Love is a dangerous disadvantage

di BrokebackGotUsGood
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo








Un argenteo strato di nubi ricopriva il cielo di Londra e sottili gocce di pioggia si infrangevano contro il vetro della finestra, per poi lasciarsi scivolare lentamente verso il bordo. 
John tamburellava nervosamente i polpastrelli sulle ginocchia, lo sguardo rivolto verso un punto imprecisato del pavimento di marmo; le lancette dell'orologio appeso alla parete di fronte a lui ticchettavano inesorabilmente, facendogli rendere conto di quanti secondi fossero effettivamente passati da quando la signora Thompson gli aveva chiesto di esporre il suo problema. 
Non un problema da poco, tra l'altro. Oh no. 
Ma se la situazione in cui si trovava era tremendamente difficile da accettare, ancor più arduo era tentare di convertire le sue emozioni in parole, parole che non sapeva assolutamente come far uscire dalla sua bocca senza che comportassero effetti collaterali devastanti. 
Optò per una via semplice e diretta, anche se alquanto imprecisa. 
«Io sto...». Prese un respiro, chiuse gli occhi per un istante. «Credo di star attraversando una...u-una crisi d' identità, ecco». 
Quelle poche parole gli erano costate uno sforzo titanico, ma poteva farcela, non aveva intenzione di perdere il controllo. 
La donna accavallò le gambe e inclinò leggermente la testa di lato, picchiettando la penna sul suo blocco degli appunti. «Di identità sessuale?» 
«Per l'amor del cielo, non pronunci quella parola!!».
Ecco, come non detto, addio controllo. Bravo soldato, ottimo lavoro. 
John si passò una mano sul viso e non notò il sorrisino appena accennato della terapista, che non sembrava per nulla sorpresa dalla sua reazione. 
«Ok, deduco che il problema sia proprio questo. La sa una cosa? Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato questo momento» asserì con una sicurezza e una mancanza di stupore totalmente spiazzanti. 
John sbatté velocemente le palpebre un paio di volte, come se credesse di non aver capito bene (ed era proprio ciò che sperava). 
«C-come, scusi?» 
«Signor Watson, non è stato necessario servirmi della capacità di interpretare i gesti e le parole dei miei pazienti acquisita con gli anni di esperienza: con tutto il rispetto,  lei è estremamente palese. Si tratta del signor Holmes, non è vero?». 
Se l'anatomia umana lo avesse permesso, la mandibola dell'ex soldato avrebbe toccato terra. 
Era estremamente palese...? Sul serio? Era per questo che non c'era stata persona a lui conosciuta che non avesse fatto strane insinuazioni su una loro possibile relazione?! Angelo, la signora Hudson, una delle ragazze che aveva miseramente tentato di rimorchiare, persino Irene Adler! 
Diamine, sentirsi sbattere in faccia la realtà così all'improvviso non avrebbe di certo giovato alla sua già critica situazione mentale. 
«E che cosa...che cosa renderebbe tutto così ovvio?» chiese con malcelata preoccupazione, non del tutto sicuro di voler sentire la risposta. 
«Beh, mi baso su pochi elementi, ma sono più che sufficienti» 
«Per esempio?» 
«Perché, piuttosto, non mi parla fino in fondo di questa sua "crisi"? Quali sono le sue paure?». 
Già, bella domanda. Se doveva essere sincero, non sapeva nemmeno se fosse davvero soltanto una questione di sessualità o se la sua vera paura fosse quella di provare determinati sentimenti nei confronti di una persona. O, per essere piú precisi, quella di provarli nei confronti di Sherlock Holmes, il sociopatico che si considerava sposato con il suo lavoro. 
Seriamente, da dove diavolo avevano avuto origine il suo  irrefrenabile e costante desiderio di avere il detective al suo fianco, il bisogno di ascoltare le sue geniali deduzioni, di vederlo sorridere con soddisfazione o con sfida, di sentirlo comporre nuove melodie col suo violino, di venire ipnotizzato dai suoi incredibili occhi di ghiaccio? 
Per potersi rispondere, era necessario fare un piccolo salto indietro nel tempo, a quella tranquilla e apparentemente normale serata al 221B di Baker Street.







Buenas tardes ^^
Aluuura, so che come prologo non è il massimo, ma spero di riuscire a sviluppare questa storia in maniera piú o meno interessante. 
Mi sono appassionata...ehm, ok, sono ossessionata...da Sherlock soltanto da pochi giorni, tuttavia mi sono già messa alla pari ed è inutile dire che soffrirò come un cane fino al 2017 in attesa della nuova stagione. 
Comunque shippo Johnlock praticamente dal primo momento in cui si sono incontrati, lol 
Niente, se vi va di seguire qualunque cosa verrà fuori da questa fic ne sarò piú che felice.
Baci 
Melissa 

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Capitolo I







Quello era uno di quei momenti in cui mi ritrovavo inevitabilmente a pensare che avrei fatto di tutto per sapere cosa stesse passando per l'intricata e brillante mente di Sherlock.
Stava camminando con passo lento avanti e indietro per il salotto, le mani congiunte appoggiate alla bocca, gli occhi socchiusi per la concentrazione: molto probabilmente stava analizzando ogni singolo dettaglio che avrebbe potuto portare ad un possibile collegamento tra i tre omicidi avvenuti quella mattina all'Heathrow airport.
Sapeva di avere a che fare con un serial killer e non aspettava altro da settimane. Avevo imparato a conoscerlo e ormai sapevo perfettamente che più il caso si rivelava enigmatico, più per lui era eccitante; era sempre in cerca di qualcosa che potesse stimolarlo, che gli donasse il brivido del rischio, che fosse degno del suo invidiabile e ineguagliabile intelletto.
E io, per quanto riguardava l'irresistibile richiamo del pericolo, ero esattamente come lui. Ecco perché formavamo una bella squadra, nonostante il mio istinto omicida nei suoi confronti (che puntualmente reprimevo con la forza) venisse messo a dura prova dalla sua arroganza, presunzione e totale non curanza (apparente) per qualsiasi forma di sentimento altrui.
Avevo provato più volte a convincermi del fatto che non fosse il genere di persona con cui avrei voluto lavorare, passare il mio tempo libero e soprattutto condividere un appartamento, eppure, del tutto inaspettatamente, in pochissimo tempo era diventato il mio migliore amico, nonché una delle persone a cui tenevo di più al mondo.
Ma ormai avevo smesso di chiedermi come fosse potuto accadere, perché la risposta era sempre la stessa: in lui c'era molta più umanità di quanto volesse dare a vedere e io ero l'unico a cui si era concesso di mostrarla.
E non sarei riuscito a immaginare una fortuna più grande.
«La polizia non lo ha notato, ma gli squarci presenti sulla schiena di tutte e tre le vittime non sono casuali, formano delle figure, dei simboli...» disse quasi sussurrando, non rendendosi conto di star dando voce ai propri pensieri.
Lo guardai dalla mia poltrona, accavallando le gambe. «Ah sì?»
«Simboli che non mi sono del tutto nuovi. Dev'essere un alfabeto in codice o qualcosa di simile...».
Annuii, fingendo di dargli corda per qualche secondo, ma poi, quando l'occhio capitò sulle lancette del mio orlogio da polso, dovetti cercare di convincerlo a lasciar perdere, per il momento. «Bene, che ne dici di decifrarlo domani? Sono quasi le otto e un quarto e noi dovremmo...»
«Devo entrare nel mio palazzo mentale».
Feci per alzarmi, ma mi bloccai di colpo con le mani appoggiate ai braccioli della poltrona, guardandolo con disapprovazione.
«Che cosa? Adesso?! Sherlock, siamo già in ritardo, avevi detto che avresti preso parte alla festa a sorpresa per Greg! Non...»
«Greg...?».
Sospirai, non ritenendo scientificamente possibile che non si ricordasse il nome dell'ispettore dopo tutti gli anni che lo conosceva.
«Lestrade, Sherlock. Avevi...»
«Oh, Lestrade capirà» mi interruppe, avvicinandosi alla finestra e contemplando il cielo stellato per qualche istante. «Lo sa che non amo le feste».
Amanda Coalwood, Christopher Miller e Thomas Jacobson, passeggeri del volo BA 116 proveniente da New York, tutti e tre uccisi con numerose pugnalate alla schiena che, secondo Sherlock, formavano dei simboli che l'assassino voleva fossero decifrati: un caso indubbiamente più interessante di uno sciocco compleanno, certo. Avrei dovuto capirlo subito.
Sì, era più umano di quanto gli altri credessero, ma molte volte questo suo lato veniva meno anche in mia presenza.
«Non potresti, per un secondo, mettere da parte il caso per un amico?».
Giocai la carta del "Saresti un grandissimo stronzo se mettessi ancora una volta il lavoro prima delle persone a cui tieni", ma, come sempre, fallì miseramente.
«Io e Lestrade non siamo amici»
«Oh, certo».
Calò il silenzio.
Un'automobile sfrecciò sulla strada.
Fissai Sherlock (che non accennava a volersi allontanare dalla finestra) per qualche altro istante, nella speranza che potesse cambiare idea.
Sentì i miei occhi sulla sua schiena. «John, che cosa c'è?» chiese con un sospiro, voltandosi leggermente verso di me e guardandomi con la coda dell'occhio da sopra la sua spalla destra.
«Mh? Ah, niente, niente, io...io vado, allora. Buon proseguimento di indagini».
Detto questo, mi diressi verso le scale e, dopo avergli lanciato un'ultima occhiata, cominciai a scendere i gradini che portavano all'ingresso.



 

Sorrisi, abbracci, ringraziamenti, regali, strette di mano: nell'intera casa regnava l'allegria e, in effetti, nonostante non fosse riuscito a nascondere una lieve ombra di delusione, Lestrade non si era particolarmente stupito del fatto che Sherlock avesse preferito occuparsi del nostro serial killer.
Quando anche il sergente Donovan si accorse dell'assenza del "geniaccio", non mancò di fare i suoi soliti commenti acidi e sprezzanti nei suoi confronti.
«Vedo che stasera non potremo deliziarci della presenza del suo collega, signor Watson: immagino avesse degli impegni irrimandabili. Qualche cadavere da frustare?».
Bevvi un sorso di vino dal mio calice e le feci un sorrisino a labbra serrate, scuotendo la testa. «No, sta cercando di risolvere i tre omicidi dell'Heathrow Airport»
«Oh, capisco»
«Già».
Distolsi lo sguardo da lei e presi a guardarmi intorno, sperando di farla allontanare e di non dover continuare la conversazione, ma come al solito le mie speranze furono vane.
«Ammiro la sua pazienza, davvero. Sherlock Holmes non mostra un briciolo di interesse verso le persone che, per qualche inspiegabile ragione, tengono a lui, e non mi è rimasto alcun dubbio sul fatto che lei sia una di quelle. Lei è sempre al suo fianco, ovunque lui vada, ed è sempre pronto a soddisfare qualsiasi sua richiesta. Perché?».
Ecco, lo sapevo che era lì che sarebbe andata a parare.
"Stia alla larga da Sherlock Holmes", mi aveva ripetuto più volte, e ora, giustamente, si domandava cosa mi avesse spinto a fare esattamente il contrario.
«Beh, io...».
Fu in quel momento che venni salvato dal tempismo perfetto dell'oggetto del nostro discorso, com' era già successo innumerevoli volte in situazioni ben più gravi.
Il mio cellulare squillò nella tasca posteriore dei jeans e, dopo essermi scusato con Donovan(che, avendo intuito chi mi stesse cercando, mi rivolse un'occhiata eloquente), lo tirai fuori per leggere quello che, appunto, si rivelò essere un messaggio di Sherlock.

Vieni più in fretta che puoi.
È importante.

SH

Importante? Come no. Di sicuro mi avrebbe chiesto qualcosa come passargli una penna troppo lontana dalla sua poltrona.
Eppure mi ritrovai lo stesso a dire a Lestrade che ero molto dispiaciuto, ma dovevo tornare a casa per una questione urgente.
«Ma come? Sei arrivato da mezz'ora!»
«Lo so, mi dispiace, è che...Sherlock ha bisogno di me».
L'ispettore stette in silenzio per qualche secondo e sulle sue labbra si disegnò un lieve sorriso sghembo, a cui correlò uno sguardo piuttosto ambiguo. «E direi che la cosa è reciproca».
Sbattei le palpebre. «C-come, scusa?»
«Vai pure, John, grazie di essere venuto. Saluta quel mascalzone del tuo coinquilino da parte mia»
«Oh, certo, sarà fatto».




 

