Se solo mi lasciassi entrare

di EllySmile04
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Let’s dance / put on you red shoes / and dance the blues
Let’s dance(David Bowie)
 
«Emma sei pronta? Mi raccomando lanciali entrambi!» esclamai quasi urlando, mentre tentavo di farmi sentire dalla mia migliore amica al di sopra del frastuono che regnava nella piazza.
Guardai per un secondo Emma, il viso teso in un sorriso radioso, gli occhi grigio perla che spiccavano tra le minuscole lentiggini che le costellavano la pelle diafana, e sorrisi, felice di essere lì con lei in un momento così importante per entrambe.
Rimossi con cautela il tappo dall’obbiettivo della mia amata Nikon e la sistemai davanti al volto, pronta a cogliere il minimo movimento sopra le nostre teste.
«Tre, due, uno… via!» urlò il professore al microfono.
Migliaia di tocchi di laurea si alzarono simultaneamente in aria, con la codina rossa che svolazzava al vento, mentre nell’immensità di Piazza San Marco esplodeva un boato spropositato e confuso di urrà e di grida di gioia.
«Yeee! Serena è fatta, è finita!» urlò Emma, scuotendomi il braccio con forza.
«Ehi, non fare casini!» sbottai in risposta, attenta alla sicurezza della mia preziosissima macchinetta fotografica. Poi mi lasciai andare ad un gioioso sorriso, ed esclami: «Si lo so, è incredibile. Sta succedendo davvero!»
«Comunque non posso credere che tu abbia davvero rinunciato a lanciare il tuo tocco. Soprattutto dato che lo hai fatto per scattare le stesse foto che altri milioni di persone avranno fatto perfettamente identiche!» riprese Emma.
«E smettila! Saranno pure affari miei no?» la rimbrottai, ridendo del suo commento.
Incredibile. Soltanto cinque anni prima eravamo entrambe entrate, titubanti e intimorite, nella vita universitaria, due timide matricole iscritte ad Economia e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali (familiarmente rinominato EGArt). Al tempo eravamo colme di dubbi, incertezze, paure, ma anche di tante aspettative.
Il proseguire dei nostri studi alla fine non ci aveva affatto deluse: già da tre mesi Emma era impiegata al Museo Fortuny, mentre io stavo lavorando come stagista part-time nell’ufficio marketing del Muve, la rete dei musei civici veneziani. E adesso che avevo in mano il mio diploma di laurea magistrale mi avrebbero finalmente confermato il posto. Assurdamente, ogni nostro sogno era finalmente realizzato: in barba alle statistiche e alle maldicenze di chi aveva criticato o snobbato la facoltà che avevamo scelto, ora eravamo entrambe nel mondo del lavoro, e prima di tanti nostri compagni del liceo che avevano intrapreso altri percorsi.
«Allora, adesso che si fa? Andiamo da Lele a sbronzarci?»
L’esultanza di Emma mi riportò alla realtà. La mia amica sorrideva verso di me, lo sguardo luminoso e i capelli biondo ramato che si muovevano al vento.
«Ma dai, davvero? Ancora con Lele come i sangiobbisti? Basta!» risposi sbuffando.
Il famoso bacareto da Lele era il ritrovo abituale per tutti gli studenti di economia (il cui dipartimento aveva sede nell’area di San Giobbe, appunto), che passavano lì i pomeriggi, intrattenendosi tra spritz e battute di (dubbio) spirito.
«Che ci vuoi fare, gli economisti c’han fascino!» mi rispose Emma, tutta presa dal turbinio delle persone attorno a noi, mentre cercava di guidarmi per mano verso la Torre dell’Orologio.
«Eh, lo so, ora che stai con Edoardo tutto ciò che ha a che fare con lui ti sembra stupendo, ma una volta anche tu eri fedele come me al partito nosangiobbisti!» la rimproverai, prima di scoppiare a ridere davanti alla sua faccia corrucciata.
«Amen. Lo amo, amerò anche i suoi sporchi soldi» disse Emma sogghignando.
Ci lasciammo entrambe andare ad un nuovo attacco di risate.
«Dai allora, Lele sia. Muoviamoci però, che sennò la calca ci seppellisce.»
«Ma quando mai abbiamo avuto paura della gente noi?»
«Hai ragione» risposi allora, prima di urlare a squarciagola, con un perfetto e calcatissimo accento veneziano D.O.C.: «Oh, scusène, gavèmo da pasàre! Sorrrry, pardon, spàssio!»
Le mie r strisciate e arrotolate fecero come sempre impazzire Emma dalle risate; con le lacrime agli occhi e il sorriso stampato in faccia ci avviammo veloci verso Lele, in trepida attesa di un rigenerante spritz e del futuro che ci attendeva da lì in avanti.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


