Mossa obbligata

di tillmorninghighway
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Caught in the undertow ***
Capitolo 2: *** II - All I want to do ***
Capitolo 3: *** III - ... is be more like me and be less like you ***



Capitolo 1
*** I - Caught in the undertow ***


I

Caught in the undertow

 
 
La luce degli incendi entrava dalla sottile monofora strombata, soffondendo di un rossore necrotico le pareti della stanza. Kleist trovava l’atmosfera familiare e di norma l’avrebbe ritenuta indegnamente piacevole, ma il disagio che lo attanagliava quella sera nel percepirla non lo colse in alcun modo di sorpresa.

Ciullagambe gli stava indicando uno sgabello, e lui lo raggiunse senza protestare. Si sedette, e la semioscurità, mista alla quasi solitudine della compagnia del chirurgo, gli sgravò il pugno dall’incorporeo bastone del comando che era sempre costretto a stringervi. Era esausto, e alla stanchezza si autorizzò ad abbandonarsi.

«’Sta fasciatura è ‘na schifezza oscena» gracchiò il Ciulla dopo una rapida analisi della sua fronte. «Non si muovesse, Comandante, che mo’ vediamo di farla decente». Kleist annuì appena, ché non aveva voglia di aprire la bocca e formulare risposte verbali. Il medico trafficò fra i suoi strumenti, ne trasse bende e bottiglie e gli si riaccostò. «Su ‘sta testa, su ‘ste spalle!» sbuffò, raddrizzandolo seccamente. Kleist lo guardò gelido coi suoi occhi d’acciaio, ma Ciullagambe non si fece intimidire. Un gesto rapido, e la medicazione raffazzonata e incrostata di sangue fu strappata via. Il dolore tornò a pulsare forte sopra l’occhio sinistro e, in maniera più inaspettata, sul cuoio capelluto.

«Vi siete portato via metà dei miei capelli, dottor Nokt» osservò compassato, un rivolo di sangue che gli colava svelto attraverso il sopracciglio.

«Metà dei vostri capelli se l’è portata il minchione che v’ha fatto ‘sta roba qui, non io». Gli sventolò sotto la faccia la pezza sanguinolenta – null’altro che una manica strappata in fretta e furia da una camicia di tela. Kleist non si scompose. «Il soldato Perr è morto, dottor Nokt. Non sapeva quello che stava facendo, ma mi ha tenuto le cervella nel cranio egregiamente. Non mi aggrada che voi ne parliate con quel tono».

Ciullagambe gli versò sulla ferita un’abbondante sorsata d’acquavite, riducendolo a un silenzio sibilante. «Il soldato Perr, gli Dei se l’accolgano, era un minchione» ribadì con secchezza insindacabile. Ripose la bottiglia e applicò il nuovo bendaggio. «Doveva venire a cercar me invece di fare ‘sto casino. Se non s’infettano le cervella è ‘na fortuna sfacciata».
«Sono sempre stato un uomo fortunato, dottor Nokt» mormorò Kleist. Portò le dita a tastare la fasciatura e la sentì asciutta per la prima volta in ore. «Non ho motivo di preoccuparmi». Il Ciulla lo perforò da parte a parte coi suoi occhi neri, e il Comandante dell’Invittissima Armata di Nestria pesò in quell’occhiata parecchio rimprovero e non indifferente sospetto. Distolse lo sguardo, chiedendosi – e già rimproverandosi mentalmente – se non avesse esagerato con spalle curve e sussurri sfiatati.

“E non avrei nemmeno dovuto abbassare gli occhi, adesso”. Ma era così stanco.

Zaius Nokt si era voltato, impegnato a rimescolare gli affari misteriosi stipati nella sua sacca medica. «È per la donna, n’è vero?» ruppe il silenzio assordante di quella notte cremisi con voce pacata, e Kleist pensò immediatamente che avesse avuto l’ardire di porre la domanda solo perché gli stava dando le spalle.

«La duchessa» corresse di scatto, e drizzò la schiena, le mani strette a pungo sopra le ginocchia. Nokt continuò a trafficare con le sue pinze e i suoi elisir. Kleist lo guardò inferocito e sentì la testa ricominciare a pulsare. Si alzò di botto. «C’è spazio libero sulle mura. Datemi di nuovo del traditore e una forca per voi la trovo prima che abbiate richiuso la bocca, Ciullagambe».

Il chirurgo lo scrutò di sghembo, un sorriso sbilenco sulla bocca sottile e rasposa. «Correte parecchio, Comandante. Persino prima della vittoria di quest’oggi non mi è mai nemmeno passato per la testa che poteste essere un traditore e, a maggior ragione, non ho mai detto che lo foste. Ma state pur certo che lei lo dirà. E che le passa per la testa da un bel pezzo, eccome».

La vista di Wenzel Kleist si era ottenebrata bruscamente quando si era alzato, e le parole di Nokt gli erano giunte alle orecchie che la testa ancora gli girava. Le registrò a fatica ma lo aiutarono a far riaffluire il sangue alle tempie. La ferita pulsò rabbiosa, la stanza arrossata dalla città in fiamme riprese i suoi contorni e le sue sfumature di colore. Gli occhi del comandante si fecero affilati. «Basta, Nokt» ordinò piano. E quello, che dopotutto aveva raggiunto una veneranda età perché era uomo di comprovata saggezza, obbedì.

Kleist non aggiunse altro. Col cranio che doleva per più ragioni del dovuto, attraversò la stanza e spalancò l’uscio, sprofondandosi nei corridoi bui e vuoti del Palazzo Ducale.

Aveva visitato quell’edificio quasi quotidianamente due anni prima, e lo aveva fatto per mesi. Sapeva come muovervisi con la luce e con la tenebra - visto o non visto, aveva cognizione degli anfratti segreti nei quali dovevano essersi rintanati i cortigiani impauriti, non aveva esitazioni nello scegliere i punti in cui piazzare le sue guardie e le sue ronde e, ovviamente, conosceva anche la via che Ciullagambe insinuava conoscesse: quella, vale a dire, che lo avrebbe condotto negli appartamenti privati della duchessa senza passare dalla porta principale.

Un istinto nottambulo guidò i suoi passi sotto gli archi acuminati che contornavano il patio occidentale. Non voleva, non davvero. Ma infilò la porta ammaccata, quella dalla toppa debole messa lì a sorridere ad amanti, spie e assassini, e solo dopo aver contato trentadue gradini si ricordò di quanto fosse inutile l’andatura felpata che stava tenendo. Il Palazzo era suo. La città era sua. Nessuno lo avrebbe scoperto in quella torre, perché nessuno era rimasto per scoprirlo. La guarnigione di Roviza era defunta, ferita o nelle segrete; l’esercito di Nestria, come suggerito dal cielo fiammeggiante, era per la maggior parte ancora impegnato nel sacco della capitale, e di quei pochi uomini che aveva già disposto dentro e attorno al Palazzo sapeva per certo che lì non ne avrebbe trovati.

Fu a questa considerazione che si arrestò, un piede su un gradino, l’altro più in basso. “Cosa sto facendo?” si chiese. E perché non aveva messo qualcuno a guardia di quel passaggio? Lo aveva deciso inconsciamente in vista di questo momento? Era forse impazzito? Chiunque sarebbe potuto entrare o uscire di soppiatto, chiunque. Lei poteva già essere fuggita. La voragine di sentimenti contrastanti che l’idea gli spalancò nelle viscere non gli piacque per nulla. Poggiò una mano sulla parete concava e chinò il capo, sforzandosi di pensare in fretta nonostante le fitte profonde sopra l’orbita.

La sua prima risoluzione fu quella di imprecare pesantemente a denti stretti. La seconda lo portò a riprendere l’ascesa tre gradini alla volta. Raggiunse l’andito angusto che immetteva agli appartamenti signorili e lì trovò solo una fiaccola ardente ad attenderlo. Gli aveva rischiarato la salita – come di consueto, ecco perché non ci aveva neppure pensato – ma ora gli parve un segno pessimo: gli risultava difficile immaginare quella donna che, prigioniera nei suoi appartamenti, trovava il tempo di accendere lumi per gli ospiti clandestini che non avrebbe potuto avere. Ma la torcia era accesa, il che significava che qualcuno quelle scale doveva percorrerle o, peggio, le aveva già percorse.

Kleist estrasse dal fodero sulla coscia il suo lungo pugnale di malachite ricurva. La testa gli faceva un male boia ma l’attesa scarica di adrenalina non mancò di attraversarlo, e lo mantenne lucido e pronto. Schiuse l’uscio e scostò l’arazzo che gli si parò davanti, scivolando nelle stanze di Elyn Dasayad di Roviza.

