal mio sguardo. «Cioè… lo so che è insopportabile ma a volte…»
«Vuole avere il controllo su tutto e gli piace dare ordini. Io invece odio riceverli», sbottai infastidita. «E poi quella casa… ha qualcosa di strano…», mormorai pensierosa, ripensando ai posaceneri pieni. Rabbrividii.
«Se la luce si accende di colpo, il rubinetto inizia a gocciolare e le cose scompaiono all’improvviso… scappa»
«La smetti di prendermi in giro?!»
«Ma tu vai in paranoia!», ribatté sulla difensiva e scoppiammo a ridere giocando a spingerci a vicenda per i successivi dieci metri. Mi sfilai dal suo braccio solo quando arrivammo davanti alla porta di casa.
«Se hai bisogno di qualcosa fammi un fischio», fece l’occhiolino.
«Fortunatamente Alexander lavora tanto e sarò impegnata anch’io con il lavoro… saprò come distrarmi. Grazie di tutto, Jer»
«Non dirlo neanche». Mi diede un bacio sulla guancia e aspettò che trovassi le chiavi di casa che mi aveva dato Alexander. Aprii la porta e mi voltai a salutarlo con un cenno della mano. Mi sfilai il cardigan e lo appoggiai all’attaccapanni ripensando alle parole di Jeremy riguardo papà. Quando mi voltai per andare verso il salone, la figura di Alexander sul divano mi fece sobbalzare.
«Potresti almeno avvisarmi quando esci», mi fece notare.
«Non… non pensavo fossi già a casa», mugolai con il cuore ancora in gola per lo spavento. Lo osservai spaparanzato sul divano con le caviglie incrociate sul tavolino: vedere Alexander sempre composto e dritto e associarlo a quell’essere stravaccato sul divano faceva uno strano effetto.
«Torno sempre a quest’ora», tagliò corto.
«Preparo la cena»
«Se cucini come cinque anni fa, posso anche ordinare una pizza», obiettò indifferente, girando canale alla tv.
«Scommettiamo che non lascerai una briciola nel piatto?», feci indignata, guardandolo con aria di sfida.
«Divertiti pure». I suoi occhi chiari riflettevano tutti i colori del televisore, i suoi capelli erano leggermente spettinati e sul viso aveva l’espressione stanca di chi aveva sgobbato tutto il giorno. Andai in cucina e iniziai ad aprire tutti i mobili alla ricerca di pentole, controllando cosa ci fosse in frigo da cucinare. Erano anni che non vivevo quotidianamente Alexander: allora era solo un ragazzino ma da quando papà l’aveva inserito nel suo mondo aveva afferrato giacca e cravatta e non le aveva mollate più. Doveva  essere stata una batosta per lui prendere in mano la situazione e diventare improvvisamente un uomo responsabile. Ripensai alle parole di Jeremy, al litigio al quale aveva alluso e avrei voluto chiedere di più ma sarei stata indelicata e chiederlo ad Alexander era fuori discussione. Mi riusciva difficile pensare che avessero litigato, papà lo portava sul palmo della mano con orgoglio e fierezza trattandolo come se non ci fosse nessuno di più importante. Forse mi odiava ancora di più perché ero stata causa del loro primo litigio?
Quando tornai in stanza da pranzo con due piatti bollenti di risotto lui aveva smesso di guardare la tv. Era ancora accesa e trasmetteva un notiziario ma lui era chino su alcuni fogli di carta e sembrava assorto nella lettura.
«Se si raffredda farà schifo davvero», gli feci notare, sedendomi a tavola.
«Ritardo soltanto la mia ora di morte»
«Se devo ucciderti lo faccio lentamente e gustandomi il tuo dolore. Non con un piatto di risotto». Lui sistemò accuratamente i fogli sul tavolino e venne a sedersi di fronte a me. Afferrò il cucchiaio e guardò il piatto con circospezione. Alzai gli occhi al cielo chiedendo a Dio di darmi la forza e la pazienza per non spingerlo con la testa nel piatto e  iniziai a mangiare, sollevata dopo aver costatato che era ottimo.
«Vedi che è buono?», feci soddisfatta.
«Facevo bene ad ordinare una pizza», borbottò senza guardarmi. «Ogni volta che penserò alla parola “disgustoso” mi verrà in mente questo piatto di “risotto”». Alexander mi aveva appena presa in giro virgolettando la parola “risotto”. Alexander aveva cacciato un po’ di senso dell’umorismo. E, cosa più improbabile, Alexander Wilson stava leggermente sorridendo.
Sapevo che faceva finta e che il risotto gli piaceva ma era troppo orgoglioso per ammetterlo.
«Non vuoi accettare che ho fatto progressi», gli rinfacciai scherzosamente. Lui mugolò qualcosa, versandosi dell’acqua nel bicchiere di vetro.
«Almeno hai imparato a non confondere lo zucchero con il sale». La cosa bella del sarcasmo di Alexander era che non si capiva mai se dicesse sul serio o stesse scherzando. Di solito si riesce a capirlo con un sorriso, con un tono di voce diverso, con una smorfia… ma lui era fatto di pietra, avrebbe potuto dire “ti amo” e “ti odio” alla stessa identica maniera. Risi quando mi venne in mente la situazione alla quale alludeva, quella in cui mi ero offerta di preparargli un the confondendo il sale con zucchero e lui, dopo aver ingoiato il primo sorso ignaro, aveva vomitato pure l’anima.
Ci scambiammo una rapida occhiata divertita durante la quale quella scena passò nei nostri occhi, riportandoci a quando eravamo felici. E subito dopo il mio cuore si raggelò. Accadeva sempre così: sorridevo ad un bel ricordo e l’attimo dopo, nel ricordare tutte le conseguenze, provavo un forte sentimento di rancore. Stava succedendo anche ad Alexander perché dopo uno sguardo quasi addolcito ce ne fu uno gelido al quale contribuivo anch’io.
Finimmo di mangiare in silenzio, lui ritornò a leggere i suoi documenti ed io feci una doccia. Nell’entrare in camera da letto vidi la luce nel salone ancora accesa. Si era addormentato? Dopo la tentazione di andare a controllare,  entrai in camera e mi misi a letto. Di Alexander non doveva passarmi neanche per l’anticamera del cervello, mi stavo preoccupando troppo di tutto: volevo tanto vivere serenamente quest’anno di convivenza, mi sarebbe piaciuto gettare alle spalle gli anni passati. L’avevo visto bene il suo sguardo divertito a tavola ma non voleva ammettere che insieme ci eravamo divertiti.
Vidi la sua figura nel buio fare il giro del letto e sedersi sul bordo e mi feci automaticamente più in là.
«Non ci provare», fece infine, ancora seduto dandomi le spalle.
«A fare cosa?»
«A cercare di addolcirmi»
«Alexander», sussurrai tirando un sospiro, aspettando che si voltasse. «Non essere paranoico. Viviamo nella stessa casa, ti ho solo preparato la cena. Non sto tentando di addolcirti», replicai annoiata.
«Sì, lo so, era per mettere in chiaro», farfugliò, facendo aria con le coperte quando si infilò sotto di esse. «Se non dovessi sentire la sveglia, svegliami tu alle sei. Ho una riunione importante».
Si voltò dalla parte opposta e si mise a dormire. Perché era così paranoico? Era così spaventato all’idea che stia cercando di fargli cambiare idea su di me? Lo terrorizzava l’idea che potessimo evitare di odiarci?

Una donna dai capelli rossi e gli occhi nocciola si era presentata con il nome di Samantha, informandomi che sarebbe stata la mia segretaria. Fortunatamente non c’erano stati problemi con il trasferimento e a partire da oggi potevo già lavorare come caporedattrice alla nuova sede in centro. Non era grande come la sede principale ma sembrava funzionare bene e tutti si erano presentati gentilmente a me. Avrei accettato anche il posto come cameriera al pub di fronte pur di essere impegnata ed evitare Alexander.
A fine giornata ero soddisfatta di aver smistato tutti i documenti impilati sulla scrivania e potevo dirmi esausta: finalmente avrei dormito come un sasso senza starmene a fissare il soffitto con il rimbombo del respiro di Alexander accanto a me.
Arrivai davanti alla porta di casa, fissando la serratura e le chiavi nelle mie mani e tirai un sospiro. Pronta ad affrontare un altro round “Sara vs Marito Brontolone”?
Si sentivano alcune voci confuse, probabilmente Alexander stava guardando la televisione come ieri sera. Aprii la porta e con un tonfo la richiusi. Le voci cessarono: perché aveva spento la tv?
L’ingresso buio si illuminò grazie ai lumetti a parete e vidi Alexander venirmi incontro, con ancora addosso un impeccabile completo elegante grigio cenere. Era appena tornato da lavoro? E perché mi stava venendo incontro? E, cosa più mostruosa, perché diavolo mi stava sorridendo come un cretino?!
«Bentornata, tesoro», mi sorrise Alexander, avvolgendomi la vita mentre mi stampava un grosso bacio sulla tempia.
Cos’è? Sono su candid camera?





Mi auguro che il capitolo sia stato di vostro gradimento! Un capitolo di "passaggio" per così dire, anche se nasconde il colpo di scena finale xD Non vi svelo nulla, mi diverte troppo questa cosa ahahah e per scoprire a cosa è dovuto l'improvviso cambiamento di Alexander... beh, aspettate il prossimo capitolo!! :P
Grazie per i vostri commenti sempre gentili e a presto!!

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Capitolo 7
*** La coppia perfetta ***


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All’inizio pensai che Alexander Wilson fosse sonnambulo. O che facesse uso di droghe. O ancora che fosse un gran burlone. In realtà ero seriamente spaventata da quella figura dalla bellezza mozzafiato che mi stava stringendo a lui con delicatezza, senza perdere la sua compostezza.
Qualche attimo dopo spuntò dal salone un altro uomo, anche lui vestito in modo elegante, dai capelli brizzolati e l’aria contegnosa, che mi sorrideva nella stessa identica maniera di Alexander.
E questo chi è? Il suo complice per lo scherzo?
«Buonasera, signora Wilson», esordì, senza cancellare dal volto il suo sorriso cordiale.
«Buonasera», farfugliai confusa, staccandomi dalle mani di Alexander dopo avergli rivolto un’occhiata truce. Non riuscivo a sopportare quel contatto, sembrava che la sua mano stesse per bruciare i vestiti e scottarmi la pelle.
«Mi permetta di presentarmi, sono l’ispettore Joseph Tudor», aggiunse l’uomo, porgendomi la mano. LA strinsi, ricambiando un sorriso amichevole.
«Il suo cognome le fa onore», osservai divertita e lui rise con me.
«Magari avessi la metà delle mogli di Enrico VIII», commentò e ridemmo ancora. Alexander sembrò essere fuori dalla conversazione per un momento.
«A quanto pare, nel testamento ci è sfuggito un dettaglio: era previsto un controllo e l’ispettore è stato incaricato di confermare che abbiamo rispettato i termini», sorrise Alexander.
Improvvisamente capii perché quell’uomo simpatico era lì: il contratto non ammetteva imbrogli e l’ispettore avrebbe dovuto controllare se Alexander ed io eravamo effettivamente sposati. Mi chiesi quanto sapesse dell’accordo “privato” tra me ed Alexander, e dal suo “bentornata, tesoro” collegai che non ne sapeva nulla.
«Perfetto. Si fermi a cena con noi, vado subito a preparare qualcosa», feci cordialmente, racimolando un po’ di buona volontà per fingermi la moglie perfetta: Alexander mi avrebbe ammazzato se l’ispettore si sarebbe accorto che fingevamo e tutti i sacrifici di papà andavano dritti nelle mani inesperte di Darren.
Con il cuore in gola per l’ansia mi rinchiusi in cucina e iniziai a pensare a cosa cucinare mentre il chiacchiericcio di Alexander e il signor Tudor si faceva più intenso. Cosa avrei dovuto cucinare? Cosa preferiva l’ispettore? E, soprattutto, cosa sapevo cucinare?  Aprii il ricettario riposto sulla mensola in alto.
Pollo al curry. Piace a tutti il pollo al curry.
Presi tutti gli ingredienti e li osservai prima di iniziare a cucinare. E se poi non gli piace? Forse è meglio chiedere.
«Mr Tudor, gradisce del pollo al curry?», chiesi imbarazzata, affacciandomi dalla cucina. Li osservai seduti al divano che sorseggiavano chissà quale liquore e lui mi sorrise.
«Diamoci del tu e chiamami Joseph. E, sì, il pollo al curry andrà benissimo». Tirai un sospiro di sollievo.
«Tua moglie è adorabile», sentii dire dall’uomo mentre tornavo in cucina.
«Sì, quando dorme», commentò Alexander e scoppiarono a ridere.
Mi immersi nei miei pensieri tra pentole e fornelli, ripensando a quello che era successo mentre tagliavo le verdure. Mi aveva fatto uno strano effetto vedere Alexander sorridermi e abbracciarmi, chiamandomi “tesoro”. Non era da lui, non l’aveva mai fatto in vita sua, mi ero accorta subito che c’era sotto qualcosa. Solo che per un attimo… mi era sembrato reale. Cosa avevo desiderato e sperato in quel momento?
«Ci vuole tempo?!». Sobbalzai e mi girai di scatto e per poco non feci cadere con il gomito tutto il brodo. Mi voltai a guardare Alexander che si stava sporgendo dalla porta e mi fissava in cagnesco. Avevo tagliato tutte le verdure e, senza accorgermene, le stavo tagliando a pezzettini ancora più piccoli: quanto tempo ero stata incantata a fissare il vuoto mentre riflettevo?
«Tutto bene lì?», si interessò Joseph che probabilmente aveva sentito il rumore della pentola che strusciava lungo il piano da cucina.
«Tutto ok! », esclamò Alexander venendomi vicino. «Sta iniziando a cacciare fuori storie di come ci siamo conosciuti, il primo bacio e stronzate varie… non so più cosa dire!», aggiunse a bassa voce con aria esasperata.
«Sì, sì, ho finito, tranquillo», feci nervosamente. Lui si voltò dandomi le spalle per tornare in salone.
«Sara non è un asso in cucina, mi stavo preoccupando», fece rivolto a Joseph.
Cretino.
Tagliai la cipolla con così tanta foga, immaginando che fosse la sua testa, che la lama scivolò sfiorandomi il dito. Mi ritrassi istintivamente, gettando via il coltello.
«Ahi», mugolai stringendo il dito e osservando un rivolo di sangue scivolare lungo il dito. Alexander si voltò distratto dai miei rumori.
«Che hai fatto?»
«Mi sono tagliata». Aprii il rubinetto e misi il dito sotto l’acqua fredda facendo una smorfia di dolore. Non sembrava abbastanza profondo.
«Fammi vedere…». Non mi ero accorta che Alexander era venuto di nuovo accanto a me e mi stava osservando.
«Non è niente, può capitare», feci con noncuranza.
«Dammi la mano», replicò lui autoritario, stringendo le dita intorno al mio polso. Non riuscii ad oppormi al suo modo di fare rude e dispotico. Odiavo quando voleva fare il dittatore e mi dava ordini. Si allontanò un secondo per ritornare con un pacchetto di medicazioni. Ne scartò una e me la posizionò sul taglio.
«Sei un disastro, Sara». Il suo tono parve a metà tra un’accusa esasperata e un commento sprezzante.
«Era solo un taglio», borbottai ferita nell’orgoglio, tirandomi indietro la mano di scatto e guardandolo in cagnesco.
«Porta il vino a tavola, ci penso io qui». Afferrò il coltello e spaccò la cipolla in due. Lo osservai incredula: voleva farmi sentire una nullità? Voleva dirmi che non ero nemmeno in grado di tritare una cipolla?!
«No, ci penso io», replicai testardamente, strappandogli il coltello da mano. Lui indietreggiò spaventato, tirando il capo all’indietro per evitare che la lama gli sfregiasse il volto.
«Non lo sai usare con quel coltello!», esclamò sgranando gli occhi, realizzando che gliel’avevo appena passato sotto il naso. Glielo puntai contro.
«Oh, sì, invece. Quando voglio so usarlo benissimo», ringhiai minacciosa.
«Sei pazza», borbottò sciacquandosi le mani nervosamente. «La prossima volta tagliati la lingua, non il dito», aggiunse.
Chiusi gli occhi, cercando di cacciare indietro le lacrime per il nervosismo. Perché doveva sempre farmi sentire uno schifo?
Spensi il fornello, misi tutto nei piatti e servii la cena. Guardai in cagnesco Alexander, sedendomi accanto a lui, e Joseph fissò il mio dito incerottato.
«Incidente di percorso?», ridacchiò facendo un cenno col capo al dito. Sorrisi imbarazzata, infilzando un cubetto di pollo. Nonostante il litigio con Alexander era venuto buono. «Mmh, non è male come voleva far credere Alexander», aggiunse mangiando con appetito. Evitai di commentare. In realtà se avessi aperto bocca si sarebbe accorto che ero incazzata nera, così mi limitai a sorridere.
«Prima mi dicevi che eri stato in Irlanda», riprese Alexander interessato e i due iniziarono a discutere del clima, delle città e delle attrazioni. A quanto pare anche Alexander c’era stato un paio di anni fa.
«Bene. È stato davvero un piacere passare la serata con voi. La cena è stata ottima, Sara», fece l’ispettore un paio d’ore dopo, alzandosi dal tavolo con l’aria soddisfatta. Anche noi ci alzammo per accompagnarlo alla porta e lo osservammo infilarsi la giacca.
«Quando vuole, la porta è aperta», fece Alexander stringendo la mano. Non vedevo l’ora che se ne andasse: dopo il nostro litigio era diventato impossibile fingere di amarlo.
«Devo dire che non avrei mai sospettato di voi, se non fossi già a conoscenza del vostro contratto», esordì con naturalezza abbottonandosi la giacca. Alexander ed io restammo a fissarlo disorientati.
«Cosa?», sussurrammo all’unisono. Alexander stava già sudando freddo. Si era accorto che fingevamo? Avrebbe detto tutto? La Wilson Group sarebbe andata nelle mani di Darren? Alexander mi avrebbe ammazzata?
«Sono un carissimo amico di vostro padre… mi aveva già parlato delle sue intenzioni riguardo a voi due. Volevo controllare se avevate rispettato i patti», spiegò in poche parole, uscendo di casa. Ci guardò di nuovo e rise. «Non fate quelle facce, magari stasera nel fingere di amarvi è cambiato qualcosa», aggiunse facendomi un occhiolino, andando via. Alexander richiuse di scatto la porta, facendo tremare l’intera parete, voltandosi poi verso di me con gli occhi da pazzo maniaco squilibrato.
«Tutto questo spettacolino per nessun motivo», bofonchiò Alexander infastidito, sprofondando nel divano del salone.
«Non aveva proprio nulla da fare», aggiunsi dall’altro lato, sedendomi dall’altra parte con aria stanca. Erano state le tre ore più lunghe ed estenuanti di tutta la mia vita.
«Come va col dito?». Mi voltai per fissarlo confusa e meravigliata: cosa gli importava del mio dito?
«Bene», mentii, voltandomi dall’altro lato per distogliere lo sguardo. Tirai un sospiro, giocando con il bordo della medicazione, poi presi coraggio per parlare. «Avresti potuto evitare di dirgli che sono un disastro in cucina. Perché devi sempre mettermi in imbarazzo?!»
«Perché è la verità», si limitò a dire, facendo spallucce con finta innocenza.
«Che poi hai fatto una pessima figura perché era buono»
«L’ha detto per gentilezza»
«L’ha detto perché non crede che io faccia schifo», replicai, voltandomi nuovamente verso di lui per guardarlo con aria accusatoria. «Perché vuoi farmi sentire un disastro?», aggiunsi in un sussurro quasi lamentoso. Lui ridusse gli occhi a due fessure e pareva che mi stesse analizzando.
«È così che ti sei sentita?»
«Sì», mi limitai a dire, abbassando il capo. Era stata davvero una brutta sensazione.
«All’inizio sembravi felice. Infondo… hai sempre desiderato tutto questo, no?». Quando alzai il capo aveva cambiato espressione, assumendo il suo solito tono impertinente. Dio, quanto mi irritava!
«Togliti quel sorriso malizioso dal viso, Alexander. Non è giocando alla coppia perfetta che svanisce il mio odio per te»
«Dovrei essere io ad odiarti, dopo quello che mi hai fatto», borbottò. Sgranai gli occhi, balzando in piedi. Non ci credo. Ha appena pronunciato quelle parole? Sta cercando di scaricare tutte le colpe su di me?
«Quello che IO ti ho fatto? Ma ti senti quando parli?!», urlai isterica. Si alzò anche lui e mi mise con prepotenza le mani sulle spalle, stringendole. Ora sì che faceva paura. I suoi occhi erano diventati di ghiaccio, i suoi capelli scomposti gli donavano un’aria da perfetto pazzo.
«Non l’ho dimenticata quella notte», sussurrò irritato.
«Io non ho dimenticato gli anni successivi». Il mio tono non ammise repliche: ero riuscita a trasmettergli abbastanza odio da farlo ammutolire. La sua espressione cambiò e rilassò la presa delle mie braccia, allontanandosi.
«Se vuoi vivere con me, non alzare il tono di voce. Te l’ho già detto, mi irrita», fece con tono pacato.
«Dove hai lasciato la corona, re dei miei stivali?», feci ironica, dandogli le spalle per andarmene in stanza. Non mi seguì e gli fui grata di aspettare che almeno mi addormentassi. Per quanto ero arrabbiata, avrei continuato a litigare con lui all’infinito.
Sognai quella notte, quella alla quale alludeva Alexander, quella che aveva cambiato per sempre le nostre vite.
Mi svegliai di soprassalto, con ancora vivida l’immagine di Alexander che si avventava su Darren. Sognare Alexander… quello sì che poteva definirsi un vero e proprio incubo.
Ringraziando il cielo era abbastanza mattiniero, o almeno il suo orario lavorativo era diverso dal mio: la sveglia segnava le sette e trenta e lui era già uscito. Feci con calma una doccia, mi vestii, presi l’auto e andai a lavoro.

Il telefono squillò e allungai la mano verso la borsa per afferrarlo. Sul display c’era il nome si Alexander. Sussultai. Come aveva avuto il mio numero?
«Scusami un secondo», mormorai alla segretaria che mi stava illustrando un progetto. Annuì.
«Ripasso tra cinque minuti», sorrise lasciandomi da sola in ufficio. Il cellulare continuava a squillare incessantemente.
«Pronto?»
«Si può sapere perché ci metti una vita a rispondere al telefono?». La sua voce irritata mi fece storcere il naso. Possibile che fosse sempre di pessimo umore?!
«Cosa vuoi?», risposi con tono annoiato.
«Ti sta venendo a prendere un auto»
«Perché?». Dall’altro capo del telefono si sentì un brusio e alcune voci che parlavano ad Alexander.
«Perché abbiamo un impegno stasera»
«Ma sto lavorando!»
«Fai come ti dico, è urgente. E compra quello che vuoi». Staccò la chiamata senza darmi altre spiegazioni e rimasi diversi secondi col cellulare in mano, chiedendomi cosa avesse in mente. Perché non mi chiedeva mai nulla con gentilezza?
Mi affrettai a concludere la revisione dell’articolo al computer, lanciando di tanto in tanto un’occhiata di sotto. Un’auto nera parcheggiò sotto l’edificio e il minuto seguente Samantha entrò in stanza.
«La attendono all’ingresso»
«Sì, lo so, me l’ha mandato mio marito… senti Sam, devo uscire, è importante». Chiusi di scatto il laptop e mi alzai dalla sedia afferrando la giacca.
«E la revisione del progetto? Abbiamo una riunione dopodomani…»
«Mandamela via email, ti prometto che lo vedrò stasera», urlai mentre correvo giù per le scale. All’ingresso c’era una signorina con un elegante tailleur e i capelli castani raccolti in una cosa che mi sorrideva con gentilezza.
«Signora Wilson?»
«Sì»
«Mi chiamo Julia, il signor Wilson mi ha incaricato di assisterla nei suoi acquisti. Mi segua». La seguii fuori dall’edificio ed entrai nell’auto nera che guidava un uomo di mezza età. Accennai ad un saluto e lui ricambiò con un sorriso cordiale, mettendo in moto. Guardai fuori dal finestrino il mio ufficio allontanarsi, poi mi voltai verso Julia, intenta a frugare nella sua borsa per prendere un’agenda di pelle.
«Alexander non mi ha ancora spiegato cosa dovrei fare di preciso…», ammisi confusa e leggermente in imbarazzo.
«Lavoro per lui abbastanza da poter dire che il signor Wilson non ama dare spiegazioni», sorrise Julia, facendo spallucce.
«Io invece adoro riceverle, per questo abbiamo qualche discussione ogni tanto», replicai sarcastica.
«La Wilson Group sta stringendo accordi con un’altra importante azienda. È stato organizzato un party e Alexander pensa che, se riuscissimo a fare una buona impressione, si potrebbe firmare un contratto molto proficuo». Ora era tutto chiaro: dovevo andare a fare shopping perché l’avrei accompagnato al quel party in ruolo di moglie. Sembrava tutto molto assurdo ma allo stesso tempo divertente: come si sarebbe comportato con me in presenza di altri in territorio sconosciuto? Mi accorsi che Julia mi stava osservando.
«Non le piacciono questo genere di eventi?», azzardò, interpretando la mia smorfia.
«Mi mettono un po’ a disagio…»
«Stia tranquilla, troveremo il vestito perfetto. E tutti desidereranno stare al posto di Alexander!», esclamò facendomi un occhiolino. Risi. Avrei pagato per avere almeno la metà del suo entusiasmo… ma non trovavo assolutamente entusiasmante vestirmi da riccona e fingermi la moglie perfetta un'altra volta solo per far firmare un contratto ad Alexander. Ma era per la Wilson Group in fondo: facevo un favore alla società di papà e in cambio dovevo sorseggiare champagne.
Ci era voluto un bel po’ e Julia aveva quasi dovuto costringermi per farmi acquistare quello che stavo indossando. Stesi un velo di rossetto rosso fuoco e mi osservai allo specchio: non mi sentivo me stessa con quel lungo vestito rosso dallo scollo a V che mi lasciava la maggior parte della schiena scoperta e avevo paura di cadere da un momento all’altro su quei tacchi argentati che neanche si vedevano sotto la stoffa.
Dopo aver comprato il vestito Julia mi aveva accompagnato dal parrucchiere, che mi aveva accontentato lasciando i capelli sciolti, rendendoli solo più voluminosi e a boccoli.
«Julia ti ha scelto l’abito perfetto», fece Alexander serio. Incrociai il suo sguardo nello specchio e lo guardai scettica. «Per la serata intendo», aggiunse imbarazzato, voltandosi per afferrare la cravatta. Indossava uno smoking che gli stava d’incanto, probabilmente anche lui aveva qualche consulente in fatto di abbigliamento. Risi, facendo oscillare i pendenti di perline, senza smettere di fissarlo.
«Evita i complimenti. Non sei abituato, non ti vengono bene»
«Non volevo farti un complimento», borbottò sulla difensiva, stringendosi quasi con stizza il nodo alla cravatta. Alzai gli occhi al cielo, decidendo di restare in silenzio.
Per qualche strano motivo ero comunque grata a Julia per avermi convinta a comprare quell’abito: quando Alexander mi aveva vista aveva cambiato espressione. A quanto pare avevo superato il test di ammissione ai party da ricconi.
«Sei pronta? Si sta facendo tardi». Afferrai la borsetta argento e lasciai che mi conducesse alla sua auto. Era la prima volta che ci entravo dentro ed era anche abbastanza imbarazzante sedermi accanto a lui. Lo osservai sedersi e sistemarsi.
«Allaccia la cintura», mi ordinò accendendo il motore.
«Ma si sgualcisce il vestito», replicai lamentosa. Si voltò e mi rivolse un’occhiata davvero terrificante. «Ok, ok!». Alzai le mani al cielo in segno di resa e feci come mi aveva ordinato. Lui parve soddisfatto e uscì dal nostro vialetto.
«Cosa devo fare?»
«Assolutamente nulla. Meno parli, meno danni farai», si limitò a dire, senza staccare gli occhi dalla strada. Lo ammazzerei anche solo per la sua arroganza. Poco importava se con lo smoking stava una bomba.
A dire il vero, mi sentivo abbastanza nervosa, ora che vedevo in lontananza la grande villa illuminata dove si sarebbe tenuta la serata… non ne sapevo nulla di balli e comportamenti eleganti, potevo solo improvvisare. Se avessi fatto una brutta figura macchiandomi il vestito, inciampando o dicendo qualcosa di inopportuno? E se avessi fatto perdere ad Alexander la grande opportunità che era tanto ansioso di ricevere?
«Se combini guai, ti uccido». Nel suo tono c’era una punta di ironia ma mi diede ugualmente i brividi.
Tranquillo, Alexander, ti prendo alla lettera!







Ciao ragazze! Ebbene... il vostro sesto senso aveva ragione, c'era un ospite indesiderato a casa Wilson ;) 
Ho preferito far finire qui perché il prossimo sarà ricco di colpi di scena e rischiavo di perdere tutto l'effetto se ne mettevo un altro pezzo qui... spero che sia stato abbastanza carino come capitolo! 
Non so se sia il caso di inserire scene di fluffosità tra Alexander e Sara, tipo quelle che avete letto sopra... beh, non che Alexander sia stato carino ma ha medicato il suo dito e le ha fatto un complimento u.u adoro questo genere di dolcezza "rude" per così dire... volevo un vostro parere: lo trovate strano? Vi sembra troppo presto per questi piccoli gesti? Io sono di parte, non so essere oggettiva! ahaha
lascio Sara in preda al panico per il ballo... secondo voi se la caverà o ne combinerà una delle sue e Alexander le farà saltre la testa? u.u
aspetto vostri pareri, un bacio!

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Capitolo 8
*** Ballo in maschera ***