My friends are so depressed / I feel the question / of your loneliness / confide...'cause I'll be on your side / you know I will, you know I will
My friends (Red Hot Chili Peppers)
 
Le prime sensuali note di “Miss You” dei Rolling Stones si levarono gradualmente dal microfono del cellulare e mi ridestarono presto dal sonno.
«Uff, già lunedì!» sbottai, stiracchiandomi e voltando il viso verso la finestra.
La dolce curva del campanile della Madonna dell’Orto faceva capolino oltre i tetti illuminati dalla luce rosea dell’alba, regalandomi come ogni mattina la calda e rassicurante sensazione di vivere in un luogo stupendo.
Mi alzai velocemente dal letto, passai in bagno e mi diressi poi ciabattando verso la cucina. Accesa la macchinetta del caffè espresso e spremute due arance, mi accinsi a preparare un toast, canticchiando sottovoce il ritmo sensuale della canzone che mi aveva svegliata.
«Oddio che profumo di caffè!» esclamò Sofia, entrando in cucina e stiracchiandosi in perfetta sincronia con il piccolo Thomas, il dolcissimo gattino rosso tigrato che avevamo adottato da un mese.
La mia seconda coinquilina, alta e magra, con i folti capelli rossi arruffati, mi guardò con occhi assonnati ma vigili, cercando la sua dose mattutina di caffeina.
«Ehilà Sofi, buongiorno tesoro! La colazione è pronta. Hai visto Emma?» le chiesi sorridendo.
«No, oggi ha il turno pomeridiano, penso dormirà fino a mezzogiorno come minimo!»
«Hai ragione, me l’ero dimenticata!» risposi, mentre addentavo affamata il mio toast. «Bene, io mi cambio e vado. Stasera ci vediamo?»
«Ovviamente, c’è X Factor, chi potrebbe mai perderselo?» mi disse Sofia ridendo.
«Perfetto! Dai bevi, che il caffè si fredda.»
 