I candelieri accesi illuminavano i tripodi e l’ottomana, i tappeti, lo stipo d’osso di tartaruga, la grande arpa scordata e la scrivania a specchiera. Il luogo pareva immutato, uscito dai suoi ricordi e dai suoi sogni con una precisione irreale. Un uomo dalla barba ruvida e dai capelli arruffati, tanto sudici da non essere più biondi, rispose al suo sguardo dallo specchio. Aveva delle profonde ombre sotto gli occhi e dava l’idea di essere in preda a un qualche attacco cardiaco particolarmente doloroso. Kleist vi si riconobbe solo per quest’ultimo dettaglio.

Le stanze erano deserte, e lui era perduto.

“Dei, fate che sia già lontana.”

Digrignò i denti: no. In due passi attraversò la stanza e andò a spalancare lo stipo.

Il cielo era rosso sopra Maragho. Elyn era fuggita, ma doveva trovarsi ancora sotto quella cappa di morte soffusa. L’avrebbe ripresa - gli Dei gliene fossero testimoni - e l’avrebbe ripresa subito.

 
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Le fiaccole illuminavano l’atrio, accendendo di bagliori dorati le cotte dei due uomini e scavando chiaroscuri di sonnolenza sui loro volti. Il vecchio Den Cur Seltit montava la guardia davanti alla sua porta, e con lui un giovanotto di cui non ricordava il nome. Kleist li trovò entrambi decisamente fiacchi.

Piombò fra di loro senza che se ne accorgessero, e solo dopo aver fissato per qualche secondo i suoi occhi glaciali quelli si decisero a sobbalzare impercettibilmente e a risvegliarsi. Sbarbatello saltò sull’attenti e Cur Seltit, benché si limitasse a drizzare la schiena, sfoggiò un’espressione talmente risoluta che in un altro momento il generale nestriano non avrebbe avuto bisogno di null’altro per sentirsi rassicurato fin nel profondo dell’animo.

Ma non era un altro momento.

«Avrei potuto uccidervi entrambi con la facilità con cui si torce il collo a un gattino» constatò. L’osservazione fu seguita da un borbottio fatto di ‘mi dispiace, Comandante’ e ‘le mie scuse, signore’ che Kleist mise subito a tacere con un cenno della mano. «Non ora. Signor Cur Seltit, ho bisogno di parlare con il sergente Ferlen. Trovatela e portatemela prima che suoni l’ora».

Sparì nelle stanze in cui si era acquartierato prima che il soldato terminasse il suo ‘signorsì’: non c’era motivo di fargli perdere tempo, mancavano meno di quindici minuti alla decima. “E almeno uno dovranno perderlo a bisbigliare di questa”. Gettò sulla prima cosa che gli venne a tiro la lunga calza di seta nera che aveva tenuto stropicciata nel pugno, e andò a saggiare la qualità del vino che gli era stato procacciato.

Afferrò la caraffa e versò finché il liquido scuro non cominciò a straripare sul tavolo. Imprecò, poi imprecò di nuovo e infine bevve. Al primo sorso riconobbe il Brunito di Torrexiaro, al secondo accantonò il futile interrogativo che quel sapore deciso gli aveva fatto sorgere spontaneo – quando e con chi aveva avuto il lusso di berlo l’ultima volta - e al terzo vuotò il calice per tornare a riempirlo, la mente di nuovo occupata dall’analisi della schifezza contingente.

Elyn gli era scivolata fra le dita e nessuno avrebbe creduto che lo ‘scivolamento’ non fosse stato accuratamente pianificato da lui stesso. Da Ciullagambe al re di Nestria, dal burattinaio di Piazza dei Fiumi al Gran Sacerdote del Tempio Bianco, dai mocciosi della contea di Donaet alla delicata Ireen che era sangue del suo sangue: tutti si erano aspettati qualcosa del genere e convincerli che sì, era successo, ma non certo per volontà sua, sarebbe stato possibile tanto quanto ammazzare a mani nude un grauma. Ma - per gli Dei! - valevano di più Refa, Yerkosa e Maragho o la fuga della duchessa di Roviza? Arion non poteva ignorare le dicerie, ma il sovrano avrebbe dovuto riconoscere che, nella realtà dei fatti, Kleist non lo aveva mai deluso. Anche stavolta, duchessa o meno, non aveva forse spezzato le gambe di un’intera nazione per trascinargliela inerme ai piedi del trono?

“Non è inerme”, si disse. Scrutò il cielo sanguigno oltre la bifora, rimestando nella bocca il vino finché non ne trasse il retrogusto più amaro. “Finché lei è in giro non è inerme. E in Nestria si crederà che io l’abbia lasciata andare per permetterle di riorganizzare le sue forze e darle l’occasione di riprendersi tutto. O peggio, chissà.” La fantasia del marchese Zeischer, dopotutto, non aveva limiti quando si trattava di spalare letame addosso ai suoi nemici, e Kleist riconosceva di avergli appena reso il lavoro oltremodo semplice.

Voltò le spalle alla finestra e andò a recuperare la calza dalla panca imbottita su cui l’aveva scaraventata. Si lasciò cadere al suo posto e se la premette sulla faccia dopo solo un attimo di esitazione. “Elyn, amore mio, dannata cagna. Non mi trasformerai in un traditore, né con le buone, né con le cattive. Ti troverò, so che lo sai, mia piccola rondine dal becco d’acciaio, mia bella pantera unghiuta…”. Si accorse che Bern Ludd lo stava guardando.

Le braccia rigide sui fianchi, l’aria di chi doveva dirgli qualcosa di importante e le guance in fiamme, lo scudiero spostò il peso da un piede all’altro e attese il permesso di parlare. Kleist pensò che, per essere una giornata in cui aveva riportato una grande vittoria militare, era proprio fra le più orride che avesse mai vissuto. Schiantò la mano e il suo contenuto accanto a sé. «Cosa?» domandò.

«La vostra armatura signore. E la spada lunga. Se volete che le riponga o se le devo lasciare pronte. E il vino. Se ne volete altro o se va bene questo» balbettò il ragazzo.

«Risponditi da solo e liberami della tua presenza. Se vedi Cur Seltit spronalo ad affrettarsi, ché la notte è breve e la mia clessidra non va oltre».

Ludd portò la mano alla fronte e farfugliò come un idiota la sua obbedienza e il suo rispetto. Ancora paonazzo, uscì dalla stanza, confuso come non l’aveva mai visto. Nemmeno due minuti dopo si sentì bussare e, grazie agli Dei, Tiril Ferlen fece il suo ingresso negli alloggi. La donna si richiuse la porta alle spalle e gli rivolse il saluto con la sinistra. Aveva ancora addosso lo smanicato d’ordinanza ed emanava, oltre alla solita fragranza di cane bagnato, un pungente odore d’acquavite. Il braccio destro le pendeva inerte, attaccato al collo attraverso una fasciatura nella quale Kleist riconobbe i colori e lo stemma araldico di Roviza.

«Riposo. Che è successo al braccio?»

Ferlen si rilassò. «Una freccia lo passò da parte a parte, niente di che. Dopo lo faccio controllare al Ciulla ma, in tutta onestà, mi sa che stai messo peggio tu, Comandante».

«Al dottor Nokt» si sentì obbligato a correggerla Kleist. «E la mia testa è messa meglio di quanto potrebbe sembrare, non crucciarti. Te ne darei prova se avessimo tempo per i convenevoli ma, ‘in tutta onestà’, sono alquanto di fretta». Le lanciò la calza di seta nera. «Dobbiamo trovare questa signora» disse, ignorando l’incipiente inarcarsi del sopracciglio di Ferlen. «Scegli uno dei tuoi grauma e conducilo sotto i portici del Palazzo. Ti voglio lì fra non più di dieci minuti» proseguì, senza lasciarle spazio per osservazioni irrilevanti.

Senonché, certe cose non pareva potessero evitate. Tiril Ferlen rimirò l’indumento per un lungo istante prima di schiarirsi la gola e rialzare gli occhi nocciola su di lui. «Comandante, non è che voglio discutere i tuoi ordini ma… non credi che sarebbe ora di dare un pochino di freno ai tuoi passatempi erotici?». Kleist espirò rumorosamente attraverso le narici, ma non servì a nulla. «Che poi questo è perverso persino per te. Che te ne fai di una donna con la pancia sbranata e le viscere sparse? Ti conviene ripensarci, senti a me».