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Davanti alla villa c’era un enorme fila di auto eleganti che aspettavano di parcheggiare. Io restavo a fissare fuori dal finestrino riflettendo nel mio sguardo tutti i lampioni e lucerne che illuminavano il giardino alberato.
«Buonasera, signori». Un uomo di colore con uno smoking ci sorrise cordialmente, affacciandosi dal finestrino. Alexander fermò la macchina all’entrata del vialetto e lasciò le chiavi in mano all’uomo. Stavo per aprire la mia portiera quando Alexander mi anticipò, aspettando che scendessi. Alexander Wilson che faceva addirittura il galante con me? Faceva parte della messinscena?
Percorremmo il viale di piccoli mattoncini che portavano all’imponente villa in stile rinascimentale dalla forma allungata che si ergeva su due piani con tanti piccoli alberelli lungo il perimetro. Qualche gruppo di invitati stava chiacchierando allegramente sparso di qua e di là con un aperitivo tra le mani, qualcuno si voltava incuriosito verso di noi.
«Tutto questo è alquanto imbarazzante», sussurrai trai denti stringendo tra le mani la borsetta e chinando poi il capo per deviare lo sguardo di tre donne che guardavano quasi adoranti il profilo di Alexander che continuava ad avanzare con eleganza degna di un principe.
«Limitati a sorridere», fece autorevole. All’ingresso un altro uomo in smoking ci sorrise, aprendo la sua agenda in pelle.
«Buonasera signori…»
«Alexander e Sara Wilson», completò Alexander. L’uomo fece scorrere lo sguardo sull’elencò e annuì, annotando qualcosa, poi si fece da parte e fece un gesto plateale con la mano. Facemmo qualche passo per arrivare alla porta principale dalla quale proveniva una frizzante musica jazz. Alla porta c’erano altri due uomini con due grosse ceste sui tavoli accanto a loro.
«Prego, scegliete una maschera, vi servirà per il ballo finale». I miei occhi si illuminarono dall’entusiasmo e una maschera rossa dalle decorazioni argentee e una piuma rossa catturò la mia attenzione. Scelsi quella, mostrandola tutta gongolante ad Alexander che alzò gli occhi senza nascondere un sorrisetto divertito, tenendo per le mani una maschera nera e argento che mi chiese di infilare nella mia borsetta. Mi porse il braccio e io mi aggrappai ad esso per entrare.
Se l’esterno sembrava imponente, l’interno principesco era da togliere il fiato. Al centro della sala c’era un enorme tappeto dalle strane fantasie e di fronte a noi una rampa di scale di marmo bianco sul quale si adagiava un tappeto rosso. Portavano ad un secondo piano che guardavo col capo chino pieno di piccoli archi e colonnine e dalle pareti decorate da enormi quadri. Accanto alle scale c’erano due vasi con delle bellissime piante, sul fondo della stanza su di un piano rialzato c’era una piccola orchestra che intratteneva gli ospiti con un’allegra musica e tutt’intorno c’erano dei piccoli tavolini. Era pieno di gente in smoking e abiti eleganti e mai come adesso potevo ringraziare Julia quando aveva insistito che il mio abito non era “troppo”.
«Alexander!». Ci venne incontro un uomo dalla figura slanciata e i capelli brizzolati, tutto sorridente, con in mano un calice di champagne che non aveva ancora bevuto. Mi accorsi subito che il suo sguardo aveva qualcosa di strano: era a causa dei suoi occhi, l’uno azzurro e l’altro castano che gli davano un’aria da brividi.
«Patrick, è una sorpresa vederti», sorrise Alexander stringendogli calorosamente la mano.
«Mia moglie sta meglio e ha voluto riprendere le sue vecchie abitudini», fece ironico, indicando un gruppo di signore in fondo vicino al bancone degli aperitivi. Alexander rise, io cercai di indovinare chi delle tre donne fosse sua moglie. «E questo bel bocconcino? È lei?». Mi voltai di scatto quando mi accorsi che stava parlando di me e incontrai i suoi occhi bicolore. Avrebbero terrorizzato qualsiasi bambino e non nascondevo che inquietavano anche me.
«Mia moglie, sì», si limitò a dire Alexander, mettendomi una mano dietro la schiena per spingermi verso di lui. Opposi una leggera resistenza.
«Parlano tutti del vostro matrimonio. Ora potrò dire anch’io che Alexander Wilson è un uomo fortunato», sorrise sornione, allungando una mano verso di me. Restai a fissarlo lì impalata, pensando alle sue parole. Che significa “parlano tutti del vostro matrimonio”?! È per questo che tutti si voltano a fissarci? Cosa c’è di così strano?
Avvertii un pizzico sul sedere, poco più giù rispetto a dove si era posata la mano di Alexander e sussultai, riemergendo dai miei pensieri. Divenni del colore del mio vestito mentre ricambiavo la stretta di mano di questo Patrick e lasciai che mi baciasse il dorso.
«Prendete un aperitivo, fate come se foste a casa vostra», aggiunse, salutando poi con una pacca sul braccio Alexander. Restai a fissarlo piuttosto scossa: era davvero strano.
«Potresti gentilmente non darmi pizzicotti sul sedere?», ringhiai sottovoce, facendo subito dopo un sorriso estremamente falso alla coppia che ci stava salutando.
«Alexander»
«Mr Taylor», ricambiò lui educatamente, senza fermarsi. «Beh, tu giochi alla bella statuina», replicò poi sottovoce, divincolandosi da un gruppo di signore che lo stava letteralmente investendo. «Quello era Patrick Swan, il proprietario di questa reggia. Ed è con lui che devo stringere un accordo, quindi svegliati un po’», fece bruscamente, arrivando al bancone delle bibite.
«Cosa prendete, signori?», fece l’uomo dietro al banco. Alexander mi fissò e io strinsi le spalle imbarazzata. Che ne sapevo di cocktails da ricconi? Non potevo di certo ordinare un Sex on the beach.
«Due Manhattan», ordinò Alexander e lo ringraziai mentalmente per avermi capito al volo. L’uomo ci porse i drink e iniziammo a sorseggiarli senza allontanarli dal bancone.
«Conosci tutti, qui dentro?»
«Per la maggior parte», fece lui, esaminando le facce degli invitati. «Siamo tutti pesci grossi in un piccolo lago. Tutti ci sorridiamo mentre troviamo un modo per sbranarci», aggiunse finendo d’un fiato il suo cocktail.
«Vieni spesso a questi eventi?»
«Ora che ho una dama di compagnia, sono quasi costretto». Mi lanciò un’occhiata di traverso, quasi ad incolparmi. Alzai le mani in segno di resa, voltandomi verso un gruppo di donne che stava ridendo sguaiatamente.
«Quella vestita di oro è la moglie di Swan». Ovviamente, mi venne da aggiungere: tutta sbrilluccicante e piena di gioielli costosi e diamantini tra i suoi capelli corvini non poteva essere che lei. Ed era anche una donna piuttosto affascinante e piuttosto giovane: arrivava a stento ai trent’anni mentre Mister Bicolore ne doveva avere una sessantina!
«Ma potrebbe essere sua figlia», sussurrai incredula. Lui emise un grugnito.
«L’ha sposato per i suoi soldi… lo vedi quell’uomo accanto a Mr Swan?». Mi indicò con un cenno della mano che reggeva il bicchiere un uomo che chiacchierava con lui ed io annuii. «Brandon Cooper, il suo amante», fece enigmatico. Non riuscii a trattenere una risata divertita e Alexander mi fissò perplesso, sbattendo le palpebre.
«Wow, non credevo che ti dedicassi agli inciuci da signora, Alexander Wilson», lo presi in giro, senza smettere di ridere. Lui parve imbarazzato e si passò la mano libera sul collo, grattandosi la nuca.
«Lo sanno tutti», borbottò in sua difesa, facendo spallucce.  «Vado a salutare alcuni colleghi, vieni con me?», mi fece all’improvviso Alexander, voltandosi per posare il bicchiere vuoto che avevamo ancora tra le mani.
«Aspetterò qui»
«Non bere troppo che non reggi l’alcool», mi ammonì serio, prima di darmi le spalle e andarsene. Lo tenni d’occhio per qualche metro prima che la sua giacca nera si confondesse con altre cento. Tirai un sospiro, tornando a guardare la signora Swan che stava ridendo accanto ad un uomo e mi venne in mente l’espressione da zitella acida di Alexander mentre mi informava degli ultimi scoop.
«Se posso dirlo, invidio con tutto me stesso Alexander». Mi voltai di scatto verso un uomo che si era appoggiato spavaldamente al bancone, fissandomi con i suoi occhi azzurri. Era giovane quanto Alexander, alto, dalle spalle larghe, i capelli neri elegantemente pettinati all’indietro e aveva un sorriso smagliante.
«Per la sua carriera?», lo punzecchiai io, ricambiando un sorriso imbarazzata.
«Per sua moglie», replicò lui schietto, sfilandosi una mano dalla tasca. «Vincent Sharman, al suo servizio», si presentò con un inchino fin troppo plateale. Scoppiai a ridere divertita.
«La faccio ridere, miss?», fece rallegrato, facendo un cenno al cameriere dietro al bancone che capì al volo, neanche avessero un linguaggio in codice.
«Mi scusi», mugolai, mordendomi le labbra.
«Lo prendo come un complimento», fece spallucce fingendosi paziente, mettendomi davanti un bicchiere di liquido trasparente.
«Grazie», sorrisi, assaggiando il drink. Era così forte che feci una smorfia, facendolo ridere.
«Vincent, smettila di importunare Sara». Una voce familiare mi giunse all’orecchio. Mi voltai di scatto e vidi Jeremy appoggiarsi al bancone e strapparmi il bicchiere dalle mani. «Questo è troppo forte per te, piccola», borbottò.
«Jer!», esclamai felice, avventandomi su di lui per stringerlo forte. Ero così contenta di rivederlo, di potergli stampare un forte bacio e scompigliargli i capelli. E poi dovevo raccontargli ancora cos’era successo con la storia dell’ispettore… ma non era il luogo adatto.
«Sei incantevole», mi fece dandomi un bacio sulla guancia.
«Non mi aspettavo di trovarti qui»
«Hey, faccio parte anch’io della famiglia Wilson!», esclamò facendo il broncio per finta. Fece un sorso del liquore che mi aveva rubato e accennò una piccola smorfia anche lui. «E se posso darti un consiglio, diffida dagli spacconi che ti offrono il liquore più alcolico nella speranza di farti ubriacare». Alzò il tono di voce per farsi sentire da Vincent dall’altra parte che se la rideva, lanciandogli addosso una nocciolina dalla ciotolina.
«Ma piantala! Posso assicurarti, Sara, che le mie intenzioni erano tra le più caste». I suoi occhi maliziosi e il suo tono di voce ironico la dicevano lunga sulle sue intenzioni. Il fischio di un microfono ci distrasse e qualcuno, in fondo alla sala, ci disse di indossare le maschere per il ballo finale.
«Jeremy! Sarai il mio cavaliere, vero?». Una biondina si materializzò nel nulla e afferrò Jeremy per una mano, pregandolo con i suoi occhioni chiari.
«Certo, dolcezza», sorrise lui infilandosi la maschera e lasciandosi trascinare. Lo guardai a bocca aperta e lui mi fece un occhiolino compiaciuto mentre camminava verso il centro della pista.
«E la tua maschera dov’è?», fece Vincent. Mi voltai e notai che indossava una bellissima maschera dorata. Pescai la mia dalla borsetta e cercai di annodarla.
«Girati, ti aiuto io», si offrì lui quasi prepotentemente, circondando le mie mani per afferrare i nastrini. Lasciai che mi aiutasse.
«Sara». La voce di Alexander mi fece voltare di scatto e lo osservai che mi stava porgendo la mano per esortarmi ad andare con lui. Mugolai un “grazie” a Vincent, che fece un cenno prima di salutarlo e presi la mano di Alexander che mi strinse forte, conducendomi a grandi passi verso la pista.
«Non indossi la maschera?»
«L’hai conservata tu»
«Oh». Sfilai la mano dalla sua presa forte e mi fermai per prendere la maschera dalla borsetta. La indossò velocemente e mi tornò ad afferrare, scegliendo un posto tra le tante coppiette. Vidi con la coda dell’occhio la biondina dall’abito verde assieme a Jeremy e anche Vincent aveva già trovato una compagna vestita d’argento. Alexander mi poggiò una mano sul fianco e mi prese l’altra con fare esperto mentre io, impacciata, non potevo fare altro che assecondarlo. Incrociai il suo sguardo incorniciato dalla maschera nera che gli dava l’aria da cavaliere oscuro e capii che c’era qualcosa che non andava: mi guardava con freddezza anche se le sue mani erano bel salde su di me. O forse era la maschera ad ingannarmi e lui era come sempre.
«Questo ballo è proprio necessario?»
«Sì», tagliò corto.
«Ma io non so…». I signori Swan diedero l’inizio alle danze e Alexander iniziò improvvisamente a muoversi non appena partì la musica. «… ballare», mi morì sulle labbra, mentre lui mi trascinava con sé facendomi volteggiare. Era una strana sensazione sentire le sue mani contro di me, essere così vicina al suo viso, muovere i nostri passi in sincronia. Mi riusciva un po’ difficile stargli dietro ma lui, con la sua solita prepotenza, mi stava quasi obbligando a stare al suo passo. Chissà quanto sembravo goffa…
«E così hai conosciuto Vincent», fece all’improvviso, strappandomi dal mio mondo di sogni, musica, giravolte. Lo fissai perplessa, cercando di interpretare il suo tono di voce indifferente. Stava solo cercando di conversare o c’era dell’altro?
«Sì, lo conosci?»
«Un amico di infanzia», si limitò a dire. Se Jeremy lo conosceva era quasi scontato che lo conoscesse anche Alexander, dopotutto.
«Mi è sembrato un tipo simpatico», osservai e dalla sua smorfia intuii che Alexander non nutriva una certa simpatia per il suo vecchio amico “di infanzia”. Non l’aveva nemmeno salutato…
«Come sei stupida e ingenua, Sara. Ti stava spogliando con gli occhi», bofonchiò con tono accusatorio.
«Da quanto, Alexander Wilson, ti importa qualcosa di me?», lo punzecchiai, scettica.
«Da quando sei mia moglie». Prima che potessi mettere insieme le sue parole, mi fece fare un giro e sentii la sua mano lasciare la mia. Quando completai il giro mi accorsi di essere tra le braccia di qualcun altro. Mr Bicolore mi stava sorridendo da sotto la sua maschera argento, fissandomi in modo inquietante e mi sentii come se fossi tra le fauci del leone. Mi guardai intorno spaesata, continuando a ballare, e mi accorsi che tutte le coppie erano slittate di un posto a sinistra. Ero l’unica a non conoscere questo ballo?!
«Ti stai divertendo, Sara?». Lo fissai pietrificata senza riuscire a staccare lo sguardo dal suo occhio azzurro. Quasi avvertii il pizzico forte di Alexander sul sedere, anche se era stata soltanto la mia immaginazione.
«Oh, si, è una festa bellissima, Mr Swan», replicai cordialmente.
«Spero quanto te», fece sornione.
«Bella idea questa delle maschere», la buttai lì usando la tecnica di dissuasione del cambiare argomento.
«Tutte idee di mia figlia, non le manca di certo fantasia», rise. «Grazie per il ballo», aggiunse, facendomi volteggiare. Mi ritrovai tra le braccia di Jeremy che mi sorrideva allegramente.
«Sarai il mio cavaliere, vero?», lo presi in giro, camuffando la voce smorfiosa della bionda che prima l’aveva trascinato via da me. Lui rise, stringendo più forte la mia mano.
«Ti avevo già parlato di Camille». Sgranai gli occhi.
«Non avevi detto che non era quella giusta per te?». Lui fece spallucce e parve essere in difficoltà.
«Forse l’avevo giudicata male… mi piace molto»
«Torna dalla tua principessa va!». Gli feci un occhiolino prima che le coppie ruotassero di nuovo: avevo capito il ritmo della musica e il punto in cui dovevo cambiare partner. Ma dov’era finito Alexander?!
Lo vidi assieme ad una ragazza dal vestito bordeaux, due coppie più in là. Mi concentrai su chi avevo davanti, che mi stava stringendo un po’ troppo a sé per essere uno sconosciuto. Aveva una maschera bianca che gli copriva l’intero viso e faceva contrasto con i suoi occhi e i capelli neri. Mi fissava senza dire nulla e, attraverso la fessura della maschera, lo vedevo sorridere lievemente. Aveva anche lui un’aria familiare, probabilmente era un altro degli amici di Alexander che avevo visto tanto tempo fa.
Sperai che parlasse, che dicesse qualsiasi cosa: era imbarazzante continuare a fissarci negli occhi senza far nulla. Mi fece fare due passi a destra, due a sinistra, facendomi poi volteggiare. Quando finisce questo ballo?! Mi riprese al volo e il dorso della sua mano iniziò ad accarezzarmi la guancia lentamente, salendo sullo zigomo e scendendo giù.
«Ehm», mugolai imbarazzata, cercando Alexander con lo sguardo nella speranza che venisse a salvarmi come aveva fatto prima con Vincent. Ma il signorino era troppo preso a ballare con la smorfiosa col vestito bordeaux. La gola mi si era seccata, il suo sguardo stava diventando davvero opprimente. Chi diavolo era?
Avvertii il ritmo familiare della musica e capii che stavo per cambiare partner. Lui andò contro tutte le regole e gli schemi del ballo e mi allacciò le mani dietro la schiena, costringendomi ad aderire al suo petto, fermandosi in mezzo alla pista e andando quasi addosso alle altre coppie.
«È stato bello rivederti, cucciolo di Bambi», sussurrò al mio orecchio, facendomi volteggiare.
«Darren!», esclamai, ritrovandomi di nuovo tra le braccia del mio cavaliere.
«Cosa c’è?», sussurrò Alexander perplesso. Restai a fissare scossa la folla, in cerca di Darren, senza riuscire a trovarlo. Non l’avevo riconosciuto. Se non fosse stato per il soprannome non l’avrei mai capito… e quel bastardo non aveva aperto bocca apposta per non essere riconosciuto.
«Di che stavamo parlando? Ah, sì, ti da fastidio il comportamento di Vincent?», sorrisi maliziosamente e lui serrò le mascelle rimanendo impassibile.
«Mi da fastidio se gli altri guardano che mia moglie ci sta provando con un altro. O viceversa. Ci mettono due secondi ad inventarsi storie e a farmi passare per il cornuto della situazione». Poi il ballo finì, proprio quando iniziavo a divertirmi nel punzecchiare Alexander. Si sollevò un applauso generale poi ci avviammo tutti verso il banco dei drink per dissetarci. Una donna dalla chioma ramata posò una mano sul braccio di Alexander.
«Alexander, Gareth ti sta cercando»
«Ah, ciao Amanda! Dov’è finito? L’ho cercato anch’io per tutta la sera… Sara, torno subito». Mi liquidò così Alexander, andandosene con la rossa sotto il suo braccio.
Mi sfilai la maschera e la riposi in borsa, poi chiesi al cameriere di darmi qualcosa di fresco e lui mi suggerì un gin lemon. Mi voltai verso destra ed osservai un gruppo di donne tutte acchittate che mi fissavano acidamente, qualcuna parlando, qualcuna facendo qualche smorfia. Erano quattro e non dovevano essere più grandi di me, indossavano dei lunghi vestiti attillati e sexy e reggevano dei bicchieri vuoti nelle mani.  Cosa diavolo hanno da fissare?!
Poi improvvisamente si mossero verso di me.
«Cinque Bloody Mary», fece quella più alta, dal vestito nero con un ampia scollatura a V, che si era staccata dalle altre per avvicinarsi di più. L’uomo dietro al bancone annuì e mentre le altre restavano dietro a chiacchierare, lei si voltò verso di me. I suoi occhi di ghiaccio mi incenerirono, i suoi capelli neri raccolti in una coda elegante scivolarono dalla spalla verso la schiena.
«E così tu sei la famosa Sara Wilson», fece seria, socchiudendo gli occhi e scrutandomi analiticamente come se stesse per esprimere un verdetto finale su di me.
«Ci conosciamo?», feci io ricambiando uno sguardo torvo. Lei rise facendo oscillare i pendenti che aveva ai lobi mentre scuoteva il capo.
«Non credo proprio», accennò, facendo scorrere di nuovo lo sguardo su di me. «L’ho sempre detto che Alexander ha dei gusti particolari», aggiunse con una smorfia.
«Alexander è sempre stato un amante delle particolarità», replicai incrociando le braccia al petto in segno di sfida. Questa qui iniziava a starmi sulle scatole. L’uomo le porse i cinque drink e lei ne afferrò uno, facendolo scivolare lungo il bancone fin sotto il mio naso. Lo guardai storto.
«Mmh… lo so», mugolò, «conosco bene i gusti di Alex», aggiunse maliziosa portandosi alle labbra il suo Bloody Mary per assaggiarlo. Trattenni il fiato, senza staccare lo sguardo dal suo. Ho sentito bene? L’ha appena chiamato Alex? Credevo di essere l’unica a chiamarlo con quel diminutivo… quando stavamo insieme davvero.
«Hai intenzione anche tu di prosciugarlo del suo denaro e poi lasciarlo morire? Dopotutto… tale madre, tale figlia», fece sprezzante. Ora aveva davvero esagerato. Sentii la rabbia velarmi gli occhi ed incitarmi con tanto di rullo di tamburi a darle uno schiaffo. Ma non potevo abbassarmi ai suoi livelli. Quella stessa rabbia mi spinse ad afferrare il Bloody Mary che mi aveva offerto e due secondi dopo il suo viso gocciolava vodka, succo di pomodoro e limone. Lei strappò un gridolino.
«Sciacqua la bocca con l’acido muriatico prima di parlare di me e mia madre», ringhiai minacciosa, dandole le spalle per andare via. Mi accorsi che tutti quelli che si trovavano nel raggio di cinque metri mi stavano fissando immobili. Distante da loro c’era lo sguardo assassino di Alexander, che mi stava seriamente dicendo “scappa prima che ti prendo e ti strangolo”. Ero ancora così arrabbiata che non me ne importava nulla, anzi, la vergogna sembrava cedere il posto alla soddisfazione nel sentire le imprecazioni della vipera che continuava a sputare veleno mentre le sue amichette correvano a pulirla con un fazzoletto.
Feci una piccola corsa per dirigermi verso il giardino, lontano dagli occhi di tutti, cercando quasi un nascondiglio. Cosa ne sapeva quella di mia madre?
«Oh mio Dio, meriti una medaglia d’oro!». Una voce squillante mi fece trasalire e una ragazza si avvicinò a me, abbracciandomi di scatto e facendomi quasi barcollare. E ora chi è questa?
«Ehm..»
«Davvero, sei stata fantastica!», esclamò ancora, staccandosi da me. I suoi piccoli occhi nocciola erano seriamente divertiti, i suoi capelli castani erano un po’ troppo gonfi e non rimaneva quasi più nulla dei suoi boccoli e indossava un bel vestito rosa antico pieno di brillantini e paillettes.
«Penso che non avrò più la faccia di rientrare lì dentro», mugolai, iniziando a ragionare davvero su quello che avevo fatto. Ora che la rabbia era sbollita stava per divorarmi la vergogna più totale.
«Oh, no, credimi, non sai quanto desideravamo tutte noi dare una lezioncina a quell’oca che si crede Miss Universo! Tutti stavano ridendo sotto i baffi». Mi afferrò le mani, saltellando come una bambina. «Dovevi vedere la sua faccia!»
E tu dovevi vedere quella di Alexander…
«Lo so, l’ho vista», risi.
«Comunque scusami se ti ho seguita, io sono Deborah Swan». La ragazza cambiò improvvisamente e si fece seria, porgendomi cordialmente la mano destra.
«Oh, la figlia di…»
«Patrick», annuì. «Mio padre ti adora, vi ho visti ballare prima»
«Deborah, ti dispiace lasciarci soli?». La voce minacciosa di Alexander mi fece impallidire. La ragazza si voltò a fissarlo e diventò del colore del mio vestito. Cosa le era preso?
«Alexander! Ma certo», fece imbarazzata, voltandosi poi verso di me. «È stato un piacere conoscerti, Sara», aggiunse lasciandomi una carezza sul braccio prima di andare via.
No, ti prego, non lasciarmi qui da sola… qualcuno dei due potrebbe rimetterci la vita!
Alexander mi afferrò le spalle, costringendomi a voltarmi per incrociare i suoi occhi.
«Sei completamente impazzita?». Il suo tono di voce estremamente calmo era preoccupante. Aveva già architettato la sua vendetta o stava solo cercando di controllarsi per non commettere un omicidio?
«Lo so, è stato un gesto stupido, ha iniziato a parlare male di me e mia madre e… c’era il bicchiere pieno davanti a me e non mi sono controllata», feci tutto d’un fiato, abbassando il capo mortificata ed imbarazzata.
«Ti sei messa a fare la gatta morta con Vincent, non hai fermato Darren che si metteva a fare il coglione in mezzo alla pista e hai versato un Bloody Mary su uno degli invitati. Non sai proprio cos’è l’autocontrollo!». La sua voce andò man mano ad aumentare, fino a terminare in uno sgrido come un padre che rimprovera sua figlia per una marachella.
«Non ho fatto la gatta morta con nessuno. E Darren non l’avevo riconosciuto!», replicai capricciosamente, imbronciandomi.
«Sembra sempre che cadi dalle nuvole», sbottò, passandosi una mano per i capelli mentre si allontanava leggermente da me per darmi le spalle. Restò a fissare il vuoto per qualche secondo e quando si voltò nuovamente aveva assunto di nuovo la sua espressione contegnosa e distaccata.
«Io non lo so se fai finta o sei veramente così». Lo disse così a bassa voce che sembrava una confessione.
«Così come?», feci esitante. Si strinse le spalle.
«Sei… non lo so. Tutti sono stati a farmi i complimenti, passi per la donna perfetta e poi ti comporti come una bambina. Ma sei cresciuta?»
«Ora non esagerare», borbottai infastidita, stringendo la borsa tra le mani. Se il discorso continua così lo prendo a pugni, altro che Bloody Mary.
«Non fraintendermi», scosse il capo, «mi riferisco al fatto che tutti ti vedono così innocente… non ci hanno provato spudoratamente perché sapevano con chi eri ma tutti avevano gli occhi su di te», sussurrò scrutandomi per valutare la mia reazione. Deglutii, divincolandomi dai suoi occhi azzurri per fissare in basso.
«Non mi è sembrato che mi guardassero…»
«Vedi che cadi dalle nuvole?», fece in tono di cantilena.
«Non ci posso credere che l’abbia fatto davvero!». Sentimmo delle voci e ci facemmo più dietro per nasconderci: la donna che avevo inzuppato di alcool era ancora furiosa e si lamentava con le sue amiche mentre aspettava che l’uomo le porgesse le chiavi della sua auto.
«Dai, calmati, infondo…»
«Calmarmi?! Quella stronza mi ha versato addosso il drink!». Alexander mi spinse contro il muro e si spiaccicò letteralmente contro di me per nascondersi dietro la siepe e non farci vedere dalla donna.
Non vedevo nulla se non il suo corpo contro il mio che mi schiacciava fino a togliermi il fiato. Il mio cuore andava a mille all’ora, le mie gambe indolenzite stavano per cedere. E Alexander, dall’alto, mi stava fissando insistentemente, portandosi l’indice alle labbra per mimare di fare silenzio.
«Questa gliela faccio pagare», ringhiò lei ancora, infilandosi nell’auto che sfrecciò rabbiosa. Le sue amiche aspettarono che se ne fosse andata per scoppiare in una fragorosa risata che avevano trattenuto da troppo tempo.
«Stai sorridendo», gli feci notare con tono accusatorio, osservando l’espressione divertita di Alexander. La sua rabbia sembrava essere svanita. «Non negare che ti sei divertito pure tu»
«Non lo nego». Si staccò da me e mi sentii quasi incompleta ora che non c’era più il suo calore. «Forse è meglio che ce ne andiamo»
«Sì, lo penso anch’io», mugolai. Lo seguii in silenzio lungo la strada, aspettai che l’uomo in divisa ci desse le chiavi e ci infilammo in auto.
Non era stata la serata che mi aspettavo ma potevo dire che era stato molto utile, oltre che divertente: aver scoperto tante nuove sfaccettature di Alexander.



Non so se è per Mr Bicolore, per il bagno di Bloody Mary, per la "comparsa" di Darren e la gelosia di Alexander ma... questo capitolo mi piace troppo xD
Spero non sia risultato "pesante" da leggere perché una cosa è immaginarsi tutto il balletto nella testa e una cosa è scriverlo e farvelo legegre... spero di avervi trasmesso un po' di allegria!
Il prossimo capitolo è... è... oddio non voglio dirvelo, semplicemente morirete d'infarto U_U
grazie mille per le vostre recensioni, sono felicissima di ricevere ogni volta nuovi lettori :3 vi posto una bellissima foto che ho immaginato come scenografia per il ballo! ci sentiamo presto!


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Capitolo 9
*** Minacce ***


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«Signora Wilson! Com’è andata la serata ieri sera?». Samantha mi venne vicino tutta sorridente, seguendomi mentre salivo le scale per dirigermi verso il mio studio.
«Bene, grazie. Sam, quante volte devo dirti che devi chiamarmi Sara?», le sorrisi di rimando, appoggiando la borsa sulla scrivania e sfilandomi il giubbino di pelle. Sorvolai come facesse a sapere della serata, mettendomi dietro il computer. Probabilmente si chiacchierava molto su di me alla nuova sede.
«Non mi ha più dato conferma per il progetto…»
«Sì, hai ragione! Mi metto subito al lavoro e te lo spedisco, ok?»
«Buon lavoro». Samantha mi sorrise di nuovo e chiuse delicatamente la porta alle sue spalle. Era una ragazza adorabilmente rompiscatole, c’era da ammetterlo. Mi stava troppo col fiato sul collo per essere una nuova dipendente. Mi immersi nel mio lavoro ore intere per consegnarle il progetto revisionato al quale sembrava tenere molto e quando il mio telefono squillò era già ora di pranzo. Il numero mi era sconosciuto.
«Pronto?»
«Sara Wilson?». La voce era di un uomo e non seppi riconoscere chi fosse.
«Sì, chi parla?», risposi titubante. Dall’altra parte il silenzio poi riattaccarono. Chi poteva essere?

Pov Alexander

Digitai velocemente l’email che avrei dovuto inviare ad un certo Dorian Taylor per informarlo che il suo progetto era stato rimbalzato. Il rumore dei tasti che battevano mi era sempre piaciuto: mi rilassavano, mi dicevano che stavo lavorando, mi facevano sentire fiero di continuare il lavoro che mi aveva affidato papà.
Era già passata mezza giornata e Mr Swan non mi aveva ancora fatto sapere niente: iniziai a pensare che portare Sara al party fosse stato un errore, anche se sembrava che gli piacesse. Dopo quello che era successo alla fine però doveva aver cambiato idea… Sara non si smentiva mai, non era cambiata di una virgola.
Qualcuno bussò alla porta facendomi sobbalzare e Julia si affacciò dalla porta d’ingresso.
«Posso?». Annuii, senza staccare lo sguardo dallo schermo del computer.
«Le ho portato il pranzo. E c’era un biglietto per lei nella cassetta della posta. Il mittente è anonimo». Julia posò il vassoio sulla scrivania accanto ad un biglietto bianco ripiegato a metà che vidi distrattamente.
«Grazie, Julia»
«Buon lavoro». Richiuse la porta alle spalle ed io scrutai attentamente il biglietto. Forse era una risposta di Mr Swan. Lo aprii impazientemente e lo lessi. Non era quello che mi aspettavo.
«Che cazzo significa?!», sbottai ad alta voce.
Lessi con incredulità il biglietto di nuovo. E di nuovo ancora. Non potevo credere a quello che leggevo. Mentre prendevo consapevolezza di quelle parole un senso di panico mi assalì tanto che a stento riuscii a deglutire.
Scattai in piedi, infilai furiosamente il biglietto nella tasca della giacca e uscii a grandi passi dall’ufficio voltandomi a destra e sinistra alla ricerca di Julia.
«Mr Wilson!», squittì lei, alzandosi di scatto quando mi vide uscire di corsa. Poggiai le mani sulla sua scrivania e lei indietreggiò spaventata dalla mia espressione furibonda.
«Sposta tutti gli appuntamenti a domani. Mandami Ray in ufficio subito», dissi ad un fiato.
«Ma cosa è successo…?»
«Subito».
Mi chiusi in ufficio. Nella stanza si era diffuso un vago odore di cibo ancora caldo nel vassoio e mi si chiuse lo stomaco. La mia ansia era rivolta tutta a quel biglietto e mille pensieri mi vorticarono in testa. Com’era possibile che ieri non me n’ero accorto? Chi aveva spedito quel biglietto? Cosa avrei dovuto fare ora?!
«Mr Wilson?»
«Ray!». Mi voltai verso l’uomo dai capelli rossicci e la corporatura imponente che mi fissava preoccupato per il mio comportamento. Era il mio più fidato collaboratore, assieme a Julia. Si occupava della mia sicurezza e di quella dell’azienda e addestrava un piccolo corpo di guardia in caso di pericolo.
Estrassi il biglietto dalla tasca e glielo porsi, osservando il suo viso sbiancare e i suoi occhi sgranarsi per la sorpresa.
«Ha idea di chi può essere stato il mittente?», fece con calma calcolata ed io scossi il capo esasperato.
«È scritto al computer, non si può analizzare la grafia»
«Mobilito subito la squadra. Faremo una lista di tutti gli invitati e i dipendenti presenti alla festa e metteremo una pattuglia a sorvegliare tutte le entrate», fece con un’incredibile calma risolutiva.
«Sì, va bene, tienimi aggiornato», annuii tirando un sospiro. Lui annuì e fece per andarsene.
«Ah, Ray?»
«Mi dica»
«Mandi una pattuglia anche a casa mia, non si sa mai… mia moglie dovrebbe essere al lavoro: non deve sapere niente». L’omone annuì e si richiuse la porta alle spalle.
Conoscendo Sara, si sarebbe spaventata a morte e l’ultima cosa che volevo era che mi riempisse con le sue domande. Quando voleva sapeva essere insistente e c’erano già abbastanza problemi a farmi venire il mal di testa.
Mi sedetti e guardai fissai lo schermo del pc. C’erano tre messaggi nella casella di posta elettronica ma ora non avevo la testa per lavorare. L’attesa era snervante.
Avevo bisogno di riflettere, di capire, di liberarmi la mente. Qualcosa di forte mi avrebbe aiutato.

Pov Sara

Infilai le mani nella borsa per prendere le chiavi ma mi accorsi che la porta era già aperta. Mi salì il cuore in gola: era impossibile che avessi dimenticato di chiuderla ed era ancora più improbabile che Alexander fosse tornato così presto da lavoro. Chi era entrato?
Mi voltai di scatto alla ricerca di qualche indizio e notai le due grosse macchine scure parcheggiate sul retro del giardino, coperte dalle siepi.
Sentii le ginocchia diventare più molli quando pensai alla telefonata di stamattina. Forse erano collegate? Dovevo avvisare Alexander? O sarei dovuta andare dalla polizia? Non avevo neanche un’arma per difendermi…
«Signora Wilson!». Diedi un urlo quando due mani si poggiarono sulle mia braccia e guardai l’uomo rossiccio che si era imposto dinanzi a me. Aveva un’aria minacciosa, la sua camicia nera sembrava scoppiare sotto la pressione dei suoi muscoli e dall’espressione che aveva sul viso sembrava sorpreso di vedermi.
«Chi diavolo sei?!», sbraitai, allontanandomi di colpo e guardandomi intorno alla ricerca di qualcosa per difendermi. Non penso che un portaombrelli sia molto utile...
«Lavoro per Mr Wilson», fece lui, alzando le mani in cielo in segno di resa. Restai a guardarlo sospettosa, sulla difensiva, anche se ero un po’ più calma sapendo che Alexander lo conosceva. Due uomini uscirono dalla porta aperta e andarono verso le auto con indifferenza. Li seguii con lo sguardo.
«Che ci fate a casa mia?»
«Stia tranquilla, suo marito ci ha incaricato di perlustrare l’appartamento e la zona circostante… ce ne saremmo andati e lei non si sarebbe accorta di nulla se non fosse rincasata così presto». Fece una smorfia e parve seccato della mia presenza.
Ma sentilo! Ora devo chiedergli pure scusa se ritorno a casa Mia e trovo degli sconosciuti a curiosare all’interno… chissà per quale motivo poi.
«Cos’è successo?»
«Non posso dirlo». Mi liquidò così, facendo un passo verso gli altri uomini. Mi parai dinanzi a lui impedendogli di continuare e guardai dritto nei suoi occhi nocciola.
«Perché?»
«Perché cosi ci è stato ordinato. Ora ci lasci fare il nostro lavoro, ce ne andremo subito»
Cosa diamine stava succedendo?! Mi stavo iniziando a preoccupare…
«Signore, qui è tutto tranquillo», fece un uomo, posando nel fodero la sua pistola. Addirittura una pistola?!
«Avviso il capo. Signora Wilson, ci scusi per lo spavento, per qualsiasi cosa ci chiami». L’omone si congedò rapidamente dopo avermi dato un bigliettino con un numero scarabocchiato e si portò via gli uomini, lasciandomi sola in casa. All’inizio ebbi un po’ paura di entrare ma poi presi coraggio e varcai la soglia, richiudendo subito dopo la porta alle mie spalle.
Accesi tutte le luci delle stanze e osservai che non era stato mosso niente, tranne per le finestre tutte spalancate. Le richiusi e decisi di preparare la cenna in attesa che tornasse Alexander… gliene avrei cantate quattro per non avermi avvisato di questo controllo maniaco.
Erano le dieci passate e di Alexander non c’era nemmeno l’ombra. La cena si era quasi raffreddata e quindi mi affrettai a consumarla anche se buttai tutto nella pattumiera dopo il terzo boccone, un po’ perché non avevo fatto attenzione mentre cucinavo ed era venuto fuori qualcosa di rivoltante, un po’ perché avevo un enorme peso sullo stomaco che mi toglieva del tutto l’appetito.
Avevo addosso una strana sensazione, un’ansia che neanche la successiva doccia calda era riuscita a togliermi di dosso. Andai in camera con addosso l’accappatoio e me lo sfilai, scossa dal brutto presentimento che aleggiava in casa.
Era troppo strano. La chiamata misteriosa, la perlustrazione di quegli uomini, Alexander che non tornava.
Sentii alcuni rumori e sobbalzai, voltandomi di scatto. Vidi Alexander in piedi sulla soglia e subito allungai una mano per afferrare il vestito e coprirmi alla meglio.
«Alexander!», lo richiamai allarmata, sentendo il sangue ribollirmi in viso. Lui non disse nulla, continuando a fissarmi in modo strano. Aveva i capelli in disordine, il nodo alla cravatta era stato allentato e i suoi occhi erano rossi e gonfi. Cosa diavolo aveva passato?!
«Stai bene?», azzardai, facendo timidamente qualche passo in avanti. Ero sollevata di vederlo anche se le sue condizioni non erano tra le migliori: venni investita da una tanfa di alcool. «Hai bevuto», lo accusai sorpresa.
Ora ero seriamente preoccupata. Alexander non beveva mai, non l’avevo mai visto ubriaco. Lui era sempre stato quello ragionevole, quello preciso, quello equilibrato e ora avevo davanti un uomo accasciato sulla porta che a stento riusciva a tenere gli occhi aperti.
«Sto bene», farfugliò, avanzando verso di me. Mi spaventò quando mi afferrò per le braccia come per sostenersi, scoprendomi quasi del tutto. Maledizione, non lo vedeva che ero nuda?!
«Siediti sul letto». Lo trascinai lungo la stanza, aiutandolo a sedersi sul letto. Rimase lì impalato a fissare il basso e io mi guardai attorno in cerca di qualcosa da mettere addosso.
«Sono stanco di tutte queste responsabilità», continuò a lamentarsi, stringendosi la testa tra le mani. «Non ce la faccio».
Mi si strinse in cuore in gola. Quello che avevo davanti era uno spettro, una visione distorta di Alexander, solo un uomo immensamente fragile. Mi sedetti accanto a lui e gli poggiai una mano sul ginocchio.
«Perché non ti spogli e ti metti a letto?», lo intimai ma lui non si smosse. Allora allungai una mano verso di lui, esitante, e iniziai a slacciargli la giacca. Arrivai all’ultimo bottone e stavo per sciogliere il nodo alla cravatta quando lui mi afferrò di scatto il polso, portandomi al suo viso.
Dallo spavento e la confusione non mi accorsi che le sue labbra erano sulle mie.
Perché Alexander? Perché stai facendo questo?  Anche da ubriaco aveva un sapore meraviglioso, anche se sapeva di alcool restava quel qualcosa di speciale, di Alexander. Un brivido mi percorse lungo al schiena e sentii la sua mano poggiarsi sulla coscia, scostando la stoffa con la quale mi ero maldestramente coperta. Il suo tocco… a stento ricordavo cosa volesse dire farsi toccare da Alexander. Da quant’è che nessuno mi toccava? Perché non riuscivo a fermarmi? Chi era l’ubriaco tra noi due?
«Alexander», mugolai sulle sue labbra, cercando di staccarmi da lui spingendolo via con le mani contro il petto. Incrociai i suoi occhi azzurri e disorientati, la sua espressione era smarrita. «Che diavolo stai facendo?!», esclamai affannata, staccandogli bruscamente le mani da dosso. Lui fece scivolare lo sguardo sul mio corpo, accarezzandomi poi lentamente il braccio con le punta delle dita.
«Vederti di nuovo nuda mi ha fatto ricordare bei momenti», sorrise e la sua stretta si fece più forte. Improvvisamente era sopra di me, la situazione si era capovolta: mi aveva portato le braccia in alto e mi stava guardando con gli occhi brucianti di desiderio mentre sentivo la sua erezione che premeva contro di me. Come avrei fatto a rifiutarlo? Dove avrei trovato la forza di levarmelo di dosso?
Si avventò nuovamente sulle labbra, mordendole, baciandomi poi la mascella mentre le sue mani tornavano ad accarezzarmi esperte mentre mi scioglievo completamente al suo tocco. Lui conosceva già bene il mio corpo. Si fermò accanto al mio orecchio e mi riempì del suo respiro. «Voglio fare l’amore con te», lo sentii dire in un sussurro straziato.
E quello fu il colpo di grazia. Gli occhi mi si riempirono di lacrime e la rabbia prese il posto al desiderio che stava cercando di sedurre anche me.
«Basta!», urlai, spingendolo via con una forza che non sapevo di avere. In singhiozzi saltai giù dal letto afferrando il vestito e lo lasciai in stato incosciente sul letto, sbattendo la porta alle mie spalle.
Per stasera sarebbe andato bene il divano: infilai in fretta il vestito e sprofondai in lacrime su di esso.
Lui era tornato ubriaco e aveva inebriato anche me. Non sapevo bene come mi sentivo, ce l’avevo con me stessa per aver ceduto facilmente, per avergli permesso che si prendesse gioco di me… mi aveva toccato come tanto tempo fa, mi aveva baciato come tanto tempo fa e aveva detto di ricordarsi i bei momenti che avevamo passato… come si permetteva di dirmi che voleva fare l’amore con me da ubriaco?
Era un mostro egoista e senza sentimenti. Ubriaco o no, non gli interessava come mi sentivo: pensava solo a se stesso e a quello che voleva.

La luce abbagliante mi accecò e aprii gli occhi sbattendo le palpebre. La testa e la schiena mi facevano male e quando mi alzai brontolai per il dolore. Mi stiracchiai, guardandomi intorno, e lanciai uno sguardo all’orologio: le nove e un quarto. Ero in un mostruoso ritardo.
Scattai all’in piedi e corsi verso la stanza da letto per prendere dei vestiti puliti. Alexander avrebbe anche potuto svegliarmi prima di uscire, evitando di farmi fare tardi!
Quando entrai in camera capii perché non mi aveva svegliata: stava dormendo beatamente, steso giusto al centro del letto con addosso solo dei boxer, abbracciando un cuscino. Oh Dio. Mi avvicinai cautamente, osservando la sua espressione quasi angelica, mentre russava. Dovevo lasciarlo dormire? Dopo ieri sera era normale che stesse ancora dormendo.
Già… ieri sera… mi si stringeva ancora il cuore se pensavo a ieri sera e gli occhi mi bruciavano ancora per tutte le lacrime che avevo versato. La stanza aveva ancora uno strano odore misto di alcool e sudore quasi nauseante. Immaginai la sfuriata che avrebbe fatto quando si sarebbe accorto di essere in ritardo e decisi di svegliarlo.
«Alexander?», sussurrai timidamente. Ovviamente non mi calcolò. «Alexander?», lo chiamai una seconda volta, dandogli qualche colpetto sul braccio. La terza volta alzai la voce e gli diedi uno scossone: lui finalmente si mosse, brontolando qualcosa mentre si rigirava nel letto. Aprì di scatto gli occhi, ancora arrossati, e mi fissò come se non mi riconoscesse.
«Che ore sono?», borbotto infine con la voce ancora impastata dal sonno.
«Le nove passate. Faresti meglio ad alzarti», gli intimai, prendendo le distanze dal suo volto. Sgranò gli occhi allarmato.
«Cazzo», imprecò lui, mettendosi a sedere di scatto. Poi si prese la testa tra le mani e rimase immobile per diversi istanti, probabilmente aveva avuto un giramento di testa dato dal brusco movimento.
«Attento», lo ammonii con un tono di voce quasi sprezzante, mentre uscivo dalla stanza. Andai a preparare il caffè e lo sentii andare in bagno e aprire il rubinetto.
La mia giornata lavorativa era saltata: sarei arrivata lì all’orario di pranzo ormai. Sul mio cellulare c’erano sette chiamate perse e tre messaggi, tutti quanti di Samatha. La chiamai e la rassicurai che stavo bene, inventandomi di avere la nausea e dei giramenti di testa. Oggi non ero dell’umore giusto per mettermi a lavorare. Mi riempii una tazzina di caffè e mi sedetti al tavolo mangiucchiando dei biscotti.
Non sapevo come comportarmi con Alexander: ce l’avevo a morte con lui dopo il suo modo di fare poco carino nei miei confronti però avevo paura di affrontare la discussione. Se non avesse ricordato nulla? Se l’avesse negato? Sarebbe stato fin troppo imbarazzante dover stare lì a spiegargli che stava per violentarmi.
«Lo so, ho fatto tardi… sì, Ray… ti spiego dopo». Sentii Alexander parlare al telefono mentre entrava in salone e si guardava attorno. Aveva indossato dei pantaloni neri e una camicia bianca ed era nell’evidente ricerca della sua giacca. Gliela indicai con un gesto e lui l’afferrò dallo schienale della poltrona, stringendosi il cellulare tra l’orecchio e la spalla mentre se la infilava.
«Sì… manda Jean e sposta la riunione a oggi… no, arrivo». Staccò la chiamata e si infilò il cellulare in tasca, facendo cadere qualcosa simile ad un pezzettino di carta dalla tasca. Restò lì impalato a squadrarmi e un’ombra passò nel suo volto. Sembrava arrabbiato anche lui.
«Non vai più di fretta?», lo liquidai, deviando il suo sguardo con un groppo alla gola.
«Sì», borbottò, uscendo. Cosa voleva? Forse ricordava qualcosa?
Mi alzai per posare la tazzina vuota e la confezione di biscotti poi andai in camera da letto e spalancai le finestre. Avvolsi le lenzuola in un unico fagotto assieme ai suoi vestiti sporchi che aveva accantonato in un angolo e infilai tutto in lavatrice. Non riuscivo ancora a credere che Alexander fosse stato capace di un simile gesto.
Passando per il salone mi accorsi del bigliettino che gli era scivolato dalla tasca. Mi abbassai per raccoglierlo e lo aprii curiosa. Era scritto a computer.

Le mie più sincere felicitazioni per il suo matrimonio, Mr Wilson.

Alzai gli occhi al cielo e fui tentata dallo strapparlo via senza finire di leggere.

Ieri sera eravate davvero adorabili insieme. Peccato solo che sia stata una finzione per tutto il tempo.
Ha una settimana per vendermi la metà della sua azienda prima che possa dare la notizia ai giornali.
Ci pensi bene… la ricontatterò io.


Impallidii e improvvisamente tutto mi fu chiaro.
Il suo modo strano di comportarsi, la sua assenza tutto il giorno, le pattuglie di sicurezza che avevano perlustrato la casa, Alexander ubriaco, la sua disperazione, il suo volto stanco.
Qualcuno era stato così furbo da afferrare il nostro gioco, qualcuno stava minacciando di prendersi tutto quello a cui Alexander teneva di più.
La giornata fu un inferno. Anche oggi c’era stata una pattuglia a controllare la zona e Alexander era rientrato più tardi del solito.
Lo stavo aspettando sul divano per poter cenare, facendo finta di guardare una serie tv. In realtà avevo la testa altrove… c’erano state così tante persone a quel party, potevano essere tutte colpevoli.
Quando lo vidi sulla soglia mi alzai in piedi e lo osservai: aveva l’aria di chi aveva combattuto per tutto il giorno una guerra impossibile. Si sfilò la giacca e si svuotò le tasche, appoggiando tutto sul ripiano nel salone.
«Va bene un po’ di pesce per cena?», azzardai, sperando di ricevere un po’ della sua attenzione.
«Mangia pure, io non ho fame», mormorò, lasciandomi da sola. Si chiuse in bagno e sentii l’acqua scrosciare per una buona mezz’ora. Vederlo in quello stato era davvero deprimente: la fame era passata anche a me. Valutai di dormire di nuovo sul divano ma alla fine decisi di andare in camera: avrei tanto voluto aiutarlo, chiedergli se potevo fare qualcosa. In fondo interessava anche a me la faccenda: non volevo che qualcuno si impossessasse della nostra società, di quella che nostro padre aveva difeso con i denti.
Entrai in stanza in punta di piedi. Era tutto già buio e sentivo soltanto il debole respiro di Alexander. Mi misi a letto anch’io facendo attenzione a non svegliarlo.
«Ti devo delle scuse», sentii dire ad un tratto e io mi voltai di scatto verso di lui, anche se nel buio non potevo vederlo. Sentii un fruscio di lenzuola e poi un click: Alexander accese il lumino del suo comodino e una luce arancione illuminò flebilmente in letto.
«Alexander io…»
«No, fammi parlare», mi interruppe scuotendo il capo ed io lo accontentai. «Non ricordo molto di ieri sera ma… qualcosa mi è rimasto impresso. Sono stato sleale nei tuoi confronti».
Era di nuovo ubriaco? Stava davvero pronunciando quelle parole? Non riuscivo a capacitarmi dell’idea che Alexander mi stesse chiedendo scusa. Sentii un groppo alla gola e serrai le labbra in due fessure.
«Sì, è stato sleale», lo accusai, senza riuscire a guardarlo negli occhi.
«Non ero io». Tirai un sospiro di sollievo: lo sapevo benissimo che era fuori di sé, altrimenti non mi avrebbe mai baciata né tantomeno mi avrebbe detto quelle cose.
«Stamattina ti è caduto un biglietto dalla tasca…», accennai, tirandomi su per appoggiarmi sui gomiti. Facevo bene a dirglielo? Ci avevo pensato tutto il giorno ed ero arrivata alla conclusione che l’avrei dovuto aiutare: era il mio dovere. «So tutto», aggiunsi, voltandomi per soppesare la sua reazione. Il suo sguardo si fece gelido e i suoi muscoli si irrigidirono.
«Si risolverà tutto», sospirò poco convinto e sembrò quasi che stesse cercando di convincere se stesso.
«Alexander, voglio aiutarti. Tengo anch’io alla società di papà ed è il motivo per cui ho accettato di sposarti… hai idea di chi possa averti ricattato?». Lui parve sorpreso dall’audacia delle mie parole, poi scosse il capo lentamente.
«Stanno indagando su tutti gli invitati al party. Per ora nulla»
«Sembra così strano…»
«Già… ne riparleremo domani». Spense subito la luce e lo sentii sospirare. Ero riuscita a sollevarlo almeno un po’?



