Più del suo pugnale. (Jeff the killer)

di lovinfaber
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Promessa di una notte ***
Capitolo 2: *** Serena ***
Capitolo 3: *** Viaggio ***
Capitolo 4: *** L'incontro ***
Capitolo 5: *** Ricordo ***
Capitolo 6: *** Perdonami ***
Capitolo 7: *** Il giorno dopo ***
Capitolo 8: *** Tre settimane dopo ***
Capitolo 9: *** Bob ***
Capitolo 10: *** Secondo incontro ***
Capitolo 11: *** Risveglio ***
Capitolo 12: *** Polizia di Oldfield ***
Capitolo 13: *** Nathan Smith ***
Capitolo 14: *** Il Redentore ***
Capitolo 15: *** Susan Mathers ***
Capitolo 16: *** I tre bastardi ***



Capitolo 1
*** Promessa di una notte ***


~~La notte, fedele compagna, entrava pungente nei polmoni, promettendogli ancora una volta la sua complicità. Jeff ne annusò l’aria frizzante e umida, pregustando l’odore metallico di sangue innocente, che di lì a poco avrebbe versato. La perlustrazione dei grandi viali costeggiati da case indipendenti era appena iniziata. Erano mesi che non mandava a dormire nessuno, e la cosa lo innervosì parecchio. La polizia era riuscita, ancora una volta, ad essere sulle sue tracce, pertanto fu costretto (come faceva da diciasette anni a questa parte) a cambiare stato e starsene buono per un po’ , affinché fosse di nuovo invisibile agli occhi degli sbirri e dei media. Da settimane non si parlava più di Jeff, ossia dello “sconosciuto assassino”: ogni uomo, donna o bambino, aveva tumulato il suo terribile ricordo  sotto quintali di impegni quotidiani, lavoro, scuola, pranzi da preparare per i propri figli. Nessun giornale gli dedicava più un rigo, nessun notiziario allarmava più la popolazione con notizie vere o fasulle sui suoi avvistamenti, nessun documentario presieduto da strizzacervelli tediava gli spettatori con teorie assurde sulla sua personalità. Di nuovo, la memoria degli uomini lo aveva inghiottito, ma lui sapeva sempre come riaffiorare, imponendo la propria presenza nelle menti di ognuno, facendo riecheggiare il suo nome come un’ossessione.

 

Avrebbe fatto conoscere la sua perfezione a quel mondo marcio e ingrato che mai lo avrebbe accolto tra le sue viscide braccia, non da quando la sua carne fu temprata dalle fiamme e dalle grida lancinanti che gli uscirono dall’anima, quella stessa anima che più nessuno vide da quella notte.

 

A volte si chiedeva come sarebbe stata la sua vita se non avesse iniziato il suo macabro rituale: si immaginava solo, zeppo di psicofarmaci e malinconia. Immaginava i genitori dare fondo ai risparmi  e al tempo, pur di farlo tornare come prima. Figurava nella sua mente il volto atterrito e disgustato di sua madre, che gli avrebbe ipocritamente cinto le spalle in un abbraccio riluttante, ma doveroso. Immaginava il sorriso di suo padre, che celava il disagio di doverlo guardare in faccia. Pensava a suo fratello, che sarebbe cresciuto tenendo nascosto il fatto di vivere sotto lo stesso tetto di uno scempio vivente. Immaginava se stesso: avrebbe pianto. Ora, invece, non poteva fare a meno di sorridere, con quelle cicatrici che adorava.

 

Cominciò ad insinuarsi quella strana e perversa euforia, quella che a tredici anni conobbe come “la strana sensazione” la sentiva fin dentro le vene. Il prossimo bersaglio era vicino.

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Capitolo 2
*** Serena ***


~~Serena aveva quasi tutto per essere felice: un corpo perfetto, occhi color ambra e capelli neri come la pece. La sua famiglia era piuttosto agiata, la casa in cui viveva piuttosto confortevole, anche se non abbastanza da attirare malintenzionati o ladri. Il suo rendimento scolastico non era certo dei migliori, ma in compenso era stata eletta reginetta del liceo in cui studiava. Ultimamente trovava piuttosto noiosi i pettegolezzi, lo shopping, le civetterie che si concedeva in presenza dei maschi, e tutte quelle cose che, fino a qualche tempo prima, la rendevano felice.

 

Se fosse altro quello che chiedeva dalla sua giovane vita, o se si trattava dell’ennesimo scherzo dell’adolescenza, non lo scoprì mai.

 

Tornò da una serata in compagnia delle sue amiche: guardò casa sua che era al buio, per fortuna i suoi erano andati a dormire. Entrò silenziosamente dalla porta d’ingresso, attenta a non fare rumore. Appena la richiuse, la luce del disimpegno si accese: i suoi genitori erano in vestaglia, e la stavano fulminando con lo sguardo.

 

« Non immaginavo che il caffè con le amiche si prolungasse fino alle 3 del mattino, signorinella!» sbottò la madre in preda alla stizza.

 

Serena non rispose, limitandosi a sbuffare seccata.

 

« E’ da oggi pomeriggio che abbiamo provato a chiamarti! Credi che quel cellulare sia un oggetto ornamentale?» rincalzò la donna.

 

« Non ho sentito il telefono…E comunque non volevo far tardi. Una chiacchiera tira l’altra e…»

 

« Bella scusa! Eravamo preoccupatissimi, te ne rendi conto?! » interruppe suo padre. Erano visibilmente nervosi a causa del ritardo di Serena. Tuttavia cominciarono a pensare che l’importante era che la loro figlioletta sedicenne fosse tornata a casa, e non c’era motivo di arrabbiarsi ulteriormente. Redarguirono la ragazza strappandole la promessa che la volta dopo avrebbe chiamato in caso di ritardo.

 

« Ora andiamo a dormire, è tardi, e domani tu dovrai andare a scuola.» concluse suo padre.

 

« Ok…»

 

Si diedero la buonanotte, prima di recarsi nelle rispettive stanze.

 

Appena chiusa la porta alle sue spalle, Serena si distese sul letto, guardando il soffitto con sguardo spento. Dopo un po’ accese il piccolo televisore che era nella sua stanza: un po’ di TV a bassa voce avrebbe conciliato il sonno. Restò a letto guardando un vecchio film degli anni 30, interrotto ogni tanto da qualche televendita. Dopo pochi minuti la ragazza crollò in un sonno profondo, mentre la televisione, ancora accesa, proiettava ancora la sua sfilza di immagini.

 

Sognò di tornare da scuola e di percorrere il solito tragitto che la conduceva verso casa, ad un certo punto cominciò a correre, accortosi improvvisamente di aver ritardato parecchio, infatti scese immediatamente la notte. Dopo una corsa incessante si accorse di essersi persa, e di aver raggiunto (inspiegabilmente) le fogne della città, all’ingresso delle quali vi era Mattew, il suo ex ragazzo, che nel sogno sembrava che fosse stato messo a guardia della cloaca cittadina, e con un sorrisino sornione la invitò ad entrarvi. Notò con orrore che, anziché acque fetide, del sangue scorreva all’interno delle fogne: esso lasciava un odore nauseabondo, terrificante.

 

Si svegliò di soprassalto, pronunciando ripetutamente la parola « Mattew!» come una litania. Stava per piangere, poi si rese conto di aver avuto un semplice incubo. Tirò su col naso sollevata, notando tuttavia che c’era qualcosa nell’aria che non andava: quell’odore nauseabondo non era sparito. Pensò che fosse un residuo del sogno, aspettò un poco, ma quella puzza non spariva. La Tv era ancora accesa: provvide a spegnerla. Si alzò dal letto per recarsi dai suoi genitori, preoccupata e intontita dal sonno. Che avessero lasciato il gas aperto? Forse quell’odore era gas e lei lo stava confondendo con altro, perché troppo rincoglionita alle 4 del mattino, in quel caso non doveva fare altro che andare in cucina e controllare. A passo svelto uscì dalla sua stanza per scendere le scale e raggiungere la cucina, ma qualcosa la fermò: la porta della camera tutto quello che percepiva da lì era quel maledetto odore sempre più forte e nauseante. Serena cominciò ad avvertire dei conati di vomito, che trattenne a stento. Ad insinuarsi nelle viscere, una sensazione fredda, come se un pezzo di ghiaccio fosse conficcato nello stomaco. Cominciò a tremare come una foglia, tentò di chiamare i genitori nel buio, ma dalle sue labbra uscirono poco più che flebili rantoli: « Ma…mma…pa…pà…».

 

Trasalii al vedere che la porta della camera dei suoi si aprì completamente: vide una strana figura piuttosto imponente, avvolta nell’oscurita, dietro alla quale erano distesi i suoi genitori nel loro letto, come se dormissero, ma erano letteralmente giacenti in una enorme pozza di sangue.

 

Per qualche frazione di secondo le membra di Serena furono pietrificate. Rimase lì, immobile, mentre udì da quella terribile presenza una frase: « Torna a dormire.». Quelle semplici parole, pronunciate quasi con dolcezza, fecero si che lei urlasse con tutto il fiato di cui era in possesso. Investita da un vigore mai posseduto prima d’ora, cominciò a correre verso le scale che l’avrebbero condotta al pianterreno, dove si trovata la porta d’ingresso.

 

Quasi cadde quando, nello scendere l’ultimo gradino, inciampò nel cadavere di Faber, il suo maltese, divenuto ormai una poltiglia informe. A malapena se ne accorse, non aveva tempo per piangere la dipartita della sua famiglia e del suo migliore amico: doveva scappare e salvarsi.

Col fiato in gola e le gambe che non sentiva quasi più, raggiunse la porta d’ingresso: la aprì con non poche difficoltà, visto che le tremavano le mani mentre tentava di infilare la chiave nella serratura: suo padre aveva sempre l’abitudine di chiudere la porta a chiave, per evitare che qualche malintenzionato potesse entrare. Precauzione totalmente inutile, visto che lui e sua moglie erano morti, con le interiora in bella mostra, mentre sua figlia era in pericolo. La ragazza spalancò la porta d’ingresso con tutto l’attaccamento alla vita che possedeva.  Fece per correre, ma un forte dolore alla nuca la trattenne: insieme ad esso avvertì una misteriosa forza che le tirò il capo all’indietro. Comprese di essere stata afferrata per i capelli e si dimenò, incurante del dolore lancinante che quella presa le procurava.

 

 

La giovane si rivelò una vittima tutt’altro che semplice da gestire. Ucciderla fu quasi uno strazio, visto che scalciava e si dimenava come un animaletto braccato da un lupo. Scansò più volte il pugnale di Jeff, gli morse la mano mentre lui tentava di afferrarle il collo. Dopo alcuni minuti di lotta, Jeff le fu finalmente sopra.

 

«T…ti prego» sussurrò Serena con le lacrime agli occhi, ma udì solo il ripetersi di quella dannata frase: «Shhh…torna a dormire.». Serena non ebbe più il tempo di supplicare.

 

Pochi minuti dopo, quello che restò della reginetta del ballo scolastico fu un corpo sgozzato, due occhi spalancati e vitrei e una bocca semiaperta, che sembrava ancora implorare pietà, nonostante fosse ormai priva di respiro.

 

Jeff le era ancora sopra a cavalcioni, contemplando l’opera da lui realizzata. Pensò che dovesse perfezionarla, e si accanì ancora con il suo pugnale su quel povero cadavere.

 

A guardarlo, nessuno avrebbe più riconosciuto quel visino che aveva fatto girare la testa a diversi ragazzi.

 

Quando Jeff fu esausto, si sollevò da quello scempio privo della più lontana traccia di umanità. Si recò lentamente in cucina, come se un lieve torpore lo avesse investito. Puntò lo sguardo su di sé: era tutto imbrattato di sangue.

 

Si avvicinò al lavandino della cucina, sciacquandosi il viso e le mani.

 

Nonostante fosse la sua ragione di vita, uccidere per Jeff era molto più stancante di quanto credesse. Ogni piacere ha un costo, e Jeff lo sapeva bene. Pulì con un canovaccio il suo amato pugnale, e lo ripose in una delle tasche della sua felpa.

 

Cominciò a rovistare nelle dispense in cerca di qualcosa da mangiare, giusto il necessario per sopravvivere qualche altra notte. Raccolse qualche confezione di carne in scatola e una bottiglina d’acqua. Scorse in uno scaffale una bottiglia di tequila, che non tardò ad afferrare. Cercò in giro per casa un portafogli: lo trovò in una borsa appesa proprio alla spalliera di una sedia all'interno della camera della ragazza che aveva appena ucciso. Rovistò all'interno: vi trovò circa un centinaio di dollari, stabilì sarebbero bastati per un po'.

Uscii da una finestra che dava sul retro, per poi farsi celare dalla notte. Decise che sarebbe andato via da quella città, prima che qualcuno potesse catturarlo. Altri territori lo attendevano, altri campi in cui seminare morte e terrore.

 

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Capitolo 3
*** Viaggio ***


~~L’abbondante pioggia di un freddo cielo autunnale annegava nei campi sterminati, non ancora in grado di partorire spighe inneggianti al sole dell’estate, intrise di vita e luce. Ogni singola goccia si perdeva nell’accogliente abbraccio di quelle fertili terre dell’Oregon, senza fare il minimo rumore. Il silenzio sembrava regnare sovrano, interrotto solo dal brusco passaggio di un treno merci, che come bestia a stento addomesticata, mordeva i binari con le sue rotaie, imponendo la sua presenza tra le docili pianure.
Nell’ultimo vagone, seduto tra alcuni sacchi di frumento e frastornato dalla stanchezza, Jeff sentiva lo scorrere del tempo scandito dal rumore degli ingranaggi. Portò svogliatamente una sigaretta alla bocca, cullato dalle oscillazioni del treno.
Spostarsi dalla costa occidentale a quella orientale era stata un’impresa tutt’altro che facile, ma doveva impedire che la polizia lo braccasse: a quell’ora lo stavano sicuramente cercando negli stati immediatamente confinanti al Tennessee (ultimo posto in cui aveva fatto le sue “visite”); nessun poliziotto credette che il giovane assassino avesse uno spostamento così drastico. Ciò che rendeva maggiormente Jeff  the Killer inafferrabile era proprio la sua totale imprevedibilità, e la lucida, geniale follia,  che gli consentiva di prevedere le mosse dei suoi inseguitori. Inoltre, non operava mai in nessun territorio se prima non lo studiava nei minimi dettagli, in genere per comprendere in che modo avrebbero operato le forze dell’ordine, e per cercare posti sicuri, eventuali vie di fuga. Gli venne da ridere pensando che, forse, avrebbe potuto diventare un valido stratega nell’esercito degli Stati Uniti, anziché  una specie di cancro ambulante, che uccideva tutto ciò che lo avvicinava . Studiò la cartina dell’Oregon nei minimi dettagli, e se i suoi calcoli erano precisi, di lì a poco sarebbe giunto a destinazione.
Guardò il suo orologio: ore 23.22. Si alzò lentamente, recandosi presso l’enorme sportello laterale del vagone. Sentiva ormai che era arrivato a destinazione, perché il treno cominciò a rallentare.
Aprì lentamente lo sportellone, osservando la nuova, promettente meta che gli si parò davanti. Un agglomerato urbano non troppo grande, contornato da una zona rurale, circondato da boschi estesi, si preparava ad accoglierlo riluttante. Il nome della cittadina era Oldfield.
« Oldfield…» Jeff pronunciò quel nome tre volte, come una breve litania, mentre il suo sguardo ceruleo sembrò brillare di una lugubre luce; fu di nuovo invasato dalla sua bestia, quella che lui  avrebbe domato solo facendosi sbranare come un’antilope da un branco di leoni. La sentiva bruciare fin dentro le ossa, attendeva  impaziente che fosse soddisfatta.
« Non sono bellissimo?» sussurrò sfiorandosi il viso deturpato, rievocando nel suo delirio una storia iniziata diciassette anni prima, destinata a ripetersi fino alla fine dei suoi miserabili giorni.
Cominciò a sghignazzare, per poi allargare la sua bocca in una risata che nessuno mai avrebbe voluto vedere, perché orribilmente accentuata dalle cicatrici ai due lati del viso. 
Jeff attese che il treno fosse quasi fermo per saltare giù e sparire nel fitto bosco che guardava con bramosia. Gettò via la sua cicca di sigaretta e saltò, continuando a ridere.
Quella notte, i boschi di Oldfield udirono gli ingranaggi di un treno e una risata a stento celata dalla fitta vegetazione.
 

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Capitolo 4
*** L'incontro ***


~~Ore 2.18.

Dopo un lungo cammino nella cupa foresta, finalmente Jeff raggiunse Oldfield. A una prima osservazione, comprese che non era esattamente come se l’era immaginata. Superò cascine, ranch e strade desolate, per approdare infine al centro del paese. Oldfield era molto diversa dalle città “bene” che solitamente ricevevano le sue visite: caratterizzata perlopiù da appartamenti e case popolari, tra l’altro molto trascurate, se non addirittura fatiscenti. Intravide qualche anima gonfia di alcool seduta fuori al tavolino di un bar di second’ordine. Avendo la sensazione di essere osservato, tirò su il suo cappuccio per non permettere a nessuno di vederlo, infatti comprese che non si stava sbagliando. Da lontano, tre uomini lo stavano tenendo d’occhio.  Jeff capì che dovuto prestare attenzione e muoversi più cautamente, altrimenti criminali, pushers e papponi vari gli avrebbero creato un bel po’ di problemi.

 

Scelse di abbandonare repentinamente la zona in cui si trovava, attento tuttavia a muoversi con naturalezza, per non destare attenzioni indesiderate: imboccò una larga strada non lontana dal quartiere popolare, meno trafficata in quanto statale e confinante con i boschi dentro ai quali avrebbe potuto tranquillamente rifugiarsi in caso di pericolo, o trucidare con facilità qualche malcapitato. Più procedeva nel suo cammino, più ebbe la conferma che il luogo in cui si trovava era quello giusto. C’erano (in più di mezzo chilometro di via) si e no un paio di piccole case e un bar: tutte e tre le costruzioni erano molto distanti fra loro. Se non fosse stato per le luci dei lampioni, di quattro di ubriaconi fuori a un bar e di due puttane che bruciavano copertoni dall’altro lato della strada, Jeff avrebbe pensato che si trattasse di una strada fantasma.

 

“Sembra una specie di Bronx di campagna” pensò sghignazzando.

 

Si recò al bar di quella via per bere qualcosa, vi entrò, e riconobbe che c’erano diverse brutte facce, terrificanti quasi quanto la sua. Pensò divertito di trovarsi in un luogo dove la concorrenza era spietata. Il locale era quasi completamente al buio a causa delle poche (malfunzionanti) luci che vi erano collocate qua e là.  A un tavolo qualcuno cercava di conversare biascicando parole senza senso, a un altro, invece, qualcuno era intento a farsi di eroina, in un angolo qualcun altro faceva a botte: sembrava evidente che non sarebbero venuti poliziotti a fare controlli in quel posto dimenticato da Dio. Ovunque si girasse, vi era odore di sudore, fumo e alcool. Evitò lo sguardo di chiunque, voleva sottrarsi a noie, altrimenti non avrebbe potuto “lavorare” in santa pace di lì a poco. Seduti ad un sudicio bancone,  tre uomini fissavano nel vuoto dei loro bicchieri.

 

« Un altro giro, Frank!» biascicò il più grosso dei tre, mal sollevando il suo fetido bicchiere. Il barman, un uomo calvo, dal fisico asciutto e con una incolta barba rossiccia, gli versò del Whiskey senza distogliere lo sguardo dal suo bancone.

 

Con lo stesso fare schivo e riservato, attese che il nuovo avventore ordinasse da bere.

 

«Vodka.» chiese Jeff. L’oste gli pose davanti un cicchetto che non tardò a riempire.

 

Fatta una consumazione di ben quattro cicchetti di alcool, Jeff lasciò otto dollari sul bancone.

 

Andò via mentre osservò una donna non molto giovane in abiti succinti, avvicinarsi a uno dei clienti del bar e “contrattare” i suoi servizi in cambio di venti dollari. A ben guardare, erano diverse le signore che tentavano di adescare qualcuno. Vi era un enorme giro d’affari, su questo non c’erano dubbi.

 

Uscì fuori, e ne approfittò per fumare. Cominciò a squadrare bene la zona in cui si trovava, in particolare il bosco, che si ergeva inquietante dietro una delle due casupole che aveva di fronte.