***
 
Venti minuti più tardi scesi le scale dell’appartamento, i tacchi delle francesine che sbattevano con delicatezza sul marmorino veneziano, la borsa sulle spalle, il foulard che mi svolazzava attorno alle guance.
Appena scesa nella calle svoltai a destra e poi a destra ancora, entrai velocemente in una pizzeria e urlai: «Stefano, stasera menù X Factor!» ordinando così al nostro fidatissimo amico pizzaiolo le solite pizze del lunedì sera.
«Certamente dolcezza, alle otto sono pronte. Buona giornata!» mi rispose lui dal retro del locale.
Urlai un veloce «altrettanto» e mi infilai nuovamente nella stretta calle, accelerando il passo.
Dopo quaranta minuti scesi dal vaporetto nella fermata San Giorgio, abbagliata dalla lucentezza, ancora titubante nel primo mattino lagunare, della chiesa del Palladio che mi si stagliava di fronte. Mi fermai un attimo per assorbire quella luce candida e la meraviglia del Bacino di San Marco che si allungava alla mia sinistra.
Con un sospiro, estasiata da tutta quella bellezza, tornai con i piedi per terra e mi avviai verso l’entrata della Fondazione Cini, pronta per la frenetica giornata che mi aspettava tra i polverosi volumi della Biblioteca.
Non appena ebbi oltrepassato il cancello in ferro battuto che permetteva l'accesso al cortile d'entrata della Fondazione, fui inebriata dal sensuale profumo di gelsomino che si spandeva dalle alte siepi che circondavano il giardino.
Continuando ad assorbire quella meravigliosa fragranza, mi avvicinai con passo spedito alla porta a vetri e salutai con cortesia Lorena, la segretaria.
«Buongiorno a te Serena. Ho sentito che hai ultimato la carriera! E con risultati eccelsi direi, i miei complimenti.»
«Grazie infinite Lorena. Eh sì, ora sono finalmente nel mondo del lavoro! Al proposito, mi daresti il pass? Oggi è il mio ultimo giorno qui purtroppo.»
«Beh, sai bene di essere la benvenuta quando vuoi. Faremo in modo di chiedere sempre di te al Muve» mi rispose lei.
«Wow Lorena… sarebbe un onore per me, davvero!» esclamai contenta. «Ora vado, ci vediamo più tardi.»
Salutata la segretaria, lasciai la borsa in uno degli armadietti dell’anticamera e mi avviai verso l’entrata della Biblioteca con la mia penna e la Moleskine, da cui non mi staccavo mai.
Quando varcai la soglia l’immensità dell'ambiente mi sopraffece, come era avvenuto ogni singolo giorno delle ultime tre settimane. Lavorare lì dentro, studiare i grandi manoscritti, immersa tra la carta e la pergamena, la pelle conciata delle copertine, il legno degli scaffali antichi, mi aveva affascinata sin da subito. Amavo il lavoro che avevo svolto lì dentro, le persone con cui ero venuta in contatto e la meravigliosa aria di magia e di antichità che gli alti scaffali e i grossi volumi sprigionavano. Mi ero davvero innamorata di quel posto.