Eccoci col capitolo bomba... Ora capite perché lo adoro? *-*
Un po' di azione è quello che ci voleva...! Spero che condividiate la mia scelta di inserire una figura di Alexander un po' diversa... quella di un uomo preoccupato, confuso, ubriaco, quella più "umana" diciamo, visto che soprattuto nei primi capitoli l'ho trattato come un mostro senza cuore xD
E Sara invece? Poverina non aveva capito un tubo di tutta sta storia!
Secondo voi chi c'è dietro la storia del biglietto? Chi può aver ricattato Alexander? mi diverte troppo leggere le vostre supposizioni e poi sono proprio quelle a darmi ispirazione u.u
Concludo dedicando il mio capitolo preferito a lei, Aishia, senza la quale questo capitolo non sarebbe mai esistito... non basterebbe un'intera divina commedia per esprimere la mia gratitudine!
Ci si sente, voglio sapere dei vostri parerii *-*
P.S. vi fa piacere se continuo a mettere qualche pov Alexander più avanti? :3

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Capitolo 10
*** Un tipo sospetto ***


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Parcheggiai l’auto tra due automobili scure e scesi, allontanandomi. Dopo aver fatto qualche passo mi ricordai di non aver chiuso l’auto e tornai indietro, incrociando lo sguardo di un uomo che, dal finestrino dell’auto accanto, mi stava fissando insistentemente. Aveva il capo rasato, una barbetta brizzolata e degli occhiali da sole neri. Gli rivolsi un mezzo sorrisetto imbarazzato per la pessima figura che avevo fatto e mi diressi verso il mio ufficio. Erano due giorni che inventavo di avere la nausea, Alexander riteneva più prudente restare in casa sotto sorveglianza visto che aveva ricevuto da poco il biglietto di minacce.
Il fatto era che a casa si respirava un clima infernale: Alexander era comunque assente per la maggior parte del tempo e se era a casa il suo cellulare squillava ininterrottamente e c’era un via vai di uomini incaricati di risolvere la faccenda. Preferivo immergermi con la testa nei file, documenti e progetti.
«Signora Wilson! Non si sentiva male?». Samantha parve sorpresa di vedermi, scattando dalla sedia dietro la grossa scrivania per venirmi incontro. Le altre due donne che stavano accanto a lei si guardarono, scambiandosi un’occhiata complice.
«Oggi sto meglio, ho bisogno di distrarmi col lavoro, grazie». Le sorrisi quando lei annuì e con l’efficienza di un’ape laboriosa si mise a frugare nel cassetto per darmi le chiavi dell’ufficio e la mia cartellina.
«Se le serve qualcosa sono qui fuori. Non si affatichi troppo». La ringraziai ancora e aprii la porta del mio studio.
«Secondo te è per quello?», sussurrò una delle due donne, ma non ci feci caso e neanche m’importava di cosa stavano parlando.
Passò in fretta mezza giornata. Era così semplice quando avevi qualcosa da fare… Venni distratta dallo squillo del mio cellulare e lessi il messaggio che mi aveva inviato Jeremy.

Hey, bellezza! Ho delle novità da raccontarti, magari in settimana ti offro un caffè.
Buona giornata xx


Jeremy non era a conoscenza di nulla, ovviamente. Ero certa che Alexander non avesse detto nulla neanche a me se non avessi trovato quel biglietto. Perché era così riservato? Con chi si sfogava quando aveva delle preoccupazioni, era agitato, voleva consigli?

Ciao Jer! Scommetto che le tue novità hanno i capelli biondi e indossano abiti verdi :p
In questi giorni sono un po’ incasinata ma mi farebbe piacere vederti... ci sentiamo!


Dopo alcuni secondi il cellulare squillò di nuovo.

Scommetto che i tuoi casini hanno i capelli biondi e indossano cravatte anche a letto :p

Scoppiai a ridere e scossi il capo, digitando già la risposta. Non c’era niente da fare, Jeremy sapeva sempre come tirarmi su di morale.
Dopo il lavoro mi infilai in auto e accesi il motore. Mi ricordai che sarei dovuta passare per il supermercato a comprare qualcosa per cena e, nel frattempo, accesi un po’ lo stereo. Chissà cosa aveva combinato Alexander, se era riuscito a scoprire qualcosa… gli ultimi due giorni erano stati continui buchi nell’acqua, gli invitati erano molti di più di quelli che sembravano.
Parcheggiai di fronte al supermercato e iniziai ad aggirarmi tra gli scaffali, ricordando cosa dovessi prendere. Mi diressi poi verso la cassa e fu allora che vidi di nuovo quell’uomo dall’aspetto minaccioso, che indossava gli stessi occhiali scuri. Se ne stava indifferente dall’altra parte dello scaffale che sbirciava tra le scatole di cereali, poi mi rivolse un’occhiata.
«Ha la carta fedeltà?», squittì la cassiera distraendomi. Sobbalzai la guardai scuotendo il capo mentre pagavo il conto. Afferrai la busta che un ragazzo mi aveva riempito e mi voltai: dell’uomo non c’era più traccia. Con un po’ di ansia mi avviai all’auto e mi diressi velocemente verso casa. Avevo incontrato quell’uomo anche stamattina sotto il mio ufficio… era solo una coincidenza?
Non devo suggestionarmi. Sarà stata una coincidenza, non posso diventare paranoica su tutto a causa di quello che sta succedendo…
«Sono a casa!», urlai, accendendo la luce in corridoio. Vidi spuntare la chioma rossiccia di Ray che si avvicinava minacciosamente a me.
«Signora Wilson! Alexander non è ancora tornato… sono passato per consegnargli questo. Vuole darglielo lei?». Guardai sospettosa Ray e il pacco che aveva tra le mani e annuii, afferrandolo. Era una busta giallina leggera e sottile, doveva contenere qualcosa come dei fogli.
«Va bene, dirò che sei passato»
«Buonasera». Mi fece un cenno col capo e andò via, chiudendosi le porte alle spalle. Restai in attesa di sentire il rombo del motore mentre sfrecciava via. Non mi piaceva che quell’uomo avesse le chiavi di casa e che avrei potuto trovarmelo davanti in qualsiasi momento… ne avrei parlato ad Alexander appena tornato da lavoro.
Mi rigirai la busta tra le mani: i lembi erano piegati ma non sigillati, così decisi di aprirla. Tanto non se ne accorgerà.
Erano delle foto. Ritraevano ognuno dei volti diversi per un totale di quattro uomini e due donne. Chissà se Ray aveva scoperto qualcosa…
Sentii la chiave rigirare nella toppa e infilai velocemente le foto nella busta, mettendola sul tavolo. Alexander entrò in casa col capo chino e non parve sorpreso di vedermi.
«Per caso è passato Ray?»
«Ciao», feci con una punta di sarcasmo, alzando gli occhi al cielo. Alexander Wilson a volte sembrava scordarsi delle buone maniere per la convivenza civile. Presi la busta e gliele porsi.
«Ha detto di darmi questo, non ho idea di cosa siano», feci con nonchalance mentre lui si sfilava la giacca e la appendeva assieme alla cravatta. Poi afferrò la busta e la aprì, iniziando a sfogliare le foto. Si soffermò su una in particolare e la sua espressione sembrò irrigidirsi notevolmente ma non riuscivo a vedere di chi si trattasse. Forse qualcuno che aveva incontrato al party…
«Novità?», azzardai, allungando il collo nel fingermi curiosa.
«Nessuna. Preferirei che tu non mettessi le mani sulle mie cose, Sara. Stai fuori dai miei affari», disse freddamente, alzando gli occhi su di me con espressione minacciosa. Sbiancai all’istante e trattenni il respiro, iniziando a sentirmi più nervosa.
«N-non ho fatto nulla»
«Vieni qui», sussurrò spazientito, facendo cenno di avanzare accanto a lui. Cosa voleva farmi? Avanzai in certa e quando gli fui accanto mi mise una delle foto di un uomo sotto al naso, in direzione della luce.
«Ci sono impronte digitali qui sopra… di sicuro non sono di Ray». Merda. Questo qui non lo frega nemmeno il diavolo.
«Non ci vedo nulla di male… sono solo interessata», mugolai, facendomi piccola piccola.
«Ti ho avvisata», mi puntò un dito contro, poi buttò la busta sul tavolino all’ingresso e compose un numero di cellulare. Gli feci una linguaccia, imitando il suo fare altezzoso.
«C’è uno specchio che riflette la tua immagine di fronte a me. Almeno sii più furba e più discreta», tagliò corto, prima di rispondere al telefono. Mi pietrificai e la mia espressione scherzosa scomparve. Mi rilassai quando Alexander, nel chiudersi la porta dietro alle spalle, mi lanciò un’occhiata e vidi le labbra piegate in un mezzo sorriso.
Un giorno forse avrei capito quando faceva sul serio e quando mi stava prendendo in giro. L’umorismo di Alexander era qualcosa che non mi era ancora entrato in testa.

All’inizio pensavo che si trattasse della mia immaginazione, che tutto ciò che stava accadendo era soltanto una coincidenza. Ma avevo visto fin troppe volte quell’uomo perché si potesse parlare di “caso”. Me lo ritrovavo per caso all’incrocio del semaforo, per caso quando andavo a comprare il latte, per caso sotto la stazione di benzina. Iniziai a prendere in considerazione l’idea di dirlo ad Alexander o di chiamare Ray: mi metteva ansia dover incontrare ogni volta che uscivo quell’uomo in versione agente 007.
«Se andassimo a mangiarci una pizza?». Esordì così Alexander, alzando lo sguardo dalla televisione, con la tipica espressione annoiata della domenica sera. Alzai lo sguardo dalla scheda di una recensione che dovevo completare e lo guardai perplessa, chiedendomi se mi fossi immaginata tutto.
«Vuoi andare a mangiare fuori?», mugolai titubante e lui annuì, alzandosi di scatto.
«Ho voglia di schifezze. E di allontanarmi da qui… questa situazione inizia a mettermi angoscia. Sbrigati a prepararti». Restai a fissarlo spiazzata: la situazione iniziava a preoccupare anche me, soprattutto perché lo stava cambiando sul serio. Mi aveva appena chiesto di cenare fuori, di fingere gli sposini innamorati in pubblico magari a lume di candela.
«Va bene», feci sospettosa, alzandomi per andare a prepararmi. Feci una doccia e indossai un semplice tubino nero. Quando tornai in soggiorno si era già vestito e stava parlando al telefono.
«Sì, per l’aperitivo… verremo. Sì, sono d’accordo». Staccò la chiamata e si voltò, restando a fissarmi. Lui stava magnificamente bene, come non lo vedevo da tempo. Aveva smesso di essere il capo in giacca e cravatta della Wilson Group e stava indossando dei jeans e un pullover grigio che aderiva al suo petto.
«Aperitivo?»
«Swan festeggia un suo nuovo acquisto, ci ha invitato per un aperitivo la settimana prossima. Sei pronta?». Annuii, afferrando la giacca beige.
«Sicuro che non è rischioso presentarsi ad un altro evento pubblico?»
«Ray dice che potrebbe esserci utile: spieranno le mosse degli invitati e vedranno il comportamento di chi mi si avvicinerà. Non posso fidarmi di nessuno. Per quello che ne so, potresti esserci anche tu dietro questa storia», fece serio, ammirando allo specchio la sua figura completa. Lo guardai con espressione sgomentata.
«Fai sul serio?!», squittii. Lui alzò gli occhi al cielo e si avviò verso la porta, facendomi cenno di uscire.
«Era un esempio, lo so che non sei tu. Sei troppo stupida per attuare un piano così brillante», sbottò altezzoso.
«Ah, grazie»
«Fai le smorfie alle mie spalle con uno specchio di fronte a te…», mi fece notare alzando un sopracciglio ed io arrossii, ringraziando il cielo che era di spalle per chiudere a chiave la porta.
«Te l’eri meritate», borbottai sulla difensiva, salendo in auto. Accese il motore, aprì i finestrini e iniziammo a camminare. Accesi lo stereo e iniziai a premere una serie di tasti fino a quando capii come si cambiava stazione, fermandomi su quella che doveva essere la voce di Britney Spears. Iniziai a muovere il capo a ritmo della musica, guardando fuori dal finestrino, mentre Alexander era già pronto per abbassare il volume. Sotto il suo sguardo contrariato la alzai nuovamente e lui tirò un sospiro paziente.
«Se mi fai venire il mal di testa sono cavoli tuoi»
«Almeno il mal di testa ti verrà con la musica. Dovresti liberare la mente da tutti i tuoi problemi una volta ogni tanto»
«E secondo te perché sono voluto uscire?»
«Allora stai zitto e sentiti Britney Spears a tutto volume», sbottai con un sorriso maligno, alzando ancora di poco il volume.
Ci mettemmo circa mezz’ora per arrivare al locale scelto da Alexander. Diceva che faceva la pizza migliore del paese e io mi fidavo di lui. Anche l’ambiente era carino, dalle pareti gialline e le luci arancioni, tutto molto casareccio e tradizionale. Mi ricordava un po’ la mia vecchia casa, quando mamma era ancora viva.
Il cameriere ci fu accanto, ci portò una bottiglia di vino e prese le nostre ordinazioni. Alexander versò del vino nel mio bicchiere, poi nel suo.
«Mr Wilson?». Ci voltammo contemporaneamente verso l’uomo che era sbucato alle nostre spalle e si era piazzato davanti al nostro tavolo.
«Si?», fece Alexander. Io sbiancai quando riconobbi che era lui. L’agente 007. Quello che non la smetteva di tormentarmi. A quanto pare aveva deciso di avanzare e compiere la prima mossa.
«Finalmente riesco a incontrarla! Sono Zach Evans, volevo discutere con lei di alcuni affari, posso rubarle qualche minuto?». Alexander strinse titubante la mano dell’uomo, annuendo interessato. «In privato», aggiunse, puntando gli occhi chiari su di me. Era la prima volta che potevo vederli, indossava sempre quegli occhiali scuri che lo rendevano inquietante. Io lo continuavo a fissare in cagnesco: l’agente Zach ricambiò un’occhiata complice che mi fece sentire un’intrusa. Cosa aveva in mente?!
«Sara…», accennò Alexander, guardandomi esitante.
«Non lasciarmi da sola». Allungai una mano di scatto sulla sua, stringendola forte, lamentandomi come una bambina d’asilo. Persino Alexander parve imbarazzato nel mio gesto estremo e tentò di ritirarla, trovando la mia resistenza. Non volevo che andasse via, quell’uomo non era qui per affari e ci avrei messo una mano sul fuoco.
«Torno subito»
«Non andare», replicai testarda, afferrando la mano ancora più forte.
«Sara ma che ti prende?!», sussurrò a bassa voce per non farsi sentire, abbastanza innervosito. Di certo non amava le scenate davanti agli altri. Ma non poteva sapere di certo la verità su quell’uomo… se solo gliene avessi parlato prima!
«Forse ho scelto un momento delicato…», accennò imbarazzato l’uomo, schiarendosi la voce.
«No, no…»
«Non mi sento bene», mormorai, lasciando la presa per stringermi il capo tra le mani per mimare un giramento di testa. Alexander non mi parve convinto.
Quanto puoi essere tanto stupido?! Guarda cosa mi tocca fare ora…
«Non riesco a respirare», aggiunsi in un sussurro, iniziando ad ansimare. Boccheggiai, fingendo di respirare a fatica. Alexander sgranò gli occhi e si alzò, costringendo l’uomo a indietreggiare e poi si inginocchiò davanti a me. Qualcuno si girò verso di noi, distratto dai rumori e dai miei lamenti.
«Sara, che succede?». Il suo tono di voce era basso, preoccupato e confuso. Aveva appoggiato una mano sul mio ginocchio nudo e mi guardava dal basso verso l’alto nel tentativo di scorgere il mio volto nascosto dai capelli.
«Mi manca il respiro. Il vestito… lo sento troppo stretto». Mi portai una mano sul torace. «Portami in macchina ti prego… devo togliermelo…», continuai, prendendo lunghe boccate d’aria. Alexander non reagì immediatamente, sembrava abbastanza scosso e preso alla sprovvista. Poi si alzò di botto.
«Sì, andiamo, appoggiati a me. Mr Evans sono desolato, possiamo vederci domani per un caffè», fece d’un fiato, voltandosi verso l’uomo il quale aveva capito che stavo fingendo e mi stava guardando come se volesse mangiarmi.
«Pensi a sua moglie, la ricontatto io», sorrise falsamente e Alexander tornò a me, afferrandomi per le spalle e aiutandomi ad attraversare il parcheggio fino alla nostra auto. Era stato anche abbastanza imbarazzante farlo dinanzi a tutta quella gente che stava iniziando a fissare incuriosita.
Quando mi assicurai che l’uomo non fosse più alla nostra portata mi staccai improvvisamente dalla presa di Alexander e tirai un sospiro, ricomponendomi.
«Potresti anche ascoltarmi ogni tanto!», esclamai innervosita. Alexander di nuovo mi sembrò spaesato. Sono una fottuta attrice!
«Ma non ti sentivi male?!»
«No!», esclamai esasperata.
«Ma sei pazza?! Abbiamo fatto una figura di merda davanti a tutti!», replicò e i suoi occhi mi fissarono incredulo mentre gesticolava furioso. Resistetti al suo sguardo, poi abbassai il capo e salii in macchina. «Tu provi un sadico gusto nel mettermi in imbarazzo… e vuoi rovinarmi la carriera. Swan non mi ha fatto ancora sapere nulla del contratto a causa della tua scenata su quella donna. E ora che quello aveva qualcosa da dirmi ti metti a fare la psicopatica!», esclamò come se non potesse credere a quello che era appena successo. Stava decisamente esagerando, stava fraintendendo tutto. Sentii una strana rabbia salirmi fino alle mani e scorrermi nelle vene, assieme alla delusione. Pensava questo di me?
«Non è come pensi»
«Ora mi spieghi perché hai montato su tutta la scenetta da soap opera», fece minaccioso. Azionò le sicure, come se volesse assicurarsi che non scappassi. Essere in macchina con quella furia senza via d’uscita mi metteva un po’ d’ansia. Era venuto il momento di dirglielo…
«Non penso che sia l’uomo che voleva farti credere che fosse…», accennai titubante.
«Che vuoi dire?», sbottò ancora agitato. Mi morsi il labbro, fissandolo.
«Sono circa tre giorni che mi segue. L’ho incontro spesso a lavoro, al supermercato, in farmacia… all’inizio pensavo fosse una coincidenza ma… non so, dimmelo tu. Ho avuto paura a lasciarti andare con lui. Non mi fido».
Ecco, stupido di un Alexander Wilson. Non sono una psicopatica, non voglio rovinarti la carriera, non voglio far fallire l’azienda e crearti casini.
«Perché non me l’hai detto subito?», sussurrò. Sul suo volto era scomparsa qualsiasi traccia di rabbia e fastidio e potevo leggerci soltanto preoccupazione e sorpresa.
«Lo so, avrei dovuto… oggi si è avvicinato, non potevo tenermi tutto»
«Sì, avresti dovuto. Sei in pericolo esattamente come lo sono io, devi dirmelo se noti qualcosa di strano. Ti ha mai detto qualcosa? Importunato?». Scossi il capo.
«Incrociava il mio sguardo e se ne andava. Sembrava che volesse avvertirmi…». Alexander serrò le mascelle e fissò un punto nel vuoto come se stesse riflettendo. Poi afferrò il cellulare e compose un numero.
«Ray mi serve che controlli sui registri un certo Zach Evans. Sì, esatto… no, occhi azzurri…». Rimase in attesa per alcuni minuti con le labbra socchiuse, guardando fisso dinanzi a sé come se fosse concentrato su ciò che sentiva dall’altra parte. «Come sospettavo… continua e fammi sapere». Staccò la chiamata e tirò un sospiro, voltandosi per guardarmi.
«Allora?»
«L’ultimo Zach Evans è morto due anni fa. Ci ha dato un nome falso… si è avvicinato a te per arrivare a me». Accese il motore e abbassò i finestrini godendosi una boccata d’aria fresca. «Penso sia meglio se ti trasferisci per un po’ da Agatha, potrebbe essere pericoloso».
Sgranai gli occhi. Stava scherzando, vero?
Il mio pensiero si rivolse verso un’unica persona: Darren Wilson.



Ciao a tutte! Non sono morta ahaha scusate gli aggiornamenti con intervalli di settimane intere ma ho tempo solo nei fine settimana e ho complicato la storia un casino quindi sono capitoli complicati da scrivere xD
Non so se posso definirlo di "passaggio"... ad ogni modo l'ultimo evento segna l'inizio di una svolta. Andiamo, ce li immaginate Darren e Sara sotto lo stesso tetto?! ahah spero di non avervi annoiato comunque :3
Ah, Darren si è offeso perché tutti hanno incolpato lui quando vi ho chiesto chi fosse il colpevole del ricatto u.u anche se non è da escludere che ci sia il suo zampino... infine, volevo chiedervi un parere riguardo ai personaggi.
Vorrei creare un'immagine di copertina o qualcosa del genere e avevo bisogno di consigli... come ve li immaginate voi, esattamente, Sara, Alexander, Darren e Jeremy? Ditemi pure i nomi di qualche personaggio famoso, sono curiosa di sapere che immagine vi siete costruite!
ci sentiamo presto, con altre novità. Un bacione e grazie a tutte *-*

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Capitolo 11
*** Ritorno a casa ***


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«E cosa inventeremo agli altri?», gli chiesi pensierosa, osservando la villa diventare sempre più grande man mano che ci avvicinavamo. Non c’era stato verso di controbattere, Alexander ormai aveva deciso così e contro la sua testardaggine non c’era verso di vincere.
«Mmh… inventiamoci che abbiamo litigato»
«Noi litighiamo sempre», gli feci notare alzando un sopracciglio.
«Ma stavolta è grave perché vuoi il divorzio», borbottò serio, continuando a fissare la strada dinanzi a lui così da non poter notare la mia espressione sgomentata. Gli ci volle un suo piccolo cenno di un sorriso per farmi capire che stava scherzando.
«Da quando sei così spiritoso?»
«Potrai dire che sarò fuori città per lavoro e non ti andava di restare da sola. Ho detto questo ad Agatha», fece risolutivo. A volte preferivo davvero l’Alexander freddo e calcolatore, il suo lato “scherzoso” mi era ancora troppo difficile da comprendere. Annuii anche se non ero del tutto convinta ma forse era la scusa più accettabile. Alexander mi aveva categoricamente vietato di aprire bocca con altri su quello che stava accadendo e tantomeno voleva far sapere a Darren che la società era in pericolo.
Ci fermammo lì dinanzi alla villa. Alexander spense il motore, si sfregò le mani sui jeans e si voltò a guardarmi.  
«Non raccontare ai quattro venti di questa faccenda», mi avvertì l’ultima volta. L’ultima dell’infinita serie.
«Tranquillo, sarò molto impegnata con i miei fratellini», gli feci un occhiolino, scendendo dall’auto e chiudendo lo sportello con troppa violenza. Mi riservò un’occhiata glaciale come a dire “non ci provare” prima di scendere per aiutarmi con le due grosse valige che mi ero portata dietro.
«Tienimi aggiornata». Mi fece un rapido cenno che doveva essere una sottospecie di sì e si rimise in macchina. Guardai la sua auto scura svoltare e mi ritrovai da sola dinanzi all’imponente casa. Tutto sembrava regnare nel silenzio e nella pace, probabilmente c’era solo Agatha che innaffiava le piantine della serra di papà. Bussai il campanello ben due volte e stavo quasi per bussare una terza, chiedendomi se ci fosse ancora qualcuno, prima che la porta si aprisse.
Comparve sulla soglia quello che riconobbi essere Jeremy, a petto nudo con una tuta extralarge e una bottiglina d’acqua tra le mani. Mi fissava spaesato, manco fossi una visione.
«E tu che ci fai qui?», sussurrò a malapena, spostando lo sguardo da me alle valige e poi di nuovo su di me.
«Mi stai cacciando da casa mia?!», mi finsi offesa, mettendo le mani sui fianchi. Lui esitò qualche secondo prima di trasformare la sua smorfia sospettosa in un sorriso a trentadue denti e mi tirò per un braccio dentro casa, prima di stringermi in un abbraccio stritola-ossa.
«Jeremy, non soffocarla! A chi faremo mangiare tutto quel pollo al curry?». Agatha ci passò accanto, lanciandomi un raggiante sorriso ed io, riuscendo a fatica a respirare, mi sollevai col capo sopra i suoi muscoli per ricambiare con un cenno.
«Hai fatto il pollo al curry?! Oh Dio, che fame!»
«Ti aiuto a portare le valige in camera», si propose Jeremy, prendendo quella più grossa e facendosi spazio lungo il corridoio. Con le mani entrambe occupate mi fece cenno di aprire la porta e posò ai piedi del letto la grossa valigia emettendo un grugnito di fatica. Poggiai la mia sul letto e tirai un sospiro, guardandomi intorno.
«L’ultima volta che sono stata qui ero ancora nubile», feci notare con una risatina. A dire il vero quelle valige ai piedi del letto mi avevano fatto venire in mente quando ero tornata, per la prima volta dopo cinque anni, nella mia vera casa.
«Come mai Agatha sapeva del tuo arrivo ed io no?», mi chiese contrariato Jeremy, sedendosi sul bordo del letto e iniziando a molleggiare.
«Forse perché è stata una decisione improvvisa…», mugolai, facendo spallucce. I suoi occhi azzurri mi fissarono sospettosi.
«E posso sapere il motivo di questa “decisione improvvisa”?». Deglutii. Mentire n on mi riusciva molto bene. Mi avvicinai alle valige con la scusa di accostarle di più alla parete e iniziai ad aprirle, dandogli le spalle. Almeno non mi avrebbe visto in volto.
«Alexander ha una specie di convegno all’estero… non mi andava di restare per chissà quanto tempo da sola in quella casa sperduta dal mondo», feci con leggerezza, sfilando un paio di jeans e piegandoli sul letto.
«Effettivamente la zona è un po’ isolata… ma non poteva mandare un suo rappresentate? Di solito Alexander non si sposta mai dalla sede»
«A quanto pare era qualcosa di importante… non farmi domande, lo sai che Alexander non parla mai del suo lavoro», risi, voltandomi verso di lui per fargli un sorriso. Mi parve convinto, ricambiando con una risatina.
«Comunque vada, sono felice di averti un po’ qui con me. Ti lascio sistemare le tue cose», fece dolcemente, alzandosi dal letto e passandomi la mano intorno al fianco in una carezza mentre si avviava verso la porta.
Anch’io ero felice di passare un po’ di tempo con lui, forse Alexander aveva ragione a dire che un po’ di distrazione mi avrebbe fatto bene… e poi qui ero al sicuro da maniaci agenti 007 che mi seguivano anche ai bagni pubblici.
Tolsi tutto dalle valige, sistemai l’armadio e la cassettiera, inginocchiandomi sul pavimento per far scivolare sotto il letto le valige vuote. Quando mi sollevai, il mio sguardo andò fuori dalla finestra, verso la piccola serra di papà e sentii il cuore riempirsi di tristezza. Uscii rapidamente e mi recai lì, trovando Agatha che canticchiava lievemente mentre annaffiava le piantine in fondo.
«Posso continuare io?». Lei sobbalzo spaventata, voltandosi rapidamente verso di me.
«Oh, Sara…», sussurrò sospirando per tranquillizzarsi, prima di sorridermi.
«Scusami», risi io, avvicinandomi a lei.
«Alexander è già partito?»
«Già», annuii, distogliendo lo sguardo dal suo per guardare i piccoli fiorellini che crescevano sulla pianta grassa. «Mamma adorava le piante grasse», sorrisi amaramente, sfiorando i piccoli petali facendo attenzione a non pungersi.
«Tu padre invece le odiava», rise Agatha, «eppure ha riempito quest’ala della serra di piantine grasse, ed è a loro che ha riservato maggiore attenzione. Solo perché piacevano a tua madre», aggiunse sorridendo dolcemente. Mi invase un senso di malinconia e tristezza, spostando lo sguardo da una piantina all’altra. Agatha capì al volo il mio desiderio di restare da sola in quel posto e godermi l’aria familiare che sentivo più viva che mai.
«Continui tu allora? Restano solo queste sulla destra», m’informò consegnandomi l’innaffiatoio.  Annuii, ringraziandola con lo sguardo, e lei mi lasciò da sola.  Mi piaceva tantissimo restare qui, mi ricordava tutte le volte che mi affacciavo dalla mia stanza e ci vedevo papà che spendeva ore intere a prendersi cura delle piantine. A volte parlava persino con loro. Con la stessa premura di mio padre, afferrai l’innaffiatoio e iniziai a dedicarmi a loro.
«Tu eri parecchio capricciosa, me lo ricordo. Volevi per forza morire», mormorai alla piantina che stavo innaffiando in quel momento.
«Ahia, ora parla anche con le piante, l’abbiamo persa». Una voce mi fece sobbalzare e Darren mi spuntò dalle spalle tirandomi leggermente una ciocca di capelli e arricciandola attorno al dito, facendomi reclinare leggermente il capo. Dallo spavento mi ero versata metà dell’acqua addosso: non mi aspettavo che fosse così vicino a me.
«Darren!», ringhiai, posando l’innaffiatoio sul tavolo e guardando il grosso alone umido che si stava espandendo sulla maglia.
«Dai, è solo un po’ d’acqua. Sposa bagnata, sposa fortunata», sghignazzò. «Come va con il tuo sposo?».
Afferrai di scatto il contenitore di plastica e, in un momento d’isteria, gli versai il restante dell’acqua addosso. Lui parve sorpreso e indietreggiò all’impatto dell’acqua tiepida in pieno viso.
«Ehi, ci stai prendendo gusto a lanciare roba in faccia alle persone!», esclamò divertito. Probabilmente si stava riferendo al ballo in maschera. Dopotutto anche lui era lì e doveva aver assistito allo spettacolino che avevo dato. 
«Sì e stai attento che questo fa piuttosto male!», esclamai infastidita, agitando il contenitore in aria. Mi prese un polso mentre con l’altra mano mi strappava via l’innaffiatoio.
«Forse è meglio se ti faccio una camomilla, dolcezza», sussurrò con finta gentilezza, appoggiando l’innaffiatoio sul tavolo. «Si vede che non hai scopato. Sei diventata una zitella acida», mi prese in giro, voltandosi per lasciarmi. Emisi un grugnito e due secondi dopo l’annaffiatoio stava facendo un bel volo dritto verso la testa di Darren.

Il pollo al curry era uno trai piatti che riuscivano meglio ad Agatha ed ero così impegnata nel gustarmelo che ignoravo perfettamente la presenza di Jeremy e Darren. Jeremy continuava a fissare perplesso suo fratello, fino a quando non si decise a parlare.
«Ma che hai combinato alla testa? Hai un bernoccolo enorme». Nel sentire quelle parole alzai lo sguardo dal piatto capo per osservare Darren ed effettivamente aveva ragione: tra la massa di capelli scuri e il fatto che l’avevo completamente ignorato dopo oggi pomeriggio, non mi ero accorta di avergli lasciato un bel ricordino.
«Mh niente di che, Sara si sta rivelando una tipa molto violenta», fece lui con nonchalance, portandosi alla bocca un pezzo di pollo. Attesi di incrociare il suo sguardo per incenerirlo all’istante. «Non ti conviene portartela a letto», aggiunse mentre continuava a fissarmi in segno di sfida. Gli tirai un calcio sotto al tavolo e lui sobbalzò, attirando di nuovo l’attenzione di Jeremy che guardò prima lui e poi me con aria sospettosa.
«Per me ha fatto bene. Stai sempre a rompere le scatole tu», bofonchiò l’altro a bocca piena.
«Senti chi parla!», replicò Darren, lanciandogli una mollica di pane. Mi trattenni da una risata quando vidi la sua espressione mentre si scrollava le molliche dai capelli. «E tu non ridere sotto i baffi!», aggiunse lanciando due molliche anche a me.
«Ehi!», esclamai lanciandogli un pezzo di crosta. Jeremy si unì con me per bombardare Darren come meglio potevamo di molliche.
«Per l’amor di Dio, ragazzi!», esclamò Agatha che, preoccupata dalle nostre urla, era venuta a controllare e che ora ci guardava senza parole. «Quanti anni avete?!»
«Ha iniziato lui!», urlammo tutti e tre, puntando l’uno il dito contro l’altro. Scoppiammo a ridere e Agatha si unì a noi, scuotendo il capo e lasciandoci continuare la nostra battaglia.
«Potremmo fare un sacco di pigiama party ora», fece Darren, lanciando in aria una mollica per prenderla al volo e mangiarla.  «Oppure un’orgia», aggiunse scherzoso.
«Senza di te però!», ribatté Jeremy col sorriso stampato in faccia.
«Scordatevelo! Sono una donna sposata», risi io sventolando la mano con la fede davanti ai loro occhi.
«Ed io che ti avevo proposto di sposare me», borbottò Darren fingendosi offeso. Jeremy smise di ridere all’instante.
«Cosa?», sussurrò serio, guardandoci allibito. Sgranai gli occhi verso Darren minacciandolo di tagliargli la testa con un gesto netto della mano sul collo.
«Stavo scherzando!», alzò le mani arrendevole ed io scoppiai a ridere troppo fragorosamente per risultare spontanea.
«Non ti conviene credere a tutte le sue stronzate», la buttai sullo scherzo con nonchalance. «Se non vi dispiace vado a dormire, sono sfinita»
«Buonanotte, Sara», fece Jeremy dandomi un bacio sulla guancia.
«Buonanotte cucciolo di bambi», mi fece l’occhiolino Darren ed io alzai gli occhi al cielo con finta pazienza, andando via.
«E smettila!», esclamò Jeremy lanciandogli una mollica.
«Te la mangi con gli occhi, ricorda che ha sposato tuo fratello!», lo prese in giro l’altro, ricambiando con una briciola. Sentii Agatha lamentarsi e ordinare loro di raccogliere tutte le briciole e sorrisi, buttandomi sul letto. Guardai la lucina led del cellulare lampeggiare e cliccai sul tasto centrale, notando l’icona di una notifica.

Nuovo messaggio da: Alexander
Testo: Tutto bene? Volevo avvisarti che uno dei miei uomini ti ha portato la tua macchina. Attenzione a non far saltare la copertura.


Alzai gli occhi al cielo. Dovevano chiamarlo Alexander- Ansia- Wilson, sarebbe stato il nome perfetto.
Digitai velocemente la risposta.

Purtroppo non hanno creduto a una singola parola. Ho dovuto dire a tutti la verità… dovevi vedere Darren come gongolava!

Ridacchiai tra me e me, alzandomi dal letto per infilarmi il pigiama. Ero di buonumore stranamente. La convivenza con Darren non era iniziata bene e il suo bernoccolo ne era la prova schiacciante ma poi a cena ero stata bene con loro, avevo respirato un’aria familiare in cui non mi sentivo a disagio. Forse era grazie a Jeremy che alleggeriva la situazione. Mi appuntai mentalmente di ricordare a Darren di non aprir bocca su quella questione della proposta, era stato davvero cretino ad aprir bocca davanti a Jeremy!
Il bip bip di un messaggio mi fece sobbalzare e mi accorsi che mi stavo addormentando.

Nuovo messaggio da: Alexander
Testo: Vedrai come gongolerò io quando ti avrò ucciso, se non la smetti di dire cazzate!


Restai a fissare il testo perplessa. Era arrabbiato? Ironico? Ci era cascato? Per messaggio era ancora più freddo e difficile da interpretare. Forse era meglio non rispondere.
«Buongiorno Agatha», farfugliai assonnata, sedendomi al tavolo accanto a lei. Aveva ancora il pigiama e si stava gustando il suo caffè: c’erano state poche volte in cui l’avevo vista senza la sua divisa da lavoro, tranne se doveva uscire a comprare qualcosa.
«Sara, che ci fai in piedi a quest’ora?», fece sorpresa, guardando l’orologio segnare le sei e un quarto.
«Devo andare a lavoro», sorrisi.
«E come ci vai?»
«Alexander mi ha fatto portare la mia auto». Agatha annuì e si alzò.
«Che cosa vuoi a colazione?»
«Solo un po’ di caffè, grazie». Mi offrì una tazzina e tornò a sedersi accanto a me, scrutandomi attentamente mentre sorseggiavo il mio caffè.
«Come sta andando con Alexander?», fece infine. Mi aspettavo una domanda del genere, era da quando ero tornata che mi guardava curiosa con il timore di parlare e rovinare il mio umore.
«Niente di che. All’inizio era insopportabile ma stiamo imparando a… convivere». Beh, convivere non era la parola giusta se pensavo a tutti i nostri battibecchi quotidiani, ma era una cosa troppo difficile da descrivere. Agatha parve abbastanza soddisfatta della mia risposta e non chiese altro, alzandosi dal tavolo.
«Torni per il pranzo o porti qualcosa dietro?»
«Prepara un panino, me lo porto appresso».
Passando per le camere di Jeremy e Darren provai un po’ d’invidia per loro che dormivano ancora beatamente e, dopo aver fatto una doccia e aver indossato qualcosa di pratico, uscii. La macchina era dove mi aveva detto Alexander e lo ringraziai per aver avuto un po’ di premura nei miei riguardi: sarebbe stato seccante dover prendere il taxi e due pullman per arrivare in centro.
«Buongiorno, Samantha». La donna mi osservò avvicinarmi e mi sorrise, alzandosi dalla sua sedia e venendomi incontro.
«Buongiorno, signora Wilson! Come si sente?», mi chiese con gentilezza. Presi le chiavi del mio ufficio che mi stava porgendo.
«Pronta per una nuova giornata di lavoro», feci con troppa enfasi suscitandole una risata.
«Se posso darle un consiglio, non lavori troppo. Ha avuto parecchi alti e bassi in questi ultimi giorni»
«Farò quello che posso», sorrisi, avviandomi verso il mio studio.
Non sapevo come definire Samantha, a volte era gentile e premurosa come una madre, altre volte sembrava che non il suo “come si sente?” sperasse che rispondessi “male” e che mi stesse solo scagliando addosso una maledizione.
Mi misi al computer e iniziai a lavorare. fui interrotta dalla suoneria del mio cellulare e sullo schermo apparve un numero che non conoscevo.
«Sara Wilson», risposi.
«Ciao, Sara! Sono Deborah»
«Deborah…?», ripetei farfugliando. Chi diavolo era Deborah?
«Sì, Deborah Swan. Ci siamo conosciute al ballo in maschera». Improvvisamente mi venne in mente di quella ragazzina dagli occhi vivaci e i capelli gonfi che saltellava qua e là come una molla e mi venne da sorridere.
«Ah, certo! Come stai? Sono sorpresa di sentirti»
«So che stai lavorando, che ne dici se ci vediamo nella pausa pranzo? Mi farebbe piacere fare quattro chiacchiere»
«Va bene», feci sorpresa, «Facciamo verso mezzogiorno?»
«Passo a prenderti al lavoro. A dopo!», staccò la chiamata.
Guardai il cellulare perplessa e mi chiesi per quale motivo le fosse passato per la testa di invitarmi a pranzo. Forse avrà qualche nemica da inzuppare di Bloody Mary. Risi da sola come una cretina, ritornando a digitare al computer la recensione a un articolo inviato l’altro ieri e che non era stato ancora minimamente calcolato.

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Capitolo 12
*** Prova a conoscermi ***


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«Sono veramente contenta di rivederti!». Deborah non aveva fatto altro che abbracciarmi e manifestarmi il suo affetto per tutto il tempo mentre entravamo in un pub e prendevamo posto, litigando con le due grosse buste di shopping per sedersi di fronte a me.
«A dir la verità non mi aspettavo la tua telefonata», ammisi io guardando con divertimento come cercava di sistemarsi i capelli caoticamente. Che era ricca lo si vedeva lontano un miglio: Samantha e le altre mi avevano guardato stralunate dopo aver visto la grossa auto scura venirmi a prendere e la mano di Deborah che sventolava fuori dal finestrino con un diamante scintillante al dito.
«Vado dritta al sodo, anche perché non voglio rubarti troppo tempo. Tra qualche giorno sarà il mio compleanno e stavo facendo una lista di invitati…», azzardò, iniziando a giocherellare con il bordo del fazzoletto, alzando poi lo sguardo su di me con l’espressione entusiasta di una bambina. «Ci tenevo a invitarti di persona alla mia festa. Ovviamente insieme a tuo marito, eravate così carini», aggiunse con aria soddisfatta, portandosi le mani congiunte al viso per appoggiarci sopra la guancia. Spalancai la bocca dalla sorpresa, pronta a replicare un bel “no grazie” con tanto di risatina ironica ma il cameriere ci interruppe.
«Buongiorno bellezze, cosa vi porto?». Deborah alzò lo sguardo verso il cameriere e parve rimanere folgorata dalla sua aria californiana mentre io li fissavo ridendo sotto i baffi.
«Cosa ci consigli?», sorrise lei e il ragazzo aprì il menù, mostrandoci una particolare zuppa dall’aria invitante che accettammo di ordinare. Si voltò poi verso di me.
«Va bene così, miss?»
«Ma quale miss!», sussurrò Deborah scherzosa, facendo cenno di avvicinarsi al suo viso. «Guardale il dito», gli sussurrò nell’orecchio ed io, che avevo già sentito, sorrisi imbarazzata sventolando la fede nuziale.
«Perdonami», rise il cameriere, «anche se avevo sempre puntato sulla tua amica». Mi fece l’occhiolino e se ne andò con le nostre ordinazioni, senza osservare il volto completamente rosso di Deborah.
«Un bel tipo», commentai, fingendomi indifferente, mentre mi versavo l’acqua nel bicchiere e ne bevevo un lungo sorso.
«Oh si», mugolò lei con aria pensierosa, guardando alle mie spalle. Ero quasi certa che lo stesse ancora fissando. «E ha anche un gran bel culo», aggiunse. La sua espressione era così seria e innocente che scoppiai a ridere e presto lei si unì a me.
«Scusa, dimenticavo che sei una donna sposata e non puoi fare apprezzamenti», mi prese in giro amorevolmente. «Allora, non mi hai ancora dato la tua risposta», aggiunse speranzosa. Guardai il suo viso paffuto e i suoi occhi che scintillavano dalla gioia. Come facevo a dirle di no? Mi avrebbe di sicuro pregato in ginocchio con tanto di musetto dolce.
«Non saprei… devo chiedere se Alexander non ha impegni…»
«Oh, andiamo, sono sicura che una domenica sera per un po’ di relax la concederebbero a chiunque!»
«Sicura che mi vuoi nella lista degli invitati? Sono un po’ pericolosa». Scoppiammo a ridere e poi lei mi fece un resoconto di tutti i commenti e le espressioni divertite degli altri dopo che ce ne andammo.

