Roads Untraveled

di LadyBones
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** When I jumped ***
Capitolo 2: *** When you met me for the first time ***
Capitolo 3: *** When we said goodbye ***



Capitolo 1
*** When I jumped ***


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L’ultima volta che la mia strada aveva finito per incrociarsi con quella di Bucky, era stato tre mesi fa. Da allora avevo cercato di rigare dritto – per quanto mi fosse possibile. Stranamente, però, quella volta mi era risultato più facile del solito.



Aveva finito per dedicare anima e corpo allo studio, riuscendo a superare brillantemente gli esami. Le petizioni sui koala avevano dato i loro frutti, così avevo preso a occuparmi dei panda. Era stato difficile scegliere tra loro e i pinguini, ma alla fine aveva vinto la tenerezza dei primi – complice il fatto che mi ricordassero qualcuno di mia conoscenza. In tutto quello, aveva avuto persino il tempo di crearmi una vita sociale – lo so, il solo pensiero di essermi spinta fino a tanto aveva finito per far accapponare la pelle anche a me.



Insomma, avevo fatto quelli che potevamo benissimo definire degli ottimi miglioramenti. Certo, tutto quel cambiamento improvviso aveva finito per destabilizzare l’equilibrio delle persone che mi erano intorno. Mio nonno, per esempio, per quanto fosse incredibilmente felice per me – una domenica, nel bel mezzo del pranzo – aveva finito per chiedermi se forse non avessi contratto una qualche strana infezione. Mia nonna, al contrario, era stata molto più pratica e, non appena il nonno era andato a schiacciare il suo pisolino pomeridiano, aveva finito per chiedermi chi fosse il fortunato.



Ci avevo impiegato un secondo di troppo a capire ciò che intendeva – il tempo necessario per farmi andare di traverso il boccone di gelato al cioccolato e ammettere, così, la mia colpevolezza. Bontà volle che non si mise a scavare alla ricerca del nome di questo fantomatico ragazzo per cui avevo una cotta. Si limitò, semplicemente, a lanciarmi un’occhiata allusiva che ebbe la capacità di farmi rabbrividire.



Visto e considerato che – ultimamente – la mia vita era diventata un brivido continuo a completare l’opera ci aveva pensato Fury. Sì, proprio lui che – un giorno, di punto in bianco – non aveva finito per prendere l’iniziativa e darmi un colpo di telefono. Non si era presentato direttamente davanti la porta di casa per il semplice fatto che fosse impegnato a fare Dio solo sa che cosa – quell’uomo diventava sempre più criptico. Ovviamente, in quel momento non ero realmente interessata a dove fosse o a cosa stesse facendo, ma solo al fatto che non avesse finito per scoprire che cosa avessi combinato. Una semplice telefonata di cortesia – così l’aveva definita lui, perché ammettere di volermi controllare lo avrebbe, poi, fatto passare come il peggiore degli stalker. E, lui, alle apparenze ci teneva.



Nonostante tutto, però, risentire quella voce burbera aveva finito per farmi piacere. Stavo diventando schifosamente sentimentale, ma in mio favore c’era da dire che feci finta di nulla. Insomma, per quanto mi fosse mancato quell’uomo non lo avrei certo sbandierato ai quattro venti. Se lo avessi fatto me lo sarei ritrovato in due secondi nell’appartamento – luce puntata negli occhi come nei peggiori film polizieschi – alla ricerca di informazioni su quello che avevo combinato. Non vi era alcun dubbio che sarebbe riuscito a ottenere quello che voleva in meno di cinque minuti. Era davvero bravo in quello, o forse sarebbe stato il caso di dire che avrei finito per vuotare il sacco in men che non si dica. E, allora, addio vita sociale. Addio, tutto.



In quel caso, poi, avrei dovuto fare i conti con Tim.



Già, Tim.



Da quando quella mia folle avventura con il Soldato d’Inverno era giunta al termine, avevo finito per rafforzare quella stramba amicizia. Forse era stato per via del fatto che mi ero improvvisamente ritrovata sola, oppure semplicemente perché avevo deciso – per una volta – di lasciarmi andare un pochino. Insomma, se Bucky era riuscito a fidarsi di una perfetta sconosciuta e lasciarla entrare in quel casino che era la sua vita, allora perché non avrei potuto fare anche io lo stesso?



Ci vuole parecchio coraggio a fare quello che lui aveva fatto con me, perché rendersi vulnerabili agli occhi di qualcuno non era mai semplice. Se poi ci aggiungiamo il fatto che lui fosse anche un assassino, le cose si complicavano sicuramente. Ciò nonostante aveva accettato il rischio, quello di finire per mostrarmi qualcosa che non mi sarebbe piaciuta finendo per farmi scappare a gambe levate. Io, però, ero rimasta ben piantata al mio posto, quindi non potevo fare altro che sperare che Tim facesse lo stesso con me.



Non che nascondessi un passato da serial killer, no. Ciò, però, non toglieva il fatto che quello che avrebbe potuto vedere avrebbe potuto non piacergli. Fino ad allora non mi ero certo esposta più di tanto. Tutto sommato, però, le cose mi erano andate bene per una volta nella vita.



Perché ne ero così sicura?



Semplice, perché quella era il terzo fine settima di fila che io e Tim finivamo per uscire a dirigerci in una delle tante feste del campus. Avevo dovuto rinunciare al mio amato Netflix, certo, ma non era stato poi così malvagio come avevo sempre creduto. D’accordo, all’inizio mi ero sentita come un pesce fuor d’acqua fino a quando non ci avevo preso la mano. Ero passata, così, dal far parte della tappezzeria al stringere qualche conoscenza, fino a sentire persone pronunciare il mio nome senza che realmente le conoscessi. Giuro che il tutto non era dovuto al me che mi ubriacavo e facevo cose di cui poi non avevo memoria. Beh, karaoke a parte, ma in quel caso il ricordo era particolarmente vivido, sì.



Non solo nella mia mente a quanto sembrava, ma anche in quella degli altri ragazzi che finirono per salutarmi calorosamente non appena misi piedi all’interno della stanza quella sera in compagnia di Tim.



La prossima volta che decido di salire su un palco e cantare, per lo meno accertati che la canzone non sia di dubbio significato.



Lo aveva finito per sussurrare in direzione del mio accompagnatore, mentre continuavo a sorridere e salutare da una parte all’altra. La dura vita universitaria.



Ti avrei fermato, se solo mi avessi fatto presente che la canzone che volevi cantare si intitolava “Bitch”.



D’accordo, avrei dovuto menzionare quel piccolo dettaglio, ma stiamo pur sempre parlando di me. Tim, tu hai il sacro dovere di mettermi un freno ogni qualvolta sono in procinto di mettermi in situazioni poco… confortevoli. Quindi, a precauzione, tu fermarmi sempre.



Lo dissi convinta prima di allungare la mano in direzione di un piccolo bicchierino. Forse, se avessi bevuto un sorso di punch avrei per lo meno potuto ingranare meglio la serata. Ero proprio sul punto di versarmene un po’, quando qualcuno non finì per bloccarmi il braccio. Quando sollevai lo sguardo e incrociai quello di Tim non potei fare altro che sollevare gli occhi al cielo.



Sono felice che tu abbia recepito il messaggio.



Gli risposi sarcastica, prima di vederlo ridacchiare. Mi ritrovai a scuotere la testa sconsolata, alla fine dei conti me l’ero andata a cercare. Per lo meno in tutto quel cambiamento qualcosa era rimasto inalterato, il che non mi dispiaceva. La mia era stata una specie di evoluzione – in meglio o in peggio che fosse – ma ero rimasta pur sempre me stessa. Sorrisi soddisfatta a quel pensiero, prima di avvertire il respiro caldo di Tim vicino al mio orecchio.



Credo che il mio amico sia ancora rintanato nella sua camera, al piano di sopra. Ti spiace se andiamo a cercarlo?



Tim mi aveva parlato a lungo di questo suo fantomatico amico. Una specie di genio della fisica, o qualcosa del genere. Insomma, un tipo abbastanza strambo il che detto da me era praticamente un eufemismo. Ciò nonostante mi ritrovai ad annuire, curiosa di fare finalmente la conoscenza di questo Eddie. Uno dietro l’altro, salimmo l’intera scalinata fino a ritrovarci al piano di sopra. E – imboccato il corridoio sulla sinistra – ci fermammo davanti la porta di una di quelle stanze. Su di essa vi era un cartello con su scritto “vietato entrare”. Si prospettava un tipo parecchio amichevole, pensai mentre scivolavo all’interno della stanza.



Quella camera era un disastro. Mia nonna avrebbe rischiato un embolo se avesse provato a mettere piede lì dentro, persino io avevo qualche problema in quel momento. Non sono mai stata una così grande fan dell’ordine, ma direi che i boxer sull’abat-jour erano troppo anche per me. Per non parlare di un cartone di pizza semi pieno abbandonato in un angolo. Insomma, quale persona sana di mente lascerebbe della pizza mezza mangiucchiata ad ammuffire? Da qualche parte ci doveva pur essere una legge scritta che vietava a chiunque di fare una cosa del genere. Lanciai uno sguardo pieno di scuse in direzione di quella povera pizza, prima di concentrarmi sul soggetto di cotanto caos.



Era un ragazzotto dai capelli rossicci –arricciati sulle punte – tarchiato, con un paio di occhiali puntellati sul naso. Stava smanettando su un computer e a stento si era voltato a salutarci. Solo quando aveva terminato di digitare freneticamente sulla tastiera, si era girato verso di noi allargando le labbra in un sorriso soddisfatto e alquanto raccapricciante – ma quello dipendeva dai punti di vista.



Ehi Eddie, cosa ci fai ancora qui? Ti stai perdendo la festa di sotto.



Aveva esclamato Tim lasciando scontrare le sue nocche contro quelle dell’amico. Al suono di quelle parole, Eddie finì letteralmente per illuminarsi.



No amico, la vera festa è qui. Ce l’ho fatta finalmente!



Ancora con quella storia?



Si erano lanciati in una conversazione che sembrava incredibilmente interessante, se solo avessi saputo di cosa stessero parlando. Mi ritrovai, così, a tossire appena per richiamare l’attenzione di entrambi. Era stato troppo egocentrico? Può darsi, ma la mia curiosità andava nutrita.



Oh tu devi essere Eleanor, ho sentito molto parlare di te.



Forse attirare l’attenzione non era proprio stata una buona idea. Mi ero, infatti, ritrovata a sorridere impacciata. Tim, invece, aveva finito per spostare il peso da un piede all’altro in evidente imbarazzo. Non avevo potuto fare altro che fare quello che mi riusciva meglio, cambiare discorso.



Di cosa stavate parlando?



Di qualcosa di impossibile.



Aveva risposto Tim che, evidentemente, aveva finito per riprendersi attirandosi un’occhiataccia da parte dell’amico.