 

Si sarebbe recato in una di quelle case fatiscenti per portare a termine il primo omicidio, ovviamente avrebbe dovuto accertarsi della presenza di abitanti all’interno di quella merda di posti, ed eludere le prostitute che si trovavano proprio di fronte a lui...non potevano esserci testimoni, se le ragazzine fossero state presenti, non avrebbe esitato ad ucciderle, anche se preferiva di gran lunga  procedere nelle case e sorprendere qualcuno nel sonno. Continuò a fantasticare su quello che sarebbe successo di lì a poco in quelle abitazioni, e la cosa lo eccitava a morte. L’odore del sangue e dei resti di nuove vittime avrebbe ancora una volta impregnato il suo naso, e con esso la sua anima. Rise malignamente tra sé, pianificando anche le vie di fuga, mentre, dall’altro lato della strada, una macchina si fermò davanti alle prostitute, le quali salirono all’interno dell’autovettura, dopo lo scambio di alcune battute e risatine. Mentre osservava questa scena, avvertì che il suo piano stava prendendo forma, ma flusso dei suoi pensieri fu interrotto, e si ritrovò catapultato nella realtà da una vocina sommessa, che quasi lo irritò per averlo disturbato mentre stava pianificando il “lavoro”.

 

« Hai una sigaretta?»

 

Jeff si voltò. Una ragazzina, non molto alta, coperta da un giubbotto di finta pelle e da un tanga che lasciava ben poco spazio all’immaginazione, lo guardava con aria interrogativa.

 

“ Se solo sapessi a chi stai chiedendo di fumare, lurida puttanella, urleresti implorando pietà.” pensò il giovane psicopatico. Un pensiero balenò alla mente: e se avesse iniziato proprio da lei? Non sarebbe stato difficile sgozzarla coprendole la bocca per impedirle di strillare; tuttavia i clienti del bar lo avrebbero visto, alcuni erano proprio alle loro spalle, inoltre non era difficile che la ragazza avesse un protettore che la teneva sotto controllo.  Decise dunque di offrirle la sigaretta, rimandando a un altro momento il loro macabro appuntamento. “Sei in lista, tesoro”, sogghignò tra sé e sé.

 

La ragazza tirò fuori un accendino dalle calze autoreggenti e prese la sigaretta che Jeff le porse.

 

«Grazie.» disse.

 

Nell’accendere la sigaretta, Jeff notò che la giovane stava leggermente tremando: la notte era piuttosto fredda, e non aveva quasi nulla addosso che la riparasse.

 

La osservò attentamente mentre guardava il vuoto: doveva avere circa vent’anni. Fu incuriosito dalla sua faccia pulita, in netto contrasto con le sensuali forme messe in risalto da quegli “abiti”. Sembrava una verginella in abiti da peccatrice, nonostante il trucco pesante e un rossetto che esaltava il chiarore del suo viso.

 

Improvvisamente, la giovane comprese di sentirsi osservata dallo sconosciuto a cui aveva appena chiesto di fumare, e girò i suoi grandi occhi scuri verso di lui, spostando con le dita i suoi capelli castani dietro un orecchio: sotto il cappuccio non riusciva a scorgere molto di quel viso innaturalmente pallido, se non uno sguardo color ghiaccio che sembrava scrutarla nel profondo dell’anima. Un brivido la percorse lungo la schiena: qualcosa non andava… scacciò subito quella sensazione dalla sua mente: in fondo, ciò che l’uomo voleva da lei era una sola cosa, e la sigaretta non le era stata di certo donata senza che lui si aspettasse nulla in cambio.

 

« Possiamo andare nel retro…»

 

« Cosa? » chiese Jeff.

 

« Di solito prendo cinquanta dollari, ma visto che…» continuò la giovane.

 

Jeff la interruppe con una fragorosa risata. « Ti ringrazio, ragazzina, ma stasera ne farò a meno! » ciò che Jeff the Killer desiderava era ben altro, nonostante il corpo di quella piccola squillo fosse piuttosto invitante. Credette che ella avrebbe insistito, offrendosi a poco prezzo, invece riprese a guardare nel vuoto e a fumare, senza proferire parola. Una parte di lei era sollevata che qualcuno non avesse usato generosità verso di lei con il solo scopo di portarsela nel retro del bar, in un cesso pubblico o in una macchina, ma non lo diede a vedere. Jeff distolse gli occhi da lei, riprendendo a studiare il territorio.

 

Non passò molto tempo che dalla casa all’altro lato della strada uscì un uomo sulla cinquantina, non dissimile dalle fecce che frequentavano il bar. Era piuttosto grasso, alto quasi quanto Jeff, con dei radi capelli brizzolati, un viso tondo dall’espressione stupida, ma al tempo stesso scaltra; era vestito con una canottiera e una giacca aperta sul davanti che evidenziavano la sua pinguedine, e un paio di jeans piuttosto larghi; un’ernome catenina d’oro, infine, adornava il suo collo. Si avvicinò fermandosi a pochi passi dai due. Fulminò la giovane con lo sguardo, intimandole: « Ti avevo detto di stare sul marciapiede di fronte, e lì il tuo turno.».

 

« Scusa, Paul.» sussurrò la ragazza abbassando lo sguardo. Fece cadere la sigaretta a terra e si avviò dove le aveva indicato il suo protettore.

 

« Muoviti! » esclamò lui.

 

Nel giro di pochi istanti, la ragazza si trovò di fronte, ferma al copertone acceso lasciato dalle sue colleghe poco prima. Inserì le mani nelle tasche del giubbotto, sperando di prendere un po’ di calore. Jeff la osservò a lungo, concludendo che quella era la casa dove le donne che aveva incrociato poc’anzi vivevano. Probabilmente il pappone abitava con loro, o comunque le visitava spesso.

 

Guardò la giovane mentre passeggiava avanti e indietro sul marciapiede, ondeggiando su tacchi vertiginosi: era da tanto che lui non interagiva con qualcuno, se non per inseguirlo o sgozzarlo, dopo aver pronunciato il suo famigerato «torna a dormire», e l’idea di  aver parlato dopo tanto tempo, con una persona ignara di essere la sua prossima vittima, lo divertiva da matti. Soffocò una risata mentre l’uomo che la ragazzina aveva chiamato Paul entrò nel bar.

 

Forse, ora che lei era sola, avrebbe potuto avvicinarla di nuovo per portarsela nel bosco, col pretesto di accettare l’offerta di poco prima, e sventrarla: la sua ben nota euforia lo stava ora pervadendo, la bestia era sveglia, e chiedeva di essere subito assecondata, doveva assolutamente ucciderla.

 

Purtroppo comprese che avrebbe dovuto rimandare il suo piano, visto che una macchina si avvicinò alla prostituta: dopo un poco lei vi entrò, e sparì nel buio di quella strada statale, ad appartarsi chissà dove.

 

«Fanculo!» esclamò, dovendo fare i conti con la sua frustrazione.

 

« Ci rivedremo presto…» sussurrò con malignità, accendendosi un’altra sigaretta. Si avviò verso il bosco, che da quel momento in poi sarebbe stato il suo nuovo rifugio. Sparì nel buio della notte, inghiottito dalle fitte ombre degli alberi.

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Capitolo 5
*** Ricordo ***


~~Da alcuni giorni si vociferava che il misterioso assassino che da anni seminava morte in giro per l’America fosse giunto in città, dal momento che un uomo fu trovato in una traversa con la gola tagliata, ma quello che aveva destato scalpore non fu l'omicidio in sè, quanto il fatto che non poteva essere attribuito a un regolamento di conti o a un tentativo di rapina: il tizio morto era pulito e totalmente estraneo ai clan della zona. La notizia aveva sconvolto gli abitanti di Oldfield: uomini e donne non facevano che parlare di quello strano omicidio così fuori dall’ordinario, privo di movente e di pallottole. Se si fosse trattato di uno sgarro, di un debito o di un intralcio negli affari dei signorotti del paese, tutti lo avrebbero appreso immediatamente. Si intuì solo che sarebbe stato difficile individuare un possibile colpevole tra i  tanti visitatori che si trovavano lì momentaneamente, visti i numerosi collegamenti stradali che la cittadina vantava. Oldfield era una vera e propria zona di passaggio: motel, bar e alberghetti erano ottime fonti di guadagno per ospitare viaggiatori che dovevano raggiungere altre zone, ma erano anche utili per mettere in circolo altri tipi di “commercio”, fatta eccezione per contadini, lavoratori e negozianti onesti, che miravano i loro magri introiti con l’orgoglio di chi non avrebbe mai ceduto alla tentazione di guadagnare soldi facili. L’unica cosa che in quel momento le persone comuni condivisero con criminali, drogati e squillo, era il timore di essere presi di mira da un ignoto assalitore, senza nome e senza volto.

 

Anche le ragazze di Paul vennero a conoscenza della misteriosa vicenda, e pervase dallo stesso timore di tutti, si sentirono in serio pericolo: nessuna aveva intenzione di andare in strada, almeno fino a quando non si sarebbero calmate le acque. 

 

« Vacci tu a lavorare con quello che sta succedendo! » Gridò istericamente Martha indicando il notiziario locale che trasmetteva un servizio proprio sul famigerato serial killer. Ormai, da quel piccolo televisore che le ragazze avevano nella loro piccola camera da letto, non si vedeva altro.

 

« Non correrete alcun pericolo con me!» ribatté Paul.

 

L’intero gruppetto era colto da un isterismo generale, in particolare Martha, che più di tutte aveva bisogno di sentirsi al sicuro. Le altre, Laura, Andrea e Kate, sebbene dotate di autocontrollo, erano altrettanto spaventate e riluttanti all’idea di andare in strada, e intervenivano una ad una per tentare di convincere Paul a farle restare in casa.

 

« E’ comunque troppo rischioso!» intervenne Laura « Basta un attimo di distrazione per permettere a un figlio di puttana di ucciderci!»

 

« Ben detto. Dobbiamo restare qui!» fece eco Andrea.

 

 Kate aggiunse « Per favore, Paul. Si tratta solo di stare al sicuro per qualche giorno!»

 

« Non se ne parla!» gridò il lenone zittendo l’intero gruppo. Purtroppo la polizia gli aveva sequestrato diverse partite di droga e arrestato uno dei suoi fornitori, l’intero traffico era pertanto in stallo.

 

Per diversi secondi nessuna proferì parola: tutte sapevano che dovevano stare in silenzio se volevano evitare una ritorsione violenta da parte del loro protettore.

 

« Gli affari vanno male. Vero, Paul? » asserì Andrea con aria di sfida, come a leggere il suo pensiero. Continuò con disprezzo, per nulla intimorita dallo sguardo inviperito che Paul stava assumendo: « L’unica fonte di guadagno siamo noi adesso, non è forse così? Poco male se una ci lascia la pelle! I dollari contano più delle nostre vite. Del resto, cosa aspettarsi da uno come te? ». Andrea era la più indisciplinata di tutte, per cui Paul doveva domare il suo spirito battagliero, altrimenti le altre avrebbero seguito il suo esempio, screditando la sua autorità, come puntualmente osava fare lei.

 

Cominciò a sibilare: « Vedo che la lezione dell’ultima volta non ti è bastata, schifosa troia.». Le assestò un pugno nell’occhio.

 

La ragazza cadde all’indietro sotto lo sguardo terrorizzato delle altre.  Quando tentò di rialzarsi, fu sorpresa da diverse cinghiate, che Paul le elargiva con violenza sui fianchi, sulle cosce, sulle braccia e sulla schiena. Quando la sua furia scemò, lasciando Andrea tramortita e dolorante sul pavimento, guardò le altre con fare minaccioso: « Se stasera non andrete al lavoro, giuro che non sarà un pazzo maniaco quello di cui dovrete avere paura! ». Appena andò via sbattendo la porta di quella casetta che era poco più di un monolocale, le ragazze si fiondarono sulla povera Andrea per tentare di aiutarla, era svenuta. Purtroppo non erano rare le volte in cui una di loro veniva ridotta in quello stato dal padrone delle loro vite. Non c’era modo di uscire da giro, se non invecchiando, ammalandosi gravemente, o finendo con un buco in fronte se osavi cercare di andare via dalla città.

 

« Non è più la stessa, da quando Mary…» disse Laura guardando Andrea che giaceva sul letto, gonfia di lividi.

 

« Zitta! Non dobbiamo parlane…» la interruppe Martha.

 

Da quell’istante nessuna fiatò, tuttavia ognuna di loro fu attraversata da ricordi che non avrebbe mai voluto rievocare.

 

 

 

« ...Me lo ha regalato David. A lui non dispiacerà se lo lascio a te. Così ti ricorderai sempre di me, e poi…ti porterà fortuna! »

 


Queste parole fecero eco nella mente di Andrea, quando di colpo si ritrovò nella realtà, distesa sul suo letto, tutta dolorante e circondata dalle cure di Kate, in quella piccola casa-dormitorio. Come investita dall’ansia, Andrea toccò il suo collo. Quando si accertò che le sue dita avevano toccato il ciondolo che portava al collo, tirò un sospiro di sollievo. Lo osservò come usava fare spesso: era un semplice cuore su cui erano incise le lettere DM. Rivolse la sua attenzione verso Kate, che le poggiò del ghiaccio sul livido lasciato da Paul all’occhio sinistro.

 

« Sei un’incosciente. Come ti viene in mente di provocarlo?» la rimproverò l’amica mentre controllava anche i lividi lasciati sulle braccia.

 

 Kate, con i suoi 28 anni, era la più “anziana” del gruppo, per cui si sentiva spesso in dovere di comportarsi come una sorella maggiore, specialmente nei confronti di Andrea e di Martha, che erano le più giovani. A volte aveva modi piuttosto duri, ma le altre la stimavano perché ritenevano che avesse un gran cuore, celati sotto strati di finta indifferenza. I suoi lunghi capelli biondi erano ora legati in un’elegantissima treccia.

 

« Tutto bene, Kate? » chiese Andrea quando Kate terminò la sua medicazione: notò che la ragazza sembrava fissare nel vuoto.

 

« La finestra. Devo pulirla.» mentì senza spostare lo sguardo. Spesso, guardare nel vuoto era l’unica forma di ribellione per una donna incatenata ai suoi doveri di schiava.

 

« Dove sono Laura e Martha?» Chiese infine la giovane infortunata.

 

Finalmente Kate la guardò: « Loro sono al lavoro. Tu ed io dobbiamo uscire alle 22. Io sarò in strada, tu invece al bar.».

 

« Ok.»

 

« Ora pensa a riposare. Più tardi provvederemo a nascondere quel livido. » tagliò corto la bionda, allontanandosi dal letto dove era distesa Andrea, la quale chiuse di nuovo gli occhi, concedendosi un pò di riposo.

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Capitolo 6
*** Perdonami ***


~~Fino a poco tempo prima, cercare qualcuno da mandare a dormire si era rivelato impossibile per Jeff: la sua frustrazione aveva raggiunto livelli altissimi. Rise al ricordo di quello che era successo cinque sere prima: all’interno di una traversa nel centro di Oldfield, un uomo si apprestava a chiudere la porta sul retro del suo locale, quando udì inaspettatamente delle parole molto simili a un sibilio: « Torna a dormire…» subito prima di essere infilzato da una lama che attraversò il suo tronco.
Il piacere che Jeff ne ricavò fu immenso, e lo motivò a continuare la sua opera in quella schifosa città. Non sarebbe andato via prima di lasciare una traccia indelebile di sé in quel paese di poche migliaia di anime, colpevoli anche loro di esistere, di essere la causa della loro stessa fine.
Quella sera vide un palazzo in fase di ristrutturazione: era tutto puntellato da un’impalcatura. Fu molto semplice salirci sopra, visto che gli operai avevano dimenticato una lunga scala che chiunque avrebbe potuto utilizzare. Vi salì, per poi cercare una finestra aperta, che non tardò a trovare al primo piano. Si intrufolò nell’appartamento: si ritrovò in una camera da letto di un ragazzino appena adolescente. Fece scivolare il suo pugnale sul piano della scrivania. Il suono provocato da esso svegliò il bambino, che si mise seduto a guardare nel buio. Vide un uomo dalla pelle bianca, gli occhi cerchiati di nero e due tagli sulle guance che formavano, insieme alla sua bocca, un orripilante sorriso. Fece per gridare, ma fu zittito dalle fredde mani dell’uomo, che gli sussurrò, mentre il bambino ancora si agitava:
 « Sssh…torna a dormire.».
Nella colluttazione, il ragazzino scalciò sul comodino che era accanto al suo letto che, cadendo, provocò un notevole rumore. Qualche secondo dopo, una giovane coppia aprì la porta della stanza del bambino.
« Kevin, cos’è tutto questo baccano?» chiese la donna, mentre il marito accese la luce della camera. Videro il corpo del loro figlio riversato a terra,  sventrato come un animale e parzialmente decapitato.
Restarono per un istante senza parole, increduli a quello che avevano visto: il loro bambino ridotto in quello stato, non era possibile, era un incubo, anche se incredibilmente reale. Quelle poche frazioni di secondo furono sufficienti a Jeff per uccidere anche loro, prima che potessero gridare.
Quando credette di aver terminato il lavoro, sentì piangere sommessamente. Visitò l’intero appartamento, cercando di capire da dove provenissero quei lamenti. Scorse un armadio nella camera da letto matrimoniale, lo aprì: una bambina di circa dieci anni piangeva rannicchiata, era evidente che avesse terrore. Jeff la guardò per un secondo, poi, intenerito, si inginocchiò davanti a lei.
« Povera piccola, ti ho svegliata. Perdonami. Ma non preoccuparti, rimedio subito. Torna a dormire…».
 

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Capitolo 7
*** Il giorno dopo ***


~~Notiziario delle 6.30 a.m.,

“Famiglia sterminata in casa: ignoto l’autore dell’efferato omicidio.

Una famiglia di quattro persone, due adulti e due bambini, è stata trovata morta all’interno di un appartamento sito al quartiere popolare di Wernicke. Le autorità sono giunte al luogo in seguito ad una segnalazione, fatta alle tre del mattino da parte di uno dei vicini di casa, che ha udito le grida di uno dei bambini  provenire dall’appartamento. I corpi delle vittime sono stati ferocemente  mutilati, segno che l’assassino ha infierito ripetutamente su di loro con un oggetto contundente. Si esclude l’ipotesi di un omicidio/suicidio. Nell’attesa che la polizia chiarisca la dinamica del tragico accaduto e ne scopra i colpevoli, si raccomanda ai cittadini la massima allerta e a non esitare di chiamare il 911 in caso di pericolo.”

Laura fissò il televisore con gli occhi sbarrati.
« Ragazze! Venite qui! E’ successo di nuovo!» gridò in preda al panico.
Kate, Andrea e Martha accorsero immediatamente. « Che succede? » chiese allarmata Kate.
« Qualcuno ha ucciso una famiglia stanotte.»
« Cooosa?!» chiesero in coro le altre.
« Siamo ufficialmente nella merda.» affermò Andrea.
« Dobbiamo convincere Paul a lasciarci a casa » riprese Laura appena terminò il servizio sulla tragedia avvenuta proprio quella notte. A detta dei cronisti, chi aveva ucciso quella famiglia, e una settimana prima anche il proprietario di un piccolo bar, era lo stesso assassino che nessuno era mai riuscito ad acciuffare, e che da quasi venti anni seminava morte nei vari stati d’America, sparendo senza lasciare traccia. L’incubo ora aveva raggiunto Oldfield, e Dio solo sapeva quanta gente ancora sarebbe morta per mano di quel mostro.
Le quattro donne intuirono che, presto o tardi, sarebbe iniziato un coprifuoco. Desideravano ardentemente essere anche loro al riparo, visto che le prostitute sono in genere maggiormente a rischio di attacchi da parte di squilibrati, ma sapevano che sarebbe stato difficile, per non dire impossibile, convincere il loro padrone a non farle andare in strada.
« E’ inutile, Laura. Sai bene che Paul non ci permetterà di stare qui.» intervenne Kate « Ma ho un’idea. Possiamo chiedergli di svolgere lo stesso turno, in modo che sarà più difficile coglierci di sorpresa se restiamo unite. Ci guarderemo le spalle a vicenda.» concluse saggiamente.
« L’idea è ottima.» commentò Martha « Dobbiamo parlarne a Paul.».
Contrariamente alle aspettative del gruppo, Paul acconsentì alla richiesta, dal momento che lui stesso aveva cominciato a comprendere la gravità della situazione. Non avrebbe mai potuto permettersi di perdere altre fonti di guadagno, pertanto concesse alle ragazze di lavorare agli stessi orari.
« E’ un sollievo che Paul ci abbia detto di sì» esclamò entusiasta Martha appena il loro protettore andò via.
« Personalmente questo non mi tranquillizza molto, ma è meglio di niente.» rifletté Andrea.
« Come sta il tuo occhio? » chiese Martha fissando con i suoi occhi verdi il livido che la sua collega aveva ancora all’occhio sinistro.
« Molto meglio, grazie. Devo solo nasconderlo sotto quintali di fondotinta al momento, ma non mi fa male quanto ieri.»
Alla risposta di Andrea, Martha annuì e andò in cucina a preparare la colazione insieme alle altre.
La giovane, rimasta sola, si recò alla finestra della camera da letto: osservò il bosco poco distante che si ergeva maestoso e tetro a soli pochi metri di distanza dal retro della casa. Una morsa fredda le pervase lo stomaco, e si sentì improvvisamente fragile, alla mercè di un pericolo che nessuno era in grado di affrontare. Si immaginò in mezzo alla strada, annegata nel suo stesso sangue, priva di ogni aiuto. Nessuna vita valeva meno della sua e delle donne come lei, questo lo sapeva bene. Osservò ancora quel paesaggio, rassicurante e inquietante al contempo, mentre udiva le sue compagne di sventura ridacchiare in cucina per incoscienza (o per rassegnazione?). La sua attenzione fu improvvisamente attratta da un puntino bianco che scorse all’orizzonte, proprio nel semibuio della foresta. Che si trattasse di un animale, o…di una persona?
Le sembrò assurdo pensarlo, ma per un momento credette di essere osservata.
« Cosa ci fai lì impalata? La colazione è pronta.» Kate fece capolino nella stanza, interrompendo bruscamente Andrea nel suo osservare la misteriosa figura; per tutta risposta lei si girò di scatto, e annuì. Prima di andare in cucina insieme alle altre, diede un ultimo sguardo al bosco. Quella strana presenza era sparita. Scosse la testa, convinta di avere un’immaginazione troppo fervida, acuita dai recenti accadimenti.