Raggiunsi presto il mio tavolo di lavoro, dove Raffaele era già seduto davanti al Mac, intento a sistemare le scansioni delle pagine manoscritte che aveva ultimato la settimana precedente.
«Ciao Raffaele! Sempre in anticipo tu vero?» lo salutai con affetto.
«Ehi Sere! Buongiorno 110 e Lode. Mia piccola secchiona, sei un portento della natura! Lasciati abbracciare!» disse Raffaele, stritolandomi poi tra le sue immense braccia, frutto di estenuanti sedute di fitness.
Mentre lo ringraziavo ridacchiando, divertita per l'accoglienza, lui continuò: «Comunque, mi dispiace deluderti, ma oggi sono appena arrivato. E ti ho portato il caffè di Lucio, penso sia ancora caldo.»
«Oh mio Dio, sei un angelo! Ne avevo proprio bisogno!»
Dopo aver sorseggiato il caffè bollente che avevo preso dalla scrivania, mi sedetti di fianco al mio amico, appoggiai penna e blocco e fissai lo schermo del computer davanti a me.
«Raf, è davvero l'ultimo giorno. Non ci posso credere, questo posto mi mancherà tantissimo. E tu mi mancherai ancora di più, brutto scemo. Non è giusto che tu te ne vada così lontano» sussurrai, con la voce rotta dall'emozione.
Una volta conclusa la ricerca che stavamo conducendo insieme per promuovere una mostra su Aldo Manuzio, infatti, io avrei continuato il mio lavoro al Muve, mentre Raf, mio amico dalla laurea triennale e compagno di squadra degli ultimi tre mesi, sarebbe tornato a Napoli, nella sua terra d’origine, doveva aveva trovato un lavoro nella nuova campagna per la promozione degli scavi di Pompei ed Ercolano.
Da parte mia avevo sempre avuto grandi problemi con gli addii. Sapevo per esperienza che quando ci si allontana si finisce inevitabilmente per non parlarsi più. Gran parte delle mie amicizie del liceo si era persa così, nei meandri dei chilometri che separavano me e i miei compagni, trasferiti a Padova, Trento, Bologna, Milano, addirittura Roma.
Adesso non potevo pensare di perdere anche Raffaele. Era un amico sincero e generoso, amorevole e gentile, che mi aveva sostenuta nei momenti più duri e aveva brindato con me nelle occasioni più gioiose. Sarebbe stato davvero molto difficile separarsi da lui.
Le parole di Raf mi fecero tornare con i piedi per terra.
«Houston, I think we've got a problem! Sere, ci sei? Ultimamente parti sempre per la tangente, ma pensavo fosse dovuto all’incombenza della laurea! E comunque, io rimango a Venezia per altre due settimane, possiamo passare ancora del tempo assieme. Poi ti aspetto a Napoli per il primo periodo di ferie che ti verrà concesso, così ti faccio conoscere la mia famiglia e vedere le meraviglie della mia terra. Capito stupidina? Non mi dimentico di te, come potrei con quanto mi rompi ogni giorno? Dai su, fammi un sorriso e finiamo di lavorare a questo progetto. Vedrai, tutto andrà per il meglio, te lo giuro.»
Sussurrai un sentito grazie, prima di riprendere il lavoro assieme al mio migliore amico, che presto mi avrebbe lasciata ancora preda delle mie incertezze.
 