«Hey, sei sparita come un ladro stamattina!». Jeremy mi lanciò addosso un cuscino del divano mentre gli passavo accanto ed io non feci in tempo a scansarmelo.
«Ho un lavoro io!», replicai, restituendogli il favore con una cuscinata dietro la testa. Lui si voltò sorpreso verso di me, staccando lo sguardo dal programma in tv, e mi osservò sistemando i pizzi del cuscino.
«Ma chi te lo fa fare! Con tutti i soldi che guadagna il tuo maritino potresti fare la bella vita», osservò sarcastico.
«Sono una donna indipendente», borbottai fieramente, facendomi il giro del divano per andare a sedermi accanto a lui. Mi osservò divertito, abbassando il volume della televisione.
«E com’è andata la giornata?»
«Tutto normale… se non fosse che sono stata invitata alla festa di compleanno di Deborah Swan», feci con nonchalance, distendendo le gambe fino al tavolino davanti per imitarlo.
«La figlia di Patrick Swan?», fece sorpreso e io annuii. «Strano… pensavo che dopo l’ultimo episodio non ti avessero voluto far mettere più piede in casa loro», osservò prendendomi in giro e ridemmo.
«E Darren dov’è?», gli chiesi poi, guardandomi intorno. La casa era sempre silenziosa, quasi come se fosse Darren a portare un po’ di vitalità. Pensa un po’ come stiamo messi…
«Inizi a sentire la sua mancanza?», mi punzecchiò e si meritò un bel pugno sul bicipite. «All’università», fece infine con noncuranza.
«Università?!», esclamai sorpresa, fissandolo con gli occhi sbarrati. Jeremy annuì divertito.
«Si è iscritto quest’anno. Qualcosa che ha a che vedere con l’ingegneria…»
«Stento a crederci», sussurrai, scuotendo il capo. Darren. Lo scapestrato, irresponsabile, infantile, testardo Darren che frequentava l’università e s’impegnava per una laurea. Era davvero qualcosa fuori dal comune.
«Tu invece devi dirmi un paio di cose… Come va con Camille?», azzardai e lo osservai fare un sorriso ebete a labbra chiuse che andava da un orecchio all’altro. Questo qui fa sul serio!
«C’eravamo lasciati un paio di settimane fa… poi lei mi chiese di rivederci perché le mancavo e abbiamo iniziato a frequentarci di nuovo», mi spiegò brevemente.
«Ed è cambiato qualcosa rispetto a prima?»
«Sicuramente. È come se stessi scoprendo una parte di lei che prima non conoscevo… e mi piace», sussurrò fissando il basso, come se stesse cercando le risposte nel profondo di se stesso.
«Mi fa davvero piacere», sorrisi, sorprendendolo quando mi buttai su di lui per stritolarlo in un abbraccio. Ero davvero contenta per lui, meritava davvero una ragazza che lo rendesse felice come non mai.
«Jeremy mi aiuti con la spesa?», intervenne Agatha, spezzando il nostro momento di dolcezza.
«Agli ordini capo!», fece lui scattando in piedi e togliendo dalle mani affaticate di Agatha tutte le buste senza il minimo sforzo. Dovevo assolutamente chiedergli come diavolo aveva fatto a trasformarsi da un pulcino amorfo al figlio segreto di Hulk.
Andai in camera mia, presi una tuta comoda, e mi feci una doccia. Decisi di tornare in salone e vedere se Agatha aveva bisogno di una mano in cucina. Sarebbe stata persino felice di scoprire che, grazie alla mia convivenza con Alexander, ero addirittura migliorata. Passai per la stanza di Darren e vidi che la porta era semiaperta: sbirciando all’interno vidi Darren steso sul letto con i piedi incrociati e le mani dietro il capo, a occhi chiusi con un paio di cuffie all’orecchio. Morivo dalla voglia di avere qualche informazione sulla sua università. Mica sta dormendo?
Spalancai la porta e lui si accorse dei miei movimenti, aprendo gli occhi.
«Guarda un po’ chi torna dall’università e non mi dice niente…», accennai con indifferenza, entrando in camera. Lui si voltò e mi guardò sorpreso, sfilandosi gli auricolari. Ero entrata poche volte nella stanza di Darren e ogni volta scoprivo un nuovo particolare, perdendomi tra le pareti color panna che racchiudevano il suo universo contorto e confusionale.
«Quando mai abbiamo avuto l’occasione di fare una conversazione normale, noi due?», fece ironico, posando l’ipod sul comodino tempestato di carte e gingilli vari. Non potevo di certo dargli torto.
«Beh considera il mio soggiorno qui come un’occasione per iniziare. Eccomi», feci con un gesto plateale, avvicinandomi al suo letto. Si tirò indietro le gambe per farmi sedere sul bordo del letto e attese che gli facessi qualche domanda. Incrociai le gambe e appoggiai le mani sulle ginocchia.
«Jeremy mi ha detto che ti sei iscritto quest’anno»
«Ho pensato che dovrò pur fare qualcosa della mia vita», fece spallucce. Aveva un sorriso debole sul viso e sembrava un po’ stanco: aveva delle belle occhiaie sotto i suoi occhi chiari.
«E cosa hai deciso di fare?»
«Ingegneria gestionale dei progetti e delle infrastrutture». Il suo tono di voce quasi soddisfatto mi fece ridere.
«Wow, potrei addirittura cambiare opinione su di te. Magari passi da “completo coglione” a “quasi accettabile”», lo presi in giro senza smettere di ridere. Lui si tirò su sistemandosi meglio il cuscino dietro la schiena.
«Se vuoi che ti faccia una piccola previsione dubito che rimarrai della stessa opinione: cambierai idea minimo altre venti volte»
«Proverò a conoscerti», feci in segno di sfida.
«Parti già col piede giusto, tesoro. Hai detto “provare” il che significa che non è detto che ci riuscirai»
«In effetti sei parecchio complicato»
«“Complicato” sarebbe un passo avanti», rise, giocherellando con il bordo del suo pigiama. «Se posso fare un paragone, potrei dire di essere come un computer: tutti lo conoscono e lo sanno usare, ma molto marginalmente. Quelli che sanno capirne davvero le meccaniche interne si contano sulle dita di una mano ed io ti auguro di essere una di quelle…». Il suo sorriso innocente e del tutto sincero si estese sul suo viso e per la prima volta Darren mi sembrò diverso da com’era sempre stato.
«E se non fossi brava con la tecnologia?», sussurrai senza staccare i miei occhi dai suoi. «Potrei non capirti mai»
«Tu prova a conoscere i miei meccanismi interni, ti si potrebbero aprire interessanti scenari», tagliò corto.
Darren per la prima volta era stato in grado di zittirmi, di lasciarmi senza parole. Il mio era più un silenzio di stupore, di meraviglia, uno di quelli in cui ti viene solo da sussurrare “wow”. Cosa si risponde a una cosa del genere?
«È che non ti sei mai mostrato così a me… ora che ci penso non abbiamo mai parlato veramente, ti sei sempre comportato da stronzo o da malato di sesso! È che non so come prenderti se non mi fai capire come sei», mugolai con tono accusatorio. Lui fece un sorriso sadico e si chinò verso di me, sfiorandomi i capelli e mettendomeli dietro l’orecchio, guardandomi mentre si mordeva le labbra. Dio santo perché mi fai questo?!
«Lo vedi come fai!», esclamai allarmata, cercando di liberarmi dalle sue mani e lui rise, avvicinandosi ancora di più a me.
«Diciamoci la verità, è più divertente fare lo stronzo», mi sussurrò all’orecchio. «E poi che ci posso fare se sei attratta da me», aggiunse con finta innocenza, indietreggiando per mettersi al suo posto. Gliene fui davvero grata perché stavo iniziando ad arrossire.
«Non sempre vale la pena di farsi conoscere realmente per quello che si è», fece poi, osservandomi attentamente. Deglutii.
«Se la pensi così costruisci un muro tra te e gli altri»
«Beh, diventare intimi con una persona è difficile e si raggiunge tale intimità quando questa riesce a capire cosa proviamo anche quando noi non vogliamo esternarlo. Troverò qualcuno capace di abbattere il muro»
«Abbattere il muro», ripetei sottovoce, abbassando il capo per riflettere sulle sue parole.
«Beh con questa illuminante riflessione ti lascio che si è fatto tardi. È stato un piacere sfatare i tuoi miti sulla mia perversione sessuale e spero di passare da “quasi accettabile” a “accettabile” un giorno»
«Con questa illuminante riflessione non mi farai dormire, lo sai?», lo punzecchiai, alzandomi dal letto mentre lui s’infilava sotto le coperte. Mi afferrò per il lembo della maglia, costringendomi a restare accanto a lui
«Esci dalla mia stanza finché sei in tempo. Non scordarti che sono il cacciatore e tu sei il mio cucciolo di bambi», sussurrò enigmatico. Alzai gli occhi al cielo e strattonai la maglia, andando verso la porta.
«Notte». Richiusi la porta alle mie spalle e Agatha, che stava passando di lì, si fermò e mi fissò.
«Sbaglio o sei appena uscita dalla stanza di Darren?». La sua espressione di sorpresa mi fece sorridere.
«Credo di aver avuto la conversazione più illuminante della mia vita»
«Illuminante?», rise la donna ed io annuii seguendola nell’altra stanza.
«Darren ha sempre fatto il cretino asociale e antipatico! E invece scopro che si sta dando da fare con l’università e che ha un cervello per elaborare qualche frase filosofica… è illuminante, sì!», esclamai e lei mi rivolse un sorriso dolce, scuotendo il capo.
«Darren è come una rosa… tutti sono troppo occupati a guardargli le spine pungenti e nessuno di si accorge dei suoi bellissimi petali», osservò. Restai a fissarla affascinata. Come fa ad avere sempre le parole giuste in ogni situazioni? E a dire cose così belle e profonde a quest’ora di notte?!
«Vado a letto, domani devo alzarmi presto»
«Buonanotte»
«Notte Agatha». Camminai lungo il corridoio scuro e mi chiusi in camera, mettendomi sotto le coperte.
Non facevo altro che pensare alla conversazione di prima e un po’ mi sentivo in colpa di non essere riuscita ad averla in tutti questi anni. Mi resi conto che Darren era un estraneo per me, se riusciva a sorprendermi per così poco, e che non sapevo nulla di lui. Avevamo mai avuto una conversazione cosi lunga?!
Mi venne in mente la conversazione di stamattina con Deborah e mi venne in mente che non avevo ancora avvisato Alexander.

Indovina un po’ chi mi ha contattato oggi?

Era tardi e probabilmente Alexander stava già dormendo, avrei avuto la risposta domani mattina probabilmente. E invece il telefono si mise a ronzare un minuto dopo.

Nuovo messaggio da: Alexander
Testo: Chi?


Wow, che entusiasmo.

Deborah Swan. Ci ha voluto aggiungere per forza alla lista degli invitati per il suo compleanno!

Due minuti dopo il cellulare stava squillando e sul display c’era il nome di Alexander. L’avevo messo in allarme per qualche motivo?
«Alexander?». Quando risposi mi accorsi di quanto schifosa fosse la mia voce assonnata.
«Sara! Davvero ci ha invitati alla sua festa?». Lo sentii più sorpreso che allarmato e la cosa mi rassicurò un po’.
«Sì… lo trovi così strano?»
«Beh, suo padre non si è fatto più sentire per il nostro contratto… sembra assurdo invitarmi a casa sua ora»
«Magari è ancora indeciso… avrai un’occasione in più per convincerlo, no?»
«Quando è l’evento?»
«Questa domenica». Fece una pausa di diversi istanti.
«Non posso esserci»
«Perché?»
«Se mi presento alla festa salta tutta la copertura del mio convegno all’estero e dovrai tornare a casa… e non abbiamo ancora scoperto nulla sul mittente del biglietto». Il suo tono di voce mi apparve alquanto frustrato ora e provai una certa delusione.
«Oh… vero. Mi dispiace… sembrava entusiasta di averci tra gli invitati»
«Vacci senza di me»
«Da sola..?»
«Inventa che sono fuori per lavoro e portati… boh Jeremy. Almeno sono sicuro che non ti lascerà un minuto da sola»
«Ci penserò», farfugliai indecisa.
«Mi serve il tuo aiuto. Devi cercare di convincere tu Patrick: gli piacevi, magari se sei gentile con lui…»
«Scherzi?! Vuole violentarmi!», esclamai inorridita al ricordo dei suoi occhi bicolori e del suo sorriso malizioso. Mi faceva rabbrividire solo a pensarci.
«Potresti anche contribuire alla società una volta tanto», bofonchiò lamentoso.
«Mi sembra di contribuire anche abbastanza», replicai testarda. Avevo contribuito anche troppo, visto che per altri undici mesi ero costretta a passare per la moglie di Mr Titanismo. 



Ciao a tutte! beh ho voluto pubblicare questo capitolo specialmente per farvi cambiare opinione su Darren... magari conoscendolo, come ha detto lui, vi si potrebbero aprire interessanti scenari.
Questo è un altro capitolo "leggero" per così dire ma mi conoscete... dopo un po' pubblico il capitolo-bomba xD e per i prossimi capitoli ho in mente qualcosa verameente interessante per smuovere un po' le acque u.u
spero di non avervi annoiate, ci sentiamo presto!
p.s. sono ancora aperta ai pareri su come immaginate i miei personaggi... anche se mi avete dato ispirazione e chissà, magari potrei decidere di mostrarvi come me li immagino io... v.v 

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Capitolo 13
*** Previsioni di bufera ***


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Pov Alexander

La porta bussò e alzai il capo dallo schizzo di un progetto che stavo valutando per osservare la figura minuta e composta di Elizabeth comparire sulla soglia con un sorriso timido sul volto.
«Mi scusi, signor Wilson, c’è una visita per lei», m’informò cortese. Guardai l’orologio digitale sulla scrivania e tornai a fissare la donna. Non ricordavo nemmeno di aver assunto tra le mie segretarie una biondina così minuta e timida che sembrava aver paura anche della sua ombra. Donne così non faranno mai carriera.
«Ho una riunione tra poco, non posso ricevere nessuno», tagliai corto, infilando tutti i fogli nella cartellina. Tra mezz’ora avrei dovuto revisionare con degli esperti il progetto di una nuova zona edificabile in periferia. Lei aprì la bocca per dire qualcosa ma la richiuse e mi fece un cenno col capo, chiudendosi la porta alle spalle. Mi alzai, mi specchiai attraverso il vetro della finestra che affacciava sulla strada principale e mi strinsi il nodo della cravatta. La porta bussò ancora e sentii la voce della donna alle mie spalle.
«Dicono che è una questione urgente»
«Di chi si tratta?»
«Non mi ha detto il nome… è una donna…». Aggrottai la fronte.
«Che tipo di donna?». Mica si trattava di…
«Piuttosto alta, dai capelli castani, sembrava abbastanza ansiosa di vederla…». Feci un sospiro brusco.
Se Sara è venuta qua, la uccido. Non può essere così stupida da mettersi così in pericolo e rischiare di far saltare la copertura.
«Falla entrare», ringhiai. Possibile mai che non sa stare per una volta al suo posto?!
Tornai a fissare fuori dalla finestra in cerca della sua auto ma non mi parve di scorgere né la sua, né qualche macchina sospetta di un potenziale inseguitore. Non riuscivo a dormire tranquillo sapendo che Ray non aveva ancora trovato l’uomo che si era spacciato per qualcun altro. Sentii il rumore della porta che si apriva, senza bussare. Solito di Sara.
«Come ti è venuto in mente di venire qua?!», feci scontroso, continuando a darle le spalle mentre fissavo le auto giù. Sentii alcuni rumori di passi, probabilmente di tacchi. Sara non porta quasi mai i tacchi.
«Vengo a farti una sorpresa e mi dai il benvenuto così?».
La voce non era di Sara. Quella voce impertinente, maliziosa, seducente, non era neanche minimamente la voce di Sara. Avvertii una fitta nello stomaco, come se mi avesse appena trapassato una lama, e mi voltai di scatto, incrociando un paio di occhi neri come il carbone. Mi uscì un sussurro strozzato.
«Angelica».

Pov Sara

Continua a camminare e fai finta di niente. Continua a camminare e fai finta di niente.
Svoltai l’angolo, avanzando impercettibilmente il passo, e finsi di guardare attraverso le vetrine dei negozi per controllare l’ombra dell’uomo che mi stava dietro da quando ero uscita dal lavoro. Mi passai le buste degli acquisti all’altra mano e pescai il cellulare dalla borsa.
Chiamo Jeremy? No, cretina, non devono sapere nulla di questa cosa.
Attraversai solo per vedere se anche lui faceva quel gesto e, come mi aspettavo, attese che mi mettessi a camminare sull’altro marciapiede per attraversare e continuare a seguirmi.
E se si tratta di quell’uomo che mi seguiva giorni fa? Forse è meglio se chiamo Alexander… magari mi manda uno dei suoi scimmioni della sicurezza… e se poi mi sto sbagliando? Alexander si arrabbierebbe di avergli solo fatto perdere tempo.
Decisi di entrare in uno dei tanti negozi, approfittando di un gruppetto di gente affollata, per fargli perdere le mie tracce. Mi nascosi dietro ad uno stand di maglie e vestitini, facendo finta di sceglierne qualcuno, osservando col cuore in gola attraverso gli abiti se fuori mi stesse aspettando qualcuno.
«Le serve qualcosa?». La signorina alle mie spalle mi fece trasalire e mi beccai la sua occhiataccia sospetta.
«Cercavo la mia taglia… oh, eccola! Posso provarlo?», feci con finta indifferenza, pescando il primo abito sullo stand. Neanche l’avevo guardato. La commessa annuì e mi mostrò i camerini poi una signora chiese il suo aiuto. La donna continuò a fissarmi sottocchio e così, per non destare sospetti, mi avviai alla cassa con quell’abito in mano. Tanto la carta di credito era di Alexander!
«La ringrazio, buona giornata», mi sorrise la donna alla cassa, certamente più gentile della commessa ed io con un sorriso forzato mi avviai all’uscita. Mi voltai a destra: non c’era nessuno. Feci la stessa cosa a sinistra e andai a sbattere contro qualcosa di grosso ma di morbido. Alzai il capo e mi ritrovai davanti all’uomo con il cappotto scuro e il volto coperto che prima mi stava seguendo e che ora aveva le mani sulle mie braccia per sorreggermi.
«Toglimi le mani di dosso! Chi diavolo sei?!», urlai isterica, agitandomi in preda e prendendolo a schiaffi sul petto per liberarmi dalla sua presa. Qualcuno che si trovava di passaggio si voltò incuriosito verso di noi: per fortuna non eravamo soli… non avrebbe potuto fare niente, no?
«Ssh!», sussurrò lui agitato, portandosi un dito al labbro. Mi rivelò un paio di occhi verdi e minacciosi.
«Mi stai seguendo da più di due ore», feci sulla difensiva, indietreggiando ancora un po’ nonostante lui tentasse di avvicinarsi.
«Stia tranquilla. Il mio nome è Robert Wallace e suo marito mi ha incaricato di scortarla fino a casa».
Lo fissai a bocca aperta e un’improvvisa voglia omicida mi assalì. Afferrai di scatto il cellulare e composi il numero di Alexander.

Pov Alexander

«… scusa un attimo», borbottai, infastidito dalla vibrazione insistente del cellulare. Ora si trattava davvero di Sara. Mi allontanai leggermente da Angelica verso la finestra. «Sto lavorando», bofonchiai al telefono e lo allontanai all’orecchio per staccare quando sentii le sue urla dall’altro lato. Che diavolo stava succedendo?!
«Razza di imbecille quando avevi pensato di dirmi che avevo una scorta?!», sbraitò ed io con una smorfia allontanai il telefono dall’orecchio.
«Me l’ero scordato, te l’avrei detto»
«Dopo avermi fatto prendere un infarto!», replicò ancora più arrabbiata mentre sentivo di sottofondo la voce di Robert che tentava di farla ragionare. Con la coda dell’occhio vidi Angelica mordersi il labbro per soffocare un sorriso divertito.
«Sei ancora viva, quindi non vedo quale sia il problema»
«Non la passi liscia con questo tuo tono arrogante e autoritario!  Dovresti almeno avvisarmi quando prendi decisioni su di me»
«Poi ne riparliamo, fatti scortare da Robert»
«Non osare riattacc-». Certe volte era davvero insopportabile. Ok, un “certe volte” che era sinonimo di “molto spesso”. Sbuffai e spensi il telefono, gettandolo sulla scrivania.
«Arriva la prima crisi matrimoniale?», ridacchiò Angelica, allungando il collo per vedere la mia espressione.
«Non sono affari che ti riguardano», sbottai, voltandomi verso di lei.
«L’austero Alexander Wilson che non riesce a domare una ragazzina», cantilenò con fare epico e mi parve davvero divertita. A me infastidiva soltanto il fatto che si prendesse gioco di me con quei suoi modi di fare e il suo tono di voce impertinente.
«Allora… cosa vuoi?». La osservai impaziente, ripetendomi di mantenere mentalmente la calma, fissandola attentamente mentre lei armeggiava con un accendino che faceva i capricci. Frugai velocemente nel cassetto e poggiai sulla scrivania sotto i suoi occhi un accendino nuovo, sedendomi.
«Grazie», farfugliò con la sigaretta tra le labbra. «Sai, mi ha sorpreso molto la notizia del tuo matrimonio», accennò con nonchalance, posando l’accendino sulla scrivania. «Non eri tipo da legami, mi dicevi…»
«Angelica…»
«Ho saputo che vivete nella nostra vecchia casa. Dormi ancora nel nostro letto?», la buttò lì sullo scherzo, assaporando il primo tiro di tabacco e soffiandomelo in faccia.
Contai mentalmente fino a dieci per evitare di scattare dalla sedia e cacciarla a calci. Non avevo dubbi sui motivi che l’avevano portata qui, anche se non mi sarei mai aspettato che si fosse decisa proprio ora a intervenire. E mi aveva innervosito sufficientemente la sua finta indifferenza: lo sapevo che alla fine avrebbe tirato fuori il passato, era solo questione di tempo. Mi alzai dalla sedia e mi sistemai la cravatta, dandogli le spalle per prendere la ventiquattrore.
«No, ho cambiato tutti i mobili. Ho una riunione ora, se non ti dispiace»
«Aspetta! Ho una proposta interessante da farti»
«Riguardo a cosa?». Mi voltai di nuovo per incrociare il suo sguardo furbo e malizioso e le sue labbra si curvarono in un altro sorriso complice.
«Potrei aiutarti a scoprire chi vuole mettere le mani sulla tua azienda». Smisi di respirare, guardando la sua espressione compiaciuta e chiedendomi come diavolo facesse a sapere di quel biglietto.  Accavallò le gambe mentre si concentrava sulla sigaretta, ora colorata del rosso del suo rossetto sul bordo.
Dannazione perché non parla?!
Questa donna mi aveva rovinato già abbastanza, doveva smetterla di intromettersi nella mia vita. Allungai una mano verso il telefono e composi il numero della reception con impazienza.
«Signor Wilson, mi dica»
«Chiami un taxi per la signorina Bailey».

Pov Sara

«Scusami per prima… non volevo assalirti. Mi sono solo spaventata», mugolai imbarazzata, guardando Robert con aria colpevole. Durante il tragitto avevamo avuto modo di chiacchierare un po’ e così ora sapevo che Robert Wallace era un ex agente della polizia che lavorava da un paio d’anni come agente della sicurezza alla Wilson Group, aveva quarant’anni, una moglie incinta del suo primo figlio e una passione per i Beatles. Era persino simpatico.
«Non si preoccupi, ha tutte le ragioni del mondo per pensare che fossi un maniaco», rise.
«Oh, no, non era per quello… è che ultimamente sono stata pedinata e…»
«Sono a conoscenza del biglietto. Aiuto il signor Wilson nelle ricerche», tagliò corto. Ma certo, che sciocca. «Ci vediamo domani allora»
«Buona giornata». Gli sorrisi e lo ringraziai per avermi aiutato con le buste zeppe di vestiti, entrando in casa.
«Ehi, ehi, guarda che sono geloso!», sbottò Jeremy non appena misi piede in camera.
«Chi era quello?», bofonchiò Darren, incrociando le braccia al petto. Restai a fissarli perplessa. Ma quante guardie del corpo ho ultimamente?!
«Queste vanno in camera mia, grazie», sorrisi sorniona, dividendo le buste trai due. Si scambiarono un’occhiata complice prima di posare le buste a terra e correre nella mia direzione.
«Jer, prendila per i piedi!», esclamò Darren circondandomi con le sue braccia forti. Emisi un gridolino mentre mi sollevavano da terra e mi trascinavano per il corridoio sotto lo sguardo divertito di Agatha.
«Mettetemi giù! Per favore!»
«Eh no, diremo ad Alex che ti sei fatta l’amante!»
«Non era il mio amante! Agatha, aiutami!». Ogni tentativo di dimenarmi fu vano e mi trascinarono fino in camera, scaraventandomi sul letto e portandomi poi le buste.
«Ma perché hai comprato tutta questa roba?!»
«Domani devo andare al compleanno di Deborah Swan… ci sarà gente altolocata lì». Alzai gli occhi al cielo mentre Jeremy mi scostava i piedi per sedersi sul bordo del letto. Darren sfilò dalla busta un miniabito nero e tirò un fischio.
«Più che festa di altolocati con questo coso vai a battere», osservò sarcastico. Fissai il vestitino inguinale con aria sospettosa: non ricordavo di averlo preso. Forse è quello che ho comprato perché la commessa mi stava lanciando fulmini e saette con gli occhi.
«Cosa ti importa di cosa mi metto», farfugliai strappandogli l’abito dalle mani. Darren fece alcuni versi di dissenso, scuotendo il capo.
«Che fine ha fatto il mio ingenuo cucciolo di bambi»
«Nella tana del cervo», intervenne Jeremy scherzoso.
«Dopo aver visto quel tizio fuori alla porta, il cervo delle averle parecchio lunghe le corna…», ridacchiò Darren.
«Ma che stronzi!», squittii mentre loro si iniziarono a scompisciare dalle risate. «In tutto questo… chi mi accompagnerà domani alla festa?»
«Io», fecero in coro loro due, scambiandosi poi delle occhiate di sfida. Tirai un sospiro rassegnata.
Entrai nella sala dei ricevimenti degli Swan sotto il braccio di Jeremy e Darren: camminavano ai miei fianchi come se andassero fieri di mostrarmi in giro, senza staccarsi da me un secondo.

«Penso che Vincent si sia preso una bella cotta per te», osservò Darren con una punta di fastidio, squadrandomi dalla testa ai piedi. Alzai gli occhi al cielo, accasciandomi dolorante sul letto.
Era stato parecchio apprensivo questa sera, aveva lanciato occhiatacce a chiunque mi si avvicinava e per poco non aveva tirato un pugno a Vincent.
«Sono una donna sposata», feci sarcastica mostrandogli la fede.
«Ora che ci penso… non hai avuto neanche un addio al nubilato come si deve». Jeremy e Darren si guardarono negli occhi con aria complice.
«Prendo la vodka nascosta in cantina?», sussurrò Jeremy e gli occhi di Darren brillarono, segno che Jeremy aveva capito cosa intendesse suo fratello.
«Dai, non farete sul serio! Non lo reggo l’alcool», feci nervosa, guardando Jeremy perché era l’unico che poteva graziarmi.
«Appunto. Sarà ancora più divertente», fece Darren entusiasta come un bambino. Guardai ancora Jeremy che si scrollò le spalle.
«Ho già bevuto abbastanza stasera»
«È per festeggiare il tuo ritorno a casa. E per l’addio al nubilato al quale avevi diritto!».
Ci ritrovammo tutti nella mia stanza a ridere per ogni piccola cosa, assaggiando diversi tipi di vodka che chissà com’erano comparsi per magia dalla cantina grazie a Jeremy. Ovviamente tra i tre io ero quella che stava peggio.
«Ogni nubilato che si rispetti merita un po’ di musica e qualche cubista», scherzò Darren inserendo un cd che aveva preso dalla sua stanza nel lettore sotto la televisione.
«Io faccio la cubista», si propose Jeremy, alzandosi in piedi e mettendosi a ballare goffamente.
«Aspetta!». Mi alzai anch’io, barcollando, e presi uno dei miei reggiseni, facendoglielo indossare. Scoppiammo a ridere.
«Ci manca il palo per la lapdance», rise Darren, crollando sul letto con le lacrime agli occhi.
«Quello posso farlo io!». Alzai le braccia al cielo e lasciai che Jeremy giocasse a fare la ballerina di lapdance strusciandosi con una goffaggine tutt’altro che sexy contro di me. Darren prese il telefono, riprendendo Jeremy, gongolando che avrebbe potuto ricattarlo a vita.
«Ragazzi, basta! Sono esausta!», sospirai, crollando sul letto accanto a Darren. «Mi gira tutto»
«Sì, meglio che vado a dormire», ridacchiò Jeremy restituendomi il reggiseno. Cercai di prenderlo al volo ma fallii e non mi curai di raccoglierlo dal pavimento. Jeremy ci lasciò all’improvviso da soli, barcollando mezzo ubriaco per il corridoio, e ci avvolse un silenzio sepolcrale e davvero rilassante. Sentii gli arti abbandonarsi mollemente sul letto e le palpebre farsi pesanti: chiusi gli occhi, avvertendo sempre di più la sensazione di vicinanza di Darren a me. Ero troppo stanca per aprire gli occhi e per capire cosa stava facendo, quando sentii i suoi capelli solleticarmi la fronte e una leggera pressione sulle labbra.
Sono morbide… e ha un vago sapore di vodka alla fragola… è la sua lingua che sta accarezzando la punta della mia? OH DIO!
Come se mi fossi svegliata da un sonno profondo, aprii di scatto gli occhi per incrociare quelli di Darren: mi stava baciando con gli occhi aperti per tenere d’occhio la mia reazione. Oppure si era accorto che avevo trattenuto il respiro e stavo per urlargli contro qualcosa. Mi allontanai di scatto boccheggiando e fissandolo come se fosse un alieno.
«Che cosa stai combinando?!», sbottai con respiro corto, facendomi leva sui palmi per scostarmi da lui. Dio che mal di testa…
«Sono solo curioso…», accennò divertito abbassando il capo per guardare la sua mano che si poggiava sulla mia caviglia. Con l’indice e il medio picchiettò risalendo lungo la gamba e lasciai che mi sfiorasse la coscia. «Di testare il tuo livello di ebrezza». Perché cazzo non avevo più la forza di reagire?! Maledetto alcool!
«E qual è il verdetto?», mugolai osservandolo sull’allerta mentre sollevava leggermente l’orlo del vestito per scoprire di più le cosce. Si chinò in basso senza staccare lo sguardo dal mio e sfacciatamente iniziò a lasciarmi dei baci lascivi sulla coscia, palpandola con dolcezza. Faticai a trattenere un brusco sospiro.
«Sei così ubriaca che stasera farai l’amore con me», sussurrò.



Ciao ragazze! 
Innanzitutto buone feste a tutti e perdonate la mia assenza xD Spero che il capitolo vi sia piaciuto ^^
Conto di poter lavorare di più sul nuovo personaggio di Angelica (so che siete curiose di scoprirla u.u) e... beh, a quanto pare Sara ha un debole per Darren.. chissà cosa succederà quando tornerà cosciente di sé u.u
Ho deciso di saltare la parte della festa di compleanno di Deborah, spero che questo salto temporale non vi abbia fatto storcere il naso! E stessa cosa vale per i continui cambiamenti di punti di vista tra Sara e Alexander..
Credo che inizierò un bel giochetto... ad ogni capitolo vi mostrerò i personaggi, almeno per come li immagino io u.u
Iniziamo con Jeremy... Francisco Lachowski non ha gli occhi azzurri ma vabbè... ahaha a presto!


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Capitolo 14
*** Per un bicchiere di troppo ***


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«Alexander? Mi stai ascoltando?». Le parole di Angelica zittirono i miei pensieri, facendomi tornare alla realtà. Incrociai i suoi occhi scuri e guardai confuso le sue labbra colorate di rosso che si increspavano, pronte a sbuffare.
«Sì», mugolai e lei alzò gli occhi al cielo. Era sexy quando alzava gli occhi al cielo spazientita.
«E cosa ho detto?», borbottò incrociando le braccia al petto in segno di sfida. La guardai senza sapere che dire e poi feci una risatina nervosa.
«Andiamoci a prendere un caffè va…», sorrisi, circondandole la vita con un braccio. Oppose resistenza, piantando i piedi a terra.
«Eviti
sempre l’argomento», mi accusò. «Non ti vado più bene?». Tirai un sospiro.
«Angelica, non ho detto che non voglio sposarti. Non è ancora il momento»
«Per te non è mai il momento…»
«Lo sai che non sono tipo da legami»
«E allora finiamola qui se non vuoi nessun legame con me», bofonchiò. Le scostai i capelli dal volto, mettendoglieli dietro l’orecchio.
«E se invece andassimo semplicemente a prendere questo caffè?», sussurrai speranzoso. Lei mi guardò negli occhi con aria offesa, poi pian piano si dipinse un sorriso divertito sul suo volto. Forse era a causa della mia espressione disperata che le implorava pietà!
«Andiamoci a prendere il caffè», acconsentì, stringendosi sotto al mio braccio, il suo profumo ad avvolgermi fino a inebriarmi. Che donna impossibile!


Afferrai la cornice e presi la fotografia all’interno. Osservai ancora una volta i contorni del suo volto mentre sfioravo il bordo tagliente del ritaglio: Angelica e Sara erano completamente diverse… quasi agli opposti, come la luce e le tenebre.
Strappai la foto in quattro parti e la gettai nella spazzatura. Chissà quale forza misteriosa non aveva mai fatto notare a Sara quella foto sulla mensola in alto che avevo dimenticato di buttare. Era stata così furba da sospettare qualcosa quando aveva visto il posacenere pieno… forse avevo fatto un errore a tornare in questa casa, avevo tanto sperato che Angelica fosse rimasta chiusa nello scatolone dei ricordi.
«E invece… solo un’altra seccatura», sbuffai, buttandomi sul letto che ondeggiò sotto di me.
Chissà per quale motivo Angelica era tornata. E chissà perché sapeva già tutto.
E chissà cosa stava combinando Sara… vivere solo come un vedovo era parecchio angosciante: dovevo sbrigare questa faccenda al più presto e far tornare Sara a casa. Nonostante tutto, mi teneva compagnia.
Si sentì un gran fracasso provenire all’esterno e due colpi sulla porta. Balzai in piedi con il cuore in gola e mi precipitai subito fuori, facendo scivolare lo sguardo sul bigliettino bianco piegato ai miei piedi. Il rumore delle ruote che slittavano sull’asfalto per svoltare catturò la mia attenzione e senza riflettere misi il biglietto in tasca, infilandomi nell’auto.
C’entrava sicuramente con la storia dell’azienda: mi avevano già mandato un biglietto come quello. Purtroppo però ero arrivato tardi e, arrivato fuori al viale, c’era solo un continuo via vai: di quell’auto nera che avevo visto di sfuggita non c’era traccia. Accostai sul marciapiede e spensi il motore, tirando un sospiro mentre mi grattavo il capo. Non mi era mai successa una cosa del genere prima d’ora. Volevano l’azienda già ai tempi di papà? Mi aveva lasciato in qualche casino? O forse il fatto di aver celebrato un matrimonio a poco tempo dal suo aveva messo dei sospetti… ma come facevano ad avere la certezza che fosse tutto finto?
Allungai la mano nella tasca dei pantaloni ed estrassi il biglietto piegato in due, scritto ancora una volta al computer.

Il termine sta scadendo. Potrebbero esserci risvolti interessanti in quell’edificio scolorito in Palm Street.
La signora Wilson è adorabile con quella sua gonnellina stretta…


Avvertii un brivido di terrore salirmi lungo la schiena. Afferrai subito il cellulare ignorando tutto quello che avevo fatto cadere dalla ventiquattrore e composi rapidamente il numero di Ray. Mi misi il cellulare tra l’orecchio e la spalla e accesi il motore, svoltando per tornare indietro.
«Signor Wilson, mi dica»
«Ray, ti aspetto da me».
Parcheggiai davanti casa e attesi che Ray venisse. Se il buon giorno si vede dal mattino… si prospettava una giornata di merda.
Ray arrivò una decina minuti dopo con aria preoccupata, squadrandomi come se volesse intuire che cosa era successo. Mi seguì in casa e accettò il caffè che gli offrii.
«Hanno minacciato Sara. Stamattina mi è arrivato un altro biglietto», lo informai, perdendomi nel mio caffè. Gli porsi il biglietto per farglielo leggere e la sua espressione parve all’improvviso più tesa.
«Mi pare evidente che hanno fatto delle ricerche sulla signora…»
«Vogliono una risposta, si stanno spazientendo e iniziano a sospettare che stiamo tramandando qualcosa»
«Dopotutto hanno minacciato Sara. Quasi a dire “o ti muovi o le cose non andranno bene”», mugolò grattandosi il mento mentre fissava sovrappensiero la sua tazzina vuota. «Potrebbe essere pericoloso»
«Già…», bofonchiai, giocherellando con il bordo della tazza che sfioravo con il polpastrello. «Dovrei dire a Sara di non andare più a lavoro. Potrebbe lavorare anche da casa… ma vaglielo a spiegare!»
«Pensa sia meglio andare a controllare la zona?»
«Sì, fatti un giro lì intorno. E comunque non diciamole nulla, non voglio spaventarla». Ray mi fissò per diversi istanti poi annuì e si alzò, sistemandosi il giubbotto.
«La tengo aggiornata»
«Grazie Ray, fai attenzione». Abbozzò un sorriso di cortesia e uscì, lasciandomi solo a fissare il biglietto dispiegato sul tavolo. Composi il numero di Robert che dopo due squilli mi rispose.
«Robert d’ora in avanti non ci sarà bisogno di scortare Sara a lavoro, resterà a casa. Resta di guardia e segui comunque i suoi spostamenti».  
Ora restava solo una cosa da fare… dovevo chiamare Sara e convincerla, in qualche modo, a starsene a casa.