Tacque. Kleist tacque con lei, fosco in viso. La donna sorrise storto, proprio come aveva fatto Zaius Nokt poco prima, e scrollò la testa ricciuta. «Dei, Wenzel. È lei, non è vero? Madre di Llaw, allora è vero che sei completamente andato».

Kleist distolse lo sguardo. La testa gli faceva male e il suo corpo era di nuovo svuotato di ogni forza. O era più lo spirito, forse. Non ne era certo e, in ogni caso, non aveva energie da investire in un’indagine più approfondita della questione. «Mi è scappata, Tiril. Meglio morta che libera. Mi serve un grauma».

«Ti è scappata? Llaw del Sole, te la stavi facendo!» gli sventolò la calza sotto il naso con ira autentica. Kleist non si prese la briga di chiarire l’equivoco. «Te la stavi facendo e lei ti ha dato una botta in testa e se n’è scappata! Dei dell’Hakke, Wenzel, dimmi che non è andata così. Llaw, sono più contenta se mi dici che l’hai lasciata andare e che ora ti stai lordando le mutande in un momento di ripensamento! Dimmi che è così, cretino. Dimmi che è così, non c’è bisogno di prendere i grauma! L’Armata ti seguirà ovunque, lo sai, anche nel cambiare il nome da ‘Invittissima di Nestria’ a ‘Invittissima di Roviza’. I ragazzi se lo aspettano, persino, dopo tutto quel ‘trattate i prigionieri come fossero vostri figli’ e ‘non bruciate i campi, verdi sono più belli’ con cui ci hai tartassati per settimane. Madre di Llaw, Wenzel… non prendere i grauma. Se la ammazzi questo posto ci cade sulla testa, e su a Nestria quel ratto del Marchese ci ricama abbastanza da farti sbattere in ginocchio sul ceppo del boia».

«L’epilogo sul ceppo del boia, perdona il mio scarso discernimento in materia, lo trovo di gran lunga più probabile nell’eventualità che la lasci andare. Quanto al resto, se credi davvero che permetterei a questa latrina di cadere sulla testa mia e vostra, mi sottovaluti in modo offensivo». La voce di Kleist si era fatta più secca di parola in parola, e si spense nel silenzio della notte con lo schiocco di uno scudiscio sulla carne viva. Si rimise in piedi ignorando l’oscurarsi della vista. «Un grauma, sergente Ferlen. E lo voglio fra cinque minuti sotto quei dannati portici».

Tiril contrasse la mascella ma non osò controbattere. «Signorsì» disse. Gli voltò le spalle e lasciò la stanza. Kleist aspettò che la porta si richiudesse prima di curvare le spalle. Si passò una mano sulla fronte, sugli occhi.

“Devo, si ricordò. “Devo”.

 
Angolo autrice:
Beh... boh xD Che ve ne è parso? Fatemi sapere cari lettori e care lettrici, e a presto! Prossimo capitolo in arrivo venerdì!

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Capitolo 2
*** II - All I want to do ***


II

All I want to do…
 
C’era caldo.

A Kleist bastò gettare un’occhiata oltre il profilo del caseggiato attorno al Palazzo Ducale per indovinare che, all’alba, del Quartiere dei Vetrai e del Sottomura Orientale non sarebbe rimasto nulla. Le fiamme vi ardevano ancora indomate, riscaldando l’aria notturna e generando quell’impressione di camminare in una fornace a cielo aperto che il comandante, nella sua quasi ventennale carriera, era stato abituato ad associare a sentimenti di trionfo orgasmico.

Abbassò sulle spalle l’ampio cappuccio del mantello grigio, e marciò nell’oscurità verso i portici. Era inquieto, ed era una novità prevista e detestata. Avrebbe voluto prendere quella vittoria e rovesciarla in pasto ai porci e alle vipere. Sarebbe voluto tornare a corte a sbalestrare spada e titoli in faccia a re Arion, e a dire a Zeischer di prendersi l’Armata e di vedere un po’ che farci. Oppure avrebbe voluto dire a Tiril Ferlen di riportare il grauma nella gabbia e di radunare gli ufficiali per quello che avrebbero potuto chiamare ‘un importante cambiamento di rotta’. Soprattutto, avrebbe voluto trovare Elyn e dirle che aveva vinto lei, che lui sarebbe stato quello che lei voleva e che insieme avrebbero reso eterna Roviza. Avrebbe voluto…

… tradire?

“Ma sentiti…” si disse, e percepì di nuovo l’urgenza di agire, l’impellenza dei fatti - quelli coi quali aveva messo a tacere la sua incertezza e quelli coi quali avrebbe spremuto via dalla sua mente i pensieri inauditi che l’avevano stretta d’assedio negli ultimi mesi. “Sentiti, Comandante, a invocare il tradimento della tua patria e dei tuoi Dei, per una donna poi… Che vergogna”.

Tiril era stata puntuale. La sua figura solida e slanciata, coronata dall’aureola di ricci ingrigiti, saltò al suo occhio non appena mise piede sotto le volte ogivali che dal colonnato tortile si protendevano ad arrampicarsi sulla parete della reggia. Nella penombra dell’unica torcia del posto, il profilo massiccio e pallido del grauma era altrettanto visibile. Kleist strinse le labbra, e d’istinto sfiorò con le dita l’elsa del pugnale di malachite.

«Rilassati, Comandante». Il sussurro di Tiril echeggiò sotto il porticato, rimbombando in maniera spettrale nell’anomalo silenzio che gravava sulla notte della caduta di Maragho. «Rol non mangia nessuno se non glielo dico io». Ridacchiò, e a Kleist sembrò di udire il peggior demone dell’Hakke.

Allontanò la mano dall’arma e la raggiunse, distogliendo gli occhi dallo sguardo nero della belva. «Diglielo, dunque» intimò. La creatura ansimò piano, e inframmezzò al suo respiro rapido una serie di bassi ringhi sbavanti. Le sue aguzze orecchie cremisi erano ritte, segno che si aspettava di partire per una Caccia da un momento all’altro.

Tiril lo fissò. «Wenzel». Silenzio. Un sospiro. «Se gli dò la traccia la segue fino alla fine».

«Lo so».

«Guarda che la trova. Non ti credere che un po’ di puzzo di bruciato o di tanfo per qualche centinaio di mort’ammazzati può confonderlo».

«Credi che non lo sappia?» sbottò, alzando la voce suo malgrado. La bestia gli rispose con un latrato impaziente. «Dagli la traccia, Dei onnipotenti! Facciamola finita prima che…». Batté due volte il pugno chiuso sul petto, la faccia contorta in una maschera di esasperazione. Tiril lo guardò sconcertata. Kleist imprecò pesantemente. «Obbedisci» le ingiunse con rauca ferocia, e lasciò ricadere la mano che aveva lasciata artigliata sul cuore.

Tiril richiuse la bocca. Esitò, ma non ebbe l’ardire di andare contro un ordine diretto. Scosse la testa e tirò fuori da una tasca la leggiadra calza di seta nera. «Non sai quello che fai, Wenzel. Sei fuori di testa. Ma sei il Comandante, perciò…»

“Dei immortali, non farlo davvero”, pensò Kleist. Ma riguadagnò l’impassibilità, e osservò rigido il bianco grauma protendersi ad annusare l’indumento che gli veniva messo sotto le enormi narici scarlatte. “Dei immortali, Dei immortali…”. Il grauma alzò la testa di scatto e fissò le iridi di tenebra sui fumi rossi che ammorbavano il cielo. Kleist sentì le ginocchia cedergli, e capì che il puzzo di bruciato e l’odore dei cadaveri non sarebbero serviti davvero a un bel nulla. Non che avesse creduto il contrario, però… “Oh, Llaw… non ucciderò mai più un uomo, tornerò a Donaet e coltiverò le terre dei miei padri, crescerò Ireen in seno al Tempio, Llaw. Fa che non trovi la traccia, ti prego”.

Il grauma ululò mostruosamente, riabbassò il capo e fece scattare i suoi possenti fasci di muscoli. Corse, scagliato nella notte muta come un colpo di mortaio indemoniato. In pochi attimi si lasciò dietro i contorni maiolicati di Largo del Palazzo.

Kleist si mise le mani fra i capelli. «Dei, avrei dovuto sgozzarlo un attimo fa!» ruggì, e si slanciò all’inseguimento della belva. «Dei, quanto sei deficiente!» soffiò furente Tiril Ferlen, e gli venne dietro a rotta di collo.