***
 
Otto estenuanti ore dopo, intervallate da una breve pausa pranzo che avevo passato con Raf seduta sulla banchina davanti al Bacino, uscii dalla biblioteca chiudendo dietro di me le pesanti porte di legno massiccio.
Quando, recuperate le mie cose, mi ritrovai davanti a Lorena in entrata, sentivo un macigno sullo stomaco.
«Grazie di tutto Lorena. Ecco il pass, Raf è già tornato a casa.»
«Bene. Quindi… Presumo sia un arrivederci cara. Mi raccomando, non ti dimenticare che qui ti aspettiamo sempre. Sii felice.»
Dopo aver risposto ai saluti di Lorena, mi avviai verso il battello.
Scesi a San Marco, mi feci strada tra la folla che si stava diradando per l'ora di cena, fermandomi un attimo a guardare la luce rossastra del tramonto che si rifletteva sulle Procuratie e sulla Basilica, prima di avvicinarmi alla Torre dell’Orologio e imboccare finalmente, con un po’ di tristezza nel cuore, la strada di casa.
Quando varcai la soglia dell’appartamento con le pizze in mano, mi trovai davanti il nostro salotto, arredato con tutto l’essenziale per una serata X Factor tra coinquiline. Guardando il pavimento, il divano e il tavolino predisposti con coperte, tovaglioli, bibite, bicchieri di carta, fazzoletti e gli immancabili tablet e cellulari, pronti per votare gli artisti, la tristezza che provavo si sciolse dolcemente nel calore di casa.
Quella sera, tra risate, pianti disperati per gli eliminati, grida di gioia perché Riccardo, il nostro cantante preferito, era passato senza il ballottaggio, le pizze squisite di Stefano e la compagnia delle mie migliori amiche, dimenticai velocemente i dubbi della giornata, mi rilassai e godetti di quelle ore spensierate e felici che mi facevano sentire in pace con me stessa e con il mondo.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Thought the sun / rose in your eyes / and the moon and the stars / were the gifts you gave / to the dark and the endless skies
The First Time Ever I Saw Your Face (Roberta Flack)


La mattina seguente, dopo la solita routine della colazione, scesi con Emma e percorremmo assieme parte della strada per recarci al lavoro, commentando le esibizioni della sera prima e oltrepassando velocemente le frotte di turisti che già ingombravano le calli. Ci dividemmo a metà percorso, dandoci appuntamento a quella sera per una cena a base di sushi con Raf.
Non appena entrai nell’ufficio alle Procuratie, venni convocata dal mio capo; così mi diresse in fretta verso la porta a vetri, che separava la scrivania di Leonardo da quella degli altri impiegati.
«Entra pure» disse lui, mentre mi affacciavo titubante sulla soglia.
«Ho una proposta da farti. Ma prima siediti, ti devo ancora fare i miei complimenti per la laurea! Sono davvero fiero di te» mi disse Leonardo, stringendomi con forza la mano.
«Oh sì, grazie mille. Ma, allora, la proposta… Di che si tratta?»
«Vedi, c’è questo mio amico, un ex collega del liceo» iniziò lui, «che cercava un contatto nel nostro ufficio marketing per dare il via ad una collaborazione tra la sua azienda e il Muve. Dato che si occupa di editoria, so che il campo ti piace e so anche che sei l’unica qui dentro a capirne qualcosa, ho subito pensato a te. Quindi, se sei favorevole, potreste incontrarvi già nel pomeriggio di oggi. Nessun impegno comunque. Vi conoscete, vedete assieme gli obiettivi e poi decidi in tutta tranquillità cosa ritieni più conveniente. Che te ne pare?»
«Beh, direi che si può fare!» esclamai, estasiata dalla sua proposta.
«Bene, allora ti mando il suo indirizzo mail e lo contatti tu, va bene?»
«Certo, e grazie mille per l’opportunità» dissi, alzandomi dalla sedia e andando verso la porta. «Ah, scusa capo, un'ultima cosa. Che intendi per editoria? Potresti essere più specifico?»
«Beh» rispose lui, soppesando le parole, «diciamo che Emir, il mio amico, è il rampollo della famiglia Şahin, di origini turche, che possiede la casa editoriale RASBI.»
Sgranai gli occhi, incredula. Benissimo! Stavo per avere un colloquio di lavoro con un miliardario. Più semplice di così! Conoscevo bene la casa editrice in questione, dato che era stato oggetto di alcuni studi che avevo portato avanti per un progetto universitario. La RASBI aveva ormai inglobato gran parte delle case minoritarie d’Europa, e il suo mercato in Italia stava ampliandosi sempre di più. E io mi ero laureata soltanto il giovedì prima. Non avevo speranza di risultare adatta per quel progetto. Ne ero certa.
Entrai nel mio ufficio con una tazza colma di caffè americano, nella speranza di svegliarmi dal torpore in cui stavo scivolando (tipico dei miei lunedì mattina). Mi sedetti alla scrivania, rimuginando sulle parole di Leonardo e sulla proposta del magnate Şahin. Era incredibile, davvero mi stavano offrendo un lavoro così prestigioso?
«Gesù,» gemetti «che ansia.»
Avviai il computer e aprii la casella e-mail, poi mi fermai di fronte al foglio bianco. Cosa dovevo scrivere? Inserii l’indirizzo che Leonardo mi aveva mandato e con poche parole mi presentai, chiedendo al famigerato Emir quando volesse incontrarmi. In quel momento suonò il telefono interno e sollevai veloce la cornetta.
«Buongiorno, ufficio cultura e marketing Muve, sono Serena…»
«Serena! Mi sono dimenticato di dirti una cosa.»
La voce di Leonardo suonò forte e squillante nel ricevitore. Non avevo guardato da dove giungeva la chiamata, altrimenti avrei notato la spia rossa che segnalava una telefonata interna proveniente dall’ufficio di Leonardo. Sbuffai, certa che stesse cercando il modo giusto per dirmi che avrei dovuto presentarmi in maniera adeguata al mio incontro con l'editore.
«Se hai con te il diploma possiamo completare il contratto.»
Le sue parole mi stupirono, e il cuore mi scoppiò di gioia, anche lui incredulo davanti a quella che era la prima vera prova della mia nuova vita, l’inizio tangibile della mia carriera lavorativa.
«Certo Leonardo, te lo porto subito!»
 