Ti dico che ci sono riuscito, non è più impossibile come credevamo…



Sai vero che questa è una follia?



Mi spiace davvero interrompervi ma… cosa sarebbe impossibile?



Avevo dovuto intromettermi, di nuovo. Stavo dando davvero un ottima prova della mia educazione, ma non potevo farci niente se quei due avevano la capacità di punzecchiare la mia curiosità senza mai arrivare al nocciolo della questione.




Viaggiare nel tempo.



Eddie lo aveva praticamente sputato fuori con tutto l’orgoglio che aveva in corpo e la mia mascella per poco non si era slogata. Aveva seriamente detto viaggiare nel tempo? D’accordo, non ero certo la persona adatta nel dire cosa fosse o non fosse possibile visto che il mio ultimo coinquilino praticamente aveva preso a sprangate il termine “impossibile”... ma viaggiare nel tempo? Sul serio?



Non ascoltarlo Lenny, dice solo un mucchio di idiozie. Si è convinto di essere in grado di aprire una specie di varco. Ci lavora praticamente da mesi, ma l’unica cosa che è riuscito ad aprire fino ad ora è stata una lattina di fagioli.



Esatto, fino ad ora!



Gli aveva fatto eco Eddie che, come una freccia impazzita, aveva preso a muoversi da una parte all’altra della stanza.



Hai presente cosa sia un wormhole?



Mi ero ritrovata a scuotere la testa. Non ero mai stata una cima nelle materie scientifiche, ma quella storia stava decisamente iniziando a incuriosirmi così gli feci cenno di continuare mentre con una mano zittivo Tim che era già pronto a partire all’attacco.



D’accordo, un wormhole non è nient’altro che un cunicolo spazio-tempo. È un po’ come se fosse una scorciatoia per raggiungere un altro universo. Teoricamente esistono due tipi di cunicoli, ma io mi sono concentrato sull’intra-universo.



Intra… che?



Gli avevo fatto eco, mentre Tim – arresosi – aveva finito per lanciarsi a peso morto su una delle poltrone, non prima di averla liberata da vestiti e scartoffie varie.



Intra-universo. Collega due punti nell’universo, ma in tempi differenti. Tutto quello che serve sono onde gravitazionali e materia esotica. So che detto in questo modo sembra incredibilmente semplice, ma vi posso assicurare che non lo è.



Oh, ti credo sulla parola. Sussurrai consapevole di avere gli occhi spalancati più di quanto fosse umanamente possibile.



Che diavolo sarebbe la materia esotica? Te la sai appena inventata per fare colpo?



Lo prese in giro Tim, ridacchiando. Eddie era già sul punto di controbattere agguerrito, ma avevo finito per bloccarlo prima che fosse troppo tardi.



Sai, cosa? Meglio non continuare con i paroloni scientifici o rischio il mal di testa. Piuttosto, come facciamo a sapere che dici sul serio?



Ah, le vecchie care abitudini – pensai. Basta una piccola scintilla e, boom, il fuoco della curiosità finiva per divampare e travolgermi letteralmente.



Sì, Lenny ha ragione. Come facciamo a sapere che non ti sei inventato tutto? Insomma, ci sei mai entrato in uno di questi cosi?



Beh – no, ma potrei aprirne uno adesso.



A quelle parole io e Tim ci ritrovammo a fissarci – occhi negli occhi – finendo per decidere di concedergli il beneficio del dubbio. Per lo meno fu quello che feci io. Tim, in realtà, era chiaramente convinto che Eddie stesse semplicemente sparando un sacco di cavolate. Fu per questo che non si preoccupò più di tanto mentre l’amico si mise a lavoro. Si era praticamente concentrato talmente tutto che aveva finito per ignorarci completamente per quella che era parsa un’eternità.



Visto quanto ci aveva impiegato avevo iniziato a credere, seriamente, che fino a quel momento in realtà si era illuso di poter fare ciò che diceva. Fino a quando Eddi non riuscì a compiere la magia. Mi ritrovai a sgranare gli occhi per la sorpresa quando non vidi una specie di varco gelatinoso di colore viola aprirsi esattamente al centro della stanza. Tim balzò in piedi come scottato, spostando lo sguardo da una parte all’altra della stanza in modo compulsivo.



Non è…



Sussurrò con un filo di voce, prima di venir interrotto da Eddie, sistemato accanto alla sua scrivania – le braccia incrociate al petto, e un sorriso a trentadue denti a illuminargli il volto.



… possibile?



Fu in quel momento che smisi di ascoltare quello che i due ragazzi avevano preso a dirsi. Qualsiasi cosa fosse, al momento, non mi interessava affatto. Tutta la mia concentrazione era rivolta a quel varco, o quello che fosse il suo dannato nome. Cosa ci sarebbe stato dall’altra parte? Se qualcuno di noi, in quel momento, avesse finito per varcarne la soglia, dove sarebbe andato a finire?



In teoria dove dovrebbe condurre questo tunnel?



Lo chiesi ad alta voce, senza neanche rendermene conto.



Beh, bisognerebbe entrarci per scoprirlo.



Ma tu non ci sei mai entrato, giusto?



Eddie aveva finito per scuotere la testa alla mia domanda. Mi ero ritrovata a lanciare un’occhiata in direzione dei due ragazzi, prima di tornare a guardare davanti a me. Mi morsi il labbro inferiore, trattenendo involontariamente il respiro.



E se…



In quel momento mille domande vorticavano nella mia mente a una velocità impressionante. Il mio cuore batteva talmente tanto forte che, se non fossi stata così impegnata a fissare quella macchia viola, avrei avuto paura che potesse schizzarmi fuori da un momento all’altro.



E se...



Quella dannata domanda continuava a tormentarmi. E se attraversato quel tunnel fossi riuscita a tornare indietro? Mi sarebbe bastato tornare indietro di qualche anno, anche solo per dieci minuti. Il tempo necessario per rivederlo un’ultima volta. Una soltanto – me la sarei fatta bastare.



E se lo facessi io per te?



A quella domanda entrambi i ragazzi scattarono sull’attenti. Si lanciarono un’occhiata prima di tornare a guardare nella mia direzione. Tim aveva cambiato espressione improvvisamente, consapevole che non avevo detto quelle parole tanto per dire.



Lenny non credo che sia una buona idea. Non sai che cosa c’è dall’altra parte, e se finissi per perderti?



Tecnicamente, non correrebbe quel tipo di rischio. Non sappiamo dove quel tunnel porta, ma nel tornare indietro tornerebbe esattamente qui. In questo tempo, in questa stanza.



Quindi sarebbe fattibile?



Certo, dovrai solo accertarti di essere esattamente nello stesso punto in cui sei arrivata.



Tutto qui?



Gli avevo chiesto sotto lo sguardo esterrefatto di Tim. Si era portato una mano sulle labbra, prima di afferrarmi per un braccio e trascinarmi in un angolo della stanza, stando ben attento a non sfiorare minimamente quella massa gelatinosa.



Ti ricordi quando meno di un’ora fa mi hai chiesto di fermarti se mai ti fossi ritrovata sul punto di fare qualcosa di stupido? Beh, questo è qualcosa di davvero stupido, Lenny.



Sì, ho un ricordo molto vivido di quel momento. Adesso, però, stiamo parlando di un viaggio nel tempo.



Che oltre a essere stupido e anche estremamente pericoloso?



Correrò il rischio allora.



Certo, come quella volta che hai aiutato Captain America.



Sollevai gli occhi al cielo, esasperata. Quella mezza storia che gli avevo raccontato sapevo che avrebbe finito per tormentarmi per il resto dei miei giorni e, infatti, avevo dannatamente ragione.



Ok, punto primo ho davvero aiutato Captain America per quanto mi è stato possibile. E punto secondo, ho bisogno di farlo. Lo so che non puoi capire e ti ringrazio per esserti preoccupato per me, ma se non lo faccio me ne pentirò per il resto dei miei giorni.



Non avevo mentito. Quella era la pura e semplice verità. Magari quello non era un vero varco temporale e io avrei finito per perdermi, o – peggio – disintegrarmi, ma era un rischio che avrei volentieri corso per cinque minuti di felicità.



Che cosa devo fare?



Prendi quest’orologio, l’ho sincronizzato con il mio. Non appena sarai dall’altra parte il portale si chiuderà, ma non preoccuparti perché tra dieci ore esatte io lo riaprirò. L’unica cosa che tu devi fare è trovati nello stesso punto in cui sei arrivata.



Ok, sembra facile.



Sussurrai sorridendo, improvvisamente nervosa. Afferrai quell’orologio appuntandolo sul polso, cercando di fare respiri profondi. E io che mi ero convinta che le mie follie erano giunte al termine – povera illusa. Feci un passo incerto in direzione di tutto quel viola, prima di bloccarmi.



Quindi tecnicamente dovrei…



… saltarci dentro, sì.



Concluse per me Eddie, dandomi una pacca sulla spalla. Sorrisi appena, prima di voltarmi in direzione di Tim che aveva preso a fissarmi come un cane bastonato. Mi spiaceva dovergli fare quello, ma se mai fossi tornata indietro mi sarei fatta perdonare in qualche modo. Quanto meno avrei avuto dieci ore per pensare bene a come fare.



Se non dovessi tornare, per favore, dì ai miei nonni che gli ho voluto bene.



Oh no, lo farai tu stessa quando sarai tornata tutta intera qui.



Aveva finito per sorridermi, anche se quello aveva finito per somigliare più a una smorfia che ad altro. Annuì con un lieve cenno del capo tornando a guardare davanti a me. Con quello mettevo ufficialmente fine alla promessa che avevo fatto, sapendo che stavo per imbarcarmi in un vero e proprio mare di guai – niente di nuovo, insomma.



Scusa, Buck.



Lo avevo sussurrato con un filo di voce, finendo per saltare dentro l’ignoto.

 

 

 


 


 

***


 

 

 



 

Bisognava ammetterlo, i viaggi nel tempo nei film erano molto più avvincenti di così. Il mio era stato caotico. Sembrava come se fossi stata risucchiata all’interno di un’aspirapolvere per un tempo indefinito. Potevano essere passati cinque minuti, come un’eternità e per me non avrebbe avuto alcuna differenza. Avevo finto per precipitare in un vicolo sudicio – le mani a bloccare la caduta, il volto a pochi centimetri dall’asfalto. Tirai un sospiro di sollievo, quanto meno ero tutta intera il che era un buon segno, no?



Mi sollevai lentamente, ma ciò non impedì a un’ondata di nausea di travolgermi con un violenza tale che dovetti chiudere gli occhi per alcuni secondi. Quando, finalmente, quella sensazione era scemata mi ero convinta a muovermi lanciando un’occhiata a tutto quello che mi circondava. Quella decisamente non era la stanza di Eddie, quindi questo voleva dire che effettivamente aveva funzionato. Per lo meno ero atterrata da qualche parte, dovevo solo capire dove.