I loro passi rimbombarono sull’acciottolato, coprendo il suono delle zampe acuminate dell’animale. Se lo avessero perso di vista, era certo che lo avrebbero incontrato di nuovo solo quando fosse tornato a consegnare la testa mozza della duchessa come pegno di fedeltà e affetto. Kleist aveva il cranio a pezzi e un bulbo oculare che gemeva come ferro battuto sopra un’incudine, ma correva. Accantonò la stanchezza dello scontro combattuto fino a quel pomeriggio, ignorò la fitta alla milza e il fremito lattico del polpaccio, e corse. Sapeva che il grauma era molto più veloce di un qualsiasi essere umano, ma non ammettere l’eventualità di un miracolo era per lui inammissibile.

Quando il segugio svoltò a destra fra due file di edifici allampanati e cadenti, Kleist lo seguì senza esitazione, e alle sue spalle sentì Tiril fare altrettanto. Il vicolo era incassato e completamente buio e, nonostante il candore lebbroso della sua pelliccia, il grauma svanì nel nulla in poche falcate. Il generale si arrestò di botto e trattenne respiro e ansito, prestando orecchio al galoppare metallico che si allontanava nel reticolo delle strade. Avvertì la presenza di Tiril al suo fianco, anche lei immobile e in ascolto.

«A sinistra, e poi ha continuato ad allontanarsi» gli sussurrò. Lui non si mosse né parlò, ancora concentrato sui suoni di quella notte immota e sul battito assordante che gli pulsava nei timpani. Il ritmo delle zampe adunche, che si era fatto sempre più impercettibile, si tramutò d’improvviso in un raspare folle, quasi che la bestia avesse scambiato un pezzo di legno per la duchessa di Roviza e si fosse catapultata a sbrindellarlo. Delle grida spaventate si trascinarono fino a loro attraverso le stradette.

Tiril gli afferrò il braccio. «L’ha trovata» mormorò in fretta.

Kleist non reagì, se non prendendole la mano e staccandosela di dosso. Avrebbe potuto strozzarla e avrebbe potuto strozzarsi da solo, ma non era il momento. Messo alle strette, si scoprì freddo e razionale per la prima volta in ore. Seppe dove andare. «Vieni» ordinò. Affondò nella tenebra senza guardarsi indietro. Poteva essere l’eco sollevata dai suoi stivali sulle pietre, ma sapeva che era Tiril Ferlen che lo seguiva. La guidò in quell’universo cieco con la sicurezza del lampo che s’illumina la via da sé, spavaldo, fulmineo e inarrestabile.

Le grida non erano cessate ma si erano fatte più controllate, e vi si erano anzi uniti suoni metallici che stridevano sotto il cielo granata proclamando resistenza. Il luogo non era distante, della qual cosa Kleist non poté che confortarsi. Più tardi avrebbe avuto tempo per scoprire se la milza si era spappolata per sempre, se il fegato gli si era squarciato nella corsa o se l’adduttore che si era fatto pietra nella sua gamba lo avrebbe azzoppato per sei lunazioni o più. Al momento, però, l’unica cosa che contava era potersi dire che sarebbe riuscito a fare più in fretta solo se avesse avuto un purosangue di Betavia sotto mano.

I campanili slanciati della Cattedrale della Dea irruppero finalmente nel suo campo visivo, stranamente aranciati contro il cielo di Maragho. Non li guardò, né guardò i rosoni adombrati dal fumo o le pose tristi delle statue abbarbicate sugli archi rampanti. La sua attenzione fu tutta per quello che stava accadendo davanti alla Porta Maggiore del tempio.

Le zampe anteriori piegate in preparazione di un assalto, il muso e il manto bianco striati di rosso, gli occhi vuoti luccicanti di buio, il grauma stava studiando i suoi avversari, due armigeri nestriani che brandivano lance e scudi e che erano più pallidi della bestia stessa. Al suolo, disseminati in forme sparse, Kleist contò almeno tre dei suoi uomini squartati e uccisi. Quanto al portone, era pressoché integralmente divelto e lasciava scorgere i movimenti frenetici di più braccia che lo puntellavano febbrilmente dall’interno dell’edificio.

Si concesse due secondi per riprendere fiato. Tiril lo raggiunse e si fermò a rifiatare al suo fianco, il braccio fasciato stretto contro il petto da quello sinistro. In quel momento il grauma fece la sua scelta, e si avventò sul soldato dai capelli rossi che un istante prima il generale aveva giudicato essere sull’orlo delle lacrime. «Alle spalle, a sorpresa» consigliò la Custode del Serraglio Militare. «Alle spalle e a sorpresa o dì a quelli di fare largo e salvarsi la pelle». Kleist annuì. Sguainò il pugnale di malachite e si fiondò attraverso il sagrato.

Rosso aveva tirato su lo scudo e aveva resistito al primo attacco del grauma. L’animale riatterrò al suolo con eleganza e sputò fra i ciottoli le schegge di legno spaccato rimastegli fra le fauci. L’altro soldato, un giovanotto dalle spalle larghe e con l’elmo ancora in testa, affondò un colpo di lancia al suo fianco. L’animale schivò il tentativo con uno scarto laterale e si slanciò di nuovo su Rosso. L’armigero si riparò ancora dietro lo scudo, e la sua espressione sgomenta sparì dal campo visivo di Kleist quando il grauma si artigliò alla protezione con tutte e quattro le zampe, schiacciando col suo peso il braccio del malcapitato. Con un morso strappò via metà del legno. Rosso gridò, e lasciò andare l’oggetto ormai inutile. Il grauma ricadde al suolo, perfettamente ritto sui suoi arti ferrei. Elmo provò nuovamente a colpirlo, ma la bestia fu molto più rapida. La punta della lancia si scalfì sulla pietra del sagrato nello stesso momento in cui Rosso lanciò un acutissimo grido. Le zampe posteriori affondate nel ventre del giovane, il grauma spinse quelle anteriori sulle sue spalle e lo azzannò brutalmente alla gola. Kleist gli fu addosso proprio mentre il gorgoglio dell’effimera fontana di sangue si univa a quello più lontano della sempiterna Fonte Sacra della Cattedrale.

Si gettò sulla schiena della belva e l’afferrò con la sinistra sotto il garrese umidiccio. Colpì al collo con la destra, affidando alla malachite aguzza il compito di sfracellare muscoli, vasi e ossa. La testa del grauma avrebbe dovuto staccarsi e fargli l’enorme piacere di rotolare al suolo in uno sprizzo ematico, ma le cose andarono diversamente, e Kleist si ritrovò con la schiena sbattuta sull’acciottolato e con la doppia fila di coltelli dentali del segugio a mezza spanna dalla faccia. Il petto e le cosce gli bruciavano là dove gli artigli del grauma erano affondati nella sua carne, la bava dell’animale imbestialito gli gocciolò sugli occhi e sulla fasciatura che teneva insieme il trogolo di dolore che era il suo cranio. Era finita.

“Poteva andare peggio”, pensò Kleist. Almeno non sarebbe diventato un traditore. Almeno non avrebbe visto ammazzare Elyn. Almeno, se davvero esisteva il Giardino delle Mele, l’avrebbe rivista lì molto presto. E, almeno, lui sarebbe comunque morto da vincitore mai battuto, il che non era cosa da sottovalutare.

«Rol!». La voce di Tiril rimbombò adirata nella piazza. «La missione, Rol! Non perdere tempo in sciocchezze!». Kleist batté più volte le palpebre. La saliva gli ostacolava la vista ma fu comunque certo di percepire un tentennamento nel grauma. Un attimo dopo, lo scoppio di quattro focolai spastici nel suo corpo e la contemporanea sparizione del peso dell’animale dal suo petto gli dissero che Tiril gli aveva appena salvato la vita.

“Allora si continua”. Strinse i denti e si mise a sedere. Sentì di nuovo il raspare che gli aveva suggerito di venire da quella parte, stavolta però molto più violento e prossimo. Si pulì gli occhi sulla manica e barcollò in piedi. Elmo era accanto a lui e lo aiutò a reggersi sulle gambe mentre la testa gli girava e gli arti rifiutavano di rispondergli.

«Signore, state bene?»

«Sì…»

«L’ospedale è roviziano, forse potremmo…»

Kleist lo spinse via. «Chiama rinforzi» ringhiò, e allontanò dall’occhio sinistro la colata ferrosa che aveva zuppato e oltrepassato la fasciatura di Ciullagambe. Arrancò verso il portone, e per due volte le ginocchia gli cedettero, ma si impose di restare in piedi e in piedi dunque restò.

