Homo homini lupus

di ewigewieder
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - In Illiria ***
Capitolo 2: *** I: Nemone in tanto populo (dalla morte di Cesare all'alba di Forum Gallorum) ***



Capitolo 1
*** Prologo - In Illiria ***




Prologo: In Illiria





Il mare dell’Illiria nei giorni senza sole è di un grigio che raggela. Immagina che, a caderci dentro, sarebbe più comodo lasciarsi affogare che uscirne con le dita blu e tagliarsele tutte afferrando gli scogli, affrontando il dirupo.
Agrippa si volta a controllare che Ottavio non stia tremando dal freddo, perché è più magro di quel che converrebbe a un erede della gens Iulia, con le sue spalle piccole e un collo sottile che si potrebbe quasi stringere con una mano, ed altrettanto cagionevole. L’ultima volta che la malattia l’aveva preso, un mese prima, era rimasto in balia della nausea per sette giorni: riusciva a stento a trattenere nello stomaco l’acqua che gli veniva somministrata con un mestolo, e la sua debolezza gli era sembrata, più che dolorosa, estatica. Ricorda che aveva gli occhi languidi, e un sorriso strano, sognante, sulle labbra spaccate per le disidratazione, quando gli aveva sussurrato, secondo te ho ancora la febbre, Agrippa?
Ora è stretto in un mantello di lana rossa, e il suo respiro produce giusto un soffio di vapore. Non sta osservando il mare, ma la foresta poco più a nord, rifugio di leggende e lupi. Ottavio si accorge del suo sguardo e sulla fronte gli si forma una linea profonda. Agrippa sa quanto detesti sentirsi esaminato. A Roma avevano cercato di scorgere il suo futuro dietro ogni sua azione, attribuendo alla sua pessima postura un futuro di fallimento, ai suoi occhi bassi un ego da plebeo, ai suoi primi ragionamenti da adolescente l’indole di un grande oratore.
Per questo ora tiene la schiena dritta e sostiene sempre lo sguardo dei suoi interlocutori; per questo ora la sua voce è dolce ma il tono un po’ crudele (e quello che fa male ad Agrippa è che lui lo ritenga come tutti gli altri, che scambi per i giochi aruspicini degli optimates la sua sincera preoccupazione) quando gli chiede, “Agrippa, parliamo un po’. Oseresti mai tuffarti in questo mare?”
Hanno sedici anni in questo novembre dall’aria secca, e le guance tagliate dal vento; una parte di Agrippa non ha ancora capito che non saranno mai uguali, lui e Ottavio. Certo, suo padre glielo ripete con costanza e gli spiega che dovrà restargli vicino, che se come un cane gli rimarrà fedele come un cane avrà il suo osso, la sua parte di gloria. Per adesso però il sole è freddo, Ottavio è più basso di lui di una spanna e ha questa pelle pallida, sui polsi le sue vene non sono in rilievo come quelle degli uomini forti, ma nascoste, come nelle donne e nei poeti.
Un giorno non molto lontano non potrà più parlargli così, ma ora risponde con fermezza, senza arroganza, “Oseresti mai entrare in questa foresta?” Gli spiace subito, però, e vorrebbe non averlo detto. Per questo decide di punirsi, offrendogli un po’ di ingenuità, un po’ di candore. “Non penso che avrei il coraggio di tuffarmi, amico mio,” dice, appoggiandogli una mano sulla spalla. “Solo se la persona giusta me lo chiedesse, forse. Anche se l’idea di cadere in tanto freddo mi spaventa.”
Ottavio impiega un po’ a sorridere, forse perché sta decidendo se considerare le sue parole (Solo se la persona giusta me lo chiedesse, è come dire, sei tu la persona giusta, o come dire, puoi chiedermelo) come lusinghe da cortigiano o una confessione sincera. Agrippa sa solo che alla fine sorride, quel sorriso che gli scopre gli incisivi un po’ storti.
“Più che comprensibile. Non sarebbe una macchia sul tuo onore,” dice, e il suo sorriso si perde un po’ quando finalmente si volta a guardare il mare. Il silenzio di Ottavio è carico di un peso che non dovrebbe avere, non a questa età. Agrippa si trova a pensare che, forse, il primo a cercare il futuro di Ottavio nelle casualità, nel modo in cui la sua ombra colpisce i gradini del Foro, negli stormi di corvi che lo svegliano di notte, sia Ottavio stesso. Forse è convinto di non essere abbastanza forte per questa Repubblica di corrotti, di coltelli nascosti nelle toghe.
Quando parla ha una voce diversa, e Agrippa crede che questa sia la sua vera voce, decisa ma stanca, sempre, “Non credo che ci entrerei mai, nella foresta. Ci entrerei solo se sapessi dove si trovano tutti i lupi, dove sono le loro tane, dove dormono. Insomma, se avessi certezze. Cosa sognano i lupi, secondo te, Agrippa?”
Vorrebbe rispondere ‘di mangiare’, ma poi pensa alle leggende della loro città, alla lupa, al potere, Roma immortale, e gli viene da pensare che anche la ferocia è complicata, così dice, “Non ne sono sicuro.”
“Esatto,” annuisce con forza Ottavio, come se questo fosse il cuore di ogni problema, come se Agrippa finalmente avesse capito. “Temo di aver paura solo dell’incertezza. Vedi, ad esempio, il mare è ciò che sembra, il freddo è ciò che sembra, tuffarsi è una scelta.”
Ad Agrippa viene in mente che potrebbe dire, Non per forza, potrei spingerti giù io. Immagina il volto di Ottavio scurirsi, però, lo vede prendere consapevolezza della quiete attorno a loro e di ogni spiffero gelato nel mantello. Forse è in questo momento che anche Agrippa comincia a pensare al futuro, e a capire che lo passeranno insieme, che un giorno verrà a trovarlo un uomo e sarà ricco e potente e gli chiederà di tradirlo. Forse è in questo momento che giura di non farlo.
Agrippa sa che Ottavio sta guardando il mare ma sta pensando ai lupi, e a un certo tipo di futuro, a un certo tipo di solitudine. Vorrebbe dirgli che ci sarà anche lui.