Pov Sara

«Sara, ma sei morta?!». Sentii un gran fracasso provenire dall’altra parte della porta e la voce preoccupata di Agatha che non la smetteva di bussare a suon di pugni. Incoscientemente sapevo che mi stava chiamando da una buona mezz’ora.
«Si… cioè no!», farfugliai con la voce impastata di sonno, rigirandomi nel letto.
«Stai bene?», insistette lei. Forse dovevo aprirla…
Aprii gli occhi e scostai le coperte, provando a tirarmi su. La testa mi girò vertiginosamente e salì un conato di vomito. Non potevo farmi vedere in questo stato da lei… avrebbe esagerato come al solito e mi avrebbe bombardato di medicinali.
«Mi vesto e scendo», replicai cercando di assumere un tono quanto più normale possibile.
«C’è Alexander che sta chiamando da stamattina, cosa gli devo dire?»
«Lo richiamo io dopo». La sentii borbottare qualcosa e allontanarsi e io tirai un sospiro di sollievo. Perché Alexander avrebbe dovuto chiamarmi così insistentemente?
Riuscii a mettermi in piedi e mi guardai attraverso lo specchio dell’armadio: capelli scompigliati, il trucco sbavato, avevo dormito soltanto in slip e canotta anche se non ricordavo quando mi fossi svestita di preciso. Il mio sguardo andò sul segno violaceo che avevo sul collo… un succhiotto?
Mi avvicinai allo specchio per esaminarlo meglio: sì, era proprio un succhiotto.
Nel tentativo di fare mente locale venni investita da una serie di flash: Jeremy, la vodka, Darren.
«Porca puttana», sussurrai, fissando il riflesso della mia figura sconvolta.
Mi maledissi in tutte le lingue del mondo mentre mi scorrevano davanti le immagini di Darren che mi baciava, Darren che mi accarezzava, Darren che mi spogliava… era tutto così confuso, un misto di sensazioni, odori e sapore di fragola, ero così ubriaca che non riuscivo a ricordarmi bene cosa diavolo era successo di preciso. Sul pavimento era abbandonato il mio vestito e il mio reggiseno.
«No, no, no, no», continuavo a ripetermi sconvolta, sottovoce, mentre pensavo all’orrore che era appena successo.
In tutti questi anni ero riuscita a tenere Darren a bada… e ieri sera ci ero finita a letto.
E se l’avesse già detto a Jeremy? Cosa penserebbe di me? E Alexander… oh Dio sono morta.
Lottai contro il mio istinto di scoppiare in lacrime, divisa tra il tornare a dormire sperando che fosse un incubo e l’andare da Darren a chiedergli chiarimenti.
E invece avvertii nuovamente un senso di nausea e uscii fuori dalla mia camera di corsa, scontrandomi contro qualcuno, mentre mi chiudevo in bagno per vomitare.
Quando uscii, Jeremy era lì che mi guardava con aria di rimprovero, le braccia conserte al petto, il viso serio, gli occhi fissi su di me.
Cazzo… Darren è già andato a sbandierare tutto in giro?!
«Hey», sussurrò, poggiandomi le mani sulle spalle per guardarmi preoccupato.
«Non preoccuparti, sto bene», farfugliai, chinando il capo. I capelli mi scivolarono davanti coprendomi il viso e risparmiandogli la visione di me completamente fuori fase.
«Forse ieri abbiamo esagerato un po’», lo sentii ridacchiare.
«Te l’avevo detto che non lo reggevo», bofonchiai quasi arrabbiata.
«Eh già… devi essere ancora mezza ubriaca… dopotutto, sei mezza nuda davanti a me», la buttò sulla leggera. Sgranai gli occhi e improvvisamente mi ricordai di essere in mutande.
«Oh Dio! Ehi, voltati devo tornare in stanza!», squittii tentando invano di coprirmi con la canotta che per poco non mi feci arrivare alle ginocchia rischiando di scoprirmi sopra. Lui alzò le mani in segno di resa e si mise a ridere, lanciandomi un’ultima occhiata avida prima di voltarsi.
Non ero sicura che fosse rimasto così mentre tornavo in camera ma poco mi importava ormai. Recuperai in fretta qualcosa di comodo dall’armadio e iniziai a spazzolarmi i capelli, poi mi coprii con un po’ di correttore il succhiotto che mi aveva fatto Darren. Mi sembrava ancora tutto un sogno…
Scesi in cucina e solo allora mi accorsi che il sole era già tramontato. Jeremy se ne stava stravaccato sul divano con le caviglie sul tavolino guardando annoiato la tv mentre Agatha mi dava le spalle affettando qualcosa.
«Sei uscita dalla tana finalmente», fece ironica, senza staccare lo sguardo dalle patate che tagliava a cubetti. Doveva avermi sentita arrivare…
«Faresti meglio a ritornarci se non vuoi assaggiare la zuppa di verdure», sbottò Jeremy.
«Non fare il bambino», sbottò Agatha. Storsi il naso e mi avvicinai a lei.
«Non è che abbia così tanta fame…», sussurrai trai denti quasi col timore di parlare. E infatti lei mi incenerì all’istante: per la prima volta il suo sguardo si posò su di me e mi analizzò con precisione quasi scientifica.
«Ieri sera vi siete dati alla pazza gioia, anche Darren è ancora chiuso in camera», esordì quasi con tono di rimprovero. Mi immobilizzai e sentii le guance andare a fuoco. Possibile che Agatha ci aveva sentiti mentre…?
«Stavo studiando». Trasalii quando sentii improvvisamente la vicinanza di Darren che si era messo tra me e Agatha per afferrare un pezzo di pane. «Non spreco il mio tempo dormendo, come Sara», aggiunse divertito infilandosi in bocca tutto il pezzo, posando poi gli occhi su di me.
Io, che lo stavo fissando, staccai velocemente lo sguardo dal suo e mi allontanai. Mi innervosiva il solo fatto che Darren fosse a pochi centimetri da me e fu una tortura per tutto il resto della serata… averlo di fronte che mi fissava, mi sfiorava di proposito con la scusa di afferrare la bottiglia, mi spronava a parlare e lanciava frecciatine.
«Beh, non mi avete raccontato com’è andata la festa. Vi siete divertiti?»
«Nulla di che», bofonchiò prontamente Jeremy giocando col cibo che non gli andava a genio.
«Sara invece si è divertita parecchio», accennò Darren malizioso, provocandosi l’occhiata perplessa di Jeremy, che alla fine sorrise e fece il gesto di una bevuta con il pollice destro. Per fortuna non sapeva nulla di quello che era successo quando era andato via.
«Deborah era adorabile», risposi prontamente, deviando l’argomento per parlarle del suo vestito, degli addobbi, dei regali. Era facile deviare Agatha.
«Ragazzi, io vado a letto, devo recuperare qualche ora di sonno», sospirò Darren alzandosi dalla tavola.
«Vado anch’io, non mi sento bene…», commentai, alzandomi insieme a lui.
«Sara non dimenticare Alexander»
«Vado a chiamarlo». Aiutai Agatha a sparecchiare, diedi un bacio sulla guancia a Jeremy e percorsi il corridoio diretta verso la mia camera.
In realtà speravo che Darren si fosse comportato diversamente… non sapevo nemmeno io se andare da lui per chiarire o lasciar correre tutto. Avevo paura che, se non lo avessi avvertito -o minacciato-  lui avrebbe spifferato tutto in giro… dopotutto se Alexander divorziava da me la società andava nelle sue mani.
«Cucciolo di Bambi». Trasalii quando una mano mi afferrò il polso. Nel buio non avevo fatto caso a Darren appoggiato alla parete. Mi stava… aspettando?
«Mi hai spaventata!», mugolai con tono accusatorio, tirandomi bruscamente indietro la mano.
«Perdonami», sussurrò e lo vidi sorridere nell’ombra. «Non ti violento mica, lo sai bene che sono abbastanza romantico in queste cose…». Che stronzo.
«A proposito», accennai, tirando un sospiro per trovare la forza di parlare.
«Mmh?»
«Riguardo a ieri sera…»
«Mmh?»
«La smetti di dire “mmh”?!», squittii nervosa, fulminandolo con lo sguardo. Era già abbastanza difficile e terribilmente mortificante dover ammettere di aver ceduto alle sue viscide lusinghe, figuriamoci poi se mi guardava così maliziosamente con un sorrisino e un’espressione compiaciuta.
«So cosa stai per dirmi, Sara. Sicuramente sarai stata tutto il giorno chiusa in stanza a rimuginarci su cercando una scusante e ora inizierai ad accusarmi di averti sedotta, di aver approfittato di te, che in realtà non volevi fare sesso, bla bla…», fece con nonchalance, alzando lo sguardo al soffitto mentre incrociava le braccia al petto. Mi uscì dalla gola una specie di gemito soffocato.
«Sesso...?», mugolai mentre la mia ultima speranza svaniva. Ci avevo sperato davvero che si fosse trattato solo di un sogno, che magari ci fosse stato solo un bacio e nulla di più.
«Eri ubriaca forte per non ricordartelo!», esclamò ridendo divertito.
«Ma me lo ricordo!», replicai infastidita, avvertendo una strana sensazione che mi faceva venire il prurito alle mani. Quella è la voglia di prendere a pugni il suo bel faccino, Sara.
«Ah, si?», sussurrò accorciando improvvisamente le distanze quando allungò una mano per sfiorarmi dolcemente la punta del naso. Arrossii imbarazzata. Con chi credeva di avere a che fare? Una bambina?!
«Ricordo… qualcosa… ma pensavo che non ci fossimo spinti a… insomma…»
«Mi sei letteralmente saltata addosso», ridacchiò, spostando la mano sulla guancia per mettermi dietro l’orecchio una ciocca di capelli. La sua mano scivolò alla schiena, sfiorandomela con i polpastrelli come se stesse per abbracciarmi. «Il mio cerbiatto si è trasformato in una tigre».
Il silenzio venne interrotto dallo schiaffo sonoro che lo colpì in pieno volto. Mi sorpresi del mio stesso gesto ma non mi dispiacque per niente, la rabbia mi aveva completamente accecato: non ricordavo il preciso istante in cui mi era partito lo schiaffo.
«Sei un bastardo», ringhiai con la sua immagine sfocata dal velo di lacrime. Le ricacciai indietro infastidita, guardandolo il cagnesco. Aveva smesso di parlare, sorpreso dal mio gesto. Ora il suo sguardo era diventato più scuro, più ostile… faceva quasi paura.
«Ah, io sarei il bastardo?», sussurrò minaccioso. «Mi desideri da quanto mi conosci, Sara, e ieri sera mi hai avuto. Ammettilo, lucida o meno, hai ottenuto quello che volevi. Non essere ridicola, c’è un motivo se hai fatto quello che hai fatto», sbottò indignato. Sgranai gli occhi per l’assurdità delle sue parole.
«Ma non ti vergogni? Hai approfittato di me mentre ero ubriaca. Sono sposata, Darren…»
«Non dire stronzate, lo sappiamo perché hai sposato Alexander! O si è riaccesa la fiamma di cinque anni fa…?»
«Vuoi un altro schiaffo? Perché ti assicuro che sta per partire»
«Non prendertela con me se non riesci a far pace col cervello», borbottò, voltandosi per aprire la porta della sua stanza. Cavolo, quanto poteva essere odioso con quella sua aria di presunzione!
«Tu… ci provi gusto nel rendermi la vita un inferno!», lo accusai, dandogli uno spintone sul petto.
«Ehi, stai calma, mi stai spingendo dentro la camera… non vorrai mica il bis?». Sgranai gli occhi. Il bis.
«Sei l’essere più schifoso di questa terra!», sbraitai, dandogli le spalle andandomene infuriata.
Ebbi un giramento di testa e poi di nuovo quel fastidioso senso di nausea. Quanto doveva durare questa sbronza che mi aveva portato solo guai?!
Ero finita in questo casino per un bicchiere di troppo...



Salve a tutte! :)
Morivate dalla curiosità di sapere cos'era successo tra Darren e Sara e...beh in un certo senso vi ho accontentate u.u
Ovviamente non finisce qui, non sarebbe poi così divertente, quindi continuate a seguirmi u.u
Ci sto andando "piano" perché sono dei capitoli più difficili di quanto pensassi da scrivere quindi abbiate un po' di pazienza, cerco di fare il mio meglio xD
Vi lascio con un'altra immagine, stavolta tocca a Sara: l'ho pensata un po' come Adelaide Kane spero di non aver stravolto completamente l'idea che vi eravate fatte di lei :3 e sono ancora aperta ai pareri per il volto di Alexander e Darren! :P
Ci sentiamo presto, un bacione!


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Capitolo 15
*** Piccole incomprensioni ***


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Il telefono squillò per l’ennesima volta senza risposta. Iniziavo davvero a spazientirmi.
«Casa Wilson»
«Agatha!», esclamai sollevato, sentendola mugolare qualcosa col fiatone. Probabilmente era dall’altra parte della casa e aveva fatto una corsa per rispondere.
«Ah, Alex! Come stai?»
«Io sto bene. Mi sto preoccupando per Sara, non riesco mai a parlarci… che diavolo ha?»
«Non ti ha richiamato quella sbadata? Non sta molto bene ultimamente, avrà preso l’influenza…». La sentii sospirare. La ringraziai e la salutai, componendo rapidamente il numero di Robert e lui seppe solo dirmi che Sara non usciva di casa da giorni. Avevo la sensazione che Sara stesse cercando di evitarmi, ma se non era uscita di casa evidentemente stava male davvero.
Il display si illuminò e sentii una vibrazione. Toccai l’icona di un messaggio sullo schermo.

Mittente: Angelica
Testo: Ci sei per il pranzo? Facciamo tra mezz’ora al solito posto.
Devo parlarti di una questione importante.


Digitai velocemente un “ok” e mi infilai una maglia pulita addosso.
Non che avessi poi così tanta voglia di rivederla, di aspettare che si fumasse la sua sigaretta prima di parlare e di lasciarle buttare tante frecciatine sulla nostra relazione, ma dovevo capire cosa c’entrava Angelica con la mia azienda: l’ultima volta l’avevo letteralmente cacciata dal mio ufficio.
Il solito posto al quale alludeva Angelica era il ristorante dove eravamo soliti pranzare assieme tempo fa, quando i nostri orari di spacco coincidevano. Presi uno degli ultimi tavolini e guardai l’orologio, conoscendo la sua puntualità sarebbe dovuta arrivare nel giro di pochi minuti.
E infatti Angelica era appena entrata ondeggiando sui suoi tacchi attirando l’attenzione dei clienti più vicini all’ingresso e sfoderando un enorme sorriso fino a quando non si sedette di fronte a me.
«C’era un traffico incredibile», sospirò, sfilandosi la giacca per sbattermi in faccia il suo décolleté. Sperai davvero che non usasse ancora il vecchio trucchetto della seduzione perché non con me non poteva più funzionare ormai.
«Sta passando il cameriere per l’ordinazione, sbrigati a decidere che mi secca averlo attorno tutto il tempo», borbottai, indicando col capo il menù sotto ai suoi occhi.
«Ah, prendo quello che prendi tu, non mi interessa» fece con nonchalance, digitando qualcosa al cellulare. Feci cenno al cameriere  di avvicinarsi e ordinai due porzioni di arrosto all’arancia e insalata e una bottiglia di vino. Appena il cameriere se ne andò chiuse il telefono e lo gettò in borsa, poi accavallò le gambe come suo solito e distrattamente sfiorò la mia coscia, mettendosi le mani incrociate sotto il mento per sorreggersi il capo con i gomiti. Iniziò a fissarmi con insistenza, iniziando a strofinare il piede lentamente lungo la mia gamba. Ovvio che quello di prima non era un gesto casuale.
«Angelica, che stai facendo?», dissi serio, guardandola dritto negli occhi. Lei smise all’istante e scoppio a ridere, poi il suo sguardo malizioso lasciò posto ad un’espressione divertita.
«Eddai, ti stavo prendendo in giro, non sto cercando di sedurti per recuperare il mio ex»
«Ah, no?»
«No, ho smesso di sperare riconquistarti. Dopotutto… hai fatto le tue scelte», fece spallucce, giocherellando con il bicchiere davanti a lei. E menomale. «E poi tengo da parte le questioni di cuore quando si tratta di affari»
«Non ricordo di avere una questione di affari con te», feci sospettoso.
«Se tu mi avessi ascoltato quando sono venuta a trovarti in ufficio magari…», accennò senza terminare la frase.
«Arrosto all’arancia per i signori», fece il cameriere, servendoci.
«Grazie».
Riempii i nostri bicchieri di vino e osservai Angelica tagliarsi un pezzo di carne e infilarlo in bocca.
«Mmh, avevo dimenticato quanto fosse buono il cibo qui», sorrise e io ricambiai con un sorriso di cortesia.
«Anche io non ci venivo da molto», mugolai prima di infilarmi in bocca un boccone, cercando di ricordare l’ultima volta che ci ero stato. Forse proprio con Angelica, un paio di anni fa. «Allora… quali sono questi affari di cui parli?»
«Ci ho riflettuto su e ho pensato che se le nostre società collaborassero, sarebbe più difficile per il tuo ricattatore impossessarsene… insieme possiamo smascherarlo». La guardai perplesso e sorpreso contemporaneamente, più parlava e più alimentava i miei dubbi e i miei sospetti.
«Mmh e il tuo ricavo dov’è?»
«Tu salvi l’azienda mentre io ci guadagno popolarità con il tuo nome accanto al mio, visto che sta completamente andando in bancarotta»
«Ma come fai a sapere del biglietto? Non l’ho detto a nessuno»
«Certe cose si vengono a sapere…», fece vaga, sorseggiando dal calice di vino e leccandosi le labbra.
«Cosa significa?», borbottai.
«Allora? Ci stai?». Come odiavo non ricevere risposte. E io ne avevo bisogno: tutta la faccenda mi puzzava. Come potevo fidarmi di lei? Era ovvio che mi stesse nascondendo qualcosa. Era un piano di vendetta il suo?
«Non voglio avere niente a che fare con te Angelica, grazie del pensiero ma faccio da solo», sbottai all’improvviso, prendendo una banconota dal portafogli. Lei sospirò, guardandomi mentre mi infilavo la giacca.
«Almeno pensaci su…»
«Lo farò».

Pov Sara

«La temperatura è ok, non hai la febbre», mormorò Jeremy, scrutando attentamente il termometro. Agatha aveva insistito un giorno intero per chiamare un dottore e ci avevo messo altrettanto tempo per convincerla che non ne avevo bisogno. Jeremy invece si divertiva a farmi da infermiere, sembravo quasi un bambolotto tra le mani di una bambina.
«Sai, ti ci vedo come dottore», sorrisi, guardandolo dal basso verso l’alto. Lui mi fece un sorriso raggiante, soffiando per scostarsi dal volto un ciuffo di capelli castani.
«Ah, si?». Annuii e lui sorrise ancora, sedendosi sul bordo del letto. «Menomale, perché sto studiando per il test di medicina»
«Cosa?! Non mi hai detto nulla!», esclamai sorpresa, tirandomi a sedere per fargli più spazio. Lui si strinse le spalle.
«Tu sei nell’editoria, ad Alexander è toccata la gestione dell’azienda, Darren si è iscritto all’università e ho iniziato a pensare anch’io a cosa farne della mia vita… mi piacerebbe entrare nella facoltà di medicina»
«Ma è fantastico!», squittii, saltandogli addosso per avvolgergli le mani attorno al collo e abbracciarlo.
«Che cosa è fantastico?», sorrise Agatha, entrando con una tazza fumante tra le mani.
«Ho detto a Sara che voglio studiare medicina»
«Le hai detto anche che ti stai servendo di lei come cavia da laboratorio?», scherzò, porgendomi la tazza di the. Scoppiai a ridere, ringraziandola.
«Non è necessario dirle proprio tutto», bofonchiò. «Vado a studiare come si pratica la vivisezione, piccola», fece divertito, facendomi l’occhiolino.
«Te lo scordi!», urlai ridendo.
«Quella piccola peste», ridacchiò Agatha, rivolgendomi un’occhiata dolce. «Hai misurato la febbre?»
«Si è proposto Jeremy, tutto apposto», sorrisi, sorseggiando la bevanda bollente.
«Stavo pensando… forse non è influenza. Stanchezza, mal di schiena, senso di gonfiore, giramenti di testa… Magari sono solo dolori premestruali, no?», osservò sovrappensiero, afferrando la bottiglia d’acqua vuoto che avevo sul comodino. Spalancai gli occhi.
«Sì, giusto! Ho il ciclo regolare, ogni volta che ho avuto qualche piccolo ritardo ho scontato le pene dell’inferno»
«Mistero risolto», rise Agatha.
«Beh, non temevo di certo di avere la febbre gialla», borbottai affondando nuovamente la lingua nel the.
«Vado a preparare la cena, scendi tra mezz’ora»
«Ricevuto», le feci un occhiolino.
Rimasi a fissare il soffitto riscaldandomi le mani con l’infuso alla pesca, ripensando alle parole di Agatha.
Feci un rapido calcolo mentale, sforzandomi di ricordare quando avevo avuto l’ultimo ciclo mestruale: trentuno giorni fa, ero in lieve ritardo di tre giorni. Sgranai improvvisamente gli occhi e mi venne un tuffo al cuore. Mica…?
«Sara, Alexander al telefono». Agatha entrò in stanza porgendomi il cellulare e io rimasi lì impalata a fissare l’oggetto. Stavo ignorando Alexander da giorni, rinviando ogni giorno a “domani” la telefonata. Non avevo il coraggio di parlargli, ogni volta che lo immaginavo mi passavano davanti le immagini di Darren che mi spogliava.
Non avevo sposato Alexander per amore, eppure mi sentivo in colpa, come se avessi davvero tradito mio marito.
Lanciai uno sguardo al telefono: prima o poi avrei dovuto sentirlo, quindi mi feci forza e avvicinai il cellulare all’orecchio.
«Alexander?», azzardai intimidita.
«Ti sto chiamando da giorni, che cazzo di fine hai fatto?!», sbraitò dall’altra parte del telefono.
«Scusa sono stata a letto… non sono in gran forma»
«Che hai?». Il suo tono di voce divenne improvvisamente più pacato e quasi fece sciogliere il nodo alla gola che si era creato.
«Nausea, giramenti di testa, solite cose… sarà l’influenza che sta girando». Non sentii nessuna risposta dall’altra parte: il silenzio di Alexander dopo che gli avevo mentito sapeva essere veramente terrificante.
«Resti a casa allora?»
«Per il momento sì, ritorno a lavoro appena mi sento meglio». Di nuovo silenzio.
«Prima che torni a lavoro poi dobbiamo parlare di una cosa…»
«Dimmi»
«No, ora riposati, ne riparleremo»
«Ma è importante?»
«Nulla di urgente. Ci risentiamo, ciao». Staccò la chiamata prima che potessi replicare… Alexander era davvero strano.

La convivenza divenne abbastanza difficile, soprattutto perché dovevo fingere indifferenza davanti a Jeremy e Agatha. Loro facevano finta di nulla ma dal modo in cui anche Darren mi ignorava era evidente che era successo qualcosa e ci stavamo evitando. Sembrava essersi offeso davvero dopo il litigio dell’altra sera… si era sentito forse rifiutato?
Ma che sciocchezza, ho sempre rifiutato Darren e lui non si è mai dato per vinta, nemmeno quando ho sposato Alexander. E allora qual è il problema?
«Se devi restare tutto il tempo fuori alla porta, entra», sentii dire dall’altra parte della porta. Trasalii e indietreggiai d’istinto: come aveva capito che ero lì dietro?
Esitai prima di afferrare la maniglia e spingerla verso il basso. Darren, steso sul letto con un libro tra le mani, la luce della lampada a illuminarlo lievemente, non mi degnò di uno sguardo mentre entravo in camera agitata e cercavo di rompere il ghiaccio.
«Non volevo spiarti o cose del genere», bofonchiai chinando il capo, fissando le mani che mi torturavo nervosamente.
«Non sospettavo che mi stessi spiando», replicò lui freddamente, con gli occhi ancora fissi sul libro. Aveva smesso di leggere, i suoi occhi non seguivano più le righe stampate: semplicemente lo stava fissando aspettando che iniziassi a parlare.
«Darren io…», accennai, fermandomi per trovare le giuste parole. «Ecco… tra poco arriverà Alexander e volevo dirti…»
«Farò finta che non è successo nulla. Mi porto il segreto nella tomba. È per questo che sei venuta, no?», tagliò corto, degnandomi finalmente di uno sguardo che mi freddò all’istante. Trattenni il respiro. Non si poteva rispondere in altro modo. «Beh… sì, grazie. Buonanotte», sussurrai, voltandomi indietro per uscire velocemente dalla stanza.
No, non volevo dirgli solo quello. Il fatto era che non riuscivo a trovare il coraggio per parlargli sinceramente… Come potevo mai dirgli che avevo un ritardo?
Tornai in camera e mi infilai sotto le lenzuola. Avevo una gran voglia di tornare a due mesi fa, quando oziavo nel mio monolocale senza pensieri e senza seccature.

«Sto andando a lavoro, starmene senza far niente per una settimana intera mi ha solo fatto ingrassare!». Mi guardai allo specchio dandomi qualche colpetto alla pancia.
«Sei sicura di volerci andare? Sarebbe meglio se resti un altro po’ a riposo…», mormorò titubante Agatha, guardandomi con i suoi occhioni da mamma premurosa.
«Ti prometto che se non mi sento bene torno subito a casa», sorrisi afferrandole le mani e lei parve leggermente più rassicurata.
«Ci vediamo stasera!», esclamai chiudendo la porta di ingresso alle mie spalle.
Il mio non era un capriccio, mi era difficile non lavorare: da quando ero andata via di casa dopo la morte di papà era stato il mio unico rifugio, l’unica cosa che mi avrebbe potuto dare soddisfazioni e ogni successo mi ricordava quanto la mamma sarebbe potuta essere fiera di me.
«Sara! Come stai?». Appena aprii la porta Samantha balzò dalla sedia e mi venne incontro sorridendo.
«Sam, che piacere rivederti! Sto meglio grazie». Ricambiai l’abbraccio affettuoso.
«Ho ricevuto la tua mail… non sono riuscita a trovare un sostituto in questi giorni, scusami se ti ho disturbata per posta elettronica», rise, facendomi strada fino al bancone. «Cos hai avuto?»
«Non so dirtelo neanch’io in verità!» risi, scuotendo il capo quando fece cenno verso la macchina del caffè. «Ho avuto giramenti di testa, nausea… pensavo fosse solo il post sbornia ma sarà a causa del ritardo»
«Aaah», mugolò con un sorriso malizioso, armeggiando con la macchina del caffé. «Tu e tuo marito avete... insomma… consumato?», ridacchiò.
Eeeh?! Il mio voltò andò completamente in fiamme all’idea. Viaggiai con la mente a quella notte in cui Alexander tornò ubriaco dicendo di voler fare l’amore con me e poi più indietro a cinque anni fa quando invece ci riuscì benissimo…
«Dai, sei arrossita non puoi negarlo», rise, gustandosi il caffè. Se dovevo reggere il gioco non potevo dire di no a Samantha, era inammissibile che due novelli sposi non avessero ancora fatto sesso.
«Beh, sì, è normale…», farfugliai imbarazzata, sperando che non cercasse i miei occhi. E invece puntò il suo sguardo dritto su di me.
«Non è che sei incinta?». Restai a fissarla con una strana espressione sul viso. Non è per niente divertente tutto questo!
«Sei pazza! È impossibile», risi, scuotendo il capo. Lei però non accennò nemmeno un minimo sorriso.
«Non lo è», si limitò a dire, leccandosi le labbra umide di caffè. Deglutii sentendo la gola diventare improvvisamente più secca.
«Tu dici che..?»
«Compra un test», fece spallucce, poi buttò nel cestino il bicchierino di plastica. «Anzi no!», esclamò come se si fosse ricordata qualcosa, iniziando a rovistare nella sua borsa. Cacciò qualcosa e me lo porse: era proprio un test di gravidanza.
«Perché hai un test nella borsa?», borbottai sospettosa, rigirandomi tra le mani la confezione.
«Beh? Puoi divertirti solo tu?», rise, «ecco le chiavi… buon lavoro». Notai un pizzico di divertimento nei suoi occhi ma lo ignorai, afferrai le chiavi e mi chiusi nel mio ufficio.
Mi sedetti alla scrivania e iniziai a giocherellare con lo scatolino: non mi sembrava davvero il caso di fare il test, era solo uno stupido ritardo. Non potevo essere incinta di Darren… e se invece fosse stato vero? Avrei dovuto abortire? O dovevo dirlo a Darren? E cosa avrebbe pensato Alexander?
Avvertii un inspiegabile senso di panico e aprii subito il cassetto della scrivania per nascondere il test alla mia vista: ci avrei pensato stasera a casa.




Ciao ragazze! Era da una vita che non aggiornavo xD
Tra diploma e impegni vari era impossibile trovare un po' di tempo x.x ho ripreso a scrivere ovviamente, non potrei mai abbandonare i miei bambini :3
il capitolo non mi convince molto, anche perché è stato scritto dopo un po' di tempo quindi scusate se sono "fuori allenamento" xD in compenso il successivo si fa interessante.. molto *w*
Spero di aggiornare presto, buona giornata a tutte!

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Capitolo 16
*** Prime paure ***


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«Sara stamattina è uscita ed è andata a lavoro»
«Quella donna mi farà diventare pazzo… grazie Robert, continua a tenerla sott’occhio». Se avessi avuto davanti il suo bel visino angelico l’avrei fatto diventare rosso a furia di schiaffi, a costo di andare in galera. Composi frettolosamente il numero di Sara che, come al solito, ci mise mezzo secolo per rispondere.
«Alexander»
«Faccio tutto sto casino per farti trasferire e tu esci per andare a lavoro?!»
«Dio più sei lontano e più diventi stalker», rise. Beata lei che aveva tutta questa voglia di divertirsi.
«Lo sai che Robert ti controlla»
«L’avevo dimenticato…», mugolò, «e comunque fallo andare a casa. Odio essere controllata!»
«Devi lavorare da casa. O devo venire lì, chiuderti dentro e gettare la chiave?»
«Fammi capire, non posso nemmeno uscire?!»
«Cazzo, Sara, quanto sei stupida! Vuoi capirlo che lo sto facendo per te?!», urlai e mi venne tanto la voglia di sbattere il cellulare contro un muro. Ma mi limitai a staccare prima che mi arrivasse all’orecchio un insulto. Buttai sulla scrivania il telefono che, a causa della botta, si spense.
«Fatemi svegliare da quest’incubo», sussurrai con le mani alle tempie. La porta bussò e Ray comparve sulla soglia titubante.
«Novità?». Ogni volta che vedevo Ray ritornare in ufficio mi si accendeva nel cuore un barlume di speranza ma  proprio quando la cosa sembrava seguire un filo logico si rivelava un buco nell’acqua.
«Si ricorda di quell’uomo che pedinava Sara… che rubò l’identità di Zach Evans?»
«Sì, certo, me lo ricordo», annuii, ricordando l’immagine di quell’uomo che interruppe me e Sara mentre cenavamo, dicendo di voler parlare di affari.
«Il vero Zach Evans lavorava per la società di Sara ed era stato licenziato dopo una discussione con il coordinatore dell’azienda. Non crede sia meglio indagare sui suoi dipendenti? Chi ha scritto il biglietto sa lei dove lavora…»
«Peccato che questo Zach Evans risulta morto da due anni»
«Dovremmo controllare gli archivi delle assunzioni… provvedo subito»
«No, me ne occupo io». Mi alzai di scatto. «Sono di passaggio in quella zona…». Ray mi guardò perplesso ma non disse nulla e annuì, lasciandomi da solo.
Guardai l’orologio segnare le quattordici: Sara sarebbe dovuta uscire da lavoro per la pausa pranzo ma non potevo esserne sicuro e l’ultima cosa di cui avevo bisogno era di trovare Sara in ufficio mentre tentavo di mettere le mani tra le sue cose. Afferrai la mia giacca e uscii frettolosamente, chiamando Robert mentre mi mettevo in auto.
«Signor Wilson?»
«Robert, sai dirmi dov’è Sara?»
«In un ristorante dietro casa. È uscita dallo studio con un uomo…»
«Un uomo? Chi?»
«Non ne ho idea, signore»
«E scoprilo!». Staccai la chiamata e mi infilai nell’auto, accendendo il motore. Con chi diavolo era adesso Sara?! Mi sembrava di dover badare ad una bambina… era più difficile tenere sotto controllo lei che un pazzo ricattatore che minacciava di ucciderla. La richiamai nuovamente.
«Alexander, cosa c’è?». Il suono tono di voce parve seccato: avevo interrotto qualcosa di importante?
«Con chi sei?»
«Robert non ti ha già fornito un identikit dettagliato su dove e con chi sono?», borbottò con tono provocatorio. Sentii una voce maschile dall’altra parte del telefono che parve avvicinarsi al telefono.
«Hey Alex, Sara è in buone mani, tranquillo», fece spavaldo. Sullo sfondo si sentiva un gran fracasso.
«Ciao Vincent», replicai freddamente, stringendo i denti. «Dì a Sara che la richiamo dopo», staccai la chiamata.
Da dove diavolo era spuntato Vincent? Sembrava divertirsi a provarci con mia moglie… la voglia di dare un cazzotto sul suo naso era troppa in questo momento. Si prende gioco di me quel coglione.
Parcheggiai davanti all’ufficio di Sara e aprii la porta d’ingresso, ritrovandomi nella hall.
«Buonasera signore, posso fare qualcosa per lei?». La giovane donna dietro la scrivania si era alzata non appena mi aveva visto entrare e mi stava sorridendo civettuola, sbattendo le sue ciglia finte e le mani giunte in grembo. Sul suo cartellino attaccato alla giacca c’era scritto che si chiamava Samantha.
«Buonasera… Samantha», lessi, sfoderando un enorme sorriso. Dovevo ricevere un favore da quella donna, dovevo sfruttare tutte le carte a mio favore e più in fretta possibile. «Posso chiederle un favore?»
«Ma certo», sorrise lei attendendo che parlassi. Aveva funzionato anche troppo in fretta.
«Ho bisogno di accedere all’ufficio della signora Wilson». Il suo volto cambiò subito espressione e il suo sorriso scomparve per far posto ad una faccia sconsolata.
«Mi dispiace, ma è vietato l’accesso agli esterni»
«Sono il marito», aggiunsi e lei sgranò gli occhi guardandomi con sorpresa. Perché si meravigliava così tanto?
«Lei…», sussurrò cambiando espressione.
«Io cosa?». Si accorse che stava pensando ad alta voce e arrossì subito, schiarendosi la voce.
«Ha un documento?». Mi infilai le mani nella giacca ed estrassi il portafogli, porgendole la carta di identità. Se la squadrò a fondo e quasi mi chiesi se stesse anche facendo un piccolo conto su quanti anni avevo. Due donne uscirono da una porta sul fondo del corridoio schiamazzando e quella bionda ammutolì non appena incrociò il mio sguardo, assestando poi un colpo col gomito nel fianco dell’altra che prese a fissarmi.
«Buonasera», sussurrò, passandomi accanto ed io feci un cenno col capo.
«Ma quello non è Alexander Wilson?», sussurrò la bionda.
«Wilson? Mica è…»
«Ho il permesso di mia moglie di accedere al suo studio», aggiunsi. Beh, era una piccola bugia, ma era a fin di bene. E poi Sara non avrebbe avuto nulla in contrario ne ero sicuro, cosa aveva da nascondere in un ufficio pieno di scartoffie?
«Ha un permesso scritto?»
«No». Lei mi fissò alcuni secondi ed io mi impegnai a mantenere lo sguardo per farla cedere. Alla fine distolse gli occhi dai miei e tossì ancora, porgendomi la mia carta d’identità.
«Mi segua». Missione compiuta. Avanzai dietro di lei, osservando come sculettava di proposito camminando velocemente. Mi venne quasi da ridere, forse l’avrei raccontato a Sara che di certo non se lo aspettava dalla sua “fidatissima” segretaria.
«Mi porti le chiavi quando ha finito», fece cortese, lasciandomi da solo dinanzi alla porta. Feci un sorriso forzato e attesi che fosse andata via prima di entrare in ufficio e richiudermi la porta alle spalle.
Una fastidiosa tanfa di chiuso mi fece girare la testa e allungai la mano verso la parete alla ricerca dell’interruttore della luce che trovai con facilità. Era come mi aspettavo che fosse un qualsiasi ufficio da collaboratore, dalla scrivania di mogano con un grosso computer e penne sparse ovunque, cassettoni e archivi di metallo in ordine alfabetico, qualche quadro e qualche vaso di fiori che nessuno aveva curato negli ultimi tempi che decoravano l’ambiente rendendolo però ancora più cupo.  Da dove avrei dovuto iniziare?
Mi avviai alla scrivania, aprendo il primo cassetto: c’era della cioccolata sciolta che aveva sporcato delle vecchie carte –la solita Sara pasticciona- e delle penne sparse su alcuni cd numerati. Nulla che potesse rivelare qualche indizio sui suoi collaboratori. Nel secondo cassetto trovai una chiavetta usb con il nome dell’azienda. Bingo!
Infilai l’oggetto in tasca prima di richiudere ma qualcosa sembrò incastrarsi in fondo. Allungai la mano e afferrai qualcosa di simile ad una scatolina di cartone dalla forma allungata.
Rilessi due volte il nome sulla scatola prima di realizzare: cosa ci faceva un test di gravidanza nel cassetto di Sara?!
Avvertii uno strano formicolio lungo gambe, forse per la posizione scomoda in cui ero, e mi sollevai, sprofondando sulla sedia di pelle girevole. Non riuscivo a smettere di fissare quella scatolina.
Perché Sara avrebbe dovuto fare un test di gravidanza? Cosa cazzo sta combinando?!
Mi assalì un senso di panico che mi fece diventare il respiro più corto e aprii di scatto la scatola, facendo scivolare l’aggeggio tra le mani per controllare se l’avesse già fatto. Se fosse positivo?
Con sollievo vidi che non era stato ancora usato. Beh sollievo era un eufemismo, restava il fatto che qualcosa aveva indotto Sara a comprare quel test.
Forse non è suo, magari qualcuna è venuta a sostituirla ed ha scordato il test qui dentro. Ma no, è evidente che nessuno mette piede da giorni qui dentro. Forse Sara ha parlato con Samantha: devo farmela amica e vedere se riesco a tirarle qualcosa da bocca, è l’unica soluzione.
Posai il test dov’era e con le mani ancora tremanti mi avviai alla reception. Samantha si accorse subito di me e smise di scrivere qualcosa al computer, sorridendomi mentre afferrava le chiavi che le stavo porgendo.
«Ha trovato quello che le serve?»
«Vorrei ringraziarla della sua gentilezza offrendole un caffè. Può dedicarmi qualche minuto? Il bar è dietro l’angolo». Lei mi fissò e dopo un po’ di esitazione annuì, si tolse il cartellino e prese la borsa.
«Tanto sono in pausa pranzo… ah, mi dia del tu», sorrise. Camminò accanto a me per tutto il tragitto, assecondando il mio silenzio preoccupato fino a quando non ci sedemmo al tavolo di un bar.
«Cosa prendi?»
«Un caffè macchiato», fece lei timidamente. Mi alzai dal tavolo per avvicinarmi alla cassa, ordinai un caffè macchiato per lei e uno amaro per me, tornando poi al tavolo. Lei si stava controllando con uno specchietto e quando mi vide arrivare lo ripose subito in borsa.
«Sapevo che Sara era sposata ma non mi aspettavo che lo fosse con un tipo come lei», osservò Samantha compiaciuta, sistemandosi una ciocca di capelli lucenti dietro l’orecchio.
«Cosa ho che non va? Non sembro un buon marito?», sorrisi sarcastico, facendomi indietro col busto per permettere al cameriere di posare i caffè sul tavolo.
«No, no, al contrario. È solo che… sembrate gli opposti», fece spallucce.
«Lo siamo». Afferrai la mia tazzina e sorseggiai il caffè, lei fece lo stesso.
«Sara è disordinata e confusionaria, dimentica gli appuntamenti e offre la colazione al barbone che si mette sempre fuori allo studio. Lei invece mi da l’impressione di una persona seria e ordinaria»
«Ti ringrazio per la psicoanalisi»
«Oh, mi scusi», arrossì lei, affondando nel suo caffè come se volesse affogarci dentro. Era quasi buffa.
«Deduco che tu e Sara avete un buon rapporto. Lei mi ha parlato molto di te». Un’altra piccola bugia a fin di bene.
«Davvero? Oh, spero bene!», ridacchiò. «Comunque si, soprattutto ultimamente che è un po’ agitata…». Socchiusi gli occhi a due fessure e il cuore iniziò a battere più forte. Ci siamo...
«Agitata?», ripetei nella speranza che potesse dirmi di più.
«Beh si… il capo è molto esigente e lei mi ha raccontato di alcune sue preoccupazioni…»
«Che tipo di preoccupazioni..?». Dannazione, e sputa il rospo!
«Non so se Sara gliel’ha detto… non vorrei fare guai», mugolò, ammutolendo e guardandomi come un cucciolo bastonato. Dovevo cacciare un po’ di coraggio e rischiare, visto che avrebbe avuto modo di sparlare di noi se non ne sapesse nulla del test.
«Forse ti riferisci al test di gravidanza?», azzardai e lei parve anche un po’ sorpresa.
«Oh, non pensavo che le avesse detto così presto di essere incinta», sorrise radiosa e leggermente sollevata. Mi morsi accidentalmente la lingua, imprecando mentalmente per il dolore mentre lei mi fissava confusa.
«Come lo sai?»
«Beh, si vede a occhio! Non la trova un po’ ingrassata?», fece sorniona. No, non la vedo da giorni e giorni, l’ultima volta non ci ho nemmeno fatto caso: non posso avere nessuna conferma.
«Beh, si…»
«E i suoi continui “non mi sento bene”?». Questo era vero, Agatha me lo diceva spesso al telefono quando chiedevo di lei. E c’era da aggiungere che mi aveva evitato per giorni prima di rispondere alle mie chiamate… Ora era tutto più chiaro.
«Se non ti dispiace ho un impegno urgente di lavoro, è stato un piacere, grazie per il favore». Pagai i due caffè ed uscii di corsa.
Sentivo un diavolo rivoltarsi dentro di me. Sara non mi aveva detto nulla. E c’era un figlio che sarebbe potuto appartenere a chiunque. Vincent? Anche uno stupido avrebbe capito l’interesse che nutriva nei confronti di Sara e chissà perché in questo momento erano insieme a pranzare al ristorante. Darren? Dopotutto ci aveva sempre provato spudoratamente con lei. Jeremy? No, era da escludere, Sara lo considerava il fratello perfetto. E se avesse avuto qualche relazione prima che tornasse a casa? O forse era mio. Ovviamente non avevamo avuto un rapporto… ma c’era stata quella notte in cui mi ubriacai… ricordavo di averle messo le mani ovunque.
Cosa avevo fatto? Dovevo parlarle al più presto. Dovevo vederla.

Pov Sara

«Alexander, perché tutte queste domande? Nessuno mi ha pedinato e Vincent mi ha solo tenuto compagnia. Ora sto bene, sono segregata in casa di nuovo come mi hai ordinato. Non vedo il motivo delle tue preoccupazioni»
«Domani mattina ti passo a prendere», disse secco. Restai muta mentre sul mio viso si dipingeva un’espressione confusa. Probabilmente l’avrei guardato scettica se fosse qui davanti, chiedendogli cosa cavolo stesse combinando.
«Se vieni si insospettiscono tutti… dovrei andare via da qui»
«Sì, mi sono rotto. Te ne torni a casa con me». Staccò la chiamata.
Era… arrabbiato? Ma no, non c’era motivo di esserlo, l’avevo anche assecondato a tornare a lavoro qui a casa dopo il milione di insulti che erano volati al telefono nel tentativo di giungere a un accordo… Era davvero molto strano. Fissai le lancette segnare le undici e mezza di sera. Mi alzai di scatto dal letto e corsi in sala da pranzo dove Agatha stava lavando gli ultimi piatti e Jeremy guardava la televisione comodamente sdraiato sul divano.
«Alexander domani ritorna», sussurrai flebilmente. Agatha sgranò gli occhi sorpresa, Jeremy si voltò a guardarmi come se volesse cogliere una qualsiasi emozione nei miei occhi. Darren invece era chiuso in camera sua come al solito, forse dopo sarei andata da lui ad avvertirlo.