«Smettila di fare il codardo». Tiril gli si parò davanti con occhi brucianti, bloccandogli il cammino. Kleist non capì, ma capì cos’era lo schianto che era risuonato in quell’istante. Qualcuno gridò, il grauma latrò. Molte più voci gridarono concitatamente.
La porta della cattedrale aveva ceduto.

Si raddrizzò, e dall’alto della sua statura guardò coi suoi occhi di acciaio gelido la custode. «Levati di mezzo, sergente». Tiril strinse più forte il braccio ferito contro il petto, e non si mosse. «Se vuoi farti ammazzare devi prima ammazzare me», ribatté. Il generale s’incupì. E, senza pensare, attaccò.

Tiril Ferlen non doveva esserselo aspettato, Kleist era certo che in caso contrario avrebbe opposto molta più resistenza. Invece, tutto iniziò e finì con un banale moto di sorpresa che le attraversò il corpo prima e che si esaurì repentinamente in un crollo di membra afflosciate dopo. Kleist la oltrepassò, scosso da scariche di brividi incontrollati. Chinatosi appena, passò attraverso la lacerazione che il grauma aveva spalancato fra i bassorilievi lignei della Porta Maggiore, ed entrò nella Cattedrale della Dea.

Il caos era concentrato proprio all’ingresso della navata centrale, dove un gruppo di uomini rattoppati e armati di sedie e assi di legno stava tenendo a bada un ammasso di muscoli bianco che scattava a destra e a sinistra nel vano tentativo di liberarsi della doppia mezzaluna umana che gli si era serrata attorno. Il grauma ululava minaccioso e scrollava la testa, schioccando le zanne contro i suoi ostacoli. Perdeva sangue dal capo, e il comandante capì qual era l’origine del nero viscoso di cui era lordo il suo pugnale. L’aveva beccato, dopotutto. Cionondimeno… che quei feriti raffazzonati stessero lì ad affrontarlo aveva qualcosa di eroico, e Kleist si trovò suo malgrado ad ammirare una volta di più il coraggio dei roviziani.

Uno di loro incrociò il suo sguardo. Fu certo di essere stato riconosciuto ma non se ne diede pena. Claudicò verso il grauma e brandì il coltello di malachite, apparentemente l’unica arma reale rimasta nell’intero tempio-ospedale. I roviziani dovevano aver capito che era dalla loro parte, perché nessuno provò a fermarlo. Uno di loro, anzi, si fece avanti e assestò un fendente contro il grauma con quella che doveva essere la gamba di una sedia. Il segugio schivò e si preparò a contrattaccare. Kleist approfittò del momento che gli era stato fornito. Fece perno sulla gamba sinistra e balzò. “Stavolta ti ammazzo”, promise.

Ma ancora una volta sentì la lama del coltello non opporre la resistenza che si era aspettato. Dov’era la carotide di quell’essere abietto? Dov’erano le sue vertebre cervicali? Dove i suoi brani di muscoli e carne? Dove? Fece per rialzarsi ma il grauma gli si scagliò addosso, e solo un riflesso istintivo lo salvò dalle sue mandibole. Rotolò sulla schiena. La belva gli saltò addosso e i suoi artigli gli affondarono di nuovo dentro, facendolo mugghiare. Allargò il braccio destro, strinse convulsamente il pugnale e tentò un ultimo disperato affondo. Mancò il colpo.

Il grauma gli si era già afflosciato addosso, ed il coltello si limitò a battere sonoramente contro l’oro dell’asta che ne aveva trapassato la scatola cranica.

La carcassa fu spostata, ma lui scoprì di non avere più forze per rialzarsi. Un uomo si piegò su di lui e gli appioppò un paio ceffoni. «Sì, è ancora vivo» annunciò in roviziano, rimettendosi diritto. «Chiamate quel medico lì, il tizio di Nestria. Che se la vedesse lui con questo qui». Un ragazzo aggrappato a una gruccia si allontanò, probabilmente per andare a cercare il cerusico in questione. Qualcuno strappò l’asta d’oro dalla testa della fiera, e Kleist ebbe modo di riconoscervi il bastone cui la Sacerdotessa del culto si reggeva durante le processioni di primavera. La folla non si disperse. Qualcuno commentava l’attacco, altri esaminavano il cadavere del grauma, molti continuarono a ronzare attorno al generale come un nugolo di mosconi, dedicandogli occhiate malmostose e insulti biascicati nonostante il suo intervento.

Kleist non li ascoltava. Guardava gli affreschi del soffitto, i colorati personaggi della mitologia eretica di quel paese immortalati nelle loro gesta inesistenti. Guardava gli stucchi affastellati attorno alle finestre, ansiose orde di fauni e putti che rendevano lode alla loro fantasiosa Dea. Guardava la fiamma delle candele ardere in cerchio nell’aria immobile, illuminando quel tempio tramutato in lazzaretto dalla volontà del Re di Nestria. Non li ascoltava. E, in realtà, non guardava nemmeno, non davvero.

Aspettava.

«Neanche mezza giornata, conte Donaet» lo irrise finalmente una voce femminile.

Kleist sentì una morsa serrargli il petto. “Eccola”. Si volse lentamente e la vide: pallida, accigliata, i lunghi capelli corvini scomposti sulla fronte coronata. Incombeva su di lui e profumava di osmanto e papavero blu, e come ogni volta pensò di volerla e di non volerle né poterle resistere.

«Ed ecco che siete già dove vi spetta» continuò beffarda.

«Ai vostri piedi?» chiese sfibrato.

«Nella polvere» specificò.

«Elyn…»

«Duchessa» rettificò lei, un bagliore pericoloso nello sguardo azzurro.

Kleist aprì la bocca, ma Ciullagambe scelse proprio quel momento per fare la sua inaspettata comparsa.

«E come si fa a lavorare così? Le fasciature non durano mica se si fanno ‘ste cose, Comandante. Avanti, si togliesse quella giubba che mo’ vediamo che v’ha combinato Fido. E poi a letto, a letto a riposare, abbastanza minchionerie ci sono state per ‘sta giornata…»

 
Angolo autrice:
Domenica terzo e ultimo capitolo di questa mini-long! Grazie ancora a chi ha recensito, non esitate a farmi sapere che ne pensate di questa seconda parte! :)

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Capitolo 3
*** III - ... is be more like me and be less like you ***


III

… is be more like me and be less like you

 
 
Tre ceri alti e spessi modulavano la loro luce tremula sulla veste pieghettata della Madre marmorea. Erano neri come la notte, e se in Nestria qualcuno avesse avuto il ghiribizzo di impiegarli al proprio altare domestico, si sarebbe potuto assistere a una di quelle pronte convocazioni dinanzi alla Corte del Tempio Bianco che, con le sue diatribe negromantiche e le sue accuse di favoreggiamento dell’Hakke, tanto suscitavano la segreta ilarità di Wenzel Kleist.

Il culto lunare di Roviza dettava tuttavia usanze diverse, e la Dea di Elyn stava certamente rallegrandosi dell’olocausto di simulacri antelucani che le veniva tributato. Pareva a Kleist, d’altra parte, che la Madre marmorea contemplasse con la consueta ed inanimata indifferenza dei secoli lo spettacolo dei suoi figli che rantolavano nel tempio. Dalla nicchia semicircolare era perfettamente visibile un ragazzino a cui avevano mozzato entrambe le gambe e, mentre il disgraziato si contorceva e gemeva invocando la sua sciocca divinità, Kleist si chiese per l’ennesima volta come potesse qualcuno trovare effettivo conforto in simili credenze. Certo, lui stesso si era ritrovato a invocare Llaw e a sperare nel Giardino non più di un’ora prima, ma fra quello e il rintontirsi di fumi ai piedi del lavoro più o meno degno di un artigiano che, fra un colpo di scalpello e l’altro, aveva senza dubbio scatarrato e bestemmiato come un barbaro per la minestra troppo scarna che gli aveva servito l’apprendista, a suo modo di vedere passava parecchia distanza.

Quanto al simulacro della Madre, poi, il comandante non trovava nulla da salvarvi e sarebbe stato disposto a scommettere che era stato l’opera affrettata di un’artista mediocre e pressato dalla fame. Fosse stato per lui, lo avrebbe fatto rimuovere dalla nicchia e lo avrebbe affidato alle cure dei suoi cannonieri perché lo riducessero in pietrisco per cariche a mitraglia.