Riuscivo perfettamente a leggere l'euforia nei suoi occhi mentre pronunciava queste parole: «Zodiac, John. Si tratta di Zodiac».
Dopo essere stato nel suo palazzo mentale, Sherlock si era ricordato di dove aveva precedentemente visto i simboli sulle schiene dei tre cadaveri: erano identici ad alcuni caratteri presenti nei messaggi cifrati che Zodiac, un famoso e spietato killer degli anni '60 mai arrestato, aveva mandato alla stampa affinché quest'ultima li facesse pubblicare sulle prime pagine dei giornali, altrimenti avrebbe ucciso una dozzina di persone nei successivi due giorni.
«Ho usato una delle poche traduzioni che sono riuscito a trovare su Internet. Sul corpo di Amanda c'è scritto "Z", su quello di Christopher "did" e su quello di Thomas "this". "Z did this"»
«Ma Sherlock...se Zodiac fosse ancora vivo sarebbe talmente decrepito da non riuscire a muovere un muscolo...e poi non viveva in California?»
«Infatti il nostro assassino non è il vero Zodiac, John» affermò in tono grave, con lo sguardo vispo di chi si trova davanti un gioco a cui non può assolutamente perdere.
«Ma qualcuno che vuole continuare la sua opera. Se ricorre agli stessi metodi intimidatori, presto troveremo un crittogramma su tutti i giornali. Ahh, finalmente un caso degno di nota!».
Lo guardai sorridere soddisfatto e per un attimo venne da sorridere anche a me.
Ma, ora che mi veniva in mente, c'era una cosa che non mi tornava.
«Non fraintendermi, sono felice che tu abbia ottenuto tutte queste informazioni, ma io esattamente che ci faccio qui?»
«Mh? Oh, niente, volevo solo condividere il mio entusiasmo».
Dio, lo sapevo. Lo sapevo che non era un'emergenza, ma ero andato da lui ugualmente.
Perché?
Sospirai con esasperazione. «Sherlock, ero a casa di Greg, a festeggiare un compleanno a cui, in teoria, avresti dovuto prendere parte anche tu, e mi hai fatto venir via dopo neanche mezz'ora per... condividere il tuo entusiasmo
«John, se esiste una sola cosa che temo non riuscirò mai a comprendere, quella è il tuo continuo ripetere ciò che è già stato affermato».
"Ok, fai appello al tuo autocontrollo da soldato e trattieniti dal dargli un pugno".
Feci un profondo respiro, chiudendo gli occhi per un secondo, e mi sedetti su un bracciolo della mia poltrona.
«E dato che ora sei qui» continuò, «ti andrebbe di...beh...di ascoltare un nuovo pezzo che ho composto ieri pomeriggio e darmi la tua sincera opinione?».
Alzai le sopracciglia con stupore, essendo quella l'ultima domanda che mi aspettavo potesse pormi in un momento come quello.
«Vuoi suonare a quest'ora?»
«Mi capita di suonare anche alle quattro del mattino e non mi sembra sia mai stato un problema».
Beh, non era esattamente così per la signora Hudson, ma in effetti era da un po' di tempo che non gli intimava esplicitamente di finirla con quella sua abitudine.
E, pensandoci, non era per niente una cattiva idea.
A quel punto il nervosismo nei suoi confronti si era come dissolto nell'aria e mi ritrovai ad annuire vigorosamente.
«Sì, certo che mi va».
Avrei voluto aggiungere che mi aveva fatto piacere che me lo avesse chiesto, ma le parole mi si bloccarono in gola.
Accennò un sorriso e, mentre mi mettevo comodo sulla poltrona, prese il violino e l'archetto, mettendosi davanti alla finestra; posizionò lo strumento sulla sua spalla, attese qualche istante.
Poi la melodia iniziò a riempire ogni angolo della stanza, dolce e lenta.
Chiusi gli occhi.
Adoravo sentirlo suonare, aveva una capacità di rilassarmi che nemmeno il più efficace dei calmanti avrebbe potuto eguagliare; amavo estraniarmi dal resto del mondo e lasciarmi trasportare verso orizzonti lontani da quelle note leggere e delicate, nate da un cuore che tutto era fuorché di ghiaccio.
Spesso mi chiedevo quali pensieri fossero la fonte di quegli armonici insiemi di suoni ed emozioni, ed era in momenti come quelli che mi convincevo del fatto che lui, Sherlock Holmes, avesse un animo più profondo di chiunque altro, un oceano immenso e a volte spaventoso, ma dalle cui onde ti lasceresti cullare senza esitazione; un oceano di cui vorresti conoscere ogni più intimo segreto, e che ti travolge, ti toglie il respiro, ti fa sentire tremendamente piccolo e insignificante.
Una forza della natura.
La melodia aveva assunto un tono maliconico, quasi simile ad un pianto nostalgico, e non mi resi conto di avere la pelle d'oca.
Finì troppo presto e me ne accorsi solo nel momento in cui Sherlock si voltò verso di me, guardandomi nella muta richiesta di sentire il mio giudizio.
Il mio riflesso nelle sue iridi cristalline, il suo viso parzialmente illuminato dalla calda luce dell'unica lampada accesa nel salotto.
«È bellissimo» sussurrai, anche se non sapevo esattamente a cosa mi stessi riferendo.
Non distolse lo sguardo dal mio. «Davvero?»
«Sì, è...è straordinario».
Fui quasi sicuro di leggere dell'imbarazzo nella sua espressione, ma venne subito sostituito dalla sua solita aria apparentemente indifferente e distaccata, che comunque ormai avevo capito essere una maschera dietro cui nascondere ciò che lui definiva "un difetto chimico": i sentimenti.
C'erano giorni in cui avrei voluto distruggerla una volta per tutte, quella maschera, e altri invece in cui mi rendevo conto che anche la sua freddezza contribuiva a fare di lui un uomo terribilmente interessante.
Un momento...lo avevo pensato sul serio?
«Sì, beh...» si schiarì la voce «Devo ancora riportare qualche modifica, ma grazie».
Sorrisi. «Non c'è di che».
Posò delicatamente il violino su un mobile poco distante e, una volta preso posto sulla poltrona di fronte alla mia, si mise a scrutarmi attentamente, trapassandomi l'anima con il suo sguardo di ghiaccio e provocandomi un impercettibile brivido lungo la spina dorsale.
«Ch-che cosa c'è?» chiesi con incertezza, aggrottando la fronte.
Non mi rispose e, diavolo, non sapevo se lo facesse apposta o se fosse semplicemente fatto così, ma odiavo quando restava in silenzio per tenermi sulle spine.
«Sherlock?» tentai di nuovo.
Lui inspirò, spostando gli occhi sul tappeto e, dopo essersi schiarito nuovamente la voce, congiunse le dita delle mani. «John...».
Stavo per preoccuparmi.
«So che non te lo dico spesso e ancor più di rado te lo dimostro, ma...» "Oh, dio, sta tentando di fare il carino" «apprezzo il lavoro che hai fatto fin ora e l'impegno che metti in ogni indagine, e voglio che tu sappia che il tuo sostegno significa molto per me, dico davvero. Ne abbiamo passate tante e senza il tuo aiuto non sarei riuscito a...beh, sì, i casi li avrei indubbiamente risolti lo stesso, però...»
«Sherlock, stavi andando bene, non rovinare tutto»
«No, certo, scusa. Quello che sto cercando di dire è che ti sono grato per essere rimasto al mio fianco per tutto questo tempo e per avermi aiutato ogni volta che mi sono trovato in pericolo. Che poi, parlandoci chiaro, è quasi sempre successo il contrario».
Sorrisi, consapevole del fatto che quel finale fosse servito a sdrammatizzare.
«E io apprezzo lo sforzo che hai fatto per far uscire queste belle parole dalla tua boccaccia» dissi ironico, facendolo ridere.
Poi, quando tornò il silenzio e i sorrisi sulle nostre labbra furono lentamente scemati, mi sporsi in avanti per raggiungere la sua spalla, su cui diedi una leggera e amichevole pacca.
«Però certe volte nemmeno tu cogli l'ovvio».
Mi guardò stranito. «Che vuoi dire?»
«Sei il mio migliore amico, secondo te per quale altro motivo continuo a rischiare la vita per te?»
«Beh, perché ne vai matto»
«Questo...questo è vero».




 

«Come sarebbe a dire che avete arrestato uno diciannovenne schizofrenico?!»
«Ha confessato»
«Non potete basarvi su una semplice confessione! Forse sta cercando di proteggere il vero assassino perché è stato minacciato da quest'ultimo, oppure...»
«Sherlock, sappiamo bene che una confessione non è sufficiente, per questo abbiamo perquisito la sua stanza. Sotto il letto abbiamo trovato un orologio da polso Zodiac, numerosi poster dell'omonimo film di David Fincher e, cosa ben più importante, l'arma del delitto: un coltello da cucina. C'erano ancora tracce di DNA compatibile con quello di tutte e tre le vittime».
Sherlock aprì e richiuse la bocca con espressione allibita, che rispecchiava perfettamente la mia.
«Insomma, vorresti dire che si tratta solo di un pazzo che cercava di imitare Zodiac come un adolescente imita il proprio idolo?! Ahh no, diamine, non può essere così semplice!» esclamò frustrato, prendendo a vagabondare nervosamente per la cucina sotto lo sguardo mezzo dispiaciuto e mezzo divertito di Lestrade.
«Beh, purtroppo non tutti sono geni del crimine» replicò l'ispettore, incrociando le braccia e appoggiandosi al ripiano del lavello.
Feci un sorriso incredulo, scuotendo la testa come se nemmeno io lo ritenessi possibile. «E dire che il caso si prospettava interessante»
«Ora diventerà intrattabile per tutto il giorno. Non ti invidio, John»
«Già, a volte nemmeno io vorrei essere me».
Ridemmo sommessamente, beccandoci un'occhiataccia dal mio coinquilino.
«Lo trovate divertente?»
«Oh, no, assolutamente no» rispose Greg, continuando tuttavia a ridere e rendendosi in questo modo ancora meno credibile.
Osservai i lineamenti di Sherlock tesi dal nervosismo, il quale metteva in risalto anche gli zigomi, e mi venne in mente un'idea su come fargli passare (o almeno tentare di fargli passare) il cattivo umore. Un'idea semplice e non molto fantasiosa, a dire il vero, ma sarebbe potuta tornare utile per distrarlo un po'.
«Bene, ora è meglio che torni alla centrale. Non prendertela tanto, Sherlock, sono sicuro che nei prossimi giorni ti capiterà qualcosa tra le mani».
Sherlock non rispose, limitandosi a fare un verso scocciato, per poi dirigersi in salotto e sedersi sul divano con le ginocchia portate al petto.
Greg non ci diede molto peso, abituato a quel suo comportamento. «Ci vediamo, John. Mi raccomando, tienilo d'occhio»
«A presto, Greg...e sì, ormai è diventato il mio compito dopo quello di aiutarlo a pagare l'affitto».
Sorrise e, dopo avermi fatto un cenno con la testa, recuperò il cappotto dalla sedia su cui lo aveva scompostamente lasciato e se ne andò, facendo scricchiolare le scale di legno.
Raggiunsi Sherlock, che ancora teneva il broncio, e lo guardai per qualche istante con le mani sui fianchi.
Fissava il vuoto come se volesse creare un buco nell'aria e potevo quasi sentire gli ingranaggi che si muovevano freneticamente nella sua testa, alla disperata ricerca di qualcosa che potesse portare a una conclusione diversa da quella riferitagli da Lestrade.
Dopo un po' decisi di rompere il silenzio e di provare a mettere in pratica la mia idea.
«Sai, stavo pensando che potremmo andare a da Angelo, questa sera. È un po' che non ceniamo fuori».
Spostò lo sguardo sul mio, poi di nuovo davanti a sé, distendendo i muscoli delle spalle e rilassando il volto.
«Sì, perché no».
Sgranai gli occhi, non aspettandomi di certo una risposta così immediata e, soprattutto, positiva. 
Insomma, niente scenate, niente opposizioni, niente domande sconcertate su come potessi pensare ad una cena quando avrei dovuto aiutarlo a cercare un altro caso? 
«D-davvero? Hai detto sì?»
«Non mi sembra di aver parlato coreano, John».
Lo stupore non voleva saperne di abbandonarmi, ma mi affrettai a nasconderlo, non volendo apparirgli più idiota di quanto già pensava che fossi.
«Perfetto, allora. E cena sia».
Almeno al ristorante avrebbe potuto mettere in mostra la sua invidiabile intelligenza facendo deduzioni sull'intera vita di ognuno dei clienti.






 

Salve people :3
Un piccolo chiarimento: userò la terza persona solo nelle scene in cui John si confida con la signora Thompson, scene che ogni tanto faranno da "intermezzo" nei capitoli. Perché la storia è come se fosse il racconto di John, non so se mi spiego (probabilmente no ma ok)
Bene, ehm...non ho molto da dire. Di sicuro non sono dotata della stessa mente contorta degli sceneggiatori della serie, quindi non credo proprio che ne usciranno dei casi molto interessanti e coinvolgenti, ma diciamo che serviranno solo come sfondo e passeranno decisamente in secondo piano, quindi non dateci molto peso e concentratevi su John e Sherlock XP
E non preoccupatevi, nei prossimi capitoli inserirò anche la signora Hudson, Mycroft, Molly e gli altri personaggi.
Comunque vi ringrazio per le meravigliose recensioni ricevute fino ad ora :3
Spero di non aver scritto uno schifo e...niente. A presto!
Baci
Melissa