Quella sera stessa, la polizia perlustrò ogni angolo di Oldfield. Era difficile percorrere un’intera strada senza vedere almeno una volante che faceva un giro di perlustrazione, pertanto divenne un’impresa per le adescatrici svolgere le loro “attività”. Ciononostante, le quattro schiave di Paul si appostarono comunque in mezzo alla via, alla luce di un lampione: era riuscito a corrompere i poliziotti, per tale ragione non avrebbero avuto noie.
« Che cazzo di freddo! » esclamò Laura.
« Certo che i nostri “abiti” non aiutano. » disse ridacchiando Kate.
« In tutto questo, dov’è il nostro paladino della giustizia? Ha detto che ci avrebbe tenuto d’occhio » chiese Martha.
« E’ al bar. Controlla il giro di droga. Si dice che abbia trovato altri fornitori, con cui ha un appuntamento proprio stasera. » rispose Laura, facendo cenno col capo in direzione del locale all’altro lato della strada.
Quella notte, il pericolo di un misterioso killer a piede libero non sembrò inquietare gli animi dei clienti di quelle ragazze, i quali sembravano ascoltare più il loro basso ventre che la paura, o il disappunto delle mogli che lasciavano a casa con la scusa di tornare più tardi da lavoro.
Passarono così i giorni e le notti, in quel piccolo mercato di carne e di miseria, fatto di finti sorrisi rivolti alle tante facce di signori perbene che prendevano ciò che quelle giovani offrivano contro la loro volontà.

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Capitolo 8
*** Tre settimane dopo ***


~~Tre settimane dopo,

Jeff decise che avrebbe dovuto starsene buono per un po’. I piedipiatti avevano cominciato a stargli alle calcagna, ma sapeva come risolvere il “problema”. Bastava che per un po’ lui smettesse di uccidere, che lo stato di allerta si abbassava, permettendogli di mandare a dormire qualcun altro…era sempre la stessa storia, in tutti gli stati che visitava. Erano passate tre settimane dal suo assalto alla famiglia nel quartiere di Wernicke, ma sapeva che avrebbe dovuto attendere ancora prima di colpire nuovamente. Ripensò alla prostituta incontrata quasi un mese prima, al suo corpo così scoperto e attraente… La osservava spesso mentre avvicinava clienti al bar o sotto al lampione dall’altro lato della strada, anche se non le aveva più rivolto la parola. Gli capitò anche di spiarla diverse volte, dal suo rifugio nel bosco, specialmente quando lei guardava fuori dalla finestra della casa nella quale viveva con le sue colleghe. Come a una preda particolarmente difficile e per questo maggiormente desiderabile, Jeff amplificò le sue “attenzioni” verso di lei. Sapeva che per arrivare a sgozzare quell’esile collo, avrebbe dovuto eliminare almeno il pappone, per far sì che nessuno potesse più proteggerla; ma anche arrivare a lui era piuttosto difficile, dal momento che faceva continui spostamenti tra la casa delle prostitute, il bar e altre zone fuori città. Abbandonò il pensiero di quella ragazzina, per dedicarsi a godere i suoi drink in santa pace: di lei si sarebbe occupato più avanti.
Era di nuovo al bar, stavolta un po’ brillo. Aveva consumato un elevato quantitativo di alcolici che lo resero un po’ abbattuto, ma ancora sufficientemente attento da cogliere le conversazioni degli altri clienti.
« Maledizione, Tom! Come se questa sudicia città non facesse abbastanza schifo da sola… ».
Jeff girò leggermente la testa in direzione della voce che aveva pronunciato quelle parole: un uomo sulla sessantina, calvo e dagli intensi occhi azzurri, discorreva con un altro di corporatura molto robusta e dalla folta barba bruna, che il killer riconobbe come il tizio che si ubriacava sempre di Whiskey.
« Hai ragione, Bob. Questa città sta cadendo a pezzi. Ci mancava un pazzo che va in giro sterminare gente.» biascicò Tom in tutta risposta.
« Se becco quel bastardo, gli riempio il culo di proiettili! Lo giuro sulla buonanima di Rachel. Un altro bicchiere di Whiskey, Frank!» esclamò l’uomo che l’altro aveva chiamato Bob.
« So che non sono affari miei, ragazzi, ma dovreste restare sobri, e tenere gli occhi aperti.» rispose il barman in uno stato di evidente disagio.
« Naaa! Giovanotto, non abbiamo modo di cambiare il corso del nostro destino. Se devo morire stanotte con un pugnale piantato nel petto…così sia.» rispose Bob.
I due uomini discorsero per una buona mezz’ora, sbevazzando, ridendo e a tratti accendendosi in qualche discussione, prima che Bob si alzò dal suo sgabello per salutare l’amico e il barman.
« Ci vediamo, ragazzi. Dovrò svegliarmi prima dell’alba, le quaglie non si cacceranno da sole!» si accomiatò ridacchiando.Andò via barcollando.
 Jeff lo seguì con lo sguardo, mentre consumò il suo ultimo bicchiere di alcool. Lasciò il compenso per il barman sul bancone e, cautamente, si avviò verso l’uscita del bar, pedinando colui che di lì a poco sarebbe stato la sua prossima vittima.
L’ esclamazione che aveva udito mezz’ora prima dalla bocca di quello sventurato fu musica per le sue orecchie, e la accolse come una sfida.
« Vediamo come riesci a riempirmi il culo dei tuoi fottuti proiettili…» disse tra sé e sé, mandando al diavolo il suo proposito di restare nell’ombra per un po’ di tempo.

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Capitolo 9
*** Bob ***


~~Procedendo in direzione opposta al centro città, esattamente per la strada statale costeggiata da boschi, ci si imbatteva, dopo circa mezzo chilometro, in un incrocio scarsamente illuminato, con una sola indicazione verso Oldfield. Al di là di tale crocevia, un piccolo sentiero in ghiaia conduceva a una casa indipendente, la quale, anche se celata da alcuni alberi, era comunque ben visibile. Le sue fattezze suggerivano un’abitazione abbastanza rustica e non molto curata, ma nel complesso piacevole da vedere. Fu proprio in quella casa che Bob entrò, con un po’ di difficoltà dovuta a qualche bicchiere di troppo. Tentò circa due volte di inserire la chiave giusta nella serratura, e al terzo tentativo (contornato da una bestemmia appena bofonchiata) vi riuscì. Entrò, avvertendo lo sgradito tepore di casa sua, che invece di recargli sollievo, gli procurò una stretta al cuore, intrisa di amarezza e nostalgia. Riuscì a reprimere una lacrima, mentre tolse il suo cappotto per assicurarlo all’appendiabiti.
 Placidamente si recò in un salotto adiacente all’ingresso: lì accoglieva coloro che gli dedicavano il loro tempo per alleviare la sua maledetta solitudine. Dalla vetrina dei liquori, sita proprio alla sua destra, prese una bottiglia di Rhum e due bicchieri, che poggiò su un  tavolino che si trovava tra due poltrone, al centro della stanza: si sedette sulla poltrona rivolta verso un camino spento, ai cui lati di quest’ultimo c’erano due grandi finestre che illuminavano la stanza con la luce lontana di un lampione. Era finalmente seduto, con le spalle rivolte verso l’ingresso. Girò nuovamente il suo sguardo verso la sua vetrina di liquori, dove intravide, appena dietro le bottiglie, il suo amato fucile, che per anni lo aveva accompagnato nella caccia. Si versò del Rhum e guardò nel vuoto dinanzi a sé, convinto che quella sera avrebbe riposato.
Non passò molto tempo che udì la porta dell’ ingresso di casa chiudersi. Il rumore lo destò dal leggero torpore nel quale ormai stava entrando. Non mosse un solo muscolo, per meglio sentire i passi quasi impercettibili che attraversarono l’ingresso di casa sua: si avvicinavano sempre di più, finché non cessarono proprio all’entrata del suo salotto. Per un tempo che sembrò un’eternità, la presenza che Bob aveva alle sue spalle restò ferma. Sentì puzza di alcool e sangue, per cui realizzò di non essersi sbagliato.
« Vieni avanti, figliolo.» disse stancamente il cacciatore.
Per tutta risposta, udì un sussulto che lo fece sorridere: comprese di aver colto di sorpresa lo sconosciuto visitatore.
Riprese a dire, con la stessa flemma: « Siediti. Versati del Rhum, se vuoi.» indicando la poltrona di fianco alla sua.
Udì nuovamente i passi avvicinarsi alla sua poltrona, stavolta più rumorosi e incerti. Continuando a fissare dinanzi a sé, intravide, con la coda dell’occhio, l’alta corporatura di un uomo dai capelli neri e il viso pallido, che gli si ergeva di fianco. Non aveva bisogno di guardarlo negli occhi per comprendere quanto fosse perplesso. Alzò lo sguardo verso la parete del camino, sulla quale, nonostante il buio, si notava con chiarezza la foto di una donna di mezza età, piuttosto attraente, dal sorriso rassicurante e piacevole.
Bob la fissò, le sue labbra si mossero in un sorriso che sembrava più una smorfia di dolore. Dopo qualche secondo, i suoi occhi divennero lucidi. Restò fermo a fissare quella foto per almeno mezzo minuto, incurante dello scorrere del tempo e dell’evento che di lì a poco avrebbe segnato la sua esistenza.
Quando finalmente si ricordò del suo inatteso ospite, gli chiese: « Come ti chiami? »
« J…Jeff.» rispose l’altro, e nel farlo si sedette sulla poltrona indicata da Bob. Il disagio del giovane era evidente, traspariva dal suo tono di voce, dal momento che non si era aspettato un’accoglienza così serena: come poteva un uomo restare indifferente alla presenza di un estraneo in casa sua? Per la prima volta nella sua vita, Jeff the Killer in persona si sentì letteralmente spiazzato. Il proposito di uccidere Bob non lo aveva abbandonato, ma era troppo incuriosito dallo svolgersi di quella strana dinamica. Era, inoltre, come affascinato dallo sguardo di quel cacciatore, che non tradiva la minima traccia di paura . Che fosse così ubriaco da non rendersi conto di quello che avveniva? No, non era possibile: lo aveva osservato al bar, e nonostante l’uomo avesse sbevazzato con i suoi amici, non aveva consumato un quantitativo d’alcool tale da giustificare la sua quiete, inoltre, sembrava così fottutamente lucido. Cominciò a rigirarsi nervosamente il coltello tra le dita, non sapendo cosa fare.
Dopo un lungo minuto di silenzio, in cui Jeff seguì lo sguardo dell’uomo verso quella fotografia, finalmente cominciò a chiedergli: « Come facevi a sapere che sarei venuto?».
« So riconoscere un altro cacciatore.» rispose laconicamente Bob.
« Anche se…» continuò con una punta di rimprovero nella voce: « hai scelto di dare la caccia all’unico animale che non ucciderei mai.».
« Se non facessi così, sarebbe lui a braccarmi.» rispose Jeff.
« Cosa te lo fa pensare?»
« Guardami in faccia, e capirai!»
Bob si girò a guardarlo, ancora una volta senza tradire un minimo di perturbabilità, e rispose: « Non capisco, invece» con sommo stupore  da parte del killer, il quale, sorpreso e irritato al tempo stesso, rincalzò dicendo: « Hai voglia di scherzare, vecchio?».
Il cacciatore lo fissò severamente: « Io non scherzo mai.».
Calò di nuovo il silenzio, e Bob riprese a fissare la foto. L’unica cosa rumorosa erano i pensieri che affollavano la mente di Jeff: non riusciva a capire come una persona fosse così tranquilla alla sua agghiacciante vista, a non spalancare la bocca in un grido, a non tremare, a non contemplare la sua macabra bellezza. Sembrava che quel singolare uomo dallo sguardo disincantato parlasse a lui come al ragazzino castano e dalla pelle liscia che era un tempo. Per un attimo provò la tentazione di cercare uno specchio, per vedere se qualche arcana divinità avesse operato il miracolo di farlo tornare una persona normale. Gli fu sufficiente toccarsi il viso, e sentire le pulsanti ferite del suo volto squarciato per capire che non era così, per cui ribatté:
« Non vedi il mio aspetto? La gente ha paura di me!»
Bob lo guardò sornione: « La tua faccia non ha passato bei momenti, questo è certo! Ma non è di quella che la gente ha paura. Un volto è un volto: in sé può essere bello o brutto, fare impressione,  schifo, non paura. Quello che fai alle persone, quello sì, spaventa.».
« Sai bene che lo farò anche a te, vero? » sibilò Jeff, riprendendo il suo tono minaccioso. Era sicuro che stavolta avrebbe sortito l’effetto sperato.
«Si.» rispose tranquillamente Bob, deludendo ancora le aspettative del suo “ospite”.
Il killer cominciò ad adirarsi: « Si può sapere, allora, per quale cazzo di motivo non ti faccio paura?!» balzò letteralmente dalla sedia, sgranando i suoi occhi di ghiaccio, che brillarono invasati da un odio profondo verso quel ripugnante essere che osava sfidarlo con la sua indifferenza. Digrignò i denti, trasformando il suo volto in una maschera di puro raccapriccio. Il coltello, suo fedele amante, era serrato dalla mano destra, pronta a colpire e a versare altro sangue.
Ancora una volta, Bob si voltò a guardarlo.
« Molto del nostro attaccamento alla vita dipende da ciò che abbiamo da perdere.» rispose, continuando a mantenere quel temperamento così innaturalmente calmo.
 Stavolta Jeff si intimorì, come un cagnolino litigioso e arrabbiato, che piagnucola quando realizza di trovarsi dinanzi a un leone. Ciò che lo colpì non fu solo ciò che quello sconosciuto gli disse: gli occhi del cacciatore erano colmi di una strana dolcezza. Al giovane sembrò di aver già visto quello sguardo,  il cui ricordo era smarrito lungo le strade di un altro tempo, di un’altra vita. Solo un uomo, all’infuori di Bob, fu in grado di guardarlo così, prima che tutto fosse perduto…
No! Non poteva essere, non era lui. Doveva compiere il suo dovere, non lasciarsi impressionare da una creatura così fuori dal normale, così evocativa, arcana...paterna.
 Non ebbe tempo di realizzare il suo proposito, perché, tra le mura di quel rustico salotto, il passato si attualizzò in tutta la sua forza. Come in un sogno ad occhi aperti, Jeff si ritrovò trasposto in quella che un tempo chiamò “casa”. Delle voci cominciarono ad insinuarsi nella testa dell’assassino, vibranti, calde e regolari, come scandite dal suono di un orologio a pendolo:
 
Jeff, ”
“Non sono bellissimo?”
“Andiamo, campione! Oggi sarà il tuo vecchio ad accompagnarti a scuola.”
“Hai mentito…”
“Stavolta non mi batti, Jeff!”
“Torna a dormire.”

Torna a dormire…torna a dormire…torna a dormire…

Queste ed altre frasi, così lontane, appena sussurrate, cominciarono a ripetersi nella testa di Jeff come una sgradita nenia. Aumentarono di volume, si espansero fino a battere sulle pareti del cranio. Jeff lasciò cadere il fedelissimo coltello e afferrò la sua testa fra le mani, cercando inutilmente sollievo: le voci aumentarono, sempre di più. Ora non erano solo nella sua testa: erano dentro di lui, fuori di lui, , in ciò che lo circondava, nei suoi fragili timpani, gli penetrarono il cuore come spilli. Sentì che stava per scoppiare. Iniziò a sudare freddo, non aveva mai provato sensazioni del genere. Cosa gli stava accadendo? Una sola cosa era certa: doveva fuggire e riprendere lucidità, ora non poteva permettersi di eseguire uno dei suoi capolavori. Svelto si chinò a raccogliere il coltello con una mano, mentre con l’altra ancora si reggeva il capo, si voltò infine per raggiungere l’uscita di quel maledetto posto. Non fece in tempo a fare due passi, che si sentì chiamare.
«Giovanotto!»
In  quel momento le voci nella testa e nel corpo di Jeff cominciarono a scemare, domate dal richiamo di Bob, che reclamò con forza l’attenzione del killer. Quest’ ultimo si voltò lentamente,  fissando il cacciatore con aria perplessa, il quale era ora in piedi, proprio di fronte a lui, fiero ed erto come una montagna incrollabile.
L’uomo guardò Jeff dritto negli occhi e disse: «Ti ricordo che hai un lavoro da portare a termine.». Jeff strabuzzò gli occhi, terrorizzato, arrabbiato e frustrato da qualcosa che non sapeva. Le voci ripresero il loro corso, finché, dopo pochi secondi di silenzio, udì Bob concludere seccamente con una sola parola: « Sbrigati. ».