“Forse ci entrerei, con la persona giusta,” dice Ottavio, e poco dopo se ne vanno, perché il sole è calato ed entrambi battono i denti.




Chiarimenti:
Questa storia nasce dal mio amore per Ottaviano. Sono convinta che fosse una persona estremamente complessa: cagionevole ma forte, riflessivo ma a tratti spietato, padrone dell’impero eppure non del proprio destino. Spero di riuscir a tratteggiare il suo carattere come vorrei e che questa storia piaccia a qualcuno. Le informazioni vengono quasi tutte da Svetonio. Al prossimo capitolo!

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Capitolo 2
*** I: Nemone in tanto populo (dalla morte di Cesare all'alba di Forum Gallorum) ***




 
I: Nemone in tanto populo
(dalla morte di Cesare all'alba di Forum Gallorum)





Tre anni dopo la primavera arriva in anticipo e c’è qualcosa di minaccioso nel modo in cui la vita si rinnova, nel cielo troppo blu –  o così sostiene Ottavio, mentre Agrippa è una persona semplice, sente i primi soli caldi e sorride senza pensarci troppo. Non fa alcun commento quando l’amico gli dice che i fiori sono quelli sbagliati, l’aria è troppo chiara. Ottavio insiste nel dire che è come il tintinnio dei coltelli contro i calici alla fine di un banchetto, un rumore brillante che lascia nell’aria come un ronzio, una vibrazione profonda, ominosa.
Agrippa non ci bada e cerca di rassicurarlo, poiché sa che tra pochi giorni inizierà la spedizione contro i Parti ed è solo il suo nervosismo a parlare. Ottavio non ha mai combattuto davvero, pur avendo seguito il padre adottivo in Spagna. Era arrivato tardi, con le navi, tutto tremante per un principio di polmonite che aveva contratto col freddo e l’umidità di giorni in mare; ma aveva gli occhi che bruciavano e a Cesare era bastato. Ora però dovrà affrontare un esercito come magister equitum senza un cursus honorum alle spalle, senza muscoli sulle braccia, e Agrippa non riesce a smettere di pensare che in mano sua la spada sembri più un simbolo, che un’arma. Ora ha occhi nervosi, scattanti, come un cavallo davanti a un incendio.
Ma andrà tutto bene”, ripete comunque Agrippa, con le sue domande retoriche e ragionamenti confortanti, quelli per cui Ottavio ogni tanto lo definisce ‘ottimista’, usandolo come insulto. Andrà tutto bene e ucciderai per la prima volta, non sarà difficile, e sarai un glorioso tassello della storia di Roma, più o meno gli dice così. Sta’ tranquillo.
 