Lanciai un’occhiata in direzione del cassonetto, ai suoi piedi vi era un giornale arrotolato. Mi affrettai a raccoglierlo, curiosa di sapere in che anno fossi finita. Trattenni il respiro – senza neanche rendermene conto – per tutto il tempo che impiegai per srotolare quel pezzo di carta. Quando posai lo sguardo sulla data – in cima, a destra – i miei occhi finirono per riempirsi di lacrime.



Merda.



Lo aveva sussurrato a denti stretti, frustrata. Dio – si poteva essere più stupidi di così? Lanciai con violenza il giornale contro il cassonetto, avertendo il rumore sordo di quando qualcosa finiva per terra.



Ero finita nell’anno sbagliato.


















 


 


NdA:

Ciaoooo a tutti. :)

Come promesso eccomi di nuovo qui. Inizio con lo scusarmi per il ritardo, purtroppo non mi è stato proprio possibile pubblicare prima di adesso. Spero, però, di essermi fatta perdonare e cosa più importante che questa storia vi sia piaciuta tanto quanto la prima. Non mi dilungo molto, ma volevo dirvi alcune cose importanti. Prima di tutto, questa storia si compone di soli tre capitoli ma non per questo dovrete disperare, anzi... :) Secondo se qualcuno di voi fosse sfuggita c'è un piccolo intro prima della storia originale che vi consiglio di leggere, se non lo avete ancora fatto. Vi lascio il link: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3440482&i=1. 
Ultima cosa, ma non per questo meno importante: settimana prossima, purtroppo, sarò costretta a pubblicare di venerdì causa esami e probabilmente credo che continuerò a pubblicare ogni venerdì e cercherò di essere il più puntuale possibile, promesso. <3
Detto questo, vi lascio sperando di poter avere qualche vostro parere e vi lascio appuntamento alla prossima settimana. 
Un bacione. 
- LadyBones. 


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Capitolo 2
*** When you met me for the first time ***






1949.

Avevo commesso un errore. Non che fosse la prima volta – ormai doveva essere ben chiaro – ma adesso l’avevo fatta proprio grossa. Ero letteralmente saltata in un vortice temporale, o quello che era. Non mi ero neanche realmente soffermata a pensare a quali sarebbero potute essere le conseguenze della mia decisione. No, avevo semplicemente seguito il mio istinto.
Mi ero lasciata ingannare da quella luce viola che sapeva di speranza. Ecco, era stato proprio quello a finire per mettermi nei pasticci. La speranza di poter rivedere mio padre. Non avevo potuto dirgli addio – quella possibilità mi era stata negata – quindi avevo creduto che non ci sarebbe stato niente di male se avessi fatto una capatina indietro nel tempo.

Volevo solo dirgli che gli volevo bene, un’ultima volta ancora.

Non potevo certo prevedere che, in realtà, sarei finita in un passato dove mio padre non era ancora nato. Era altamente probabile che i miei nonni neanche si conoscessero in quel periodo, figuriamoci l’idea di avere un figlio. Insomma, tutta quella strada per niente e – per quanto fossi rimasta in un angolo a piangermi addosso per quella che mi era parsa un’eternità – mancavano poco o più di nove ore prima che il vortice si riaprisse.

Ero bloccata nel 1949 senza sapere cosa fare o dove andare. Che diavolo aveva di così speciale quell’anno, poi? Potevo finire in qualsiasi arco temporale possibile e, invece, mi era toccato proprio quello. Sospirai rassegnata, sollevandomi lentamente da terra. Se proprio sarei dovuta rimanere lì per tutte quelle ore, tanto valeva scoprire che cosa avesse il ’49 da offrirmi. Avrei solo dovuto ricordarmi esattamente dove ritornare – un vicolo alle spalle di un certo L&L Automat – ma soprattutto trovarmi un paio di abiti adatti. Dubitavo di poter passare inosservata con degli anfibi ai piedi.

Lancia un’occhiata perplessa alle punte leggermente sporche della scarpe, scuotendo la testa. No, in quel modo non avrei potuto farmi vedere. Mi morsi il labbro inferiore – lo facevo sempre quando mi ritrovavo a pensare intensamente a qualcosa – lanciando un’occhiata tutto intorno, quando non intravidi con la coda dell’occhio quelli che dovevano essere panni stessi. Dovevano essere – sì e no – a una decina di metri da dove mi trovavo, lungo la parte interna di quel vicolo. Il che era decisamente un bene, per lo meno nessuno avrebbe fatto attenzione a me.

Mi ci vollero meno di dieci minuti per raggiungere il punto in cui quella stoffa svolazzava, prenderla in prestito – perché dire di averla rubata non suonava poi così bene – e indossarla. Avevo sollevato i capelli sulla nuca improvvisando uno chignon, coprendo quelle ciocche viole o quanto meno provandoci. Avevo adorato quel mio cambio di look, ma non potevo mica prevedere di finire indietro nel tempo dove il massimo della trasgressione era il biondo platino. Appallottolai il resto dei miei vestiti, sistemandoli in un angolo di quel vicolo. Se mai avessi avuto tempo sarei tornata indietro a riprenderli, altrimenti avrei dovuto trovarmi una nuova maglietta preferita.

Ero mezza infilata in quella che era una specie di crepa nel muro, quando non avvertì dei rumori. Mi ero immobilizzata  d’istinto e – scostatami quel po’ che bastava – avevo preso a guardare prima in una direzione e poi nell’altra senza notare nulla di particolarmente sospetto – beh, a parte la mia presenza. Finì per scollare le spalle convinta di essermelo immaginato, d’altronde non mi sarei certo stupita se avessi iniziato a impazzire a mia insaputa. Conoscendomi, sarebbe stata solo una questione di tempo.

Decisi, così, che sarebbe stato il caso di darmi una mossa – di quel passo le lancette avrebbero preso a segnare l’ora X senza che io avessi potuto vedere nulla – e spedita mi avviai in direzione di una di quegli sbocchi sulla strada principale. Fu in quel momento che lo sentì di nuovo – il rumore di qualcuno che si schiantava contro qualcosa. Subito dopo era seguito un lamento prolungato. Questa volta, però, ero certa di non essermelo semplicemente immaginato – non del tutto, quanto meno.

Lanciai un’occhiata in direzione di quello spiraglio di luce a qualche metro da me, e poi lungo il vicolo da cui era arrivata. L’unico punto da cui il rumore sarebbe potuto arrivare era in una di quelle stradine secondarie che aveva superato poco prima. Avrei potuto continuare tranquillamente per la mia strada, ma – insomma – stavamo pure sempre parlando di me che, prima ancora di valutare i pro e contro dell’intera faccenda, avevo finito per catapultarmi in direzione di tutto quel trambusto.

Magari qualcuno aveva bisogno di aiuto, o semplicemente un gatto aveva finito per impigliarsi da qualche parte. Non era per forza detto che mi sarei imbattuta in qualcosa di più grande di me. E anche se fosse stato, non avrebbe potuto certo battere un viaggio nel tempo. Vorrei poter dire di aver avuto ragione, ma sembrava proprio che fossi sotto l’influsso di quel fenomeno scientifico denominato “mai una gioia”.

Avevo sempre avuto dei dubbi a riguardo, ma nel momento in cui vidi quell’uomo correre nella mia direzione brandendo una pistola ne ebbi la conferma. Ero la prova vivente che quel fenomeno non avesse mai fine – non se il tuo nome è Eleanor, hai ventiquattro anni e sei studentessa di psicologia.

Una persona normale, avrebbe finito per spostarsi in una situazione del genere per cercare di evitarsi una pallottola. Io, invece, la mia normalità l’avevo esaurita molto tempo prima e, così, mi ritrovai ad andare in contro a quell’uomo. Riuscì a evitare il colpo solo perché avevo finito per coglierlo di sorpresa. Probabilmente non si aspettava di vedermi partire in quarta come una furia – insomma, neanche io me lo sarei aspettato. Allungai la mano sinistra bloccando la sua – quella che impugnava la pistola – torcendola di lato. Ci avevo messo meno forza di quanto avessi voluto, per lo meno non abbastanza per far cadere a terra quel pezzo di metallo. Fu, così, che caricai un pugno con la mano libra, lasciando che si schiantasse contro il volto dell’uomo. Il rumore che ne era seguito non prometteva nulla di buono, e ringraziai di essere stata io ad assestare quel pugno e non a riceverlo.

Ciò nonostante, l’uomo sembrava non voler proprio mollare l’osso. Sul serio? Insomma, almeno la decenza di cadere per terra e restarci. Invece no, continuava a brandire quella dannata pistola come se fosse una questione di vita di morte e fu così che dovetti riprovarci. Questa volta, però, fui più fortunata. Mi bastò dare un colpo più deciso al suo braccio per riuscire nel mio tento. Un attimo più tardi, riuscì finalmente a vederlo stramazzare a terra dopo altri colpi ben assestati.

Fu in quell’esatto momento che mi ritrovai a ringraziare Bucky e le sue lezioni. Non ero mai riuscita a fare qualcosa del genere, solitamente ero io che avevo la peggio. Certo, il tizio che ero riuscita a mettere al tappeto doveva essere la metà di quello viscido omone dell’Hydra che avevo dovuto affrontare qualche mese addietro, ma questo non significava nulla. Fu proprio quando ripensai a quell’evento che mi accorsi di qualcosa spuntare fuori dalla giacca dell’uomo stramazzato al suolo. Corrugai la fronte cercando di vedere meglio, quando non udì la voce di una donna raggiungermi trafelata.

Tu devi essere i rinforzi che stavamo aspettando.

Quell’accento mi sembra così familiare e non potei fare a meno di sollevare lo sguardo incuriosita, dimenticandomi dell’oggetto riverso per terra. Al momento quella donna e, soprattutto, le sue parole erano più importanti. Quando mi ritrovai a fissare il suo volto sorridente – occhi nocciola, boccoli a incorniciarle il volto e il rossetto rosso ciliegia – mi ritrovai a trattenere il respiro. Sgranai gli occhi non riuscendo a credere a quello che avevo appena visto. Dopotutto, forse, non era poi così male quel 1949.

Peggy?
 
 
 
***
 
 
 
Ricordo come se fosse ieri, la prima volta che avevo incontrato Peggy Carter. Ero poco più che una bambina ed era il giorno del mio compleanno. Mio padre mi aveva trascinato allo Smithsonian promettendomi un regalo. All’inizio ero stata terrorizzata dall’idea che si sarebbe trattato di un dinosauro – quei cosi giganti mi avevano sempre terrorizzato.

Poi, però, mi ero ritrovata davanti alla replica dello scudo di Captain America. Una gentile signora mi aveva permesso di reggerlo tra le mani – più che altro era stato lo scudo a reggere me, enorme com’era. Quella stessa donna – molto più giovane di quanto lo fosse allora – mi stava facendo strada tra gli uffici dell’SSR. L’agenzia che aveva dato vita a Captain America stesso e da cui, in seguito, sarebbe nato lo S.H.I.E.L.D..