 

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Capitolo 10
*** Secondo incontro ***


~~Ore 2.13 del mattino

Quella sera, il bar era meno affollato del solito, ma non per questo meno squallido.
Vi circolava la solita gentaglia rissosa e fallita, le solite donnacce, le solite facce annichilite da sostanze e fallimenti. La penombra, unica gradita presenza in quel teatro di solitudine, occultava quelli che sarebbero stati (alla luce del sole) abomini della natura: il buio sapeva renderli sufficientemente invisibili e riusciva persino a rivestirli di rispetto, mentre i demoni si impossessavano delle loro deboli volontà.
Tra i tavoli, a prendere ordinazioni e servire alcolici, si muoveva sicura e mascolina Sandy, madre dell’oste Frank. La vecchia Sandy era una donna piuttosto sgraziata, dai lunghi capelli rossi, raccolti in una crocchia disordinata e sciatta; l’unico stralcio di femminilità le era conferito dai suoi seni prosperosi, che metteva generosamente in mostra indossando una maglia aderente e particolarmente scollata, che evidenziava anche le sue fattezze tutt’altro che esili. Dire che Sandy fosse un’istituzione in quella bettola era minimizzare. In sua presenza, anche la rissa più cruenta era destinata a finire: suoi fedeli complici erano il figlio Frank, il suo fucile a canne mozze che tirava fuori al minimo accenno di casino o pericolo, e abbondanti razioni di schiaffi che elargiva senza parsimonia ai malcapitati che osavano minare la tranquillità del bar. Un altro importante aiuto proveniva da Paul, che offriva protezione al bar senza richiedere il consueto pagamento del pizzo, in cambio i due proprietari dovevano solo ospitare i suoi traffici.
Quando inizialmente fu loro proposto tale baratto, Frank e Sandy storsero il naso, detestando l’idea di avere droga e puttane nel proprio bar, che temevano sarebbe diventato ingestibile; scoprirono invece che si godeva di una discreta tranquillità, tranne nei (non rari) momenti in cui alcuni alzavano troppo il gomito e cominciavano a fare a botte, ma anche in quel caso il tutto si risolveva facilmente, inoltre la clientela era decuplicata grazie ai nuovi “prodotti” che il bar aveva da offrire.
Nonostante tutti i vantaggi e i guadagni, Sandy non provava particolare simpatia per le prostitute che era obbligata ad ospitare, temeva infatti che il suo adorato figlio Frank beccasse qualche malattia, dal momento che era egli stesso un cliente  abituale: impazziva in particolar modo per Laura, la bellissima squillo di colore. Più di una volta, Sandy aveva notato che Frank si intratteneva a parlare con lei, o le offriva spesso da bere. Per un periodo credette addirittura che fosse innamorato della ragazza, ma il pensiero l’abbandonò in fretta, dal momento che lui cominciò a frequentare la figlia di un ricco banchiere di Oldfield. Ogni volta che Sandy vedeva Frank e Laura parlare o appartarsi dopo la chiusura del bar, sorrideva malignamente, pensando che una puttana non poteva essere altro che un grazioso trastullo per suo figlio.
Ora li stava guardando mentre parlavano e ridevano insieme: Laura, il cui corpo perfetto era messo in risalto da un essenziale abitino azzurro, scambiava battute con suo figlio Frank e con Andrea. Le due donne erano di turno insieme quella sera, pronte ad adescare clienti al bar, come loro solito. Laura spostò i suoi capelli corvini dietro il collo, sorridendo a Frank con fare civettuolo. Il giovane barista, dal canto suo, fissò la ragazza come imbambolato. Sandy pensò subito di intervenire:
« Frank, vai nel retro a prendere le casse di liquori! Non vedi che bisogna rifornire?!» esclamò. Appena vide il figlio allontanarsi di malavoglia, si posizionò dietro al bancone, guardò le ragazze con sprezzante sufficienza e chiese: «Cosa posso servirvi?».
Prima ancora che le due potessero rispondere, un paio di avventori si offrirono di pagare loro la consumazione: era uno dei soliti stratagemmi per contrattare sul prezzo delle prestazioni sessuali delle giovani. I due potenziali clienti erano uomini di mezza età, non particolarmente attraenti e dagli aliti pieni di alcool.
Cinsero le spalle e i fianchi delle donne, iniziando ad esplorare con le mani le loro giovani grazie.
« Ehy, Mark!» esclamò Andrea «se vuoi toccare devi pagare!»
«Pagherò, dolcezza. Come ho sempre fatto.» ribatté l’uomo lasciandole un appiccicoso bacio sulla guancia, il cui disgusto da parte della giovane venne celato da un sorriso falso quanto una banconota di carta igienica.
Ben presto, il lieve brusio del bar fu sovrastato dalle grasse risate di quei due uomini, accompagnate da quelle delle ragazze, forzate e frivole, che lasciavano a quei poveri idioti l’illusione che stessero ridendo di gusto alle squallide battute che proponevano. Quegli schiamazzi non disturbarono molto gli altri clienti, tantomeno attirarono particolari attenzioni, perché ognuno era religiosamente ritirato nel proprio squallore.
Solo una persona assistette a quel grottesco teatrino, seduta a un tavolo poco distante dal bancone: era Jeff, che quella sera aveva alzato leggermente il gomito. Ciò che era accaduto due sere prima lo aveva scosso. Dopo la visita al cacciatore si era ritirato nei boschi, correndo finché le forze glielo permisero. Ricordò di essersi rannicchiato contro una sequoia, tremante come un bambino spaventato, e di essere rimasto lì tutta la notte. Il giorno dopo non aveva nemmeno avuto la forza di uscire da quell’indesiderato ritiro. Non sapeva ancora se fosse stato quello strano personaggio a provocargli le allucinazioni che lo misero fuori gioco, o se più semplicemente, una parte di lui si fosse svegliata per provocargli dolore. Fatto è che quello stupido cacciatore non lo avrebbe infastidito con i suoi discorsi…non più. Quello che ora voleva era ubriacarsi: l’alcool era una purificazione, un fonte battesimale da cui attingere oblio. Malcelato da alcuni bicchieri di whiskey e vodka, cominciò a sentirsi parecchio intontito, ma non al punto tale da essere incapace di osservare ciò che accadeva attorno a lui. Scrutò attentamente le due meretrici: una di loro era una bellissima giovane di colore, l’altra era la stessa ragazza che tempo prima gli chiese una sigaretta, e che lui stava tenendo d’occhio da settimane. Le grazie di lei, messe in risalto da un corsetto in pizzo e una minigonna, risvegliarono in Jeff un desiderio che ben conosceva, ma che aveva sempre sacrificato al più impellente e imperativo bisogno di uccidere.
 Forse a causa del troppo bere, o di quello che lo aveva sconvolto due sere prima, quella volta Jeff cominciò a sentire l’esigenza di lasciare che quei primitivi istinti lo attraversassero.
Più guardava la ragazza, più quella voglia lo pervase nel basso ventre. Insieme alle sempre più pressanti pulsazioni che avvertiva alla sua virilità, Jeff fu insidiato da fantasie che gli procurarono una piacevole tensione. Guardò la giovane, e desiderò essere al posto di quei maiali che la toccavano. Per un momento immaginò di trascinarla nei boschi e strapparle i vestiti di dosso, per poi possederla e muoversi violentemente dentro di lei, mentre la udiva gemere il suo nome, sottomessa e docile come un’ancella. Poco dopo, il suo sguardo si spostò dalle quelle libidinose forme, per posarsi sul volto della giovane. Quello che vide lo irritò oltre ogni misura: lei rideva, ma gli occhi spenti con i quali guardava quegli sfigati tradivano la sua evidente finzione. Stava mentendo. Faceva della menzogna il suo pane quotidiano, come tutti, del resto. La menzogna, origine di tutti i mali, era anche in lei. Più Jeff fissava la ragazza, più le sue fantasie prendevano una piega perversa, fino a divenire un caotico fiume di odio, scelleratezza e sangue.
La guardò con crescente astio, sperando che i pensieri che cominciò ad indirizzarle potessero in qualche modo colpirla: “ Ti ucciderò, puttana. Ti pugnalerò fino a farti pisciare l’anima. Guarderò i tuoi respiri diventare rantoli, le tue guance rosse avranno il colore della morte, leccherò il tuo sangue dal mio coltello, dalla tua faccia tagliata, che nessuno riconoscerà più! Morirai come meriti di morire: senza nome, senza volto. Perché menti.  Sei una bugiarda, come quella gran troia che mi ha messo al mondo! ”
« Hai mentito… » sussurrò, quasi a se stesso, strinse il suo bicchiere in una mano fino a spaccarlo. Contemplò i cocci e il sangue che colarono dal suo arto ferito e iniziò a ridere sommessamente, sperando che nessuno lo notasse.
Quel malevolo delirio fu presto interrotto da una frase che gli fece gelare il sangue:
«Ehi, Frank. Hai visto Bob?» Tom, il camionista dalla folta barba, era da poco giunto al bar, si sedette sullo sgabello proprio accanto alle ragazze e ai loro clienti. Si era aspettato di trovare il cacciatore, con cui aveva condiviso un sacco di bevute, e fu sorpreso di non vederlo.
« No. A dire il vero non lo vedo da ieri. Non è da lui, visto che è sempre qui.» rispose il barman, che nel frattempo aveva appena terminato di rifornire il locale di alcolici e mandato sua madre a controllare la sala.
Entrambi si guardarono, malcelando la preoccupazione per il loro amico.
Come a voler scongiurare la possibilità che fosse successo qualcosa di terribile, Frank congedò i suoi timori, sforzandosi di essere ottimista ad ogni costo: «Domani vado a trovarlo. Avrà beccato qualche malanno. Purtroppo, di questi tempi ci si ammala facilmente.» disse passando uno straccio sul bancone.
«Sì, sicuramente è così.» rispose Tom, autoconvincendosi che avrebbe presto rivisto Bob.
I due continuarono a discorrere cambiando argomento, ma il cuore di Jeff sembrava essersi fermato a quel nome che avrebbe voluto dimenticare a tutti i costi, greve come un macigno sull’anima. Avrebbe pagato per non sentirlo mai più pronunciare. Fece un respiro profondo, imponendo a se stesso di restare calmo. Si disse che due sere prima aveva ascoltato le farneticazioni di un vecchio depresso, nulla di più. L’episodio era ormai passato, non aveva più motivo di pensarci. Ora doveva convogliare le sue energie sul prossimo obiettivo: la prostituta. Doveva concentrarsi su di lei e scoprire dove andasse, studiarne movimenti, sorprenderla mentre era sola, o al massimo con un cliente che avrebbe fatto la sua stessa fine. Cercò con lo sguardo la giovane, scoprendo con stizza che era sparita. Era certamente andata ad appartarsi, ma sapeva che non avrebbe potuto sfuggirgli a lungo. Avrebbe assaggiato il suo sangue molto presto, si trattava solo di attendere e scordare ogni dettaglio di quella maledetta sera a casa del cacciatore, non poteva distogliere l’attenzione dalla sua meta, da ciò per cui era nato.
« Altra vodka, per favore» disse l’assassino rivolgendosi a Sandy, che nel frattempo era passata proprio di fianco al suo tavolo.
Dopo qualche minuto, la donna ricomparve con un bicchierino che poggiò sul tavolo: «Ecco la sua vodka» così facendo raccolse con uno straccio i resti del bicchiere che Jeff aveva rotto, senza fare domande.

 

Ore 4.46

Quella notte non fu particolarmente fruttuosa per Andrea: i clienti erano pochissimi, per cui il guadagno fu piuttosto magro. Entrò nel bar: aveva appena finito di “intrattenere” l’ultimo cliente, recandosi nella macchina di quest’ultimo, parcheggiata a poche decine di metri dal locale. Sperò con tutto il cuore che il suo pappone non si arrabbiasse per i pochi soldi che era riuscita a guadagnare. Meno male che tra le ragazze vigeva uno spirito solidaristico molto forte, per tale ragione, se ad una di loro capitava di guadagnare poco, le altre la soccorrevano dandole i soldi che erano avanzati dai loro ricavi: questo per evitare che Paul si imbestialisse con la malcapitata di turno. Anche se esisteva comunque competizione, le giovani erano leali tra loro, perché la miseria nella quale vivevano, le circostanze di vita che le avevano accomunate, fecero sì che fossero unite da un sottile legame che rendeva meno straziante l’immensa solitudine riservata a donne come loro, così lontane dalla società dei benpensanti. Andrea cercò Laura con lo sguardo, e notò che stava parlando con Frank. Decise di non raggiungerla, e lasciare che i piccioncini scambiassero due chiacchiere: era chiaro che ci fosse qualcosa tra loro, solo che non avevano il coraggio di ammetterlo nemmeno a se stessi. Rise tra sé guardando la madre di Frank che serviva ai tavoli e fissava Laura con odio: sembrava volesse trucidarla con lo sguardo, per proteggere il suo “bambino”.
 Andrea scherzò tra sé, pensando: “Se vedesse Sandy, lo psicopatico che sta terrorizzando mezza Oldfield scapperebbe a gambe levate”.
Si mosse svelta tra i tavoli, per andare cercare di adescare ancora qualcuno, prima che il suo turno finisse: mancava poco meno di un’ora, e doveva necessariamente racimolare qualcos’altro, per scongiurare il pericolo delle botte. Nel camminare abbassò gli occhi sulla banconota da cinquanta dollari che stava infilando in borsa, quando si accorse di aver urtato qualcuno seduto a un tavolo.
Si voltò immediatamente e si rese immediatamente conto che, con quel piccolo scontro, la persona aveva fatto cadere un bicchiere a terra, che andò in mille pezzi, lasciando una spiacevole scia di Vodka.
«Stai attenta, dannazione!» gridò irritato l’avventore del bar. Andrea lo guardò per qualche istante, e vide che era barricato dietro decine di bicchieri vuoti, con una bottiglia di vodka quasi del tutto vuota che li sovrastava, e capì che il tizio in questione era ubriaco.
Ma non era tutto: la voce e il modo di vestire dell’uomo non le erano affatto sconosciute; riconobbe infatti che si trattava del ragazzo da cui, poco meno di un mese prima, aveva scroccato una sigaretta. Generalmente, Andrea faceva molta fatica a riconoscere le persone con cui aveva avuto a che fare, ma quando si trattava di ricordare i fumatori ai quali poteva chiedere sigarette, diventava più accurata di un ufficio anagrafe. La vita le aveva insegnato l’arte dell’opportunismo, di cui non faceva mistero o motivo di vergogna.
«Chiedo scusa, non ti avevo visto.» Fece una piccola pausa, per poi aggiungere: «Comunque credo che ci conosciamo…»
« Muovi il tuo culo lontano da qui!» fu la sprezzante risposta che arrivò da quello sconosciuto
«Stasera qualcuno è molto nervoso. Potrei offrirti da bere per farmi perdonare, ma vedo che hai provveduto abbondantemente da solo» ribatté canzonandolo: prendere in giro gli ubriaconi e i tossici del locale la divertiva da matti.
L’uomo, che barcollava leggermente sulla sedia, girò il viso verso di lei, la fissò negli occhi e scoppiò a ridere come un folle.
Andrea pensò: “Ok, è partito”, e fece per andarsene, credendo che non avrebbe potuto ricavare nulla da quel tizio,quando si sentì afferrare per un polso.
«Torna qui, ragazzina!»
La ragazza si voltò nuovamente verso di lui, e lo guardò con perplessità: «Volevi che andassi via...». Ne aveva vista di gente ubriaca, ma la labilità di quello li superava tutti.
«Ho cambiato idea.» rispose l’altro. Le cinse un fianco e la trascinò a sé. Nel giro di mezzo secondo, Andrea si ritrovò seduta sulle ginocchia di quello straniero dagli occhi di ghiaccio.
La prostituta protestò debolmente: «Senti, non voglio perdere tempo. Se vuoi…»
« Ti bastano cinquanta dollari?» ribatté l’uomo brevemente.
Andrea lo guardò ironica: « Con tutto il rispetto, tesoro, ma ridotto in questo stato non saresti nemmeno in grado di reggerti in piedi, figuriamoci di scoparmi!»
« Mi sottovaluti, piccola.» biascicò divertito l’uomo, dandole piccoli morsi sul collo. Nonostante tentasse di mostrarsi passionale, i suoi tentativi erano rudimentali e mal riusciti, provocarono infatti in Andrea non poca repulsione, che mascherò restando ferma.  
Dopo qualche secondo, il misterioso cliente porse alla ragazza un cicchetto di vodka, che lei bevve senza esitazione. Mentre la guardava consumare l’alcool, il giovane cominciò a farneticare cose che alle orecchie di lei sembrarono senza alcun senso.
«Sai che il nostro attaccamento alla vita dipende da quello che abbiamo da perdere?» Cominciò poi a ridere, prima sommessamente, poi più rumorosamente, attirando l’attenzione di due uomini seduti al tavolo adiacente al suo, che ripresero subito a bere e discorrere tra loro.
Continuò: «Tu cos’hai da perdere? Io…io ho perso tanto, sai? Forse ho perso…tutto, ma… quello che ho ricavato è molto di più…Amo la mia vita, la mia faccia. E’ quello che sento e che sono…»
Il ragazzo parlava a vanvera, con parole che Andrea afferrava a tratti. Il vociare del bar e le parole incespicate pronunciate da quell’uomo ne resero molto difficile la comprensione, e il viso della prostituta si trasformò in un punto interrogativo. Annuiva in continuazione, tentando di afferrare qualcosa del discorso, e di scorgere cosa c’era dietro quel cappuccio e quella sciarpa che copriva parte di un volto che non aveva mai veramente visto. Non che le importasse di quello strano tipo, o che fosse incuriosita dagli stupidi discorsi di un ubriaco. Tuttavia, quell’uomo era in grado di incuterle rispetto, se non addirittura timore. Si sentì pervasa da un brivido lungo la schiena, freddo e intenso quanto gli occhi dello sconosciuto. Per la prima volta in tutta la sua vita, la ragazza provò paura. Nemmeno Paul, con i suoi soprusi da quattro soldi, fu mai in grado di spaventarla. Ogni tentativo del pappone di strapparle una supplica a furia di botte, stupri e insulti era vano: lei reagiva sempre con lo stesso senso di disgusto barricato dietro una maschera di indifferenza; non reagiva mai, e questo faceva incazzare il suo lenone ancora di più, che puntualmente aumentava le sue percosse fino a farla svenire. Mai gli riuscì di piegarla: anche se Andrea faceva tutto ciò che lui le chiedeva (sia sul marciapiede che nel suo letto), la sua mente e la sua anima non si sarebbero mai assoggettate allo  strapotere di uno stupido pappone. Ma quello sconosciuto… Lui sì che fu capace di intimorirla con la sua strana risata, con il suo alito che puzzava di alcool, con le sue braccia che la stringevano.
“Quante storie, per uno sfigato” si rimproverò, scacciando dalla sua mente quella spiacevole sensazione. Insieme alla latente depressione che l’accompagnava, Andrea imparò a padroneggiare anche la paura, che aveva imparato ad accogliere come un amante insistente.
Tornata in sé dopo un breve momento, riprese a dare ascolto alle parole sconnesse dell’uomo.
«Non, sono bellissimo?» diceva lui, come a chiedere conferma di una cosa che sapeva essere una legge di natura. « Anche per quello stupido vecchio ero bellissimo, almeno credo…Diceva che non era il volto... Sì, lui diceva che un volto può fare schifo, non paura…».
Stanca di udire quelle elucubrazioni prive di senso, Andrea cominciò a trattarlo sbrigativamente:
«Si, certo, ora andiamo. Guidami verso la tua macchina». Si alzò dalle ginocchia di quello sconosciuto con notevole sforzo, visto che lui non era deciso a lasciarla andare.
Si rimproverò per aver provato timore a causa di un idiota che aveva alzato troppo il gomito.