(ma una notte lo sogna coperto di sangue, e non nel deserto in cui combatteranno i Parti, ma in un campo di grano come tanti ce ne sono in Italia. Ha uno sguardo severo e foglie di quercia intorno alle tempie e le mani strette intorno alla gola di una donna, che nel sogno Agrippa sa essere la Libertà, perché l’ha vista una volta in un tempio come statua di legno. Nel sogno Ottavio non si chiama Ottavio e mormora, Ve la restituisco di marmo)
 
“Ho pensato a questa faccenda della primavera,” esordisce una mattina Ottavio, masticando pensieroso la sua focaccia al miele, “e penso che sia per via del mito che mi angoscia tanto. Persefone che lascia gli Inferi perché la madre torni a donarci i frutti della terra.” Ride un po’, come per avvisarlo di non badare a ciò che dirà, “Quindi una primavera prematura significa che gli Inferi si sono aperti prima – non mi prendi sul serio, vero?”
“Al contrario,” e non deve esitare un attimo per dirlo.
Una settimana dopo, il divo Cesare muore in uno spettacolare giorno di sole.
 
(“Non è detto,” aggiunge, con un tono cantilenante e un po’ freddo che presto diventerà il suo, “che ciò che uscirà dagli Inferi non sia qui per aiutarmi.”
Agrippa non beve quella sera ed è perché ha paura, paura di sognarlo come imperator fragile di un esercito di spiriti neri, larve dell’Averno, creature strane, e lui la più strana di tutte, pallido e vivo per metà e sempre con quel sorriso)
 
 
*
 

Marco Antonio è un uomo possente, e una delle sue mani coprirebbe entrambe quelle di Ottavio (e le romperebbe, probabilmente). Il nome di Ottavio ormai è Cesare, per il senato e il popolo di Roma e quindi anche per Agrippa, sebbene il nome suoni falso se pensa a quando a quindici anni cacciavano lucertole a piedi nudi. Solo Marco Antonio, con il suo sorriso spigoloso, gli ricorda che il testamento del divo Cesare non è stato ancora ratificato.
Ottavio dichiara affabilmente che presto lo sarà, che si ritiene onorato di conoscerlo e più tardi, nelle sue stanze, chiede, “Secondo te quanto tempo passerà prima che cerchi di farmi uccidere?”
Erano entrati in città dopo un breve temporale estivo, che Giove aveva colorato coi suoi fulmini. Si diceva che uno di questi fosse caduto sulla tomba di Giulia, figlia del divo Cesare, e questo al collegio degli auguri era sembrato buono. Forse non era nato davvero un arcobaleno sopra la testa di Ottavio, durante la sua orazione triste sui grandi che avevano lasciato Roma troppo presto, ma il popolo l’aveva immaginato così bello e splendente che sarebbe stato un peccato fermare le voci. Ottavio si era sempre trovato a proprio agio nel lutto; suo padre era morto quando aveva quattro anni, e spesso un bambino sviluppa una certo talento per il dolore, impara a diventare uno spirito dell’incenso, splendido nel pallore. La plebe si era commossa e, quando di tasca propria aveva distribuito i sesterzi che nel testamento il divo Cesare aveva lasciato a ogni cittadino romano (richiesta che Marco Antonio aveva cercato di ignorare), nessuno aveva dubitato la legittimità della sua presenza.
Leggende sono nate per molto meno, e il popolo di Roma è stanco e ama sognare; il senato per nulla, ma apprezza il suo valore strategico nella lotta contro Marco Antonio e la sua ingenuità. Nessuno gli aveva chiesto da dove provenisse il denaro, e Agrippa aveva cercato di non collegarlo alle grandi somme scomparse dalle casse di Brindisi, destinate alla campagna contro i Parti.
“Quanto tempo? Non molto, presumo. Ha già cominciato la sua campagna di diffamazione.” Entrambi sanno di cosa stia parlando. Sono dicerie volgari quelle che Marco Antonio ha messo in circolo, non se ne sente parlare in senato se non in sussurri, di Ottavio percisus, in ginocchio, amasio del divo Cesare.
Ottavio emette uno strano rumore per nulla simile alla risata che Agrippa conosce, è allo stesso tempo amara e divertita, ferina, come il soffio di qualche lince coi denti scoperti. “Ci speravo, quasi. Meglio che si radicalizzi ora il nostro contrasto che dopo, quando l’odio per i cani assassini del mio divo Padre si sarà raffreddato e nessuno si ricorderà dell’ipocrisia di Marco Antonio. E quanto alle dicerie,” Ottavio cerca i suoi occhi, “nessuno ci crederà.”
Agrippa non capisce se la domanda implicita sia, Tu ci credi? o, Pur credendoci, avrai ancora rispetto per me?
Alla prima sarebbe difficile rispondere, perché ricorda certi sguardi e certe storie e certi silenzi e quel pomeriggio in cui, dopo la partenza di Cesare, l’aveva trovato solo (aveva gli occhi languidi e qualcosa di molle nei movimenti, la stessa strana sensualità che lo prende quando la febbre comincia a salirgli e la sete gli rende bianche le labbra) nella sua stanza. Sulla seconda, invece, non ha dubbi, e Ottavio in qualche modo lo vede, la tensione che gli teneva dritte le spalle si allenta.
Gli appoggia una mano sulla spalla, ed ecco quella smorfia timida che ricorda ad Agrippa quanto grande sia l’affetto che prova per lui. “Giove mette alla prova i virtuosi, amico mio. Tutto questo potrebbe rivelarsi anche interessante, alla fine. Dovessimo sopravvivere.”
“Dovessimo sopravvivere,” gli fa eco, quasi come una promessa.
 