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Capitolo II







«Madre single sulla quarantina, talmente ossessionata dalla ricerca di un nuovo amore da iscriversi ad un sito di incontri. Riceve uno stipendio modesto e conduce uno stile di vita alquanto stressante».
Osservai con attenzione (naturalmente senza farmi notare) la donna dai lunghi capelli castani seduta ad un tavolo poco distante dal nostro, cercando di individuare i dettagli che avevano permesso a Sherlock di trarre quelle conclusioni, ma come al solito non arrivai a nulla.
«Sì, lo so, aspetti delle spiegazioni» disse con una leggera aria di superiorità, che ormai non mi dava più fastidio come ai primi tempi, per poi cominciare a parlare ininterrottamente. «Quando l'uomo con cui si doveva incontrare si è avvicinato al suo tavolo, lei gli ha rivolto uno sguardo dubbioso e l'istante dopo si è scusata con lui per non averlo riconosciuto subito, quindi è molto probabile che si siano conosciuti su un sito d'incontri e che prima d'ora avessero avuto un'idea l'uno dell'aspetto dell'altra solo tramite delle foto scambiate online; lei indossa solo bigiotteria e vestiti vecchi di almeno tre anni, il che significa probabilmente che non può permettersi di meglio, dal momento che per una serata galante avrebbe di certo messo un vestito nuovo di zecca o, per lo meno, qualcosa di più elegante; i segni sotto ai polsi sono stati lasciati dal bordo di una scrivania, non dal tavolo a cui è seduta, perché è rimasta con le braccia sul grembo per tutto il tempo: lavora in un ufficio e, a giudicare dalle unghie mangiucchiate, il suo lavoro, oltre a non soddisfarla pienamente dal punto di vista economico, la tiene continuamente sotto stress»
«E come hai fatto a capire che è una madre?»
«Ah, beh, quello è stato facile. Dieci minuti fa stava parlando al telefono con una certa Joey, a cui ha raccomandato di non andare a letto troppo tardi, perciò l'interlocutrice non poteva che essere sua figlia. Non una nipote o un'altra ragazzina a cui badare, non l'avrebbe mai lasciata a casa da sola sapendo di averne la piena responsabilità».
Annuii, abbassando poi lo sguardo sul mio piatto e arrotolando alcuni spaghetti sulla forchetta.
Sherlock invece non aveva toccato cibo e continuava ad osservare i clienti attorno a noi.
«Due coppie di amici» ricominciò, dopo aver adocchiato altri soggetti da sottoporre al suo attento studio. «La moglie dell'uomo biondo tatuato e il marito della donna dalla pettinatura anni '80 hanno una relazione segreta. Sono visibilmente a disagio, come si può vedere da...»
«Sherlock, vorresti farmi il favore di mangiare almeno un boccone? Non ricordo nemmeno l'ultima volta che ti ho visto mettere qualcosa sotto i denti».
Dalla sua espressione corrucciata capii che non gli era piaciuta per niente quella mia interruzione, ma lo avevo portato lì con l'intenzione di distrarlo momentaneamente dal lavoro e, al fine di raggiungere il mio scopo, non avevo avuto altra scelta se non zittirlo una buona volta.
Era praticamente da quando avevamo messo piede nel ristorante che non smetteva di espormi le sue deduzioni e, per quanto mi piacesse sempre ascoltarlo, non era così che volevo trascorrere l'intera serata.
Con mia grande sorpresa, ubbidì (seppur di malavoglia) e inforcò un pomodorino per portarselo alla bocca.
«Ti ringrazio» dissi con un mezzo sorriso.
I seguenti cinque minuti li trascorremmo senza proferire parola, facendo calare un silenzio interrotto solo dal picchiettare delle forchette sul fondo dei piatti e dalle chiacchiere dei clienti; io continuai a mangiare fino a svuotare il piatto, sazio e soddisfatto della cena, mentre è inutile dire che lui, dopo avermi concesso qualche boccone, non era più andato avanti a mangiare, ma mi trattenni dal rimproverarlo, ritenendolo solo uno spreco di tempo.
«Davvero non vuoi sapere come ho fatto a capire che quei due stanno insieme?» mi chiese dopo un po', intrecciando le mani sul tavolo e inarcando un sopracciglio in aspettativa.
A quel punto presi un lungo respiro e lo guardai con quella che aveva tutta l'intenzione di sembrare calma e pazienza, ma che non nascondeva un briciolo di esasperazione.
«Ascolta, capisco che ti dia fastidio non essere riuscito a risolvere il caso prima della confessione dell'assassino, ma...»
«Confessione senza cui Lestrade starebbe ancora navigando in mare aperto» si affrettò a precisare.
«Sì, non lo metto in dubbio. Come stavo dicendo, capisco la tua frustrazione, ma ti farà impazzire continuare a palesarla fino all'arrivo di un nuovo caso. Non pensarci, va bene?».
Tenne il suo sguardo fisso su di me con la fronte leggermente aggrottata, come se stesse cercando di capire se dietro le mie parole ci fosse chissà quale significato oscuro nascosto, mentre io mi pulivo la bocca con il tovagliolo e prendevo un sorso d'acqua dal mio bicchiere.
Poi rivolse nuovamente la sua attenzione alla clientela, senza però osservarla minuziosamente come poco prima, anzi, dal suo volto sembrava trasparire solo noia, se non addirittura fastidio.
«Iscrizioni a inutili siti, occhi dolci, sorrisi teneri, mani che si sfiorano "casualmente"...non è una cosa estremamente ridicola, l'amore?» disse con una più che percettibile nota di disprezzo, gli occhi trasformati in due fessure impenetrabili.
«Beh...no. No, io non lo definirei in questo modo» risposi pacatamente.
Alzò gli occhi al cielo. «Certo che no, non mi aspettavo diversamente. Basta vederti con una delle tue ragazze e diventi ridicolo quanto gli altri».
Non mi offesi più di tanto per quel commento; ormai ero più che abituato alla sua totale assenza di tatto e non mi dava più così fastidio come una volta (durante il nostro primo caso mi aveva dato dell'idiota e ricordo di esserci rimasto piuttosto male). Era fatto così e avevo imparato ad accettarlo.
Non che mancassero del tutto le volte in cui mi faceva arrabbiare, sia chiaro; anzi, come già accennato in precedenza, mi ero ritrovato più volte a lottare contro l'istinto di mollargli un ceffone.
Ma non era quello il caso.
«Sono stato bene con le ragazze con cui sono uscito fin ad ora, ma...non credo si possa parlare d'amore. L'amore è tutta un'altra cosa» dissi a bassa voce, quasi stessi parlando a me stesso, giocherellando distrattamente con il barattolino degli stuzzicadenti.
Improvvisamente sembrò interessarsi alla conversazione e mi guardò appoggiando il mento sulle mani intrecciate: probabilmente non vedeva l'ora di smontare la mia stupida e sentimentale spiegazione.
«E che cosa sarebbe, se non una serie di reazioni chimiche che conducono inevitabilmente al deterioramento di una persona che potrebbe sfruttare le proprie capacità intellettuali per scopi di gran lunga più produttivi?».
Feci una mezza risata, scuotendo la testa e abbassando per un istante lo sguardo sul mio piatto vuoto.
«Beh, è...». Esitai. «...Penso che sia quando ci si fida talmente tanto di una persona da essere disposti a seguirla ovunque ad occhi chiusi, non temendo minimamente i rischi e le conseguenze; quando basta un solo sguardo per leggersi a vicenda e rendere completamente inutili le parole; quando ci si rende conto che una persona è in grado di riempirti la giornata con gesti che possono sembrare sciocchi e privi di significato. Quando quella persona diventa, a volte inaspettatamente, ciò che nella tua vita è sempre mancato».
Avevo scelto con cura quelle parole, ma le avevo pescate in un angolo dentro di me la cui esistenza mi era sempre stata ignota, dal momento che con tutta probabilità, anche se non me n'ero mai realmente reso conto, non avevo mai provato quel sentimento nella sua pienezza, non importava il numero di ragazze con cui ero stato.
Io, John Hamish Watson, sapevo davvero più di Sherlock Holmes riguardo all'amore...?
Mi aveva ascoltato in silenzio e durante i secondi che seguirono non seppi decifrare la sua espressione, nemmeno quando le sue labbra a cuore si curvarono in un sorrisetto beffardo.
«Quindi in passato il nostro John Watson è stato innamorato» disse, come se avesse appena scoperto un indizio interessante per la risoluzione di un caso.
«No, non esattamente. Diciamo che questa è solo la visione che ho io di questo sentimento».
Ecco, ora che lo avevo detto mi sentivo un po' meno ipocrita.
«Mpf, noioso» rispose con una smorfia.
Feci un debole sorriso curioso e inclinai leggermente la testa di lato, come a volte faceva la mia terapista quando mi scrutava nel tentativo di leggermi più a fondo, di capire al di là della mie parole.
A volte mi chiedevo se fosse veramente possibile che Sherlock, da essere umano quale era, in trent'anni della sua vita non avesse mai provato nulla di vagamente simile all'amore nei confronti di una persona. Insomma, ok che rispetto a lui il resto del mondo sembrava possedere un quoziente intellettivo pari a quello di Anderson e sapevo quanto Sherlock cercasse di tenersi più alla larga possibile dagli idioti, ma doveva esserci una sola persona in grado di indebolire la sua corazza.
Che so, Irene Adler, per esempio.
Non appena quel nome fece capolino nella mia mente, mi ricordai di un piccolo particolare collegato alla vicenda della Dominatrice.
«Una volta mi hai accennato qualcosa riguardo al fatto che l'amore fosse "uno svantaggio spericoloso". Posso sapere che cosa intendevi esattamente?».
Congiunse i polpastrelli e socchiuse gli occhi, poi, sicuro di sé, alzò il mento come se mi stesse sfidando o, più probabilmente, come se fosse pronto a darmi una bella lezione di vita.
Ma quando fece per dire qualcosa si bloccò con la bocca semi aperta, interrotto da Angelo che si avvicinò al nostro tavolo per ritirare i piatti.
«Spero che la cena sia stata di vostro gradimento» disse con un sorriso affabile, guardandoci alternatamente (anche se immaginavo si stesse rivolgendo più che altro a me, dato che il piatto di Sherlock era rimasto mezzo pieno. Meno male che la maggior parte delle volte avevamo la fortuna di non dover pagare, altrimenti sarebbe stato un vero spreco).
«Sì, grazie, era tutto molto buono» risposi.
Lui fece un cenno con la testa e si allontanò con i piatti impilati su un braccio, andando poi incontro a nuovi clienti per indicare loro i posti liberi rimasti.
Dopo qualche istante Sherlock sì alzò dalla sedia e si infilò il lungo cappotto, seguito dalla sciarpa blu.
«Andiamo. Devo controllare se sul sito c'è qualche caso interessante».
Cercai di ribattere, ma decisi di lasciar perdere e sospirai con rassegnazione, alzandomi a mia volta: in fondo aveva già resistito abbastanza senza omicidi (ben quattro ore!) e, anzi, apprezzavo quello che per lui doveva essere stato un enorme sforzo.
E mi piaceva pensare che lo avesse fatto per me.



 

Ella Thompson accennò appena un sorriso e si sporse in avanti per appoggiare i gomiti sulle ginocchia, movimento che fece tintinnare i suoi lucenti orecchini di perle, in netto contrasto con la sua pelle scura.
«Dunque, se ho capito bene, il vero scopo della cena era quello di fare in modo che il signor Holmes dedicasse più tempo a lei piuttosto che ad uno dei suoi casi».
John si inumidì le labbra e passò la lingua all'interno della guancia, per poi annuire con indecisione: sì, ricordava che in quei giorni aveva avuto l'insolito desiderio di ricevere più attenzioni da parte di Sherlock e doveva ammettere di esserne rimasto piuttosto sorpreso, dal momento che fino ad allora non aveva mai dato peso al fatto che il consulente investigativo a volte lo ignorasse per ore, immerso nel suo palazzo mentale; da un po' di settimane a quella parte, invece, avrebbe voluto trascorrere con lui ogni momento libero che riusciva a sottrarre alle loro frenetiche ed estenuanti giornate, ma non aveva mai avuto modo di farglielo capire.
Insomma, sarebbe stato piuttosto imbarazzante.
«Naturalmente non ci sono arrivato subito» spiegò il dottore, schiarendosi la voce. «Ho rimesso insieme i pezzi solamente quando mi sono reso conto che più i giorni passavano, più cercavo in ogni modo di...ecco, ridurre la distanza tra di noi, capisce?»
«E quando se n'è reso conto, esattamente?».
John ci rifletté un momento.
Beh, forse quella stessa sera, quando quella distanza si era...decisamente ridotta.



 

«...Il ragazzo in due posti diversi allo stesso orario?»
«Terribilmente banale. Nel 92% dei casi si tratta di gemelli, non ho intenzione di perderci del tempo»
«Va bene, allora la statua rubata da un museo d'arte moderna...?»
«Noioso»
«Che ne dici del marito che tradisce la moglie con una ragazza che non è mai esistita? Sembra interessante»
«Farò finta che tu non l'abbia detto»
«Beh, a questo punto sembra che ci resti solo il gattino scomparso».
Sherlock sbuffò scocciato, si passò entrambe le mani sul viso e un secondo dopo scese dal divano con un abile balzo, per poi passare dall'altra parte del tavolino lì di fronte salendoci direttamente sopra, senza prendersi la briga di aggirarlo.
«Diavolo, diavolo, diavolo! I criminali hanno deciso di fare una pausa caffé, per caso??» esclamò con rabbia, arruffandosi i capelli e cominciando a fare avanti e indietro per il salotto.
Gli feci segno di abbassare la voce. «Sherlock, sta' calmo, vedrai che domattina Lestrade o Mycroft ci daranno qualcosa»
«Io lo voglio adesso» puntualizzò, mettendo enfasi sulla parola adesso.
Feci un sorrisino, chiusi il computer, rimettendolo sul tavolo, e andai a sedermi sulla mia poltrona. Poi lui si bloccò improvvisamente al centro della stanza, come se avesse avuto un'illuminazione, e si voltò verso di me con sguardo serio.
«John»
«Mh?»
«Il Cluedo».
Ecco, lo sapevo.
Come avevo potuto vivere nell'illusione che avesse finalmente capito che non intendevo più giocare secondo le sue regole e non quelle del foglietto di istruzioni?
Sospirai rumorosamente, lanciandogli un'occhiataccia. «Sherlock, ne abbiamo già parl...»
«O quello o le sigarette»
«Ah no, te lo scordi! Le sigarette rimangono dove le ho nascoste»
«John. Ti prego». Mi si avvicinò, piantanto i suoi occhi nei miei senza lasciarmi via di scampo, e «Fallo per me» disse con un filo di voce, visibilmente sull'orlo di una crisi di nervi.
Tanto lo sapevo che era una battaglia persa sin dall'inizio: non ero mai ruscito a rimanere impassibile davanti alle sue rarissime e quasi adorabili suppliche.
Ma sì, in fondo cosa importava se lui riteneva che la vittima potesse uccidersi da sola? Aveva bisogno di sfogarsi in qualche modo e non volevo di certo negargli questa possibilità.
«E va bene...» acconsentii rassegnato. «Vado a prendere la scatola».
Sherlock sorrise con soddisfazione e un pizzico di gratitudine, dando vita a delle simpatiche fossette sulle guance pallide e rischiarando l'ombra di malumore che gli velava il volto.
Si sedette al tavolo in maniera stranamente composta mentre io recuperavo il gioco dal mobiletto accanto al camino, scuotendo la testa tra me e me, meravigliandomi del fatto che in guerra non mi fossi mai fatto impietosire da nessuno, mentre lui era capace di farmi cambiare idea in meno di tre secondi usando come arma nient'altro che i suoi bei occhioni azzurri.
Mah.
Giocammo per quasi due ore, facendo venire le undici di sera, e credo non sia necessario precisare che tutte le partite le vinse lui (c'era di buono che aveva tentato di seguire il regolamento); ad un certo punto, però, le mie palpebre iniziarono a far sentire tutto il loro peso e, nonostante cercassi di rimanere sveglio, venivo continuamente tradito dagli sbadigli.
«John, va' a dormire» mi esortò Sherlock, avendo notato la mia aria non proprio sveglia e vigile.
Risposi con un mugugno indistinto, stropicciandomi gli occhi. «No, se vuoi possiamo fare un'altra partita, ce la faccio»
«No che non ce la fai, e non c'è bisogno delle mie deduzioni per capirlo. E poi stavo cominciando a stancarmi, credo che mi metterò a fare qualche esperimento. C'è ancora un sacchetto di orecchie umane nel frigorifero»
«Sì, ho notato».
Sorrise.
Trovare pezzi di cadaveri dove conservavamo il cibo rimaneva sempre disgustoso dal mio punto di vista, ma ormai non mi arrabbiavo più quando succedeva, avendo capito che fosse per...sì, beh, per il bene della scienza.
Misi a posto la mia pedina (che non mi ero nemmeno accorto essere Miss Scarlet*) e mi alzai dalla sedia, facendola stridere sul pavimento. «D'accordo, allora...vado» dissi con tono leggermente strascicato, ma venni bloccato dalla voce di Sherlock prima di potermi dirigere verso la mia camera da letto.
«John?».
Mi voltai verso di lui, incuriosito. «Sì, Sherlock?».
Si alzò a sua volta e venne verso di me, vicino, troppo vicino, tanto da poter contare le pagliuzze delle sue iridi, che in quel momento avevano assunto una chiara sfumatura di grigio. Era sorprendente il modo in cui erano in grado cambiare colore a seconda della luce dell'ambiente in cui ci trovavamo: potevano variare dall'intenso azzurro cielo ad un celeste ghiacciato, o da un brillante verde smeraldo ad un colore, come in quel momento, simile al grigio di una giornata di pioggia.
Non mi ero mai davvero reso conto di aver prestato così tanta attenzione ad un dettaglio come quello.
«Grazie» disse con voce profonda e sincera, a causa della quale il mio cuore perse un battito.
Grazie di cosa? Per aver accettato di giocare a Cluedo?
Avevo la mente troppo annebbiata per riuscire a chiederglielo, sia per il sonno che per la sensazione del suo caldo respiro sul mio viso.
Ma mi accorsi di quanto effettivamente non fossi lucido quando sentii l'impellente bisogno di un contatto fisico, qualcosa che annullasse definitivamente quei pochi centimetri che ci separavano; qualcosa che non mi ero mai azzardato a fare per paura di venire respinto, ma che più volte, soprattutto in situazioni particolarmente emotive, avevo desiderato.
Fu così che mi ritrovai ad avvolgere le mie braccia attorno alle sue spalle, sentendolo subito irrigidirsi per la sorpresa.
Fu strano.
Era un abbraccio piuttosto impacciato, ma dovevo ammettere che mi piaceva la sensazione dei nostri petti che aderivano, dei nostri cuori che battevano all'unisono e dei suoi riccioli che mi solleticavano la tempia.
Non mi aspettavo che lui ricambiasse la stretta, come infatti non fece, e quando mi staccai gli diedi un paio di pacche amichevoli nel tentativo (inutilissimo) di smorzare l'imbarazzo inevitabilmente creatosi.
«Buona notte, Sherlock» dissi dopo essermi schiarito la voce e, senza il coraggio di alzare lo sguardo per vedere la sua espressione, mi diressi verso le scale che portavano al piano di sopra.
Non mi rispose, il che lasciava dedurre che lo avessi sconvolto non poco.