Da parte sua, Jeff fu molto contento di quell’invito. Poteva finalmente dare forma al suo piano: attirare la giovane con sé nel bosco e trucidarla. L’avrebbe forse fatta anche a pezzi, se il tempo glielo avesse permesso. Erano ormai le cinque del mattino, di lì a poco avrebbe cominciato ad albeggiare. Si alzò dalla sedia, deciso a soddisfare il suo bisogno di portare avanti quella che lui definiva “missione”.
Bob si sbagliava, se Jeff non avesse continuato a cacciare, da predatore sarebbe diventato preda. Questa era l’unica verità. Ciò che era accaduto due notti prima non poteva fermarlo.
Si alzò celermente dal suo posto, pronto a sguainare il suo pugnale, ora che l’attesissima occasione si apprestava a venire.
Si accorse ben presto che vi era un’incrinatura nel suo piano, un dettaglio che non aveva calcolato: era ubriaco fradicio. Il controllo sul quantitativo di alcolici gli sfuggì di mano, come gli capitava spesso. Cominciò a barcollare pesantemente, a non sentirsi in piena forma. Per un momento, la sala in cui si trovava cominciò a girargli intorno, e non sapeva se quella sera sarebbe riuscito o meno a portare a termine la sua opera. Lavorare nell’incertezza era per Jeff troppo straziante, aveva bisogno di lucidità e calcolo, un margine di certezza nel portare a compimento quello che si era prefisso, il rischio che si correva nel tentare senza un minimo autocontrollo era troppo alto. Tuttavia qualcosa lo stimolò a procedere: forse fu la spavalderia che la vodka gli aveva conferito a convincerlo ad andare avanti, o il turbinio di dubbi che Bob gli aveva instillato e che doveva estirpare a tutti i costi, fatto fu che Jeff sopravvalutò le sue capacità, e decise di proseguire.
Si ritrovò fuori al bar, seguito da Andrea che teneva d’occhio i suoi dondolamenti. Quando furono sul punto di andare dall’altro lato della strada, Jeff ebbe un attimo di cedimento, così Andrea si precipitò a sorreggerlo prima che potesse cadere.
«Accidenti, quanto pesi!» la ragazza, evidentemente più minuta rispetto a lui, sembrava una formichina intenta a sollevare una grossa mollica di pane. Cominciò a raggiungere il marciapiede, trascinando con sé Jeff. Imprecò mentalmente contro Dio, contro il mondo e contro quel maledetto pusillanime che stava trascinando sulle spalle.
«Avanti, dolcezza. Ti accompagno alla tua auto. Dove si trova?» chiese Andrea.
Jeff non parlò, limitandosi ad indicare il bosco, e la giovane emise un sospiro rassegnato.
«Nel bosco, eh? E dimmi, lì hai anche in una casetta con i sette nani?»
Di nuovo Jeff non rispose, dando segni sempre più visibili di cedimento.
La squillo sbuffò, cercando di raggiungere l’altro lato della strada. Non vide Martha, né tantomeno Kate: erano sicuramente in compagnia di clienti.
Attraversò la strada, insultando un automobilista che non li aveva visti e che stava per investirli; fortuna volle che una sterzata dell’ultimo secondo salvò loro le ossa.
Una volta raggiunto il lato opposto della strada, si apprestò a raggiungere il bosco: forse vi era davvero una macchina parcheggiata tra gli alberi. Si fermò dinanzi agli spettrali alberi che si stagliavano contro la notte, cercando di intravedere qualcosa. Non riuscendo scrutare alcunché nel buio, decise di non avventurarsi: lo strano susseguirsi di omicidi a Oldfield intimava prudenza, e addentrarsi in un bosco in piena notte voleva dire solo sfidare la sorte o facilitare il lavoro di qualche pazzo maniaco.
Restò lì ferma, indecisa su come liberarsi di quel tipo, quando d’un tratto, il barcollante Jeff fu come colto da un fremito: riprese a parlare e a ridere.
«Non hai ancora risposto alla mia domanda, bambina.»
«Nemmeno la ricordo, e non chiamarmi bambina»
«Non importa…» sibilò Jeff «quello che conta è che sei davvero molto stanca» si sollevò dalla ormai dolorante spalla della ragazza, per infilare una mano nelle tasche della felpa: era giunto per Jeff the Killer il momento di colpire:
«Torna a dor….zzzz» Si accasciò su Andrea prima che potesse finire la frase, e caddero insieme sul suolo erboso. La giovane ebbe un po’ di difficoltà a togliersi di dosso quell’ingombro puzzolente, e quando fu di nuovo in piedi a fissarlo, si rese conto che il disgraziato aveva perso i sensi. Lo guardò senza sapere cosa fare.
Fu presto raggiunta da Laura, che le chiese: «Cosa sta succedendo?»
«Stavo accompagnando Biancaneve alla sua macchina, ma è svenuto.»
«Non ci sono macchine dietro questi alberi.»
«Lo penso anch’io, ma lui diceva che si trovava proprio qui. Sono stata una stupida a dare ascolto ai suoi deliri.»
«Accidenti, e ora che facciamo?»
«Lasciamolo qui e andiamocene» rispose Andrea con leggerezza.
«Cosa? Non possiamo lasciarlo qui. Sta anche per piovere!» ribatté Laura, focalizzando l’attenzione su un fulmine che fece la sua comparsa nel cielo plumbeo, seguito da un rumorosissimo tuono.
«Dove lo portiamo allora, al bar?» chiese Andrea.
«Non credo che Frank lo voglia dentro, ormai è in chiusura»
Ebbe finalmente un’illuminazione: «Portiamolo dentro.»
«E come facciamo con Paul?» domandò l’altra, leggermente allarmata.
«E’ in città. Non si accorgerà di nulla se mandiamo via questo ragazzo prima che possa tornare. Lo faremo uscire dalla finestra sul retro appena si riprenderà.». Di fronte all’indecisione di Andrea, Laura rincalzò: «Accidenti! Ha bisogno di aiuto!»
«E sia.» sbuffò l’amica.
Le due prostitute trasportarono insieme il pesantissimo corpo di Jeff nella loro casa, con non poche difficoltà, visto che a rendere ulteriormente faticosa l’impresa c’era il temporale che aveva deciso di scatenarsi proprio in quei pochi momenti. Andrea teneva Jeff per le caviglie, Laura invece lo trasportava per le spalle, facendo passare le sue mani sotto le ascelle del giovane assassino.
«Sul mio letto, che è più vicino alla finestra.» Disse Andrea.
Adagiarono Jeff sul materasso, dopodichè Laura cercò una coperta in pile con la quale coprirlo, e un phon per asciugarsi i capelli leggermente inumiditi dalla pioggia.
«Bene, adesso ti tolgo la sciarpa e ti abbasso questo cappuccio.» sussurrò Andrea.
Liberò Jeff da quegli ingombri. Nel guardarlo, non poté trattenere la sua reazione.
«Cazzo, quanto è brutto!» esclamò, richiamando l’attenzione di Laura, che aveva tra le mani la coperta che aveva trovato.
I commenti dell’altra non furono più lusinghieri «Oh mio Dio…è quasi peggio di Randy, quel cliente che non ha lo zigomo destro, ricordi? Subì un’aggressione da un orso che gli portò via mezza faccia.»
«Andiamo, Laura! Nessuno è peggio di Randy...» rispose Andrea, voltandosi verso di lei. Tornò poi a guardare meglio quel volto così insolito: «…o forse sì?». Allungò poi una mano verso quel viso deturpato. Sentì sotto le dita la pelle di quell’orribile creatura, pallida come la morte e dura come il cuoio. Jeff si mosse nel sonno, provocando nella giovane un sobbalzo: ritirò immediatamente la mano.
Non paga di ciò che aveva visto, si fermò a fissarlo, notando una cosa ancora più singolare, che segnalò subito alla sua compagna di sventura.
«Hai visto? Ha gli occhi semiaperti, li chiude male, come se…»
«Non avesse le palpebre. Sono anche cerchiati di nero, è così strano.» continuò l’altra.
«Guarda le guance. Ha due cicatrici ai lati della bocca.» notò ancora Andrea.
«E’ orribile. Si può sapere cosa accidenti ha combinato alla faccia?» chiese disgustata Laura.
«Non ne ho idea.».
Dopo qualche altro scambio di commenti sulla bruttezza di Jeff, lo coprirono per assicurargli un po’ di calore, visto che i rimasugli di quella notte lasciarono l’aria umida e fredda. Piegarono e posarono la sciarpa dello sconosciuto su una sedia poco distante dal letto di Andrea.
«Ora torno al bar, mancano pochi minuti alla fine del turno. Tu resta qui a sorvegliarlo. Se Paul scopre che siamo tutte e due in casa ci ammazza. Se dovessi incontrarlo, gli dirò che ti sei sentita poco bene.» disse Laura.
«Ok. Grazie, Laura. Prendi l’ombrello, altrimenti ti inzuppi di brutto. »
« Hai ragione. Ci vediamo dopo.»
Dopo che le due si salutarono, Andrea restò sola a tenere d’occhio quell’uomo orrendo che giaceva nel suo letto, sotto una coperta. Il silenzio che regnava nel buio di quella stanza era scandito dai loro respiri e dalla pioggia che batteva con forza sulla finestra. Si voltò a guardare il maltempo, che non lasciava intravedere nulla dietro le gocce che si frantumavano violentemente sui vetri. Evocando un tempo che non avrebbe mai più rivisto, i suoi occhi divennero lucidi, ma non pianse. Come le sue colleghe, Andrea aveva perso l’abitudine di piangere, e non per orgoglio, ma perché non ne aveva più la forza. Senza distogliere gli occhi dalla finestra, strinse il ciondolo che portava sempre con sé e invocò sommessamente il nome di Mary, forse aspettandosi che da un momento all’altro bussasse alla porta per gettarsi al collo e abbracciarla, come se non fosse mai andata via in un fredda notte di pioggia.
Un piccolo movimento la fece voltare, distraendola da quel doloroso torpore: la creatura che aveva ospitato contro ogni sua voglia si mosse lievemente, come se qualcosa disturbasse il suo placido riposo, dopodiché il suo respiro tornò a farsi pesante. Lo guardò trattenendo il fiato, restando immobile, come se un suo movimento o sospiro potesse importunare ulteriormente il riposo di quello strano  pellegrino.
“Cosa tormenta il tuo sonno?” chiese, forse più a se stessa che a lui.
“Cosa?”

 

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Capitolo 11
*** Risveglio ***


~~La notte era placida e profonda in quel quartiere agiato dell’Ohio, dove vi perdurava un silenzio a cui facevano da piacevole sottofondo i versi dei grilli, conciliatrori di un ambito sonno ristoratore. Le schiere di villette indipendenti, spente e serrate nella loro tranquillità, celavano le decine di vite al loro interno, che affidavano a Morfeo i loro sogni, il loro riposo, le loro aspettative per il giorno dopo. La penombra dei lampioni sfiorava delicatamente la camera da letto di una delle case, adornata da poster di supereroi, pupazzi e videogames. In un angolo, la lucina intermittente di un vecchio computer in stanby, illuminava una sedia su cui vi erano poggiati alla rinfusa diversi indumenti, probabilmente messi lì col proposito di sistemarli in un secondo momento.
Una busta vuota di patatine oscurava l’orario di una sveglia digitale, sita sul comodino accanto al letto. Una mano si sporse timidamente dalle lenzuola per spostarla, scoprendone l’orario. Erano le 4.45.
“E’ ancora presto” pensò un ragazzo ancora assonnato. Si rigirò nel letto, cercando una posizione comoda per riprendere a dormire, nella speranza che quell’indesiderato risveglio durasse poco. L’ora dei doveri giaceva in una promessa ancora lontana, che prendeva vita ogni giorno alle sette: il giovanotto si sarebbe alzato, avrebbe conteso il bagno con suo fratello e cominciato a lavarsi; poi colazione, autobus, scuola, infine la speranza di finire presto i compiti per strappare al tempo due tiri di pallacanestro nel giardino di casa, prima di essere chiamato da sua madre per la cena. Tutto normale. Un solo velo d’ombra e paura si insinuò nella sua mente: i bulli della scuola che frequentava. Ogni giorno trovavano modo per importunare ragazzini come lui, e ogni giorno lui si alzava dal letto con gli stessi interrogativi: “Oggi cosa mi faranno? Mi beccheranno di nuovo?” Non aveva avuto la forza di parlare con i suoi genitori o con suo fratello, né tanto meno con i suoi insegnanti. Perché mai avrebbe dovuto? Per dimostrare a tutti di essere una femminuccia, proprio come gli dicevano a scuola mentre lo pestavano dietro un cortile, o nei cessi dopo avergli rubato i soldi del pranzo? Doveva sopportare e sperare che le cose cominciassero ad andare meglio, che quei ragazzi trovassero un altro modo per divertirsi, poco male se doveva fare i conti con l’angoscia di trovarseli davanti, o con una rabbia così intensa da spaventare se stesso quando lo sorprendeva.
Ancora assorto nei suoi timori, guardò la finestra della sua camera, e notò che era aperta. Gli venne in mente che a svegliarlo furono proprio le leggere folate di vento e freddo. Si alzò dal letto, sperando di non beccare un malanno; il ragazzino fece per chiuderla, quando spostò l’attenzione alla sua immagine riflessa nello specchio dell’armadio, sito proprio vicino alle imposte. Si guardò per pochi istanti. A giudicare dall’altezza e dall’aspetto, sembrava più grande dei tredici anni che aveva: stava crescendo, e il suo sguardo di ghiaccio, unito al suo incarnato non troppo chiaro e ai suoi capelli castani, erano promessa di una bellezza mascolina e sfrontata che entro pochi anni sarebbe emersa, ma ciò lui non poteva immaginarlo, preso dalle sue insicurezze adolescenziali, contornate di paura e da qualche brufolo di troppo.
Si voltò, attratto da un rumore che aveva udito dall’altra parte della stanza. Credendo che qualcosa fosse caduto da una mensola, visto il disordine in cui riversava camera sua, si recò in direzione del suono, ma non trovò nulla. Guardò sotto al letto, per assicurarsi che non ci fosse finito niente. Quando si rialzò, fu sorpreso da un altro colpo di vento: la situazione cominciò a sembrargli strana, non aveva appena chiuso la finestra? Andò di nuovo verso le imposte, stavolta lentamente, perché cominciò a temere di non essere solo in camera. Diede uno sguardo veloce in giro, e comprese di essere solo. Scrollò il capo dandosi dello stupido, si riavvicinò alla finestra, assicurandosi di averla chiuse per bene. Guardò fuori la sua finestra, ammirando per un lieve momento la luna che faceva capolino da nubi che non promettevano bel tempo. Quando fu sul punto di voltarsi, un grido gli morì in gola: al posto di quella che avrebbe dovuto essere la sua immagine allo specchio, vide un mostro dalla faccia bianca e traviata,  con le guance solcate da grossi tagli da cui grondava sangue, e gli occhi cerchiati di nero, quasi privi di palpebre. Ma ciò che lo atterrì maggiormente di quell’essere fu il suo sguardo inquietante, divertito, spento e folle, che traspariva da quegli occhi così simili ai suoi e così diversi al tempo stesso.
Prima che il ragazzo potesse chiedere aiuto, il mostro allargò le sue labbra in un sorriso sproporzionato, accentuato dalle ferite alla faccia. Poi portò l’indice alle labbra.
«Shhh…torna a dormire, Jeff. Torna a dormire…».
Prima che il ragazzo riuscisse a chiedersi come conoscesse il suo nome, quel demone infranse i vetri dello specchio e gli si gettò addosso, stendendolo a terra: fu a quel punto che sguainò dalle tasche della sua felpa un enorme pugnale insanguinato.
Paralizzato, il giovane udì i palpiti irrefrenabili del suo cuore, che sembrò volergli uscire dal petto. La mano fredda della bestia gli fu sulla bocca,  per impedirgli di gridare, mentre l’altra tenne saldo il pugnale che gli tranciò la gola. Fu l’ultima cosa che vide.


Ore 7.00 del mattino

Un grido irruppe in quella tranquilla mattinata autunnale. Jeff si svegliò di soprassalto, portandosi le mani alla gola: finalmente era riuscito a toccarla, e ad assicurarsi che ce l’aveva ancora intatta. Ansimava forte, capendo di aver solo sognato: i rimasugli dell’incubo ancora lo terrorizzavano. Fissò le sue mani bianche, e capì che nulla era cambiato… Non aveva mai fatto in tutta la sua vita un sogno così strano e terribile, e nonostante avesse compreso che era tutto finito, ancora tremava. Cominciò a guardare il posto in cui si trovava. Come ci era finito in una camera con quattro letti, di cui uno occupato proprio da lui? L’ultima cosa che ricordò era di essersi recato al bar che ormai frequentava da cliente abituale: alla memoria giunsero volti e voci indistinte e confuse, ma non ricordò altro. Fu colto da un gran mal di testa che lo costrinse a stendersi di nuovo sul letto, dandogli prova del fatto che si trovava nel bel mezzo dei postumi di una sbornia. Tale era il suo malessere che notò a malapena una persona che, seduta su una sedia poco distante dal letto, lo fissò sgranando gli occhi.
« Bensvegliato, Biancaneve. Hai fatto un brutto sogno? » chiese la sconosciuta. Jeff si limitò a girare gli occhi verso di lei, e impiegò un po’ a comprendere che si trattava della sgualdrina che lui osservava da tempo. Abituato a vederla sempre mezza nuda, piena di volgari gingilli e di infinite quantità di trucco, faticò a riconoscerla, visto che in quel momento era infagottata in un largo maglione rosa e un paio di jeans che ben celavano le sue forme, col viso privo di ogni traccia di cosmetico.
Jeff tentò nuovamente di sollevarsi dal letto, ma il suo capogiro fu ancora più impietoso.
« Meglio se resti disteso ancora un po’.» intervenne nuovamente la ragazza.
Il killer cercò di articolare faticosamente una domanda: « Co…come mi trovo qui?»
« Sei finito in casa nostra perché stanotte hai alzato il gomito. Ho provato a riaccompagnarti alla tua auto, ma eri talmente sbronzo che non ricordavi niente. Sei svenuto, e visto che pioveva a dirotto, ti abbiamo portato qui. ».
La giovane non terminò il suo racconto, che Jeff si sollevò improvvisamente sulla schiena, colto da conati di vomito.
« Oh mio Dio… Ragazze, mi serve il secchio, presto! » gridò Andrea, sperando che qualcuno accorresse in suo aiuto, mentre si avvicinò a Jeff per soccorrerlo.
Quando giunse Martha con un secchio tra le mani, seguita da Kate e Laura che si affacciarono nella stanza, la ragazza sospirò rassegnata: « Troppo tardi…» mentre indicò il pavimento imbrattato di una puzzolente poltiglia giallognola.
Qualche minuto dopo, Jeff era di nuovo coricato nel letto, leggermente sollevato, nonostante il mal di testa si facesse ancora sentire. Alzò leggermente il capo dal cuscino, osservando Andrea che, aiutata da una ragazza dai capelli biondi, puliva il pavimento.
« Grazie, Kate.» disse all’amica. Si allontanarono entrambe dalla camera. Trascorse qualche minuto prima che la castana tornò con due fette di pane racchiuse all’interno di un tovagliolo di carta.
« Tieni, Biancaneve. Mangia. Ti aiuta a non vomitare. »
« Non voglio mangiarlo, adesso. E non chiamarmi Biancaneve. » disse Jeff stancamente, mentre appoggiò di nuovo la testa sul cuscino, coprendosi gli occhi con un avambraccio, come a cercare sollievo dal suo stato di emicrania, col quale conviveva ogni volta che era reduce da un’ubriacatura.
« Come vuoi che ti chiami, allora?» chiese la giovane con un sorrisetto sarcastico.
« Jeff.».
La ragazza poggiò il fagotto con le fette di pane sul comodino accanto al letto: « Molto piacere. Il mio nome è Andrea.».
Jeff stampò quel nome nella memoria, e scostando il suo braccio dagli occhi, la fissò.
Di fronte a quei due grandi occhi marroni che lo guardavano incuriositi, il killer ricordò di avere un volto che non avrebbe mai potuto mostrare senza incutere orrore, e saperlo alla mercè dello sguardo di lei lo fece sentire nudo.
La sua voce tradì preoccupazione quando le disse: « Tu…hai visto la mia faccia…»
«L’abbiamo vista tutte noi, e abbastanza a lungo da averci fatto l’abitudine.» ribatté Andrea con tutta la brusca sincerità di cui era capace. La leggerezza con cui la ragazzina aveva risposto gli fece ben comprendere che nessuno lo aveva riconosciuto o segnalato, e ciò gli fece tirare un sospiro di sollievo. Il vero volto di Jeff the Killer era noto solo alla stampa locale della cittadina in cui aveva vissuto, ma non oltrepassò mai quei confini. L’unico articolo che parlò di lui fu visto come una trovata di un giornaletto di serie B, e il solo testimone rimasto in vita in seguito a una sua “visita” restò inascoltato, le sue dichiarazioni furono allora interpretate  dalla polizia come allucinazioni di un ragazzino che aveva visto troppi film horror. Jeff ricordava spesso quella notte di diciassette anni prima e ne rideva, incredulo a quanto potessero essere così stupide le persone. La gente, così sadicamente attenta al brivido e al raccapriccio, così fantasiosa nel creare leggende metropolitane anche laddove non vi era motivo, non volle mai riconoscere quel volto terrificante come possibile, reale. Quel caso fu archiviato come un tentativo di furto andato in fumo, e quel ragazzino superstite trascorse i successivi cinque anni della sua vita a farsi curare da uno strizzacervelli, almeno è tutto ciò che Jeff seppe in seguito. Tutto ciò che si conosceva dell’identità di Jeff erano le parole “sconosciuto assassino”, “serial killer” o “soggetto ignoto”. In poche parole, Jeffrey Alan Woods era uno dei tanti ignoti psicopatici che infestavano l’America, nonostante lui fosse il solo ad avere la prerogativa di intrufolarsi nelle case della gente, e questa peculiarità lo rendeva particolarmente terrificante.
La nebbia dei suoi ricordi fu presto dissipata da una voce allarmata che irruppe nella stanza.
« Paul è qui, sta venendo! » Martha entrò fremente di paura.
« Cazzo!» esclamò Andrea, non sapendo cosa fare.
Intervenne Kate, che senza esitazione disse:« Ci penso io a distrarlo, voi fate uscire il ragazzo dalla finestra.», era incredibile come quella giovane riuscisse a mantenere il sangue freddo anche nelle situazioni più disperate.
«Ok. Hai sentito, dolcezza? Ora devi smammare!» disse Andrea aprendo la finestra, mentre Martha provvide a ridargli la sciarpa. Nel giro di pochi secondi, Jeff si ritrovò quasi scaraventato fuori. Ancora con la testa dolorante, cercò di andare via, ma fu trattenuto da una mano che gli afferrò il cappuccio della felpa.
« Non ancora, dannazione! Aspetta prima che entri, potrebbe vederti!» esclamò Andrea in preda alla stizza. Affacciata al davanzale, la giovane lo tratteneva tenendo fermo quel pezzo di stoffa dell’indumento di Jeff come fosse un appiglio da cui dipendeva la sua vita. Quando  Andrea udì il suono della porta chiudersi, e la voce di Paul troneggiare nell’ingresso di casa, si voltò verso Jeff, lasciando andare la presa, e gli sussurrò: « Ora vai.».
Il giovane killer non se lo fece ripetere due volte: a passo svelto si avviò, raggiungendo il fitto bosco che lo separava dal mondo, con un solo pensiero nella sua mente:
“Ci rivedremo presto…Andrea”.