 
*
 
 
Ottavio si muove negli intrighi politici con un sorriso pulito e un’apparente ingenuità, così che nessuno mai sospetta, mai pensa che possa essere un problema per il senato. Agrippa lo guarda avanzare nel Foro, col laticlavio di porpora che lo rende brillante, uno di loro; lo guarda obbedire e annuire e persuadere. Eppure lo insegnano anche alle reclute, che non bisogna mai toccare la lama di una spada con la punta smussata: non si può mai sapere quanto sia affilata di taglio.
Con l’appoggio degli edili convince il pretore ad indire Ludi fastosi per la vittoria di Farsalo, ed è lui l’ombra dietro i tendoni d’oro, l’ombra verso cui i mirmilloni sollevano il gladio. Non è lui, certo, a cacciare i cesaricidi da Roma, non è lui il console, ma è presente quando se ne vanno. Ottavio comincia ad avere occhi febbrili quando parlano da soli nelle sue stanze, che gli ricordano i giorni prima della morte di Cesare, sebbene ora a farlo tremare non sia la paura, ma la gioia. Vorrebbe tanto sbagliarsi, ma non può ignorare quella frenesia da Menade nel modo in cui parla del futuro. Agrippa cerca di non pensare alle Baccanti, trascinate dal peso del tirso nelle vecchie tragedie greche, trascinate dal vento e dal miele.
“Tieni l’esercito pronto,” Ottavio gli ordina e poi mormora, ma più a sé che ad Agrippa, “Tra poco – tra pochissimo.”
 
La sera prima della sua partenza, Marco Antonio chiede di essere ammesso nella sua stanza. Con una risata dura, comincia, “Mi dispiace, ma non ho portato neanche una goccia di Falerno dolce, Marco Vipsanio. Voglio solo parlarti.” Non è difficile capire cosa voglia.
Ci pensa davvero Agrippa, a cosa implichi la presenza del console e alla proposta che presto arriverà, e più di quanto avrà il coraggio di ammettere per tutto il resto della sua vita. Marco Antonio è un console, un soldato, un uomo della Repubblica sebbene cesariano; un uomo degno di fiducia. Ottavio è un bambino, invece, che ha assaggiato il vino per la prima volta e si è ubriacato con un sorso. Però, si corregge, non proprio un bambino, non davvero. Se Ottavio è un bambino è un puer senex, di quelli che nelle leggende etrusche insegnano a leggere i visceri degli animali e seguono il volo degli uccelli con le dita, un bambino nato vecchio che conosce i modi crudeli dei primi uomini. E cadrà, capisce, nel Foro o sul campo di battaglia, cadrà. Può quasi vederlo cascare da cavallo nel mezzo della mischia, col sole a picco che gli fa brillare l’armatura un attimo prima che crolli, trascinato nella polvere per il piede incastrato nella staffa.
(l’immagine continua a sovrapporsi crudelmente a vecchi giorni caldi sul mare, Ottavio bambino per davvero, un po’ sbiadito, che lo saluta veloce e senza alcun rumore, come sempre fanno alle ombre che abitano le memorie, e veloce si tuffa, il collo sottile una curva verso l’acqua, e quello, no, Agrippa proprio non lo ha mai saputo fare)
Marco Antonio lo guarda, ed è come un risveglio per Agrippa. Pensa, Sto facendo la scelta sbagliata, e intanto sta già parlando, “Mi dispiace mancarti di  rispetto, ma ora non posso discutere: devo assolutamente coricarmi. Domani mi aspetta un lungo viaggio.”
“Ci sarà modo di rincontrarsi, non temere.” Marco Antonio non è come Ottavio, non si preoccupa mai di dissimulare una minaccia. Dice, “Fa’ buon riposo, Marco Vipsanio.”
 