 

Se non fosse stato per lo scoppiettio delle fiamme nel camino, nel salotto avrebbe regnato il silenzio più totale.
Mi sembrava quasi di essere da solo in casa, tant'è che ogni tanto mi ritrovavo a lanciare qualche veloce occhiata a Sherlock da sopra il giornale, giusto per verificare che fosse sempre lì seduto al tavolo con l'attenzione completamente focalizzata sul suo computer.
Anzi, sul mio computer, dato che la maggior parte delle volte il suo rimaneva confinato in un angolo della sua camera da letto.
«Stai ancora valutando quale caso sia degno del tuo tempo?» gli chiesi distrattamente, leggendo un piccolo paragrafo dedicato allo sport.
Silenzio.
Abbassai il giornale sulle ginocchia, spostando lo sguardo su di lui.
«È da due ore che sei davanti allo schermo» continuai, ma dovetti attendere qualche altro istante prima di ricevere una risposta.
«Mh? Ah, no, veramente stavo...stavo facendo delle ricerche»
«Su cosa?»
«Qualcosa che potrebbe tornarmi utile in situazioni di emergenza»
«Significa che hai trovato un caso a causa del quale potresti cacciarti in guai particolari?»
«Oh, ma per favore! Non ho bisogno di fare ricerche su come ci si toglie dai guai e penso che questo tu lo sappia perfettamente».
D'accordo, per qualche strana ragione non voleva dirmi cosa stava combinando da più di due ore.
Annuii con finta indifferenza, concentrandomi nuovamente sul quotidiano.
Da un paio di giorni Sherlock si stava comportando in modo alquanto strano nei miei confronti; non che i suoi atteggiamenti in qualsiasi altra circostanza si potessero definire esattamente nella norma (insomma, era Sherlock), ma avevo notato qualcosa di innegabilmente diverso nel suo modo di parlarmi, di guardarmi, persino di stringermi la mano dopo essersi congratulato per aver risolto con successo un intricato omicidio (sì, alla fine Lestrade non ci aveva deluso).
Era diventato più freddo, introverso e scostante del solito, eppure non ricordavo alcuna discussione accesa, alcun episodio particolarmente sgradevole che potesse fornirmi una spiegazione plausibile.
Sicuramente non mi avrebbe risposto sinceramente se avessi provato a chiedergli cosa stesse succedendo, ma in un modo o nell'altro, costasse quel che costasse, lo avrei scoperto.
Mai sottovalutare le abilità di John Watson.
Ad un tratto la quiete venne interrotta dalla signora Hudson, che con il suo solito «Yoo-hoo?» fece capolino all'ingresso con un vassoio in mano.
«Buongiorno, miei cari, vi ho portato il vostro té» disse con voce gentile e un allegro sorriso, avvicinandosi con due belle tazze di té fumante e appoggiando il vassoio sul tavolino accanto a me.
«La ringrazio molto» dissi anche per Sherlock, che, totalmente immerso nella sua ricerca, non le aveva rivolto nemmeno uno sguardo.
Lei sembrò non darci peso e continuò a parlare. «Come stanno andando le cose qui? Avete avuto a che fare con qualche altro serial killer?»
«Ah, no, nessun serial killer, ma abbiamo comunque risolto un omicidio piuttosto complesso»
«Ho risolto, vorrai dire» precisò Sherlock, degnandoci per un istante della sua presenza. «Tu ti sei praticamente limitato ad esprimere la tua meraviglia riguardo alle mie osservazioni».
Lo guardai e aggrottai la fronte, confuso per il tono tagliente con cui aveva pronunciato quelle parole, oltre che indignato per le parole stesse.
Feci per rispondergli, ma la signora Hudson mi precedette.
«Oh, Sherlock, com'è scortese! Non dovrebbe trattare John in questo modo» lo rimproverò con fare prettamente materno.
Lui le lanciò un'occhiataccia, poi, imbronciato, rivolse nuovamente l'attenzione allo schermo.
«Oh, John, non avrete mica bisticciato, vero?» domandò preoccupata la signora, chinandosi verso di me e portandosi le mani al petto.
Le feci un sorriso rassicurante e scossi la testa. «È solo un po' nervoso a causa della noia. Non si preoccupi, gli passerà presto».
Ne dubitavo molto, ma non volevo che facesse troppe domande, anche perché non avrei nemmeno saputo darle delle risposte.
«Beh, d'accordo...se avete bisogno sapete dove trovarmi».
Annuii e la salutai con un cenno della testa, aspettando poi che uscisse per levarmi il sorrisino finto di dosso e sostituirlo con l'aria stranita di poco prima.
«Perché hai detto quelle cose?»
«Perché è la verità» .
«Ma non...non è vero! Che diavolo, mi sono quasi fatto sparare e hai il coraggio di dire che non ti ho aiutato?»
«Sono i normali rischi del mestiere, John. Per quanto riguarda la risoluzione del caso, no, non mi hai aiutato».
Io davvero non lo capivo. Ci provavo, sul serio, ma era qualcosa che a quanto pareva non rientrava nelle mie possibilità.
Due giorni prima mi aveva persino espresso la sua gratitudine, cosa che non avrei mai pensato potesse accadere, e invece ora mi umiliava facendomi sentire sciocco e inutile?
Ok, avevo avuto la prova definitiva: qualcosa lo turbava profondamente.
Sospirai esasperato e tornai a sfogliare il giornale, girando però le pagine con evidente irritazione (una si stropicciò leggermente) e facendo scorrere lo sguardo sulle righe dei paragrafi senza capire una parola.
Mi arresi dopo pochi minuti di silenzio, durante i quali si poteva quasi toccare con mano la tensione creatasi nell'aria.
«Va bene, che ti succede, Sherlock?» chiesi stancamente, alzandomi per posare il giornale sul tavolo e avendo così un pretesto per avvicinarmi a lui.
Sbuffò scocciato. «Non mi succede proprio niente»
«Sai che non me la dai a bere»
«Ho detto che non mi succede niente!».
Sussultai per l'improvviso aumento del volume della sua voce, seguito dal suo brusco alzarsi dalla sedia, chiudere il computer e sparire in bagno, da cui qualche istante dopo udii il getto della doccia.
Approfittando della situazione, riaprii il pc e provai a controllare la cronologia, sapendo però che doveva averla sicuramente cancellata.
Lo stupore si disegnò sul mio volto quando vidi che invece non l'aveva fatto (come poteva Sherlock Holmes aver commesso un simile errore?), ma la vera sorpresa arrivò quando lessi ciò che aveva digitato nella barra di ricerca: "Sintomi dell'innamoramento e rimedi".







 

*Per chi non ha mai giocato a Cluedo, cosa che ritengo alquanto improbabile, Miss Scarlet (in alcune versioni scritto Scarlett) è uno dei personaggi del gioco :3 Quello che da piccola volevo essere sempre io, lol
 

Non so voi, ma io sono elettrizzata a livelli pericolosamente estremi per le imminenti riprese della quarta stagione, WAAAH *_* Sapere che tra pochi giorni rivedremo Martin e Ben insieme mi riempie il cuoricino di gioia.
Anyway, finalmente ce l'ho fatta ad aggionare :') Anche se non credo proprio che questo capitolo sia worth the wait e mi scuso per questo :( Cercherò di movimentare le cose il più presto possibile :(
Ci stavo pensando da un po', ma credo che questa storia, da quel che sta venendo fuori (e non so esattente che roba ne stia venendo fuori), possa essere collocata tra The hounds of Baskerville e The Reichenbach fall. Non che possa interessarvi particolarmente, ma era tanto per darle una posizione nel tempo :')
Grazie a tutti quelli che l'hanno aggiunta tra le seguite/preferite/ricordate e a coloro che l'hanno recensita fino ad ora :*
Ci leggiamo (?) al prossimo capitolo!
Baci
Melissa

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Capitolo III








-1 nuovo messaggio-

Elizabeth McLean ha mentito.
È chiaro che si trovasse con David ieri sera, hai visto le macchie sulla sua gonna?
S

[2:23 p.m.]

No, Sherlock, non le ho viste le macchie sulla sua gonna.
[2:24 p.m.]

Strano, credevo che fosse il primo posto su cui avresti posato gli occhi.
[2:24 p.m.]

Non sei divertente.
[2:27 p.m.]

Dobbiamo interrogarla di nuovo e subito, prima che parta per Maidstone.
Incontriamoci davanti alla Quintin Kynaston tra mezz'ora.

[2:28 p.m.]

Sherlock, sono ad un appuntamento! Ma in effetti non pretendevo che te ne ricordassi.
[2:28 p.m]

Me lo ricordo, John, e temo che dovrai dire a...Kate? Katy? di avere una questione urgente da sbrigare.
[2:29 p.m.]

E se invece non volessi venire?
[2:30 p.m.]

Andiamo, a chi vuoi darla a bere? Se fossi davvero così interessato a quella ragazza non staresti messaggiando con me, rispondendomi tra l'altro in un'arco di tempo piuttosto breve, che varia dai quaranta secondi a un minuto.
[2:31 p.m]

Oh, adesso tardi volutamente a rispondermi per farmi credere di n
on aver ragione? Pensavo mi conoscessi, John.
[2:35 p.m.]

Sono sicuro che te la caverai benissimo anche senza di me. In fondo io "mi limito ad esprimere la mia meraviglia riguardo alle tue osservazioni", giusto?
[2:35 p.m.]

Oh, per favore, non dirmi che sei ancora arrabbiato per quello che ho detto ieri.
[2:36 p.m.]

John.
[2:38 p.m.]

Lo sai che ho bisogno del tuo aiuto.
[2:38 p.m.]

Sarei perso senza il mio blogger.
[2:39 p.m.]

Irrigidii la mascella e strinsi la presa attorno al cellulare senza rendermene conto, mentre una sensazione del tutto indesiderata di calore prendeva prepotentemente possesso del mio stomaco.
Dio, com'era possibile che una semplice frase da parte sua riuscisse sempre, sempre a far vacillare ogni mio tentativo di negargli qualcosa?
Già, perché malgrado io ci avessi  disperatamente provato innumerevoli volte, non ero mai riuscito a dirgli di no, qualunque fosse la sua richiesta o per quanto bizzarra essa potesse risultare: lui era sempre riuscito a trovare un modo per ottenere la mia accondiscendenza e ciò era dannatamente frustrante.
Perché cedevo così facilmente al suo volere?
«Vedo che il tuo amico è piuttosto insistente, forse dovresti andare» disse Katherine con tono esitante, guardandomi dall'altra parte del tavolo con i suoi dolci occhi marroni.
Oh, una parte di me sapeva di voler andare, sapeva di voler proseguire le indagini su quel caso che per mia sfortuna si stava rivelando così fottutamente intrigante.
Sapeva di voler rivedere Sherlock.
Ma per una volta decisi di lasciare che l'altra parte, quella orgogliosa e determinata, prendesse il sopravvento.

Tu intanto vai ad interrogarla.
Quando Katherine dovrà andare al lavoro ti raggiungerò e mi riferirai le parole della signorina McLean.

[2:41 p.m.]

Rimisi il telefono in tasca e sorrisi cordialmente alla ragazza, che ancora attendeva una mia reazione con malcelata speranza.
«No, può aspettare ancora un po'» risposi con una decisione di cui io stesso mi stupii, facendole fare un respiro di sollievo.
Intanto, però, c'era sempre quella minuscola e fastidiosa vocina nella mia testa che si domandava il perché di quella sceneggiata del "Più-sto-lontano-da-Sherlock-meglio-sarà-per-me" e, soprattutto, se servisse davvero a qualcosa.
Ovviamente sapevo già la risposta ad entrambi i quesiti.
La verità era che mi sentivo tremendamente, maledettamente confuso da ciò che era successo quella mattina; niente che qualunque altra persona normale avrebbe ritenuto così sconvolgente, a dire il vero, ma che era stato comunque in grado di scatenare una serie di strane sensazioni che non riuscivo più a scrollarmi di dosso.
Raccontandola brevemente, stavamo avendo una delle nostre normali e non rare discussioni e ad un certo punto io mi ero stufato di starlo a sentire, così avevo deciso di uscire a prendere un po' d'aria, ma prima che potessi raggiungere le scale Sherlock mi aveva fermato, mi aveva preso il volto tra le mani e mi aveva chiesto scusa; poi, senza distogliere lo sguardo dal mio, aveva fatto scorrere le mani lungo le mie braccia fino a raggiungere i miei polsi, che aveva stretto delicatamente.
E in quell'istante, Dio, il mio cuore aveva preso a battere talmente forte che avevo avuto paura potesse schizzare via dalla gabbia toracica; avevo sentito la gola stringersi, lo stomaco attorcigliarsi, il respiro mozzarsi.
Avevamo passato qualche secondo in quella posizione, dopodiché Sherlock, come resosi improvvisamente conto della situazione anomala, si era ricomposto e se n'era andato in cucina come se niente fosse accaduto, lasciandomi lì in piedi con un grande punto interrogativo (a cui se n'era subito aggiunto uno esclamativo) ad aleggiare sopra la mia testa, perché, diamine, in passato avevamo già avuto contatto fisico, anche se il più delle volte involontario o imposto da circostanze pericolose, eppure nessuna di quelle volte mi ero sentito in quel modo. Nemmeno io sapevo definire cosa esattamente si fosse mosso dentro di me, ma era stato...spaventoso.
Avevo avuto paura di quelle sensazioni.
Ed ecco perché avevo praticamente evitato Sherlock per il resto della giornata (e lo stavo ancora facendo).
Così ora eccomi lì, in un ristorante indiano con una ragazza di nome Katherine che, in teoria, avrebbe dovuto distrarmi da ogni pensiero riguardante due iridi cristalline e penetranti e due zigomi alti e marcati, senza però riuscirci completamente.




Una volta giunto al termine l'appuntamento, mi incamminai verso un piccolo parco dall'altra parte della strada e, percorrendo il sentierino sassoso che attraversava un prato dall'erba ben curata, tirai fuori il cellulare.

Ora posso raggiungerti. Sei ancora a casa della McLean?
[3:15 p.m.]