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Capitolo 12
*** Polizia di Oldfield ***


~~Ore 8.43

Il dipartimento di polizia di Oldfield era fremente come non mai in quei giorni di paura senza nome. Le linee telefoniche erano talvolta occupate da telefonate di possibili avvistamenti di gente sospetta, omicidi presunti e altre situazioni di delirio collettivo. Era curioso vedere come quella cittadina così omertosa e indifferente a tutti i crimini che si erano propagati in quegli anni, fosse divenuta improvvisamente attenta, in alcuni casi persino ligia al dovere, reverente verso la legge che aveva da sempre aborrito. Le ragazze dei quartieri “bene” persero l’abitudine di rincasare tardi la sera, specialmente se non in compagnia di amiche o fidanzati; i bambini dei sobborghi trascorrevano meno tempo nei campi di basket lontani da casa, preferendo ad essi i cortili e i pianerottoli del vicinato, dai quali sgaiattolavano via prima che calasse il sole, complice l’attenta sorveglianza degli adulti che si organizzavano per far fronte all’eventuale assenza di protezione da parte della polizia. Solo la criminalità non sembrava temere quella strana ondata di assassinii, salvo considerarla un gestibile fastidio per l’aumentata presenza di controlli nelle zone dove si svolgevano i vari traffici.
I poliziotti, dal canto loro, mai ben visti per gli episodi di corruzione e inefficienza dimostrata negli anni, cercavano di ingraziarsi la fiducia delle persone, manifestando, per quanto fosse loro possibile, la loro vicinanza ai cittadini, nonostante i pochi mezzi a disposizione. Gli addetti ai centralini ascoltavano le telefonate con attenzione, e se possibile inviavano una volante alle zone dove vi erano indicati possibili sospettati, il più delle volte sconosciuti dalle brutte facce o innocui  delinquentelli, mentre gli altri poliziotti della centrale erano intenti a lavorare alle indagini già in corso o a sbattere in gattabuia qualche spacciatore colto in fallo.
Damien Mckenzie attendeva assonnato un espresso dalla macchina erogatrice del caffè. Il suo turno era iniziato da circa un’ora, e non sapeva a quale santo votarsi per far sparire la stanchezza. Da due notti non riusciva a prendere sonno: una strana morsa allo stomaco gli attanagliava le viscere, e per Damien non era mai un buon segno. Il “beep” della macchinetta lo destò da quel misto di torpore e ansia, e lo ricondusse agli impegni che lo attendevano alla centrale, al suo lavoro da ispettore.
Si diresse verso la sua postazione, incrociando nel mentre l’ennesimo stronzetto che veniva condotto in cella. Le motivazioni erano sempre le stesse per le fecce di Oldfield: furto, rapina, accattonaggio, spaccio di droga, detenzione illegale d’ armi, estorsione o sfruttamento della prostituzione. Il più delle volte  il malfattore veniva rilasciato anche prima che gli convalidassero il fermo, spesso per insufficienza di prove, o per le cauzioni che i gangster elargivano insieme ad altri “regali” per secondini e magistrati. Conosceva il tizio che avevano appena fermato e che insultava le madri dei poliziotti che lo conducevano in cella:  Jack Atkinson, spacciatore nonché tossicodipendente, arrestato più volte anche per violenza domestica.
“Un sant’uomo” pensò sarcasticamente Damien, sapendo che Atkinson sarebbe rimasto in cella giusto il tempo di una sigaretta.
I poliziotti onesti come lui non erano pochi, ma il clima nel quale si viveva, le minacce e l’assenza di istituzioni, il più delle volte inefficienti o corrotte, resero il loro lavoro pressoché inutile, quasi di rappresentanza.
Le macchinazioni del crimine erano numerose, ma quella più terribile era nell’instillare la convinzione che non ci fosse più nulla da fare, se non ammorbarsi nell’attesa di un trasferimento o della pensione.
 Un tempo, Damien era convinto che esistessero due categorie di persone: quelle brave, sulle quali si poteva contare, e i disonesti, dai quali non ci si poteva aspettare nulla di buono. Non aveva mai creduto alla redenzione, ma i suoi ventotto anni di servizio in quella cittadina (di cui sedici da sceriffo) gli avvelenarono ancora di più l’anima.
Capii che in nessuno si poteva riporre speranza: non nei magistrati, troppo esigenti e burocrati; non negli  spacciatori, ladri o papponi che in passato tentò inutilmente di redimere; non nella gente per bene, pronta a scagliarsi contro i rappresentanti della legge, accusandoli di fare male il proprio lavoro, a infervorarsi per una multa, per poi zittire di fronte alle minacce di un malvivente. Sapeva di non poter riporre nemmeno fiducia nella brava gente dei quartieri poveri di Oldfield: troppo abituata a zittire, coprire le fecce umane che appestavano le strade, a camminare a testa bassa, vivere nella paura.
 Forse non poteva riporre speranza nemmeno in se stesso, per la sua mancanza di coraggio, che lo bloccava ogni volta che qualche ordine “dall’alto” gli vietava di continuare un’indagine che rischiava di infastidire qualcuno di “importante”, e per quella dannata speranza, divenutagli ormai estranea.
L’unica persona in grado di riaccendere quel lumicino che timido si stagliava nell’oscurità era il suo migliore amico, perennemente rintanato in compagnia della sua saggezza, di una bottiglia, di una foto e di trofei…
Si voltò di lato, guardando annoiato una giovane recluta venirgli velocemente incontro: Arianne Rogers, 24 anni, troppo innocente per i suoi gusti di poliziotto smaliziato e vissuto, ma adeguatamente precisa e affidabile.
« Sceriffo, abbiamo ricevuto una chiamata urgente. Un uomo è stato ritrovato senza vita nella sua abitazione. Due pattuglie sono già sul posto.»
« Forse è il caso che ci rechiamo anche noi a dare un'occhiata.»
« Devo tuttavia avvisarla che…» la ragazza fu stranamente incespicante, come se qualcosa la trattenesse dal completare la frase.
« Cosa? » chiese Mckenzie con impaziente sufficienza.
«La chiamata è partita dalla casa che si trova sulla terza statale, poco distante dall’incrocio che conduce al Sandie’s Bar.» rispose Arianne.
La morsa invase le viscere di Damien in tutta la sua crudeltà: «Oh mio Dio…Bob!».


Ore 9.01

Lo sceriffo Damien Mckenzie scese di corsa dall’autovettura, sbattendone lo sportello. Pregò che la sua morsa si fosse sbagliata, che la scientifica si fosse sbagliata, mentre raccoglieva tracce a destra e a manca a furia di spray, tamponi e luci infrarosse. Pregò che il destino stesso si fosse sbagliato, e che avrebbe corretto il suo errore. Ma la realtà esige di essere accettata, senza compromessi o mezze misure. Il cadavere di Bob era stato già trasportato all’obitorio del Saint Joseph Moscati’s Hospital, lì avrebbero condotto l’autopsia. Damien oltrepassò i nastri gialli tempestati di “do not cross”, ed entrò nella casa del suo migliore amico, dove vi aveva condiviso momenti straordinari, e saperla ora intrisa di morte e di cadavere in putrefazione lo addolorò oltre ogni misura.
Per un tempo che sembrò eterno, Mckenzie restò muto, intrappolato in un indefinito e silenzioso  turbinio di ricordi che riguardavano lui e Bob. Osservò nel vuoto di quella casa dove vi aveva condiviso gioie, amarezze, discorsi di ogni tipo.
Non percepì nulla delle voci, degli ordini impartiti, dei flash che fissarono le immagini di quella tragedia, del brulichio di persone che intorno a lui si scambiarono informazioni: per lui, il mondo esterno era un subbuglio di rumori di fondo rispetto al caotico andirivieni dei suoi pensieri.
Diverse ore dopo, durante le quali restò zitto e fermo nella sola compagnia del suo shock, fu gradualmente richiamato alla realtà dalla flebile voce dell’agente Rogers, che lo invitò a seguirlo nella sala dove era stato trovato il corpo senza vita di Bob.
« Cristo!» esclamò Damien nel vedere schizzi di sangue che imbrattavano il pavimento, le poltrone e parte della cristalliera, quest’ultima rinvenuta con le ante spalancate e decine di cocci di vetro per terra, oltre a un odore nauseabondo misto a puzza di alcol.
Arianne Rogers, ignorando l’esclamazione del suo superiore, si accinse ad eseguire un primo rapporto:
« La telefonata è giunta alla centrale alle 8.30, Francis Snyder, gestore del Sandie’s Bar, è stato il primo a scoprire il corpo. E’ alla centrale in questo momento, Keaton e Adams stanno verbalizzando le sue dichiarazioni. Il corpo di Robert Dewey è stato rinvenuto a terra supino, e a poca distanza dal suo braccio destro è stato trovato il suo fucile, un semiautomatico Remington 1100, che la scientifica sta analizzando in questo momento. Per quanto riguarda la credenza della cristalliera, trovata spalancata e con i bicchieri a terra…»
«… E’ lì che Bob aveva il suo fucile.» interruppe Damien con un filo di voce. « Chi ha usato l’arma sapeva che era lì, e ha spalancato la credenza a gran velocità, non curandosi di scaraventare bicchieri e bottiglie a terra mentre l’afferrava e la tirava fuori.».
« Sono state trovate delle impronte di scarpa non appartenenti alla nostra vittima, pertanto pensiamo che Dewey non fosse solo la sera in cui è morto.».
« Continuate a cercare tracce, indizi, tutto quello che ci occorre per venire a capo di questa tragedia» ordinò mentre osservava i due bicchieri di Rhum poggiati sul tavolino adiacente alle due poltrone.
No, Bob non era solo. Damien lo sapeva, lo sentiva nell’aria. E nelle sue viscere.

 


Ore 12,00

Kate temette che non sarebbero bastate tonnellate di fazzoletti per placare il pianto irrefrenabile di Martha, che a tratti lo interruppe per sedersi al tavolo della cucina, ove restò in silenzio, con la testa fra le mani. Non c'era stato bisogno di apprendere la notizia in radio o in TV: la morte di Bob era sulla bocca di tutto quel maledetto quartiere.  Le quattro prostitute furono tutte turbate da quella tragedia, si sentirono sempre meno al sicuro, come se qualcosa di ignoto e minaccioso avesse iniziato a far terra bruciata intorno a loro, per poi distruggerle per ultime. Nonostante il profondo spavento che imbrigliò i loro animi, nessuna seppe spiegare la spropositata reazione di Martha: il suo non sembrava un pianto dettato dalla paura, ma dal dolore, sembrava infatti una vedova in lutto.
« Su, Martha, calmati... Vedrai che non ci succederà niente...» sussurrò Kate carezzandole una spalla, incredula alle sue stesse parole.
La ragazza in lacrime sembrò non udire quelle parole. Piangeva in silenzio, sommessamente. Quando, dopo alcuni secondi, articolò una frase, le sue compagne aguzzarono le orecchie.
« Che stai dicendo? » domandò Laura, chinandosi anch'ella verso di lei.
Martha alzò finalmente lo sguardo verso le sue interlocutrici, e ripeté le sue parole: « Gli ricordavo sua figlia...».
« Di chi stai parlando?» rincalzò Andrea.
«...Bob.».
Kate fece fatica a celare la sua perplessità: « Ora che ricordo...era un tuo cliente abituale.»
Un mesto sorriso si affacciò sulle labbra di Martha: « Non mi ha mai toccata.»
In quelle quattro umili pareti di quella cucina fece capolino un eco di stupore.
« E' così » continuò la ragazza, rispondendo all'incredulità delle altre « Mi ha sempre cercata chiedendomi solo di fargli compagnia. Null'altro. Mi invitava a casa sua, mi offriva della cioccolata calda. Trascorrevo il tempo che lui mi pagava seduta a un tavolo o su una poltrona, a parlare! Chiedeva di me, di come mi fossi ritrovata in mezzo alla strada,  mi dava consigli, mi parlava di sua moglie Rachel, deceduta anni fa. Una volta mi disse che avrebbe voluto...»
Scoppiò nuovamente in lacrime, mentre le ragazze si guardarono tra loro, comprendendo finalmente il dolore della loro compagna, colme di una bonaria invidia verso colei che aveva avuto la fortuna di incontrare qualcuno che fosse in grado di vederla come una donna, ma al contempo angosciate perché tale fortuna le era stata strappata da un destino intento ad accanirsi solo sui miserabili.
La vita delle puttane è un emporio sempre aperto, dove ad essere in bella mostra sono sorrisini, risatine frivole, parole oscene e nudità. Per una di loro, scoprire che al mondo vi sono persone non interessate alle mercanzie in esposizione, ma ai retrobottega dell'anima, è paragonabile alla scoperta dell'America o a un nutrimento giunto dopo giorni di digiuno. Si strinsero attorno a Martha, dicendole tacitamente che avrebbero potuto contare l'una sull'altra, incondizionatamente. Alla donna in lacrime, tale gesto sembrò bastare per farla sentire al sicuro. In quella squallida baracca sembrò tornare uno sprazzo di serenità, nonostante l'inferno che imperava fuori e dentro quelle mura. Solo una di loro sembrò intimamente turbata dall'immagine di un cappuccio bianco, sotto il quale si apriva un largo, insanguinato sorriso.

~~Piccolo off topic:
Questo capitolo è dedicato alla mia piccola fan (e amica) Anna The Creepygirl. E' un regalo per il suo compleanno, anche se dato con “leggero” ritardo (ha compiuto gli anni un mese fa...perdona la mia lentezza, Ary!). Il personaggio di Arianne Rogers è ispirato a lei. Non mancheranno altri personaggi che entreranno a far parte della mia fanfiction (Even, tieniti pronta anche tu!). Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento, un abbraccio a tutti!

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Capitolo 13
*** Nathan Smith ***


~~Oldfield

«Accidenti!»
John vide il treno delle 20:45 lasciare la stazione di Oldfield, la sua corsa per prenderlo in tempo si rivelò infruttuosa. Aveva perso il treno per Gresham.
Seccato, telefonò sua moglie per avvertirla che avrebbe rincasato tardi. Fu costretto ad attendere il treno delle 21:25 in quella desolata ferrovia, dove era solo con i suoi pensieri. Era troppo felice per maledire quella giornata, del resto non era andata così male. Dopo anni di precarietà lavorativa, una vicina fabbrica di automobili aveva deciso di assumerlo, con un contratto di tutto rispetto, e uno stipendio che avrebbe risollevato le sorti della sua famiglia da una situazione di perenne indigenza. Operaio sempre disoccupato e di scarsa cultura, tutto ciò su cui John poteva contare erano la sua prestanza fisica, la sua dedizione al lavoro e il suo buon cuore, che i colleghi conosciuti negli anni gli avevano riconosciuto. Fu quel cuore a conquistare l'amore di sua moglie, che gli diede due bellissimi figli, verso i quali indirizzava buona parte delle sue preoccupazioni. Pensò proprio a loro,  i quali avrebbero avuto qualche giocattolo in più, e a sua moglie, che avrebbe potuto finalmente permettersi di andare più spesso dal parrucchiere, o comprarsi un vestito. Pregustò la vita, semplice ma dignitiosa che avrebbero condotto insieme. Non vedeva l'ora di tornare a casa e di raccontarle tutto.
 La sua gioiosa impazienza fu interrotta da un suono sinistro, nel buio e nel silenzio di quella stazione immersa nella periferia cittadina.
Dei passi lenti, regolari e striscianti fecero la loro comparsa nella mente di John, tanto erano impercettibili.
Aguzzò il suo orecchio, per tentare di comprendere da dove venisse, si guardò intorno. Niente. John era completamente solo.
 Sospirò maledicendo la sua immaginazione, frugò nelle tasche del suo giubbotto per estrarre il suo vecchio cellulare e vedere l'orario sullo schermo rotto. Pensò che presto avrebbe potuto permettersi un cellulare moderno, di quelli che non hanno i tasti e che navigano in internet. Sorrise tra sé, divertendosi ad immaginarsi mentre cercava di capire il meccanismo di quegli aggeggi infernali. Ancora assorto nella sua ilarità, capì che non era solo:
i passi tornarono, accompagnati da un sibilio che non riuscì a comprendere: gli sembrò di udire lo strisciare di un oggetto metallico e appuntito su un muro. Il percorso tracciato da quel suono attraversò la schiena di John, lasciandolo in preda ai brividi. Cercò di tornare in sé: non era la prima volta che trascorreva solo in stazione, allora perché tutta quella paura? E di cosa, di chi? Di qualche altro disgraziato come lui che doveva prendere un dannato treno?
Ancora si rimproverava per la sua impressionabilità da femminuccia quando alzò la testa, per vedere una figura inghiottita dall'oscurità, della quale poteva distinguerne solo la statura imponente. 
John lo guardò perplesso, poi la sua perplessità si trasformò in paura quando, con due grandi falcate, il soggetto misterioso lo raggiunse. Avrebbe voluto dire qualcosa, mettere le mani davanti a sé per proteggersi. Un dolore lo sorprese in petto, ma non lo guardò. Si limitò a fissare gli occhi del suo aggressore, prima di lasciare che si annebbiassero per sempre. Il grande cuore del giovane operaio smise di battere.

...


Palo Alto, ore 10:47

« Johanna! Muoviti! Siamo in ritardo per la conferenza. Smith avrà già cominciato a parlare da un pezzo!»
« Aspettami, Claire! Hanno detto che non avrebbe iniziato a parlare prima delle undici.»
Due giovani studentesse di psicologia si fecero strada tra gli affollati corridoi dell'università, in preda a un'ansia mista a gioia. Avevano sentito parlare di Smith, delle sue teorie e ricerche in quasi tutti i libri che si ritrovarono a studiare nel loro percorso, iniziato appena qualche anno prima. Appena entrate nell'Aula Magna, affollata al punto da non potersi sedere da nessuna parte, compresero con sollievo che il relatore le cui parole avrebbero ascoltato con avidità aveva appena esordito con il suo discorso:
« Nell'uomo, il bene e il male albergano in egual modo, ma il confine tra i due principi è molto più sottile, aleatorio e fragile di quanto pensiamo. Siamo certamente dotati di strutture superegoiche, fondamenti della moralità, che tentano di impedire al male di palesarsi in tutta la sua efferatezza... »

Quella seccante giornata di inizio Ottobre non riuscì a scoraggiare gli animi di studenti, giornalisti e ricercatori che riempirono l' Aula Magna della Stanford University, sfidando e vincendo il maltempo che aveva tentato inutilmente di dissuarderli dal recarsi al prestigioso ateneo. La ressa creatasi all'interno di quella struttura non era di certo una novità, visto che a Palo Alto era piuttosto frequente ospitare ricercatori eccellenti, menti brillanti ed eminenti personalità famose in tutto il pianeta per i loro contributi scientifici, filosofici, politici o letterari.
Quel giorno, ad essere accolto tra gli onori del rettore e dei comitati studenteschi, vi fu Nathan Smith, geniale ricercatore e teorico nel campo della criminologia e della psichiatria forense. I suoi contributi riscossero riconoscimenti persino tra gli scettici atenei d'oltreoceano, che avevano sempre giudicato gli psicoterapeuti americani come pragmatici o medicalizzati oltre misura.
La giovane età del professor Smith, i modi pacati e al contempo coinvolgenti con i quali conduceva la sua conferenza, evidenziarono ancor di più la sua vivace intelligenza, nonché la passione che impiegava per disvelare i più arcani, putridi e aberranti segreti dell'animo umano.
Il tema dell'evento in questione erano proprio gli omicidi seriali:

«... ma cosa avviene quando un soggetto, con freddezza e lucidità e in apparente assenza di moventi, dà avvio ad una sadica catena di omicidi? E cosa possono fare la psicologia e la psichiatria di fronte al fenomeno che siamo soliti indicare come omicidio seriale?» continuò il giovane criminologo.
L'intera aula era in assoluto silenzio, qualcuno cominciò a prendere appunti, qualcun altro avviò il proprio registratore: nessuno osò perdere una sola parola di quel discorso.
« La definizione dell' FBI individua precisi parametri comportamentali tipici dei serial killer: tra le caratteristiche peculiari si possono ricordare la ripetizione dell'omicidio, l'assenza di motivazioni evidenti, scarsa o assente relazione con la vittima, un legame più o meno netto con la sessualità ed infine la presenza frequente di diverse forme di patologia mentale, ma tali definizioni non sono sufficienti per definire un fenomeno così complesso. Per questo la criminologia si è avvalsa di vari contributi che hanno, in diversi modi, tentato di definire i processi mentali che sottendono gli atti criminosi di un assassino seriale. Per decenni, noi criminologi abbiamo tentato di “spiegare” le personalità dei “mostri” che seminano morte nella società, ne abbiamo individuato le storie di vita, il più delle volte molto simili tra loro...».
Nat guardò quella massa indistinta che annuiva quasi ad ogni sua parola. Si sentì lusingato, ma preoccupato al tempo stesso, dal momento che molti degli uditori erano giovani studenti desiderosi di conoscenza, ma al tempo stesso più malleabili rispetto allo smaliziato corpo docente. Nat si sentì responsabile verso quei ragazzi, e dentro di sé pensò “vi prego, pensate sempre con la vostra testa!”. Detestava essere osannato o non riscontrare nessuna divergenza di opinioni, aveva sempre tentato di seguire la dialettica e le idee più disparate, perché credeva fermamente che la verità fosse raggiungibile solo cercandola, confrontandosi anche con chi la pensa diversamente.
Man mano che procedette con il discorso, Nat parlò di ciò che lo rese celebre, ma che al tempo stesso gli costò una fiumana di polemiche nel mondo accademico: « ...Abbiamo usato la psicologia e la psichiatria per catturare assassini in libertà, per indagarne il passato e per soddisfare domande che, in fondo, non troveranno mai una risposta definitiva. Il male, per sua natura, non è spiegabile fino in fondo. E' per questo che la maniacale curiosità che ci coglie quando i media ci propinano l'ennesimo esempio di scelleratezza, è destinata ad esaurirsi. Hannah Arendt parlò di banalità del male, negando l'esistenza del male assoluto, descrivendo Adolf Eichmann, uno degli uomini più terrificanti della storia (e del nazismo), come un grigio burocrate, che aveva progressivamente azzerato la sua capacità di pensare e, conseguentemente, di discernere il bene dal male. Da questo punto di vista, sono anche io avezzo a credere che le leggi morali, fondamenti che pulsano dentro noi, arrivino in alcuni soggetti, a stabilire confini sempre meno definiti, fino a che essi arrivino ad accettare l'atto criminoso come un bene... Ed è per questo che bisogna usare la criminologia non solo come strumento investigativo, ma come un mezzo terapeutico, e fare in modo che gli assassini possano, anche dopo aver compiuto una lunga serie di omicidi, avere la possibilità di essere messi di fronte a ciò che hanno fatto.»
Il discorso di Nat fu interrotto da una domanda: « Mi scusi, professore...» il giovane che osò alzare la mano per chiedere un chiarimento fu circondato in men che non si dica da un esercito di occhiatacce e di mormorii di disapprovazione.
Inorando completamente i commenti, Nat alzò gli occhi verso il ragazzo: « Prego, domandi pure.»
« Qual è l'utilità del suo approccio? Voglio dire...perché dovremmo prenderci cura di persone che hanno fatto del male al punto da meritare l' ergastolo o la pena capitale? Una “redenzione”, o una “guarigione” dal male che li ha indotti ad uccidere sarebbe totalmente inutile, dal momento che, una volta incarcerati, non possono più recarsi all'esterno, e mettere in pratica eventuali effetti di una psicoterapia. Quale giovamento alla società dal suo approccio?».
« La ringrazio per la sua domanda.» rispose Nathan, sinceramente contento dell'innocente provocazione dello studente « La terapizzazione di soggetti renderà ben due benefici. Primo: non è mai troppo tardi per guarire o “redimersi”, come ha detto lei. Secondo: trasmettere un messaggio di cura e non di condanna all'interno della società, potrà solo indurre eventuali soggetti disturbati a chiedere aiuto, anziché isolarsi dal mondo e dare libero sfogo alla propria distruttività. Questa è per certi versi pura fantascienza, ma se arriveremo a prevenire comportamenti antisociali, per noi sarà già una vittoria.»
 Il discorso del professor Nathan Smith, durato altri pochi minuti, terminò nel rumoroso scroscio di un lungo applauso. Dopo ore trascorse a stringere mani e ad interloquire con i ragazzi, la cui curiosità sembrò infinita verso il suo approccio alla criminologia, tornò finalmente nell' albergo che lo ospitava.
Poco dopo essersi accasciato sul letto, distrutto dalla stanchezza, qualcuno aprì la porta della sua camera.
« Gwen, finalmente.» disse tra lo spazientito e il sollevato.
« Temevi mi avessero rapita?» commentò la giovane donna che, appena entrata, sfilò dai piedi i suoi scomodissimi tacchi. Le sue labbra, allargate in un gioioso sorriso, andarono a poggiarsi su quelle di lui.
 Un lieve accenno di brio si accese nell'animo di Nathan, felice di aver reincontrato l'unica persona di cui aveva sentito la mancanza quel giorno.
« Per un attimo sì!» scherzò il giovane criminologo.
« Dovresti evitare di seguirmi ovunque.» continuò Nat, poggiando la mano sul ventre della giovane,     appena arrotondato da un dolce segreto che giaceva al suo interno.
« Il dottore dice che non è un problema, inoltre siamo già al quarto mese» lo rassicurò lei.
Con scherzoso cipiglio, Nathan continuò a punzecchiare Gwen: « Scusa tanto se sono preoccupato della salute di mia moglie e del nostro bambino!».
Quello era già il terzo bambino che Gwenevre portava nel grembo, ma l'ansia di Nathan per la salute di sua moglie e del nascituro non ne volevano sapere di scemare sotto l'influsso delle precedenti esperienze: ogni paternità era per lui un evento sempre nuovo, che lo riempiva di gioia e paura al tempo stesso, a dispetto della sicurezza sempre ostentata durante le lezioni e i convegni.
Penserioso, restò a sfiorare la pancia di Gwen, la quale prese la sua mano fra le sue, e sussurrò: « Dovremmo telefonare ai bambini.».
«Già».
Mentre Nathan compose il numero di telefono di casa, qualcuno bussò alla porta della loro camera.
« Tesoro, potresti parlare prima tu con i bambini? Io vedo cosa vogliono. »
« Certo».
Il professor Smith aprì la porta a un ossequioso cameriere.
« Chiedo scusa per il disturbo, Signor Smith. C'è una persona che vi attende alla hall.».
« Può dirgli di attendere qualche minuto? Dovrei fare una telefonata...»
« Dice che è piuttosto urgente.».
Nathan tirò un sospiro di rassegnazione: « Arrivo subito.».

“Si trattano bene questi professori” pensò il visitatore dell'albergo dove alloggiava momentaneamente Nathan Smith. Non potè fare a meno di notare il lusso e i comfort di cui l'hotel era pieno.
“Spero sia bravo almeno la metà di quanto dicono”, continuò a dirsi, mentre si vide arrivare alla hall uno di quelli che lui definiva impietosamente “sbarbatelli”, e il suo scetticismo salì alle stelle.
« Buona sera, dottor Smith. Sono lo sceriffo Damien Mckenzie, del dipartimento di Oldfield, Oregon.».
« Buona sera, sceriffo...» rispose Nathan perplesso nell'osservare quella severa figura.
« Ho seguito con interesse il suo intervento alla conferenza di stamattina...» esordì il poliziotto, ancora incredulo di trovarsi davanti l'uomo di cui parlavano tre quarti di psicologia e criminologia mondiale.
«...ma non è per congratularmi con lei che sono qui.» continuò francamente « Al dipartimento di polizia di Oldfield abbiamo bisogno del suo aiuto.».
Nathan annuì, ascoltando attentamente.
« Nella nostra città si sono consumati diversi delitti. Per le dinamiche con cui essi avvengono, sospettiamo che l'autore sia una sola persona, probabilmente la stessa che da diciassette anni sta viaggiando negli stati uccidendo intere famiglie nelle proprie abitazioni. Il sindaco di Oldfield e lo stesso governatore del nostro Stato hanno deciso di non coinvolgere anche i federali nelle indagini, perché supponiamo che, fino ad oggi, l'assassino si sia approfittato delle “attenzioni” che gli stiamo riservando per fuggire. Stiamo al momento procedendo autonomamente, ma non possiamo farcela senza la consulenza di un ottimo criminologo. Dottor Smith, lei deve aiutarci ad acciuffare l'assassino.»
Nathan restò senza parole. Tutto ciò che restò di quel momento fu un interminabile groppo alla gola.


...

Non tutti i binari della vecchia stazione di Oldfield erano funzionanti: alcuni fungevano da cimitero di vecchi vagoni abbandonati, fermi da quasi vent'anni. Quei mostri di metallo massiccio incutevano terrore a chiunque si avvicinasse in piena notte. Nessuno si sarebbe lasciato ospitare all'interno di quegli spettri, ad eccezione di una persona.
Rannicchiato in un angolo, percorso da brividi e tremori, una figura pallida fremeva di freddo, paura e rabbia incontenibili. Le calde lacrime che scivolarono sulle guance andarono a mescolarsi al sangue che ornava macabramente le ferite aperte di una bocca che non poteva smettere di sorridere, nonostante il dolore che aleggiava in quel vecchio vagone.
« Ti sei sbagliato, Bob.»  disse l'uomo, in uno spasmodico e incontrollabile delirio. «Ti sei fottutamente sbagliato.»

Note dell'autrice:
Salve! Ecco il mio tredicesimo capitolo della mia long-fic, che dedico con tutto il cuore a Ginevra, da cui è ispirato il nome di Gwen. Spero ti piaccia questo personaggio. Ovviamente cercherò di farli apparire altre volte in questa storia. Ad ogni modo, spero che in generale il capitolo vi piaccia. Se per caso avete letto dalle parole di Nathan Smith delle inesattezze in merito alla psicologia e alla criminologia vi prego di perdonarmi, ho lavorato molto di fantasia in merito a na branca della psicologia che mi è quasi totalmente ignota. Un saluto a tutti! Marina.

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Capitolo 14
*** Il Redentore ***


~~Capitolo XIV


Il pallido pomeriggio di Oldfield sembrò lasciare una tregua alle due giornate di pioggia che si erano susseguite. Le vie erano ancora tristemente adornate di pozzanghere, nelle quali Andrea poggiò i suoi piedi di proposito, poiché adorava vederne i cerchi d'acqua che si formavano per poi andare a morire man mano che si allagavano sotto i suoi tacchi.
Il cielo prometteva di rischiararsi, ma la giovane squillo non era pronta a rinunciare alla malinconica compagnia di una giornata grigia.
Vide Laura, raggiante e sorridente, venirle incontro.
« Andiamo in centro! » esclamò gioiosa.
« In centro?»
«Si! Dobbiamo fare la spesa, miss “sto sempre in pensiero”! Questa settimana tocca a noi. Dai, prendiamo l'autobus»
« Ok!» Esclamò Andrea in preda alla contagiosa gioia di Laura « Aspetta solo che metta qualcosa di decente addosso.» continuò mentre si recò a casa.
« Ok, ti aspetto qui, ma fai presto! Il 169 passa tra meno di dieci minuti!» le urlò da lontano.

Il tempo trascorso al centro città fu piuttosto piacevole, raramente le ragazze avevano la possibilità di guardare le vetrine dei quartieri alti di Oldfield e di ammirare capi d'abbigliamento che non avrebbero mai potuto permettersi. Anche se erano vestite decorosamente, i loro volti troppo vissuti e il trucco pesante lasciò trasparire la vera natura di quelle giovani che passeggiavano per il centro, che ignoravano le occhiatacce delle ragazze per bene con una nonchalance a dir poco disarmante.
Tra le risate e la spensieratezza dei loro diciannove anni, Andrea percepì nella felicità di Laura una impazienza quasi maniacale, a cui risucì ad attribuire anche il motivo:
« Devi vederlo, non è così?»
« Vedere chi?» chiese Laura tentando di sembrare indifferente.
« Frank. La merdina rossa.»
« Smettila!» ridacchiò Laura cercando inutilmente di sembrare arrabbiata. La pelle scura evidenziò il suo bellissimo sorriso.
Andrea fu intenerita da quelle espressioni sognanti che ormai sembravano non appartenere più a nessuna delle ragazze che abitavano quell'infernale baracca.
Anche se riteneva che Laura fosse troppo ingenua, Andrea la ammirò per la sua capacità di lasciarsi sorprendere dall'amore. Anche la sua amica Mary era capace di provare emozioni forti, di lasciarsi sedurre dalla vita, di coinvolgersi e coinvolgere nel vortice della bellezza, che sapeva intravedere in ogni aspetto della sua esistenza... Pensando nuovamente a lei, un fiotto d'amarezza sembrò farsi strada nella gola di Andrea. Scacciò quel maledetto pensiero dalla mente, e pensò che, in fondo, Mary avesse fatto la fine che si era cercata per correre dietro ai sogni, e per mettersi contro coloro che arbitravano la vita e la morte di chi osava ribellarsi. Soffermandosi nuovamente sul viso inebetito di   Laura, pensò dunque di metterla in guardia.
« Non mi piace quell'uomo, e lo sai.» disse secca.
« Andrea, a te non piace nessuno. »  rispose Laura piccata.
« Scusa tanto se non voglio che la mia amica soffra per mano di uno stronzo!»
« Andrà tutto bene, Andry! Per una volta cerca di non essere cinica.» la implorò Laura conciliante.
« Hai ragione, scusami. Cioé...insomma...non deve per forza andarci tutto male!» Andrea abbassò la testa, comprendendo di fare i conti con il suo solito pessimismo. Del resto, Frank sembrava sinceramente interessato a Laura, nonostante quell'arpia della madre di lui facesse di tutto per impedire che si frequentassero. Il barman Frank aveva sempre avuto per la mora una predilezione particolare. Con gli introiti del locale, avrebbe potuto tranquillamente “comprare” la libertà di Laura, strappandola alla vita che faceva con lei e le altre, senza casini vari. A Paul bastava che qualcuno gli infilasse in tasca un bigliettone da trentamila dollari per lasciare andare una delle ragazze con tutta la sua benedizione.
« Una parte di me sa che mi vorrà bene, mi libererà da Paul. Ed io...beh...cercherò di convincerlo a liberare anche voi.» Così dicendo, poggiò una mano sulla spalla esile di Andrea, che annuì in silenzio.
« Ehm.... io devo andare a vedere un paio di scarpe al negozio di fronte.» disse Andrea con finta allegria.
« Non mi accompagni da Frank?»
« Accompagnarti? Se ti vede da sola è meglio! Sarebbe inutile e imbarazzante se venissi anch'io!»
« Ok. Vado a trovarlo, chissà che faccia farà quando mi vedrà.».
Andrea vide Laura allontanarsi con passo svelto e ansioso, e ciò la fece un po' sorridere. Il magone che l'aveva colta poco prima era ancora molto intenso, e nascondere alla sua amica i suoi stati d'animo era stato piuttosto difficile. Strinse il ciondolo che portava al collo, ne rileggeva continuamente le iniziali e nel mentre camminava, immersa nei suoi ricordi.
Si fermò dinanzi a un edificio che riuscì a captare la sua attenzione: una vecchia, piccola chiesa, espose timidamente la sua maltenuta facciata tra gli imponenti palazzi del diciottesimo secolo. Il portoncino di legno massiccio era aperto, segno tangibile del fatto che non fosse sconsacrata. Pian piano si avvicinò, salì tre piccoli gradini che la separarono da quel luogo così strano e inesplorato. Per un momento, i tetri boschi che circondavano la sua casa le sembrarono più rassicuranti delle quattro piccole cappelle con santi, scene di martirii e candele. I rumori del traffico stradale, così imperanti all'esterno, divennero improvvisamente uno sfondo trascurabile e per nulla fastidioso. Il lieve odore d'incenso le piacque e, a dispetto di come sembrasse fatiscente da fuori, l'ambiente interno era ben curato. Si avvicinò alla navata centrale, guardando il crocifisso che la sovrastava. Andrea trasalì non appena vide una cosa che la turbò profondamente: a differenza di come aveva sempre immaginato il Cristo in croce, questo non aveva il capo reclinato su una spalla e  gli occhi chiusi. Al contrario, il suo collo era ben ritto, nervoso e sollevato sulle spalle, gli occhi erano terribilmente aprerti, come la sua bocca, deformata in una smorfia di dolore. Sembrava che l'artista che aveva realizzato l'opera volesse ritrarre Cristo mentre lanciava un grido nel bel mezzo del suo supplizio in croce. La ragazza indietreggiò, fremendo di inquietudine. Non era mai entrata in una chiesa in vita sua, né tanto meno in una cattolica. Giurò a se stessa che non lo avrebbe fatto mai più.
« E' terribile, vero? » Una voce alle sue spalle la distolse momentaneamente dall'intento di darsela a gambe levate. Un giovane sacerdote, di circa quarant'anni, era uscito dal confessionale che era praticamente accanto all'altare.
L'uomo sorrise: « All'inizio faceva paura anche a me, ma se lo guardi bene, non è così male. Non vedi altro che la Passione nel suo momento più atroce. In fondo, è una cosa che riguarda tutti noi.».
« Ah...» fu il commento di Andrea che, indecisa sul da farsi, si sedette sulla panca più vicina all'altare.  Contemplò ancora quella croce, e il sentimento di inquietudine fu presto sostituito da perplessità.
« Non ti ho mai vista nella mia parrocchia. Ti sei trasferita da poco qui?» chiese il prete che si accomodò accanto a lei.
« Vivo a Oldfield da una vita. Non mi ha mai vista nella sua parrocchia perché non ci ho mai messo piede.» rispose seccata Andrea.
« Dovresti venire più spesso. La Domenica c'è l'oratorio e il coro. Inoltre, il mio viceparroco organizza incontri per i giovani, sono certo che ti piacerebbero.» continuò il sacerdote, comprendendo che la giovane età della ragazza era in netto contrasto con l'agghiacciante seriosità che traspariva dal suo volto.
« Non potrei in alcun caso, padre. Non ho il tempo per queste cose, e sinceramente se anche lo avessi, non verrei qui.» nella sua indifferente provocazione si aspettò di essere mandata via da quel prete ficcanaso in malo modo, o che almeno si fosse allontanato pieno d'indignazione per lasciarla andare, invece udì dalla sua voce una sommessa risata, che la fece voltare verso di lui, incredula all'idea di non aver sortito l'effetto sperato.
« La tua franchezza è disarmante, figlia mia. Qualora dovessi cambiare idea, sai dove trovarmi.». Si alzò, lasciandola sola con i suoi pensieri.
Andrea guardò ancora il crocifisso, cominciò a familiarizzare con quella smorfia di dolore che traspariva da quel volto scolpito. Quella faccia così contorta gli ricordò il volto di quello strano tipo che aveva conosciuto al bar di Frank, e che aveva soccorso appena alcuni giorni prima. Sorrise tra sé, poi si concentrò nuovamente sul crocifisso. Pian piano, lo spavento e la perplessità lasciarono il posto a uno strano, silenzioso tormento, come se i suoi fervori interni fossero contenuti in una camera insonorizzata. Le vennero in mente tanti ricordi, tanti pensieri con i quali raramente entrava in confidenza. Guardò ancora quello che molti chiamavano “il Redentore”, ripensò alle parole del prete, e rievocò il volto della sorridente Mary, la sua migliore amica, la discarica, e con essa il cimitero dei copertoni, le fiamme intossicanti... Andrea sussultò, in preda alla paura e alla rabbia. Ritenne che fosse giunto il momento di andare via da quel posto. Lesta lasciò le panche su cui si era seduta, aveva bisogno di aria, e subito. Fuggì dalla chiesa per riabbracciare i rumori del traffico e della vita che si muoveva intorno a lei. Tenne la testa bassa mentre correva fuori, non voleva guardare in faccia a nessuno, non badò a nulla, neppure alla persona che aveva appena urtato in malo modo.
Cominciò a blaterare delle scuse, quando una voce a lei familiare esclamò: « Guarda dove vai! »
Si voltò verso quella felpa bianca che ormai aveva imparato a conoscere, con la solita sciarpa che avvolgeva nel mistero quel volto orripilante. Non c'era dubbio alcuno: quell'uomo era lo stesso che incrociava spesso al bar.
« Sembra destino che ogni nostro incontro debba avvenire così.» commentò beffarda.
« Tu...?» domandò l'uomo.
« Si, io!» rispose la ragazza.
« Si può sapere che ci fai qui?» chiese Jeff.
Andrea non capì come, ma invece di rispondergli “non sono affari che ti riguardano”, si limitò a dirgli molto educatamente: « Aspetto una mia amica, abbiamo fatto la spesa e ora....oh cazzo! La spesa!» esclamò avvilita mentre guardò il suo orologio: erano già le 19:15, il sole era tramontato da un pezzo e di lì a poco i negozi avrebbero chiuso.
« Ehm....devo andare, il supermercato è a più di sei isolati da qui, devo sbrigarmi.» riprese Andrea, pronta a correre via in un battibaleno.
« Perché andare fin laggiù quando c'è un piccolo discount praticamente nei dintorni? » Suggerì Jeff.
« Ti ci accompagno, se vuoi.» aggiunse, nel vedere l'espressione perplessa e al tempo stesso sollevata della ragazza.
« Ti ringrazio. Sai? Se non rientriamo in tempo, il nostro protettore ci ammazza.»
Jeff la osservò bene mentre percorrevano la breve strada che li separò dal discount. Fu per lui una seccatura non poterla sgozzare, ma le strade erano ancora frementi di vita, non sarebbe stato possibile per lui fuggire da un centro città, sotto gli occhi di molti testimoni e poliziotti.
“ Possibile che ti incontro sempre nei momenti sbagliati, puttanella?” pensò tra sé, guardandola camminare al suo fianco.
In compenso, riuscì ad incrociare una giovane donna dai capelli rossi, dai quali era “attratto” da giorni. Di lì a poco avrebbe fatto visita a lei, ormai conosceva tutti i suoi movimenti. Sapeva poco della sua futura vittima: era una giovane avvocatessa di circa trentasei anni, dall'andatura svelta e sicura, il vestiario sempre molto formale, e lo sguardo celato da una frangia che le calava sulla fronte. La osservava spesso, ammirato e al tempo stesso maniacale. Avrebbe strappato i suoi bellissimi capelli uno ad uno, o li avrebbe bruciati, prima di accoltellarla ripetutamente. Insieme ad Andrea e ad altri, era diventata l'oggetto delle sue più macabre fantasie.
Fu a stento riportato alla realtà dalla conversazione che la giovane squillo aveva deciso di intavolare con lui, mentre provvide alle provviste per se stessa e per le sue compagne. I discorsi erano brevi,  piuttosto convenzionali, riguardavano le previsioni del tempo, qualche fatto di cronaca – compresi quelli che lo riguardavano-, sembrava che alla ragazza non importasse cosa facesse nella vita, ma ne capì subito la ragione. Jeff, Andrea, e tutte le persone che frequentavano quel maledetto bar fuori città non avevano storie, non avevano vite, non avevano occupazioni da svolgere. Ogni loro esistenza si risolveva nel fondo di un bicchiere svuotato, non vi erano storie da raccontare, informazioni da scambiare.
La spesa fu frettolosa e fugace. Appena fuori da quel discount, raggiunsero celermente le vie principali, dove a venire loro incontro ci fu Laura che, sorridente, li salutò, riconoscendo Jeff:
« Ehy, ciao! Ti sei ripreso dall'altra notte?» scherzò la ragazza.
« Si...sto meglio, grazie.» rispose Jeff.
« Credo di aver preso tutto...» disse Andrea rovistando nelle buste della spesa.
Per alcuni istanti fecero un piccolo inventario di quello che era stato acquistato, fu in un secondo momento che compresero di non essere più in compagnia di quello strano uomo dal volto il cui raccapriccio era celato da una sciarpa e da un cappuccio. Si guardarono intorno, incredule e perprlesse di fronte a quella strana sparizione, avvenuta nel momento in cui un'auto della polizia stava transitando da quelle parti.
« Dici che quel Jeff ha guai seri con la giustizia?» chiese Andrea.
« Chi non ce li ha?» rispose la sua amica, lasciando trapelare una punta di amaro sarcasmo. « In quella bettola, tutti hanno conti in sospeso. Adesso torniamo alla fermata dell' autobus.».