«A posto. Ora giù a terra e fatevi ‘na dormita come gli Dei comandano, signore» giunse la voce di Zaius Nokt dal basso. Kleist terminò la sua analisi critica dell’angolo in cui il medico lo aveva trascinato per medicarlo, e gli porse la mano per aiutarlo a rialzarsi. «Dei, le mie ginocchia…» si lagnò quello appena fu di nuovo in piedi.

«È colpa vostra, Nokt. Potevate farmi stendere».

«Non potevo, non potevo affatto. Tamponare un buco con gli umori che stagnano s’ha da evitare, quando si può. Che se no poi s’ha da tagliare e allora tutti giù a cavarsi gl’occhi e a chiamare la mamma coi lacrimoni d’un vitello da latte» bofonchiò il chirurgo, e prese a massaggiarsi con vigore le ossa tondeggianti. «Vi potete stendere mo’, ch’è solo per fortuna sfacciata ch’ancora ve ne state così, fresco e tenero. A riposare, che c’avete più rattoppi che pelle oramai!»

Kleist non si sentiva affatto ‘fresco e tenero’, l’esatto contrario piuttosto, ma concordò sullo stato macilento delle sue carni. Era uscito dall’assalto con un taglio profondo sopra l’occhio, ma era riuscito a causarsi danni ben più seri con le sue stesse mani. Provò a piegare la gamba sinistra. Si morse l’interno della guancia e maledisse in colorite imprecazioni mentali la malaugurata decisione di sguinzagliare il grauma.

«Saggezza e prudenza mi impongono di non riposare in questo tempio eretico, dottor Nokt», illustrò comunque con apparente serenità. «Manticore e montoni dormiranno nello stesso recinto, annuncia giustamente il Ler Vartae, ma solo dall’altro lato del Ponte Eterno. Poiché la fortuna che giustamente menzionate ha voluto mantenermi in vita, mi vedo costretto a ripagarla con un ultimo piccolo sforzo e a tornare quindi a Palazzo».

Dall’altro lato della scultura si alzò uno sbuffo. «Te lo dissi che ha manie suicide» borbottò Tiril Ferlen, invisibile tranne che per gli stivali scamosciati che, coi puntali melmosi rivolti al soffitto a cupola, facevano capolino oltre il piedistallo squadrato della Madre.

Kleist si tirò su i pantaloni con cautela. «Le vere manie suicide le ha chi accetta di dormire fianco a fianco con uomini a cui oggi abbiamo strappato vittoria, case…», strinse le labbra mentre il Ciulla gli dava una mano a far passare la stoffa ruvida delle brache sui bendaggi freschi «libertà, orgoglio, ricchezze, botti di vino…».

Tiril sbuffò di nuovo. «Non raccontarti storie, Comandante. Non ho manie suicide, se mi ammazzavi non ti dicevo grazie. Che poi dai, se io dormo con questi qua di Roviza è mania suicida e se tu dormi con quella là di Roviza invece no? E che è, ti sono cadute le cervella da quel taglio che c’hai in testa? Vedi che stai stimando male le forze nemiche, bimbo bello». Ridacchiò. Kleist trovò il suono sgraziato e per nulla adatto alla sacralità del posto. Ciullagambe si schiarì rumorosamente la gola. «Mi sa che dovevate metterci n’pochetto di forza in meno quando l’avete dato quella botta n’testa» spiegò con una scrollata di spalle. Si voltò a trafficare coi suoi arnesi giusto un attimo troppo tardi, e non riuscì a nascondere il fastidioso sogghigno della sua boccaccia larga. Kleist s’infoschì.

«L’insubordinazione e le affermazioni al limite dell’ingiuria terminano adesso. Tornate al vostro lavoro, Nokt; Ferlen, taci. Se vuoi restare qui non te lo proibirò, io però ho altro da fare». Lasciò a passo lento la nicchia, ignorando la ruga fra le sopracciglia di Ciullagambe e lo scrollare insoddisfatto del capo rabberciato della custode.

Elmo, che ora sapeva essere il soldato Erseik, lo salutò compito appena fece la sua comparsa nella navata orientale. Era attorniato dallo scompagnato plotoncino di rinforzi arrivato nella Cattedrale giusto in tempo per assistere al pasteggiare dei corvi cittadini sulla carcassa del grauma. Ricambiò il saluto e passò un’occhiata sommaria sull’ospedale.

«La duchessa. Dov’è?» lo interrogò.

«Signore, è nella loggia che chiamano ‘dei montanari’, signore. Ho mandato due dei nostri fanti a sorvegliarla» soggiunse ansioso, e Kleist, benché non fosse affatto dell’umore, si complimentò con lui per la decisione.

«Ben fatto, signor Erseik. Quest’oggi abbiamo commesso troppi errori riguardo Elyn Dasayad, sapere che non ne abbiate aggiunti altri alla lista mi rallegra. Sì, ben fatto. E ora prendetela e portatela qui. Sua Grazia lo avrà forse dimenticato, ma è nostro dovere ricordarle che il suo posto non è in questo tempio di eresia bensì nei suoi appartamenti privati, agli arresti». Erseik si impettì e partì senza indugio verso la Loggia dei Montanari. Il comandante si rivolse a uno dei soldati del plotone, un biondino barbuto che la coccarda annodata all’avambraccio destro presentava come dragone della Prima Compagnia. «Avremo bisogno di un carro, caporale». Sentiva ardere le quattro voragini aperte dalla Morte Bianca nel suo corpo, un malessere così palpitante da far passare in secondo piano le pugnalate regolari che gli squassavano la testa. Ma tant’era, aveva comunque avuto una fortuna divina. Ciullagambe diceva che il grauma non aveva davvero affondato gli artigli, e Kleist era convinto che – in qualche modo – la bestia lo avesse riconosciuto come l’umano che serviva, e che per questo avesse fatalmente esitato. Un altro sarebbe morto. Un altro, però, non avrebbe avuto il problema di tornare al Palazzo Ducale senza crepare lungo la strada. Il carro era una soluzione poco dignitosa, ma tant’era, tant’era.

Barbadipaglia scandì prontamente il suo ‘signorsì’ e sparì oltre il portone spaccato del tempio. Nessuno degli altri presenti era un ufficiale, cosa che risparmiò a Kleist ulteriori chiacchiere. Mise su il suo cipiglio altero e si limitò a recitare la parte del grande generale che medita quietamente la sua prossima mossa esaltante. Gli uomini sembrarono soddisfatti, e lui continuò a sudare freddo e a tenere insieme i suoi pezzi scollati in religioso e impalpabile silenzio.

Elyn emerse con fare regale dal fitto colonnato che si apriva a metà della navata sinistra, con Erseik che le marciava alle spalle e coi due fanti che le aveva messo alle calcagna che gli tenevano dietro. Li si sarebbe detti un seguito anziché dei carcerieri. Kleist la guardò inespressivo. Lei si prese tutto il suo tempo, e non lo degnò di un briciolo della sua attenzione. Si fermò tre volte a rincuorare i feriti, l’ultima deliberatamente a portata d’orecchio.

Piegò le gambe sotto di sé e si sedette senza scrupoli sulle sudicie lastre marmoree della Cattedrale. Prese la mano del ragazzino senza gambe nella sua, e quello la strinse convulsamente. «Come ti chiami?» gli chiese. Il mutilato smise di contorcersi e invocare la Dea, e guardò la duchessa come se da lei fosse dipesa la ricomparsa dei propri arti, se non la sua vita stessa. «Gavyn… Gavyn Neys, mia signora» mormorò, le palpebre spalancate sui bulbi arrossati.

«Gavyn…» ripeté Elyn, e prese la pezza che l’assistente del chirurgo aveva lasciato immersa in un bacile scheggiato. La strizzò, ed acqua gocciolò dolcemente in altra acqua. «Cosa ti è successo, Gavyn?» domandò sommessa, iniziando a detergere la fronte sudaticcia del ferito con una tenerezza che Kleist avrebbe voluto commentare con una fragorosa risata.