Vorrei poter dire di aver prestato particolarmente attenzione a quello che Peggy stava cercando di dirmi, ma la realtà era che ero troppo eccitata al momento. Il mio sguardo non faceva che rimbalzare da una parte all’altra di quel posto, cercando di imprimere nella mia mente quante più immagini possibili. D’accordo, forse finire nell’anno sbagliato non era stato un fiasco totale, dopotutto.

E lui, invece, è il capo della nostra divisione: Jack Thompson. Lei è l’agente Beckett.

Aveva terminato Peggy e io, in tutta risposta, avevo finito per riscuotermi appena in tempo. Già, mi ero dimenticata di quel piccolo dettaglio. Sembrava proprio che, durante la colluttazione di poco prima, c’era stato un piccolo malinteso. Dovevo essere migliorata parecchio nell’ultimo periodo dal punto di vista della lotta corpo a corpo, perché avevano finito per scambiarmi per un agente altamente addestrato.

Dio – la vita, alle volte, aveva uno strano senso dell’umorismo. Ero dovuta tornare indietro nel tempo per riuscire a realizzare il mio sogno, sebbene non esattamente come me lo ero immaginato. Mi sarei comunque accontentata, sempre ammesso che mi sarei ricordata il nome dell’agente che avrei dovuto personificare.

Sapevo che non era propriamente corretto – da furto di abiti ero passata a furto di identità, il tutto in meno di mezz’ora. Al momento, però, mi era un po’ complicato fare marcia indietro. Per non parlare del fatto che, se avessi rivelato la mia identità avrei poi dovuto ammettere di provenire dal futuro. Ecco, ora, non avevo ben chiaro quali fossero le regole per i viaggiatori del tempo, ma se c’era una cosa che avevo imparato dai film era di non incasinare la linea temporale.

La stavamo aspettando, spero che L.A. non sentirà troppo la sua mancanza.

Aveva sussurrato Thompson con un sorriso a trentadue denti, attirandosi un’occhiataccia da parte di Peggy. Mi ritrovai a sorridere a mia volta, ricambiando la sua stretta di mano.

Mi auguro di no.

Gli risposi, prima di vederlo farmi strada in quello che doveva essere il suo ufficio. Fu, così, che riuscì a racimolare abbastanza informazioni e farmi un’idea di quello che stava succedendo. L’uomo nel vicolo militava nell’Hydra, o per lo meno così era parso. Io, o meglio l’agente Beckett, ero stata inviata a New York come supporto al loro team. Sembrava che qualcuno all’interno dell’SSR fosse stato compromesso proprio dall’Hydra. La cosa non mi sorprese affatto.

Avevo appena visto lo S.H.I.E.L.D. implodere proprio a causa loro, per non contare quello che avevano fatto a Bucky. Ricordarmi quel nome fu un po’ come ricevere un pugno allo stomaco. Probabilmente quello fu il primo di una lunga serie di errori che avrebbero potuto mettere a serio rischio la linea temporale, ma non potevo fare altrimenti. Non potevo voltare le spalle a quelle persone, poco importava se fossero perfetti sconosciuti. Beh, Peggy di fatto non lo era e se avessi potuto esserle utile lo avrei fatto.

Contate pure su di me. Farò tutto quello che posso per aiutarvi.

Pronunciai quelle parole con una sicurezza che non mi apparteneva. Dovevo essere impazzita del tutto, ma quella probabilmente sarebbe stata l’unica volta in cui avrei potuto fare esattamente quello che avevo sempre voluto.

Perfetto. Adesso, però, credo proprio che sia l’ora di andare. Marion verrà con me, le spiegherò tutto strada facendo.

Sentì Peggy parlare e mi ritrovai ad annuire senza neanche riflettere. Quando lo feci – giusto un secondo più tardi – mi resi conto che Marion, tecnicamente, ero io. Balzai, così, in piedi come se avessi appena preso la scossa e mi diedi mentalmente della stupida. Non c’era niente da fare, certe volte proprio non ce la facevo.

“Dove staremmo andando?”

Chiesi non appena fuori dall’ufficio, senza smettere di seguirla neanche per un secondo.

Howard ha organizzato una festa. Tecnicamente per noi si tratterà di lavoro, saranno presenti molti membri dell’SSR e per noi sarà molto più facile raccogliere informazioni.

Howard… come Howard Stark?

L’unico e il solo.

Mi rispose sarcastica mentre uscivamo dall’ascensore, e subito dopo in strada. Dovetti fare affidamento a tutto il mio autocontrollo per non ritrovarmi con la mascella spalancata. Avrei incontrato la persona che aveva dato vita alla Stark Industries ma, cosa molto più importante, a quel gran fig… a Tony, sì Tony.

Per l’amor di Dio, Lenny cerca di non distrarti con commenti inutili – pensai. E fu proprio in quel momento che realizzai la cosa più ovvia, quella a cui avrei dovuto pensare immediatamente.

Non ho un vestito per una festa.

Sussurrai arrestandomi a qualche passo da Peggy che – voltatasi verso di me – sorrise dolcemente.

Non credo che ci saranno problemi a riguardo.

E così dicendo si avviò spedita in direzione di un’auto parcheggiata sul ciglio della strada. Dal suo interno finì per sbucare un uomo a modo, con tanto di completo.

Mr. Jarvis le presento l’agente Beckett, ci aiuterà nel caso.

Oh è un piacere conoscerla signorina, la stavamo aspettando. Prego.

Lo vidi aprire lo sportello posteriore di quell’auto e fammi gentilmente cenno di entrare. Gli sorrisi e, ringraziatolo, salì all’interno dell’abitacolo. Sembravo un tipo abbastanza strano, ma in senso buono. E, poi, quel nome ero certa di averlo sentito da qualche altra parte, ma non sapevo proprio dire dove con certezza.
 
 
 
***
 
 
 
Avevo praticamente atteso tutta la vita il momento in cui avrei potuto finalmente essere un agente e, adesso, me la stavo facendo letteralmente sotto. E lo so, lo so che non è carino da dire, ma quella era la verità. Ero completamente terrorizzata non solo perché stavo fingendo di essere qualcun altro in un’epoca a cui non appartenevo, ma anche perchè stavo facendo tutto quello per aiutare Peggy.

Non una persona qualunque, ma Peggy Carter – la donna che era praticamente diventata il mio modello. Non volevo deluderla in nessun modo possibile. Se lo avessi fatto, probabilmente non sarei mai più riuscita a perdonarmi.

Oh sì, e poi c’era questa piccola festicciola a cui avevo finito per imbucarmi. Avevo persino indossato un abito nero elegante, giusto per l’occasione. L’ultima volta che si era verificato un evento del genere avevo cinque anni, ma chi è che ci sta a pensare.

Visto e considerato che il mio livello di isteria non aveva ancora raggiunti picchi allarmanti, avevo finito per incrociare – finalmente – questo fantomatico Howard. D’accordo, nella famiglia Stark doveva esserci un qualche gene particolare perché – porca miseria – avevano il loro dannato fascino.

Fu proprio nel momento in cui stavo per mandare giù un sorso di champagne che vidi Howard avvicinarsi nella mia direzione. Inutile dire che rischiai di farmi andar storto quello che avevo appena bevuto.

Tu devi essere Marion.

Aveva sussurrato inarcando un angolo delle labbra all’insù in un sorriso malandrino e, ormai abbastanza vicino, finì per afferrare la mia mano e posarvi sopra un bacio. D’accordo, non ero mai stata un tipo che si faceva infinocchiare con questo tipo di smancerie, ma quella volta finì per vacillare appena. Avrei potuto sempre dare la colpa allo champagne e, poi, onestamente avrei voluto vedere chiunque altra donna al mio posto. Nonostante tutto, era stata abbastanza stoica.

In persona. Lei, invece, non ha bisogno di presentazioni.

Oh, per favore, chiamami Howard.

Mi auguro che tu non ti sia già fatto riconoscere.

Lo aveva ammonito Peggy comparendo improvvisamente al mio fianco. Lui si ritrovò a sollevare gli occhi al cielo, non senza lasciarci sfuggire un sorriso.

Andiamo Pegs, stavo solo cercando di fare conoscenza.

Non ne dubito. Adesso, però, sarà il caso di darci una mossa. Cosa sei riuscito a scoprire?

Non molto, ma vedrò di fare in modo di lasciar circolare molto più alcol.

Aveva sussurrato Howard facendoci l’occhiolino, prima di defilarsi tra la folla. Mi ritrovai a sorridere continuando a seguirlo con lo sguardo, quando la mia attenzione non fu attirata nuovamente dalla donna al mio fianco.

Credo che sia il caso che ci dividiamo, copriremo molto più terreno in questo modo. Io darò un’occhiata qui. Mr. Jarvis è in giardino a servire quelle che credo siano tortine, tu puoi andare al piano di sopra. Ci ritroviamo qui tra una decina di minuti.

Mi aveva sussurrato sorridendo. Io non avevo potuto fare altro che annuire semplicemente, troppo presa a osservare lei che si muoveva e parlava con una disinvoltura e una sicurezza che le invidiavo. Aveva un modo di fare che non avevo visto in nessuna donna prima di allora. Non che avessi avuto poi tutti questi modelli femminili nella mia vita, mia mamma era morta troppo presto e mia nonna, beh, lei era una forza della natura e le volevo bene, ma Peggy continuava ad avere quel qualcosa in più.

Restai a fissarla per qualche secondo, fino a quando il flash di una macchina fotografica non finì per riportarmi con i piedi per terra. Dovetti sbattere le palpebre un paio di volte, prima di tornare a mettere a fuoco quello che mi circondava e senza perdere altro tempo mi avviai al piano di sopra. Quei corridoi erano semi vuoti, a eccezione di quelle poche persone che di tanto intanto si dirigevano in direzione del bagno, o che ve ne uscivano. Incrociai un uomo di mezz’età – occhialuto – e mi ritrovai a ricambiare il suo cenno del capo con un lieve sorriso.

Presi a camminare lentamente lungo quei corridoi, quando non mi accorsi di una porta semi socchiusa. Al di là di essa vi era una stanza adibita a studio, ma al suo interno non vi era nessuno. Lanciai un’occhiata intorno prima di scivolare al suo interno. Niente, proprio non ce l’avrei fatta a farmi i fatti miei. Non era poi così politicamente corretto entrare di soppiatto in quel modo, ne ero pienamente consapevole ma non ero riuscita a farne a meno. Alla fin dei conti non stavo facendo nulla di male, avevo solo dato un’occhiata ad alcuni libri e a qualche oggetto sparso qua e là senza toccare veramente nulla. Se solo lo avessi fatto c’era un’alta probabilità che avrei finito per distruggere mezzo studio, e non mi pareva proprio il caso. Mi ero avvicinata un po’ di più per osservare una foto posata sulla mensola del camino, quando non udì una voce maschile provenire dal corridoi, subito dopo seguita da una più giovane. Corrugai la fronte e – incuriosita – mi avvicinai in punta di piedi. Mi sistemai dietro l’anta della porta rimasta semichiusa – l’orecchio premuto contro il legno e il respiro rallentato. In quella posizione non sarei riuscita a vedere i volti di quei due uomini – non senza farmi scoprire a origliare – ma per lo meno avrei sentito di cosa stavano parlando. Non che avesse poi molto senso quello che stavano dicendo, non per me quanto meno.