Qualcuno per caso ha parlato di cose complicate? *w* Ora che Alexander ha scoperto del test è parecchio incavolato... e anche abbastanza preoccupato, no?
Le cose stano decisamente prendendo un'altra piega... soprattutto perché vi ricordo che la convivenza per i due sposini non è tutta rose e fiori! :3
Spero di riuscire a rendere le cose ancora più interessanti con il tempo, intanto volevo rigraziarvi per il caloroso bentornata che mi avete dato, vi devo tutto!!!
Volevo anche continuare a dare il volto con i personaggi, come avevo fatto nei capitoli precedenti.. per cui ecco a voi Alexander! :D
Ovviamente cerco di mostrarvi come me li immagino più o meno anche se non troverò mai nessuno che possa prestare il volto al 100% per l'idea che mi sono fatta dei miei personaggi... e vi invito a immaginarli come preferite indipendentemente dal volto che gli do io, perché in fondo i miei personaggi sono anche i vostri...
Un bacione!


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Capitolo 17
*** Un incontro ravvicinato ***


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Così il mattino seguente mi ritrovai a truccarmi davanti allo specchio chissà per quale stupido motivo, preoccupandomi di apparire decente ai suoi occhi. In realtà avevo voglia di rivederlo, come se avvertissi sempre qualcosa di fuori posto quando non c’era lui a girare per casa e a far funzionare le cose. Forse era un po’ perché aveva assunto il ruolo di padre di casa, dopo la morte di papà… in un certo senso era la persona alla quale ci affidavamo dopo che un tumore ti porta via tutto quello che poteva essere definito “stabilità”.
Alla domanda su quando sarebbe venuto con precisione mi aveva risposto un semplice “non lo so” e aveva aggiunto di dover fare una chiamata urgente, liquidandomi.
«Alex!», sentii esclamare e sobbalzai, mentre il cuore mi saliva in gola nel sentire la sua voce. Una voce così seria e acerba non poteva mettermi felicità, ma mentre mi dicevo così correvo già per i corridoi fino all’ingresso.
«Ah, ecco Sara», sentii dire da Agatha. I suoi occhi piombarono subito su di me, ghiacciandomi all’istante in attimi che parvero eterni. Rimase lontano a fissarmi, dritto e immobile con una camicia bianca che aderiva sul petto e la giacca dalla quale non si separava nemmeno con cinquanta gradi in pieno agosto. Mi curai di nascondere il sorriso che avevo cinque secondi fa e assunsi un espressione seria, sostenendo il suo sguardo. Improvvisamente non avevo più voglia di vederlo, di tornare con lui, di sopportare degli sbalzi d’umore che non terminavano quando gli staccavo il telefono in faccia come era accaduto in questi giorni. Cosa mi aspettavo? Che venisse ad abbracciarmi?
«Alex! Come stai?», esclamò Jeremy andandogli incontro e abbracciandolo.
«Bene Jer, e tu? Agatha mi ha detto che stai studiando». Alexander parve sciogliersi in un abbraccio fraterno che gli dipinse un sorriso genuino sul volto mentre ascoltava con vivido interesse Jeremy parlare della sua decisione di entrare in medicina. Chissà se era abituato a stare così tanto lontano dai suoi fratelli.
«Bentornato all’inferno fratellone», lo schernì Darren, spuntando all’improvviso e avvicinandosi per dargli una pacca sulla spalla.
Quando ieri ero entrata in camera sua per dire che Alexander sarebbe tornato mi aveva guardato intensamente e mi aveva detto “sei felice adesso?” in un tono derisorio che mi fece tornare indietro sui miei passi fino alla camera da letto.
Il sorriso di Alexander scomparve e lo guardò minaccioso: se avesse potuto, avrebbe emesso scariche elettriche. Ma Darren parve non farci caso mentre si divertiva a fare il bulletto e a dargli un altro piccolo pugno sulla spalla nonostante il fratello si fosse irrigidito.
Mi sentii terribilmente a disagio con gli occhi di Alexander addosso che non la smettevano di scrutarmi dalla testa ai piedi. E non era un eufemismo: si soffermava su ogni particolare come se fosse alla ricerca di chissà cosa. Mi chiesi se mi trovava più ingrassata o più trasandata o addirittura più invecchiata. Piantala Sara, non è passato un decennio!
«Hai già messo la tua roba in valigia?»
«In realtà non sapevo che volessi già tornare a casa…», farfugliai spaesata mentre Alexander alzava gli occhi al cielo.
«Già andate via?», fece Darren, con una faccia dispiaciuta. Mi venne vicino e cinse un braccio intorno al collo. «Io e la mia cognatina ci siamo divertiti tantissimo insieme», ridacchiò, sfiorandomi la punta del naso con l’indice. Minacciai Darren con lo sguardo come a ricordargli “avevi promesso di non dirgli nulla” ma in effetti dovevo aspettarmelo da lui… non si sarebbe fatto sfuggire un’occasione d’oro per rovinare le cose. E gliel’avevo servita sul piatto d’argento.
«Sì, ce ne stiamo andando». Alexander mi afferrò per un braccio come se volesse strapparmi dalle grinfie di Darren. «Andiamo a preparare le tue cose», aggiunse nervoso e lasciai che mi trascinasse per tutto il corridoio.
«So dov’è la mia stanza», borbottai, scansandomi dalle sue mani e sistemandomi mentre entravo in camera. Lui richiuse prepotentemente la porta alle nostre spalle.
«Da quando in quando tu e Darren avete questo bel rapporto fraterno?», bofonchiò, incrociando le braccia al petto. Accennai una risatina di finto stupore e mi affrettai a tirare le valige da sotto il letto per metterci dentro gli abiti.
«Ma quale rapporto fraterno? Si è sempre comportato così»
«Così», bofonchiò mentre iniziavo a togliere i vestiti dalle grucce. Sentivo il suo sguardo pesarmi sulle spalle. «Vi vedo diversi», insistette. Sussultai impercettibilmente. E se sapeva già tutto riguardo a quella notte? Se mi stava solo mettendo alla prova?
Devo solo mantenere la calma e fingere che sia tutto come al solito.
«Forse perché sei stato lontano per un po’», feci nervosa. Lui mi venne accanto e inizio ad aiutarmi a svuotare l’armadio con gesti meccanici e veloci. A confronto io sembravo affetta al morbo di Parkinson.
«Sono stato lontano un sacco di volte… non sono il tipo che deve riambientarsi al rientro a casa». Feci spallucce, evitando il suo sguardo anche se mi era accanto e stava cercando il mio contatto. Si fermò ad accarezzare la stoffa del vestitino nero che avevo indossato al compleanno di Deborah… quel vestito che sapeva troppe cose, che mi era stato strappato addosso da Darren. Avvampai e glielo tolsi subito dalle mani per metterlo in valigia tra le altre cose come se al solo tatto Alexander potesse  scoprire qualcosa.
«Devi dirmi qualcosa?»
«Mmm… mi sei mancato?», azzardai ironicamente.
«A parte questo?», sospirò paziente.
«Nulla», stroncai, chiudendo l’armadio vuoto.
«Non mi stai guardando negli occhi», mi fece notare.
«Da quando in quando hai tempo da perdere per le effusioni d’amore?», feci in tono canzonatorio, guardandolo di sfuggita prima di recuperare le ultime cose nei cassetti.
«Di certo non voglio che ci scambiamo sguardi innamorati. Ma se non mi guardi negli occhi vuol dire che mi stai mentendo». Fui costretta ad alzare lo sguardo e a fissarlo quasi in segno di sfida. Avevo una paura tremenda che potesse scoprire che mentivo.
«Non ti sto mentendo». Bussarono alla porta e Jeremy fece capolino guardandoci chiudere a fatica la valigia.
«Avete bisogno di una mano?»
«Aiutami a portare giù questa roba», fece Alexander con un cenno del capo. La afferrarono in due e io li seguii portando un’altra borsa più piccola.
«Sicura di non aver scordato nulla?», mi chiese di nuovo Agatha, ronzandoci attorno mentre trascinavamo le mie valige giù per le scale.
«Ma c’è già tutta questa roba!», esclamò Jeremy con una smorfia affaticata.
«Sarebbe divertente fare un bel falò», borbottò Alexander traballante, afferrando con i denti le chiavi della macchina. Aprii loro la porta e lasciai che uscissero, restando sull’uscio a fissarli mentre caricavano tutto nel bagagliaio. Alexander si accorse che ero rimasta indietro e si voltò verso di me col viso arrossato per lo sforzo e per l’irritazione. Era quasi adorabile.
«Ti manca qualcosa?», mi chiese a voce alta. Sì, c’era un’ultima cosa che dovevo fare…
«Aspettami in macchina»
«Sbrigati», fece seccato e sentii lo sportello dell’auto chiudersi. Agatha, che non si aspettava di vedermi, mi seguì con lo sguardo con espressione accigliata mentre mi dirigevo in camera di Darren. Dovevo chiarire con lui, non potevo lasciare tutto in sospeso ora che stavo andando via e non sapevo quando l’avrei rivisto.
«Darren», lo chiamai piombando nella sua stanza. Lui mi dava le spalle, seduto alla scrivania con le cuffie nelle orecchie mentre muoveva la testa a ritmo di musica. Non mi aveva sentito minimamente né si accorse di me fino a quando non arrivai accanto a lui e gli tolsi le cuffie, facendolo sobbalzare.
«Vuoi farmi venire un infarto?!», sbottò visibilmente scosso, guardandomi dal basso verso l’alto.
«Me ne devo andare. Visto che non ti sei degnato di salutarmi, sono venuta io da te», feci acidamente, posando le mani sui fianchi. Sbatté le palpebre e il suo viso non lasciò trapelare nessuna emozione, poi si alzò e divorò subito i centimetri che ci separarono così che dovetti alzare leggermente il capo per mantenere il contatto visivo.
«Beh… buon rientro a casa». Mi sorrise e si chinò come a volermi abbracciare ma io indietreggiai.
«Volevo parlare di noi due», mugolai. Darren mi aveva confuso parecchio in questi giorni, soprattutto perché dopo il nostro litigio era sempre stato così scontroso e mi aveva evitato per tutto il tempo e ora sembrava essere tornato indietro come se non fosse successo nulla… se avesse voluto far finta che nulla fosse accaduto non mi avrebbe tenuto il muso per tutto il tempo. Che senso aveva simulare solo perché c’era Alexander?
«Ti ascolto», fece accondiscendente, sedendosi sul bordo del suo letto.
«Potrai anche ingannare Alexander fingendo che sia tutto come al solito ma io sono molto confusa. Non riesco a capire se ce l’hai ancora con me o se stai architettando qualche malefico piano in stile Darren Wilson», feci isterica.
«Malefico piano in stile Darren Wilson», ripeté lui divertito, azzardando una risata amara. «Forse non hai tutti i torti… sono stato malefico Sara, non sai quanto. E il piano l’avevo elaborato da quando sei tornata in questa casa». Si alzò di nuovo, venendomi incontro, e io indietreggiai di qualche passo fino a quando la mia schiena non aderì alla parete. «Ma sono un essere umano, sai? E può darsi che mi sia sentito in colpa… prendila così, non come una farsa per far credere ad Alexander che siamo come sempre. Io che ti amo e tu che mi odi». Appoggiò le mani sulla parete ai lati della mia testa e il suo petto iniziò a pesarmi sul seno mentre mi fissava intensamente.
«Io non ti odio», sussurrai col fiato corto, come se stessi per soffocare, avvertendo il cuore battere più forte.
«Non mi ami nemmeno», ribatté. Restai in silenzio. Chissà cos’era per Darren l’amore, chissà cos’era che provavo per lui. Non amore, no, non come lo intendevo io, non come avevo amato in passato. Ma non potevo nemmeno odiarlo, anche se mi aveva dato tanti di quei motivi per farlo.
«Sono il fratello sbagliato», aggiunse. «Ma va bene così». Mi abbracciò, stringendomi così forte da stritolarmi le ossa ed io ebbi a malapena la possibilità di circondargli la vita per ricambiare l’abbraccio. Ci ero cresciuta con Darren, non potevo volergli male.
«Dopo quella sera non dormo più tranquilla», mormorai, lasciando cadere le braccia lungo i suoi fianchi. Non partecipando più all’abbraccio lui si staccò e mi guardò come a spronarmi a continuare. «Ho un ritardo. E ho un test nascosto in ufficio che ho paura di fare», aggiunsi con un filo di voce.
Neanche il tempo di finire la frase e lui stava già ridendo rumorosamente, come se gli avessi raccontato una barzelletta. Lo guardai contrariata, scostandomi definitivamente da lui.
«Ti fa ridere la cosa?!», sbottai, incrociando le braccia al petto. Lo sapevo, coglione…
«Piccola», accennò lui ancora ridendo. «Nemmeno da ubriaca sono riuscito ad averti», mormorò. Sbattei le palpebre riflettendo sulla frase: mi sembrava senza senso.
«E che significa?», borbottai. Il suono prolungato del clacson fuori al viale sembrò urlare tutta l’irritazione di Alexander.
«Se desideri così tanto un figlio chiedilo a tuo marito, no? Ora vai», fece cenno verso la porta, poi si vide costretto ad accompagnarmi perché io non battevo ciglio. «A presto, cucciolo di Bambi», mi sussurrò all’orecchio, stringendomi tra le sue braccia e inspirando l’aria tra i capelli come se volesse stampare in mente il mio odore. Mi diede un bacio sulla fronte e mi sorrise richiudendo la porta facendomi rimanere con le parole sospese a mezz’aria e ancora così tanti interrogativi in testa. Dov’ era il manuale di istruzioni per capire Darren Wilson?
Un altro suono di clacson mi fece sobbalzare e così corsi fuori, salutando per l’ultima volta Jeremy e Agatha prima di mettermi in auto.
«Perché ci metti una vita per fare tutto?», si lamentò, accendendo il motore. Mi stava aspettando sotto il sole quindi si era finalmente deciso a togliersi quella giacca da lavoro e si era arrotolato le maniche della camicia fino ai gomiti. Indossava occhiali da sole dai vetri scuri e il vento che entrava dal finestrino gli scompigliava i capelli dorati. Uscimmo dal viale e dopo aver guardato dallo specchietto retrovisore fece un cenno con la mano. Mi voltai e osservai una macchina svoltare a destra e scomparire dalla nostra visuale.
«Chi era?»
«La tua guardia del corpo». Alzai un sopracciglio, guardandolo scettica.
«Ho una guardia del corpo?»
«Robert», precisò, alzando gli occhi al cielo.
«Ah, il pedinatore». Con la coda dell’occhio notai Alexander abbozzare un sorriso mentre chiudeva il finestrino e accendeva l’aria condizionata.
«Preferisco chiamarlo informatore», commentò. «Anche se come investigatore privato non sarebbe tanto male… Dopotutto mi ha informato che te la sei spassata con Vincent». Notai un pizzico di sarcasmo nella sua voce alquanto pungente.
«In realtà no, l’ho visto al compleanno di Deborah l’ultima volta»
«E poi ti ha portata fuori a pranzo», borbottò. Restai a fissarlo con sorpresa: l’avevo anche dimenticato quell’episodio…
«Non posso?», lo stuzzicai, guardando i viali alberati fuori dal finestrino.
«La gente sa che sei mia moglie. Non voglio che si parli male di me»
«A nessuno interesserebbe», lo presi in giro. «Persino Swan ha due corna enormi che gli pesano sulla testa»
«A proposito… ha accettato la mia proposta». Il suo tono mi sembrò davvero fiero: mi voltai di scatto e lo fissai felice.
«Oddio davvero?!», squittii con l’entusiasmo di una bambina e lui annuì. «È ufficiale?»
«Mi ha chiamato proprio ieri. Sei piaciuta alla figlia, a quanto pare è stata lei a mettere buona parola e domani firmeremo il contratto. È probabile che organizzerà un’altra delle sue pagliacciate che chiama “feste”». Non potevo credere a quello che diceva ed ero così felice di essere stata utile, di aver fatto qualcosa per la società di papà. Mi appuntai mentalmente di chiamare Deborah per ringraziarla.
«Bloody Mary per tutti?», feci scherzosa. Il ricordo lo fece sorridere per qualche istante poi una nuvola di terrore parve oscurare il suo volto.
«Non ci pensare nemmeno», mi minacciò ma il suo tono era ancora scherzoso.
«Oh, dai, ho fatto divertire tutti!», ridacchiai, notando la nostra casa diventare sempre più grande man mano che ci avvicinavamo. Mentre Alexander parcheggiava l’auto corsi verso la porta.
«Guarda che le valige non hanno le ali!», mi fece notare lui, aprendo il bagagliaio per scaricare le valige.
«Allora… come sei stato senza di me?», sorrisi, entrando spedita in casa. Spalancai subito la finestra nell’atrio e andai verso il soggiorno, avvertendo una leggera tanfa di sigaretta.
«Non mi dire che hai ripreso a fumare!», urlai, sentendo Alexander biascicare qualcosa mentre entrava in casa. Mi arrestai di colpo, sobbalzando per lo spavento come se avessi appena visto un fantasma. Una donna dai capelli neri se ne stava seduta comodamente sulla sedia con le gambe accavallate, si era voltata a guardarmi dopo aver spento la sigaretta nel posacenere e mi aveva sorriso.
«E tu chi sei?» borbottai, senza nascondere una nota di agitazione e paura.
«Tu devi essere Sara Wilson», esordì, alzandosi in piedi con grande agilità nonostante i suoi tacchi vertiginosi. «Angelica Bailey, piacere di conoscerti»
«Alexander…»

Pov Alexander

«Allora… come sei stato senza di me?», squittì Sara piombando in casa.
«Una meraviglia», mormorai tra me e me anche se perfino io non ci credevo. Lei non mi ascoltò, scomparendo dalla mia vista e continuando a parlottare mentre trascinavo fino alla porta le valige.
Chissà se avevo fatto bene a riportarla qui, se stavo evitando altri guai o stavo creando ancora più casini.
Appena avevo rivisto Sara avevo notato che era leggermente ingrassata per cui non avevo fatto altro che pensare per tutto il tragitto a come avrei dovuto dirgli quello che avevo visto. Oppure potevo temporeggiare e continuare a martellarla fino a quando non me l’avrebbe confessato lei… l’ultima opzione però era per persone pazienti e io non lo ero affatto: morivo dalla voglia di incastrarla al muro senza lasciarle via di scampo per farmi dire tutta la verità. Cosa avrei fatto con un figlio non mio? Se l’avessero saputo in giro? Se Swan recidesse l’accordo? Ma soprattutto… Sara incinta sarebbe stata la gallinella dalle uova d’oro per i miei ricattatori: sarebbe stato pericoloso per la società, per me e soprattutto per lei. Sentii la sua voce chiamarmi.
«Alexander… perché c’è una donna a casa nostra?».
Una donna?






Salve a tutte/i! :) come procedono le vacanze? tra un bagno e l'altro ho cercato di aggiornare il più presto possibile e spero che ne sia uscito qualcosa di decente ahaha personalmente mi piacciono molto i dialoghi tra Sara e Alexander, il quale sembra essere a metà tra l'incazzato nero, l'essere geloso e preoccupato e la picola confessione di Darren che a questo punto avrebbe dovuto sollevare diverse ipotesi...
siccome mi paice complicare le cose, un incontro ravvicinato con Angelica potrebbe essere molto interessante, ci sentiamo prestissimo per il seguito, non vedo l'ora di divertirmi con loro!
Vi ringrazio per le vostre recensioni sempre allegre e positive! Un grosso bacione e buon proseguimento di vacanza! :p 

 

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Capitolo 18
*** La verità viene sempre a galla ***


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«Aiuto Alexander con le indagini. Scusami se mi sono intrufolata in casa vostra, mi ha dato lui una copia delle chiavi», fece la donna con un sorriso fin troppo finto dipinto sul volto. La fissai diffidente dal basso del mio metro e settanta. Alexander che da le chiavi di casa nostra ad una sconosciuta?!
«Sara…». Quando Alexander mi raggiunse e si accorse della presenza di Angelica si pietrificò e il suo viso divenne bianco come un lenzuolo. Angelica incrociò le braccia al petto e lo guardò in modo strano ma poi elargì un altro dei suoi sorrisoni tutto tranne che spontanei.
«Alex, non mi aspettavo che foste già di ritorno», fece con nonchalance, avvicinandosi a lui per dargli una lieve carezza alla spalla. Alex? Ora lo chiama anche Alex?!
«E io non mi aspettavo di trovarti qui», replicò lui facendo scorrere frettolosamente lo sguardo su di me, che li guardavo come se volessi ammazzarli, storcendo il naso infastidita.
«Mi servivano dei documenti. Ho già spiegato a tua moglie che mi hai dato una copia delle chiavi per aiutarti con la questione delle minacce», continuò facendo un rapido cenno con la mano verso di me.
«Beh mi trovavo di passaggio... un caffè lo accetterei volentieri». Si voltò verso di me sfacciatamente verso di me come a chiedermi di farle il caffè e io alzai un sopracciglio cercando l’appoggio di Alexander che, alle sue spalle, alzò gli occhi al cielo e fece cenno di andare in cucina. Dio quante gliene dico dopo…
«Ne preparo un po’», annuii ricambiando con un sorriso in stile “Angelica vagina di fuoco”.
«Grazie mille cara». Mi lasciai scappare un “sta stronza” mentre andavo in cucina con la sua voce squillante di sottofondo. Non mi aveva dato di certo la buona impressione di una ragazza innocente che stava solo svolgendo il proprio dovere. Ray non mi guardava come se volesse stuprarmi, lui sì che era un uomo come si deve. Riempii due tazzine di caffè e quando tornai in sala da pranzo stavano seduti sul bordo del divano a parlare di tutt’altro fuorché di lavoro a giudicare dalla risata che si stava facendo la donna.
«Magari ti chiamo e ci mettiamo d’accordo», fece infine prendendo fiato. Si alzò di nuovo e mi porse la mano che strinsi controvoglia. «Beh, è stato un piacere. Il caffè era un po’ amaro», abbozzai un sorriso forzato e osservai Alexander accompagnarla alla porta per salutarla con due baci sulla guancia.

Pov Alexander

Angelica ne aveva combinata un’altra delle sue. Ovviamente non avevo creduto a una sola delle sue parole e a giudicare dal modo in cui Sara la squadrava nemmeno lei aveva abboccato. Il problema ora era spiegarle da dove era saltata fuori… non mi restava altro che reggere il gioco di Angelica o avrebbe scoperto la verità. Quando tornai in sala da pranzo Sara era furiosa, mi fissava con uno sguardo assassino in cerca di risposte e le braccia incrociate al petto con i pugni chiusi come se volesse evitare di mollarmi uno schiaffo. Non aveva tutti i torti poveretta, Angelica non era stata molto carina nei suoi confronti.
«E bravo! Te li sei scelti bene i rinforzi per le indagini», fece pungente, inclinando la testa su un lato.
«È un’amica di famiglia che si è gentilmente offerta di aiutarmi»
«E le indagini le fa con la minigonna e i tacchi a spillo?»
«Che mi frega di come si veste», borbottai, voltandole le spalle per andare in stanza a prendere un asciugamano pulito. Avevo bisogno di riprendermi con una doccia bollente e di riflettere.
«Ti ha chiamato Alex», continuò testarda seguendomi ovunque fino alla porta del bagno.
«Tutti i miei amici lo fanno»
«Ah da “amica di famiglia” è salita al rango “amica”», borbottò sarcastica. Sbuffai e mi voltai di scatto verso di lei.
«Ma la smetti? Che sei gelosa?». Il mio tono irritato contribuì ad aumentare la sua di irritazione. Il mio era stato un gesto inadeguato, c’era da ammetterlo.
«Non mi piace ritornare a casa MIA e trovarci una troia che siede sul MIO divano poggiando il suo culo rifatto sui MIEI cuscini», iniziò a sbraitare in preda alla furia. Il suo volto era arrossato dalla rabbia, la stessa che la faceva gesticolare in un modo buffo come i suoi capelli scompigliati, la sua gelosia evidente trapelava da tutti i pori… non sapevo come fermare il suo fiume di parole in piena.
Mi venne improvvisamente l’idea di baciarla. E lo feci.
Senza un inspiegabile motivo l’avrei sbattuta al muro arrabbiata e gelosa com’era. Feci anche quello.
La sentii sussultare sulle mie labbra all’impatto violento contro le mattonelle fredde, assecondando la mia lingua che cercava la sua mentre l’odore del suo balsamo per capelli mi riempiva i polmoni. Sara non aveva mai fatto nulla che non desiderasse davvero, ogni volta che non aveva avuto il desiderio di baciarmi semplicemente mi aveva respinto. Ma ora era molle tra le mie braccia, il suo fiato corto e le sue labbra bollenti, il seno che sfregava contro la mia camicia leggera. Mi passò improvvisamente per la mente l’idea che stavo baciando una donna incinta di chissà chi e avvertii ancora una volta quella orribile sensazione di disgusto, rabbia, di risentimento che avevo provato tempo fa… mi vorticavano in testa le immagini di quel camino acceso, delle loro ombre che danzavano sulla parete, delle loro voci. Improvvisamente riuscii a scacciare quel vortice di passione che mi aveva spinto a baciarla, fino a staccarmi da lei.
«Almeno così stai un po’ zitta», mormorai e la voce tremante nascose la mia eccitazione. Non la guardai negli occhi e le chiusi la porta in faccia prima di spogliarmi e buttarmi sotto il getto d’acqua.
Perché improvvisamente la odiavo così tanto se una parte di me ancora la desiderava? Perché non riuscivo ad andare avanti e cancellare quel ricordo tremendo?

Pov Sara

«Risotto ai funghi o alla pescatora?», mugolai tra me e me, leggendo gli ingredienti sulla confezione. Avrei tanto voluto conoscere tutti i gusti di Alexander. Urtai una signora col carrello stracolmo e mi scusai, poi lei allungò il collo per vedere cosa reggevo tra le mani e mi consigliò il risotto alla pescatora. Misi anche quello nel carrello e mi diressi alla cassa. Ero stata enormemente felice di acquistare un pacco di assorbenti, qualsiasi dubbio che avevo era svanito stamattina con l’arrivo delle mestruazioni. Darren mi aveva fatto passare le pene dell’inferno col pensiero di avere in grembo un figlio illegittimo e anche se mi aveva apertamente detto che non avevamo fatto nulla io in quel momento non avevo compreso le sue parole e continuavo ad avere paura… soltanto stamattina mi ero resa conto di quanto fosse stato stronzo.
Avevo la testa tra le nuvole c’era da ammetterlo. E di chi poteva essere la colpa? Del bipolare psicopatico che mi baciava all’improvviso… e stavolta non era nemmeno ubriaco. Poi però aveva preferito dormire sul divano: stamattina l’avevo trovato ancora lì a dormire col volto girato verso la spalliera.
Pagai il conto e uscii dal supermercato, camminando lentamente per la strada affollata. Non avevo molta voglia di ritornare a casa, non sapevo cosa fare con Alexander e con la sua aiutante bambolina. Mi fermai davanti al negozio di abiti da cerimonia e osservai un abito lungo rosso di chiffon. Sarebbe perfetto per il party di Swan per l’ufficializzazione del contratto.
 
«Un abito incantevole… sarà sicuramente il mio prossimo acquisto», esordì qualcuno. Mi voltai e vidi Angelica alzare gli occhiali da sole sul capo per osservare meglio il vestito. Si abbina perfettamente con le tue labbra rosse da pompinara.
«Non è il mio genere», feci spallucce, mentendo spudoratamente. L’avrei uccisa se avesse osato comprare il mio vestito.
«Posso ricambiare il caffè di ieri?», azzardò sorridente.
«Troppa caffeina fa male»
«Non sembra che faccia un cattivo effetto su di me», replicò altezzosa, specchiandosi nella vetrina.
«C’è un bar di fronte», sospirai, indicandoglielo con il dito. Ero proprio curiosa di sentire cosa aveva da dirmi questa…
Cercai di ignorare il suo ingresso al bar manco fosse la passerella per Miss Mondo 2015 e la bava degli uomini presenti in sala e la seguii fino al bancone, dove ordinò due caffè, per poi dirigersi verso l’ultimo tavolino. Sembrava la classica scenetta di un film americano della vip della scuola seguita dalla schiavetta racchia e secchiona che le porta i libri.
«Chissà cosa ti avrà raccontato di me Alexander ieri sera», iniziò, sdraiandosi comodamente sulla sedia di legno. Fissai i suoi occhi scuri e feci spallucce.
«Che sei un’amica di famiglia, niente di che», feci con nonchalance. Di certo avrei evitato in tutti i modi di farla sentire importante.
«Hai mai sentito parlare dell’industria Bailey?». Scossi il capo e voltai il capo dalla parte opposta per fissare il cameriere avvicinarsi con i nostri caffè. «Sono a capo di un’azienda importante quasi quanto la Wilson Group. Alexander ha acconsentito a una sorta di collaborazione, diventare colleghi potrebbe giovare ad entrambi», mi spiegò con entusiasmo, agitando la bustina di zucchero che iniziò a mescolare lentamente col cucchiaino. Sbattei le palpebre confusa.
«Alexander vuole fare sempre tutto da solo, è quasi impossibile che abbia accettato una collaborazione», scossi il capo convinta, sorseggiando il caffè amaro.
«Ma la mia sì», precisò con un sorriso spavaldo, assaggiando il suo caffè. Osservai l’alone di rossetto rosso che si era stampato sulla ceramica bianca della tazzina. «Non è invincibile, Sara. Un giocatore non può vincere la partita senza il sostegno della sua squadra»
«Non mi aveva detto niente»
«La cosa non mi sorprende», rise, fissandomi con occhi vispi. Si stava prendendo gioco di me?
«Perché?»
«Vi ho visti insieme… e sembrate tutto tranne che una coppia di neo sposi. Non ci vuole un mago per capire che tra voi non funziona e non potrà mai funzionare. Per questo non mi stupisco se Alexander faccia le cose per fatti suoi». Con quale coraggio una sconosciuta si metteva a fare la psicologa e ad analizzare il nostro rapporto? Che ne sapeva lei di tutto quello che era successo e che stava succedendo tra me e Alexander?
«Non mi sembri nella posizione giusta per giudicare. Alexander ha sempre fatto le cose per fatti suoi», ribattei irritata, serrando le mascelle.
«Allora chiediti perché ha cercato aiuto in me e non in te»
«E chi sei tu per meritare l’attenzione di Alexander ancora più di me?». Sentivo il sangue ribollire nelle vene: dovevo andarmene prima che il mio istinto mi suggerisse di lanciarle la tazzina vuota in faccia e romperle il naso.
«Ti pare che per tutto il tempo che sei stata via a New York fosse rimasto da solo a piangersi addosso?», mi chiese acidamente. Aspetta… Angelica allora sapeva qualcosa su di noi? «E non fare quella faccia. Tu non conosci me, ma io conosco te»
«Tu non sai un cazzo», feci con stizza. «Né di me, né di Alexander, né della relazione che ho con lui»
«E tu invece sai di quella che io avevo con lui?», replicò fieramente. Avvertii un enorme peso, come se un elefante mi fosse appena caduto addosso. Alexander aveva avuto il coraggio di stare con questa vipera? Non volevo crederci. Ma il ricordo del suo viso sorpreso, l’espressione agitata, il modo in cui si guardavano… tutto mi portava a credere alle parole di Angelica.
«Non mi importa delle sue vecchie storie. Ci siamo persi di vista per un po’ e ne sono consapevole», dissi con un filo di voce e una gran voglia di scappare via. Un’amica di famiglia… Alexander mi ha mentito…
«Beh, il passato è passato. Non avrai mica paura che possa tornare, no?», mi sorrise ancora e notai una sorta di minaccia nella sua frase, come se fosse una domanda retorica.
«Certo che no», feci con finta determinazione, alzandomi dalla sedia. «Grazie per il caffè, a me amaro piace», aggiunsi con un sorriso, andandomene via velocemente.
Avevo così tante domande in testa, mi sentivo così smaniosa e ansiosa di saperne di più sulla loro relazione. Magari era stata solo una botta e via e poi Alexander l’aveva scaricata, motivo per cui lei gli ronzava ancora attorno… o magari era stata una storia importante che era appena finita. Mi venne in mente la prima volta che entrai in casa, quando trovai il posacenere pieno e io ero convinta che fosse stato Alexander… forse Angelica le chiavi ce l’aveva già da un pezzo. Volevo saperne di più e volevo che fosse Alexander a dirmelo.
«Dove sei stata?», borbottò Alexander, affacciandosi dalla cucina quando mi sentì arrivare.
«Non si vede?», feci ironica mostrandogli la busta della spesa e raggiungendolo in cucina. Era in boxer e canottiera e si stava preparando il caffè.
«Ho comprato il risotto alla pescatora»
«Non mi piace», si limitò a dire.
«Ah». Mi sentii una stupida con quel pacco di preparato tra le mani e maledissi la signora al supermercato che me l’aveva consigliato. Forse Angelica avrebbe ricordato quale dei due risotti preferiva. Non essere ridicola, non farti buttare giù da lei per un risotto!
«Queste però le adoro», aggiunse, afferrando il pacchetto di noccioline e aprendole per riempirsi la bocca. Sorrisi e restai a guardarlo pensando a come avrei potuto introdurre l’argomento “ex”. «Odio essere fissato», mi fece notare leccandosi il sale dalle dita.
«Mi chiedevo cosa ne sarà della società», mormorai, distogliendo il suo sguardo per mettere sugli scaffali il cibo.
«In che senso?», chiese lui, fissandomi perplesso.
«La gestisci da solo e stai affrontando un sacco di problemi… magari una collaborazione potrebbe farti bene…», accennai vagamente. Non lo sentii dire nulla e mi voltai a fissarlo: il suo sguardo era accusatorio e dubbioso, l’espressione era accigliata.
«Che cosa sai?», borbottò. Sapevo che il lavoro era un argomento che non dovevo trattare con lui, si irritava facilmente e odiava che mi intromettessi nei suoi affari, motivo per cui ora si stava mettendo sulla difensiva. O forse aveva paura che sapevo troppe cose…
«Facevo supposizioni… a proposito, Angelica ti sta aiutando nelle indagini? Non ho ancora compreso bene il suo ruolo…»
«Fa quello che deve fare», disse secco, facendo spallucce. Distolse lo sguardo e mise la macchinetta del caffè sul fuoco. A quanto pare neanche lui sapeva reggere lo sguardo mentre mentiva… buono a sapersi.
«Mi sembravate piuttosto in confidenza, vi conoscete da molto?»
«Sì, te l’ho detto, è un’amica di famiglia. Perché?»
«Solo?», insistetti.
«Cosa sono tutte queste domande?»
«Alexander, nella famiglia c’ero anch’io. Li conosco i famosi “vecchi amici di famiglia”. O forse lei è arrivata dopo che me ne sono andata…». La tazzina che aveva tra le mani quasi gli scivolò e fece in tempo a recuperarla. Si voltò spazientito verso di me.
«Hai parlato con lei?», mi chiese con tono severo anche se si sentiva un pizzico di paura nella sua voce. Oh, sveglio il ragazzo.
«Sì», mi limitai a dire, giusto per spaventarlo ancora di più.
«E cosa ti ha detto?», azzardò incerto.
«Tutto». Feci una lunga pausa e lui non osò chiedermi chiarimenti. «Mi disgusta il modo in cui porti avanti le tue bugie», aggiunsi amareggiata.
«Non ho il dovere di farti il resoconto della mia vita»
«Nemmeno quello di prendermi per il culo!», esclamai. «Ma ti sembra normale che mi devo trovare una a casa, che devo prepararle il caffè e deve anche prendermi in giro? E ti sembra normale che debba essere lei a dirmi che la Wilson Group è in collaborazione con la sua società?»
«Non ho accettato la sua proposta. Ti avrà raccontato un mare di cazzate e tu come una cretina ci credi pure». E certo, la cretina ero sempre io. La scema che si lasciava andare ai film mentali, alle supposizioni sbagliate, che credeva anche agli asini che volano.
«Che stavate insieme è una cazzata?»
«No. Ma non ti interessa»
«Vorrei che ti accorgessi che non sono più la ragazzina ingenua che hai conosciuto, che davanti all’evidenza non chiudo più gli occhi e che ci fai solo la figura del coglione»
«Tu mi accusi di averti nascosto la mia relazione con lei, ma che mi dici di te? Non mi nascondi anche tu qualcosa? Tipo che rischi di essere incinta!». Aveva improvvisamente alzato la voce e quando ammutolii lui tirò un sospiro profondo, come se si fosse appena liberato da un peso enorme. Spense il fuoco e posò bruscamente la macchinetta piena di caffè sul ripiano della cucina, sporcando il marmo e scottandosi.
«C-cosa?», sussurrai con un filo di voce strozzato.
«Nemmeno io chiudo gli occhi davanti all’evidenza», si limitò a dire freddamente evitando il mio sguardo, passando la mano sotto l’acqua fredda con una smorfia di dolore. Come faceva a saperlo? Darren non aveva aperto bocca, ne ero sicura. E se nessuno gli aveva detto niente c’era soltanto un modo…
«Come ti sei permesso di entrare nel mio studio e di mettere le mani nelle mie cose?!», sbraitai arrabbiata, ricordandomi di quel test che avevo comprato e riposto in un cassetto. «Se l’avessi fatto io mi avresti già ucciso con le tue mani!»
«E intanto ho trovato un test di gravidanza!», ringhiò divorando la distanza tra di noi.
«Sono stata così stupida a desiderare che fosse tuo», sussurrai vicino alle sue labbra con la voce carica d’odio, prima di lasciarlo da solo. Mi rifugiai nella camera da letto, sbattendo la porta, e scoppiai in un pianto liberatorio.