Dopo la sua partenza, Marco Antonio rivendica il proconsolato sulle Gallie, e Agrippa non vede Ottavio per tre mesi.
A Brindisi arrivano notizie dall’Urbe ogni due giorni, e man mano Agrippa smette di seguirle, perché l’ascesa al potere di Ottavio lo infastidisce. All’inizio pensa che possa essere per una contorta questione di invidia ma, no, non è quel tipo di persona, e ne ha la conferma quando, in un’osteria, sente dei vecchi discutere sul nuovo questore. Quel galletto sta alzando troppo la cresta, dice uno, ridendo ubriaco, non mi meraviglierei se presto lo spennassero! Agrippa impiega minuti interi a capire che stanno  parlando di Ottavio, e presto il pensiero di lui comincia a disgustarlo, come se il ricordo del loro affetto puerile fosse maturato troppo, esposto al sole fantasma che sempre domina le sue memorie d’infanzia, e fosse marcito, dolce e nauseabondo e pieno di nettare.
Agrippa evita di pensarci e si allena come una macchina da guerra, distruggendo i muscoli delle braccia, correndo per chilometri, esercitandosi con le reclute. Fa solo sogni da soldato, di notte, la disposizione geometrica di coorti e le scintille che fanno le spade quando vengono affilate. Non si chiede mai cosa possa aver provato il figlio di Mario, cosa possa aver provato Sertorio dopo aver capito di essere nel lato della Storia di chi ha sbagliato, prima di suicidarsi.
 
È la guerra a riunirli.
 