Mi sedetti un momento su una panchina rivolta verso alcuni scivoli e altalene e sospirai, inalando l'aria fresca di aprile.
Quattro o cinque bambini si rincorrevano spensierati, ridendo, gridando e salutando di tanto in tanto i genitori che, pur parlando tra di loro, tenevano sempre un occhio vigile sui propri figli.
A volte mi ritrovavo a pensare a come sarebbe stato. Avere dei figli, intendo.
Crearsi una famiglia, condurre un'esistenza tranquilla e normale.
Ci sarei riuscito, se le cose fossero andate diversamente? Dove mi sarei trovato in quel preciso istante se Mike Stamford non mi avesse mai presentato Sherlock? Se avessi trovato un appartamento per conto mio e se, magari, avessi trovato una donna con cui condividerlo per il resto (o, se non altro, per gran parte) della mia vita?
"Non prendiamoci in giro. Quale vita? Se non avessi mai conosciuto Sherlock Holmes non ce l'avresti nemmeno, una vita".
Già, era ora che mi rassegnassi a quell'evidenza.
Sherlock mi aveva regalato qualcosa di diverso dalla monotonia, dalla disperazione, dalla solitudine.
Mi aveva regalato giornate fatte di azione e adrenalina, di meraviglia e di stupore e, quando capitava, di té bevuto davanti al camino con le dolci note di un violino in sottofondo.
Mi aveva regalato una persona che fosse in grado di riempire i momenti vuoti con la sua sola presenza, anche restando in silenzio per ore; mi aveva regalato un amico.
No, non credevo proprio che avrei cambiato la mia vita insieme a lui con una ordinaria, così come non sarei mai riuscito a cambiare lui con nessuna donna.
Feci un lieve sorriso sghembo senza accorgermene, fissando il vuoto.
Poi mi resi conto del fatto che l'oggetto dei miei pensieri non aveva ancora risposto al mio messaggio o, se lo aveva fatto, non avevo sentito il suono della notifica.
Ripresi il cellulare e, quando vidi che effettivamente la scritta ''1 nuovo messaggio'' era assente, aggrottai la fronte: di solito Sherlock mi rispondeva quasi immediatamente, a meno che non fosse estremamente impegnato, cosa che ritenevo improbabile, dal momento che doveva soltanto porre delle domande alla sospettata.

Beh? Che stai facendo?
[3:20 p.m.]

Attesi di nuovo.
Una madre portò via sua figlia dal parco e la bambina si mise a fare i capricci; un ragazzo e una ragazza mi passarono davanti camminando mano nella mano; una signora anziana si sedette sulla mia stessa panchina.
Passarono due minuti.
Tre.
Sei.
Ancora nessuna risposta.
''Andiamo, che diavolo stai combinando?''.
Poi ad un tratto, mentre cominciavo a pensare ad ogni possibile e plausibile causa per il suo ritardo, capii.
«Oh, adesso so a che gioco stai giocando» dissi a bassa voce, scuotendo la testa tra me e me con un sorrisino mezzo divertito e mezzo esasperato.

Cos'è, adesso sei tu ad ignorarmi per farmela pagare? Molto maturo da parte tua.
[3:26 p.m.]

Se la mia teoria era corretta, avrei dovuto insistere un bel po' prima di farlo capitolare e la cosa mi irritava non poco.

Senti, non puoi comportarti così solo perché ho deciso di rimanere ancora un po' con Katherine. Sarei venuto subito con te se si fosse trattato di qualcosa di più impegnativo di un interrogatorio.
[3:27 p.m.]

Comunque avevi ragione, sai. Non è poi così interessante.
[3:29 p.m.]

Sherlock.
[3:31 p.m.]

Per l'amor del cielo, mi vuoi rispondere?!
[3:34 p.m.]


Non riuscivo a credere che lo stesse facendo davvero. Perché mai mi chiedevo come sarebbe stato essere genitore? Avevo vissuto con un bambino fino ad allora!
Dopo altri due minuti d'attesa la mia pazienza raggiunse il suo limite, il quale si era abbassato notevolmente dal primo giorno in cui Sherlock era entrato nella mia vita e, rendendomi conto di star sprecando tempo e credito residuo, decisi di mandare al diavolo lui e il suo essere fastidiosamente -adorabilmente- permaloso.

D'accordo, come vuoi tu. Io vado a fare un giro, allora.
[3.36 p.m.]

Sospirai rumorosamente e mi alzai dalla panchina, incamminandomi a passo veloce verso i cancelli all'uscita del parco, ma prima che potessi raggiungere la strada il mio cellulare, il mio dannato cellulare, finalmente emise quel suono che avevo pazientemente atteso per venti minuti.
Lo feci quasi cadere, tanta fu la fretta con cui lo tirai fuori dalla tasca dei pantaloni; quando lessi il messaggio, invece, temetti che sarei stato io quello a finire a terra.

Aiuto
Baker St

[3:37 p.m.]

Per un attimo fu solo vuoto.
I rumori attorno a me divennero ovattati, i colori sfocati.
Il battito cardiaco assente.
«Cristo santo...» buttai fuori in un soffio, muovendo a malapena le labbra e barcollando lievemente, come se sentissi il terreno cedere sotto i miei piedi.
Poi, una volta ripreso il controllo dei miei sensi, non esitai un secondo di più e mi precipitai a rotta di collo verso il marciapiede per chiamare un taxi.
Fortunatamente non dovetti aspettare molto prima di riuscire a fermarne uno; salii velocemente, chiusi la portiera con un po' troppa forza e, senza disturbarmi a trovare una posizione decente sul sedile, mi sporsi in avanti verso il posto del guidatore.
«Baker Street» dissi al tassista con una più che evidente nota di urgenza e agitazione nella mia voce. «Faccia più in fretta che può!».





Nonostante stessi cercando con tutto me stesso di non farmi prendere dal panico, salii le scale a due a due e tirai subito fuori la pistola, assicurandomi che fosse carica; la porta del nostro appartamento era aperta come sempre e non appena giunsi al centro del salotto, l'arma puntata prontamente davanti a me, cominciai a guardarmi attorno.
«Sherlock!» gridai, non vedendolo né lì né in cucina.
Cercai di calmare il respiro e il battito cardiaco.
«Sherlock» ritentai, stavolta con voce più bassa.
Non ricevetti risposta e dopo essermi accertato che non ci fosse nessuno nemmeno in bagno e nella camera da letto di Sherlock, salii velocemente le scale che portavano al pano superiore, ignorando il nodo soffocante impossessatosi della mia laringe ; ''Dio, ti prego, fa' che stia bene'' implorai mentalmente e, sul serio, se gli fosse successo qualcosa non avevo idea di quale sarebbe stata la mia reazione (e non ci tenevo nemmeno a saperlo).
Benché non fosse decisamente il momento per lasciarsi sopraffare dai sensi di colpa, non riuscii a fare a meno di pensare che, mentre di solito eravamo sempre l'uno accanto all'altro nei momenti di pericolo, pronti ad aiutarci a vicenda, quella volta lo avevo lasciato da solo per la ragione più futile di questo mondo.
Se fossi stato con lui avrei potuto proteggerlo.
''No, John, non adesso: resta vigile e concentrato''.
Spinsi piano la porta della mia camera, facendola cigolare sui cardini, e strinsi di più la presa sul calcio della pistola.
In ogni angolo della casa regnava il silenzio più totale, nulla si muoveva, nulla emetteva suoni o rumori e non c'era nemmeno qualche indizio che facesse pensare ad un'irruzione: tutto sembrava esattamente al suo posto e perfettamente normale, anche lì dove mi trovavo.
Poi accadde tutto in una frazione di secondo.
Un'anta dell'armadio si aprì di scatto con un rumore secco, rivelando una figura femminile che inizialmente non riuscii a distinguere: l'istinto mi disse di sparare e lo feci, una, due, tre volte, ma, nonostante la vicinanza, a causa dell'incredibile agilità della donna i proiettili andarono a conficcarsi nel muro; si riparò dietro il letto e, dannazione, scoprii che anche lei era armata quando cominciò a sparare da sotto di esso, non sfiorandomi la gamba sinistra solo per pura fortuna.
Balzai sul materasso sia per evitare i colpi che per tentare di sorprenderla dall'alto, ma mi pietrificai improvvisamente quando vidi che, una volta alzatasi, stava stringendo Sherlock per il collo, puntandogli la pistola alla tempia.
Fu solo allora che la riconobbi: Elizabeth McLean.
«Non faccia un passo o lo ammazzo» mi minacciò con un ringhio, cominciando a spostarsi verso la porta. «Metta giù la pistola e tenga le mani in vista».
Guardai Sherlock con il terrore negli occhi, non solo perché le sue cervella sarebbero potute saltare da un momento all'altro, ma anche perché notai qualcosa di palesemente anomalo in lui: sembrava sotto l'effetto di qualche sostanza, e questa volta credevo proprio che non se la fosse somministrata lui stesso.
Avrebbe anche potuto essere qualcosa di letale e ogni momento passato ad esitare avrebbe potuto costargli caro.
Bastò quel solo pensiero a farmi obbedire all'ordine di Elizabeth: gettai la pistola sul letto e alzai lentamente le mani, che presero a tremare impercettibilmente.
Passarono istanti che sembrarono durare una vita intera e io continuai a tenere gli occhi fissi sul volto per niente lucido di Sherlock; dopodiché la donna lo lasciò andare bruscamente, uscì dalla stanza con uno scatto felino e pochi secondi dopo era già fuori dall'appartamento, trovando però l'edificio già circondato dalla polizia.
Sospirai di sollievo: fortunatamente Lestrade aveva sempre un ottimo tempismo. 
Dopo essermi ripreso almeno in parte dallo shock di tutto ciò che era successo nell'arco di cinque minuti, potei finalmente fiondarmi su Sherlock, sdraiato malamente sul pavimento, e gli presi il viso tra le mani.
«Sherlock? Sherlock, riesci a sentirmi?».
Tutto ciò che ricevetti in risposta furono dei mugugni, delle parole non collegate tra loro e... il mio nome.
«J-John...» disse a fatica, aggrappandosi alla mia giacca con le forze che gli erano rimaste.
Lo sollevai e lo strinsi al mio petto, posandogli una mano sulla nuca e cercando di tranquillizzarlo. «Sì, Sherlock, sono qui. Va tutto bene adesso»
«John, st...stai...con me».
Ebbi un tuffo al cuore.
Me lo chiese in maniera quasi supplicante, con lo sguardo smarrito.
«Sempre» risposi con voce spezzata. «Non ti abbandonerò mai più. Dio, mi dispiace tanto, Sherlock...».
Mi separai da lui quando Lestrade fece la sua comparsa alla porta con il fiatone e gli occhi sbarrati.
«Dio mio, state bene?» chiese preoccupato, guardando alternatamente me e il corpo sempre più debole di Sherlock che tenevo tra le braccia.
«Io sì, ma dobbiamo portare subito Sherlock in ospedale» risposi frettolosamente, non perdendomi a dare spiegazioni.














Ed eccomi qui dopo aver fatto passare altre due ere glaciali dall'ultimo aggiornamento :')
Sarà così almeno fino a giugno, mi dispiace :c
So che probabilmente vi aspettavate la reazione di John alla curiosa ricerca di Sherlock, ma non si può dire che comunque non si sia ritrovato a fare i conti con i sentimenti, no? XD E poi la questione si riaprirà alla fine, don't worry.
Sinceramente non so quanti capitoli avrà questa storia (non molti, comunque. Forse cinque o sei in tutto), è partita come un esperimento e perciò sto praticamente improvvisando (e nonostante ciò mi avete lasciato delle recensioni stupende e vi ringrazio di cuore per questo), quindi...ecco.
Nel prossimo avrete chiarimenti sul caso McLean e...beh,dicamo che John finalmente si sveglierà :)
Ci sentiamo!
Baci
Melissa

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Ed eccomi qui! Ce l'ho fatta! :')
(Sì, credo che d'ora in poi scriverò le note a inizio capitolo).
Dunque, credo che questo capitolo sia venuto un po' più lungo del solito (ma non poteva essere altrimenti, dato che è il più importante della ff) e il prossimo dovrebbe essere l'ultimo.
Non ho niente di particolare da dirvi, se non le solite cose sullo sperare di non aver scritto uno schifo :3
Buona (spero) lettura!



 


Capitolo IV





 

Dio, era stata una sua decisione rivolgersi alla signora Thompson, ma quella seduta si stava rivelando dolorosamente interminabile. Il tempo non sarebbe dovuto già scadere da un pezzo?
Non era sicuro di riuscire a resistere ancora a lungo, non ora che erano arrivati ad un punto così...così delicato della conversazione e, soprattutto, non con quella fottuta consapevolezza che martellava sempre più prepotentemente nella sua testa; una consapevolezza che, in fondo, era sempre stata lì (una verità lapalissiana, l'elefante nella stanza), ma che aveva sempre cercato disperatamente di ignorare.
Ed era dannatamente difficile darle il benvenuto, ora che si era presentata in tutta la sua nitidezza, ridendo di lui e della sua cecità.
Strizzò le palpebre, serrò le labbra, strinse i pugni.
Scosse la testa.
«John».
La voce di Ella lo riportò improvvisamente al presente.
«Si rilassi. Mi stava raccontando cosa è successo dopo che il signor Holmes è stato dimesso, vada avanti».
Ma sì, in fondo era lì per quello, no? Per affrontare i suoi dubbi, le sue paure e le sue incertezze una volta per tutte.
Era certo che una volta raccontato tutto alla terapista avrebbe avuto le idee più chiare e si sarebbe sentito più leggero, libero da quell'opprimente masso di emozioni represse che gravava sul suo petto ormai da settimane.



 