«Il dottore ha detto che doveva tagliare, mia signora; che doveva tagliare se volevo sopravvivere. Io… sono salito sul bastione di Porta Nuova...». Le lacrime cominciarono a rigargli la pelle cerea, brevi, subito annegate nella massa informe di capelli scuri. Elyn le lavò via con la pezza, piano. «La guarnigione di Jan… del capitano Jan Gedayr… aveva respinto il primo assalto dei nestriani ma era stata decimata. Chiamavano, cercavano volontari… perché quelli là stavano portando le scale e si preparavano al secondo assalto... e se non li fermavamo sarebbero entrati… entrati nella città, mia signora. E allora io sono andato… sono salito… sono salito sui bastioni, e avevo la lancia, e lo scudo e sapevo che dovevo serrare le fila con gli altri e colpire di punta e mirare al collo e ai fianchi. Ma loro non hanno assaltato e…»

Certo che no. Certo che non avevano assaltato. Non ci sarebbe stato neanche il primo assalto se quell’imbecille del barone di Fern non avesse preso l’iniziativa mentre lui era con la cavalleria pesante a sfondare le batterie difensive sul Colle Calvo. La fortuna – sua e dei suoi poveri soldati – aveva voluto che Kleist tornasse in tempo per fermare quello scempio. Aveva fatto avanzare le colubrine e aveva spostato due cannoni sulla piana: la pioggia di proiettili e le palle incatenate avevano fatto il resto, risollevando il morale delle truppe dalla mestizia in cui era precipitato dopo il ripiegamento e, certo, anche dopo il suo sfrenato scoppio di collera che era costato la pelle a Fern.

«Sei stato coraggioso, Gavyn» assicurò la duchessa. «Hai difeso la tua terra da impavido, ed io non lo scorderò. Pensa a rimetterti, figlio, ché nel giorno in cui festeggeremo la resurrezione di Roviza tu dovrai sedere al mio fianco. Berremo, e ricorderemo una volta di più che la sofferenza è passeggera, la tua come quella di noi tutti. Ricordati della mia promessa, io non dimenticherò la tua audacia. Quel giorno arriverà prima di quanto qualcuno immagina, non mancare: sia tu che io avremo molto da celebrare». Gli posò le labbra sulla fronte, e Kleist sentì pulsare più dolorosamente la sua.

Il ragazzetto mutilato guardò estatico la sua sovrana. “Questo lo capisco, la statua deforme no”. Elyn si rimise in piedi, rassettò la gonna nera e lo raggiunse, senza curarsi di mantenere le distanze richieste dalla formalità. «Ora possiamo andare» gli concesse, indifferente come se stesse andando a danzare una gavotta. Ma usò la lingua frisa perché tutti la capissero, e parlò con voce stentorea così che la sua boriosa noncuranza si riverberasse per l’intera volumetria del vasto tempio. Il plotoncino di Nestria li guardò. Parecchi dei feriti li guardarono. Ciullagambe, anima acida dai principi nobili, interruppe l’analisi della mano recisa di un roviziano e li guardò. Kleist mantenne neutro il suo volto, ma con la mente riandò a poche ora prima, alla sua irruzione nella Sala d’Ambra e allo scacco che aveva inflitto alla donna che adesso si arcuava ad azzannarlo al polso con l’eleganza di una vipera braccata. “Parata e risposta, bravissima mia cara. Che peccato che tu sia tu”.

«Il friso è elementare, Vostra Grazia, mi sorprende che confondiate ‘possiamo’ con ‘dobbiamo’. Siete in cattività adesso, tenetelo a mente per il futuro» ribatté placido. Arretrò di un paio di passi e fece cenno a Erseik e agli altri due. Quelli si decisero ad affiancare debitamente la prigioniera, ma lei non si mostrò minimamente impressionata.

«Poiché siete così galante da ricordarmelo, conte, lo terrò a mente per il presente. Ma per il futuro? Suvvia, dubito che mi sarà di una qualsivoglia utilità».

«Siete in errore, Vostra Grazia, a meno che non stiate filosofeggiando nel cuore della notte. Difatti, se volevate dire che di ciò che chiamiamo ‘tempo’ solo il presente ha concreto stato di realtà, mi vedo in effetti costretto a concordare con voi. Per quanto non vedo come questo vada a mutare il vostro stato che, ripeto, farete meglio a tenere a mente».

Le labbra di Elyn si incresparono mentre, circondati dagli armigeri, si incamminavano verso l’uscita, e Kleist si ricordò per l’ennesima volta di non guardarla più del necessario. Doveva controllarsi, e decise che concentrarsi sul celare il supplizio che stava autoinfliggendosi a ogni passo poteva essere un buon modo per sedare i suoi bollori inopportuni. La Porta Maggiore era stata riaperta, così che poterono uscire evitando di aprirsi un varco fra i bassorilievi frantumati.

«Non filosofeggiavo» ribatté la duchessa passando sotto l’ogiva d’ingresso. «Ma non impedirò a voi di farlo. Sono certa che vi arrechi conforto l’idea di un presente eterno. Crogiolatevi in quest’astrazione, Donaet, ma non siate troppo deluso quando i fatti verranno a bussare con gli arieti alle porte del vostro castello di carte».

«Prima voi» si limitò a risponderle, estendendo la mano ad indicare il carro scoperto che si era già piazzato sul sagrato. Al timone era aggiogato un fek, il roditore gigante endemico delle montagne di Roviza che boscaioli e contadini usavano generalmente per ispessire le brode di cereali in inverno. Elyn contemplò lo spettacolo offerto da quell’enorme ammasso di pelliccia verdastra e arricciò un angolo della bocca. Kleist seppe che i suoi uomini erano appena stati giudicati degli inetti.

«Preferirei sgranchirmi le gambe, Comandante» gli disse. Il fatto che fosse tornata al roviziano gli fece capire che per il momento il teatrino era finito. Sospirò di sollievo dentro di sé, mentre lei continuava a parlare. «Se intendete davvero tenermi rinchiusa negli appartamenti ducali questa potrebbe essere la mia ultima passeggiata per lungo tempo, e spero non vogliate negarmela».

«Non ti terrò confinata nelle tue stanze, Elyn; ti conosco, e so che sarebbe una mossa controproducente. Ma non ti lascerò nemmeno sfilare per le strade di Maragho nella notte in cui non avresti dovuto lasciarle. Sali su questo carro, mettiti questo e non provare oltre la mia pazienza». Si sfilò dalle spalle il mantello grigio e glielo porse.

«Non parlatemi a questo modo, Donaet. Mostrate una patina di decenza, se vi sforzate so che vi riuscirà» sibilò. Non prese il mantello ma salì sul carro, aiutata da una giovinetta dalla pelle scura, probabilmente l’ancella che l’aveva accompagnata in quella scampagnata notturna fra le macerie della sua capitale perduta.

Kleist si arrampicò dietro di lei con tutta la scioltezza che riuscì a simulare. Si sedette goffamente e stese le gambe dinanzi a sé, grugnendo suo malgrado per il dolore. Quando finalmente ebbe trovato una posizione accettabile lanciò il mantello alla duchessa, che nel frattempo aveva studiato il suo dibattersi con tacito scherno. «Molto bene, Vostra Grazia. Vogliate essere così cortese da ricevere questa cappa e adagiarla sulle vostre spalle leggiadre». Il piccolo plotone di scorta era salito, per cui fece segno al soldato che era montato a cassetta di partire, e il carro si mise in moto con uno scossone. «Se voleste altresì usarmi la gentilezza di coprirvi il volto con il cappuccio – vedete? Eccolo lì – mi rendereste un servizio per cui vi sarei eternamente obbligato».

«La mia città brucia, conte – e per opera vostra, vorrei ricordare. L’aria è torrida. Non metterò alcun mantello».

«Se volete che ci pensino i miei uomini non avete che da chiederlo».

Elyn lo fissò in viso, glaciale, e mise da parte la cappa. «Alayne, la mia mantella» disse, e l’ancella le allungò con reverenza una manta scura che lei procedette ad avvolgersi attorno, e il cui cappuccio calò sui capelli. Apparentemente non aveva voglia di combatterlo su questioni infime, una novità che il generale di Nestria era propenso a considerare antesignana di catastrofi. Cadde il silenzio.

“Lo nota?” si domandò Kleist. “Si accorge di come questa città dovrebbe contorcersi fra grida e lamenti strazianti e invece tace? Non la guardare” si ricordò poi, e piegò indietro il collo, dedicandosi ad apprezzare lo spettacolo del cielo insanguinato. La nube di fumo aveva perso spessore e al di là delle sue spire cominciava a intravedersi il cerchio lunare. Gli ultimi focolai erano stati sicuramente domati. “Crede sia normale? Crede che d’abitudine un’armata di ventimila uomini che irrompe in una città si dedichi a spegnere gli incendi e a limitare i danni dell’assedio e del bombardamento? Dei, ti ho detto di non guardarla!”. Cercò con le dita il coltello di malachite, intenzionato a verificarne le condizioni dopo l’impatto di punta col bastone cerimoniale della Sacerdotessa. Non lo trovò, e ricordò che in effetti non l’aveva più visto, una volta terminato lo scontro. Ritrasse la mano dal fodero e la lasciò cadere sulla coscia, ove massaggiò discretamente la ferita bendata. Guardò Elyn. Anche lei lo guardò.