 
*
 
 
“Perché mai avresti fatto qualcosa di così sciocco?”
L’espressione di Ottavio si incupisce, ma come sempre sa mascherarlo con maestria. È diventato ancora più magro, se possibile, e più pallido; è disturbante vederlo con occhiaie profonde e i capelli pettinati di lato, come vuole ora la moda in città, il collo ancora lucido di unguento alla lavanda. Agrippa si sente fuori posto, con la barba non rasata e le piastre della lorica rigate.
Ottavio non gli risponde, lo ignora per i successivi venti minuti, e solo quando vengono lasciati soli nella tenda lo fissa con durezza,
“Non prenderti mai più la libertà, Agrippa, di insultarmi davanti ai miei comandanti.”
Agrippa sapeva, certo, che sarebbe arrivato questo momento, che prima o poi i loro ruoli li avrebbero divisi – ma il tono di Ottavio è così apertamente altezzoso, come Agrippa sperava di non doverlo mai sentire, che all’improvviso lo trova detestabile, davvero. Vorrebbe ricordargli che lui è più alto di una testa e che potrebbe stringergli i polsi con una sola mano, stringerli fino a sentirli scricchiolare; e soprattutto vorrebbe ricordargli cosa sia il fallimento, perché lo ha dimenticato, evidentemente, abituato solo ricevere e ricevere (la puttana di Cesare, è un’emozione mostruosa, deforme, che gli ringhia contro la cassa toracica, viziato e debole e cosa non darebbe per rovinare le sue dita bianche, graffiarle e riempirle di calli, rompergli quelle scapole fragili, che sporgevano, quando alzava le braccia per tuffarsi, come ali di rondine) senza mai dare. Egoista, ha giocato a fare il politico e ora gioca alla guerra civile.  
Per questo Agrippa dice quello che sa non dovrebbe dire.
“Altrimenti cosa farai, Cesare?” sibila con disprezzo, “Manderai anche da me un sicario come hai fatto con Marco Antonio?”
“Non pensare neanche per un attimo che non abbia il coraggio di farti processare per lesa maestà.”
“Perché è questo, vero, che stai diventando?” ringhia con una risata amara, “Un nuovo Silla? Cercare di far uccidere il tuo nemico politico con gli occhi di tutti puntati addosso, non capisci che ti stavano mettendo alla prova? E ora questa guerra? A quando le liste di proscrizioni? A quando le teste di senatori sulle picche, il sangue nel Foro? Lodo Giove potentissimo, perché ci ha dato Gaio Ottavio; no, che stupido, Gaio Giulio Cesare Ottaviano–”
Il pugno che Ottavio sferra non dovrebbe fargli male, perché è gracile e senza muscoli nelle spalle, ma sull’indice porta un anello di metallo massiccio, che si schianta contro il suo zigomo accendendo un dolore rovente, liquido che gli cola lungo il viso. Agrippa non capisce subito cosa sia avvenuto finché i suoi occhi non ritornano a fuoco, finché non lo vede ansimare e l’anello (un sigillo, con impressa una sfinge) gocciolare sangue.
Agrippa, con una calma che non pensava di possedere, solleva un pugno. Ottavio sta tremando e la tristezza nei suoi occhi gli dice che non cercherà di difendersi. Si è macchiato il mantello di sangue e sulle nocche non protette dall’anello stanno già affiorando i lividi.
Agrippa lascia ricadere il pugno lungo il fianco, come svuotato di colpo da ogni energia.
“Questa guerra ti renderà un ipocrita,” mormora. Una settimana prima Ottavio aveva annunciato che avrebbe partecipato alla guerra per proteggere la città di Modena da Marco Antonio, seguendo i consoli Irzio e Pansa con un imperium proconsolare. Domani partiranno. Ottavio alzerà la spada del comando senza aver mai combattuto. “Difendere Modena significa difendere Decimo Bruto, e quindi gli assassini di Cesare, dopo che avevi giurato ai Romani di vendicarne la morte. Cosa speravi di ottenere quando hai accettato?”
Il silenzio è denso, può sentire ancora il sangue pulsargli nelle orecchie dalla rabbia che sta calando, e la risposta di Ottavio è debole, esitante, come una mano tesa verso di lui, 
“Temevo che, se fossi rimasto fermo, sarei morto.” Ride, una risata nevrotica, che fa assumere ai suoi occhi una piega dolorosa. “Sai, Marco Antonio adesso ha ogni diritto di cercare di uccidermi. Ogni soldato di queste legioni potrebbe essere una sua spia. Non penso che riuscirò a dormire finché lui sarà vivo, o in Italia. Sono stato così stupido, e mi ucciderà, lo so, mi uccideranno.” C’è un momento in cui entrambi si ascoltano respirare, ascoltano i rumori dell’esercito fuori dalla tenda. Poi Ottavio si avvicina piano, con passi lievi, e gli sfiora la ferita sullo zigomo con un indice, e sempre lentamente, come si fa con le bestie feroci, lo abbraccia.
Ho così paura, Agrippa,” e il modo in cui respira a scatti fa sentire ad Agrippa uno strano dolore al cuore. Ha la stessa voce di quel giorno di tanti anni prima, quando avevano parlato di lupi davanti a un mare freddo. Agrippa gli cinge le spalle e lo stringe, lo sente crollare. È per questo che l’ha scelto e lo sceglierà, per quel senso di fedeltà cieca, che lo guida come i Fati attraverso il buio e sempre lo riporta qui, davanti a Ottavio.
“So che Marco Antonio è venuto da te, prima della tua partenza, e mi sento così stupido perché mi fido di te,” geme ed è quasi un singhiozzo, ma poi aggiunge, con la voce di colpo acquietata, monocorde, “Se devi uccidermi, tagliami la gola. Non voglio essere Cesare.”
Agrippa lo lascia andare con gentilezza e cerca il suo sguardo, gli regala un sorriso un po’ mesto, sincero, “Non sono Bruto. Non sarai Cesare.”
 
Si siedono sul tappeto, poi, così come sono, svuotati e stanchi, Agrippa sporco e in armatura e Ottavio con il suo mantello troppo grande da comandante. Ogni tanto parlano, ogni tanto chiudono gli occhi, ogni tanto registrano il tramestio dall’esterno, di chi si prepara e urla comandi e chi accede le fiaccole. L’indomani partono all’alba, e il viaggio dura quattro settimane. Agrippa vede Ottavio consumarsi, sudare, bruciarsi i palmi delle mani con le redini, e a giorni alterni credere il proprio futuro una vittoria o una sconfitta, a fasi, gloria eterna o morte atroce, come la luna segue le maree.
 