Buongiorno a tutte! Oggi sono carichissima, sarà che amo questo capitolo e quello che mi sta venendo fuori dopo e quindi non vedo l'ora di sapere cosa ne pensate voi... qui avete davanti un Alexander un po' impulsivo, che non riesce a tenere più tutto sotto controllo, che ve ne pare? Per non parlare di Angelica, sono sicura che la odierete sempre di più ahah
Ad un certo punto vi sarete fatta qualche domanda alla fine del Pov Alexander: sto continuando a seminare indizi sul loro passato che credo sia ora di svelare.. sono comunque curiosa di sentire le vostre supposizioni!
Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento e che ci sentiremo presto nonostante le vacanze, al mio rientro mi ritroverete maggiorennee *w* (era ora xD)
Mi
 Vi regalo il nuovo volto di Darren va! :p


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Capitolo 19
*** Tutti i nodi vengono al pettine ***


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Quando uscii dalla stanza, con un enorme mal di testa, Alexander non c’era e con lui era sparita anche l’auto. Probabilmente era andato a lavoro oppure semplicemente voleva evitarmi.
A fine giornata, quando ormai mi ero messa da sola nel letto arrivai alla conclusione che non voleva vedermi. Chissà cosa gli era passato in testa quando aveva visto il test di gravidanza e chissà cosa pensava dopo il nostro litigio: la mia reazione gli aveva dato tutti i motivi necessari per credere che fossi davvero incinta. Ora mi spiegavo il suo comportamento quando era venuto a prendermi, la sua fissazione per Darren, Vincent e chiunque altro… chissà quante brutte cose aveva pensato su di me. Avrebbe dovuto dirmi anche questo. Perché diamine non parlava mai con me?!
Proprio quando stavo per addormentarmi sentii la chiave girare nella toppa e un rumore di passi. Circa dieci minuti dopo Alexander entrò in camera e si sdraiò sul letto. Mi sarei aspettata di restare da sola anche per tre giorni, conoscendolo, e invece era ritornato alle undici e mezza di sera.
«C’è un motivo se ho messo le mani nelle tue cose», fece lui, attirando la mia attenzione. Cos’è aveva ancora voglia di discutere a quest’ora? «Mi servivano solo delle informazioni sui tuoi dipendenti»
«Potevi chiedermele», tagliai corto, continuando a rivolgergli le spalle.
«Mi avresti chiesto a cosa mi servivano»
«A cosa ti servivano?», feci con aria di sfida, voltandomi per poterlo guardare negli occhi. Accennò ad alzare gli occhi al cielo ma si trattenne.
«Qualcuno mi ha minacciato di farti del male, sa dove lavori. Non volevo spaventarti», si limitò a dire col capo chino. Sgranai gli occhi meravigliata e lo credetti immediatamente: almeno stavolta sembrava sincero.
«È per questo che mi hai ordinato di lavorare a casa?». Lui annuì. Aveva tutto un senso. Alexander non era tanto psicopatico come pensavo, non provava uno strano gusto nel tenermi chiusa in casa né a farmi pedinare. Ora ero io quella in dovere di dare delle risposte: Alexander era lì a guardarmi nella penombra come per farmi una richiesta silenziosa. Mi tirai su e mi aggiustai una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Una sera io, Jeremy e Darren abbiamo bevuto un po’ troppo. Mi sono ubriacata e lo sai quanto reggo l’alcool… Jeremy ci ha lasciati soli, Darren mi ha baciato e mi ha fatto credere di aver fatto altro con lui quella notte. Ero diventata ossessiva perché mi vedevo ingrassata, non mi sentivo mai bene, avevo un ritardo. Ho pensato di essere incinta e ho comprato il test, ma poi mi sono venute le mestruazioni e mi sono completamente dimenticata di averlo comprato». Col capo chino guardavo le nostre dita vicine, che quasi si sfioravano ma che non avevano il coraggio di toccarsi davvero, nascondendomi tra i capelli per l’imbarazzo.
«Lo ammazzo», lo sentii sussurrare, poi le sue dita scomparvero e prima che potessi alzare il viso era già uscito sbattendo la porta furiosamente.
«Alexander!». Mi precipitai giù dal letto, sentendo le ruote slittare sull’asfalto. La porta di casa era ancora aperta e fuori tutto era immerso nel buio e nel silenzio interrotto dai grilli. Il cuore mi batteva all’impazzata. Cosa voleva fare ora?
Mi sentivo così in colpa. Ci ero già passata una volta: ritornai indietro nel tempo, a quella notte di cinque anni fa…

Singhiozzavo come una bambina che aveva appena fatto un altro dei suoi capricci e non riuscivo a fermarmi. Ero davvero stanca: un’altra botta e il mio cuore avrebbe ceduto.
Il camino dinanzi a me scoppiettava, il fuoco illuminava il mio volto e la fiamma viva emanava un calore pazzesco. Ero accaldata e le mie lacrime scendevano bollenti, nonostante fosse quasi dicembre stavo iniziando a sudare.
«Ehi, cucciolo di Bambi». Non avevo avvertito la presenza di Darren, che probabilmente mi aveva sentita piangere mentre passava per il corridoio. Nascosi il mio viso tra le mani per la vergogna e ciocche di capelli mi caddero davanti. Lui si sedette sul divano davanti a me e mi appoggiò una mano sulla gamba, sporgendosi nella speranza di trovare uno spiraglio per potermi guardare.
«Cos’è successo?», sussurrò dolcemente, allungando una mano per spostarmi i capelli. Sentii le sue mani sfiorare le mie e così le tolsi dal volto, trattenendo le lacrime e asciugandomi quelle che erano già scese. Tenni lo sguardo basso.
«Un viso così bello rovinato dalle lacrime», borbottò contrariato, mentre le sue mani scivolavano ad accarezzarmi le guance mentre il pollice mi asciugava. Mi voltai per guardarlo e incontrai i suoi occhi con espressione preoccupata. Darren che parlava in questo modo era un caso raro.
«Lasciami stare, Darren», mugolai, divincolandomi dalle sue premure. Non avevo voglia di parlare, né tantomeno di sentire la sua predica sul fatto che continuavo a seguire la strada sbagliata.
«Andiamo, sono giorni che ti sento piangere», mi incitò, ma da parte mia solo il silenzio. Avevo un nodo alla gola che quasi non mi faceva respirare, figuriamoci se mi mettevo a raccontare le mie sventure. A Darren. Che fino all’altro ieri provava a palparmi il sedere. «Stai rimuginando su Alex?», aggiunse.
Domanda retorica, ovviamente. Sapeva benissimo perché ero ridotta così, ce li aveva anche lui gli occhi per osservare come mi trattava e delle orecchie per sentire quello che Alexander mi sputava contro. Gli occhi mi si riempirono nuovo di lacrime ma avevo distolto lo sguardo e Darren non poteva vederlo.
«Hai chiarito quello che è successo?». Tirai su col naso e fissai le fiamme scoppiettanti per qualche secondo.
«No, Darren, no. Non riusciamo a superarla questa cosa». Mi fu impossibile trattenermi e scoppiai nuovamente a piangere. Lui mi prese prontamente tra le sue braccia e lasciò che la sua maglia si bagnasse con le mie lacrime, cullandomi dolcemente.
«Se fossi in te… lo lascerei andare. Non lo dico perché così io possa avere la strada spianata con te, ma perché io non ce la farei a dare continuamente amore senza ricevere nulla in cambio. Sara, io posso amarti, lui no. E tu meriti una persona che trovi il paradiso ogni volta che ti guarda e che per questo non si stanchi mai di guardarti». Facile a dirsi. Facile a dire “non ci pensare, ne troverai un altro”. Non pensarci davvero è tutta un’altra storia: ci avevo provato già un milione di volte ma la mia testa vagava sempre fino a lui.
«Non lo so cosa gli ho fatto… continua a trattarmi male, non capisce cosa provo»
«Allora vai e diglielo una volta per tutte quello che provi!», esclamò allargando le braccia. «Dopo anni e anni penso che sia arrivato il momento di parlare e mettere in chiaro le cose», disse serio.
«Hai ragione», mormorai annuendo, tirandomi su con il naso. «però.. non so da dove iniziare, sono cosi confusa… quando gli sono davanti mi scordo tutto quello che avevo in mente di dirgli due secondi prima».
Mise le mani sulle ginocchia e si diede una spinta per alzarsi.
«Ti aiuto», esordì, poggiandosi le mani al petto. «Fai finta che io sia lui, dimmi tutto»
«Ma no, dai…», mormorai imbarazzata.
«So che fa paura, ma diglielo chiaramente… Io ti amo», disse deciso, poi mi prese le mani e si mise in ginocchio davanti a me. Mi spuntò un sorriso divertito mentre lo osservavo sistemarsi il ciuffo ribelle all’indietro.
«C’è qualcosa che devi dirmi, Sara?», sbottò. Lo guardai confusa. «Muoviti, ho da fare», aggiunse. Ci misi qualche istante a capire che era già entrato nella parte di Alexander. Mi morsi il labbro e iniziai ad elaborare una frase di senso compiuto. Ero abbastanza imbarazzata, non era da me aprirmi così tanto e l’idea di farlo con Alexander mi spaventava a morte. Confessare i miei sentimenti a Darren poi… era più facile trovare l’ago in un pagliaio.

Pov Alexander

Mi arrestai poco più avanti, sull’uscio della porta, sporgendomi leggermente per guardare all’interno della stanza. Il grosso divano nascondeva perfettamente le due figure, riuscivo a distinguere solo la chioma spettinata di Sara che spuntava di qualche centimetro sopra la spalliera. Sapevo chi c’era con lei, avevo sentito Darren pronunciare un “ti amo” molto strambo. Chissà dov’era, se era seduto a terra come al solito, se si era sdraiato sul divano e se magari aveva anche appoggiato la testa sulle gambe di Sara con quell’espressione compiaciuta che gli avrei strappato dal volto.
Per qualche strano motivo restai lì ad ascoltare: sapevo che non avrei dovuto, che non mi riguardava, eppure non riuscivo a staccarmi da quella parete sulla quale ero appoggiato. Dovevo sapere cosa stava succedendo.
«Me lo sto tenendo dentro da troppo tempo… devi sapere quello che penso, vada come vada». Sara aveva la voce tremante, come se avesse appena finito di piangere. O forse era l’emozione… «Ho passato tanto tempo ad osservarti, a guardarti come se fossi la cosa più bella che mi sia capitata e a starmene in silenzio nella speranza che la fiamma si spegnesse. Sapevo che era sbagliato e a ricordarmelo c’eri proprio tu che mi guardavi con quell’aria come a rimproverarmi… mi sono sentita davvero in colpa», la sua voce era decisa. Cosa diavolo stava dicendo?! Davvero stava confessando quelle cose a Darren? Avvertii una fitta allo stomaco, ansioso di sentire il continuo. «Ma ecco… dopo quella sera… è cambiato tutto. Ho iniziato a pensare che forse anche tu mi volevi, che non mi vedevi solo come la sorellina adottiva. E me ne sono fregata di ciò che avrebbero pensato gli altri perché vedi, baciarti è stato lo sbaglio più bello della mia vita, se così si può definire». Lo stomaco si era completamente contorto, la mia bocca per poco non cadeva a terra per lo stupore… Sara… quella ragazzina che mi aveva fatto credere di stare ai miei piedi… si era fatta anche mio fratello. Che troia…
«Mi divertiva custodire questo segreto, l’abbiamo rifatto all’oscuro di tutti e questo forse ci univa… avevamo questo piccolo segreto da condividere. Pensavo che il nostro amore fosse come un piccolo seme da curare… ma non sta germogliando e anzi, gli strappi le radici. Mi sputi contro tanto veleno ma io non riesco ad odiarti perché in cuore mio ho ancora la speranza che nasca un bel fiore. Ora, senza finzioni, sai quello che provo e ho bisogno di sapere se c’è ancora una speranza per noi due». Le parole di Sara mi avevano mandato letteralmente in escandescenza… perché Darren? Perché aveva sempre finto indifferenza nei suoi confronti?
«Certo che c’è speranza», sentii dire da parte di Darren, che sicuramente stava gongolando pensando a me, povero illuso, che combatteva contro nemici immaginari come Don Chisciotte e i suoi mulini a vento. Mi sentivo così ridicolo… Sara, con la sua faccia d’angelo, mi aveva preso in giro per tutto questo tempo senza che me ne accorgessi. Darren me l’aveva soffiata via, era riuscito ad ottenere ciò che voleva e me l’avrebbe ricordato giorno dopo giorno, rinfacciandomi che era riuscito a vincere il suo trofeo più di quanto ci fossi riuscito io. Ero una pentola a pressione, le mie vene stavano per scoppiare, i pugni erano chiusi e tremanti di rabbia, mi sentivo come un re al quale era stato sottratto il trono. Darren aveva osato toccare qualcosa che mi apparteneva. Volevo solo spaccargli la faccia.

Pov Sara

Darren mi guardò con un’espressione compiaciuta e fece un enorme sorriso.
«Amore mio», sussurrò, prima di gettarsi su di me e mimare un bacio intenso con tanto di strani versi mentre ridevo e mi divincolavo. Un rumore di qualcosa di pesante che si spostava ci fece sobbalzare e ci voltammo di scatto.
«Pezzo di merda». Neanche il tempo di tirarmi su che vidi Alexander che si era scaraventato su Darren, afferrandolo per il colletto della polo per sbatterlo contro il muro. Mi tirai indietro, raggomitolandomi sul divano, osservando spaventata l’espressione infuriata di Alexander.
«Ma che cazzo ti prende», ringhiò Darren infastidito, spingendolo via con le mani contro il petto. Alexander gli assestò un pugno in piena mascella e Darren perse l’equilibrio. Mi portai le mani alla bocca.
«Alexander!», urlai allarmata, alzandomi dal divano per aiutare Darren a rialzarsi. Alexander si voltò immediatamente verso di me con gli occhi spalancati e il viso rosso per la rabbia, puntandomi un dito contro.
«Sei una puttana», ringhiò puntandomi un dito contro ed io sobbalzai, come se avessi paura di ricevere anch’io un cazzotto.
«Modera i termini, coglione!», lo rimproverò Darren prendendo le mie difese e Alexander, che non aspettava altro che un motivo per attaccare, si scaraventò su suo fratello e partì un altro pugno. Darren rispose annaspando, graffiandogli la guancia.
«Alex! Smettila!», urlai piagnucolando, afferrandolo per la maglia per tirarlo via. Non l’avevo mai visto così fuori di sé.
«Fai schifo», ringhiò Alexander, continuando a dare colpi alla cieca. Per poco non ne presi uno anch’io e, nello scansarmi, il vaso sul ripiano del camino cadde facendo un gran rumore.
«Ma che sta succedendo?!». Jeremy irruppe nella stanza e vide Darren e Alexander prendersi a pugni e subito si gettò tra di loro, cercando di separarli. Indietreggiai intimorita, mi sentivo impotente, confusa per quello che stava accadendo all’improvviso.
«Vi prego, basta», mugolai, tentando nuovamente di afferrare Alexander. Era un toro infuriato, impossibile da domare.
«Santo Cielo, signor Wilson!». Sentii Agatha urlare dopo che si era affacciata e aveva visto tutti e tre azzuffarsi e dopo qualche secondo anche mio padre entrò in stanza.
«Che sta succedendo?!», borbottò in tono autoritario e loro si acquietarono immediatamente. Alexander allentò la presa e Jeremy riuscì ad afferrarlo per le spalle per bloccargli  le braccia. Darren si tirò su e si sedette sul divano, pulendosi con una mano il sangue che continuava a scorrergli dal naso.
«Non posso credere a quello che vedo… siete tornati indietro di dieci anni?», ci rimproverò papà mentre Agatha mugolava qualcosa andando avanti e indietro, afferrando uno strofinaccio da mettere sotto il naso di Darren.
«Sara, portalo in cucina mettigli del ghiaccio», mugolò Agatha preoccupata, raccogliendo i cocci del vaso di porcellana che era andato in frantumi. Darren si alzò e passò a capo chino davanti a nostro padre, seguendomi in cucina e sedendosi su una sedia.
«Io non lo so cosa gli è preso», mugolai prendendo qualche cubetto di ghiaccio da avvolgere in uno strofinaccio con le mani ancora tremanti per lo spavento.
«Vorrei saperlo anch’io», borbottò Darren irritato, lasciando che premessi il ghiaccio sulla punta del naso che era inclinata leggermente verso destra. Fece una smorfia per il dolore e per l’impatto col ghiaccio freddo.
«Perché non andiamo al pronto soccorso? Vedo qualcosa di strano», feci preoccupata, osservando il suo naso. Lui lo tastò e fece un’altra espressione di dolore.
«Vado a mettermi una maglietta pulita», sbottò,  afferrando il panno con il ghiaccio diretto in camera sua. Presi un altro strofinaccio per pulire le macchie di sangue dal pavimento. Ancora non potevo credere a quello che era appena successo… non avevo mai visto Alexander usare tanta violenza e agire con così tanta rabbia fino a rompergli il naso. Sentii qualcuno entrare in cucina e quando alzai lo sguardo vidi Alexander a pochi passi da me.
Restai pietrificata ad osservarlo sciacquarsi le mani e massaggiarsi le nocche aprendo e chiudendo la mano a pugno mentre nella mia testa vorticava l’immagine del suo dito contro mentre mi dava della puttana. Era lo stesso Alexander di cui mi ero innamorata?
«Hai dei graffi…», accennai, allungando la mano con la pezza per pulirlo. Respinse la mia mano con uno schiaffo e senza guardarmi in faccia prese le chiavi dell’auto riposte sul tavolo, ignorando Darren sull’uscio della porta quando gli passò accanto per andare via.
«Questo casino è tutto per colpa mia», mugolai trattenendo le lacrime. Stavo portando troppi casini in quella casa.
 



Buonasera ^^ vi ho fatto aspettare un bel po' (sia in termini di giorni che di capitoli xD) ma finalmente stiamo facendo un po' di chiarimenti nel passato burrascoso dei nostri piccioncini *w*
Spero che continuiate ad apprezzare il mio lavoro, nel frattempo vi ringrazio per tutte le cose belle che continuate a dirmi, quando sono giù questo è il modo migliore per ricevere delle soddisfazioni... quindi grazie davvero!
Superata la parte "difficile" non ci metterò molto per il prossimo capitolo, quindi a presto! :)

 

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Capitolo 20
*** Il nostro essere è il nostro passato ***


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Decima chiamata a vuoto: Alexander era letteralmente scomparso. Avrei voluto chiamare Agatha o Jeremy ma avevo paura che mi facessero qualche domanda e di certo non volevo allarmarli… cosa potevo fare? Odiavo restarmene con le mani in mano a girare per casa come un fantasma. Il modo in cui Alexander era uscito non prometteva nulla di buono e l’ultima cosa che volevo era un altro litigio tra lui e Darren. Come se non avessi già rovinato abbastanza il loro rapporto…
Era tutta colpa mia infatti. E ciò che mi pesava di più era la mia reticenza: il timore che nutrivo nei confronti di Alexander aveva fatto sì che la verità fosse seppellita sotto una montagna di bugie e fraintendimenti… avrei dovuto dirgli tanto tempo fa che tra me e Darren non c’era nulla, che quel discorso era tutta una messa in scena e che aveva inutilmente rotto il naso a suo fratello. Speravo davvero che non l’avesse rifatto, non ora che non c’era nostro padre a dividerli. Alexander diventava furioso come una belva quando perdeva il controllo e Darren si sarebbe fatto molto male.
Trascorsero diverse ore prima che Alexander potesse tornare a casa e furono le tre ore più lunghe della mia vita: mi precipitai verso l’ingresso dopo aver riconosciuto la sua macchina parcheggiata nel viale e lo osservai entrare in casa richiudendosi lentamente la porta alle spalle. Cercai in lui qualche dettaglio che potesse rivelarmi qualcosa su dove era stato nelle ultime ore e su cosa avesse fatto.
«Alex…». Lo chiamai flebilmente, sollevata dal fatto che non ci fosse nulla fuori posto.
«Come mi hai chiamato?», sussurrò lui, fermandosi di colpo per fissarmi con gli occhi sbarrati. Proprio quando stavo per ripeterlo, mi accorsi di ciò che le mie labbra avevano pronunciato involontariamente.
«Hai cambiato nome e non me l’hai detto?», la buttai sullo scherzo.
«Mi hai sempre chiamato Alexander da quando abbiamo litigato», mi fece notare scettico, alzando un sopracciglio.
«Alex, Alexander… che differenza fa?», sbottai nervosamente.
«Tanta. E tu lo sai», disse serio, quasi minaccioso. Perché l’avevo chiamato Alex? Non lo sapevo nemmeno io in realtà… ero solamente così felice di vederlo, così ansiosa di parlargli e di dirgli tutto quello che non gli avevo mai detto.
Avanzò in salotto, massaggiandosi la mano avvolta in una fasciatura improvvisata con uno straccio vecchio. La mia attenzione scivolò sulle sue mani e sgranai gli occhi allarmata. No… non poteva essere.
«Che hai combinato?», sussurrai con la voce tremolante, protendendo una mano verso di lui fino ad appoggiarla sul braccio per fermarlo.
«Niente», tagliò corto, evitando il mio sguardo e anche la mia presa poco ferma. Darren…
«Ma sei impazzito?! È già successo una volta, vuoi che vada via di nuovo?!», urlai con le lacrime agli occhi, gettandomi su di lui per colpirgli furiosamente il petto: ero arrabbiata e spaventata all’idea che si stesse ripetendo la situazione esattamente come cinque anni fa. Alexander mi afferrò per le spalle costringendomi ad arretrare fino a sbattere con la schiena contro la parete.
«Non vai da nessuna parte, il tuo posto è qui», ringhiò minaccioso. Mi afferrò il viso, accarezzandomi poi la nuca più dolcemente. «Tu sei mia».
Non ebbi neanche il tempo di riflettere su quello che aveva appena detto che le sue labbra si incollarono sulle mie quasi violentemente. Lo stomaco mi si chiuse in una fitta e le mie mani circondarono immediatamente il suo collo quando lui mi strinse a sé. Il mio labbro scivolò lentamente tra i suoi denti, me lo morse e lo succhiò prima di riprendere a giocare con la lingua. Quel bacio mi ricordava tanto quelli che ci scambiavamo di nascosto, quelli carichi di desiderio, quelli proibiti, quelli che erano un nostro segreto. Lo volevo con tutta me stessa. Lo volevo anche un secondo dopo che le nostre labbra fecero uno schiocco per staccarsi.
«Non so per quale inspiegabile motivo sto impazzendo al pensiero che qualcun altro ti abbia toccato», sussurrò con espressione corrucciata, continuando a tenermi per le spalle mentre il suo sguardo si spostava dalle mie labbra ai miei occhi. Per la prima volta i suoi occhi di ghiaccio non mi facevano paura.
«Nessuno mi ha toccata», mugolai, quasi imbarazzata da quell’affermazione. «E ora non dirmi che sei tornato a rompere il naso a Darren!», aggiunsi con un tono più arrabbiato.
«Non sono andato da nessuna parte», bofonchiò, arretrando di quel poco che bastava a farmi staccare dalla parete. Il suo sguardo era ancora su di me. «Non negarlo, Darren ti piace. Ti è sempre piaciuto. E quello che è successo anni fa ne è la prova… se l’era meritato». Era finalmente venuto il momento di tirare fuori gli scheletri dall’armadio. Ora o mai più, Sara.
«Coglione, ciò che sentisti era rivolto a te! Darren mi stava aiutando a preparare il discorso che avrei voluto farti!», esclamai esasperata. «Come fai a non capirlo ancora?!». Il suo volto cambiò espressione e i suoi occhi si riempirono di meraviglia.
«Dopo tanto tempo sono ancora qua, Alexander… chiediti perché…», sussurrai con gli occhi pieni di lacrime. Le braccia di Alexander improvvisamente non erano più calde e comode e avvertii una strana sensazione: volevo andare via, liberarmi dalle sue mani, dal suo sguardo inquisitore. Lui, chiaramente scosso, lasciò che scivolassi via dalle sue braccia fino a posizionarmi di fronte a lui.
«Perché?», mi chiese serio, con insistenza. «Cosa provi per me?». Cos’è? Voleva sentirselo dire ancora una volta? Non mi aveva ancora umiliato abbastanza durante tutti questi lunghi anni?
«Pena», mormorai, guardandolo con tristezza. Le sue mascelle si serrarono immediatamente e il suo sguardo scivolò in basso verso il pavimento. Alexander stava chinando il capo dinanzi a me.
«E sai perché? La tua gelosia, la tua possessività e le tue manie non hanno fatto altro che imprigionarti nel mostro che ti sei creato. Hai passato gli ultimi dieci anni a rendermi la vita un inferno: il tuo egoismo mi ha portato a scegliere di rinunciare alla mia città, alla mia famiglia, ai miei amici, alla mia vita… E quando ho lasciato questo posto speravo davvero che tu ti scordassi di me e che il tuo odio potesse scomparire. E invece eccoti qui… che mi tieni a te senza amarmi davvero», sputai tutto a un fiato, avanzando verso di lui. «Dici di odiarmi e poi rivendichi i tuoi diritti e mi tratti come se io fossi di tua proprietà. Ma non funziona così e tu non puoi pretendere che io sia tua… sai che significa non poter amare nessun altro? Sai che significa avere paura di fidarsi di qualcuno? Non sono più riuscita a farmi toccare da nessun altro uomo dopo di te… Grazie per avermi rovinato la vita». Finii il discorso con i primi singhiozzi che trattenni orgogliosamente e con un enorme nodo alla gola che mi pulsava e mi faceva male. Avevo tanta voglia di piangere, di cacciare fuori tutto quello che avevo dentro. Ma almeno adesso Alexander sapeva ciò che pensavo: era rimasto in silenzio ad ascoltarmi con aria assente per tutto il tempo, immerso in chissà quale pensiero e ricordo e passarono diversi istanti prima che potesse fare un sospiro profondo e iniziare a sbiascicare qualcosa.
«Eri così carina quando tu e tua madre siete arrivate», iniziò, «e mio padre vi trattava con così tanto amore… non aveva mai molto tempo libero e tutto quello che gli restava lo dedicava a voi. A quel tempo ero solo un ragazzino immaturo… volevo fartela pagare». Si mise le mani in tasca e continuò a fissare un punto in basso sul pavimento, poi i suoi occhi si posarono sulla parete alle mie spalle. Non aveva il coraggio di guardarmi negli occhi?
«Mi sono impegnato a fingere che mi interessassi e ti ho fatto innamorare di me. Volevo spezzarti il cuore. E per portare a termine il mio piano ho messo a tacere i sentimenti che erano nati», farfugliò. Finalmente si decise a incrociare il mio sguardo: i suoi occhi erano lucidi, la sua voce sottile e tremolante. Il leone aveva perso i suoi artigli. «Ecco perché ho perso la testa quando ti ho sentito dire quelle cose a Darren. Mi sono sentito uno stupido perché ho creduto che fossi mia e mi sembrava di essere stato preso in giro. Mi sono odiato il doppio di quanto io dopo sia riuscito a odiare te… e tu non immagini in quale conflitto interiore ho vissuto per tutto il tempo che ti sono stato accanto». Alexander mi prese improvvisamente per mano attirandomi a sé, stringendomela forte. «Non mi sono creato da solo questa maschera. Sei stata tu a rendermi il mostro geloso, possessivo, ossessivo che prima non ero». Da parte mia nessuna reazione: non riuscivo a muovere un singolo muscolo, non riuscivo a credere a quello che mi stava dicendo. La mia mano tremava tra le sue, i miei occhi erano ancora gonfi. Alexander… che provava qualcosa per me? Alexander geloso? Lo stesso Alexander che mi sputava contro parole di odio e disprezzo mi stava confessando che agiva soltanto perché ero stata io a spezzare il suo cuore quella sera? Non sapevo cosa dire, né quale conclusione trarre. Era tutto così strano… possibile che tutti questi anni di ostilità siano stati la conseguenza di un banale equivoco?
«Se quella sera tu non avessi sentito quelle cose... e se quelle cose le avessi dette a te… sarebbe andata diversamente?», azzardai.
«Non lo so». Alexander lasciò andare le mie mani e il suo sguardo parve chiedermi scusa.
«Non c’è da escludere l’opzione che mi avresti riso in faccia e continuato a trattarmi male», sbottai infastidita. «Dopotutto… avresti sempre potuto fare finta di non crederci, come sempre», aggiunsi acidamente. Solo il pensiero di tutte le volte in cui mi aveva respinto indirettamente mi faceva salire il nervoso. Come potevo essere sicura che quella sarebbe stata la dichiarazione con la quale le cose sarebbero cambiate?!  
«Senti, non so come avrei reagito cinque anni fa ma so come reagirei adesso. E so per certo che adesso, anche se tutto quel discorsetto fosse stato davvero destinato a Darren, non riuscirei più a odiarti come una volta: stare con te ha come riacceso un interruttore che ha portato a galla i miei sentimenti». Davanti a me ora avevo una persona totalmente diversa da quella che mi sembrava di conoscere… chissà cosa voleva dire essere ricambiata da Alexander. Ero così abituata a soffrire per lui che quasi l’avevo associato come una cosa normale e ora che tutto stava prendendo un’altra piega mi ritrovavo smarrita. Cosa dovevo fare adesso?
«Io… ho bisogno di stare da sola», farfugliai, facendo qualche passo indietro e voltandomi per lasciarlo. La sua mano mi afferrò il polso, costringendomi a girarmi nuovamente verso di lui.
«Io ho bisogno di stare con te».

 



Ciao a tutte! Come procedono le vacanze? é passato un po' dall'ultimo aggiornamento ma non ho di certo abbandonato la mia storia, ci sono troppo affezionata! Questi capitoli sono stati tra i più difficili e potete immaginare perché... ero abituata ad un Alexander spietato e fargli dire cose dolci proprio non mi veniva xD 
Spero di essermela cavata bene e di non avervi deluso, ora che sapete cosa è successo cinque anni fa e perché c'è stata tanta ostilità in questi anni...
Ma ovviamente non è finita qui, odio gli happy ending così banali e ci sono ancora taaaante cose che sono rimaste in sospeso... torno a scrivere nella speranza che possiate apprezzare il mio lavoro :3
Vi lascio con una citazione di Oscar Wilde che mi ha colpito molto fino a diventare il titolo di questo capitolo... A presto e buon proseguimento di vacanze! :p


Il nostro essere è il nostro passato. E solamente col passato è possibile giudicare le persone.
-Oscar Wilde

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Capitolo 21
*** Ricomincio da noi ***


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Mi rigirai nel letto, fissando la sveglia che segnava ormai le otto. Due ore fa Alexander si era alzato per andare a lavoro ed io non ero più riuscita a prendere sonno. Non potevo fare altro che pensare a quello che era successo questa notte…

Alexander Wilson aveva ammesso di aver bisogno di me. Non riuscivo a togliermi dalla testa tutto quello che mi aveva detto. Mi faceva strano starmene lì a dormire con lui, consapevole del fatto che qualcosa era cambiato definitivamente.
«Dai, vieni da me», sussurrò Alexander all’improvviso, come se avesse sentito il rumore che facevano i miei pensieri nella testa. Rimasi immobile dov’ero, senza il coraggio di fare ciò che volevo davvero: stringermi immediatamente a lui e abbracciarlo forte. «Sara?»
«Mmh?», farfugliai. Lui non mi lasciò altra scelta e prese iniziativa: mi circondò con un braccio e mi attirò bruscamente a sé fino a spingermi poi col capo sul suo petto.
«Alex…», sussurrai imbarazzata, sentendo il battito del suo cuore sotto l’orecchio mentre lui continuava a tenermi immobile con una mano tra i capelli
«Restiamo così, per favore».
Anche per tutta la vita, Alex.


Quando la sveglia aveva suonato, avevo avuto come l’impressione che mi fossi svegliata da uno dei miei bellissimi sogni. Alexander accanto a me stava iniziando a muoversi nel letto, farfugliando qualcosa di incomprensibile mente si stiracchiava.
Si era alzato pigramente, aprendo il cassetto per prendere una cravatta e frugando nell’armadio per una camicia pulita, poi l’avevo osservato uscire dalla stanza.
Chissà se qualcosa sarebbe cambiato e se tutto sarebbe tornato come prima. Se così fosse stato, avrei preferito continuare a dormire credendo che fosse un sogno.
E invece no… non si trattava soltanto di un sogno.

«Cerchi questa?», mormorai, porgendogli la cravatta che prima aveva preso e posato distrattamente sul letto. Emise un “ah”, ancora assonnato, e la prese velocemente, annodandola con fare disinvolto da sopra la camicia bianca. Poi si voltò verso di me e mi beccò che lo stavo fissando. Sentii le guance ribollire: stavo… arrossendo?!
«Grazie», disse avvicinandosi a me fino ad appoggiarsi con un ginocchio sul materasso che si piegò sotto il suo peso.
«Per cosa?», mormorai presa dall’agitazione per l’improvvisa vicinanza.
«Per essere restata così tutta la notte», rispose, stampandomi un bacio sulla fronte prima di andarsene.


Un bip mi fece sobbalzare: allungai la mano per prendere il telefono appoggiato sul comodino. Era Jeremy che mi informava che sarebbe passato tra un paio d’ore. Mi alzai, feci colazione, mi diedi una sistemata e tolsi un po’ di disordine in casa.
«Jer!». Appena mise piede in casa gli avvolsi le braccia intorno al collo e lo abbracciai forte. Lui rise e ricambiò l’abbraccio.
«Dio se mi sei mancata», sussurrò tirando un sospiro. «Come stai? Ti vedo di buon umore». Mi osservò per qualche istante e io gli feci un sorriso radioso.
«Non crederai a quello che sto per raccontarti…», sghignazzai impaziente. Osservai che era rimasto un grosso scatolone fuori la porta. «Questo cos’è?»
«Oh, lascia stare è pesante». Mi raggiunse e lo prese prima che potessi provare a sollevarlo da sola. «Agatha ha trovato il coraggio di ripulire lo studio di papà e ci ha trovato un po’ di roba di Alex», mi spiegò, posando lo scatolo sul tavolo. «Ma ora dimmi cosa è successo!». La curiosità di vedere cosa ci fosse dentro fece posto alla fretta di raccontagli ciò che era accaduto tra me e Alexander.
Rivedere Jeremy mi aveva messo di buon umore, era sempre stato così parlare con lui, anche quando eravamo lontani ci sentivamo in continuazione. Lo invitai a restare per pranzo ma lui rifiutò dicendo che doveva pranzare fuori con Camille, che a quanto pare era diventata la sua nuova ragazza, così lo salutai e approfittai del tempo libero per cimentarmi in una nuova ricetta.
Mi arrampicai letteralmente sulla cucina per prendere delle scodelle e una vibrazione per poco non mi faceva cadere. Scovai il cellulare di Alexander accanto alla tazzina sporca di caffè, che si illuminava e vibrava sul tavolo muovendosi di qualche millimetro e tintinnando contro il barattolo di caffè in vetro.
Smise di squillare ed io mi avvicinai per prenderlo: sul display c’era l’icona di due chiamate perse ma per sapere chi fosse bisognava sbloccare il telefono con l’impronta digitale. Alexander doveva averlo dimenticato un secondo prima di scendere.
Un altro squillo mi fece sobbalzare. Il display si illuminò nuovamente e apparve un nome: Angelica.
Avvertii immediatamente un fastidio, come un prurito. Perché lo stava chiamando? Allungai il dito verso l’icona del telefonino rosso, forse era la cosa più giusta da fare. Ma all’ultimo secondo la curiosità prevalse e risposi.
«Finalmente!», squittì lei dall’altra parte del telefono con voce fastidiosa. Solo a sentirla mi veniva voglia di farla a pezzettini e gettarla in un lago. «Alex ci sei?!». Odiavo quando lo chiamava “Alex”, non ne aveva il diritto. Mi schiarii la voce.
«Alex ha lasciato il telefono a casa», risposi freddamente, calcando sul diminutivo che lei così tanto adorava.
«Oh, Sara!», esordì lei con fin troppo entusiasmo. «Che sfortuna, dovevo parlargli urgentemente», aggiunse con tono stavolta esageratamente dispiaciuto. Io la ammazzo.
«Vuoi lasciargli un messaggio? Glielo riferirò», sbottai.
«No, no, chiamerò al suo ufficio. Faresti bene a riportarglielo, per un direttore d’azienda il telefono è di vitale importanza. Ma tu non puoi capirlo», scoppiò a ridere e staccò dopo un “buona giornata”.
«Questa stronza», ringhiai e mi trattenni dallo scaraventare il telefono contro al muro: Alexander non sarebbe stato contento. In effetti c’erano parecchi messaggi ed email in attesa di essere lette: se fosse stato qualcosa di importante?
Guardai affrante gli ingredienti che avevo preparato e alla fine decisi di andare a portargli il telefono:sicuramente avrebbe apprezzato il mio gesto. Quando mi misi in macchina e iniziai a camminare notai con sollievo che non c’era nessuno alle mie spalle: Robert non mi seguiva più da qualche giorno, forse le indagini stavano andando meglio… con tutto il casino che stava succedendo con Darren e Alexander mi ero completamente scordata dei guai in cui la società era immersa e Alexander poteva anche affogare nei suoi guai senza proferire parola, come se tutto ciò non mi riguardasse.
Parcheggiai davanti all’imponente edificio e chiesi informazioni ad una donna su dove potesse essere Alexander. Lei mi indicò il corridoio che portava al suo ufficio ma, poco prima della porta di ingresso, ci trovai un uomo alto e forzuto in divisa che si irrigidì non appena mi vide.
«Mi scusi ma non può passare, il signor Wilson è occupato al momento», mi fermò l’uomo con quelle parole fredde, mettendomi un braccio davanti per non farmi passare. Lo guardai storto.
«Devo solo consegnargli una cosa»
«Mi dispiace è in riunione e non vuole essere disturbato. Mi dia il suo nome, gliela darò da parte sua», insistette.
«Sara Wilson», ringhiai. Lui sgranò gli occhi e tolse subito il braccio.
«Mi scusi signora», mugolò imbarazzato. «Facevo solo il mio lavoro»
«Non si preoccupi», sorrisi disorientata. Non pensavo che la moglie del direttore godesse di qualche privilegio. Arrivai davanti alla porta del suo studio e mi fermai ad ascoltare chi ci fosse dall’altro lato: sentivo Alexander parlare senza riuscire a capire cosa stesse dicendo. Poi la voce di una donna che parlava sopra, con tono duro e così deciso da ammutolirlo. Chi c’era lì dentro?
Mi chinai leggermente e sbirciai dalla serratura: Alexander si stava infilando la giacca, sorridendo alla donna che stava facendo dondolare i suoi tacchi neri dal bracciolo del divano. Lui si strinse il nodo alla cravatta, continuando a dire qualcosa e la donna si alzò tanto da permettermi di vederla in volto: Angelica rideva, scostandosi i capelli dalla spalla prima di alzarsi mettendosi le mani ovunque per aggiustarsi.  Ovviamente era una scusa per avere gli occhi di Alexander piantati addosso. Sentii il sangue ribollirmi nelle vene: non ne potevo più di quella vipera sempre con gli artigli da fuori per strapparmi Alexander.
Ora gli stava persino accarezzando il petto, accorciando troppo la distanza per i miei gusti. E questa era la riunione importante per il quale Alexander aveva chiesto di non essere disturbato?!
Tra tre secondi butto la porta giù, entro dentro e le strappo i capelli da testa.
«Cosa sta facendo?!». Una voce mi fece sobbalzare e il cuore mi salì in gola: urtai con la testa sotto la maniglia ed emisi un grugnito, massaggiandomela mentre mi alzavo. Incrociai un paio di occhi conosciuti.
«Sara, sei tu?». Vincent rise di buon gusto, abbracciandomi come se fossi una vecchia amica. Abbozzai un sorriso imbarazzato, sentendo le guance andarmi a fuoco. Che figuraccia…
«Che ci fai qui?», sdrammatizzai nervosamente, indicando l’ambiente con un gesto.
«Oh, ho delle cose urgenti da dire ad Alexander, non mi ha risposto ai messaggi e ho pensato di fare un salto», fece lui con nonchalance, infilandosi le mani nei pantaloni grigio fumo.
«Ha lasciato il telefono a casa», lo informai, mostrandogli il cellulare.
«Che mogliettina servizievole», sorrise malizioso, accarezzandomi la guancia per lasciarmi un piccolo pizzicotto. Cosa sta facendo?!
In quell’istante si aprì la porta e Alexander incrociò subito i miei occhi, fissando poi Vincent con uno sguardo gelido: tolse rapidamente la mano dal mio viso e se la mise in tasca, schiarendosi la gola per il disagio. Misi il cellulare di Alexander in borsa.
«Oh, Sara», sorrise Angelica sorniona, squadrandomi dalla testa ai piedi. «Vincent», aggiunse sbattendo le palpebre. Vincent ricambiò con un cenno del capo mentre lei faceva la sua sfilata per lasciare il luogo.
«Alex, allora fammi sapere», aggiunse sorridente prima di sparire dietro l’angolo con il ticchettio dei tacchi che rimbombava. Alzai un sopracciglio ma quando mi girai gli occhi di Alexander lanciavano ancora fulmini e saette.
«Posso esservi utile?», borbottò, incrociando le braccia al petto.
«Devo parlarti», dissi con tono abbastanza arrabbiato.
«Già… anch’io… magari passo più tardi», sorrise Vincent capendo la situazione e lasciandoci soli. Alexander attese una mia mossa ed io feci qualche passo in avanti per entrare nella stanza. Lui si fece da parte e richiuse la porta alle mie spalle.
«Che ci fai qui? Sto lavorando», borbottò, avanzando verso la sua scrivania per sedersi sulla sedia di pelle girevole.
«Il tuo lavoro comprende Angelica che si stiracchia sul divano?», feci ironica, scavando nella borsa per cercare il telefono.
«Ci stavi spiando?», sbottò sorpreso e infastidito allo stesso tempo. «Atteggiamento molto maturo!». Ricambiai con un’occhiata gelida. Se c’era una persona infastidita quella ero io.
«Attendevo la tua “riunione importante” per darti questo», virgolettai  con le dita, prima di posargli il telefono sulla scrivania. Lui parve sorpreso e afferrò il telefono.
«Ah, l’avevo dimenticato?»
«Buona giornata», borbottai, girando i tacchi per uscire. Sentii le ruote della sedia strisciare a terra e Alexander prendermi per la vita.
«Ehi», sussurrò, circondandomi con le braccia fino a far aderire il petto contro la mia schiena. Trattenni il fiato, sforzandomi di restare immobile e non sciogliermi in quell’abbraccio. Ero troppo arrabbiata per dargliela vinta, ero stufa di sentirmi così umiliata. Mi sentivo presa in giro e temevo che stesse facendo qualcosa con Angelica alle mie spalle.
«Non dovevi lavorare?», lo ripresi, accennando a camminare. Alexander mi strinse ancora di più.
«Il lavoro può aspettare»
«Non mi sembravi così indulgente prima. Hai fatto mettere una guardia fuori la porta. Avevi paura che ti sorprendessero a fare qualcosa?», ringhiai, strattonandolo per liberarmi dalla sua presa.
«Ma che stai dicendo», rise con espressione sbigottita.
«Il signor Wilson non vuole essere disturbato», borbottai imitando la voce doppia della guardia fuori allo studio. «Per poi vedere Angelica sculettare fuori da qui… che umiliazione!»
«Sara, stai delirando», disse Alexander serio. Conoscendolo, stava iniziando ad infastidirsi, probabilmente perché stavo alzando la voce. «Dovevamo parlare del problema che abbiamo con l’azienda… e lo sai che sono poche le persone che ne sono a conoscenza. Non potevo permettere che qualche orecchio indiscreto sentisse qualcosa»
«E di Angelica invece di fidi», aggiunsi. Sentivo caldo, la pressione mi era salita a tremila: stavo per mollargli uno schiaffo. «Ma vaffanculo», ringhiai, avanzando a grandi passi prima che potesse bloccarmi di nuovo. Alexander corse verso di me e mi prese in braccio, caricandomi sulla spalla come un sacco di patate. Urlai.
«Alexander! Lasciami andare!»
«Stà zitta»
«Giuro che ti spacco tutto!», continuai a sbraitare agitandomi mentre mi portava dietro la sua grossa scrivania. Mi mise giù ed io tornai a respirare.
«Sei una testa di cazzo!». Gli colpii il petto con un pugno, lui mi prese la mano e me la portò bruscamente in basso, stringendola. Poi si avvicinò a me improvvisamente e mi ritrovai immobilizzata tra la scrivania e il suo corpo.
«La smetti di urlare o ti devo imbavagliare?», sussurrò minaccioso, investendomi col suo calore. Potevo a stento guardarlo negli occhi tanto che era vicino al mio viso. Trattenni il respiro sentendo il cuore martellarmi in petto e abbassai gli occhi per fissare le sue labbra serrate. Il suo sguardo divenne improvvisamente più serio e il suo respiro irregolare.
«Alex…», mugolai. Ti prego, lasciami andare o mi farai venire un infarto.
«La tua gelosia…», sussurrò lui sfiorandomi le braccia, «mi fa impazzire». Scostò rapidamente ciò che c’era alle mie spalle sulla scrivania ed emisi un gemito quando mi prese per farmi sedere sul legno freddo. Incollò le labbra sulle mie, portando le mie mani attorno al suo collo ed io misi le mani tra i capelli, tirandoli leggermente mentre assaporavo il suo bacio. Le sue mani si poggiarono prepotentemente sulle mie gambe e salirono sotto la mia gonna. Arrivò all’elastico delle mutandine e mi strizzò avidamente il sedere, afferrandolo per attirarmi a sé e farmi sentire la sua erezione che premeva nei pantaloni.
«Cosa stiamo facendo?», dissi con voce tremolante, ansimando quando le sue labbra si poggiarono sul mio collo, iniziando ad accarezzarlo con la lingua. «Non possiamo qui». Si staccò da me e mi sorrise malizioso.
«Possiamo», replicò con un tono come se fosse un ordine, iniziando a sbottonarsi la camicia. Lo circondagli con le gambe per attirarlo a me e lo aiutai a slacciare i bottoni. Misi le mani sul suo petto liscio e lo accarezzai, poi feci scivolare la stoffa lungo le braccia e lui se ne liberò presto. Mi abbassò le spalline del vestito e con abilità mi slacciò subito il reggiseno, prendendo un seno tra le mani mentre cercava le labbra e giocava con la lingua. Con le mani tremanti gli slacciai la cintura e gli abbassai la zip e lui si chinò su di me per baciarmi il seno. Mi sfilò le mutande e si abbassò le tue. Fremevamo dall’eccitazione, eravamo ancora dei ragazzini l’ultima volta che l’avevamo fatto ed io avevo un po’ paura perché per me era stata l’ultima volta.
«Dimmi che sei mia, che nessun altro ti ha toccato», sussurrò al mio orecchio, attirandomi a sé mentre mi accarezzava la schiena.
«Lo sai», risposi con il viso rosso per l’imbarazzo prima che potesse penetrarmi. Gli morsi le labbra e lui emise un grugnito di dolore misto al piacere mentre si muoveva dentro me. Mi stringeva forte, continuando a baciarmi il collo mentre le mie dita scivolavano sulla schiena, graffiandolo di tanto in tanto. Urlai e lui mi mise un dito sulle labbra.
«Ssh», sussurrò divertito, aumentando il ritmo fino a quando entrambi non raggiungemmo l’apice. Avere Alexander di nuovo tra le mie braccia era la sensazione più bella del mondo. Sentirlo col fiatone, nudo, dentro me, era una sensazione troppo forte.
«Cosa me ne faccio delle altre, non lo vedi come mi fai perdere la testa?», mugolò, accarezzandomi il viso prima di baciarmi. Sorrisi, ricambiando con un altro bacio. «Vorrei restare così tutto il giorno ma dobbiamo rivestirci, ho una riunione», sospirò. Aggrottai la fronte. «Con degli uomini», aggiunse alzando gli occhi al cielo ed io scoppiai a ridere. Si staccò da me e io mi sentii improvvisamente vuota e incompleta senza il suo corpo, quasi imbarazzata della mia nudità. Lui se ne accorse e mi aiutò a rivestirmi.
«Non vergognarti della tua bellezza», mi disse all’orecchio, arruffandomi poi i capelli come se fossi una bambina. Saltai giù dalla scrivania sistemandomi il vestito mentre Alexander si stava infilando di nuovo la camicia.
«Ci vediamo stasera allora», feci io, prendendo la mia borsa.
«Queste non le metti?», mi prese in giro, sventolando le mie mutandine. Sgranai gli occhi accorgendomi solo adesso di essere nuda sotto.
«Vuoi tenerle tu?», lo punzecchiai con un sorriso malizioso. Lui si avvicinò a me.
«Mi piacerebbe molto… ma c’è quel porco di Vincent la fuori che non la smette di mangiarti con gli occhi quindi è meglio che tu le metta… non voglio rompergli i denti», sorrise, porgendomi le mutandine. Le infilai velocemente e lo salutai con un rapido bacio a stampo sulle labbra.
«Alex, allora fammi sapere», dissi con enfasi imitando Angelica. Gli mandai un bacio con la mano e lui scoppiò a ridere, scuotendo il capo.