Il fek si fermò in quel momento. Si mise a contemplare coi suoi occhioni vispi lo spigolo sbrecciato di un crocicchio, e non ci fu verso di farlo ripartire finché Erseik e Barbadipaglia non scesero giù a tirarlo a forza. Quando il carretto riprese la via traballando sui ciottoli, Kleist si chiese se non dovesse riaprire la bocca e parlare a quella stramaledetta donna.

La coscienza gli prudeva, da qualunque lato rigirasse quella fottuta guerra. Re Arion gli avrebbe rimproverato la linea morbida e Zeischer l’avrebbe sbandierata ai quattro venti come prova di fraternizzazione col nemico. Elyn di Roviza lo avrebbe considerato in eterno l’uomo che non aveva avuto il coraggio di metterla al di sopra del suo sovrano, un tiranno che tutto voleva fagocitare e che lui aveva servito impavidamente anno dopo anno proprio a tale scopo - sì, persino contro di lei. Kleist tamburellò sul fodero vuoto. Un traditore, un traditore per tutti, ecco cos’era diventato. “Ho scelto. Ho scelto?” Non poteva spargere il sale sulle fondamenta di Maragho, non poteva farle questo. Ma non poteva nemmeno rivoltarsi contro il suo re, era un’idea che cozzava contro ogni principio del suo credo. “Non lo capisce?”.

Non parlò.

Il fek si fermò altre due volte a bearsi prima di un nugolo di lucciole e poi di un mucchietto di mattoni bianchi accatastati sul ciglio di una viuzza. Alla fine, il percorso che con Tiril Ferlen aveva fatto di volata, fu coperto in poco meno di un’ora. Era tardissimo e, là dove non arrivava la luce delle torce dagli armigeri piazzati davanti al carro, il buio era compatto.

Kleist era diviso fra sonnolenza e tensione spasmodica. Rifiutò l’aiuto che gli venne offerto e scese a terra per ultimo, con rigidezza impacciata. Congedò gli uomini eccetto Erseik e un altro, ed entrò nel Palazzo Ducale al fianco della duchessa. Una rampa di scale e due corridoi, poi si sarebbero lasciati. Non poteva tacere.

«Credevo fossi scappata» disse a fatica, la voce bassa.

«Credevo lo avrei fatto quando ho visto che eri stato così stupido da lasciare sgombro il passaggio dell’arazzo» rispose lei sullo stesso volume. L’abbandono della cerimoniosità lo consolò più di quanto avrebbe creduto possibile.

«L’ho dimenticato» le confessò.

«Sono sicura di no».

Kleist strinse con forza la ringhiera. «Saresti potuta scappare». Il suo mormorio risuonò nell’aria ovattata dopo una pausa, più distinto di quanto non avrebbe voluto. Ma parlava nella lingua di Roviza, e dubitava che Erseik o il suo compagno la conoscessero.

«E abbandonare il mio popolo?» Elyn emise uno strano suono, simile a una risata affettata a metà da un colpo di alabarda. «È a questo che ti ha abituato il tuo prezioso re, Wenzel? No, che la Dea mi aiuti, il mio posto è qui, fra i miei. Hanno lottato per me e perderò con loro…». Gli scoccò un’occhiata tempestosa che lui non poté impedirsi di incrociare, pallido come un cencio. «… per ora», completò lei, e il suo guizzo azzurro scomparve di nuovo oltre gli orli del cappuccio.

«Questa guerra è finita, Elyn, e l’hai persa. Accettalo e fidati di me. Non siamo i despoti selvaggi della tua propaganda, nessuno soffrirà oltre e se collaborerai…»

«Detesto quella parola» scattò lei. «Non sono una fedifraga, infiggiti l’idea nella testa. Inoltre, se la tua coscienza riesce a stare tranquilla mentre alzi i vessilli di Arion, la possibilità che io mi fidi di te non sussiste».

«È dal giorno in cui mi è stato ordinato di interrompere i negoziati e rientrare in Nestria per preparare quest’invasione che la mia coscienza non riesce a stare tranquilla» proruppe esacerbato.

«Non è abbastanza» tagliò corto lei.

Imboccarono in un silenzio tirato il corridoio che terminava nella doppia porta degli appartamenti ducali. Kleist sentiva l’impellenza di parlarle ancora, non per chiederle del pugnale – non gli importava, giù nell’Hakke! – ma per qualcos’altro. Voleva la sua assoluzione? No! No… Voleva che di quell’assoluzione non ci fosse bisogno…?

«Mi hai tradita, Wenzel» gli rinfacciò Elyn con ritrovata pacatezza, interrompendo i suoi pensieri.

«Non l’ho fatto» si difese. «Sapevi chi ero».

«Sapevo che mi chiamavi ‘la tua regina’. Sapevo che spergiuravi di restare al mio fianco fino alla fine dei tuoi giorni».

Kleist inspirò rumorosamente, cupo in viso. «Io ti amo, Elyn, ma sono chi sono».

«Non l’uomo che credevo, dunque».

«Non l’uomo che credevi sarei diventato» rettificò per lei, tetro. «Mi spiace, Elyn, ma non posso essere che me».

Gli sorrise come se avesse detto una colossale sciocchezza. «Oh, Wenzel! Credevo avessi imparato meglio il roviziano! E invece confondi ancora ‘posso’ e ‘devo’, temo dovrai applicarti di più». Erano arrivati davanti alla porta, e solo allora Kleist si accordò la grazia di guardare di nuovo il viso della duchessa di Roviza. Parlò, e lo fece con distacco controllato.

«Se anche confondessi questi verbi, mia cara, cosa mai cambierebbe? Non posso essere che me, non devo essere che me, non voglio essere che me. Nulla cambia, perché io scelgo, e nessun altro. Nemmeno tu. Nemmeno Arion. Lo tradirei, se volessi. Ti bacerei, se volessi. Non voglio, e ti auguro la buonanotte».

Non riusciva a credere a quello che aveva detto. Si sentì precipitare al suolo e rinascere nello spazio di uno stesso battito cardiaco mancato. Ma era fatta. “Non era fatta anche quando ho preso il comando dell’Armata e ho accettato di marciare su Refa e Yerkosa, fino a Maragho?” Prove, prove da superare. La guerra non era finita, no, ma quella era un’altra maledetta battaglia vinta. E ora via.

Se ne sarebbe andato seduta stante se Elyn non avesse scelto quel momento per sfilare il coltello di malachite dalle pieghe della sua mantella. Erseik e l’altro soldato, che si erano sorbiti tutta quella conversazione con fare ebete, si riscossero e misero mano alle spade. Klesit non si mosse nemmeno, e li placò con una parola. La sua deliziosa viverna sorrise.  «Mi auguri la buonanotte e mi lasci tenere questo?».

Lui non sorrise affatto. «Puoi tenerlo, non sarà un pezzo di roccia affilato a salvarti».

«No, infatti» disse lei, il tono che si ammorbidiva a sfiorare note suadenti, mentre chiudeva le distanze fra loro. Kleist mantenne un’immobilità statuaria. Lei gli spinse l’arma fra le mani. «Per questo te lo restituisco» sussurrò, il fiato caldo mescolato al suo. Si ritrasse, poi. «Buonanotte, grauma del Re», lo irrise. Lui si ricordò di respirare solo quando Alayne richiuse la porta alle spalle della sua signora.

«Potete andare» disse allora ai due uomini che lo scortavano. Si dimenticò di guardarli in faccia, ma quelli salutarono e sparirono in fretta, e tanto gli bastò per sapere che la scena sarebbe stata sulla bocca di tutti prima che sorgesse il sole.

“Devo… devo richiamarli e ordinargli di tenere le bocche tappate…”

Leggermente stordito, s’incamminò zoppicante sulle loro tracce.

Tutto era buio e muto, e il pugnale di malachite ricurva pesava terribilmente nella sua mano, ben più di un macigno, di una minaccia o della solitudine.

Ben più.

"Come una scelta" rimuginò. "Come il suo contrario..." e, passo dopo passo, s'inabissò nell'oscurità diretto alla sua meta.


 
Angolo autrice:
Fine! Spero vi sia piaciuta! Grazie a chi ha commentato, a chi ha seguito, a chi ha preferito e a chi ha letto fino in fondo questa mia prima mini-long!

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