***
 
Mezz'ora più tardi tornai di fronte al mio computer, ebbra di felicità e di orgoglio dopo aver firmato il mio primo contratto di lavoro.
Sul desktop lampeggiava la notifica di una nuova mail: era la risposta di Emir. Con le mani che tremavano afferrai il mouse e la aprii.
 
Gent.ssima Sig. na Serena, sono felice che abbia accettato la mia proposta. Se per lei va bene, io sarei libero questo pomeriggio. La aspetto alle 17 al Caffè Florian, dato che è vicinissimo a dove lei lavora. Attendo sua cortese conferma. Distinti saluti. Emir Şahin.
 
Ti pareva! Doveva per forza incontrarmi per un aperitivo nel caffè più costoso della laguna intera! Iniziavo già da subito a sentirmi inadatta per quel progetto: non sarei mai stata in grado di reggere una tensione simile, gli altolocati non erano tra le persone con cui mi sentissi più a mio agio.
Sbuffando, risposi cortesemente alla mail, accettando ora e luogo. Altre cinque ore e avrei incontrato il magnate. Mi dissi che avrei fatto meglio a finire l’articolo sui manoscritti della Fondazione, e smettere di pensare al misterioso editore.
 
***
 
Alle 16.45 tremavo ormai come una foglia, mentre scendevo le scale delle Procuratie con il cuore che mi batteva in gola. Cristo Santissimo, e se non lo avessi trovato? Se non gli fossi piaciuta? Se avessi fatto una delle mie solite figure di merda? La mia mente iniziava già ad andare per la sua strada, in balia della preoccupazione e dell’insicurezza che mi attanagliavano sempre nei momenti più delicati. Basta Sere! Smettila con questi pensieri infantili! - mi dissi.
Percorsi con calma i portici attorno alla Piazza, cercando di regolare il respiro e di intravedere l'uomo che mi attendeva. Quando fui ormai vicina al Caffè, guardai l’orologio: mancavano ancora dieci minuti, quindi avevo tutto il tempo per mettermi a mio agio, sedermi e aspettare Emir. Alzai lo sguardo, e per poco non tornai indietro di corsa.
Nei tavolini di fronte al Florian, seduto con un mojito in una mano e Il Sole 24 Ore steso sulle gambe accavallate, stava il più affascinante uomo che avessi mai visto. Indossava pantaloni neri perfettamente stirati, scarpe da cerimonia nere lucide e una camicia blu scuro che si tendeva sulle spalle larghe e muscolose. I primi bottoni sotto la gola erano aperti, e lasciavano scorgere tra il tessuto una pelle abbronzata e liscia, dalle sfumature olivastre; portava degli occhiali neri con una grossa montatura, posati sul naso sottile e ben delineato.
Incapace di controllare l’emozione, feci qualche passo avanti e subito lui alzò lo sguardo. I suoi occhi verdi mi colpirono dritta al cuore, mentre lui scostava la sedia e si alzava, adagiando il bicchiere e il quotidiano sul tavolino.
Ci guardammo intensamente per qualche istante, e io rimasi affascinata dall’aria di mistero che circondava l'uomo che avevo di fronte: il contrasto tra i cappelli castani e quegli occhi verdissimi e profondi non mi permettevano di distogliere lo sguardo.
«Serena?» fece lui.
Le mie orecchie assorbirono con gioia la sua voce calda e pastosa, e colsi subito un lieve accento cantinelante, che dava al suo tono basso e roco un intrigante sfumatura orientale. Solo dopo realizzai quello che aveva detto. Mio Dio, quindi era lui il giovane Emir Şahin? Gesù, Giuseppe e Maria, non potevo crederci. Quel maschio affascinante e seducente, che mi aveva ammaliata e mi aveva fatto perdere la ragione, era l’uomo che stava per valutare se accogliermi nel suo staff.
Mi imposi di uscire dalla trance in cui ero caduta, temendo di fare la figura del pesce lesso. Mi schiarii la voce e mi avvinai di qualche passo, rispondendo al suo interrogativo.
«Si, sono io.»
Lui allungò la mano a stringere la mia. Il contatto tra le nostre pelli fu carico di elettricità, e mi sembrò di essere percorsa da una scossa. Raddrizzai il volto e il mio sguardo si scontrò con il suo.
Nei suoi occhi riverberava una lucentezza meravigliosa, che mi inchiodò al suo viso senza lasciarmi scampo. Sentii crescere e crepitare tra noi una tensione sconosciuta, che mi fece desiderare di potergli stare ancora più vicino. Mi chiesi se anche lui sentisse la stessa cosa: stava dritto e fermo, impassibile, ma nel suo sguardo coglievo un desiderio e una forza che mi facevano sperare in una risposta positiva.
«Piacere, sono Emir. Ma prego, si sieda pure» disse lui piano, sciogliendo il legame che ci aveva uniti.
Mi sedetti di fronte a lui, accavallai le gambe per dissimulare l’imbarazzo che sentivo salirmi alle gote e lo guardai.
«Bene, vuole ordinare qualcosa?» chiese lui, togliendosi gli occhiali e poggiandoli accanto al giornale.
«La prego» risposi io, con la lingua finalmente sciolta, «mi dia del tu. Prenderei uno spritz.»
«Però se ti do del tu come minimo lo pretendo anche da te. Cameriere? Uno spritz prego. Liscio, Aperol, Campari?» chiese, rivolgendo nuovamente lo sguardo verso di me.
«Aperol, grazie.»
Quando il cameriere si fu allontanato, l’attenzione di Emir tornò a me.
«Serena, andiamo al sodo se sei d’accordo. Non so cosa ti abbia già accennato Leonardo. In parole povere, comunque, sto cercando qualcuno del Muve che sia disposto ad aiutarmi in una campagna di promozione della cultura che volevo intraprendere con la mia casa editrice. Il tuo capo mi ha parlato molto bene di te e mi ha anche detto che molti dei tuoi esami per la magistrale hanno riguardato l’ambito letterario ed editoriale. A proposito, i miei complimenti per l’ottimo risultato!»
Non era la prima volta che ricevevo congratulazioni simili in quei giorni, ma davanti a quell’uomo sicuro di sé e così affascinante mi sentii avvampare dalla punta dei piedi all’attaccatura dei cappelli.
«Grazie» sussurrai, abbassando il volto per nascondere il rossore.
 