Fortunatamente Sherlock stava bene, più o meno: la signorina McLean gli aveva semplicemente fatto inalare una sostanza in grado di stordirlo e farlo cadere in un sonno profondo per parecchie ore, simile al potente sedativo usato da Irene Adler per costringerlo a restituirle il suo prezioso telefono.
A quanto pareva era l'unico metodo alternativo alla morte che permettesse di chiudere la bocca del mio irritante coinquilino...avrei dovuto tenerlo a mente anch'io, da allora in avanti.
Lo fecero rimanere in ospedale per una notte, giusto per tenerlo sotto controllo nel caso fosse sorta una qualunque complicazione, e io, nonostante le rassicurazioni dei medici sul fatto che non ci fosse niente da temere, non ne volli sapere di tornare a casa, così trascorsi una scomoda nottata dormendo (parola grossa) su una delle sedie nel corridoio accanto alla sala d'aspetto: probabilmente fu il senso di colpa che ancora mi attanagliava a farmi prendere quella decisione.
E ora eccomi lì, tredici ore dopo lo sfortunato episodio, appoggiato allo stipite della porta della cucina con le braccia conserte a farmi dare spiegazioni dal malcapitato, mentre quest'ultimo posizionava un vetrino sul tavolino traslatore del suo microscopio.
«...La sera in cui David è stato ucciso e a casa sua abbiamo trovato Rachel in lacrime, lei ha raccontato alla polizia di averlo trovato morto dopo essere rientrata da una festa alla tenuta dei coniugi Williams, ma dalle macchie sulla sua gonna era chiaro che stesse mentendo. Avrai notato la cura pressoché maniacale che dedica all'aspetto estetico, e questo comprende trucco, acconciatura e abbigliamento: non sarebbe mai andata ad una festa di tale galanteria con una gonna macchiata di ketchup, nonostante lo sporco non fosse particolarmente visibile. E no, no se l'è sporcata dai Williams, se è questo che ti stai chiedendo, poiché dubito fortemente che abbiano abbinato del ketchup alle raffinate pietanze che senza dubbio sono state servite»
«Quindi eri riuscito ad incastrarla»
«Non definitivamente, ma c'ero molto vicino e questo deve averla mandata nel panico. Non mi ero accorto che mi stesse seguendo fino a casa: non sarà furba nel pianificare omicidi, ma sa come passare inosservata»
«Dunque i tuoi sospetti su di lei hanno avuto una conferma decisiva solo quando ti ha aggredito»
«Come ho già detto, John, ero comunque molto vicino alla verità. Ci sarei arrivato in pochissimo tempo»
«Ma certo, non ne dubito. Non sia mai che il tuo orgoglio da "Mente Più Brillante di Londra" venga ferito».
Sollevai l'angolo della bocca in un mezzo sorriso divertito, ma lui restò in silenzio per i successivi istanti, concentrandosi sulla mucosa orale da esaminare.
Non mi mossi dallo stipite e non distolsi lo sguardo dal suo profilo, seguendone distrattamente i tratti e pensando (accidenti alla mia testa e alla sua predilezione per i pensieri indesiderati) a quante volte fossi stato veramente vicino alla possibilità di non rivederli mai più.
Nel corso di quei due anni ci eravamo ritrovati nelle situazioni più assurde e inimmaginabili e avevamo avuto a che fare con criminali di ogni genere, buttandoci a capofitto nel pericolo per il puro piacere di farlo: eravamo matti da legare, ma la cosa non era mai dispiaciuta a nessuno dei due ed erano stati pochi i momenti in cui mi ero soffernato a riflettere sul fatto che le nostre vite fossero costantemente appese a un filo (lui non ci pensava di certo, o almeno non gli importava poi molto).
Ciò che invece mi turbava in quel preciso momento, e che aveva continuato a turbarmi dal giorno prima, era che questa volta sarebbe potuto accadere il peggio per colpa mia, e in tal caso non sarei mai più riuscito a vivere in pace con me stesso.
«John, sono sicuro che tu conosca modi assai migliori di impiegare il tempo piuttosto che osservarmi durante un esperimento sulla mucosa orale» disse Sherlock con tono grave e pacato, rompendo il silenzio e facendomi sussultare lievemente.
Mi schiarii la voce e annuii. «Oh, ehm...certo, scusa».
Mi voltai, facendo per allontanarmi verso il bagno per farmi una doccia, ma mi bloccai dopo aver fatto solo un passo; esitai, spalle tese e pugni chiusi, non sapendo se dar voce ai miei pensieri o ingoiare le parole che da ore pregavano di uscire dalla mia bocca, stanche di rimanervi ostinatamente imprigionate.
Per fortuna il coraggio era una delle mie innate caratteristiche.
Mi girai nuovamente verso di lui e «Sherlock...», dissi titubante.
Sherlock dovette notare qualcosa di insolito nella mia voce, poiché, senza che me lo aspettassi, distolse l'attenzione dal microscopio per focalizzarla completamente su di me; rimase in paziente attesa, lo sguardo ghiacciato che non tradiva alcuna emozione particolare, mentre io sentivo lo stomaco chiudersi lentamente.
«Scusami» riuscii a sussurrare, serrando le labbra e guardandolo con la speranza di riuscire a trasmettergli tutto il mio sincero pentimento.
Lui capì subito a cosa mi stessi riferendo e aggrottò leggermente la fronte, su cui i riccioli neri ricadevano morbidi e ribelli.
«Non è colpa tua, John»
«Sì, invece sì. Se fossi venuto con te avrei potuto evitare ciò che è successo»
«Non è successo niente. Sono ancora qui, no? E sto bene, come puoi vedere. Mi sono ritrovato in situazioni assai più problematiche. E poi ci capita spesso di doverci separare durante le indagini, ed è pressoché inevitabile che ad uno di noi due accada qualcosa in assenza dell'altro»
«È diverso, Sherlock, questa volta non eravamo separati per il caso. Io non sono voluto venire»
«Lo hai detto anche tu che era solo un interrogatorio, non potevi certo prevedere che...»
«Non sono voluto venire perché avevo paura».
A quelle parole si zittì improvvisamente, rimanendo con le labbra socchiuse per essere stato interrotto a metà frase, e la confusione sul suo volto aumentò visibilmente.
«Paura di cosa?» chiese con incertezza, cosa che raramente avevo avuto occasione di vedere in lui.
Deglutii, respirando profondamente. «Di te».
Dio, lo avevo detto.
Quelle due semplici parole lo spiazzarono e il silenzio che seguì fu talmente carico di tensione da risultare assordante.
Rimase perfettamente immobile, se non per le palpebre che sbattevano a intervalli regolari; mi stava guardando come se gli avessi appena confessato di essere un collaboratore di Moriarty (santo cielo, come mi venivano in mente certi paragoni...?) e, come spesso accadeva, cominciò ad essere inquietante.
Poi socchiuse gli occhi e, sospettoso, voltò leggermente il viso di lato. «Paura di me in che senso?» chiese con voce bassa e baritonale.
A quel punto il mio cuore, mandandomi a quel paese per essermi così imprudentemente messo nei guai, accelerò in un modo che, in quanto medico, avrei dovuto ritenere preoccupante.
Salivazione azzerata.
"Fanculo, ormai non puoi troncare la conversazione e andartene come se niente fosse. Non hai più scampo, tanto vale rimanere fottuti fino in fondo".
Dovetti prendere un paio di profondi respiri prima di trovare la forza di dire ciò che un momento dopo uscì dalla mia maledettissima bocca.
«Senti, io...» esitai, aprendo e chiudendo in continuazione i pugni, come se le mie dita fossero intorpidite dal freddo. «Tu mi spaventi, Sherlock, perché quando ti sono accanto non riesco più a ragionare, e ho cominciato a rendermene conto soltanto adesso. Basta che tu mi venga vicino, che mi sfiori anche solo casualmente o...o peggio, che tu mi sorrida, e vengo sopraffatto da una miriade di quelle che tu chiami...com'è che hai definito le emozioni, una volta? Una serie di...»
«... Reazioni chimiche e neurali risultanti dall'individuazione da parte del cervello di uno stimolo adeguato*»
«Esattamente. Penso cose che non avrei mai pensato fino a qualche settimana fa, provo sensazioni che non vorrei...non dovrei provare. Per questo volevo starti lontano almeno per qualche ora. Ecco, io...non so cosa voglia dire esattamente tutto questo, e non sono nemmeno sicuro di essere pronto a scoprirlo. So solo che ne sono spaventato a morte e non ho la minima idea di ciò che sarebbe giusto dire o fare. Tutto qui».
Sarebbe stato da imbecilli continuare a negarlo.
Ormai mi era chiaro (più o meno) che il mio coinquilino e migliore amico non era più tale ai miei occhi, che in qualche modo esercitava su di me un effetto che nulla aveva a che vedere con la pura e semplice ammirazione e che quegli occhi, diamine, dovevano smetterla di fissarmi in quel modo o non avrei più risposto delle mie azioni.
Mi era anche piuttosto chiaro che dovevo allontanarmi da lì il prima possibile, perché delle gocce di sudore avevano iniziato ad imperlarmi la fronte.
Con mia grande sorpresa mi ritrovai a continuare, nonostante una parte di me mi stesse implorando di tacere, correre via alla velocità della luce e nascondermi in un angolo remoto di Londra.
«Non so come sia cominciata, né quando o perché. Prima eri la persona che mi aveva regalato una nuova e meravigliosa vita, che mi aveva strappato alla solitudine e che, nonostante mi facesse arrabbiare ogni volta che ne coglieva l'occasione, consideravo l'uomo migliore che avessi mai conosciuto. Poi, improvvisamente, sei diventato di più. Sei...sei diventato il fulcro attorno a cui ruota la mia intera esistenza. Quando siamo io e te, qui al 221B, il resto del mondo perde importanza per me. Non...» cristo, stavo andando in iperventilazione.
Non credevo che il momento di affrontare Sherlock su questo argomento sarebbe arrivato così presto, a così poco tempo dal presentarsi dei primi segnali e dei primi sintomi anomali, ma soprattutto non avrei mai immaginato di arrivare a dirgli certe cose, troppo sdolcinate persino per un sentimentale come me.
E ora, improvvisamente interessato alle pieghe del tappeto sotto al tavolo, non avevo più il coraggio di alzare lo sguardo per incontrare il suo, forse per timore di non vedere nient'altro che un muro freddo e impassibile, indifferente a quella mia confessione (o qualunque cosa fosse) e, anzi, pronto a distruggerla con una semplice frase.
Quello ero io, John Hamish Watson: impavido davanti a un campo di battaglia o ad un serial killer, vulnerabile davanti a sentimenti che non sapevo padroneggiare.
Era così che Sherlock Holmes mi faceva sentire la maggior parte delle volte.
«...non so nemmeno perché ti stia dicendo queste cose. Perdonami» dissi con voce leggermente incrinata.«I-io lo so che mi trovi ridicolo, ma...»
«John».
E, diamine, quando pronunciava il mio nome in quel modo, con quella voce calda e suadente, per me era la fine.
Un brivido corse lungo la mia spina dorsale, mentre lui si alzò dalla sedia e mi si avvicinò lentamente, passo silenzioso, il tessuto della camicia nera teso sul torace.
«Sì, lo so, lo so quello che stai per dire...».
"Oh, per l'amor del cielo, vuoi chiudere la bocca una volta per tutte?!".
«No, non lo sai» rispose lui in un sussurro, arrivandomi a pochi centimetri di distanza. «Non giocare alle deduzioni con me».
A quel punto lo guardai.
Lo guardai e mi resi conto che lo spazio tra di noi era talmente ridotto da riuscire a specchiarmi nelle sue iridi, da poter studiare ogni singolo dettaglio di quella pelle diafana, da poter sentire il suo respiro fondersi col mio; una bolla di calore si espanse all'interno del mio ventre, per poi salire fino al petto e raggiungere come ultima tappa le mie guance.
«Ti conviene controllare il rilascio di adrenalina nel tuo corpo, capitano. Provoca una dilatazione dei vasi sanguigni» disse con un sorrisetto provocatorio, e speravo, speravo con tutto me stesso che si stesse riferendo ai vasi sanguigni a causa dei quali ero probabilmente arrossito come una ragazzina, e non a quelli situati in altre parti del mio corpo.
Ma non lanciai un'occhiata in basso per verificare la situazione, perché se ne sarebbe sicuramente accorto e l'ultima cosa di cui avevo bisogno era ulteriore imbarazzo; inoltre, se prima non riuscivo a guardarlo in faccia, ora non avevo la forza di togliergli gli occhi di dosso.
Gli zigomi alti e pronunciati che proiettavano leggere ombre sulle gote magre, l'arco di cupido che conferiva un'irresistibile forma a cuore alle labbra rosee e piene, le linee armoniose di quel collo di porcellana...non c'era niente che all'occhio non risultasse altamente intrigante.
«Dio, sei perfetto...» mi uscì in un sospiro, prima di rendermi effettivamente conto di non averlo solo pensato.
A quelle parole, il suo volto inquisitore divenne pressoché indecifrabile: un mix di confusione, commozione, incredulità, gioia, incertezza, un'esplosione di emozioni in quello sguardo che tutti vedevano freddo e vuoto, ma che io avevo scoperto essere il più espressivo che potesse esistere.
«John...».
Non ce la feci a resistere un secondo di più.
Lo afferrai per la nuca e lo tirai verso di me, facendo scontrare bruscamente le nostre labbra e facendogli emettere un gemito di stupore.
"Cazzo, sta succedendo sul serio" fu l'unico pensiero razionale che la mia mente fu in grado di formulare.
Il contatto, seppure un po' impacciato, fu piacevole e in qualche modo intenso, caldo, umido, incredibilmente soffice, e prima di quel preciso istante non avevo mai capito che in fondo, anche se avevo sempre accantonato il pensiero, lo avevo desiderato da tempo immemorabile.
Quando anche Sherlock, dopo essersi sciolto dalla paralisi dovuta alla sorpresa, cominciò a ricambiare timidamente (già, timidamente) il bacio dischiudendo la bocca, qualcosa dentro di me esplose con la potenza di una supernova, un incendio che divampò dal petto allo stomaco, ardendo in ogni tessuto muscolare, mescolandosi al sangue nelle mie vene.
Non mi ero mai sentito così vivo, nemmeno in guerra: avrei potuto correre per prati sconfinati, scalare montagne impervie e nuotare attraverso infiniti oceani che non mi sarei mai stancato.
Una sensazione da dare alla testa.
Però, benché mi stesse piacendo a livelli spropositati, non ci volle molto affinché una serie di domande cominciassero a farmi riprendere gradualmente lucidità.
Che cosa stavo facendo?
Era così che sarebbe dovuta andare?
Avrei dovuto allontanarmi e dire che era stato un errore?
Quali erano i pensieri di Sherlock?
Avremmo dovuto parlarne?
Ma la domanda a cui avrei voluto trovare una risposta prima di tutte le altre era: perché doveva essere tutto così fottutamente complicato?!
O forse ero io che rendevo tutto complicato.
Forse sarebbe bastato superare l'imbarazzo, discutere della faccenda in maniera civile e arrivare ad una soluzione che andasse bene a entrambi: fare finta che non fosse mai successo niente e andare avanti come avevamo sempre fatto, oppure...
...oppure.
Forse era l'altra opzione a spaventarmi.
Interruppi il bacio, boccheggiando alla ricerca di ossigeno; Sherlock, i cui capelli erano ancora tra le mie dita, mi guardò con gli occhi sbarrati.
Silenzio.
Soltanto i nostri respiri accelerati, e il battito del mio cuore che mi rimbombava nelle orecchie.
Tensione.
Sostenni il suo sguardo, ma tolsi la mano dalla sua nuca e la rilasciai lungo il fianco, chiudendola a pugno e conficcando le unghie nel palmo, fino a far sbiancare le nocche.
Inspirai.
«Io devo...». Mi schiarii la voce, dal momento che ciò che emisero le mie corde vocali somigliava ad un pigolio. «I-io vado a farmi una doccia».
Già, tutto quello di cui avevo bisogno in quel momento era acqua gelida.
Mi diressi verso il bagno e chiusi la porta a chiave, lasciandomi alle spalle  la cucina (in cui ero sicuro non sarei più riuscito ad entrare fino al giorno dopo) e uno Sherlock confuso e attonito.