Parlavano di una cella, al cui interno sembrava esserci qualcuno molto importante per loro. Non avevano mai pronunciato il suo nome, ma doveva essere una qualche sorta di scienziato perché sembrava che servisse loro per portare a termine un esperimento. Quale fosse non mi era dato saperlo. Corrugai la fronte cercando di evitare qualsiasi rumore, e per poco non divenni un tutt’uno con l’anta di quella porta.

Farlo uscire da lì non sarà un problema, il governo ha bisogno di scienziati da sfruttare e noi ne trarremo vantaggio. Sarà una vittoria per tutti.

D’accordo, ma cosa facciamo nel frattempo? Abbiamo seguito ogni singolo passaggio che ci era stato indicato.

Continuato a tenerlo sotto ibernazione…

Fu quell’unica parola – posta al posto giusto, al momento giusto – a farmi collegare tutti i pezzi al proprio posto. Sussultai, e dovetti portarmi una mano alla bocca per impedirmi di fare rumore. Stavano parlando di Bucky, era lui l’esperimento non vi era alcun dubbio. Il periodo coincideva e non mi risultava difficile capire a quale scienziato si stessero riferendo. Un senso di nausea finì per assalirmi con talmente tanta forza che dovetti chiudere gli occhi, e fare respiri profondi. Quando tutto quel subbuglio di emozioni sembrò calmarsi appena, strinsi la mano intorno al pomello pronta a uscire da lì e fare qualcosa. Qualsiasi cosa.

Non ne ebbi il tempo. Dei rumori provenire da qualche parte di quel corridoio finirono per spaventare i due uomini che velocemente si defilarono. Uscì da lì immediatamente pronta a seguirli, o quanto meno riuscire a capire chi diavolo fossero. Fu in quel momento che vidi Peggy venire dritta verso di me, dietro di lei Mr. Jarvis e un uomo che ero certa di non aver visto prima – camminava appoggiato a una stampella. Tirai un sospiro di sollievo avvicinandomi nella loro direzione.

Grazie a Dio siete qui. Credo di sapere…

Non ebbi il tempo di terminare la frase che un pugno mi colpi in piena faccia. Barcollai all’indietro prima di piegarmi appena, una mano sul punto colpito. Sgranai gli occhi guardando Peggy sorpresa. Ma che diavolo era appena successo?

Chi diavolo sei?

A quella domanda tutto aveva più senso e, sì, me lo ero decisamente meritato. Feci un passo indietro sollevando istintivamente le mani in aria, in segno di resa. Non avevo intenzione certo di mettermi contro Peggy, non più di quanto non avessi già fatto. E, cavolo, se picchiava duro. Quel livido mi sarebbe rimasto per giorni, ci avrei giurato ma alla fine me l’ero andata a cercare.

Marion Beckett è uno dei miei agenti, e decisamente non somiglia a te.

A parlare era stato l’uomo dai capelli scuri, stampella alla mano. E adesso? Per la miseria Lenny, ci fosse una volta che non ti cacci in qualche guaio – pensai, sollevando gli occhi al cielo.

Posso spiegare tutto.








 
NdA:
Ciao a tutti. :)
Eccoci qui con il nuovo capitolo in cui, finalmente, si scopre dove è andata a finire Eleanor. Sicuramente qualcuna di voi si era fatta un'idea riguardo l'anno in cui era stata catapultata Lenny e qualcuna si era avvicinata, ma non troppo. Ebbene sì, l'anno in questione è proprio il 1949. Data che non è stata scelta a caso, in raltà. Nel prossimo capitolo scoprirete che cosa è successo nel '49, nel frattempo sentitevi libere di fare tutte le ipotesi che preferite e se vi fa piacere fatemelo sapere. Spero proprio che la storia vi stia continuango a piacere e che continuerete a seguirla, nonostante le mille disavventure di Eleanor - quella ragazza ha bisogno di un miracolo. xD In ogni caso, volevo solo dirvi che, a parte Peggy e Howard, non so che cosa ne sarà degli altri nel 1949 e dubito che mai lo sapremo. Mi piace ancora il cuore all'idea che Agent Carter sia stata cancellato, ma ciò nonostante mi piaceva avere alcuni degli altri personaggi in questa storia così mi sono permessa di prendermi qualche licenza. A essere onesta credo che ormai di licenze me ne sia prese fin troppe, ma serviva per collegare tutti i punti insieme. Spero solo di aver fatto un buon lavoro. 

Un bacione e a presto, 
- LadyBones. 

 

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Capitolo 3
*** When we said goodbye ***






Quando avevo avuto la brillante idea di testare un varco spazio – temporale non avevo tenuto conto di alcuni possibili effetti collaterali. Primo fra tutti, finire nell’anno sbagliato. Si poteva tranquillamente dire che quell’errore aveva finito per causare una reazione a catena che mi aveva condotta esattamente dove mi trovavo in quel momento – seduta su una sedia abbastanza scomoda, in una stanza spoglia.

Era il 1949 e di mio padre non vi era ancora traccia. Mi ero imbattuta, però, in Peggy Carter – la persona per cui provavo una forte ammirazione da tempi immemori, ormai. Per un puro caso fortuito, avevo finito per essere scambiata per un agente dell’SSR. Un agente altamente addestrato – ci tengo a precisare questo dettaglio. Avevo persino partecipato a una delle famose feste degli Stark, fino a che tutto non era precipitato.

A dire il vero la cosa non mi aveva sorpresa più di tanto, era solo una questione di tempo. Insomma, non si era mai visto che io riuscissi a uscirne indenne anche solo per una volta. Il livido che mi ricopriva metà volto ne era la prova concreta. Quello, più il fatto di ritrovarmi ammanettata all’interno della sala interrogatori dell’SSR.

Ora, avevo sempre voluto provare l’ebbrezza di visitare una stanza del genere, ma generalmente nelle mie fantasie io non ero mai quella ammanettata. A quanto sembrava, però, c’era una prima volta per tutto. Inutile dire che mi diedi dell’idiota almeno una decina di volta, prima di vedere la porta spalancarsi e Peggy fare il suo ingresso.

Abbiamo controllato il nome che ci hai fornito, ma di te non c’è alcuna traccia.

Ecco, era arrivato il momento della verità. Avevo cercato di tirare per le lunghe la cosa, ma non era servito poi a molto. Avevo persino fornito il mio nome e cognome, evitando accuratamente di menzionare la data di nascita. Adesso, però, non avevo più molta scelta. Meglio, una scelta c’era ed era decidere se finire rinchiusa in una cella chissà dove o mettere a rischio la linea temporale. Non ero neanche certa che quello fosse un rischio vero e proprio. Dannazione, avrei dovuto chiedere a Eddie prima di lanciarmi a capofitto in quel varco, ma non l’avevo fatto quindi dovevo affidarmi al mio buon senso. Dio – non avrei mai potuto immaginare di arrivare a dire una cosa del genere, dovevo essere seriamente disperata.

Non ho mai detto che avreste trovato qualcosa…

Lo sussurrai con un filo di voce, ma mi resi conto con un minuto di ritardo che quella era stata un’uscita davvero infelice da parte mia. Lo avevo capito nel momento esatto in cui avevo sentito Peggy parlare nuovamente.

E’ solo una questione di tempo risalire al tuo nome, ma non è questo quello che mi interessa realmente. Sappiamo che sei stata mandata per monitorare i nostri movimenti dall’interno, vogliamo sapere da chi.

Aveva pronunciato quelle parole con un tono freddo. Io ero rimasta ad ascoltarla non riuscendo a impedirmi di sgranare gli occhi per la sorpresa. Pensava fossi una spia, o quanto meno qualcuno mandato lì per stanare i loro movimenti. Quello era un insulto bello e buono. Insomma, non che non comprendessi il motivo di tutte quelle insinuazione, ma credere che sarei davvero riuscita a fare una cosa del genere o, peggio, associarmi con le persone che avevano fatto tutto quello era una follia.

Il mio nome è Eleanor Cooper, sono nata a New York il 13 Maggio 1990. Non sono una spia, ma soprattutto non sono un membro dell’Hydra… se è quello che stavi pensando.

La vidi sollevare un sopracciglio osservandomi incuriosita. Non so cosa avesse fatto più effetto, se la mia data di nascita o il fatto che avessi pronunciato il nome di quell’organizzazione con così tanta disinvoltura.

1990? E cosa ti fa pensare che sarei disposta a credere a una cosa del genere?

Stark.

L’avevo vista sollevare un sopracciglio in segno di disappunto non appena aveva sentito pronunciarmi quel nome.

Dubito che qualcun altro saprebbe di cosa stia parlando se non lui, senza offesa.

Mi ero affettata a rispondere, non riuscendo a impedirmi di deglutire un po’ troppo rumorosamente. Dio – e io che pensavo che Fury fosse il peggio che potesse capitarmi. Sollevai gli occhi al cielo prima di vedere Peggy allontanarsi dalla stanza e lasciarmi nuovamente sola. Di quel passo, probabilmente, mi sarebbe toccato pregare in un miracolo perché non riuscivo proprio a vedere una via d’uscita. Come si poteva essere più stupidi di così? Se fossi riuscita a fare ritorno a casa mi ci sarei chiusa dentro e avrei gettato la chiave da qualche parte, giusto per non correre il rischio di imbattermi in qualche altro “imprevisto”, se così volevamo chiamarlo.

Quindici minuti più tardi – quando ormai avevo perso del tutto le speranze – vidi la porta in legno spalancarsi nuovamente. Istintivamente rizzai la schiena – sulle spine – vedendo Peggy fare nuovamente il suo ingresso, ma questa volta in compagnia di Howard Stark. Non si era ancora disfatto dello smoking e stava da Dio. E lo so, lo so quello era l’ultimo dei pensieri che potessi avere, ma quanto meno la fine della mia esistenza sarebbe stata accompagnata da una bella visione. Insomma, bisognava pur sempre guardare il lato positivo della cosa.

Peggy mi ha riferito che volevi parlarmi.

Lanciai un’occhiata in direzione della donna. Erano rimasti tutti e due in piedi davanti a me, il tavolo a dividerci. Peggy poggiò una mano sul legno portandosi l’altra sul fianco, mentre Stark aveva incrociato le braccia.

Perché non dici a Howard quello che hai detto a me?

Avevo annuito con un lieve sorriso che sapeva di amaro. Non gli aveva detto nulla, aveva aspettato che fossi io a sganciare la bomba, di nuovo.