Ero piacevolmente sconvolto. La ragazza che mi stava di fronte era evidentemente molto sicura di sé, aveva una brillante carriera universitaria ad accompagnare le sue referenze e una solidità invidiabile nell’atteggiamento che mostrava, ma arrossiva terribilmente davanti ad un complimento sulle sue abilità.
Dovetti ammettere con me stesso che fosse anche davvero molto bella. I capelli scuri le cadevano con un taglio netto dietro le spalle larghe e piazzate, che contrastavano con la vita strettissima. Questa era messa in risalto da un cinturino bianco che stringeva il vestito nero, attillato al punto giusto da far risaltare le sue curve senza volgarità.
Tentando di farle alzare lo sguardo per incontrare ancora i suoi dolci occhi color cioccolato, continuai a parlare. «Quindi, volevo chiederti se sei interessata a fare una specie di periodo di prova per qualche mese, per capire se il progetto ti interessa e se sei la persona adatta per svolgerlo. Che ne dici?»
Serena alzò gli occhi, raddrizzò le spalle e rispose con sicurezza: «Sono davvero entusiasta dell’idea, ma mi sento in dovere di chiederle… scusa, chiederti, come funzionerà la mia retribuzione. Non vorrei sembrare materialista, ma vorrei capire se continuerò a percepire il mio stipendio al Muve o dovrò rinunciarci.»
Mi lasciai sfuggire una risata. Quella donna mi sorprendeva sempre di più: arrossiva per una parola gentile ma non aveva remore nel chiedermi informazioni sulla paga.
«Serena, non solo continuerai a ricevere lo stipendio del Muve, ma ti sarà attribuita un’ulteriore paga in base alle ore di lavoro che svolgerai in collaborazione con me.»
«Oh, perfetto allora. Bene, penso che accetterò» disse lei, sorridendo per la prima volta. «Posso chiederti un’altra cosa Emir? Perché questo progetto lo dirigi tu e non un tuo vice o delegato? È così importante da coinvolgere il proprietario della casa editrice?»
Non potei evitare di sorridere. Nessuno mi faceva mai domande del genere. Le persone cercavano la mia attenzione sempre e soltanto per il mio denaro, e le donne aggiungevano di solito anche uno spiccato interessamento per il mio corpo, agognando di trascorrere con me qualche ora di follia.
«Me ne occupo io perché è stata una mia idea, che quasi tutto il consiglio di amministrazione ha facilmente cestinato. Io amo questa città, mi ricorda la mia Istanbul, e ho deciso di fare qualcosa per lei. Quindi, dato che il progetto è mio e mi sta molto a cuore, me ne interesso di persona» risposi, ostentando la sicurezza e l’orgoglio che quella scelta mi infondeva.
 
«Wow, ma vieni da Istanbul?» chiesi, lasciandomi avvolgere dalle fantasie che da sempre riponevo in quella città d’Oriente.
Da adolescente avevo letto centinaia di libri, visto tutti i film possibili, studiato con attenzione ogni pagina della storia di quella meravigliosa città sul Bosforo, circondata da un’aurea di mistero che aveva per me il sapore delle spezie e dell’ignoto.
«Si, ho vissuto li fino ai miei quindici anni, ma ci torno spesso. Adoro vivere immerso nelle tradizioni del mio paese natale, e qui a Venezia trovo la stessa atmosfera, solo più… come posso dire…»
«Ariosa?» lo interruppi, quasi senza rendermene conto.
«Ariosa?» chiese lui, sgranando gli occhi. «Si, esatto! Ariosa! Hai centrato il punto Serena. Qui è tutto meno ovattato e nascosto. Qui i panni si stendono alla luce del sole non solo nei vicoli, ma anche di fianco alla Basilica. Qui il vento della laguna schiarisce le idee e porta le voci. Non ci si può nascondere a Venezia» finì lui.
Lo guardai negli occhi. Quell’uomo aveva un’aria elegante e generosa, ma sentivo che sotto sotto non si voleva esporre troppo. Per questo, quando mi aveva espresso la sua idea su Venezia, ero rimasta di stucco: non mi sarei mai aspettata una confessione così personale dopo appena venti minuti di conoscenza. Forse mi era sbagliata. Non era così cupo come mi era sembrato.
Emir sembrò riscuotersi dai suoi pensieri e gettò uno sguardo preoccupato al Rolex che portava al polso.
«Serena, sono molto dispiaciuto ma il lavoro mi attende. È stato un piacere conoscerti e sono immensamente felice che tu abbia accettato la mia proposta. Ti devo salutare ora, ma ti scrivo domani per accordarci sul periodo di prova che ci aspetta, va bene?» disse, alzandosi in piedi.
«Certamente. Grazie a te Emir, è stato un vero piacere anche per me» risposi io, scostando a mia volta la sedia.
Quando vidi che Emir estraeva una banconota da cinquanta euro dal portafoglio Louis Vuitton, in pelle rossa e marrone, mi chiesi con ansia quanto costasse uno spritz al Florian. Non avevo mai bevuto nulla lì, se non un caffè per festeggiare la mia prima laurea, ed era già costato dieci euro quello!
«Ah, Serena, metti via quei soldi!» esclamò lui, mentre stavo tirando fuori il portamonete dalla borsa. «Permettimi di pagare questo magnifico aperitivo per te» continuò, riponendo il portafoglio nella tasca posteriore dei pantaloni.
Mi guardò negli occhi con uno sguardo carico di… di cosa? – mi chiesi, mentre annuivo e lo salutavo con la mano, allontanandomi sotto il porticato.
Quello sguardo intenso mi aveva fatto tremare le cosce, e temevo che la mia immaginazione stesse già costruendo tanti castelli tra le nuvole, pieni di affascinanti uomini turchi dal sedere ben fatto, baci in ufficio e sesso sfrenato. Poco ma sicuro, stavo leggendo troppi romanzi rosa. Meglio darsi al giallo per un po’.
Rimuginando su quell’incontro così emozionante, tornai verso casa nella luce bassa della fine del giorno.
 