Ciao a tutte! ^^
Capitolo un po' di passaggio, anche se personalmente lo adoro! Un po' di dolcezza per Alexander e Sara ci stava tutta *-*
Nei prossimi capitoli avremo qualche indizio in più su cosa sta succedendo alla società, spero di non deludervi!
Buona domenica ;)

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Capitolo 22
*** Are you happy? ***


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Pov Alexander

«Signor Wilson? Mi sta ascoltando?». Una mano sventolò dei fogli davanti ai miei occhi ed io scossi il capo, scacciando via l’immagine di Sara nuda avanti a me e posando nuovamente gli occhi sull’uomo che avevo davanti. Nemmeno l’ingresso della mia segretaria l’aveva distratto per più di due secondi.
«S-sì, mi scusi», balbettai imbarazzato, schiarendomi la voce. «Comprendo che il signor Swan abbia una certa fretta per il progetto, ma al momento le cose da noi sono un po’… complicate». Sbiascicai l’ultima parola mentre nella mia mente apparivano tanti flash: complicate era poco. L’uomo parve infastidito dalla presenza di Julia, che gli stava gentilmente porgendo il caffè.
«Ma comprenderà anche il motivo per cui il mio capo ha accettato la sua proposta di collaborazione…», accennò l’uomo sistemandosi gli occhiali. Si sedette sulla grossa poltrona e tornò a mettermi sul tavolo tutte quelle scartoffie, evitando di far rovesciare la tazzina del caffè. Mi scostai dalla finestra e mi avvicinai per osservarle, giusto per non essere scortese. Gli feci un cenno col capo. «Vede… la sua azienda ha delle enormi potenzialità. Il signor Swan crede che voi siate il suo miglior investimento. Dia un’occhiata al progetto e non ci faccia pentire della scelta»
«La ringrazio». Strinsi la mano al tizio e lo scortai fino alla porta.
«Mi dispiacerebbe sapere che la Wilson Group sta perdendo punti: venga a quel convegno a Londra»
«La Wilson Group li sta guadagnando, avrà presto mie notizie riguardo il meeting». Richiusi la porta alle mie spalle e tirai un sospiro, chiudendo gli occhi. L’immagine di Sara mi apparve nuovamente davanti agli occhi, com’era successo poco fa. Magari potessi tornare indietro a quei momenti…
«La vedo un po’ giù di corda, signore. C’è qualcosa che non va?». Il volto di Julia era un misto tra la preoccupazione e la compassione.
«Uhm? No, no, solo troppi pensieri», farfugliai, avanzando nuovamente fino alla scrivania. Afferrai disordinatamente tutte le cartacce e cercai di allinearle il più possibile tra le mie mani. «Mi porti un altro caffè? Mi servirà una dose tripla di caffeina oggi». Julia annuì e mi lasciò da solo.
Mr Swan non aveva tutti i torti: aveva atteso già a lungo e ancora non si vedevano i frutti della nostra collaborazione e anzi, ero totalmente sparito dalla sua vista. Ma non potevo rischiari di coinvolgere anche lui nel guaio in cui era caduta la mia azienda e avrei preferito che non venisse a sapere nulla di ciò. Se solo papà fosse ancora vivo… avrebbe saputo cosa fare. Ero davvero degno di sostituirlo?

Pov Sara

«Sono a casa». Sentii la voce di Alexander provenire dall’altra parte della casa ed io uscii frettolosamente dalla doccia, prendendo un asciugamano al volo. Alexander mi chiamò, evidentemente mi stava cercando per la casa, poi aprì la porta del bagno e mi vide in accappatoio.
«Scusa, pensavo non ci fossi», disse imbarazzato e fece per chiudere la porta.
«Ho già finito, non preoccuparti. Tutto bene?», gli sorrisi e lui annuì, senza staccarmi gli occhi da dosso e soffermandosi in particolare sulle mie gambe percorse da tante goccioline d’acqua. Deglutì e tirò un sospiro, distogliendo lo sguardo.
«Vado… vado a spogliarmi», farfugliò e mi sembrò un po’ scosso. Trattenni una risatina e mi affrettai ad asciugare i capelli e rivestirmi. Alex era stato un po’ strano, forse aveva avuto una giornataccia al lavoro. Quando andai in cucina notai che c’era una pentola d’acqua in ebollizione sul fuoco e la tavola era già stata preparata. Alexander stava affettando il pane, sgranocchiandone la crosta qua e là.
«Ti sei messo a fare la donna di casa?», lo presi in giro, rubando una fetta di pane.
«Ho voglia di cucinare», replicò facendo spallucce. «Mi rilassa», aggiunse in un tono abbastanza seccato, strappandomi la fettina di pane per metterla nel cestino. Aggrottai la fronte e la ripresi, guardandolo in segno di sfida ma lui scosse il capo sorridendo.
«Hai avuto una giornata stressante?»
«Abbastanza». Non aveva voglia di parlare stasera. Posò il coltello al centro della tavola e si pulì il pantalone blu dalle briciole. Il blu gli stava da dio: mi piaceva come esaltava i suoi occhi. «C’era uno scatolone sul tavolo, cos’era?»
«L’ha portato Jeremy», dissi con indifferenza, andando in cucina per prendere una bottiglia d’acqua fresca.
«Jeremy è venuto qui?»
«C’erano ancora le tue cose nello studio di papà». Alexander non rispose e lo sentii trascinare la scatola che aveva accostato alla parete. Si accovacciò e aprì la scatola e io mi avvicinai a lui incuriosita, osservandolo tirare fuori delle cartelline di cartone sbiadite. Infondo a tutto era riposto un cofanetto di legno chiuso con un piccolo lucchetto di ottone, dal coperchio interamente ricoperto di velluto bordeaux. Nel legno era inciso il nome di nostro padre. Il cuore mi si fermò in gola. Alexander invece fissava il cofanetto assorto, accarezzando il velluto come se fosse un gattino da coccolare.
«Manca anche a me», mormorai, poggiandogli una mano sul ginocchio per confortarlo. Notai le sue dita stringere con più forza lo scrigno.
«Prima di morire litigammo», iniziò. Sapevo cosa stava per dire, me l’aveva già detto Jeremy, ma decisi di farlo continuare: chissà se Alexander ne aveva mai parlato con qualcuno, se si era sfogato o si era tenuto tutto dentro e aveva sofferto in silenzio, nascondendo le sue lacrime. «Diceva che ero stato io a farti scappare… se avessi avuto l’umiltà di dargli ragione forse ci saremmo lasciati diversamente». I suoi occhi erano lucidi e sentivo che tra poco sarei scoppiata in lacrime anch’io. Avevo voglia di abbracciarlo e di tenerlo stretto al mio petto, dirgli che quei sensi di colpa erano inutili, che nostro padre riempiva a tutti la testa su quanto amasse e stimasse Alexander.
«Lo sappiamo tutti che sei sempre stato il suo figlio preferito», sorrisi, accarezzandogli la spalla. «Non importa come vi siete lasciati, ma tutto quello che è accaduto prima. Quando si è ammalato hai preso tu le redini, lui è restato ad ammirarti. Gli hai dato tanta di quella soddisfazione che ci ha lasciato col sorriso sulle labbra, Alexander». Sperai che le mie parole servissero ad alleviare i suoi sensi di colpa ma lui tirò solo un sospiro e non era per niente di sollievo.
«Forse non dovevo prendere l’incarico di portare avanti l’azienda…», mugolò. Sgranai gli occhi meravigliata.
«Cosa diavolo dici, Alexander?!»
«Un paio di mesi che ho l’azienda e già rischia di fallire»
«Non può andare sempre tutto rose e fiori. Magari questo è un test per provare quanto sei in gamba… dimostra a tutti che sei un Wilson», sussurrai, scuotendogli le spalle per incoraggiarlo. Alexander abbozzò un sorriso e posò nello scatolone il cofanetto, poi si tirò su e mi porse la mano per aiutarmi ad alzarmi. La afferrai e lui mi tirò letteralmente tra le sue braccia, circondandomi la vita e stringendomi forte al suo petto. Mi baciò i capelli e rimase col mento sul mio capo, cullandomi dolcemente.
«Se ci fossi stata sarebbe stato tutto più facile», sussurrò.
«Mi dispiace di essere andata via»
Restammo abbracciati per un intervallo di tempo indefinito… in quel momento non m’importava più di niente: stavo così bene stretta tra le sue braccia, ero così felice di quella promessa sussurrata.
«La pentola!». Alexander mi fece sobbalzare, riportandomi sul pianeta Terra e lo osservai correre verso i fornelli per spegnere il fuoco. Lo aiutai a riempire i piatti e portarli sulla tavola. Alexander se la cavava bene in cucina, forse perché spesso era fuori per tempi troppo lunghi.
«Chissà se tra un anno verrà quell’amico di papà…», sorrisi, ricordandomi di quell’omone simpatico che aveva finto di essere un ispettore e ci aveva costretto a fare la coppietta felicemente sposata.


«Sara, Robert ti sta venendo a prendere, mi servi urgentemente»
«Ma sono in pigiama… che è successo?», bofonchiai assonnata, lanciando uno sguardo alla sveglia che segnava le otto. Mi ero svegliata di soprassalto con gli squilli insistenti del cellulare.
«Abbiamo bisogno che tu riconosca alcuni volti… attacca questo telefono e vatti a vestire!». Staccò la chiamata prima che potessi realmente realizzare cosa stava succedendo. Alexander non badava di certo alle cerimonie del buongiorno nemmeno dopo una dichiarazione come quella dell’altra sera.
Quando mezz’ora dopo entrai nel suo studio sembrava davvero indaffarato anche se, a giudicare dalla luce che aveva negli occhi quando mi vide, doveva avere sicuramente qualche buona notizia. Due uomini in giacca e cravatta mi salutarono e si presentarono come Ted Moore e Paul Roney. Mi sedetti sulla sedia di fronte alla scrivania di Alexander, il quale si fece da parte per lasciare posto a quello più anziano, Ted.
«Signora Wilson, abbiamo raccolto delle foto degli uomini che hanno avuto rapporti con la sua azienda. Si tratta di gente presa dagli schedari, ci occorre che lei confermi che sono stati effettivamente suoi colleghi», mi spiegò l’uomo con fare professionale. Lanciai una rapida occhiata ad Alexander, il quale annuì come a darmi sicurezza.
Paul aprì una busta ed estrasse la prima foto, mettendomela sulla scrivania sotto al naso. Alexander si infilò le mani in tasca e fece il giro della scrivania mettendosi accanto a me per guardare la foto che sicuramente aveva già visto. La sua presenza mi distrasse al punto che Ted dovette richiamare la mia attenzione per ricevere una risposta. Lessi il nome scritto a penna sotto la foto.
«Brandon Hall. Sì, ricordo questo volto», annuii e Paul mise in disparte la foto. Ben presto iniziammo a suddividere le foto in due pile: i volti che riconoscevo e quelli che non mi risultavano.
«Joseph McCall. Lavorava con me a New York, fu licenziato due volte», mugolai, osservando quell’uomo dal volto ruvido abbronzato e i capelli brizzolati come la sua barba.
«Che tipo era?», chiese Ted. Feci spallucce.
«Non si vedeva spesso in giro, era nella sezione stampa e passava lì la maggior parte del tempo. Era un tipo strano, metteva soggezione, non partecipava alle festicciole che organizzavamo tra colleghi, puzzava sempre di fumo e arrivava sempre in ritardo alle riunioni. In ufficio giravano diverse voci…»
«Di che tipo?»
«Si dice che avesse minacciato il direttore e che perciò l’abbia riassunto…»
«Paul controlla i precedenti penali di Joseph McCall e organizzami un incontro con il direttore. Signora Wilson, la ringrazio per la collaborazione». Abbozzai un sorriso e strinsi la mano ai due uomini poi uscimmo tutti insieme dall’ufficio. Un uomo venne a grandi passi verso di noi.
«Signor Wilson, devo informarla di una cosa», fece serio. Alexander si fermò, circondandomi la vita con un braccio.
«Aspettami fuori, andiamo a pranzo insieme», mi disse all’orecchio. Annuii confusa e diedi un’ultima occhiata all’uomo, avviandomi verso la macchinetta del caffè. Non avevo nemmeno avuto il tempo di sorseggiarne uno da quando ero sveglia.
Mi fu impossibile trattenere una smorfia quando vidi Angelica chiacchierare con un uomo che non conoscevo a pochi passi da me. Quasi come se si fosse accorta che la stavo fissando, si voltò e mi fece un cenno con la mano. Che ci faceva lei qui?!
«Salve», bofonchiai sgarbatamente, superando i due per prendere il mio caffè. Dopo la scenetta che avevo visto nell’ufficio di Alexander era ufficialmente la mia nemica ed era impossibile non odiarla. Nemmeno mi interessava di fingere che mi stesse simpatica. L’uomo si congedò e ci lasciò da sole.
«Ho messo a disposizione i miei investigatori migliori per lui. Dio, quanti problemi che gli crei…», la sentii dire alle mie spalle con voce affranta. Mi voltai di scatto.
«Qualcuno minaccia la società e il problema sarei io?!»
«Alexander sta perdendo tempo per capire chi minaccia te, mettendo in secondo piano chi minaccia lui e la società. Se dovesse succedergli qualcosa sarà solo colpa tua»
«Alexander pensa che si tratti della stessa persona», tagliai corto. Scosse il capo, perdendosi tra i pensieri. Mi voltai per guardare nello stesso punto a cui miravano gli occhi di Angelica e scorsi il profilo di Alexander mentre parlava con degli uomini. Mi irritava il modo in cui lo fissava da lontano come se volesse divorarlo. La sentii sospirare.
«Ormai non è più quello di una volta…»
«Che vuoi dire?»
«Guarda il suo viso… stressato, nervoso, preoccupato…», mi esortò facendo un cenno col capo. Fissai Alexander annuire e poi serrare le labbra mentre si massaggiava il mento. «Con me era sempre allegro invece. Perché non ti fai da parte e lasci che sia qualcun altro di più capace a farlo felice?».
Alla vista di Alexander così pensieroso quelle parole inspiegabilmente mi fecero male. Prima che potessi elaborare una risposta Angelica era già andata via.
Forse non ero stata sempre la prima persona a renderlo felice, certo, gli avevo dato una buona dose di problemi negli ultimi tempi… ma di certo anche lui ci aveva messo la sua mano. Tuttavia mi stavo sforzando di farlo star bene, soprattutto da quando avevamo deciso di ricominciare.
«Andiamo?». Alexander mi fece trasalire: ero affogata nei miei pensieri girando il mio caffè e non mi ero nemmeno accorta che mi aveva raggiunto. Annuii, gettando nel cestino dei rifiuti il caffè che ormai era diventato freddo.
Decidemmo di fare due passi a piedi e pranzare in un ristorantino a pochi isolati dall’azienda e durante il tragitto mi accennò qualcosa sulle indagini che avrebbero fatto sui volti che avevo riconosciuto. Sembrava anche abbastanza ottimista sui risultati ottenuti.
Ordinammo due piatti di pasta fatta in casa con un sugo particolare che il cameriere ci aveva consigliato iniziando a sgranocchiare qualche grissino. Lo osservavo mangiare, annuendo e facendo qualche commento qua e là, cercando di decifrare la sua espressione.
In quei giorni mi era sembrato felice e anche ora pareva rilassato e contento di pranzare assieme a me come raramente accadeva. Eppure prima aveva un espressione così cupa… e mi si era stretto in cuore. Chissà se con Angelica si era trovato bene, a volte sembravano così simili.
«Perché mi guardi in quel modo?», fece infine, posando la forchetta. Forse lo stavo fissando troppo insistentemente.
«Oh, io…». Distolsi lo sguardo imbarazzata, affogando metà del mio viso nel grosso bicchiere d’acqua.
«Qualcosa non va?»
«Mi chiedevo… com’eri assieme ad Angelica?». Mi resi conto di ciò che avevo appena detto e mi maledissi. Perché non tenevo la bocca chiusa?!
«Una persona normale», fece spallucce, mandando giù un altro boccone.
«Normale come?»
«Quando l’ho conosciuta mi sembrava una persona interessante. Aveva sempre qualcosa da dire. Mi sentivo una persona…»
«Felice?», gli suggerii. Lui mi guardò male.
«Cosa sono questi discorsi», borbottò, come se si fosse accorto anche lui di aver parlato troppo. Dalla sua faccia e dal tono di voce capii che l’argomento era finito e non avrebbe nutrito ancora la mia curiosità.
«Mr Swan mi vuole a Londra», disse infine dopo qualche attimo di esitazione. Ebbi un tuffo al cuore.
«Londra?», ripetei titubante. Che voleva dire la sua frase? Un trasferimento? Un breve soggiorno?
«Sì, per un convegno… si sta lamentando perché non ha avuto più mie notizie, devo andarci se non voglio perdere un socio importante come lui. Starò via una settimana al massimo». Mi sembrava deciso ad andarci e mi morsi il labbro come se volessi punirmi della brutta idea che avevo avuto per farlo restare con me. Chiedergli di non andarci era fuori discussione, era troppo importante per lui e non potevo chiederglielo. Ma come avrei fatto una settimana intera senza Alexander?
«Beh, non ha tutti i torti», sospirai, decidendo di appoggiarlo nella sua decisione.
«Robert tornerà a scortarti… mi dispiace ma in mia assenza la prudenza non è mai troppa»
«Va bene», mugolai senza controbattere, tenendo lo sguardo basso.
«Anche tu mi mancherai, piccola», sussurrò, alzandomi il viso con due dita in modo che potessi guardarlo dritto negli occhi mentre le guance andavano a fuoco. Era la prima volta che mi chiamava così. Mi si aprì un sorriso innocente e lui mi ricambiò con uno dei suoi splendidi sorrisi.





 

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Capitolo 23
*** Moglie in pericolo! ***


Alexander era via da pochi giorni e già ne avevo abbastanza. Passavo interi pomeriggi davanti alla tv mangiando porcherie, dormendo, leggendo, sperimentando nuove ricette. Il lavoro era ormai fuori discussione: dopo le mie lunghe assenze era chiaro che non potessi più ritornare come se niente fosse e alla fine, per evitare problemi con il mio superiore, mi licenziai. Ora che Alexander stava conducendo delle indagini proprio sui miei colleghi era ancora più impossibile convincerlo a tornare a lavorare.
L’unica compagnia che avevo era Robert che mi scortava ovunque andassi: chiacchieravo con lui, prendevamo insieme il caffè e spesso l’avevo invitato a unirsi a me per il pranzo o la cena. Infondo era una brava persona e anche molto loquace per cui mi sentivo meno sola con lui.
La sera però era il momento più brutto della giornata: il letto affianco a me era vuoto e mi addormentavo con i miei strani pensieri in testa. Cosa starà facendo Alexander? Sarà a qualche festino in compagnia di belle donne? Sente la mia mancanza o forse è davvero più felice senza di me?
Il telefono squillò ed ebbi un tuffo al cuore leggendo il nome di Alexander sullo schermo.
«Alex!», risposi con entusiasmo.
«Ciao piccola». La sua voce calda mi riempì il cuore e fece allargare un enorme sorriso sul mio viso. «Ti ho svegliato?»
«No, no. Come stai?». In realtà mi ero appisolata, ma non m’importava se mi aveva svegliato: volevo tanto parlare con lui anche tutta la notte.
«Stanco. Sono appena tornato in albergo. Non ho avuto un po’ di pausa per chiamarti, mi dispiace». La sua voce era stanca, me lo immaginavo sul letto con gli occhi arrossati dal sonno, i capelli ancora umidi dopo la doccia, la bocca curvata in un sorrisetto e all’improvviso mi venne voglia di stargli accanto.
«Come vanno le cose lì?»
«Riunioni su riunioni. Ma sto strappando altri contratti a grosse multinazionali. Se riuscissi a sistemare quella faccenda della società, diventeremo milionari». Risi del suo entusiasmo, felice che la nostra lontananza almeno possa dare i suoi frutti. Lo sentii sospirare.
«In tutti questi anni questi anni che non ci sei stata, non mi sei mancata. Ma ora è strano… mi ero quasi abituato alla tua voce da mal di testa»
«Ehi!»
«Tranne per i piedi ghiacciati, quelli non mi mancano per niente!»
«Goditi il letto vuoto», lo presi in giro.
«Lo farò! Buona notte, Sara»
«Buona notte Alex», sussurrai. Staccò la chiamata e rimasi lì impalata per qualche minuto col cellulare in mano senza accorgermi del sonno in cui stavo scivolando.

Il mattino seguente, a svegliarmi fu la persona che più odiavo sulla faccia della terra. Inutile dire il nome.
«Si può sapere chi ti ha dato il mio numero?», dissi scorbutica, maledicendola per avermi svegliato.
«Alexander», rispose prontamente Angelica.
«Perché Alexander avrebbe dovuto darti il mio numero?!»
«Stammi a sentire ragazzina, non ti chiamo mica per farci una chiacchierata. Il suo cellulare è scarico e dato che sarà fuori tutta la giornata mi ha chiesto di avvisarti, così non gli rompi le scatole». Parecchio nervosa la tipa… ma… un momento, Angelica era con Alexander?!
«E tu cosa c’entri?», bofonchiai sospettosa.
«Sono a Londra con lui». Sgranai gli occhi. A Londra con lui?! Cosa c’entra Angelica con gli affari di Alexander?
«Cos’è questo silenzio? Oh… non te l’aveva detto, vero?». Si finse dispiaciuta, poi la sua risatina divertita la tradì prima di staccare a telefonata. Se avessi avuto un po’ più di forza, avrei stritolato il telefono tra le mie mani. Angelica e Alexander insieme? Da soli?
Sentii lo stomaco contorcersi dalla rabbia: quello stronzo di Alexander non mi aveva detto nulla.
E se si stavano solo divertendo? Se in realtà se la stavano spassando?
Composi il numero di Alexander ma rispose la segreteria telefonica. Anche la speranza che si trattasse di uno scherzo naufragò. Chiamai Robert.
«Buongiorno signora»
«Robert! Riesci a rintracciare Alexander?»
«Ci provo. È successo qualcosa?», mi rispose allarmato.
«No, è che… sai se c’è qualcuno con lui?»
«Credo sia partito da solo ma non ne sono sicuro». Certo che no, la gatta morta era lì a strusciarsi contro le sue gambe.
Si prospettava una fantastica giornata: non potevo sentire Alexander per tutto il giorno così me lo immaginavo rotolarsi tra le lenzuola con Angelica…
Dovevo andare al suo ufficio e assicurarmi che non si trattava solo di un caso.
«Qualcuno dovrà pur sapere se questa stronza gli è corso davvero dietro», bofonchiai, vestendomi rapidamente per uscire. Robert intanto aveva parcheggiato la sua auto nel viale e mi guardava perplesso.
«Dove va così di fretta?»
«Alla Wilson Group». Si rimise in macchina e mi seguì per tutto il tragitto, trovando posto nel parcheggio alle spalle dell’edificio.
«Se le serve qualcosa, sono qui». Lo ringraziai e entrai velocemente nell’edificio, chiedendo informazioni al personale.
Sembrava che nessuno fosse a conoscenza di ciò che volevo sapere… e la cosa iniziava davvero ad irritarmi.
«Possibile che nessuno sappia mai niente?!», sbraitai.
«Ehi, ehi, qualcuno si è svegliato con la luna storta stamattina». Perfetto, ci mancava solo lui.
«Non è giornata, Vincent», bofonchiai, voltandomi per salutarlo. Lui mi sorrise, impeccabile come sempre con i suoi pantaloni classici e la camicia bianca.
«Cosa c’è che non va?»
«Tutto», mormorai lamentosa.
«Ti va di pranzare insieme? È da tanto che non chiacchieriamo un po’, così mi racconti tutto». Mi mostrò uno dei suoi sorrisi più belli ed impossibili da rifiutare. Almeno mi avrebbe distratto un po’ per qualche ora.
«Avviso Robert che torno con te, ci vediamo giù all’ingresso», sorrisi, andando via senza rispondere alla sua domanda su chi fosse Robert.
Presi l’uscita sul retro, quella utilizzata raramente e solo dal personale, che mi avrebbe risparmiato di percorrere tutti i reparti del piano. Scesi delle grosse scalinate di ferro, diretta verso il parcheggio dove Robert si era fermato.
Qualcuno mi afferrò per un polso.
«Vincent», sussurrai, prima che una mano mi tappasse la bocca e mi costringesse ad arretrare verso il sottoscala.
«Zitta», mi ordinò una voce rude. Avvertii contro la mia schiena una persona possente che mi stringeva con tutta la sua forza.
Impaurita tentai di liberarmi, scuotendo il capo per cercare di urlare, ma l’uomo era più forte di me e mi teneva troppo stretta. Tentai di urlare, ma qualsiasi suono era strozzato dalla sua mano ruvida. Qualcosa di metallico mi sfiorò la gola.
«Dì soltanto una parola e ti levo al testa», mi minacciò ed io trattenni il fiato, accorgendomi del coltellino che aveva in mano. «Capito?», ringhiò, scuotendomi. Annuii freneticamente e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Dov’era finito Robert? Non poteva vederci?
«Quel bastardo è volato via?». Parlava di Alexander? La pressione sulla mia bocca iniziava a farmi male, le mie gambe tremavano e temevo che sarei crollata lì a terra.
«Il tempo è scaduto. Adesso vieni in macchina con me e lo chiamiamo». Le lacrime scivolarono lungo le mie lacrime. Non volevo andare via con quell’uomo… avrebbe potuto uccidermi. Soprattutto oggi che Alexander aveva il telefono scarico.
Si sentirono dei passi e la scala metallica si mise a vibrare: qualcuno stava scendendo. Cercai di urlare per attirare l’attenzione ma l’uomo mi spinse contro un muro e si mise davanti a me, mimandomi di fare silenzio. Il suo volto era coperto da un passamontagna e i suoi occhi neri mi guardavano minacciosi.
«Sara? Sei lì?». Vincent mi stava cercando. Dovevo fargli capire che ero lì. Diedi un calcio alla scala, facendola vibrare pesantemente.
«Che cazzo fai», ringhiò l’uomo, aumentando la pressione del coltellino sul collo. Deglutii, chiedendomi se era stata una mossa sbagliata. Vincent mormorò qualcosa, scendendo le scale.
L’uomo ringhiò, guardandosi attorno, chiaramente disorientato. Poi lasciò immediatamente la presa e si mise a correre veloce.
«Ehi!», urlò Vincent, correndo giù per le scale. «C’è qualcuno lì!». Due poliziotti scesero immediatamente dopo di lui e si misero a rincorrere l’uomo che ormai era fuori dalla nostra visuale. Vincent si fermò dinanzi a me e mi trovò inginocchiata in lacrime.
«Dio , Sara, stai bene?», mi chiese preoccupato, inginocchiandosi davanti a me. Le sue braccia mi circondarono.
«Voleva… voleva portarmi con lui», singhiozzai.
«Ssh, ora sei al sicuro», mi rassicurò cullandomi dolcemente.
«Ho avuto paura»
«Non permetterò che qualcuno ti faccia male», mi sorrise, asciugandomi le lacrime con il pollice, aiutandomi poi a rimettermi in piedi.
Le due ore successive furono un caos totale: si scoprì che Robert era stato addormentato con un sedativo e l’uomo era riuscito a fuggire perché aveva un complice che lo aspettava su un motorino alle spalle dell’edificio. La polizia aveva iniziato ad indagare sul mio tentato rapimento, chiedendomi di fornire loro un identikit del rapitore e un resoconto tutto ciò che mi aveva detto.
Per la polizia era tutto molto strano e dedussero che probabilmente si trattava di qualche stupido che voleva farsi qualche soldo chiedendo un riscatto ad Alexander. Robert mi aveva intimato di non dire nulla riguardo al problema che stavamo affrontando: sapevamo entrambi che cosa voleva dire che il tempo era scaduto.
Avevamo chiesto alle forze dell’ordine di non contattare Alexander: era fuori per stringere quei famosi accordi, non avrebbe fatto bene alla società se Alexander fosse corso precipitosamente qui.
Vincent non mi mollò per un secondo insistendo per venire personalmente a casa. Anche Robert ci accompagnò e mi rassicurò del fatto che non si sarebbe mosso dal mio viale.
«Hey, piccola, hai fame? Vado a ordinarti qualcosa se vuoi»
«Mi si è chiuso lo stomaco», mormorai, ancora visibilmente scossa. Mi esaminai allo specchio: i miei capelli erano tutti scompigliati, avevo dei lividi sul braccio sinistro e un graffio sul collo, anche se non ricordavo di aver provato dolore in quel momento. Vincent mi venne dietro, accarezzandomi un braccio.
«Quando hai sposato Alexander non avevi considerato questo pericolo, eh?»
«Sinceramente no», borbottai, chinando il capo. «Grazie di tutto Vincent, puoi tornare a casa ora che-»
«Non se ne parla, non ti lascio sola. Mi sento colpevole di questa faccenda»
«Colpevole? Non dire stupidaggini», feci sconcertata, voltandomi per guardarlo dritto negli occhi. Dio se erano belli…
«Ti ho fatta aspettare tutta sola», sospirò, mettendomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Ti dispiace se resto qui stanotte? Il divano andrà benissimo»
«Ma no…. Non è il caso…», mormorai a disagio, vagando con lo sguardo per la stanza alla ricerca di chissà cosa. Era il caso di lasciare che Vincent dormisse qua? Non volevo dargli altri fastidi, mi era stato accanto per tutto il giorno tra interrogatori e report, ma avevo anche bisogno di sentirmi al sicuro…
«Non accetto un no», sorrise, indietreggiando per sfilarsi la giacca e appenderla all’appendiabiti.
«Fatti pure una doccia, ti do un pigiama di Alexander»
«Signor Wilson per una sera», sorrise sornione, scomparendo dietro la porta non appena gli ebbi dato il pigiama.
Ne approfittai per stendermi sul letto e rilassarmi. Avevo bisogno di acquistare lucidità e riflettere su ciò che avrei dovuto fare… quell’uomo avrebbe potuto minacciarmi ancora.
Il cellulare squillò e apparve il numero di Alexander sullo schermo. L’orologio segnava quasi mezzanotte.
Per tutta la giornata non si era fatto sentire mentre io avevo rischiato la vita per colpa sua.
«Pronto», risposi fredda.
«Sara! Ho trovato tante chiamate perse, va tutto bene?»
«Che fine hai fatto?», borbottai, deviando la sua domanda. Volevo vedere fino a che punto Alexander mi avrebbe mentito.
«Ho avuto diversi incontri e il cellulare era-»
«Scarico, lo so», tagliai corto. Il suo tono di voce non mi convinceva del tutto. Non aveva ancora citato Angelica.
«Come lo sai?», mormorò dopo un attimo di pausa.
«Angelica me l’ha detto». Un pizzico di bugia allora c’era: Angelica aveva preso chissà dove il mio numero e mi aveva chiamata fingendo che fosse stata incaricata da lui.
«Ah». Dopo avermi omesso di dire che Angelica lo accompagnava, dopo averlo scoperto, tutto ciò che aveva da dirmi era “ah”?!
«Perché diavolo non mi avevi detto che partivi con lei?!», sbraitai, lasciando che la mia gelosia prendesse il sopravvento.
«Non è partita con me. Mi ha raggiunto dopo»
«Questo non cambia le cose! È proprio necessario che debba esserci sempre Angelica?!»
«Sara, non iniziare. È proprio per questo che non ti ho detto nulla», mi riprese severamente, cosa che mi fece imbestialire ancora di più.
«Non mi hai detto nulla perché così potevi spassartela con lei in santa pace»
«Non dire stronzate, è qui per lavoro proprio come me»
«Allora non c’era motivo di nasconderlo…»
«Non vedo perché debba informarti di tutto quel che faccio! Ho vissuto anni senza di te e senza dover dare conto a nessuno, quindi non starmi col fiato sul collo»
«Vaffanculo, Alexander», ringhiai, staccando la chiamata.
Odiavo quell’uomo. Odiavo la sua esigenza di libertà, le sue bugie, il suo finto perbenismo, il suo scaricare la colpa sempre addosso agli altri. I addormentai senza accorgermene, con la testa piena di pensieri negativi che mi vorticavano in testa.

Mi svegliò uno squillo insolito e, subito dopo, la voce di Vincent che parlava al telefono. Per un momento mi ero dimenticata che fosse nell’altra stanza ma poi mi ricordai che mi ero addormentata senza accorgermene. Quel poverino aveva dormito senza una coperta o un cuscino…
Presi il cellulare dal comodino per guardare l’ora ma la mia attenzione venne catturata dalla notifica di un messaggio. Il numero non lo conoscevo, per cui lo visualizzai con il cuore in gola.

“From London, xoxo”

In allegato, c’era una fotografia scattata da un terzo che mostrava Angelica e Alexander sorridenti, appoggiati su una ringhiera molto decorata mentre sullo sfondo si intravedevano tanti alberi.
Angelica aveva un tubino nero e una vistosa collana oro come la pochette che stringeva tra le mani, mentre Alexander aveva un completo grigio chiaro con una camicia azzurrina leggermente sbottonata, una mano nella tasca dei pantaloni e l’altra che sorreggeva un calice di spumante.
La vista quasi si annebbiò dalla rabbia. Era così allora… se la stavano spassando e quella stronza ne stava approfittando per farmi rosicare. Rendermi la vita un inferno era diventato il suo hobby preferito.
Come aveva potuto farmi questo? Non era così che mi dimostrava di tenerci a me…
Mi alzai velocemente dal letto imprecando contro loro due, piombando in salone. Mi accorsi di Vincent a petto nudo con addosso il pantalone di Alexander, i muscoli della sua schiena ben delineati mi offrivano una bella visuale.
«Ti sei svegliata». Vincent si voltò, avendomi sentita arrivare, e mi sorrise, posando sul tavolo il cellulare. Arrossii, voltando altrove lo sguardo.
«Mi dispiace essermi addormentata ieri, hai dormito senza una coperta…»
«Sono stato benissimo. Hai riposato bene?»
«In realtà no», sospirai. E non mi ero nemmeno svegliata bene a dirla tutta…
«Oggi ce ne andiamo al mare. Hai bisogno di distrarti»
«Al mare?», ripetei ridendo. «Tu sei matto!». In realtà aveva proprio ragione, tra gli eventi di ieri e il mio “dolce” risveglio infernale, mi occorreva un po’ di svago. Se Alexander si divertiva “a lavoro” potevo farlo anch’io.
Feci una doccia rapida, infilai un costume, misi in una borsa due teli da mare e un po’ di crema solare e uscimmo sorseggiando il caffè che Vincent aveva preparato mentre ero sotto la doccia.
«Dove state andando?», fece Robert scattante, in piedi davanti alla sua auto nera.
«Prenditi la giornata libera, porto la signorina al mare, resto il con lei», fece Vincent spavaldo, avviandosi verso la macchina che aveva parcheggiato all’inizio del viale.
«Dopo quello che è successo non se ne parla, vengo con voi e mi metto in disparte», fece Robert testardo con un tono che non ammetteva repliche. Vincent stava per dire qualcosa ma io lo bloccai con una mano, facendoci cenno di stare zitto.
«Va bene, Robert».
Arrivammo in spiaggia sotto il sole già caldo al punto giusto, ci sistemammo sulle sdraio e andammo a sederci in riva al mare.
«Dio, vorrei essere un pesce», sospirai, chiudendo gli occhi per concentrarmi sul suono delle onde che arrivavano fino ai nostri i piedi, inspirando l’odore del mare. Sentii Vincent posarmi le mani sulla schiena e trasalii.
«Che fai?!»
«Ti spalmo un po’ di crema, rilassati», rise, massaggiandomi le spalle. Lo lasciai fare ma ero comunque visibilmente tesa. Vincent ci aveva provato con me dal primo istante in cui mi aveva posato gli occhi addosso e non ero stupida a non capire che si stava approfittando della mogliettina in pericolo col marito lontano da casa. Però mi stava anche aiutando, averlo accanto mi rassicurava e mi evitava di pensare a cose spiacevoli.
Per il resto della giornata ce la spassammo giocando in acqua, rotolandoci nella sabbia e schizzandoci a vicenda, anche se dovetti evitare un paio di volte che mi si avvicinasse troppo.
Ad ora di pranzo tornammo sotto l’ombrellone per approfittare dell’ombra fresca e mi accorsi di avere due messaggi in arrivo. Erano tutte e due di Alexander. Al solo pensiero di quella foto di loro due sorridenti e spensierati mi si strinse in cuore e aprii controvoglia il messaggio.

Che ci fa quel viscido di Vincent a casa mia?!

E dopo dieci minuti:

E rispondi. O sei troppo impegnata a divertirti al mare con lui?

Alexander che mi tartassava di messaggi e faceva il geloso? Questa era bellla… da ridere proprio! Gli risposi innervosita:

Hai già chiesto a Robert il resoconto della giornata? Ebbene sì, mentre tu ti diverti ai party con Angelica sorseggiando champagne, io mi rilasso in spiaggia.

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