Stazione di Polizia di Oldfield.

Nathan fu accuratamente informato dallo sceriffo Mckenzie e dall'intera centrale di polizia su tutte le dinamiche dei misteriosi delitti che da alcune settimane si stavano consumando in quella strana cittadina.
Chiese del tempo per telefonare sua moglie, che aveva lasciato tornare a casa dopo la visita urgente dello sceriffo Mckenzie. Nonostante lui cercasse di apparire calmo, sua moglie intuì il suo stato di agitazione.
« Temi che sia lui, non è così?» chiese Gwen dall'altro capo del telefono.
« Non lo so... Insomma, sono passati tanti anni, di assassini ce ne sono tanti in giro...non può essere...» cercò di articolare Nathan.
« Qualunque cosa tu scopra, non perdere mai la calma, e non lasciarti coinvolgere troppo. Trova il modo di tutelarti. Non è mica obbligatorio far risultare il tuo nome tra gli inquirenti?!».
« Tranquilla. Hanno già chiesto il silenzio stampa. Non vogliono far salire questa cittadina agli onori della cronaca, almeno non più di quanto abbia già fatto finora.». Rispose Nathan.
« La cosa che conta è che lui non sappia di te, Nat.» sentenziò sua moglie « Potrebbe decidere di portare a termine il suo lavoro...»
 « Lo so, Gwen! Starò attento, te lo prometto.» concluse lui, rassicurante.
Ripresero a parlare dei loro bambini, degli allievi di Nat e di Gwen, di Patty che sarebbe venuta a cena la settimana successiva. Rapportarsi continuamente alla vita quotidiana aiutò Nathan a ridimensionare le sue ansie, che riaffiorarono nel momento in cui posò la cornetta del telefono.
Dentro di sé, le sue emozioni presero forma: furono inizialmente sensazioni sgradevoli, accompagnate da una morsa allo stomaco, da un battito cardiaco lievemente accelerato. I palpiti del cuore, come  tamburi che accompagnano gli ultimi passi di un condannato a morte, fecero da sfondo a una voce terrificante e beffarda che lo inondò in ogni fibra del suo essere.

Bum, bum, bum...

“Ciao, Nathaniel Wilbur Smith”

Bum, bum, bum.

“Ne è passato di tempo...”

Bum, bum, bum!

“Ne hai fatta di strada da quando eri solo un gracile, insignificante ragazzino...”

Bum, bum, bum!

“Sono qui....”

Bum, bum, bum!

“Sono tornato....”

Bum, bum, bum!

“....per te!”

« Lasciami in pace!» si ritrovò a gridare, in preda a corti respiri e al cuore impazzito. Destato da quell'incubo ad occhi aperti, si rese conto di trovarsi solo, nella stanza  adibita a suo studio personale, all'interno della stazione di Oldfield. I poliziotti avevano improvvisato un bugigattolo apposta per lui, dietro sua richiesta, per dargli modo di concentrarsi. Lo squillare quasi incessante dei telefoni e le comunicazioni che il personale si impartiva al di là della porta che lo separava dalla sala adiacente gli fecero comprendere che nessuno lo aveva sentito.
Tirò un sospiro di sollievo, estrasse il portafogli dalla tasca interna della sua giacca. In una delle tasche, Nathan dispiegò un pezzo di giornale che conservava gelosamente da diciassette lunghi anni. Lo lesse, ripetendone mentalmente le parole che ormai aveva impregnate nella memoria, come una cicatrice, una deformità, o una maledizione.

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Capitolo 15
*** Susan Mathers ***


Susan Mathers

 

La vita era tutt'altro che placida per l'avvocato Susan Mathers, la quale si muoveva freneticamente tra i tribunali e il suo studio. Si sorprendeva spesso a terminare intere giornate estenuanti di lavoro senza neanche accorgersene, e anche se negli ultimi tempi il suo corpo sembrava abbandonarla sempre di più, perseverava nel suo rincorrere la vita fino all'ultimo fiato.

Due occhi glaciali la osservavano da giorni, ininterrottamente impressi sul destino di lei. Jeff ne aveva studiato tutti i movimenti, sapeva a che ora usciva da casa, conosceva i luoghi dove si fermava a pranzare, i piatti che preferiva, sapeva chi era l'uomo che frequentava, quello che invece la corteggiava senza alcun risultato. La fissava spesso, mentre avanzava sicura tra la gente, con i suoi impeccabili abiti formali, con la sua andatura veloce, i bellissimi capelli color rame, la cui bellezza risuonava nella sua mente come il fruscio di una betulla smossa da un lieve venticello estivo. Il famigerato Jeff the Killer decise che era degna di saggiare la tagliente sentenza del suo pugnale, vibrante nelle sue mani, pronto a fendere quelle giovani carni.

“ Vediamo se farai ancora la superdonna, cagna maledetta!” pensò nell'impeto dei suoi propositi, mentre la attendeva, nascosto in uno sgabuzzino dell'appartamento dove lei risiedeva. Tutto era silenzioso e immobile, eccezion fatta per una frase che riecheggiò nella sua mente malata, che opportunista si affacciò ai ricordi di Jeff, sfruttando il profondo silenzio che faceva da sfondo :

 

Un giorno ti fermerai, figliolo. Una legge mai promulgata irromperà nel tuo cuore, più forte della tua follia. Sarà tagliente, più del tuo pugnale, farà scempio di tutto ciò che ti ha condannato a questa miseria, e sarai di nuovo un uomo libero.”.

 

Queste parole, che Jeff aveva tentato di dimenticare, risuonavano ancora nei suoi timpani, come se fossero state pronunciata in quel preciso istante. Erano le ultime frasi che erano uscite dalla bocca di quel Bob, prima che il suo cervello spappolato andasse a decorare le pareti della sua casa in periferia. Stupido, vecchio e imbranato Bob. La sua morte fu una salvezza per Jeff. Quell'uomo lo avrebbe compromesso, sviandolo dai suoi obiettivi.

Jeff the Killer doveva invece continuare ad amministrare la sua giustizia, quella che nessun tribunale o codice etico gli avrebbe mai riconosciuto.

Chiuse malamente gli occhi con ciò che restò delle sue palpebre, mentre udì il rumore di una porta. La sua prossima vittima era rientrata.

Dopo un po' si udì il pungente scroscio d'acqua. La sua vittima si stava lavando. Nonostante il vantaggio che avrebbe ricavato nel sorprenderla nella doccia, nuda e inerme, Jeff pensò che non era giunto il momento di intervenire: doveva ucciderla nel suo letto, mentre lei, in uno stato di paura e dormiveglia, sarebbe stata impossibilitata a gridare.

Attese invano il fastidioso rumore di un asciugacapelli che avrebbe dovuto rimbombare per tutto l'appartamento e raggiungerlo nel suo nascondiglio; udì invece due squilli di telefono e la voce della giovane avvocatessa: non l'aveva mai sentita parlare, soprattutto con un tono di voce così alto come quello che lei assunse in quel momento: era palese che stesse discutendo al telefono con qualcuno, il che lo spinse a tendere l'orecchio, incuriosito:

 

« Ti avevo detto che non devi chiamarmi...! No, non ne voglio sapere delle tue fottute scuse.... Ne ho abbastanza di te!...No. Ti ho detto di no...»

Jeff sogghignò, pensando che di lì a poco lei si sarebbe pentita di non aver accettato l'invito del tizio al telefono. Dopo qualche minuto la sentì urlare: « E' sempre la stessa storia, sei carino e dolce finché credi che io possa diventare tua proprietà, poi appena scopri che il giocattolo è dotato di una volontà propria, vai su tutte le furie. Sai che ti dico? Vaffanculo! Ti ho dato più di una possibilità, pensando che avessi bisogno di tempo o della mia comprensione. Ora ho capito che è meglio che ognuno vada per la sua strada. Addio!»

Lei riagganciò. Jeff ridacchiò, pensando allo sconcerto del suo uomo e dei familiari di lei...ammesso che ne avesse. Nonostante ci fossero foto incorniciate e sparse sui muri o sulle mensole dell'appartamento, a Jeff non risultò che la donna vivesse con altri, e ciò fece di lei una futura vittima piuttosto facile.

Venne la notte, le luci dell'appartamento si spensero. Era ora.

Jeff the killer si mosse lentamente dal suo nascondiglio, attento a non fare rumore: non voleva rovinare la sorpresa alla “sua” Susan.

Lento attraversò il lungo corridoio dell'abitazione, finché giunse alla stanza dove sarebbe avvenuto il massacro.

Accanto alla finestra che dava sul dormiente quartiere della Oldfield bene, in piedi si stagliava una figura slanciata: Jeff ne riconobbe la capigliatura di Susan Mathers, e si arrestò.

Ebbe il terrore di essere stato scoperto, pensò che lei si sarebbe girata di scatto, ma non avvenne nulla, la figura continuò a restare lì, impassibile.

Jeff non attese oltre, si scagliò rabbiosamente contro di lei, gettandola a terra e infliggendole numerosi fendenti. Dopo un po' si rese conto che il corpo che stava sviscerando era piuttosto strano: non vi erano schizzi di sangue, non vi era lacerazione di carne, non c'erano grida. Vide inoltre che la sua vittima era divenuta improvvisamente calva, sembrava che l'aggressione le avesse fatto perdere i capelli. Ancora a cavalcioni su quel corpo innaturale, alzò lievemente il suo sguardo, e distinse nella penombra la bella capigliatura rossa giacere a pochi centimetri da lui.

Incredulo, guardò di nuovo il corpo, da cui distolse immediatamente gli occhi non appena udì qualcuno sospirare nel letto della donna. Si alzò da terra, e fu lì che comprese di essersi scagliato contro un manichino, di cui si poteva distinguere l'imbottitura fuoriuscire dopo l' “assalto” di Jeff.

Dimentico dell' inusuale vittima, si avvicinò a quel letto, e si accorse che c'era qualcuno. Accese il lume poggiato sul comodino accanto al letto per vederci chiaro. Si ritrasse inorridito: quella cosa che dormiva placida nel giaciglio della bellissima avvocatessa Susan Mathers la ricordava maledettamente, ma non era lei, non poteva essere lei. La creatura, dai tratti così simili a quelli della donna, aveva occhi infossati dalle occhiaie quasi verdastre, in contrasto con la pelle pallida ed escoriata. La testa tonda e nuda fu la cosa che colpì maggiormente Jeff, oltre a un nauseabondo odore che non sapeva riconoscere, che gli diede la sensazione di essere in un ospedale. Si rialzò da quella visione, lasciò la stanza fingendo di non aver notato scatoli di medicinali, strane bottigliette e soluzioni di vario tipo poggiate su una scrivania.

In quel momento tutto gli divenne chiaro. Aveva adocchiato la vittima di un altro killer.

 

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Capitolo 16
*** I tre bastardi ***


I tre bastardi


Arianne Rogers si avvicinò alla scrivania di Mckenzie recante due bicchieri di caffé. A differenza di altri suoi colleghi, la giovane agente non temeva mai di avvicinarsi a Damien, nemmeno quando, torvo in viso, esaminava archivi e files nella speranza di trovare una pista decente al caso a cui stava accoratamente lavorando. Lo vide incollato al computer, mentre cercava notizie inerenti agli omicidi seriali avvenuti negli ultimi anni.

«Smith ha chiesto di vederla.» annunuciò la poliziotta.

Trovarono il dottor Nathan Smith completamente assorto nel guardare la pianta della città affissa al muro, su cui aveva messo dei post-it che segnavano i punti esatti nei quali erano avvenuti i delitti.

« Il nostro uomo non fa distinzione sulla tipologia di vittime.» Esordì il giovane psichiatra « Sembra che esse siano selezionate a casaccio. Ciò che è interessante è la modalità con cui uccide: non ci sono segni di effrazione presso le abitazioni dei malcapitati, pare che trovi il modo di entrare senza essere visto e agisce indisturbato nella notte.»

« E' possibile che segua le vittime per giorni, ne studi i movimenti per poter agire nel momento migliore» si inserì Arianne.

« Esatto. L'altra cosa interessante è l'arma del delitto, la scientifica parla di un oggetto tagliente che non è stato mai rinvenuto sulle scene del crimine, è probabile che si tratti di un suo cimelio. C' è solo una cosa che non mi convince...»

« Cosa?»

«L' omicidio Dewey. In quel caso c'è stato un colpo d'arma da fuoco.»

Intervenne McKenzie: « E' probabile che l'omicida non volesse ucciderlo, o che abbia avuto difficoltà ad usare la sua arma, così ha improvvisato.»

« Non credo, sceriffo. Rispetto alla prima ipotesi, sappiamo che la vittima è stata seguita dal suo aggressore fino a casa, segno che vi era premeditazione; per quanto riguarda la seconda ipotesi, invece, dobbiamo immaginare che recuperare un fucile da una cristalliera richiede molto più tempo che abbattere l'avversario a colpi di fendente, cogliendolo magari alle spalle. Inoltre, la modalità di “esecuzione” del nostro soggetto è sempre la stessa, nella sua psicopatia è molto organizzato, difficilmente romperebbe il suo “schema”.»

« Mi sta forse dicendo che a uccidere Robert Dewey sia stata un'altra persona?»

« Sì, è possibile.»

« Ma le impronte delle scarpe sono le stesse che abbiamo rinvenuto nell'appartamento della famiglia di Wernick!» rispose stizzito lo sceriffo Mckenzie.

« Le mie sono comunque ipotesi, l'unica cosa certa sarà un'indagine più approfondita da fare nell'abitazione di Dewey.»

Quel breve briefing terminò, Damien fu lasciato solo a rimurginare sulle parole di Nathan Smith. Quello stupido strizzacervelli non aveva capito un cazzo di niente: l'assassino di Bob era lo stesso che stava tormentando Oldfield da settimane, non poteva essere altrimenti, e Damien lo avrebbe dimostrato, scoperto, acciuffato e, se fosse stato necessario, avrebbe egli stesso fatto giustizia per il suo migliore amico. Le sue rabbiose elucubrazioni furono interrotte da una segnalazione urgente: il ritrovamento di un cadavere alla stazione di Oldfield. L'assassino aveva colpito di nuovo. Il particolare che gli fu comunicato gli lasciò un barlume di speranza, forse la risoluzione del caso non era poi così distante. Stavolta, la vittima in questione, John Mattews, 39 anni, era stata ritrovata con un pugnale conficcato nel petto: quel bastardo aveva finalmente commesso un passo falso.




Quella sera circolò la voce di un nuovo omicidio in città: di nuovo non si sapeva chi fosse l'assassino, e di nuovo il Sandie's Bar era gremito di gente che, invece di irretirsi di fronte ai pericoli, sembrò incoraggiata a rincorrerli disperatamente tra una sbronza e una scopata.

Non li caveresti via da qui neanche se sapessero che c'è una bomba” pensò Andrea sorniona, mentre uno sfigato cinquantenne dall'alito di fogna le sussurrò all'orecchio: «Quanto?».

Avrebbe voluta metterla sul serio una bomba, precisamente sotto il bancone del bar, per vedere quel bastardo di Frank esplodere in mille pezzi o semplicemente mutilarsi le gambe.

Il motivo di tutto questo era Laura: negli ultimi giorni si era incupita parecchio, parlando quasi a monosillabi. Non fece in tempo a domandarle cosa fosse accaduto, che Laura scoppiò in lacrime. Le raccontò di aver visto Frank con un'altra. Qualche giorno a seguire, il barman aveva portato la sua nuova fiamma al bar: ne ottenne che la ragazza in questione, inorridita dalla gentaglia che frequentava quel posto, non volle mai più mettere piede lì dentro; continuò ad uscire con lui, proponendogli di sbarazzarsi quanto prima del bar e di acquisirne uno in centro, nei quartieri alti. In questo modo, ad ubriacarsi, a fare risse e andare a puttane sarebbe stata gente per bene. Andrea seppe di questi particolari grazie a Sandy, la quale, orgogliosa dell'ormai imminente fidanzamento del figlio con una così brava ragazza, aveva spiattellato tutto proprio in presenza di Laura, guardandola con sadica soddisfazione.

Andrea rimproverò mentalmente anche la sua amica, che si era lasciata soggiogare da quattro stronzate che Frank le aveva detto, forse per rimediare qualche scopata gratis: le aveva detto di amarla, le promise che l'avrebbe portata via da Paul, e lei stupidamente gli credette.

Altrettanto stupida fu la sua amica Mary, il cui corpo divenne cibo per i ratti della discarica, solo per inseguire le sue fantasie.

Le brillarono gli occhi nel ripensare a Mary e allo sguardo spento di Laura, a cui rivolse un'ultima occhiata prima di appartarsi con il suo cinquantenne sfigato dall'alito di fogna.





L'unico appartamento le cui luci erano ancora accese alle due di notte si trovava al terzo piano di un antico palazzo.

C'era un placido viavai di gente che, dal vecchio portone, passava accanto a una corona di fiori e un manifesto funebre: Susan Mathers, di anni 34.

Jeff stette a lungo a fissare nel vuoto di quelle lettere stampate a caratteri cubitali, celato da sciarpa e cappuccio, suoi fedeli compagni di viaggio.

Un brusio che contornava quell'assordante silenzio raccontò la dipartita della giovane avvocatessa: quella mattina non si presentò in tribunale. Ciò aveva suscitato le preoccupazioni dei suoi colleghi, i quali andarono a casa della giovane che sapevano non godesse di buona salute. Dopo varie insistenze fecero aprire la porta dell'appartamento di Susan dal portinaio, che aveva una copia delle chiavi. Trovarono Susan che dormiva beatamente, di quel sonno da cui ti svegliano solo gli angeli. Era fredda, il suo volto era disteso, le sue labbra sembravano accennare a un lieve sorriso, come quello di chi dice addio senza rimpianto alcuno.

Dire che fosse morta sola era sbagliato: Jeff la vegliò in ogni singolo momento, affacciato alla finestra di un appartamento vuoto, che si trovava proprio nel palazzo di fronte. La vide rantolare nel sonno e fermarsi. Per sempre. Tornò a dormire da sola, vegliata da Jeff Alan Woods e dall'unico killer in grado di uccidere le sue vittime dall'interno, silenzioso ed efferato, inafferrabile come la sabbia. Lo chiamano “il male del secolo”, “il bastardo”, “l'alieno”, o semplicemente “cancro”, tanti i nomi ma nessuno è mai stato in grado di sconfiggerlo o condannarlo a morte.

Con questi pensieri, preda di un cordoglio quanto mai alieno al suo modo di essere, prese il primo bus per la periferia di Oldfield.

Il pulman era quasi derserto, ma né la vecchietta che si sedette accanto a lui, né tantomeno il pingue e ignaro autista furono per il killer una beata fonte d'ispirazione per i suoi impulsi omicidi. Jeff ignorò tutto ciò che non era il volto di Susan, impresso come marchio a fuoco nella memoria.

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