***
 
Quella sera Raf raggiunse me e le mie amiche nel nostro appartamento, trascinandosi dietro una quantità immane di buste di plastica da cui usciva un agrodolce profumo di sushi fresco e di salsa di soia.
«È arrivato Raf!» esclamò contenta Sofia, guardando verso il citofono e correndo ad aprirgli la porta.
«Buonasera donzelle, il cibo è qui. Ah sì, ci sono anche io!» si presentò lui.
Scoppiai a ridere e gli feci strada in cucina per aiutarlo con le buste.
Non appena la tavola fu pronta, Emma entrò dalla porta, trafelata e rossa in volto.
«Scusate scusate scusate! Ero dalla parrucchiera e ho perso di vista l’ora. Oh che bravi, mi avete aspettato!» esclamò, togliendosi il trench e sedendosi a tavola battendo le mani.
Iniziammo subito a mangiare, raccontandoci le nostre giornate.
«Sono distrutta» esclamò subito Em. «Oggi ho lavorato tutto il giorno, non mi sono presa nemmeno la pausa pranzo per seguire la sistemazione delle ultime foto che sono arrivare per la mostra!»
«Giusto!» l’interruppe Raf, «che mostra state aprendo?»
Il volto di Emma si aprì in un grande sorriso estasiato. «Una retrospettiva su Picasso, soprattutto sul suo processo artistico visto da Dora Maar... È veramente fantastica!»
«Quando apre?» chiesi io, incuriosita.
«Il prossimo sabato. Beh, vi andrebbe di fare un giro con me? Vi posso far avere gli inviti per la conferenza stampa di apertura e per la visita guidata con il curatore!»
«Wow, sarebbe grandioso!» esclamò Raf eccitato. «Così facciamo qualcosa tutti assieme prima che io parta per Napoli!»
«Si. Fantastico!» urlai felice. «Tu puoi venire Sofi?» chiesi, voltandomi verso di lei.
Sofia mi guardò, con gli occhi verdissimi che luccicavano. Mi ricordarono per un istante quelli di Emir, e il cuore mi batté forte al pensiero.
«Ragazzi, mi dispiace, non posso. Ho l’ultimo esame di sessione tra due settimane, e Riccardo viene ad aiutarmi a studiare domani sera. Uffi, vorrei tanto venire.»
«E allora vieni!» esclamò Em felice, «Così stiamo tutti assieme!».
Allungò una mano sopra il tavolo, stringendo quella di Sofi. Sapevo che tutti stavamo pensando la stessa cosa: Riccardo diventava ogni giorno sempre più restrittivo, e questa relazione stava iniziando a fare del male a Sofi. Non usciva quasi più con noi, ma passava ogni momento libero con il suo ragazzo, e temevamo che continuando di questo passo avrebbe smesso definitivamente di stare con qualcuno che non fosse lui.
«Vi adoro ragazzi» sussurrò Sofi, «ma temo proprio di non potere. Dai, sarà per la prossima volta, magari senza esami in preparazione.»
Tentò un sorriso forzato, e sebbene sia io che Raf ed Emma ci fossimo accorti di quanto fosse falso, annuimmo tutti in silenzio.
«E tu Sere, com’è andato il ritorno al Muve?» mi chiese a quel punto Raf, tentando di sciogliere la tensione.
«Tutto bene. Mi è stato offerto un lavoro supplementare in realtà!» esclamai sorridendo.
«Cosa cosa cosa? Raccontaci tutto!» urlarono tutti e tre in coro.
«Va bene» risposi io sogghignando, e iniziai a rivelare loro gli eventi della giornata.
Quando finii notai che Emma, Sofia e Raffaele mi guardavano con occhi sgranati.
«Cioè, davvero? La RASBI? Şahin? Ma quanto cazzo di culo hai sempre, Sere?» chiese infine Sofia.
«Ehi, ma che faccia ha questo Emir? Questo ci importa davvero. Hai avuto gli occhi a forma di cuore per tutto il tempo in cui hai parlato! Deve essere un figo da paura!» se ne uscì Emma.
Sentii nascermi sul volto un sorriso beato, che scatenò una corsa generale verso Pc e cellulari, alla ricerca di foto del famigerato editore.
Io rimasi seduta a tavola, ridendo a crepapelle per la reazione dei miei pazzi amici e assaporando con gioia la loro esplosiva compagnia.

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