Il mio nome è Eleanor Cooper e sono nata a New York, il 13 Maggio del 1990.

A quelle parole Howard aveva finito per sgranare gli occhi lasciando cadere le braccia lungo i fianchi, improvvisamente incuriosito da quello che avevo appena detto. Se era la metà di quello che si diceva essere Tony, allora gli avevo appena servito il tutto su un piatto d’argento.

Non è possibile…come…

Un amico di un amico…

Avevo iniziato a parlare notando l’espressione di entrambi osservarmi perplessi. Sollevai gli occhi al cielo, cercando di dare un senso a tutto quello che avevo nella mia testa perché era chiaro che avessi iniziato con il piede sbagliato anche con quella spiegazione. Di cosa mi meravigliavo, poi? Insomma, dovevo farmi riconoscere sempre e comunque.

D’accordo, sicuramente non il miglior intro di tutti i tempi.
Sussurrai mordendomi con forza il labbro.

Peggy ed Howard erano rimasti in attesa, ma sapevo che non potevo certo tirare la corda ancora per molto, così, tirai un respiro profondo – chiusi gli occhi per un attimo – e presi a parlare.

Sono una studentessa di psicologia, non ho niente a che fare con tutte quelle robe scientifiche con cui a che fare lei signor Stark. Eddie, al contrario, studia fisica – è un amico di un mio compagno di corso. L’ho conosciuto mentre, durante a una festa, era intento a portare a termine un progetto a cui lavora da molto tempo: i vachi temporali. Lui li ha chiamati worm…

Wormholes… vai avanti.

Howard finì per sovrapporsi alla mia voce e, devo ammetterlo, in quel momento una parte di me finì per rilassarsi. Mi ritrovai ad annuire, così, ripresi a parlare un po’ più fiduciosa di quanto non lo fossi stata fino a quel momento.

Diceva di essere in grado di aprire uno di questi varchi in grado di collegare un punto dello stesso universo, ma in tempi differenti. Lo ha chiamato varco intra qualcosa. Credevamo che stesse semplicemente scherzando, ma non era così. È riuscito ad aprire un varco nella sua camera.

Com’era fatto?

Stark finì per interrompermi – ancora – incredibilmente interessato a quanto gli stavo dicendo.

Era una specie di buco i cui contorni non smettevano di oscillare. Sembrava essere fatto di gelatina… gelatina viola.

E tu ci sei entrata dentro? chiese Peggy che era rimasta in silenzio per tutto il tempo.

Eddie non ne aveva mai attraversato uno, così mi sono proposta di farlo io per lui. Mi ha detto che non sapeva dirmi dove sarei finita, ma dieci ore esatte dopo la mia partenza  avrebbe aperto un altro varco. Avrei solo dovuto trovarmi nello stesso punto del mio arrivo, mi bastava guardare quest’orologio… sussurrai sollevando il braccio.

Fu in quel momento che notai la crepa sul quadrante e i miei occhi finirono per sgranarsi per la sorpresa.

Oh no, no, no, no… si è rotto. Dio, no ti prego no.

Lo sussurrai con un filo di voce, il cuore che batteva a mille e gli occhi avevano finito per riempirsi di lacrime. Doveva essersi rotto durante la mia colluttazione con Peggy perché ero certa che fosse ancora intatto durante la festa. Probabilmente, quello era il momento in cui avevo finito per realizzare quanto stupido fosse ciò che avevo appena fatto. Mi morsi il labbro con forza cercando di trattenere le lacrime.

Forse non sono la persona più affidabile per dirlo, ma non credo che lei stia mentendo Peggy. Non sulla parte scientifica quanto meno…

Perché diavolo qualcuno dovrebbe imbarcarsi in una missione suicida come questa se non avesse un doppio fine? chiese Peggy in tutta risposta.

Avvertii una lacrima sfuggire al mio controllo e mi diedi della stupida per non essere riuscita a mantenere il controllo, ma tutto quello era semplicemente troppo.

Mi spiace, dico sul serio. Non era mia intenzione di piombare qui e rovinarvi l’esistenza, mandando a rotoli persino il vostro lavoro. Non ho pensato alle conseguenze quando sono saltata in quel varco. Non l’ho fatto, ma avrei dovuto. Non so neanche per quale diavolo di motivo mi sono ritrovata qui, volevo solo…

Mi ero bloccata abbassando lo sguardo per evitare quello delle altre due persone nella stanza. Ero stata davvero una folle a credere di poter andare indietro nel tempo e non pagarne le conseguenze. Sapevo che loro due mi avrebbero odiato e non avrei certo potuto biasimarli, avevo praticamente mandato all’aria la loro operazione.

Cosa volevi? chiese Peggy sedendosi esattamente davanti a me.

Sollevai appena lo sguardo, gli occhi che pizzicavano mentre si posavano in quelli della donna che mi era davanti.

Volevo solo rivedere mio padre. L’ultimo ricordo che ho di lui risale alla mattina in cui è partito per una nuova missione. Io ero troppo stanca per tenere gli occhi aperti. Ricordo che mi ha baciato la fronte e che ho mormorato qualcosa, ma so per certo di non avergli detto di volergli bene. Non l’ho fatto, perché ho preferito dormire. Ero stanca, ma tanto lui sarebbe tornato come faceva sempre e avrei potuto dirglielo allora. Non è mai tornato… volevo solo dirgli che gli volevo bene, solo questo.

Tirai un respiro profondo, riempiendomi i polmoni di così tanto ossigeno che li sentii bruciare. Riuscivo ad avvertire le guance bagnate, ma non avevo potuto impedire alle lacrime di scivolare via mentre parlavo. Mi ero appena resa conto che non avevo mai detto a nessuno quelle cose. Nessuno.

Voi non avreste fatto lo stesso?

Lo chiesi con un filo di voce, spostando lo sguardo dall’uno all’altra un paio di volte fino a quando i miei occhi non si fermarono su Peggy.

Se avessi avuto la mia stessa possibilità, non avresti semplicemente tentato? Neanche per Steve?

Il mio era stato un sussurro, ma non così debole da non essere sentito da entrambi. Probabilmente, pronunciare quel nome era stata una mossa azzardata perché Peggy aveva finito per irrigidirsi istintivamente. La vidi scambiare uno sguardo con Howard e, in quel momento, capì che le possibilità di andarmene da lì erano davvero poche. Fu nel momento in cui avevo perso anche il mio ultimo briciolo di speranza che avvertì il metallo intorno ai miei polsi allentarsi. Sollevai lo sguardo verso di loro non riuscendo realmente a capire cosa fosse appena successo.

Sentì le dita di Howard posarsi sul mio orologio e, sganciatolo, finì per sfilarlo via. Lo osservai corrugando la fronte perplessa.

Ricordi più o meno quanto tempo è passato da quando sei arrivata qui?

Ahm… circa otto ore, credo.

Vuol dire che abbiamo sì e no due ore per ripararlo e aiutarti a tornare indietro. finì Peggy per lui.

Sgranai gli occhi per la sorpresa. D’accordo, dovevo essermi persa qualche passaggio perché altrimenti non riuscivo proprio a spiegarmi che cosa fosse appena successo. Insomma, un attimo prima mi accusavano di essere una spia – per ovvie ragioni, certo – e l’attimo dopo volevano aiutarmi? Non che la cosa non mi rendesse estremamente felice, ma non potevo certo credere che fosse tutto così semplice. L’ultima volta che mi ero illusa in quel modo avevo finito per prenderle di santa ragione, nel vero senso della parola. Se mi sforzavo riuscivo quasi a ricordare tutto il dolore che provai prima, durante e dopo la mia prima e ultima missione.

Non per rovinare il momento, insomma è davvero fantastico che voi abbiate deciso di aiutarmi ma… perché?

Lo chiesi sinceramente incuriosita anche se quello poteva significare darmi la zappa sui piedi da sola, non che la cosa mi avrebbe sorpresa più di tanto – sia chiaro.

Perché, per quanto folle possa sembrare, sarei tornata indietro anche io.

Puntai i miei occhi su Peggy e in quel momento capì. La donna che avevo di fronte era ancora perdutamente innamorata dell’uomo a stelle e strisce che aveva finito per dare la sua vita per il paese. Le storie che avevo ascoltato, non erano semplicemente storie e quel museo che si era ritrovata a costruire era il suo modo per mantenere vivo il ricordo di qualcuno che non c’era più, ma che lei non aveva mai dimenticato. A quel pensiero avvertii una stretta al cuore e un dolore alla bocca dello stomaco. Oh se solo avesse potuto sapere che Steve era ancora vivo, da qualche parte. Se solo avesse potuto sapere che, nel mio tempo, lui era tornato e non l’aveva dimenticata. Se solo avesse potuto.

Dovetti fare affidamento a tutte le mie forze per non lasciarmi sfuggire altre lacrime, o peggio, dirle la verità. Distolsi lo sguardo per un attimo, respirando a fondo, prima di aprire bocca.

Prima alla festa, ero nella libreria quando ho sentito due uomini parlare. Non saprei dirvi chi fossero, ma stavano parlando riguardo a un qualche progetto fino a che non hanno sentito dei rumori e si sono allontanati. Avevate ragione, qualcuno di voi è associato con l’Hydra… vorrei poter dirvi di più, ma non sono riuscita a sentire altro.

Avevo mentito e una parte di me si sentiva incredibilmente in colpa, ma non avrei potuto fare altrimenti. Non senza sapere quali sarebbero potute essere le conseguenze. E – ne ero certa – di conseguenze da affrontare ce ne sarebbero state, ammesso e consesso che fossi riuscita a tornare a casa.
 
 

***

 
 
Erano passati una decina di minuti da quando avevamo lasciato l’SSR e io ero, ovviamente, ancora bloccata nel 1949. Howard si era offerto di riparare il mio orologio, ma si era impuntato sul fatto che avrebbe lavorato nel suo laboratorio e non in quel minuscolo sgabuzzino di cui l’SSR disponeva. Non avevo personalmente controllato le dimensioni della suddetta stanza, ma qualcosa mi diceva che aveva un tantino esagerato. Peggy, però, si era ritrovata ad accontentarlo più che altro per non sentirlo blaterare a vuoto e io, da parte mia, non mi ero azzardata a obiettare. Fino a quando fosse stato in grado di riparare l’orologio non mi sarei certo lamentata.

Fu, così, che ci ritrovammo su una stradina sterrata e poi in quello che sembrava un campo militare in disuso. Mi guardai intorno leggermente perplessa, ma ancora una volta decisi di tacere per un bene più ampio: ritornare a casa. Li seguì in religioso silenzio al fianco di Mr. Jarvis che sembrava proprio non volersi allontanare da quei due neanche per due secondi. In effetti, mi aveva sorpresa il fatto di non essermelo ritrovato anche nella sala interrogatori. Non che la cosa mi sarebbe dispiaciuta, quell’uomo mi ispirava simpatia.