 

Non mi ero mai sentito a mio agio al Diogenes Club.
Beh, non che qualcuno avesse mai fatto qualcosa per renderlo confortevole: escludendo il fatto che non si potesse aprir bocca a meno che il mondo non stesse per finire, l'oscurità spezzata dalla sola luce che filtrava attraverso delle aperture situate al di sopra di alcuni scaffali pieni di libri e l'arredamento fin troppo sofisticato contribuivano a rendere quel posto alquanto tetro.
«Che ci faccio qui?» chiesi stancamente, sfregandomi gli occhi con il pollice e l'indice della mano destra.
Mycroft Holmes, dandomi le spalle, si versò una piccola quantità di brandy, per poi sedersi elegantemente sulla poltrona di fronte a me e guardarmi con un lieve accenno di sorriso beffardo.
«Credo che lei lo sappia perfettamente» rispose con la sua irritante pacatezza, assicurandosi di scandire bene ogni parola.
«Senta, se vuole parlare di Sherlock...»
«Oh no no no, dottor Watson, sfortunatamente so benissimo cosa passa per la testa di mio fratello. Ma non posso dire lo stesso di lei»
«Oh, quindi è di me che vuole parlare?»
«È evidente che sia successo qualcosa tra lei e Sherlock, di recente. Qualcosa che la tormenta».
Sbattei le palpebre un paio di volte, increspando le labbra e sollevando le sopracciglia.
Era mai possibile avere una diavolo di vita privata all'interno del 221B? Di certo non potevo aspettarmi diversamente, vivendo con il fratello di Mr. Governo Britannico, ma sarebbe stato decisamente di mio gradimento se quest'ultimo si fosse limitato ad occuparsi degli affari di Stato.
«Non voglio nemmeno sapere come ne è venuto a conoscenza»
«Immagino di no».
Non sapevo se fosse più conveniente intimargli di arrivare al punto o aspettare che lo facesse di sua spontanea volontà; fortunatamente risolse il problema scegliendo, da uomo saggio quale era, la seconda opzione, essendo probabilmente consapevole dei limiti della mia pazienza.
«John, lei ha senza dubbio portato dei cambiamenti radicali nella vita di Sherlock. E in Sherlock stesso». Prese un piccolo sorso di brandy, facendo poi roteare il liquido all'interno del bicchiere. «Nonostante lui si sia sempre tenuto a debita distanza dalle debolezze, dai...sentimenti, questa volta si è ritrovato a cedere sotto il loro peso prima di riuscire ad impedirlo. Si ricorda quando le ho chiesto cosa avremmo potuto dedurre riguardo al suo cuore? Bene, ora sappiamo per certo la risposta».
Aggrottai la fronte e mi sistemai meglio sulla potrona. «Che cosa sta cercando di dire?».
Roteò gli occhi. «Vedo che le sue capacità intellettive non sono migliorate molto durante questi due anni, il che mi risulta alquanto strano».
Fece una pausa quasi melodrammatica, e se all'inizio pensavo che a lui non piacesse essere teatrale tanto quanto a Sherlock, in quel momento dovetti ricredermi.
«È innamorato di lei, John» disse in tono grave.
Non ebbi una reazione immediata.
Sulle prime me ne stetti immobile, paralizzato da una sensazione di smarrimento (un po' come quando Irene Adler mi aveva contraddetto sul fatto che io e Sherlock non fossimo una coppia), mentre Mycroft mi fissava con una smorfia divisa tra un lieve disgusto, dovuto forse all'aver pronunciato la parola "innamorato", e il divertimento.
Poi emisi una risatina incredula e nervosa, scuotendo la testa.
«Non dice sul serio»
«Non credo di averle mai dato in qualche modo l'impressione di essere un tipo particolarmente giocoso».
Il sorriso svanì dalle mie labbra a mano a mano che il mio...appartamento?...mentale rielaborava le informazioni appena ricevute.
Tutto quello era assurdo, semplicemente assurdo.
«Ma non può dire sul serio!»
«Per l'amor del cielo, John, la prego di dimostrarmi di essere meno idiota di quello che potrebbe sembrare e di rimettere insieme i pezzi».
Rimettere...certo, rimettere insieme i pezzi.
Dunque.
La sua sospetta propensione per i complimenti la sera del compleanno di Greg.
La sua insolita gentilezza la sera in cui avevamo giocato a Cluedo.
Il suo inspiegabile nervosismo il giorno successivo (dovuto all'abbraccio? Non poteva essere...).
La ricerca "sintomi dell'innamoramento e rimedi".
Il modo in cui mi aveva gentilmente preso il viso tra le mani la mattina del giorno del suo ricovero in ospedale, chiedendomi scusa, cosa che non faceva quasi mai.
Ma andiamo, quelle non potevano essere ritenute prove inconfutabili a sostegno della tesi di Mycroft!
O sì...?
«John, conosco abbastanza mio fratello da poter dire che negli ultimi periodi la sua mente geniale non è affatto focalizzata al 100% sui casi. E, se mi permette, anche se non posso di certo ritenermi un esperto in materia, posso affermare che anche il modo in cui la guarda è inequivocabile».
Abbassai lo sguardo sul pavimento recentemente lucidato e deglutii.
Inspirai profondamente, rilasciando poi l'aria in un soffio tremante, e mi passai una mano sul viso.
«Dio, non avrei mai immaginato niente di simile»
«Lei vede, ma non osserva»
«Sì, mi è...già stato detto, una volta».
Era tutto così surreale che quasi mi aspettavo di svegliarmi improvvisamente e ritrovarmi nella mia camera da letto.
Sherlock Holmes innamorato di un uomo sentimentale, pateticamente ordinario e decisamente inferiore al suo livello di intelligenza? In quale universo?!
Ma il solo pensiero non poté fare a meno di scatenare uno sciame impazzito di farfalle all'interno del mio stomaco.
Senza accorgermene accennai un sorriso, sentendomi travolgere da un'ondata di emozioni così potenti da essere spaventose, ma bellissime al tempo stesso: sentii il cuore sciogliersi, la gola restringersi, la testa girare.
Qualcosa cominciò a pungere prepotentemente ai lati degli occhi.
«Tuttavia» continuò Mycroft, «la ragione per cui l'ho convocata è conoscere le sue intenzioni. Come lei sa, mi preoccupo per Sherlock continuamente».
Le mie intenzioni...oh, se solo le avessi sapute.
Certo, grazie al bacio del giorno prima avrebbe già dovuto essermi chiaro quello che volevo, ma avevo ancora bisogno di un po' di tempo.
«Cercherò di capire cosa fare».





*Manuel Castells, "Comunicazione e potere"

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


Dopo due ere glaciali e un triassico, ecco il nuovo ed ultimo capitolo! (Scusatemi davvero, ma ho avuto un blocco terribile). Vi avverto che molti di voi potrebbero trovarlo alquanto sdolcinato, ma...ecco, dovete capire che io non so scrivere una storia senza almeno un capitolo di questo genere :c Spero possiate perdonarmi e che lo troviate comunque apprezzabile :c
Detto questo volevo subito passare ai ringraziamenti, perché mi sento decisamente in dovere di farli.
Come ho già detto in precedenza, questa storia è nata come un semplice esperimento, non avevo in mente una trama ben precisa e ho letteralmente improvvisato in ogni singolo capitolo, cercando almeno di collegare gli eventi tra di loro alla bell'e meglio (in effetti non ha una trama vera e propria. Se qualcuno mi chiedesse di riassumerla non saprei da dove cominciare); di certo non mi aspettavo così tanto entusiasmo da parte vostra e, ragazze, sul serio, le vostre recensioni sono semplicemente SPETTACOLARI, mi avete sbalordito a dir poco. Vi adoro :')
Perciò grazie mille a Koa__, CreepyDoll, emerenziano, Hotaru_Tomoe, Fox writer, Bluemoon97 e Wight_yiang per aver commentato (e naturalmente grazie a coloro che eventualmente commenteranno in futuro) e per avermi invogliata a continuare. Siete fantastiche <3
Grazie anche a tutti quelli che hanno aggiunto la storia alle preferite, alle ricordate e alle seguite e, last but not least, a coloro che hanno letto in silenzio, soprattutto due ragazzuole di nome Valeria e Simona ;).
Per chi segue anche la mia nuova storia, ci sentiamo lì! E un bacio a tutti gli altri :*
A presto <3
Melissa



 

Capitolo V




 

«Ed è allora che ho deciso di venire qui».
Accavallò le gambe e intrecciò le mani sul ginocchio, incontrando lo sguardo comprensivo di Ella.
«È normale che non sappia come comportarsi», disse gentilmente la terapista, la penna che tamburellava sul blocco degli appunti, a cui John ogni tanto non poteva fare a meno di dare una sbirciata. «È una situazione totalmente nuova per lei»
«Nuova e spaventosa, direi»
«Perché la spaventa?».
La domanda era più o meno la stessa che gli era stata posta all'inizio della seduta, ma, nonostante avesse scavato in se stesso per quasi un'ora, ancora non sapeva darle una risposta precisa.
Sin dal primo istante in cui aveva capito di provare qualcosa per Sherlock (e in quell'insignificante ''qualcosa'' erano racchiuse tutte le volte in cui gli era bastata la mera presenza del detective per sentirsi a casa in qualunque posto si trovassero, o tutte le volte che per stare bene gli era bastato veder nascere sulle sue labbra uno di quei rari sorrisi sinceri) la paura aveva fatto da padrona su tutte le sue emozioni; non era la paura di essere attratto da un altro uomo, questo ormai lo aveva capito, e non si trattava nemmeno del timore causato dal pensiero di non aver mai provato niente di così forte in tutta la sua vita.
Fu quando ripensò a ciò che Mycroft gli aveva rivelato al Diogenes che finalmente capì.
Sherlock era innamorato di lui, ma per Sherlock l'amore altro non era che "uno svantaggio pericoloso": aveva cercato persino di trovarvi un rimedio, santo cielo.
Non voleva essere innamorato.
John aveva paura che se un giorno avesse voluto andare fino in fondo al loro legame, aggiungere un gradino in più alla loro vita di sempre, costruire un futuro insieme, Sherlock si sarebbe tirato indietro con un freddo "no, grazie", lasciandolo da solo a raccogliere i pezzi del suo cuore, distrutto, deluso e amareggiato come il giorno in cui era tornato in Inghilterra dopo essere stato congedato dall'esercito.
«John» lo incoraggiò Ella, come faceva spesso quando il suo paziente si perdeva nei suoi pensieri (Sherlock lo avrebbe trovato fisicamente fastidioso).
«Mi spaventa perché...Non sono sicuro che lui voglia quello che voglio io» disse titubante, abbassando lo sguardo sul tappeto.
Dirlo ad alta voce rendeva tutto dannatamente più reale e, malgrado si fosse imposto di mantenere il controllo, non riuscì a fermare il groppo che gli si formò in gola, minacciando di portare con sé lacrime pungenti.
Ciò che gli chiese la donna qualche secondo di silenzio più tardi fu totalmente inaspettato.
«Lei lo ama?».
Il dottore riportò l'attenzione su di lei, sbattendo le palpebre con stupore e sentendo il battito accelerare.
"Per l'amor di Dio, un momento fa hai pensato all'eventualità di progettare un futuro insieme a lui e stavi per metterti a frignare come un bambino! Prova a dare un altro nome a ciò che ogni singola parte di te ti sta urlando a squarciagola e giuro che la prossima pallottola non sarà così gentile da centrarti solo la spalla".
Vivere nell'illusione che i suoi sentimenti potessero ancora essere incatenati sul fondo di un pozzo, che ci fosse ancora tempo per rimediare, non avrebbe di certo migliorato le cose, e John era stanco di mentire a se stesso.
Chiuse gli occhi e prese un profondo respiro, inumidendosi le labbra.
«Sì» rispose in un sussurro.
«Allora dovrebbe fare almeno un tentativo, sa? Le cose potrebbero andare meglio di quanto immagina»
«E se non dovesse andare così?»
«Beh, non lo saprà mai, se non ci prova».
Dio, quanto aveva ragione.
Se doveva essere sincero, la terapia non gli era mai stata di grande utilità nel corso di quei due anni: sì, gli aveva impedito di tenersi dentro ciò che invece necessitava disperatamente di essere detto e questa era una cosa buona, molto buona, ma non poteva di certo dire che Ella fosse una preziosa dispensatrice di consigli salvavita; forse invece quel giorno, per la prima volta, gli aveva dato la giusta spinta che gli avrebbe permesso di cambiare per sempre la sua esistenza (ancora da vedere se in meglio o in peggio).
Ma sì, in fondo cosa aveva da perdere? Avrebbe imparato a convivere con il sapore amaro del rifuto piuttosto che affogare nel rimpianto.
Poteva ancora avere una possibilità.
Loro potevano avere una possibilità.
Un nuovo barlume di speranza si fece strada sul suo volto sottoforma di sorriso; poi, notando che il tempo era scaduto, si alzò dalla sedia rivestita in pelle e strinse energicamente la mano alla terapista.
«La ringrazio molto»
«Grazie a lei, John, buona fortuna. A presto».
John si fermò sulla porta dello studio. «No, spero di no. Perché se mi vedrà qui presto, sarà un cattivo segno».



 