 
*
 
 
La notte prima della battaglia, Ottavio lo invita nella sua tenda.
Agrippa lo trova seduto sul tappeto, in quel suo modo così goffo, con le anche storte e le ginocchia divergenti. Gli fa cenno di sedersi, e poi dice, piano, “Ti prego, Agrippa, regalami un’ultima notte di serenità. Non riuscirò ad addormentarmi. Leggiamo Catullo come quando eravamo bambini.” Agrippa lo guarda spaesato. “Almeno,” aggiunge, con un sorriso infantile e così adulto allo stesso tempo, così stanco, “dovessimo morire, diranno di noi che abbiamo parlato fino all’ultimo d’amore, come i grandi poeti.”
Agrippa si stende di fianco a lui e ride, anche se è una risata tesa, perché sull’orizzonte del buio ci sono delle luci e non sono stelle, sono i fuochi del campo di Marco Antonio. “Spero che questo lo diranno solo di te. Non mi importa un granché dei poeti. O dell’amore.”
“Lo so, Agrippa,” lo canzona, e dietro quelle parole c’è un’emozione che Agrippa non fa in tempo a decifrare, coglie solo un certa piccola malinconia e poi Ottavio scioglie il primo rotolo, e comincia a leggere.
 
(legge con dolcezza e col ritmo cullante dei distici elegiaci, e Agrippa si sente sull’orlo del sonno, appoggiato alla spalla dell’amico; ha solo parziale consapevolezza di essersi spinto contro il suo collo per inspirarne il profumo di lavanda, parziale consapevolezza di aver sentito Ottavio rabbrividire. Non sa che ore siano ma il sole non è ancora sorto, e pensa che, se moriranno, sarà bello diventare eterni così, Ottavio già corrotto per sempre chinato sui carmina e la candela che fa danzare l’ombra delle ciglia sulle sue guance, gli occhi del colore pallido che Catullo, nel giovane che amava, chiamava ‘di miele’.
 
Davvero non c’era, fra tanta gente, Giovenzio,
Nessun uomo elegante, perché te ne innamorassi,
oltre a questo tuo ospite da Pesaro, città moribonda,
Straniero più pallido di una statua dorata?)
 
 







Chiarimenti:

Allora, un po' di notizie sparse: gli aneddoti "atmosferici" sulla morte di Cesare e l'arrivo di Ottaviano sono presi dalla mia zitella preferita (con affetto lo dico) Svetonio, le dicerie su Ottaviano e Cesare diffuse da Marco Antonio pure (poco credibili, ma Cesare a sua volta era stato accusato di aver avuto una, probabilmente vera, relazione con re Nicomede IV, quindi l'idea di Cesare pederasta non è da escludere a priori). Ottaviano effettivamente mandò, prima della guerra di Modena, dei sicari a uccidere Marco Antonio, e subito dopo le fonti lo dicono spaventato dall'idea che Marco Antonio gli ricambiasse il favore. "Ve la restituisco di marmo" è una frase realmente detta da Ottaviano, riferendosi a Roma. Le parti tra parentesi sono, diciamo, cose che Agrippa pensa ma non in superficie, sono pensieri nascosti.
Purtroppo non sono riuscita a spiegare bene il casus belli della guerra di Modena, veniva troppo pesante e nozionistico mentre io volevo più gay (sono una persona seria giuro): Antonio alla morte di Cesare conduce una politica moderata contro i cesaricidi, e lascia a chi lo aveva il ruolo di proconsole, a cui spettava il compito di governare una provincia per un anno. Lascia loro però province minori rispetto a quelle previste da Cesare, e Decimo Bruto ottiene la Gallia Cisalpina. Salto in avanti: Antonio dovrebbe andare a fare il proconsole in Macedonia ma vuole restare in Italia per tenere d'occhio Ottaviano e perciò chiede che venga tolta a Decimo Bruto la Cisalpina. Il senato gli dice di no, Bruto non la molla, così decide di prendersela, e per questo assedia Modena e diventa nemico pubblico.  
I versi qui in fondo sono i primi due distici del carme 81 di Catullo, che è tra i miei preferiti perché ha un no so che di vago e misterioso, ed è anche il titolo del capitolo.
Niente, al prossimo capitolo, spero che questo vi sia piaciuto!










 

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