Corse in direzione della porta a qualche metro da noi, aprendola e facendoci passare uno a uno. Mi ritrovai a rabbrividire non appena misi piede all’interno di quella struttura immersa nel buio. Quando Jarvis accese la luce attraverso un interruttore posizionato alla nostra sinistra, dovetti sbattere un paio di volte le palpebre per abituarmi a tutta quella luce. Nel momento in cui misi bene a fuoco ciò che avevo davanti mi ritrovai a trattenere il respiro. Lasciai scivolare lo sguardo da una parte all’altra di quella struttura incredibilmente grande. Strizzai gli occhi per bene, come per accertarmi che quello non fosse un semplice sogno.

Feci un passo avanti, in direzione di una delle quattro pareti su cui era stata dipinta un’aquila e il mio cuore smise di battere per un attimo.

Questo è lo Strategic…

Aveva preso a parlare – incredibilmente orgoglioso – Howard fino a quando io non mi ero ritrovata a bloccarlo.

… Shield.

Lo avevo detto con un sussurro non riuscendo a credere a quello che avevo davanti agli occhi. Lentamente presi a muovermi in direzione di quell’aquila bianca, lasciando che le mie dita – una volta vicina – toccassero i suoi contorni. Dio, come ero potuta essere così stupida e non rendermene conto prima? 1949, anno di nascita dello Shield.

Shield? Sì credo che possa andare anche così. mi fece eco Howard.

Probabilmente la trovata del nome doveva essere sua, o quanto meno doveva andarne particolarmente fiero perché era rimasto a rimuginare su quello che avevo detto un po’ più del dovuto.

Ero così frustrata per non essere riuscita a rivedere mio padre che non avevo capito.

Sussurrai fra me e me più che altro, ma le mie parole avevano attirato l’attenzione degli altri presenti che – voltatami – me li ritrovai a fissarmi incuriositi.

Voi… mio… io… cavolo! Mio padre lavorava per la vostra organizzazione, era durante una vostra missione che… lo avevo detto tutto d’un fiato rendendomi conto che non era esattamente quello che avrei voluto dire.

Mi dispiace, non credevamo che…

Prese a parlare Peggy, ma la fermai prima che potesse continuare. Per la miseria, avrei dovuto seriamente migliorare il mio modo di esprimermi.

No no, non volevo dire che voi… insomma, voi cambierete il mondo. Magari non sarà perfetto, ma lo renderete un posto migliore. Mio padre credeva in quello che faceva, credeva nello Shield e anche io. Per tutta la mia vita non ho voluto essere altro che una di voi e, per cinque minuti, questa sera mi è stato possibile. E mi spiace di aver rovinato tutto alla festa, ma quello è stato il momento più bello della mia vita.

Sussurrai prima di voltarmi nuovamente a osservare il disegno su quel muro. Forse non ero riuscita a poter parlare con mio padre, ma in quel momento era un po’ come se lui fosse lì con me. Restai a fissare ancora per un po’ quelle linee bianche, rendendomi conto che avevo delle basse pretese per riuscire a emozionarmi davanti a un disegno. Quello, oppure mi stavo completamente rammollendo. Scossi appena la testa, mentre alle mie spalle Peggy e Howard si lanciavano un’occhiata prima che quest’ultimo non si allontanasse in direzione di quello che doveva essere il suo studio.

Ti va di fare un giro?

La voce di Peggy finii per riportarmi con i piedi per terra, così, giratami verso di lei mi ritrovai ad annuire con un sorriso a trentadue denti stampato sulla faccia. Dio – avrei dovuto darmi un contegno prima che la situazione mi sfuggisse di mano, o meglio, prima che la dodicenne che era in me prendesse il sopravvento.

Fu, così, che mi ritrovai a percorrere centimetro per centimetro quella struttura cercando di frenare le mille domande che avrei voluto farle. Ce ne erano tante, troppe, ma mi ero autoimposta di tacere.

Quindi vorresti essere un agente? mi chiese lei prima di farmi cenno di accomodarmi in una delle sedie ai lati di un lungo tavolo.

Non credo di essere davvero tagliata per questo lavoro, insomma, combino un guaio dopo l’altro…

Per quello che ho visto oggi – prima di scoprire chi tu fossi veramente – credo che saresti davvero un ottimo agente.

Al suono di quelle parole i miei occhi si illuminarono, nello stesso modo quando da piccola mi ritrovavo davanti un muffin al cioccolato – i miei preferiti. Dio – Peggy Carter mi aveva appena fatto un complimento, come si sopravviveva a quello? Non ero pronta, non per qualcosa del genere e il mio cuore ne aveva appena risentito.  Per non parlare del fatto che dovevo aver momentaneamente perso le mie facoltà mentali, perché Peggy si era ritrovata a dovermi porgere una nuova domanda prima di piombare in quello che sarebbe stato un silenzio al quanto imbarazzante.

Vuoi seguire le orme di tuo padre?

Mi aveva chiesto incuriosita e dovetti pensarci su un attimo prima di poterle rispondere.

Sì e no.

Lo avevo sussurrato prima di lasciar vagare lo sguardo lungo tutta la superficie di quella stanza. Ogni piccolo dettaglio passato in rassegna come se volessi portare via con me tutto quello che potevo, stiparlo nei miei ricordi e tirarlo fuori nei giorni in cui il mio umore avrebbe vacillato. Mi sollevai in piedi continuando a osservare ogni cosa, prima di voltarmi in direzione di Peggy e puntare il mio sguardo su di lei.

Avrei voluto che mio padre fosse fiero di me come lo ero io ogni volta che guardavo verso di lui. Lo ero davvero, anche se non gliel’ho mai detto. Non sul serio. La vita sa essere complicata alle volte, beh, quanto meno la mia lo è stata.

Avevo fatto una pausa abbassando lo sguardo in direzione delle punte delle mie scarpe, mordicchiandomi l’interno della guancia.

Mia madre è morta qualche mese prima del mio sesto
compleanno, era malata. Ha lottato fino all’ultimo e ha cercato di prendersi cura di me anche quando le era impossibile sollevare un braccio. Io non avevo molti amici, i ragazzini sanno essere molto cattivi alle volte. Un giorno, avevano iniziato a prendermi in giro – non ricordo più neanche per cosa – e io avevo percorso l’ultimo pezzo di strada verso casa correndo, talmente tanto veloce che avevo finito per inciampare e sbucciarmi un ginocchio. Sono scoppiata a piangere e mio nonno, vedendomi dalla finestra, era uscito fuori per aiutarmi. Ero stata costretta a spiegargli che cosa fosse successo perché non volevo dirlo a mia madre, lei era troppo stanca e non volevo deludere mio padre.


Lo avevo sussurrato senza neanche rendermi conto del perché le stessi dicendo quelle cose. Non sapevo neanche da dove fossero uscite fuori, ma erano uscite con una facilità che mi fece paura.

Mio nonno mi portò dentro casa e fui costretta a dirgli cosa fosse successo. Fu in quel momento che mi raccontò di un ragazzo mingherlino che veniva da Brooklyn e che finì per cambiare il mondo. All’inizio non gli avevo creduto, sembrava una favola quella che mi stava raccontando. Poi, però, tirò fuori una specie di foto e allora credergli era stato facile. Mi aveva detto che non importava se quel giorno uno stupido branco di ragazzini mi avesse infastidito, fossi caduta e avessi pianto. Non fino a che avessi avuto la forza di rialzarmi, perché se quel ragazzino di Brooklyn era riuscito a farlo allora avrei potuto anche io e, non so per quale motivo, decisi di credergli quella volta.

Sussurrai facendo spallucce, sollevando gli occhi verso l’altro per impedire alle lacrime di venir fuori. Cavolo, sembrava proprio che stessi per recuperare tutti i pianti persi fino a quel momento. Avrei dovuto sicuramente fare qualcosa per i miei dotti lacrimali non appena fossi tornata a casa.

Perchè era quello che Steve faceva: lasciarti credere nell’impossibile.

Sentì Peggy pronunciare quelle parole e mi ritrovai a fissarla, consapevole che avesse ragione. Captain America era in grado di darti speranza anche quando le possibilità di riuscita erano praticamente scarse. Lo avevo visto con i miei stessi occhi, così come lo aveva visto Peggy.

Non solo lui.

Lo avevo detto senza rifletterci, notando subito dopo lo sguardo interrogativo che Peggy mi aveva rivolto. Alzai le braccia in aria indicandole tutto quello che ci circondava.

Questo, tutto questo: io che sono qui, lo Shield o il fatto che voglia diventare un agente… credi che sarebbe stato possibile senza di te? Potrò voler rendere orgoglioso mio padre facendo quello che lui faceva o voler essere coraggiosa tanto quanto Steve Rogers, ma tu sei il motivo per cui non ho ancora mollato. Tu hai cambiato il mondo e vorrei poter essere anche solo come la metà di te, ma mi ritrovo a essere goffa e a fare un disastro dopo l’altro e nonostante tutto ci sto provando. Tu sei Peggy Carter, la donna che ha reso possibile l’impensabile.

Era rimasta ad ascoltare le mie parole senza battere ciglio fino a che non si era sollevata, mentre io mi ero ritrovata a riprendere fiato. Dio – stavo dando proprio il meglio di me non stando zitta neanche un solo secondo.

Lascia che ti dica una cosa, Eleanor. Smettila di cercare di essere qualcuno che non sei solo perché credi di non essere abbastanza. Sono incredibilmente lusingata per quello che hai detto e dovrei ringraziarti, ma non lo farò perché tu non hai bisogno di somigliare a me. Va lì fuori e non aver paura di dimostrare ciò che vali, perché potresti rimanere sorpresa di quello che potrebbe succedere.

Lo aveva detto guardandomi negli occhi e io a stento ero riuscita a mantenere il contatto con il suo sguardo. Avevo sentito il cuore battere un po’ più velocemente e una strana sensazione invadermi il corpo. Non avevo potuto fare altro che allungare le braccia nella sua direzione e avvolgerla in un abbraccio perché – ne ero certa – non sarei stata in grado di pronunciare anche solo mezza parola. Non quando il groppo che avevo in gola minacciava di esplodere da un momento all’altro. Lei non aveva detto nient’altro, ma aveva finito per ricambiare la mia stretta.

D’accordo, forse attraversare un varco spazio-temporale non era stata poi una così pessima idea dopotutto. Se solo avessi potuto raccontare a qualcuno cosa fosse appena successo, ma le uniche due persone a cui avrei voluto parlarne non erano con me. Una non sarebbe mai più tornata indietro e l’altra era chissà dove a cercare di rimettere insieme i pezzi della sua vita. Per una volta, però, nonostante quel lieve senso di malinconia, andava bene così. Avrei tenuto con me quel ricordo e non avrei mai dimenticato ciò che mi era stato detto. Per lo meno avrei avuto qualcosa a cui aggrapparmi la notte quando – di tanto in tanto – lo sconforto faceva capolino.