Quando tornò al 221B udì le note di un violino giungere da sopra le scale e propagarsi per l'intero edificio: era una melodia dolce e malinconica, che parlava di emozioni celate e gridava il desiderio di liberarle,  implorava di essere ascoltata, in certi punti sembrava quasi chiedere aiuto.
Impiegò qualche istante per riconoscerla: era lo stesso pezzo che Sherlock gli aveva fatto ascoltare la sera del compleanno di Greg.
Probabilmente preso dal nervosismo per ciò che sarebbe accaduto di lì a poco, decise di non salire subito e, anzi, si prese del tempo per godersi quella bellissima musica fino alla fine, chiudendo gli occhi e sospirando. Sperava che Sherlock avesse allungato il brano almeno di qualche pagina...
"Andiamo, eri un soldato, tira fuori le palle e smettila di cercare scuse per rimandare il fatidico momento dell'attacco".
Oddio, messa così sembrava che dovesse aggredire il suo coinquilino, mentre la sua massima priorità era essere il più cauto possibile per non spaventarlo.
Quasi come a volerlo punire per la sua mancanza di coraggio, le note, come la prima volta che erano giunte alle sue orecchie, cessarono di aleggiare nell'aria molto prima di quanto avesse sperato e quando si ritrovò immerso nel silenzio cominciò a salire i diciassette gradini scricchiolanti, ma prima che potesse arrivare a metà rampa sentì qualcun altro farli scricchiolare dietro di lui.
Si voltò con sguardo curioso, incontrando quello sorpreso della signora Hudson. «Oh, salve» salutò con un sorriso, che però svanì quando vide la preoccupazione sul volto gentile della padrona di casa.
«John, caro, finalmente è tornato!»
«È successo qualcosa?»
«È proprio quello che volevo chiederle. Da quando lei è uscito Sherlock non ha fatto altro che suonare il violino, sparare al mio povero bel muro e causare piccole esplosioni con uno dei suoi esperimenti. Non ha nemmeno voluto il té... È di nuovo annoiato, forse?».
John sbatté le palpebre e aprì la bocca per formulare una risposta, ritrovandosi invece a guardarla in silenzio con un'espressione da ebete.
Poco prima di uscire per recarsi da Ella aveva sentito Sherlock parlare al telefono con Lestrade riguardo ad un caso i cui dettagli gli erano ignoti, ma che sembrava essere abbastanza interessante, perciò non credeva che la noia fosse la causa del comportamento del suo coinquilino.
«O forse é successo qualcosa tra voi due?» tentò la signora, e a quelle parole John cominciò a sentirsi a disagio: se fino a quel momento Sherlock aveva passato il tempo a pensare a ciò che era successo tra loro due, il violino e soprattutto gli spari (non credeva che le esplosioni fossero di particolare rilevanza) indicavano che quel pensiero non gli era esattamente gradito, proprio come la noia.
Perfetto, quello era un ottimo inizio.
Sospirò rumorosamente e si prese il ponte del naso tra il pollice e l'indice, scuotendo la testa.
«Sì, in effetti è così» si ritrovò a rispondere, troppo stanco persino per mentire alla signora Hudson.
«Non vorrei impicciarmi nei vostri affari, ma...»
«L'ho baciato» la interruppe di getto, avendo ormai capito che girarci intorno non sarebbe servito a nulla, perché, qualunque cosa fosse accaduta (sia che il giorno dopo avesse avuto un enorme sorriso stampato in faccia in caso fosse filato tutto liscio, sia che fosse stato il ritratto della tristezza in caso contrario) avrebbe dovuto comunque darle delle spiegazioni. 
«Come?!» 
«I-io l'ho...baciato».
L'anziana donna, dopo il primo istante di stupore, unì le mani con un sonoro "clap!", emettendo un verso gioioso.
«Oh, ma che cosa meravigliosa! Era ora che si decidesse!»
«Sì, ma vede, è un po' complic...Aspetti, cosa?»
«Oh, John, me lo aspettavo da parecchio, sa? Tra voi due c'è sempre stato quel qualcosa che vi rendeva più legati di quanto non abbiate mai voluto ammettere. Era palese»
Dio, non ci poteva credere.
Non solo Ella gli aveva già fatto notare con franchezza di essere sempre stato palese, ora la signora Hudson gliene aveva anche dato la conferma. 
Non poté fare a meno di paragonare la situazione ad uno dei casi su cui lavoravano lui e Sherlock: molto spesso il detective non si degnava nemmeno di spiegargli con quale contorto ragionamento fosse arrivato a certe conclusioni, perché, naturalmente, dava sempre per scontato che anche lui ci potesse arrivare.
La signora, vedendo l'incredulità sul suo viso, sorrise sorniona e gli mise una mano sulla spalla, facendo poi un cenno con la testa verso la porta del loro appartamento.
«Coraggio, vada e faccia ciò che deve fare» lo incoraggiò dolcemente.
Il medico deglutì incerto. «Come fa ad essere sicura che lui voglia...sì, insomma...impegnarsi?»
«Oh, non sia sciocco!». Ed era anche la seconda volta che qualcuno gli dava dell'idiota per aver dubitato dei sentimenti di Sherlock (anche se la signora Hudson aveva usato un termine più gentile). «Prima d'ora non ho mai avuto occasione di vedere quel giovanotto acceso da qualcosa di vagamente simile all'amore, ma è più capace di provare sentimenti di tutti noi messi insieme, sa? Per questo è stato così facile capire cosa stava succedendo in quella sua folle testa, nelle ultime settimane: non è bravo a nascondere certe emozioni, perché non vi è abituato».
Lo sguardo di John venne attraversato da un luccichio di curiosità e speranza. «E cos'è che stava... succedendo, nella sua testa?»
«Povero caro. Proprio non riesce a vederlo, vero?» rispose lei con sincera compassione (non sapeva se verso di lui o nei confronti di Sherlock, che si ritrovava come innamorato un tale imbecille).
John si trattenne dal sospirare e sorrise debolmente, inumidendosi le labbra e lanciando una veloce occhiata alla porta che stava aspettando di essere oltrepassata.
«Forse è davvero meglio che vada» disse infine, annuendo all'anziana come cenno sia di ringraziamento che di saluto. «Penso di aver già perso troppo tempo».
La signora Hudson lo salutò, tornando poi nel suo appartamento con quella che sembrava un'aria decisamente più serena, e lui salì gli ultimi gradini, sperando che Sherlock non avesse origliato l'intera conversazione (tra la notevole moltitudine di doni che la  natura aveva generosamente dato  al suo migliore amico vi era, sfortunatamente, un udito incredibilmente sviluppato).
Arrivò in cima alla rampa, spinse piano la porta semiaperta, il fiato inconsciamente trattenuto.
Sherlock era sdraiato sul divano con le mani congiunte sotto il mento e fissava il soffitto senza vederlo davvero, forse non accorgendosi nemmeno della presenza di un'altra persona nella stanza.
John restò a guardarlo senza proferire parola per qualche secondo, cercando di non farsi prendere dall'ansia, e sobbalzò violentemente quando, senza aspettarselo, fu il consulente investigativo a rompere il silenzio.
«Immagino tu voglia parlarne» disse con voce bassa e grave, senza particolari inflessioni.
Il medico deglutì è increspò le labbra, abbassando lo sguardo sul pavimento. «Credo che dovremmo, per quanto possa non piacerti».
Sherlock sì alzò dal divano e si avvicinò a lui con passo lento e felpato, sguardo gelido e tagliente.
«Senti, Sherlock, io...»
«Non cambierà niente, puoi stare tranquillo».
John, la bocca ancora aperta per essere stato interrotto, aggrottò la fronte. «Cosa?»
«Cancellerò quel bacio dalla mia mente, non ti chiederò spiegazioni e andremo avanti come sempre»
«Non è questo che voglio»
«Allora cosa vuoi, John?»
«È ovvio che le cose cambieranno, d'ora in avanti, Sherlock»
«Invece non devono, non possono cambiare!».
La confusione di John si fece più evidente a quell'improvviso e notevole aumento di volume nella voce di Sherlock, il quale cominciò, come suo solito, ad andare avanti e indietro per il salotto, le dita premute sulle tempie.
«Ti vedo in ogni stanza del mio palazzo mentale, impiego ore per risolvere un banale caso di furto con scasso e compongo musica pensando a te, quando invece dovrebbe aiutarmi a fare esattamente il contrario!» sbottò con rabbia, fermandosi poi buscamente per voltarsi verso l'amico. «Volevi sapere che cosa intendevo con "svantaggio pericoloso", no? Beh, ecco cosa!».
John, cercando di non pensare al fatto che Sherlock avesse composto quella melodia per lui, gli si avvicinò e gli afferrò una manica della vestaglia. «Ti ho già detto quello che provo per te, Sherlock, e se tu senti le stesse cose potremmo...»
«Io non sono così, John. Io non provo questo tipo di emozioni»
«Sì, invece» disse John, riducendo la distanza tra di loro a pochi centimetri. «Hai mai preso in considerazione la possibilità che questo non debba essere per forza negativo?».
Il detective si scostò dalla sua presa e si arruffò nervosamente i capelli, emettendo qualcosa di molto simile a un ringhio. «Ne va di mezzo il mio lavoro, John!»
«Non stiamo parlando del tuo stramaledetto lavoro, adesso!» gridò il dottore con voce più stridula di quanto avesse voluto, lasciando prendere per un attimo il sopravvento all'esasperazione.
Le sue paure si stavano avverando.
Non era così che sarebbe dovuta andare.
"Calmati, è solo spaventato, tutto questo è nuovo per lui" cercò di convincersi senza molto successo.
Calò un soffocante velo di silenzio, rotto solo dal suo respiro accelerato, ma cercò di ricomporsi subito dopo, ammorbidendo l'espressione e rendendola quasi supplicante.
«Ti fa tanto orrore l'idea di svegliarti accanto a me ogni mattina, di condividere con me momenti che ci siamo negati per tutto questo tempo, di...di baciarmi ancora?». La voce gli si spezzò a metà frase e dovette prendere un profondo respiro per recuperare le forze. «Senti, io lo so che sei sempre stato orgoglioso e che ti piace essere indipendente da tutto e da tutti, e ti posso assicurare che il fatto che io voglia starti accanto e prendermi cura di te non influirà su questo. Non devi cambiare per me, non è questo che voglio. Io voglio te, te e tutto ciò che ti riguarda. E potrebbe essere bellissimo, sai? Se tu lo volessi, se solo tu volessi provarci, io so che potrebbe diventare qualcosa di meraviglioso».
Sherlock lo guardava con un'espressione indecifrabile, il petto che si alzava e abbassava più velocemente del normale e un leggero tremore lungo tutto il suo corpo.
Il medico indietreggiò di qualche passo. «Ma se tu non lo vuoi, Sherlock, allora non ti chiederò di mettere il lavoro in secondo piano».
Detto questo, si voltò e salì velocemente le scale che portavano alla sua camera da letto.
Si chiuse la porta alle spalle, precipitando nel buio della stanza, le cui tapparelle non erano state alzate da quella mattina.



 

Non si parlarono fino a sera: John se ne stette tutto il tempo (esclusa la cena) al piano di sopra a navigare su internet senza uno scopo preciso, mentre Sherlock rimase di sotto a fare esperimenti in cucina, a vagare per il suo palazzo mentale e, di tanto in tanto, a suonare col violino tutti i brani che conosceva tranne quello che aveva composto pensando a John.
Quest'ultimo era seduto sul letto a gambe incrociate, il computer appoggiato su di esse, il volto illuminato dalla sola luce dello schermo.
Naturalmente i suoi pensieri non erano rivolti minimamente alle pagine web che in un modo o nell'altro si ritrovava ad aprire ("Divorzio tra Ben Affleck e Jennifer Garner", "Ricette facili di piatti italiani", "Il meteo dei prossimi giorni"), bensì alla sua imminente fuga da Baker Street e al suo conseguente ritiro come eremita.
Sì, si sarebbe goduto l'aria limpida di montagna, la pace, la natura incontaminata e la solitudine...soprattutto la solitudine, dal momento che sembrava essere quello il suo destino.
"Oh, ma bravo, dovresti scrivere uno di quei romanzetti strappalacrime, al posto del tuo blog".
Sbuffò rumorosamente, passandosi una mano sui corti capelli biondo cenere e, dopo aver chiuso il computer e averlo posato sul comodino, si lasciò andare a peso morto sul materasso, un braccio lasciato sul suo stomaco e l'altro disteso lungo il fianco.
Restò per un po' a fissare il soffitto con sguardo assente e malinconico, seguendo distrattamente le ombre e le luci che correvano lungo l'intonaco bianco al passaggio delle automobili.
Dio, perché niente andava mai come avrebbe voluto? Sentiva l'irrefrenabile desiderio di correre giù per le scale, afferrare Sherlock per le spalle, scuoterlo e urlargli di lasciarsi andare per una volta nella vita, ma non sarebbe di certo servito a convincerlo.
Chissà, magari, se gli avesse lasciato un po' di tempo per pensarci, avrebbe cambiato idea.
La speranza era l'unica cosa a cui poteva aggrapparsi, a quel punto.
Molti, anzi, praticamente tutti (soprattutto il sergente Donovan) gli avrebbero dato del pazzo scuotendo la testa con disapprovazione, non riuscendo proprio a capire cosa ci trovasse nella persona apparentemente meno adatta ad una relazione sentimentale che potesse esistere, ma John ormai aveva smesso di porsi quella domanda, poiché, da inguaribile romantico quale era, era convinto che l'universo avesse scelto proprio quella persona per completare l'altra metà della sua anima e lui non avrebbe potuto fare assolutamente niente per cambiare le cose.
Passarono minuti, un quarto d'ora, mezz'ora; aveva voglia di una tazza di tè, ma a scendere non ci pensava nemmeno.
Poi, del tutto inaspettatamente, la porta si aprì piano, cigolando leggermente sui cardini e facendo entrare uno spiraglio di luce; John voltò il capo, sorpreso.
La figura alta e slanciata di Sherlock fece timidamente il suo ingresso nella stanza e John si alzò a sedere, guardandolo col cuore che già batteva a mille.
«Sher...».
Non finì nemmeno di pronunciare il suo nome, non lo ritenne necessario.
Rimasero in silenzio a guardarsi nella semioscurità, l'imbarazzo più che percettibile, finché il detective, vulnerabile come il medico non lo aveva mai visto (sembrava davvero un'altra persona), si avvicinò al letto e si sedette sul bordo senza più guardarlo negli occhi.
John non pensò due volte a come agire.
Gli posò una mano sulla nuca, lo tirò verso di sé e lo strinse forte, quasi per assicurarsi che fosse effettivamente lì, affondando il volto nella sua spalla e respirando il suo profumo.
Sherlock nascose il suo, di volto, nell'incavo del collo di John e avvolse le braccia attorno alle sue spalle.
John gli accarezzò dolcemente i capelli, come aveva desiderato fare da tempo immemorabile, poi lo fece sollevare per poter avere il suo viso di fronte al suo; gli accarezzò le guance con i pollici e, non riuscendo più a resistere, catturò le sue labbra in un bacio tenero e casto, stavolta venendo ricambiato senza indugio.
Dio, fu a dir poco paradisiaco poter sentire di nuovo la morbidezza e il calore di quella bocca perfetta, sentirne il sapore delicato, percepirla muoversi languidamente contro la sua.

Ora era tornato tutto al suo posto, ora era tutto perfetto: ogni traccia di paura e tristezza sembrava improvvisamente scomparsa e John si meravigliò di quanto velocemente fosse successo, di come qualche istante prima stesse rimuginando su come sarebbe potuto andare avanti e di come ora, invece, fosse tutto così meraviglioso.
Certo che era strana, la vita.
Beh, specialmente la vita con quel folle genio di Sherlock Holmes. 
Si separarono con un lieve e umido schiocco, che provocò un brivido a entrambi, e per qualche secondo lasciarono che i loro respiri si mescolassero.
Poi John trascinò Sherlock giù con sé, facendolo sdraiare al suo fianco e facendogli appoggiare la testa contro il suo petto.
Ovviamente non era tutto sistemato, sarebbe stato troppo semplice; c'era ancora molto in sospeso, molto di cui parlare, molto da affrontare, ma per il momento John voleva soltanto godersi quella prima volta che stringeva Sherlock tra le braccia in una maniera così meravigliosamente intima.
«Ho dato un titolo alla melodia» disse improvvisamente il detective, lasciando una quasi impercettibile carezza sul petto di John.
«Ah sì?» rispose quest'ultimo, nascondendo il volto tra i suoi soffici riccioli e posando un bacio tra di essi. «E quale?»
«L'ho chiamata "Dannazione, sto ancora pensando a John"».
Il medico, che per qualche motivo si era aspettato che dalle sue labbra uscisse qualcosa di profondo e significativo, rise sommessamente. «Sei terribile, lo sai?».
Anche l'altro si unì brevemente alla  sua risata. «Ma ti piace, non negarlo».
Stettero in silenzio per un po', beandosi l'uno del respiro quieto e del calore dell'altro e lasciandosi sfuggire qualche carezza di tanto in tanto, il petto gonfio di gioia, incredulità e curiosità verso ciò che li avrebbe aspettati da allora in avanti.
John non vedeva l'ora di scoprire dove li avrebbe portati quel sentiero folle, curioso e decisamente interessante che avevano deciso di imboccare insieme.
«John?» chiamò Sherlock in un flebile sussurro, stringendo di più il suo maglione.
«Sì?».
Ci fu qualche secondo di esitazione, ma questa volta, con grande sollievo da parte di entrambi, non era fatta di quel silenzio opprimente che per troppo tempo aveva dominato i momenti di tensione tra loro due.
«Posso restare...?».
John non sapeva per certo se gli stesse chiedendo di poter restare con lui per la notte (cosa che supponeva sarebbe sempre successa, da allora in avanti. Insomma, era logico, no?) o di poter restare nella sua vita; in entrambi i casi la risposta era ovvia, elementare
«Tu devi restare, idiota. D'ora in poi non ti lascerò mai più andare da nessuna parte, sai?».



 

The end

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