C’è spazio anche per me?

Aveva esordito Howard – sbucato chissà dove – interrompendo quel momento. Sorridendo divertito si era avvicinato allargando le braccia nell’esatto istante in cui avevamo finito per sciogliere l’abbraccio.

No? Niente? Andiamo, ho persino aggiustato l’orologio.

Lo aveva detto con una punta di orgoglio nella voce, mentre schiudeva il palmo della mano mostrando l’orologio nuovamente tutto intero. Sgranai gli occhi per la sorpresa non riuscendo a trattenere un sorriso e un sospiro di sollievo, soprattutto quello. Fu così che mi avvicinai nella sua direzione finendo per abbracciare anche lui che non si tirò indietro a quel contatto, ovviamente.

Grazie mille signor Stark e mi spiace di averle causato troppi problemi.

Lui aveva sorriso divertito prima di lasciarmi andare, trovandosi a guardarmi negli occhi.

Howard e no, nessun problema. A dire il vero mi sono divertito parecchio, sai credo che dovresti tornare un po’ più spesso da queste parti. Aveva sussurrato facendomi l’occhiolino.

Prima dovremmo cercare di farla ritornare a casa magari.

Gli aveva ricordato Peggy, mentre mi appuntavo l’orologio al polso e lanciavo un’occhiata al quadrante. Mancava circa mezz’ora, ergo avremmo dovuto sbrigarci se fossi voluta arrivare in tempo o sarei semplicemente rimasta bloccata lì. Non che, in realtà, la cosa mi sarebbe dispiaciuta così tanto. Era strano, ma mi piaceva essere lì con loro era un po’ come sentirsi a casa ad anni luci di distanza.

Ebbi appena il tempo di lanciare un’ultima occhiata a quella che era la prima base dello Shield, prima di uscire da lì e una volta in macchina avviarci in direzione del vicolo in cui tutta quella avventura aveva avuto inizio.

Jarvis correva per le vie della città, mentre io tenevo d’occhio le lancette che si avvicinavano pericolosamente all’ora X. Nel momento in cui notai l’insegna dell’ L&L Automat. Jarvis sterzò in direzione del vicolo prima di inchiodare di colpo facendoci sobbalzare. Si ritrovò a mormorare delle scuse nel notare le nostre occhiatacce. Un secondo più tardi eravamo tutti e quattro fuori dall’auto e ci bastò voltare l’angolo ed entrare nella zona più interna di quella stradina per vederlo.

Per la miseria… sussurrò Howard non impedendosi di spalancare la bocca.

Peggy dovette trattenerlo per un braccio prima che quello a saltare in quell’ammasso gelatinoso viola fosse lui. Sorrisi scuotendo la testa, scienziati tsk.

Lanciai un’occhiata al varco prima di voltarmi nella loro direzione.

Volevo scusarmi ancora con tutti voi per il disagio che vi ho causato, ma volevo anche ringraziarvi. Non solo per il vostro aiuto, ma perché per un attimo mi sono sentita parte di qualcosa e mi è piaciuto.

Sussurrai prima di abbracciarli uno per uno. Dio, come odiavo gli addii. Lasciare andare qualcuno era la cosa più difficile di questo mondo, soprattutto quando si aveva la consapevolezza che non ci si sarebbe rivisti mai più.

E’ stato un piacere conoscerla signorina. Mi aveva sussurrato Jarvis prima di lasciarmi andare.

Sai, puoi sempre tornare a farci visita o possiamo venire noi.

Aveva proposto Howard con un’espressione di totale innocenza finendo per strappare un sorriso a me un’occhiataccia a Peggy. Ero certa che se ne avesse avuto la possibilità lui sarebbe stato il primo a tuffarsi dall’altra parte. Scossi la testa divertita prima che la mia attenzione non fosse attirata dalle parole di Peggy.

Non dimenticare quello che ti ho detto, d’accordo?

Non lo farò.

Ammisi annuendo con un cenno deciso della testa, prima di avviarmi in direzione di quel varco. Ero sul punto di attraversarlo quando non mi ritrovai a bloccarmi. Mi morsi il labbro indecisa, altamente consapevole che quello che stavo per dire non sarebbe stata una buona idea, ma non potevo andarmene così. Non potevo, soprattutto dopo tutto quanto successo e dopo che avevano deciso di credermi e aiutarmi. Sollevai gli occhi al cielo, decidendo che qualunque sarebbe stata la conseguenza delle mie parole l’avrei affrontata.

Ci sarà un momento nel 2014 in cui vi servirà un piano B e, fossi in voi, inizierei a pensarci fin da ora.

Lo sussurrai, ma non così piano da non essere sentita.

Cosa succederà nel 2014?

Fu Howard a chiedermelo, troppo curioso per poter resistere alla tentazione. Lanciai un’ultima occhiata nella loro direzione, prima di rispondere.

Lo Shield cadrà.

Quella fu l’ultima cosa che dissi loro, prima di saltare in quel varco e scomparire dalla loro vista per sempre. Un attimo più tardi, mi ritrovai al centro della camera di Eddie – due occhi puntati su di me – e tutto quello che era appena successo sembrava essere solo un sogno lontano.
 
 

***

 
 
Era strano come, ogni volta, finissi per ritrovarmi immersa in un’avventura talmente assurda da non riuscire neanche a raccontarla e, un attimo dopo, tornare al punto di partenza: sola. Avevo spiegato a grandi linee a Tim cosa fosse successo. Lui ed Eddie non mi avevano permesso di lasciare la stanza fino a che non avessi raccontato loro tutto.

Avevo finito, così, per dire loro l’essenziale. C’erano alcune cose che, invece, avevo preferito tenere per me, al sicuro. Dopo, però, mi ero ritrovata nel vuoto del mio appartamento e una parte di me – una piccolissima parte – aveva pensato che forse tornare non era stata poi una così brillante idea. Non quando dall’altra parte non c’era nessuno ad aspettarmi. Certo, non che le persone fossero al corrente che avessi appena rischiato la vita saltando in un cunicolo spazio-temporale, ma quello era un dettaglio. Non potevo certo andare dai miei nonni e dir loro che avevo appena fatto una cosa del genere senza pretendere di non causare un duplice infarto. Volevo troppo bene a entrambi, quindi – quando quella domenica ero andata a pranzo da loro – non avevo neanche menzionato quello che avevo fatto qualche giorno prima. Ero rimasta sul vago, parlando di una festa e qualche persona nuova incontrata. Erano stati entusiasti i miei nonni di sapere che avevo fatto nuove amicizie. Se solo avessero saputo che quelle amicizie erano di un’altra epoca.

Magari un giorno avrei finito per raccontargli ciò che mi era successo, ma per il momento avrei optato per qualcosa di diverso. Fu, così, che mi diressi in direzione della casa di riposo a nord della città. Ci avevo impiegato circa tre quarti d’ora e presi due mezzi pubblici, ma finalmente mi ritrovavo davanti la porta d’ingresso dell’edificio. Scivolai al suo interno guardandomi intorno, prima di avviarmi in direzione della reception chiedendo informazioni. La donna al di là del bancone mi sorrise dolcemente indicandomi una delle stanze lungo il corridoio, non prima di aver sospinto verso di me il registro delle visite. Afferrai la penna posata al centro di quelle due pagine per apportare la mia firma, quando non notai un nome famigliare spuntare tra le ultime righe.

Steve Rogers.

Mi morsi un labbro inferiore e – firmato il registro – sorrisi all’infermiera. Inforcai gli occhiali da sola, raccolsi i capelli dietro la nuca e mi sistemai il cappuccio in testa. A testa bassa percorsi il lungo corridoio nell’esatto momento in cui Steve non fece capolino dall’ultima stanza, la stessa che avrei dovuto raggiungere io. Ci incrociammo a metà strada, il mio volto coperto per metà e un semplice cenno del capo. Una volta superato mi ritrovai a tirare un sospiro di sollievo ringraziando il cielo per aver avuto un buon maestro del passare inosservati. Non ci sarebbe certo stato nulla di male se Steve si fosse accorto di me – ammesso e concesso che si ricordasse della sottoscritta. Il problema era trovare una scusa sufficientemente plausibile per giustificare la mia presenza lì. Lanciai un’occhiata alle mie spalle, notando la sua figura allontanarsi lentamente e – una volta averlo visto uscire – mi infilai nella stanza a pochi passi da lì.

Una donna anziana – i capelli bianchi a incorniciarle il volto – era stesa nel letto al centro della camera. Vidi i suoi occhi soffermarsi su di me, lievemente socchiusi e mi ritrovai ad abbassare il cappuccio lasciando scivolare i capelli corvini lungi le spalle. Sfilai gli occhi appuntandoli alle maglietta bianca prima di fare un passo avanti. Il volto della donna finì per stendersi in un ampio sorriso.

Ti stavo aspettando.

Sussurrò dolcemente facendomi segno di raggiungerla. Mi avvicinai e, sistematami al suo fianco, le afferrai una mano stringendola delicatamente tra le mie.

Scusa il ritardo, Peggy.







 


NdA:
Ed eccoci giunti all'ultimo capitolo. :(  Mi sono davvero divertita molto nello scrivere questa piccola storia e, in qualche modo, spero di essere riuscita a rispondere a tutte le domande che erano rimaste in sospeso o quanto meno in parte. Eleanor è riuscita a farcela nonostante le mille disavventure. Bisogna solo sperare che non ci siano troppe conseguenze a causa di questo suo viaggio nel tempo, chissà. In ogni vaso, volevo ringraziare tutti per aver voluto seguirmi storia dopo storia. Sono sempre dell’idea che senza di voi non sarebbe stato lo stesso, quindi grazie di vero cuore perché ci tenevo particolarmente a questa storia. Prima di salutarvi volevo dirvi anche che in realtà c’è qualche altra cosa in cantiere come vi avevo accennato. Probabilmente fino alla fine vi stancherete di me, lo so lo so. xD In ogni caso dicevo, ci sarà un seguito che è in fase di lavorazione e non manca poi molto, ma ho deciso di aspettare a pubblicare perché preferisco avere tutto pronto come per le storie precedenti. Tra l’altro siamo ad agosto quindi quasi tutti in vacanza. Io per prima a breve mi allontanerò per qualche settimana quindi a parte il cellulare non avrò internet e mi sarà impossibile pubblicare. Ergo, per tutta questa serie di motivi ho deciso di darvi appuntamento per la fine di agosto inizi di settembre per il resto perché, beh, ci saranno delle conseguenza da affrontare, no? Se la storia vi è piaciuta, se volete scoprire che succederà ora a Eleanor e se finalmente avrà una gioia, ma soprattutto se vorrete farmi ancora compagnia ci rivedremo presto a vacanze concluse. Grazie mille ancora a tutti, vi mando un abbraccio enorme. Un bacio, - LadyBones.

 

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